foto antonio  1.jpgDenuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste testuali tematiche e territoriali. Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul 1° canale, sul 2° canale, sul 3° canale Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono indicate.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.

Dr Antonio Giangrande  

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INCHIESTE IN TESTO: TEMA - TERRITORIO

 

 

http://www.megghy.com/immagini/animated/bobine/bandes-10.gif INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - ANTONIO GIANGRANDE - TELEWEBITALIA

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FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA   

 

MEDIOPOLI

L'ITALIA DELLA CENSURA, DELL'OMERTA' E DELLA DISINFORMAZIONE

ART. 21 DELLA COSTITUZIONE

LIBERTA' DI MANIFESTARE IL PROPRIO PENSIERO ???

"L’Italia della libera informazione, di parte e gossippara, che pende dalle veline giudiziarie e la notizia la fa, non la dà. L’editoria è la casta più importante. Gli editori sono i veri censori e i manipolatori della coscienza civile. Il sistema prima riconosce la libertà di manifestare il proprio pensiero e poi ne impedisce  l’esercizio”

di Antonio Giangrande

(Inchiesta basata su atti pubblici e/o di pubblico dominio. Le fonti sono lincate).

MEDIA ED INFORMAZIONE: UNA VERGOGNA

GIORNALISMO IN ITALIA. OMERTA’, CENSURA E DISINFORMAZIONE

 

LA VERGOGNA DI ESSERE GIORNALISTI

 

RADIO PADANIA: RADIO VERGOGNA

 

 DISINFORMAZIONE, GOGNA MEDIATICA E DIFFAMAZIONE

 

FEDERICO ALDROVANDI: SUBISCI E TACI

 

INFORMAZIONE E DISINFORMAZIONE. GIORNALISTI PAGATI DA POLITICA ED ECONOMIA

 

INFORMAZIONE SOTTO RICATTO

 

SFRUTTAMENTO E MISTIFICAZIONE

VIDEO SULLA RAI

 

SOMMARIO

INTRODUZIONE

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

MEDIA E MASS MEDIA: I GIORNALI SIAMO NOI!

FORCAIOLI CONTRO GARANTISTI.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’. 

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO.

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. STOP A RICORSI PROLISSI ED A TESTIMONI INUTILI.

DE MAGISTRIS ED I PASDARAN DELLA NOTIZIA SPICCIA. L’EVOLUZIONE DELL’INFORMAZIONE.

GIORNALISTI: ZERBINI DEI MAGISTRATI.

ANTIMAFIA RAZZISTA E CENSORIA. PERCHE’ CE L’HANNO CONTRO I MERIDIONALI?

MAGISTRATI: FACCIAMO QUEL CHE VOGLIAMO!

LA BANDA DEGLI ONESTI.

BERLUSCONI ASSOLTO: I MANETTARI ROSICANO....

GUERRA DI TOGHE. ANCHE I MAGISTRATI PIANGONO.

LUIGI ABBATE....MA L'EDITORE LO SA?

IL SUD TARTASSATO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

L’UNITA’ E GLI ALTRI: FALLITI DI SERIE A E FALLITI DI SERIE B!

L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.

COME TI COSTRUISCO UNA BUFALA SUL WEB.

UNA FARSA CHIAMATA GIORNALISMO. DALLE SOUBRETTE DELL’INFORMAZIONE AI CORSI BURLETTA.

DIRITTO D’AUTORE E FINANZIAMENTO PUBBLICO. IL COPYRIGHT DEI CITTADINI.

CHE QUALCUNO LA RACCONTI GIUSTA! LA STORIA NON SIAMO NOI……

LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE. L’ALTRA FORMA DI CENSURA: IL POLITICAMENTE CORRETTO.

LE DONNE IMMIGRATE PER I GIORNALISTI? MEGLIO SCHIAVE CHE PUTTANE.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

I GIORNALISTI? SONO PIU’ DISONESTI DEI POLITICI.

ITALIA. PROCESSO ALLA STAMPA. COME IL FATTO DIVENTA NOTIZIA.

SI CENSURA, MA NON SI DICE.

BERLINGUERISMO. I MITI DELLA SINISTRA.

SIAMO TUTTI PUTTANE.

LA PALUDE DEGLI SCRITTORI. LE VESTI STRACCIATE E LA LAVATA IN PUBBLICO DEI PANNI SPORCHI DEGLI (A LORO DIRE) INTELLETTUALI.

EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.

GIORNALISMO: LO SCANDALO DELLA MANCANZA DI LIBERTA' E LA VERGOGNA DEGLI AFFARI SUI DOVERI DEL GIORNALISTA.

IL BERLUSCONI INVISO DA TUTTI.

LA DEMOCRAZIA SOTTO TUTELA: ELEZIONI CON ARRESTO.

BARONATO. EXPO LA NUOVA TANGENTOPOLI. E LA GUERRA TRA TOGHE.

GOGNA MEDIATICA E PROCESSI IN TV. QUANDO LA DEONTOLOGIA E LA LEGALITA’ VANNO A FARSI FOTTERE.

BUONI E CATTIVI CON L’ABILITAZIONE COL TRUCCO.

LA VERITA’ MANIPOLATA.

LA CASTA SI RIBELLA. DIFFAMAZIONE, NIENTE CARCERE, MA NON PER TUTTI.

LE SPUTASENTENZE. LA GOGNA MEDIATICA, GLI AVVOLTOI DELL'INFORMAZIONE E LA POTENTE LOBBY GAY.

PER I GIORNALISTI INTERNET E' NOCIVO.

LA MACCHINA DEL BACIO E LA MACCHINA DEL FANGO.

GIORNALISTI. COSA NON SI FA PER SPUTTANARE? PAGARE…..LE FONTI.

CREDIBILITA' E CENSURA.

MAGISTRATI E GIORNALISTI. A CIASCUNO IL SUO MESTIERE.

SCHADENFREUDE: PERCHE’ SI GIOISCE DELLE DISGRAZIE ALTRUI?

I MORALISTI DEGLI AFFARI ALTRUI.

I FRIGNONI ED I VOLTAGABBANA.

I VOLTAGABBANA E GLI APPESTATI. BERLUSCONI E CRAXI.

IL NUOVO CHE AVANZA.

PENNIVENDOLI E DISINFORMAZIONE: DA SOCRATE A GRILLO, PASSANDO DA VANNONI DI STAMINA A DI BELLA.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO. MILENA GABANELLI.

GIULIA INNOCENZI E L’ESAME TRUCCATO DI GIORNALISMO.

LA RAI, L’INFORMAZIONE E LA DESTRA ITALIANA.

LE CONFESSIONI DI PAOLO MIELI.

STAMPA E MAGISTRATURA: PAPPA E CICCIA.

ECCO COME MI VOGLIONO FAR FUORI.

INFORMAZIONE E CAZZEGGIOPOLI: GIORNALISTI OPINIONISTI.

PARLI MALE DEI MAGISTRATI? GIORNALISTI CONDANNATI.

C’E’ CHI FA IL VERO GIORNALISTA, MA NON LO E’, C’E’ INVECE CHI GIORNALISTA LO E’, MA NON LO MERITA.

LA LIBERTA' DI STAMPA E' PRECARIA.

LA LIBERTA' DI STAMPA E' SVENDUTA.

I CLAN DEL GIORNALISMO.

PARLIAMO DEGLI IDOLATRI DELL’INFORMAZIONE. L’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE. PARLIAMO DI ROBERTO SAVIANO. PARLIAMO DI MARCO TRAVAGLIO. PARLIAMO DI MICHELE SANTORO.

ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO.

DENUNCIA CONTRO UN MAGISTRATO.

SPECIALE PAOLO PAGLIARO E TELERAMA.

SPECIALE CANALE 8 TV.

SPECIALE ANTENNA SUD.

A PROPOSITO DI GIORNALISTI.

IL COSTO DELL’ONESTA’ E DEL MORALISMO DELLA RAI E DEI SUOI GIORNALISTI.

FLOP TELEVISIVI: MILIONI DI EURO PER PROGRAMMI ANDATI IN ONDA UNA SOLA VOLTA.

RADIO RAI1: FACCIO FUORI LA GIORNALISTA PER METTERE LA FIDANZATA. E GLI ASCOLTI? PESSIMI.

LA STORIA DI SPRECHI DELLE EDIZIONI DEI FESTIVAL: TUTTI I CACHET DI CONDUTTORI E OSPITI.

GIORNALISTI SOTTO INCHIESTA PENALE.

SUBISCI E TACI.

GUAI A FARE SCOOP SULLE NEFANDEZZE DEI GIUDICI.

SE SI DENUNCIANO ERRORI DEI MAGISTRATI: SCATTA LA REAZIONE.

RADIO PADANIA, RADIO VERGOGNA.

NAVIGATE PER INFORMARVI E NAVIGATE INFORMATI.

A PROPOSITO DI WIKIPEDIA, L'ENCICLOPEDIA CENSORIA.

GIOCA CON I FANTI, MA LASCIA STARE I SANTI. (I MAGISTRATI)

A CHI CREDERE E DA CHI DIFENDERSI? LIBERTA’ DI CRONACA E LIBERTA’ DI CRITICA.

MAFIA, MALA POLITICA, MALA GIUSTIZIA: ECCO COME TI IMBAVAGLIO!!

QUERELOPOLI. TI SPIEGO COME TI TACCIO.

DIFFAMAZIONI MEDIATICHE STRUMENTALI.

PARLIAMO DEI TG SATIRICI E DEI PROGRAMMI D'INCHIESTA. FORTI CON I DEBOLI E DEBOLI CON I FORTI?

ALDROVANDI, STAMPA ALLA SBARRA.

GIORNALISTA PREZZOLATO (MALE), CITTADINO DISINFORMATO.

PARLIAMO DI LIBERTA' RICONOSCIUTA SOLO AI GIORNALISTI.

"ALL'ALBO, SIAM FASCISTI!"

PARLIAMO DI CENSURA: VERA O PRESUNTA.

PARLIAMO DI “MOSTRI IN PRIMA PAGINA” E “BUFALE” GIORNALISTICHE.

OMICIDI DI STATO E DI STAMPA.

INFORMAZIONE INATTENDIBILE. ORDINE DEI GIORNALISTI LOMBARDI: PROFESSIONE MALANDATA, DEGRADATA, IN MALAFEDE.

LA TV PUBBLICA IN MANO AI PARTITI: QUALE LIBERTA' DI INFORMAZIONE ??? RAI, L'ORGIA DEL POTERE.

90 MILIONI DI EURO DALLA POLITICA PER LA TV PRIVATA: QUALE LIBERTA' DI INFORMAZIONE ???

FREQUENZE TELEVISIVE NAZIONALI NEGATE: QUALE LIBERTA' DI INFORMAZIONE ???

1 MILIARDO DI EURO DALLA POLITICA PER I GIORNALI: QUALE LIBERTA' DI INFORMAZIONE ???

GIORNALISTA PRECARIO, CITTADINO ACCECATO.

GIORNALISTI DI SERIE A E GIORNALISTI DI SERIE B.

QUANDO STRISCIA LA NOTIZIA TOPPA.

QUANDO QUINTA COLONNA TOPPA.

QUANDO VIDEO NEWS TOPPA.

QUANDO LE IENE TOPPANO.

LA VERITA’, OLTRAGGIATA, MINACCIATA E SOTTO SCORTA.

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Perché leggere Antonio Giangrande?

Perché i media prezzolati da economia e politica non parlano mai della Mafia Bianca, ossia da quel fenomeno di assoggettamento ed omertà perpetrato da quelle istituzioni che gestiscono il potere? "Sistema di potere" fondato sul consenso sociale che la "legittima" agli occhi della popolazione e dal controllo sociale che ne consegue. Il mercato elettorale allarga le reti di complicità e il governo, per cecità e interessi contingenti, pensa di sfruttare questa complessa e negativa realtà a proprio vantaggio. I mafiosi fondano il loro potere soprattutto sul consenso sociale delle popolazioni, sul sostegno (estorto o volontario) di operatori economici (ad esempio si consideri il mondo dell'imprenditoria), e sul substrato culturale, ancora familistico e feudale, generalmente piuttosto arretrato dal punto di vista socio-culturale. Un esempio dell'utilizzo del termine "mafioso" potrebbe essere utilizzato, ad esempio, per identificare un sindaco che concede appalti solo a personaggi a lui vicini, oppure rivolto ai membri di una commissione di esame di abilitazione o di un concorso pubblico o di un appalto pubblico, dove vincono i loro protetti. Mafiosi possono essere quei professionisti statali che elargiscono consulenze a nero. L’epiteto “mafioso” può essere rivolto ad un professore universitario che interceda per far vincere borse di studio a persone a lui legate (ancorché non valide e meritevoli), o la nomina da parte di un governo di dirigenti di alto livello, anche eventualmente capaci, ma "politicamente vicini" alla maggioranza di cui il governo stesso è espressione.

Esempi ci sono su Wikipedia. Bisturi - La mafia bianca è un film del 1973 diretto da Luigi Zampa, interpretato da Enrico Maria Salerno e Gabriele Ferzetti. Fu presentato in concorso al 26º Festival di Cannes. Il professor Daniele Vallotti, famoso e valente chirurgo, è il tipico "barone" universitario con smanie di potere, venale come pochi e quindi facilmente avvicinabile da qualsiasi azienda farmaceutica che intenda mettere sul mercato specialità medicinali di dubbia efficacia. È anche proprietario di una clinica privata dove seleziona i pazienti in base alle loro disponibilità economiche e, per meglio celare la sua avidità, si procaccia la fama di benefattore dedicando un giorno della settimana alle visite ed agli interventi gratuiti in un pubblico nosocomio, i cui pazienti sono tutte persone indigenti che poi lo osannano davanti ai microfoni dei media per le sue presunte doti umane. La sua équipe medica è soltanto una pletora di "yes men" incapaci, presuntuosi e servili. Il dottor Giordani, uomo alquanto trasandato e con il vizio degli alcolici ma fondamentalmente onesto, coscienzioso preparato, è l'unico in grado di esprimere il suo dissenso. Tuttavia la sua rettitudine non gli consente di avere vita facile in clinica: il suo carattere tutt'altro che remissivo e la sua franchezza nel dire chiaramente quel che pensa gli hanno alienato le simpatie dei suoi pari grado. Tuttavia, egli sa ben difendersi e non risparmia ad alcuno il suo sarcasmo che, a volte, risulta essere anche pungente. Inoltre la sua competenza e la sua concretezza gli sono valse la stima di Vallotti, che lo conosce bene essendo stato suo compagno di studi all’università. Malgrado la sua "onnipotenza", Vallotti non ha una vita privata felice: rimasto da tempo vedovo, vive nella sua lussuosa villa insieme all'anziana madre e al suo unico figlio, che lo adora e che vorrebbe che egli trascorresse un po' più di tempo con lui anziché dedicarsi totalmente al suo lavoro. Nemmeno i vecchi rapporti di amicizia e di studio trattengono Giordani dal farlo sentire nauseato dagli abusi e dalle illegalità che si susseguono ogni giorno nella clinica. Un giorno accade che Vallotti, impegnato nel far insabbiare un improvviso accertamento fiscale a suo carico, si allontana dalla sala operatoria tralasciando un difficilissimo e delicato intervento proprio nel momento cruciale, causando la morte del paziente e, indirettamente, anche quella della moglie che, disperata e distrutta dal dolore, si toglie la vita gettandosi da una finestra. Giordani si rintana in casa sentendosi moralmente corresponsabile dell’accaduto: proprio lui, infatti, aveva consigliato ai due di affidarsi alle cure di Vallotti perché, a suo giudizio, era l’unico a poter garantire concrete possibilità di guarigione; i due, impiegati dalle modeste risorse economiche, avevano messo su a suon di debiti la somma richiesta da Vallotti come onorario. Una giovane suora, che lavora in clinica in qualità di infermiera - e che nutre anche una particolare simpatia nei suoi confronti, da lui prontamente ricambiata - si presenta a casa di Giordani, cercando di scrollargli da dosso i vari scrupoli di coscienza che lo tormentano, lo convince a riprendere il lavoro e, non ultimo, a smettere di bere. Giordani ascolta le parole della suora e ritorna in corsia. A Vallotti cominciano a pervenire lettere e telefonate anonime nelle quali l'ignoto mittente lo mette di fronte alle sue "malefatte". Egli non riesce a comprendere di chi si possa trattare, e brancola letteralmente nel buio fra i suoi collaboratori sospettando che l'autore sia uno di essi. Nel frattempo, nell'ospedale pubblico dove Vallotti lavora occasionalmente, è ricoverato d'urgenza un bambino: ha un blocco renale, e necessiterebbe dell'ausilio di un rene artificiale per essere prontamente soccorso, ma muore perché l'apparecchiatura è stata da poco disattivata da Vallotti per favorire un suo collega che ne possiede uno uguale nella propria clinica privata. Non passa che qualche giorno, e Vallotti viene a conoscenza di essere stato denunciato alla magistratura, ma questa volta l'autore vi ha apposto la propria firma: si tratta di Giordani che, esasperato, ha deciso di uscire allo scoperto, dopo che era stato proprio lui l'autore delle telefonate e delle lettere, unicamente allo scopo di richiamare il suo illustre superiore ad una linea di condotta più consona al suo prestigio. Messo alle strette, Vallotti non esita a ricorrere ad un mezzo estremo per evitare guai: stringe un infame accordo con gli altri colleghi - anch'essi citati da Giordani nella denuncia - e ordisce un vero e proprio complotto contro di lui. Giordani viene chiamato d’urgenza in sala operatoria con il pretesto di essere l’unico al momento reperibile, e si trova di fronte a un intervento molto rischioso e complicato, con il paziente che versa già in condizioni critiche, ed è qui che scatta la trappola: proprio nella fase più difficile, uno dei presenti scambia furtivamente le lastre radiografiche di riferimento, e Giordani viene così messo in condizione di sbagliare l’operazione il cui esito, naturalmente, si traduce nella morte del paziente. Giordani a questo punto non ha scelta: essere denunciato per omicidio colposo le cui testimonianze contro di lui sono inoppugnabili, il che significherebbe l'ingloriosa fine della sua professione, oppure nascondere la testa nella sabbia come gli altri suoi colleghi e mettersi sotto la "protezione" dello stesso Vallotti. Egli deve quindi forzatamente cedere al ricatto: ritirerà la denuncia, ma allo stesso tempo ammonisce il suo superiore e vecchio compagno di studi che non avrà nemmeno il tempo di cantar vittoria. Non gli sono sfuggiti infatti i prodromi di una implacabile malattia che non lascerà scampo a Vallotti: la malattia di Parkinson. Per la prima volta in vita sua, il cinico Vallotti tocca con mano il dolore e lo sconforto: egli è del tutto impotente davanti alla sua patologia che finora aveva letteralmente ignorato, e dovrà necessariamente ritirarsi dalla sua attività. In altre parole, ciò sancisce la fine del suo indiscusso potere, che aveva fatto di lui un uomo invincibile al punto di disporre della sorte dei suoi pazienti e dei suoi sottoposti, e che aveva anche ribadito allo stesso Giordani al momento di ricattarlo. Ironia della sorte, egli è passato, come gli ricorda Giordani, “su quell’altra sponda, quella dei malati e delle vittime”, e dovrà a sua volta affidarsi alle cure di qualche altro illustre collega, magari senza alcuno scrupolo come lui (“...ora tocca a te scegliere a quale scettro inchinarti: ma di chi ti potrai fidare?”).

Eppure i media ci raccontano tutt'altra realtà.

"La globalizzazione delle cattive idee. Mafia, musica, mass media" è il libro di Francesca Viscone. I meridionali sono tutti mafiosi? Che cosa significa essere "uomo d'onore"? E che cos'è "l'onore"? Si può parlare di "valori" mafiosi? I mafiosi credono in Dio? Che cos'è la musica della mafia? Perché alcuni tra i più prestigiosi giornali del mondo hanno dipinto i mafiosi come se fossero eroi ribelli e i calabresi come fossero tutti conniventi? Come mai i giornalisti stranieri sono riusciti ad intervistare i boss della 'ndrangheta? L'autrice cerca di rispondere a queste domande, senza mai dimenticare che non è possibile difendere o mettere in discussione il sistema nel quale si è nati e cresciuti senza conoscer neanche gli aspetti più inquietanti. Dopo lunghi decenni di silenzio, la mafia è diventata un tema di forte richiamo spettacolare. Ci si domanda spesso se tutto ciò sia un bene o un male. Siamo di fronte a un fenomeno bivalente in cui l'informazione si intreccia con la mitizzazione, il racconto delle vicende con l'enfatizzazione delle leggende. Questo libro intende servire da criterio orientativo per evitare, da un lato, di aderire senza filtri alla rappresentazione cinematografica e televisiva della mafia e, dall'altro, di rigettarla in blocco. Il testo, attento al linguaggio dei mafiosi quanto al linguaggio sui mafiosi, si muove non solo fra le pieghe di film e sceneggiati Tv, ma anche in canzoni, titoli di giornale, dichiarazioni di uomini politici, spot pubblicitari. Un'analisi originale e necessaria nel complesso universo dei media in cui romanzi e serie Tv si ispirano alle vite dei mafiosi i quali, a loro volta, si ispirano alle narrazioni incentrate sulle loro storie. Il mondo delle immagini e la cronaca finiscono così per condizionarsi a vicenda, in un circolo di causa­effetto che va conosciuto, studiato e analizzato.

I meridionali sono tutti mafiosi? Che cosa significa essere "uomo d'onore"? E che cos'è "l'onore"? Si può parlare di "valori" mafiosi? I mafiosi credono in Dio? Che cos'è la musica della mafia? Perché alcuni tra i più prestigiosi giornali del mondo hanno dipinto i mafiosi come se fossero eroi ribelli e i calabresi come fossero tutti conniventi? Come mai i giornalisti stranieri sono riusciti ad intervistare i boss della 'ndrangheta? L'autrice cerca di rispondere a queste domande, scrive Filippo Di Blasi su “Archivio Stampa”, senza mai dimenticare che non è possibile difendere o mettere in discussione il sistema nel quale si è nati e cresciuti senza conoscerne anche gli aspetti più inquietanti. Una riflessione coraggiosa, che nasce da un fatto apparentemente banale. L'uscita in Germania di due cd di canti di malavita diventa occasione per la stampa internazionale di raccontare cosa siano la mafia e i meridionali, la Calabria e i calabresi, cosa sia il Sud, attraverso «un'epopea del senso comune che nutre e rinforza i diffusi pregiudizi a carattere razzista nei confronti dei meridionali», come afferma Renate Siebert. Complici e vittime, nello stesso tempo, si rivelano a loro volta gli stessi nativi. Questo libro, scrive Vito Teti, è «un viaggio nel cuore della notte, nelle ombre delle nostre appartenenze, nel corso del quale si scorgono improvvisamente i lumicini che permettono di rimettersi in cammino, di ritrovare una strada, come nelle fiabe». Nel maggio 2006 esce in Germania un cd dal titolo “ Il Canto di malavita”, sottotitolato “La musica della mafia”, contenente canzoni raccolte dalle bancarelle dei mercatini e delle feste di paese della Calabria. Il cofanetto è arricchito da un libretto con i testi in dialetto calabrese e relativa traduzione in tedesco e inglese e da foto di tatuaggi e carcerati scattate dal giornalista di origine calabra Francesco Sbano. È una miscela esplosiva a base di musiche dai toni orgiastici, tarantelle frenetiche, liriche malinconiche o disperate. Si registra un successo che non conosce pause: dopo la Germania, il cd esce in Svizzera, Austria, Olanda, Svezia, Francia, Belgio, Lussemburgo, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti. Il fenomeno suscita l’attenzione di numerose testate giornalistiche e di alcune trasmissioni televisive straniere, suscitando nell’autrice interrogativi cui cerca di rispondere: in che modo sono stati presentati i cd? Che cosa è stato detto o scritto sulla ‘ndrangheta? Quale immagine è emersa dei calabresi e della Calabria? Da questo spunto nasce un’approfondita indagine sull’importante ruolo svolto dai mass media nella diffusione del pregiudizio: la costruzione di realtà fittizie, la diffusione di notizie errate o parziali, la distruzione sistematica che viene attuata nei confronti della regione italiana. Questa diventa il luogo degli estremi: un inferno temibile, nel quale è difficile districarsi, ma anche la terra dell’abbondanza, del paradiso. Insomma, un luogo surreale, immaginario e lontano dalla storia.

Le “cattive idee” si fanno musica, scrive Claudia Mancuso (LucidaMente, anno I, n. 4, maggio 2006). Dopo gli ultimi decenni, in cui tanto si è lottato contro la criminalità organizzata, ottenendo anche piccole, ma significative, vittorie, è ancora possibile accettare che la diffusione di ignobili prodotti commerciali abbia l’effetto di rafforzare - soprattutto all’estero - lo stereotipo secondo il quale tutti i calabresi sono mafiosi o loro complici? Francesca Viscone - esperta ricercatrice socioantropologica - spiega nel saggio La globalizzazione delle cattive idee. Mafia, musica, mass media (presentazione di Vito Teti, postfazione di Renate Siebert, Rubbettino, pp. 258, € 14,00) come questo sia avvenuto con l’immissione sul mercato di raccolte musicali contenenti i “canti di malavita”, espressioni di una vera e propria subcultura mafiosa.L’aspetto più grave della vicenda è che questi abbiano ottenuto un enorme successo; ben 160.000 copie delle compilation Il canto di malavita. La musica della mafia e Omertà, onuri e sangu. La musica della mafia vol. II sono, infatti, state acquistate in Europa – con picchi di vendita in Germania – e negli Stati Uniti. Un terzo cd della stessa raccolta è stato, poi, immesso sul mercato il 17 ottobre 2005, esattamente il giorno dopo l’omicidio di Francesco Fortugno, in maniera totalmente irrispettosa del terribile momento di angoscia che la Calabria stava vivendo. Il volume della Viscone è suddiviso in due parti: nella prima, dal titolo Gli uomini cattivi non hanno canti belli, l’autrice si concentra sull’analisi dei testi dei canti. Qui si raccontano i riti e i valori della ‘ndrangheta – o meglio, dell’Onorata Società – descrivendo le esistenze degli affiliati secondo i più comuni cliché mafiosi, trasformando vite maledette in biografie eroiche e leggendarie. I protagonisti sono uomini coraggiosi, che non hanno paura di sfidare la legge ma che, piuttosto, vengono da essa perseguitati. Questi devono dare prova del proprio coraggio attraverso una parabola ascendente di azioni delittuose, fatta di crimini, omertà, vendetta e morte. Ad essere narrata è, quindi, un’unica, terribile, sfaccettatura della situazione calabrese, descritta come se fosse la sola realtà esistente, come se tutti fossero conniventi. In questi canti viene, poi, esaltato l’onore di chi non parla e non tradisce, messo a confronto con l’infamia dei pentiti che collaborano con la giustizia. Ad essi sono rivolte innumerevoli ingiurie e minacce. Gli unici sentimenti espressi sono l’odio, il disprezzo e il desiderio di vendetta. Molto frequente è, poi, il canto del carcerato, il quale lamenta un destino ingiusto, autocommiserandosi e provando pietà per la sua categoria. Nessuna parola compassionevole è, invece, riservata alle vittime o alle loro famiglie. A ricorrere con particolare continuità è il mito della vecchia e “buona” ‘ndrangheta, contrapposta alla feroce criminalità attuale. Eppure questa distinzione – ammonisce l’autrice – non ha alcun fondamento di verità, ma serve solo a rivestire di una fasulla patina romantica quella che è, invece, una della più terribili declinazioni della criminalità organizzata. Ad essere descritto – per dirla con Bachtin – è un mondo alla rovescia, in cui i malviventi divengono eroi, gli uomini di legge criminali e i pentiti spie. La realtà si divide, dunque, in un “dentro” e un “fuori”, per cui chi è all’interno dell’organizzazione è “uomo”, mentre chi sta fuori non è nulla, non conta niente. La seconda parte del saggio, La stampa nel vicolo globale, contiene una scelta antologica degli articoli pubblicati dai più prestigiosi giornali mondiali, come Financial Times, Frankfurter Allegemeine Zeitung, Le Monde, New York Times, Newsweek International, che hanno dedicato interi servizi a questi canti, diffondendo per lo più luoghi comuni su una Calabria vista come “terra dei desperados”, in cui persino la gente comune sembra proteggere e sostenere ‘ndranghetisti e latitanti, poiché a sua volta “protetta” da questi ultimi nei confronti di uno Stato ingiusto e, dunque, legittimamente combattuto dai malviventi. La stampa straniera – spiega la Viscone – ha commesso l’imperdonabile errore di ritenere i contenuti dei canti come validi strumenti di indagine antropologica sulla realtà calabrese, offrendone, così, una visione offensiva e del tutto distorta (la stessa che da anni molti calabresi stanno cercando di abbattere). È questo uno degli effetti devastanti della globalizzazione, poiché comporta la diffusione capillare di pregiudizi a carattere razzista verso il Sud del nostro Paese. Oltre a ciò, non bisogna dimenticare la gravità della portata delle false notizie messe in giro dai media di tutto il mondo, come quella secondo la quale la vendita dei canti della malavita è stata proibita dal governo italiano. Questa informazione, oltre a non rispondere a verità, è portatrice, ancora una volta, di un pregiudizio, proprio perché, al contrario, in quanto parte integrante della libera e civile Europa, anche l’Italia permette di acquistare legalmente i cd (come dimostra il fatto che essi siano tuttora rinvenibili – contrassegnati dal marchio Siae – su molte bancarelle dei mercatini). Persino l’insospettabile Bbc è arrivata a costruire a proprie spese uno scenario criminale nel centro di Reggio Calabria. Ad essere inscenate sono state addirittura interviste a boss e latitanti, rifugiati sulle montagne dell’Aspromonte. La pubblicità dei mass media esteri ha senz’altro contribuito al trionfo commerciale delle compilation nel resto del mondo, mentre da noi queste si sono rivelate – non a caso – un vero flop. Ogni italiano, infatti, ascoltandole, non può che avvertire un forte senso di disagio, di rabbia e di disgusto. Ma allora perché – viene da chiedersi leggendo il testo della Viscone – la stampa mondiale ha assunto un atteggiamento tanto offensivo e, allo stesso tempo, superficiale, nei riguardi dei calabresi, portando al successo cd e musicassette di pessima qualità (tenendo anche in considerazione lo scarso grado di professionalità di musicisti e cantanti)? Forse perché, all’interno della diffusa coscienza civile, la Calabria viene considerata un po’ come il fanalino di coda dell’Europa; dunque, il fine di molti Paesi è stato quello di ritrovare una falsa conferma della degradata situazione del Sud in testi di canzoni che non rispondono affatto alla realtà, ma sono frutto di una spudorata operazione commerciale. In questo modo è molto più facile convincersi della propria superiorità culturale, svelando, però, allo stesso tempo, il sottofondo tarato e razzista che l’opinione mondiale ha nei confronti del Meridione. È importantissimo ricordare che questo tipo di marketing compie un terribile torto nei confronti delle innumerevoli vittime della mafia e delle loro famiglie. Chiunque favorisca la vendita delle raccolte contribuisce a nobilitarne il contenuto, minimizzandone l’orrore. Noi, che condividiamo con i giornalisti americani ed europei il compito di fare dell’informazione, non possiamo che ritenerci indignati di fronte alla dimostrazione di una così scarsa professionalità, spintasi alla commercializzazione di valori mafiosi. È precisamente questo che intendiamo per “globalizzazione delle cattive idee”.

MediaMafia. Media, Mafia e la lotta allo stereotipo. Cosa Nostra vista al cinema ed in tv, scrive Vincenzo Guarcello il 25 maggio 2015 su "Il Corriere del Mezzogiorno". «Nella rappresentazione della mafia che funzione ha avuto il cinema? E la televisione? Si può dire che il cinema abbia riflesso il sentire comune o di gran parte della popolazione, o quello di una minoranza illuminata, o l’abbia influenzato, rafforzato se non costruito?». È questa l’idea centrale del libro Mediamafia di Andrea Meccia (Edito da Di Girolamo) sintetizzata dallo studioso della criminalità organizzata Umberto Santino nel saggio introduttivo. Il libro punta a delineare una storia della mafia e della sua rappresentazione cinematografica e televisiva dagli anni ‘70 ai giorni nostri, analizzandone aspetti e contraddizioni. L’idea di fondo è quella di scardinare il fenomeno mafioso in tutte le sue parti: sul grande schermo realtà e mito si intrecciano, deformandosi attraverso quel meccanismo di «ingrossamento» individuato agli inizi del ‘900 da Giovanni Verga, da sempre critico con il mezzo cinematografico. «Nel cinema - afferma Santino - si riflettono le idee e le rappresentazioni che circolano nell’immaginario collettivo: gli stereotipi più sedimentati e le analisi più avvedute, le apologie e le ripulse, le complicità e le sfide (...) Più dei libri, film e sceneggiati televisivi diventano strumenti di conoscenza o di informazione, ma per lo più scavano dentro miniere di stereotipi». E così anche la televisione, con i suoi sceneggiati popolari che poco a poco sono entrati nel linguaggio comune, specialmente tra i più giovani. Da Il Padrino di Francis Ford Coppola a La mafia uccide solo d’estate di Pierfrancesco Diliberto (in arte Pif), passando per capolavori come Cadaveri eccellenti (Rosi, 1976), Il Ladro di Bambini (Amelio, 1992), Tano da morire (Torre, 1997)e Il Divo (Sorrentino, 2008). Attento al linguag­gio dei mafiosi, Meccia realizza un percorso crossmediale tra film, canzoni, spot pubblicitari e canzoni. Utilizzando con semplicità i diversi mass media, l’autore ricrea un percorso indirizzato soprattutto a insegnanti, genitori e giovanissimi, con l’obiettivo di costruire una memoria collettiva che sia il più possibile coerente con la realtà, depurata da cliché e preconcetti. Il libro, improntato su una narrazione moderna, pone interrogativi e punta a creare curiosità nel lettore (specialmente i più giovani), troppo spesso ancorato al mito televisivo, affascinato dal «male». Proprio l’autore, in un’intervista radiofonica a Radio Città del Capo, parla dei problemi riscontrati durante i percorsi educativi nelle scuole. «Parlando con i ragazzi - ammette - mi trovo davanti due facce della stessa medaglia: da un lato le gesta degli eroi criminali, ai quali i giovani si affezionano inevitabilmente (epica della mafia) e dall’altro i cosiddetti martiri che combattono Cosa Nostra; idoli positivi, ma che non tengono conto di chi lotta costantemente e riesce a sopravvivere. Entrambe le tendenze, a mio avviso, sono pericolose e vanno combattute». Dalle parole di Beppe Viola, cantate magistralmente dal grande Enzo Jannacci nella ballata «Quelli che..», emerge il vero fulcro del libro di Meccia: non è (solo) la grande spettacolarizzazione, la faccia esterna del sistema mafioso a far paura. Questa è solo la punta dell’iceberg. Bisogna scavare, andare al di là del singolo evento, cercare la mafia «che non fa rumore», vera piaga della società. «Ho deciso così - ammette l’autore nella premessa - di provare a leggere quarant’anni di potere mafioso concentrandomi sulla violenza visibile e sotterranea di Cosa Nostra e spulciando nel racconto che i mezzi di comunicazione di massa ne hanno fatto». Biografia dell’autore. Andrea Meccia è nato nel 1980. Ha conseguito una laurea in Comunicazione con una tesi sul cinema italiano e gli anni di piombo ed insegnante italiano per stranieri . Si occupa di formazione e Media Education e ha collaborato per diverse inchieste sul quotidiano Repubblica.it e sul quotidiano argentino Página/12. Coautore di «Strozzateci tutti» (Aliberti, 2010) e «Novantadue. L’anno che cambiò l’Italia» (Castelvecchi, 2012). «Mediamafia» è il suo primo libro.

Mediamafia. Cosa nostra fra cinema e tv, scrive Paola Bisconti su “L’Inkiesta”. Con “Mediamafia. Cosa Nostra fra cinema e tv”, Di Girolamo Editore, Andrea Meccia approfondisce un aspetto particolarmente interessante riguardo l’attenzione che finora ha suscitato la mafia tra i mass media che l’hanno raccontata, divulgata, a volte minimizzata altre spettacolarizzata. Di certo questo universo così vasto e complesso ha ispirato i più grandi registi di tutti i tempi e ha offerto materiale a sufficienza ai giornalisti della tv e della carta stampata che con assiduità l’hanno descritta. Questo richiamo così forte è stato oggetto di studio per Andrea Meccia, comunicatore e insegnante di italiano per stranieri, collaboratore nella sezione inchieste di Repubblica.It e tra gli autori dei libri “Strozzateci Tutti "(Aliberti, 2010) e “Novantadue. L'anno che cambiò l'Italia” (Castelvecchi, 2012). Spiegando come i mezzi comunicativi spesso abbiano enfatizzato alcune vicende offrendo un’aurea di fascino intorno al mondo mafioso avvolto da miti e leggende, l’autore traccia un excursus storico della rappresentazione cinematografica, televisiva e musicale della mafia. Il saggio introdotto da Umberto Santino conferma come i libri, i film e i vari sceneggiati televisivi sebbene abbiano contribuito ad aumentare le conoscenze sull’argomento, di fatto hanno anche incrementato una lunga serie di stereotipi che vedono i mafiosi terribilmente crudeli e senza scrupoli, su questa violenza visibile si è creata una morbosa forma di curiosità da parte degli spettatori che trascurano la gravità di altre azioni meno cruenti ma ugualmente pericolose come potrebbe essere un’azione finanziaria illegale. Nella prima parte di “Mediamafia” l’autore si sofferma su alcuni principali fatti che caratterizzano il periodo storico compreso tra il 1970 e il 2014. In quest’arco di tempo si è iniziato a raccontare la mafia in capolavori come “Il Padrino” di Francis Ford Coppola nel frattempo l’organizzazione criminale provvedeva a modificare tattica e strategia d’azione. Erano gli anni questi in cui “L’Ora”, il quotidiano palermitano, pubblicava inchieste firmate da giornalisti come Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, tutti assassinati dalla mafia. Pian piano cresceva tra i cittadini, la consapevolezza circa la gravità di un fenomeno raccontato anche dal giornalismo televisivo con una nuova forma linguistica e concettuale, eppure, specifica Andrea Meccia, la scelta di fare dell’impegno contro le mafie un filone centrale della cronaca nazionale non fu una cosa scontata, né facile. La narrazione continua con la citazione di altri lavori indimenticabili come la “Piovra” considerato un vero e proprio evento mediatico per arrivare poi alle denunce di Libero Grassi, l’imprenditore siciliano che utilizzò le telecamere televisive per dichiarare che non avrebbe pagato il pizzo, fino a riportare con una scrittura fluida e quanto mai  avvincente, una serie di eventi clamorosi come la partecipazione di Giorgio Faletti al Festival di Sanremo del 1994 con la canzone “Signor Tenente” e altri drammatici come la strage di Capaci e di via D’Amelio. Nella seconda parte intitolata “Visioni” Andrea Meccia ricorda le morti eccellenti e si sofferma su film e fiction come “Il Capo dei Capi” in riferimento ad essa il magistrato Antonio Ingroia si rivolse agli italiani chiedendo se avessero davvero bisogno di un ritratto del genio del male. Le interviste riportate nella terza parte completano il libro arricchito dalla testimonianza del magistrato Roberto Scarpinato e dalla reporter Letizia Battaglia autrice della fotografia che funge da copertina del testo. Straordinaria nell’impianto narrativo “Mediamafia” si presenta come un’imperdibile guida la cui lettura è fondamentale per approfondire molteplici aspetti relativi al macrocosmo mafia.

Il ruolo dei Media nella lotta alla mafia. Per un dovere di informazione “Dalla mafia invisibile al silenzio sulle mafie”, scrive Lorenzo Baldo  su “Antimafia Duemila”. “L’informazione è un elemento decisivo per ogni azione contro la criminalità organizzata”. Per raccontare questo “tavolo” di Contromafie possiamo partire dal titolo del documento conclusivo stilato dal gruppo di lavoro sull’informazione al quale ANTIMAFIADuemila ha aderito. Di primo acchito potrebbe ricordare la citazione di un film, se non altro per lo stato in cui versa l’informazione oggigiorno. Secondo il rapporto 2005 dell’istituto di ricerca americano Freedom House, per quanto riguarda la libertà di stampa, il nostro Paese rientra nella categoria “parzialmente libero”, esattamente al 79° posto della classifica. Di fronte a un simile risultato parlare di informazione come “elemento decisivo” nella lotta alla mafia ci riporta indietro a quella “resistenza” di partigiana memoria ma anche di estrema attualità. Ma allora come è possibile andare oltre quella “resistenza”? E come si può riportare l’informazione al suo ruolo originario per il quale uomini e donne in tutto il mondo hanno pagato con la vita? Soprattutto dopo aver vissuto sulla propria pelle 5 anni di “regime” (votato dall’elettorato italiano) che passo dopo passo ha minato alla base i pilastri della libertà d’informazione in Italia… Le aspettative rivolte in tal senso nei confronti dell’attuale governo scricchiolano ogni giorno di più sotto il peso di quelli che modernamente chiamiamo “inciuci”. Nel mezzo di questo novello mar Rosso ritroviamo la società cosiddetta “civile” che tenta per l’ennesima volta di fare il punto della situazione per riorganizzarsi. Ma il tema mafia e informazione è uno di quelli che non ammette mezze misure o sei a favore o sei contro. E Cosa Nostra da sempre guarda con interesse a chi nel mondo variegato dei media si mette “a disposizione” sull’altare di un riscontro economico; ben consapevole di quanto sia importante “controllare” l’informazione, in entrata e in uscita. Nella giornata “operativa” di Contromafie del 18 novembre 2006 più di 200 persone si sono iscritte al tavolo di lavoro sull’informazione. Nomi noti e nomi sconosciuti, alcuni partecipanti sono intervenuti come relatori e molti altri si sono limitati ad essere semplici ascoltatori. La sera, al termine della sessione di lavoro, siamo rimasti ancora un po’ insieme al nostro “tutor”, il giornalista Roberto Morrione (ex direttore di RaiNews24),  il sottoscritto, Manuela Mareso di Narcomafie e la collega di Omicron Patrizia Gugliemi. Bisognava mettere nero su bianco quella mole di idee, progetti e critiche emerse durante la giornata. Giornata che era iniziata affrontando la “deriva culturale” della nostra società che preferisce “l’apparire” invece “dell’essere”. Una deriva nella quale l’informazione subisce (molto spesso volutamente) la “cultura dell’emergenza”, una sub-cultura che si limita a strillare la notizia quando ormai è accaduta, senza un “prima” e senza un “dopo”, dove “l’emergenza” nasconde in realtà problematiche ben note che avrebbero invece bisogno di studi e approfondimenti per poterle risolvere. E invece il versante dell’emergenzialità si ingrossa sempre di più perché queste sono le regole di quel “gioco grande” fatto sulla pelle di una società sempre più assuefatta alla violenza e all’indifferenza. Ma è lo stravolgimento della notizia il vero campanello di allarme citato da buona parte dei relatori. La sentenza di assoluzione nel processo che ha visto imputato di partecipazione ad associazione mafiosa il sen. Giulio Andreotti ha rappresentato un punto cardine nella discussione al tavolo di lavoro. Un vero e proprio simbolo al negativo di come, dal momento dell’emissione di quella sentenza (salvo rarissime eccezioni), l’informazione in Italia abbia ulteriormente sterzato nella direzione del potente di turno che doveva comunque uscirne “santificato”. Poteva essere un’occasione storica per dimostrare con dati alla mano che, nonostante l’assoluzione di un uomo potente, le prove di colpevolezza fino al 1980 erano pesanti come macigni e che per questo la storia l’avrebbe condannato. Ma si è preferito limare, sbianchettare o addirittura reinterpretare le parti più compromettenti prima di pubblicarle o prima di esporle davanti ai riflettori televisivi (salvo quelle rarissime eccezioni sopracitate) per restituire la verginità a un uomo politico servito e riverito a destra e a sinistra. Nell’aula dell’Angelicum l’attenzione è massima, l’analisi di Morrione è precisa e documentata, da vero giornalista che ha vissuto sulla propria pelle una sorta di “censura preventiva” da parte di un ex direttore del Tg1 come Bruno Vespa che “consigliava” i suoi redattori di affrontare il tema mafia come se scrivessero da un paese del nord Europa. Un imbavagliamento all’informazione che l’ex direttore di RaiNews24 ha sempre combattuto anche a costo di rimetterci in prima persona. “Bisogna incalzare tutti i poteri” insiste Morrione con convinzione, mentre mi ritrovo a pensare a tutti quei giornalisti messi a tacere per sempre da quel connubio di poteri forti che lo stesso Falcone aveva già individuato negli anni ‘80. Il messaggio è chiaro, nel concetto etico del giornalismo che non guarda in faccia nessun potere è racchiusa l’essenza di questo mestiere. Il direttore de I Siciliani Pippo Fava prima di essere ammazzato aveva scritto che “un giornalista incapace - per vigliaccheria o calcolo - della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento”. Ma come tutti i grandi uomini anche Giuseppe Fava era stato un precursore dei tempi. Prima di terminare la sua relazione Roberto Morrione ha elencato sinteticamente i punti più importanti delle proposte da avanzare nel documento conclusivo (*che di seguito pubblichiamo) proponendo l’istituzione di un Osservatorio nazionale permanente sull’informazione e dando così il via a un dibattito che ha toccato alcuni nervi scoperti della galassia dell’informazione. Tante le voci che si sono susseguite, ognuna con un suo bagaglio di esperienze, speranze, delusioni, ma con ancora addosso quella voglia di trasmettere ai “novizi” il valore del giornalismo di inchiesta. Attraverso il racconto di Antonella Mascali (giornalista catanese, da anni inviata speciale del network milanese Radiopopolare), abbiamo rivissuto gli anni dell’omicidio di Pippo Fava e di tutto quello che la sua morte ha provocato in alcuni giovani che proprio dal suo sacrificio hanno deciso di diventare giornalisti. Stessa passione nelle parole dell’inviato del Tg3 Fabrizio Feo che ha ricordato gli anni delle inchieste sulla Camorra, con il boss del contrabbando di sigarette Michele Zaza e le sue dichiarazioni ambigue, ma non troppo, sull’area “grigia” di Berlusconi. Ma come si può oggi fare l’inviato speciale se un direttore o un capostruttura limitano la libertà dell’inviato stesso? La domanda per nulla retorica martella in testa a qualcuno dei presenti che si chiede come è possibile tornare a fare giornalismo di inchiesta con questa televisione e questi giornali. Ed è lo stesso Francesco La Licata, scrittore e giornalista de La Stampa, a spiegare molto chiaramente che “il problema dell’informazione è soprattutto politico”. “La politica si è appropriata dei media - sottolinea La Licata - e i giornalisti hanno rinunciato alla critica e all’autonomia in cambio di soldi e di carriera”. Un quadro pietoso ma tristemente vero, ripreso egregiamente dalla scrittrice Lidia Ravera che con graffiante ironia e altrettanta obiettività ha sbattuto in faccia a tutti il problema della “mentalità mafiosa” di cui si può essere anche “portatori sani”. “Il controllo politico sulla Rai è mafia!” ha sentenziato la Ravera senza mezzi termini chiedendosi poi dove sia andata a finire la meritocrazia quando sui media rimbalzano festosamente le storie di chi fa carriera vendendo corpo e anima. Applausi scroscianti e tanta amarezza di fondo. “La mafia è un problema di tutti” ha ricordato Nino Rizzo Nervo, consigliere Rai, ex direttore del Tg3, mettendo in risalto la “responsabilità del servizio pubblico” nei confronti dell’informazione sulla criminalità organizzata. Ma come non ricordare gli anni recenti dove la maggior parte dei servizi ai Tg della Rai censuravano o “addolcivano” ogni riferimento politico collegato ad inchieste giudiziarie?! E non è che il primo periodo della Rai del dopo-Berlusconi abbia dato tanti segnali di discontinuità in tal senso… Al momento di intervenire, dopo un piccolo bilancio sullo stato dell’informazione, passo subito alle proposte che come ANTIMAFIADuemila intendiamo avanzare al gruppo di lavoro: il ridimensionamento del segreto di Stato (soprattutto per i crimini di mafia); una legislazione più snella capace di erogare realmente fondi da destinare ad iniziative editoriali indipendenti; una legislazione che vigili e regoli i fondi destinati ai cosiddetti “giornali di partito” (che molto spesso sono dei “foglietti” sconosciuti che ricevono centinaia di migliaia di euro a fondo perduto dallo Stato); una legislazione che impedisca il radicamento nel territorio di un vero e proprio monopolio dell’informazione (come nel caso della Sicilia con l’editore Mario Ciancio); e infine una legislazione che tuteli il giornalista nel suo diritto di critica, ridefinendo i parametri della diffamazione a mezzo stampa. Ed è motivo di orgoglio per la nostra redazione aver visto inseriti nel documento finale del gruppo dell’informazione, che a sua volta è confluito nel manifesto conclusivo di Contromafie presentato al presidente della Camera Fausto Bertinotti, alcuni punti che avevamo proposto: il ridimensionamento del segreto di Stato e una legislazione più snella e concreta nell’erogazione fondi per iniziative editoriali indipendenti. Altri punti prospettati da ANTIMAFIADuemila erano stati precedentemente proposti dal nostro tutor e da altri partecipanti che avevano già individuato le problematiche da affrontare e le possibili soluzioni. Fra i successivi interventi dei componenti del gruppo alcuni spunti interessanti li ha lasciati l’avv. Michele Costa, figlio dell’ex procuratore di Palermo Gaetano Costa, assassinato dalla mafia il 6 agosto 1980. L’avv. Costa si è addentrato nella mafia “in simbiosi” con lo Stato, arrivando al “Dna della sicilianità” e alla struttura politica e militare di Cosa Nostra. Tutte realtà che secondo Michele Costa devono essere conosciute a fondo e che la stampa “ha il dovere di raccontare.. dall’inizio alla fine”. E proprio sul nodo irrisolto della stampa che si occupa di mafia Manuela Mareso, caporedattrice di Narcomafie, ha spiegato le difficoltà del suo lavoro legate spesso a una sorta di “autocensura” preventiva fatta per evitare querele milionarie che arrivano dai politici inquisiti e dagli avvocati dei mafiosi. Una vera e propria spada di Damocle sospesa sopra ogni voce “libera” che si rispetti. L’intervento dell’ex presidente del tribunale dei minori di Catania, Giovan Battista Scidà, ha suscitato profondo rispetto e ammirazione per questo anziano giudice che si ostina a gridare tutta la sua indignazione nei confronti dello scempio della giustizia di questi ultimi anni inquadrando il problema che ruota attorno al “caso Catania”. L’appello di Sonia Alfano, figlia del giornalista Beppe Alfano, assassinato dalla mafia il 6 gennaio 1993, ha mirato a tenere accesa la memoria del padre per stimolare a mantenere vivo un giornalismo che non si piega. Ma di fronte allo scenario sconfortante di quei cronisti pronti a fare interviste “in ginocchio” al politico di turno non resta molto ottimismo a riguardo. Antonio Conte, rappresentante dell’associazione MegaChip, fondata dal giornalista (ora europarlamentare) Giulietto Chiesa, riporta l’attenzione dei presenti sul ruolo che dovrà avere il futuro Osservatorio nazionale sull’informazione e cioè quello di uno “strumento di lotta culturale” lontano da qualsiasi condizionamento esterno. La rabbia di chi sente fino nella sua parte più intima il mestiere di giornalista emerge con prepotenza nelle parole di Lucio Tomarchio, redattore di Casablanca, il nuovo mensile fondato da Riccardo Orioles e Graziella Proto sulla stessa impronta de I Siciliani di cui Riccardo, Graziella e Lucio facevano parte. Partendo dalla proposta di una nuova legislazione in materia di erogazione di fondi pubblici per l’editoria indipendente Tomarchio elenca i nodi da sciogliere per tornare ad un’informazione libera e che faccia inchiesta; soprattutto in una terra come la Sicilia dove il monopolio dell’informazione non dispiace affatto a Cosa Nostra, anzi. E sempre per rimanere nel campo della libertà di stampa interviene lo storico e giornalista Carlo Ruta, recentemente condannato a 8 mesi di reclusione da un giudice monocratico di Messina (dopo aver subito l’oscuramento del suo sito accaddeinsicilia.net), per aver pubblicato inchieste su vicende di mafia, corruzione etc. alcune delle quali inerenti la morte del giornalista Giovanni Spampinato. Carlo Ruta ha raccontato di come è riuscito ad aprire un nuovo sito finalizzato al giornalismo di inchiesta (www.leinchieste.com) e della sua battaglia per la depenalizzazione dei reati di opinione. Al termine della sessione di lavoro Roberto Morrione ha evidenziato con convinzione come senza una vera informazione libera non ci siano grandi possibilità di invertire quello che è un reale problema per la democrazia. Così come afferma l’ex direttore di RaiNews24, di fronte al progredire sistematico delle varie forme di criminalità organizzata assistiamo a un vuoto di informazione che comporta una duplice responsabilità: da un lato isola quanti ad ogni livello si oppongono alla criminalità organizzata nei territori occupati dalle mafie. Dall’altro lato lascia via libera ad interessi economici e politici che determinano le scelte editoriali attraverso una rete di reciproci favori e di convenienze coincidenti di fatto con gli interessi mafiosi e di altri poteri occulti, come la massoneria deviata e i servizi deviati. Da sempre il giornalismo italiano ha dovuto subire pesanti condizionamenti e pressioni da parte del potere economico e politico. Pochi sono quelli che sono riusciti a mantenere la schiena dritta e molto spesso chi ci ha provato ha dovuto pagare con la vita la propria onestà. 11 giornalisti uccisi dalla mafia rappresentano un prezzo altissimo per un Paese “civile”. Ma l’Italia è quello stesso Paese dalle tante stragi impunite, un Paese “civile” che si è macchiato delle leggi “ad personam” e “contra personam”. E allora forse non dovremmo stupirci più, soprattutto se metà del Paese continua a votare una determinata classe politica. O forse si, possiamo ancora sorprenderci di tanta meschinità magari recuperando l’indignazione e il disgusto così da riprenderci quella dignità che hanno provato a toglierci come cittadini e come giornalisti. Probabilmente in futuro gli storici descriveranno questo periodo storico come una sorta di nuovo Medio Evo dell’informazione dove la libertà di stampa era solo una foglia di fico del “potere”. Un motivo in più per vendere cara la pelle come si suol dire e continuare, ognuno nel proprio ambito, grande o di nicchia che sia, a rendere onore alla professione di giornalista. Scrivere, raccontare, denunciare, fare rete, esigere una maggiore tutela della libertà di informazione da chi ci governa affinché istituiscano una legislazione premiale per tutte le realtà editoriali alternative ai grandi gruppi. E infine tramandare ai posteri cosa è stata e cos’è oggi la lotta alla mafia, la difesa della democrazia, la libertà di espressione, riappropriandoci della forza della parola che da sola a volte ha mosso le montagne.

Quanto mafiano i media su Mafia Capitale? Si chiede Giuliano Cazzola su “Formiche”. Le Punture di Spillo di Giuliano Cazzola, blogger di Formiche.net. Fateci caso. Nel trattare il verminaio di Mafia Capitale i tg si somigliano tutti. Trasmettono le medesime immagini (con in alto a sinistra l’emblema dei Ros) e gli stessi servizi. E non fa differenza che si tratti di canali Rai o Mediaset. Come se gli inquirenti non si limitassero a passare i filmati ma scrivessero di loro pugno anche i testi.

Perché un’inchiesta giudiziaria deve essere accompagnata da un’intensa campagna mediatica rivolta ad orientare l’opinione pubblica e a creare un clima di riprovazione e condanna, come se i processi fossero un inutile orpello, una sorta di impedimento burocratico per l’ansia di fare giustizia, perché tutto è già chiaro ed evidente?

Perché si usano le intercettazioni con la stessa tecnica del pescatore che, prima di immergere la lenza con l’amo, provvede alla c.d. pastura dello specchio d’acqua circostante, allo scopo di attirare i pesci. Non a caso vengono "velinate" ai media conversazioni intercettate prive di ogni rilievo penale, al solo scopo di dimostrare che i boss della Cupola avevano relazioni diffuse e trasversali. Può capitare, quindi, di venire ‘’sbattuti in prima pagina’’ soltanto per aver avuto contatti anche casuali (magari, come è successo a Giuliano Poletti, in una cena o in una riunione o in un incontro elettorale) con qualcuno di questi personaggi. Come ci si può salvare da questi linciaggi?

Verrà il momento in cui – per stare tranquilli – occorrerà farsi rilasciare dei certificati antimafia ad uso individuale con obbligo di rinnovo annuale, da esibire quando ci viene presentata qualche persona che non conosciamo, pretendendo che essa faccia lo stesso con noi. Oppure basterà che le Procure istituiscano un numero verde a cui telefonare in caso di urgenza, se ci capita di attaccare discorso con qualcuno in una cena sociale dei nostri ex compagni di liceo, magari appartenente, nei bei tempi andati, ad una sezione diversa dalla nostra. In questi cinquant’anni Mario Rossi, l’ex capoclasse della terza D, potrebbe essere diventato un mafioso.

Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità e mentire spudoratamente? Si chiede Massimo Prati sul suo Blog “Albtatros-Volando Controvento”. America - 1880 (milleottocentoottanta) - a una cena di giornalisti all’American Press Association c'è anche John Swinton, un editorialista del New York Sun che invitato a brindare alla stampa indipendente dice: "In America, in questo periodo della storia del mondo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Non c’è nessuno di voi che oserebbe scrivere le proprie vere opinioni, e già sapete anticipatamente che anche scrivendole non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato un tanto alla settimana per tenere le mie opinioni oneste fuori dal giornale col quale ho rapporti. Altri di voi sono pagati in modo simile per cose simili, e chi di voi fosse così pazzo da scrivere opinioni oneste, si ritroverebbe subito per strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie vere opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattrore la mia occupazione sarebbe liquidata. Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so io. E allora, che pazzia è mai questa di brindare a una stampa indipendente? Noi siamo gli arnesi e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite, sono tutto proprietà di altri. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Sono passati 135 anni da quel discorso e da noi, in Italia, a dire il vero qualcosa è cambiato. Ora da noi la stampa non si inchina più solo al volere degli uomini ricchi, a chi detiene il potere maggiore di uno stato, ora si inchina anche agli "uomini del potere locale". Vi siete mai chiesti perché ci sono giornalisti sportivi a cui è vietato entrare nella sala stampa del "loro" stadio? Semplicemente perché hanno criticato la squadra di cui scrivono o chi la guida a livello dirigenziale. Vi siete mai chiesti cosa accade quando un giornalista non allineato non può entrare in una sala stampa e non può intervistare i calciatori? Semplice. Leggeremo sempre notizie buoniste di un certo tipo che mai porteranno critiche serie. Ed anche se l'esempio sembra stupido perché si parla di sport, quindi di una informazione minore, in effetti stupido non è perché rapportandolo a qualsiasi altro argomento, dalla politica alla giustizia, fa capire quali siano i rapporti che si vogliono obbligatoriamente far intercorrere fra chi informa e chi, in pratica, comanda. I giornalisti politici, ad esempio, devono seguire una linea editoriale di parte per "partito preso". Per cui occorre, a prescindere, criticare ciò che fa o dice lo schieramento opposto... anche se sinteticamente identico a quanto dice o fa il proprio. Vi siete mai chiesti chi è che sparge il pregiudizio? Per forza di cose chi ci informa, chi sparla additando a colpevole chi una procura vuole colpevole. Magari non ci sono prove. Magari neppure ci sono indizi seri. Ma a forza di insistere su un argomento si crea una convinzione (un meme). E la convinzione fa sembrare prova e indizio anche la più inutile delle banalità Banalità che sparsa ai quattro venti dall'informazione e dagli opinionisti che la cavalcano, verrà metabolizzata dall'opinione pubblica e creduta di una importanza vitale. Ed ecco che così facendo si fa credere ai lettori che la verità è quella scritta sugli atti giudiziari e non sui ricorsi dei difensori. Questo accade, anche se in realtà sugli atti si legge tutt'altra cosa. Ma il fatto che in pochi abbiano accesso ai verbali di interrogatorio agevola chi scrive articoli "mirati" a cui nessuno fa da contraltare. Anche perché, dopo l'iniziale assembramento, è la stampa locale che fornisce la maggior parte delle informazioni a quella nazionale. E dove le prende le informazioni se non in procura? Quale giornalista moderno rischierebbe di diventare "ospite sgradito", ad esempio criticando una linea investigativa o un arresto immotivato, sapendo che le porte di "certi uffici" gli si potrebbero chiudere in faccia? Tutti vogliono lavorare e guadagnare. E chi scrive di cronaca nera da troppi anni si nutre grazie all'accondiscendenza di alcuni. Quella che permette a certi giornaluncoli di nascere e sviluppare grazie a scoop creati ad arte con frasi "ad hoc" estrapolate in maniera unilaterale da un verbale o da una intercettazione secretata. E quasi tutti sono contenti. Contenta è la procura che vede aumentare la sua credibilità, l'editore che vede aumentare i profitti e il giornalista che si ritrova famoso perché catapultato sotto i riflettori per quanto ha scritto e si è usato per più puntate nei talk show dell'orrore. Gli unici scontenti sono gli indagati, i loro familiari e, quando ce ne sono, i loro figli minori che dalla valanga di notizie gettate a pioggia, che inevitabilmente bagneranno anche il loro ambiente sociale, verranno demoliti psicologicamente. A nessuno importa spargere la verità assoluta, quella che deriva solo dalla logica impossibile da alterare. L'informazione da tanto non fa cernite, da tanto non vaglia con critica la "velina" che arriva dagli uffici a cui attinge a piene mani. Chi li informa sa che per i media è facile amalgamare l'opinione pubblica alla linea voluta. Basta sbatterle in faccia la solita domanda: "Perché i procuratori dovrebbero, se non ci sono motivi, accusare una persona a caso?". La risposta potrebbe essere facile, visto che non esiste l'investigatore infallibile e gli errori giudiziari sono ormai una regola che annualmente costa tanti denari pubblici. Ed è logico che se non è l'informazione a ribadire questa ovvietà, si finisce sempre nel solito imbuto. Quindi a credere che quanto dice la difesa è falso, perché le indagini sbattute sui video per anni dicono il contrario e i difensori per luogo comune farebbero di tutto pur di salvare il dietro al loro assistito, mentre quanto afferma l'accusa è più che vero. Anche se la sua ricostruzione appare incredibile e illogica. Così facendo si distrugge la vera informazione, quella parte di giornalisti che racconta solo la verità e critica chi va contro le giuste regole, e si finisce per dover accettare una serie infinita di compromessi. Forse qualcuno ancora non lo sa, ma il compromesso è l'inizio della fine perché chi accetta il primo non potrà rifiutare il secondo e neppure il terzo e il quarto e così via. Facendo così la fine di quei delinquenti che una volta entrati nell'organizzazione malavitosa non hanno più modo di uscirne... se non da morti. Come disse John Swinton? "Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Forse Swinton è stato anche troppo drastico coi suoi colleghi, forse nei giornalisti non c'è quella intenzione convinta di distruggere la verità... ma troppi esperimenti mentali si son fatti nell'ultimo secolo da non sapere che una volta plasmata l'idea altrui nessuno leggerà più usando la logica e nessuno si accorgerà di aver letto o ascoltato, e mentalmente accettato anche per anni, articoli o parole di una stupidità eclatante. Chi di voi sa cos'è il meme? Per restare nell'orbita semplice e non inserirsi in spiegazioni difficili da comprendere, il meme moderno si può paragonare a un tormentone che viene lanciato in grande stile e condiviso da più menti così da unificarle e farle diventare parte integrante di una grande mente che funge e prende il posto della mente individuale. Se parliamo di internet, si può paragonare alla foto del momento che postata su facebook viene condivisa da migliaia di persone. Pare nulla, una cosa poco pericolosa, ma così non è dato che se i media lanciano e danno per vero un meme falso, e qui comprendo anche il campo giustizia, la mente lo elaborerà facendolo proprio come fosse vero. E più se ne lanciano, e più se ne elaborano, e più si corre il rischio di non riuscire a capire che la realtà non è quella che si crede vera. E più si corre il rischio di far crescere una specie di tumore, un virus (da qui la parola "virale" usata quando prende piede la moda del momento grazie a un meme) che impossessandosi del nostro cervello lo porterà a fare ragionamenti mirati che una mente libera troverebbe ridicoli e privi di validità. Ci si può salvare da un virus che pare ormai essersi propagato a dismisura e che con l'avvento di internet ha attecchito e si è espanso grazie anche ai copia-incolla che duplicano all'infinito la notizia del momento? Certo che sì. Basterebbe che i media invadessero l'etere di notizie vere in grado di delegittimare quelle false. Ma in Italia, in questo periodo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Scrivere ciò che si pensa non si può. I giornalisti devono obbedire, oggi come 135 anni fa. In caso contrario qualcuno smetterà di fornire loro informazioni, qualcun altro smetterà di invitarli in certe trasmissioni e l'editore li manderà a scrivere i necrologi. Motivo per cui, per non soccombere ognuno di noi deve cercarsi una cura su misura che possa contribuire anche alla demolizione del virus. Ad esempio, si potrebbe iniziare a spegnere la televisione quando in tivù c'è chi il virus lo spande a piene mani e si potrebbe iniziare a far marcire in edicola quei settimanali che il virus lo mostrano già in copertina. Così facendo gli editori capirebbero che il filone si sta prosciugando, che il pubblico pagante sta guarendo e che tenere in piedi un carrozzone solo per pochi intimi economicamente non conviene. Solo toccando loro le tasche e i portafogli si può sperare di risolvere una situazione altrimenti irrisolvibile. Certo, in questo modo si risolverebbe solo una delle piaghe. Ne rimarrebbero ancora tante da sistemare, ad iniziare dal rapporto che da secoli si è instaurato fra i media e la politica. Ma forse è troppo tardi ormai e quello è, e grazie al meme continuo rimarrà, un male incurabile...

Lo Voi «illegittimo», procura nel caos. Neppure 5 mesi a capo della procura di Palermo e per Francesco Lo Voi arriva la mannaia del Tar del Lazio, scrive "Il Giornale". Ad annullare, clamorosamente, la nomina fatta a dicembre da un Csm spaccato è stata la prima sezione quater, che ha accolto i ricorsi dei due contendenti più anziani di 9 anni: il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e quello di Messina Guido Lo Forte, già aggiunti nel capoluogo siciliano. Avevano denunciato il fatto che Lo Voi non avesse mai guidato, come loro, un ufficio giudiziario né una direzione distrettuale antimafia e ora i giudici amministrativi danno loro ragione. La scelta di Palazzo de' Marescialli, scrivono, è macchiata da «illogicità e irrazionalità», la motivazione è «insufficiente». E il Csm viene condannato a pagare 3 mila euro per le spese di giudizio. La nomina era stata bloccata dall'allora presidente Napolitano quando nel vecchio Csm in pole position c'era Lo Forte di Unicost mentre Lari era sostenuto dalle correnti di sinistra. E la scelta del nuovo Csm per un esponente di Magistratura Indipendente era stata letta a Palermo come una «normalizzazione» nella procura del processo a Napolitano sulla trattativa Stato-mafia. La sentenza del Tar è ora immediatamente esecutiva e i due ricorrenti potrebbero chiedere al Csm di fare una nuova nomina, ma sia Palazzo de' Marescialli che Lo Voi possono rivolgersi al Consiglio di Stato per una sospensiva. Per una strana coincidenza proprio poche ore prima della notizia dal Tar, la commissione competente del Csm faceva una mossa che riguarda sia Lari che Lo Forte. Il primo viene proposto come procuratore generale di Caltanissetta, l'altro viene «trombato» nella corsa alla procura generale di Milano, dove gli viene preferito Roberto Alfonso. In questa situazione, si può ipotizzare che Lari non insista per il vertice della procura di Palermo, mentre Lo Forte sarebbe ancor più motivato. Lo Voi, palermitano, 57 anni, 33 di carriera, era fuori ruolo come membro italiano a Eurojust, la superprocura europea, dopo essere stato togato al Csm molti anni fa. E proprio il peso dato a quest'incarico, facendolo preferire agli altri due candidati, viene contestato nella sentenza scritta da Giampiero Lo Presti. Accogliendo le ragioni esposte dall'avvocato Giuseppe Naccarato, il Tar contesta la mancanza di «adeguata motivazione delle ragioni concrete per le quali le competenze maturate nell'espletamento dell'incarico predetto siano state ritenute, nella prospettiva comparatistica, non soltanto idonee a compensare il deficit di pregresse esperienze direttive e semidirettive specialistiche, ma persino tali da determinare un giudizio complessivo di prevalenza attitudinale del dottor Lo Voi riguardo allo specifico ufficio». La sentenza non sembra lasciare molti margini e provoca al Csm grave imbarazzo, perché il collegio presieduto da Elio Orciuolo afferma che la valutazione è macchiata da un «vizio» inspiegabile. Che riguarda l'attività fuori ruolo, quella a Eurojust.

E poi danno lezioni di legalità!

Il super-Pm sbotta: «Giudici, ora basta», scrive l'11 maggio 2015 Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Lo sapete tutti che nei manuali di giornalismo c’è scritto che una notizia è notizia quando l’uomo morde il cane, e non viceversa. Beh, stavolta è ancora più notizia: è il magistrato che morde il magistrato. Cosa mai vista, finora. E il magistrato in questione non è un tizio qualunque, ma è il Procuratore di Torino Armando Spataro, anni 67, carriera lunghissima, sempre impegnato in indagini molto delicate, prima la lotta al terrorismo di sinistra, nei primi anni ottanta, poi l’antimafia. Spataro è un’icona di coloro che amano i Pm. Duro, rigoroso, burbero, cattivo, non sorride mai. Uno sceriffo. E uno che parla chiaro, non si nasconde, te le grida in faccia. A occhio non è proprio il tipo del magistrato garantista. Ed è difficile trovare qualche sua frase di simpatia per i garantisti. Beh, ieri Spataro è andato a parlare nella tana del nemico, e cioè a un convegno organizzato dalla camere penali del Piemonte, e ha pronunciato una requisitoria delle sue, ma stavolta contro i suoi colleghi. Spataro ha tuonato contro i magistrati protagonisti, i magistrati presunti ”eroi”, i magistrati moralisti, i magistrati maestri di storia, i magistrati faziosi, i magistrati narcisi eccetera eccetera. Ha messo nel mirino (senza mai nominarli) Ilda Boccassini, Vittorio Teresi, Antonio Ingroia, Antonio Di Pietro (ma anche Borelli, D’Ambrosio e Colombo) forse anche Pignatone, sicuramente, e con durezza, il ministro Alfano. E poi ha disintegrato l’immagine dei giornalisti giudiziari, accusandoli di pigrizia e scarsa professionalità (ma anche un po’ di servilismo…). Ha pronunciato un discorso simile agli articoli che su questo giornale scrive Tiziana Maiolo…I casi sono due. O prendiamo questo sfogo di Armando Spataro come una boutade (o come semplice espressione della lotta interna tra le correnti della magistratura); oppure lo prendiamo sul serio ed esaminiamo una a una le cose che lui ha detto e immaginiamo che forse si è arrivati – nella vicenda del potere sempre più grande in mano alla magistratura – a quel punto di rottura che provoca reazioni, discussioni, dubbi, e che forse può portare a una inversione di tendenza. Speriamo. Naturalmente è chiaro che alcuni degli attacchi di Spataro possono essere effettivamente letti all’interno della lotta tra correnti della magistratura. Spataro ce l’ha sempre avuta con ”Magistratura Democratica” e oggi gli tira un po’ di frecce avvelenate. Così come è noto che Spataro non ha mai amato la Boccassini, che addirittura una volta fece pedinare degli indagati sui quali stava indagando, appunto, Spataro, che la prese molto male. Ed è anche noto che Spataro non ama il ministro Alfano e perciò – come vedrete – lo espone a impietosi paragoni con ministri dell’Interno del passato (Virginio Rognoni, in particolare) e lo maltratta in tutti i modi. Detto ciò, vediamo quali sono i sassolini che Spataro si toglie dalla scarpa. Trascrivendo pari pari le frasi che ha pronunciato a Torini, senza cambiare una virgola. «E’ una fortuna che sia finita l’era di mani pulite e l’era di Di Pietro. Rammento i giornalisti a frotte dietro i pubblici ministeri nei corridoi, e devo dire che alla fine qualche collega era più convinto dell’importanza della notizia in prima pagina che non dell’esito del processo…«Badate che non sto contestando il diritto e il dovere del magistrato di intervenire nel dibattito civile. E’ giusto che intervenga. Senza però dare alcun segnale di dipendenza o vicinanza politica…«Vi faccio qualche esempio di protagonismo non virtuoso: c’è un magistrato che a Palermo, dopo aver letto una sentenza che disattendeva le sue conclusioni, disse che se lui fosse stato un professore avrebbe dato quattro meno al giudice che aveva fatto quella sentenza (e qui si riferisce al dottor Vittorio Teresi, coordinatore del pool antimafia della Procura di Palermo, il quale pronunciò quella frase infelice commentando la sentenza del processo Mori, ndr); poi c’è chi ha detto che il Csm avrebbe dovuto valutare, al fine di designare il nuovo procuratore capo di Palermo, il grado di condivisione dei candidati con l’impostazione del processo sulla trattativa Stato mafia (e qui si riferisce ancora a Teresi, ma anche a Ingroia e più in generale a tutti i Pm che fanno capo all’ex Procuratore di Palermo De Matteo, ndr). Mi sembra una impostazione inaccettabile». «Poi c’è il caso di quei pubblici ministeri che a distanza di 20 anni dall’inizio dei processi di mafia al Nord, dicono: ”Finalmente arrivo io e indago sulle infiltrazioni di mafia al Nord”, oppure che continuamente fanno riferimenti a entità esterne, ai poteri forti…Il vizio più pesante della magistratura è la tendenza a porsi come moralisti, come storici, cioè pensare che tocca ai magistrati moralizzare la società e ricostruire un pezzo di storia». «Non sopporto più i colleghi che si propongono come gli unici eroi che lottano per il bene, mentre tutto attorno c’è male, e loro sono una sorta di Giovanna D’Arco, e sono alla continua denuncia dell’isolamento nel quale si trovano. Ma l’isolamento del magistrato non ha niente di eccezionale, è una condizione tipica del nostro lavoro. Non sopporto quelli che vanno in piazza per raccogliere firme di solidarietà». «Se si dovesse fare una riforma della Costituzione, vorrei che fosse inserita una norma che prevede l’indipendenza della stampa dal potere politico. Anni fa feci un viaggio negli Stati Uniti e chiesi al Procuratore federale di Chicago come facessero a mantenere l’indipendenza visto che sono nominati dal presidente degli Stati Uniti. Lui mi rispose: «Ma qui c’è la stampa», alludendo al ruolo della stampa e alla sua assoluta indipendenza. In Italia invece abbiamo degenerazioni di ogni tipo: magistrati che sfruttano il processo famoso per curare la propria icona, avvocati che tendono a trasferire il processo in Tv per auto-promuoversi, giornalisti che non cercano riscontri ma inseguono misteri, e ministri che inseguono slogan e telecamere. «Quando arrestammo Mario Moretti, il capo delle Br, non potrò mai scordarmi che mi telefonò l’allora ministro dell’Interno (Virginio Rognoni ). Avevo 31 anni, mi emozionai ( in verità ne aveva 33…anche lui bada un po’ alla sua immagine e si cala l’età…peccato veniale…, ndr). Il ministro mi chiamò per dirmi: ”lei sa quanto è importante per noi diffondere la notizia dell’arresto di Moretti, ma deve essere lei a dirmi che posso farlo, perché prima vengono le indagini”. Oggi avviene esattamente il contrario: notizie di operazioni contro il terrorismo internazionale vengono diffuse prima ancora che si realizzino, abbiamo notizie che vengono riprese senza alcun potere critico da parte della stampa, ad esempio quella sui terroristi che arrivano sui barconi dei migranti in Sicilia. Veicolare questa informazione interessa alla politica: possibile che non ci sia nessun giornalista che scriva che questa cosa non sta né in cielo né in terra?…» Questa è la sintesi del discorso di Spataro. Non mi è mai capitato di parlare bene di Spataro…Però questi suoi ragionamenti, se fossero ripresi da qualche altro Pm, potrebbero essere un punto di partenza per una discussione seria, no? Del resto sono convinto che la possibilità di fermare l’aggressività politica della magistratura (e del patto di ferro tra magistratura e giornalismo) , oggi esiste solo se la critica parte dall’interno della magistratura.

Gherardo Colombo: "Io, magistrato pentito, non credo più nella punizione". Il modello possibile della giustizia riparativa. Rispetto a un sistema che non riconosce le vittime e che crea solo inutile sofferenza. Rendendo più insicura la società. Ma i politici hanno un solo cruccio: aumentare le pene. Come nel caso - "fuori luogo" - dell'omicidio stradale. Parla il grande giudice e pm, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Gherardo Colombo: «Questa donna ha ragione. E va ascoltata. Perché se oggi il carcere svolge una funzione, è la vendetta». Prima giudice, poi pubblico ministero in inchieste che hanno fatto la storia d’Italia come la Loggia P2 o Mani Pulite, Gherardo Colombo ha messo profondamente in discussione le sue idee: «Ero uno che le mandava le persone in prigione, convinto fosse utile. Ma da almeno quindici anni ho iniziato un percorso che mi porta a ritenere errata quella convinzione».

Da uomo di legge, la sua è una posizione tanto netta quanto sorprendente.

«È concreta. I penitenziari sono inefficaci, se non dannosi per la società. Anziché aumentare la sicurezza, la diminuiscono, restituendo uomini più fragili o più pericolosi, privando le persone della libertà senza dare loro quella possibilità di recupero sancita dalla Costituzione. Esistono esempi positivi, come il reparto “La Nave” per i tossicodipendenti a San Vittore, o il carcere di Bollate, ma sono minimi».

Molti dati mostrano la debolezza della rieducazione nei nostri penitenziari. Ma perché parlare addirittura di vendetta?

«Credo sia così. Pensiamo alle vittime: cosa riconosce la giustizia italiana alla vittima di un reato? Nulla. Niente; se vuole un risarcimento deve pagarsi l’avvocato. Così non gli resta che una sola compensazione: la vendetta, sapere che chi ha offeso sta soffrendo. La nostra è infatti una giustizia retributiva: che retribuisce cioè chi ha subito il danno con la sofferenza di chi gli ha fatto male».

Esistono esperienze alternative?

«Sì. In molti Paesi europei sono sperimentate da tempo le strade della “giustizia riparativa”, che cerca di compensare la vittima e far assumere al condannato la piena responsabilità del proprio gesto. Sono percorsi difficili, spesso più duri dei pomeriggi in cella. Ma dai risultati molto positivi».

Se questa possibilità è tracciata in Europa, perché un governo come quello attuale, così impegnato nelle riforme, non guarda anche alle carceri?

«Nei discorsi ufficiali sono tutti impegnati piuttosto ad aumentare le pene, a sostenere “condanne esemplari”, come sta succedendo per la legge sull’omicidio stradale - una prospettiva che trovo quasi fuori luogo: quale effetto deterrente avrebbe su un delitto colposo? Ma al di là del caso particolare, il problema è che i politici rispondono alla cultura dei loro elettori. Il pensiero comune è che al reato debba corrispondere una punizione, che è giusto consista nella sofferenza. Me ne accorgo quando parlo nelle scuole del mio libro, “Il perdono responsabile”: l’idea per cui chi ha sbagliato deve pagare è un assioma granitico, che solo attraverso un dialogo approfondito i ragazzi, al contrario di tanti adulti, riescono a superare. D’altronde il carcere è una risposta alla paura, e la paura è irrazionale, per cui è difficile discuterne».

È una paura comprensibile, però. Parliamo di persone che hanno rubato, spacciato, ucciso, corrotto.

«Ovviamente chi è pericoloso deve stare da un’altra parte, nel rispetto delle condizioni di dignità spesso disattese nei nostri penitenziari. Ma solo chi è pericoloso. Ed è invece necessario pensare fin da subito, per tutti, alla riabilitazione. Anche perché queste persone, scontata la condanna, torneranno all’interno di quella società che li respinge».

Luigi Manconi: "Aboliamo il carcere". Inefficace, costoso e violento. Per questo il sistema penitenziario va cambiato. Le proposte in un libro appena uscito, continua Francesca Sironi. Primo: il carcere È inutile, perché sette detenuti su dieci tornano a compiere reati. Secondo: le galere non esistono da sempre. Terzo: le celle sono violente. Cambiare l’esecuzione della pena in Italia è l’obiettivo di un libro implacabile scritto da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, appena pubblicato da Chiarelettere con il titolo: «Abolire il carcere, una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini». Il volume raccoglie dati, storie e notizie su torture, recidiva, costi assurdi, sbagli e omissioni di un sistema che restituisce alla collettività criminali peggiori di quelli che aveva rinchiuso. Da questa analisi, scrive Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, emerge come «la pena si mostri in carcere nella sua essenzialità quale vera e propria vendetta. E in quanto tale priva di qualunque effetto razionale e totalmente estranea a quel fine che la Costituzione indica nella rieducazione del condannato». Per questo gli autori propongono dieci riforme possibili. A partire dall’idea che «il carcere da regola dovrebbe diventare eccezione, extrema ratio», come sostiene il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky nella postfazione.

E l'ex procuratore disse: "Basta con la gogna". Piero Tony, per 45 anni magistrato (e dichiaratamente di sinistra), scrive un libro che è un durissimo j’accuse contro il populismo giudiziario, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. «Non ce la facevo più. Non potevo andare avanti in un mondo divenuto surreale, dove ogni giorno vedevo cose che non avrei mai voluto vedere. Così nel luglio 2014 ho preferito andarmene, a 73 anni, due in anticipo sulla pensione. E ora lancio questo tricche-tracche, un mortaretto in piccionaia». Sorride, Piero Tony. Ma non è un sorriso rassicurante. Per 45 anni magistrato, da ultimo procuratore della Repubblica a Prato, Tony ha appena pubblicato un libro, Io non posso tacere (Einaudi, 125 pagine, 16 euro) e non è affatto un mortaretto: anzi, è una bomba atomica. Che in nome di un ineccepibile garantismo devasta, spiana, annienta tutte le parole d’ordine del populismo giudiziario. È tanto più potente, la bomba, in quanto a lanciarla è un serissimo, autorevolissimo ex procuratore che per di più è stato a volte definito «uomo di sinistra estrema»: per intenderci, uno che nei primi anni Ottanta s’è iscritto a Magistratura democratica e non ne è mai uscito.

Qualche frase del libro?

«È ovvio che molti magistrati giochino spesso con i giornalisti amici per amplificare gli effetti del processo: purtroppo, quando un pm è politicizzato, può utilizzare questo strumento in maniera anomala. Funziona così, negarlo sarebbe ipocrisia».

Ancora?

«Con la Legge Severino la politica ha delegato all’autorità giudiziaria il compito, anche retroattivamente, di decidere chi è candidabile e chi no a un’elezione». Continuiamo? «L’obbligatorietà dell’azione penale è una simpatica barzelletta». Non vi basta? «Spesso si sceglie di mandare in gattabuia qualcuno, evitando altre misure cautelari, per far sì che paghi comunque e a prescindere».

Dottor Tony, lei lo sa che non gliela perdoneranno, vero?

«Il libro è intenzionalmente provocatorio. Perché vorrei sollecitare la discussione su una situazione che con tanti altri ritengo insostenibile, ma di cui si parla solo in certe paraconventicole. Nei miei 45 anni di professione ho visto una giustizia che è andata sempre più peggiorando: mi riferisco ai frequenti eccessi di custodia cautelare, ai rapporti troppo familiari tra alcuni pm e i mass media, e alla conseguente gogna, sempre più diffusa e intollerabile».

Lo sa che rischia attacchi feroci, vero?

«Amo troppo la magistratura per avere paura di rischiare. E poi  qualcuno deve pur dirlo che non è accettabile quella parte della giustizia che opera disinvoltamente rinvii di anni; che spiffera ai quattro venti le intercettazioni; che pubblica atti e carte in barba a tutti i divieti; che lancia inchieste fini a se stesse, che partono in quarta per poi sgonfiarsi; che anticipa le pene con misure cautelari «mediatizzate»».

Lei scrive che le correnti sono come partiti, e che «nel Csm si fa carriera soprattutto per meriti politici». Ma si rende conto di quel che rischia?

«Certo che me ne rendo conto, ma è così: le correnti oggi non sono lontane dalla compromissione politica. Sarebbe molto meglio che i membri togati del Csm fossero scelti per sorteggio. Qui ormai si fa carriera quasi solo con l’appartenenza, con criteri di parte. Io non riesco a criticare chi sostiene che con una magistratura così esista il rischio che le sentenze abbiano una venatura politica. Ed è un dramma, negarlo sarebbe follia».

Lo dice lei, per una vita iscritto a Magistratura democratica?

«Nei primi anni Ottanta, almeno lì dentro, si respirava garantismo. Ahimé durò poco: oggi non faccio fatica a dire, purtroppo, che il garantismo è estraneo anche a Md. Perché garantismo e sospetti non sono compatibili. E nemmeno Md sa rinunciare al sospetto».

Il sospetto: è il tema tipico del concorso esterno in associazione mafiosa. Lei ne scrive che è «uno degli obbrobri del nostro sistema giudiziario».

«Peggio. Non è nel nostro sistema normativo: e fino a quando non interverrà il legislatore, come auspicato da tutti, è un vero mostro giuridico. Sono sicuro che se invece che a Zara fossi nato a Napoli, dove da giovane vissi per qualche anno, avrei corso il rischio di finire in una foto con un criminale. Ma un po’ per dolo, un po’ per sciatteria, in certe Procure c’è chi si accontenta di qualche prova anche rarefatta per accusare e per avviare un processo».

La Corte di Strasburgo ha da poco stabilito che Bruno Contrada fu condannato indebitamente per concorso esterno. Che ne dice?

«Non ho letto gli atti del suo processo, ma è notorio che negli anni Cinquanta e Sessanta il capo di una Squadra mobile aveva rapporti ambigui, spesso pericolosamente diretti e negoziatori, con la criminalità: rapporti che non di rado si prestavano a essere, quantomeno formalmente, d’interesse penale. Oggi Strasburgo ci fa fare un passo avanti nella civiltà giuridica: s’invoca il principio della irretroattività, nessuno può essere condannato per fatti compiuti prima che siano considerati reato. In questo caso, visto che il reato colpevolmente non è mai stato tipizzato dal legislatore, si dice che Contrada non poteva essere condannato per fatti compiuti prima che la Cassazione avesse stabilito bene che cosa fosse il concorso esterno, nel 1994».

Passiamo alle intercettazioni?

«Temo che restrizioni della nostra privacy saranno sempre più necessarie: non se ne può fare a meno, in una società atomizzata e nel contempo globalizzata. Ma è l’applicazione mediatica delle intercettazioni che in Italia è vergognosa, così come leggere sui giornali la frase di due  intercettati che dicono, per esempio: «Il tal sottosegretario ha strane abitudini sessuali». E quello non c’entra nulla con le indagini. È ciò che io chiamo «il bignè»».

Il bignè?

«Ma sì: l’ottimo bignè con la crema, regalato da certi pm ai giornalisti. E più sono i bignè offerti, più saranno i titoli sui giornali: quindi l’inchiesta sarà apprezzata dall’opinione pubblica, il pm diventerà famoso e l’indagato, o chiunque sia coinvolto, verrà seppellito dal fango. Non si può vivere in questo modo. La dignità umana è un diritto fondamentale, forse il primo».

Ha visto che ora alcuni suoi colleghi, da Edmondo Bruti Liberati a Giuseppe Pignatone, propongono una «stretta» nell’utilizzo delle intercettazioni?

«È sempre inutile aumentare le pene, visto che si delinque con la convinzione di farla franca, e vista anche la diffusa mancanza d’effettività della pena».

Qual è la sua soluzione, allora?

«Quando arrivai a Prato, nel 2006, prescrissi, anzi pregai i miei sostituti di fare un «riassunto» delle intercettazioni per qualsiasi richiesta di provvedimento, evitando ogni inserimento testuale delle trascrizioni. È il riassunto la soluzione: così i terzi indebitamente coinvolti restano automaticamente protetti, e nessuno, per restare all’esempio, conoscerà mai le «strane abitudini sessuali» del sottosegretario. Il fatto è che così il pm dovrebbe fare più fatica. Quindi preferisce il maledetto taglia-e-incolla. A parte i miei sostituti pratesi, ovviamente… E troppo spesso il taglia-e-incolla si trasforma in un ferro incandescente».

Ma è soltanto sciatteria?

«In genere sì. Solo le mele marce lo fanno con intenti sanzionatori o per motivi loro, che nulla hanno a che fare con la Giustizia, quella con la g maiuscola».

Cambierà qualcosa con la nuova responsabilità civile dei magistrati?

«La levata di scudi della categoria contro la riforma, in febbraio, è stata penosa. Sostenere che ora tutti i magistrati avranno paura d’incorrere in decurtazioni di stipendio, e per questo non lavoreranno più come una volta, è assurdo. Paralizzante sarebbe quindi il pericolo di una riduzione dello stipendio, e non piuttosto quello di danneggiare illegalmente un indagato, per dolo o per colpa grave? Ma di che cosa parlano?»

Che cosa si aspetta, ora che il suo libro è uscito?

«Spero che se ne discuta serenamente. Temo una sola cosa: l’incatalogabilità».

Cioè?

«Purtroppo, prima di elaborare un giudizio, sempre più ci si chiede: ma è un discorso di destra o di sinistra? E quello che ho scritto sicuramente non è allineato, anzi è eretico da qualsiasi parte lo si guardi. Ecco, in molti potrebbero avere paura di dare un giudizio perché, da destra come da sinistra, non riusciranno a catalogarmi. Io mi sono sempre ritenuto, e sono sempre stato ritenuto, di sinistra; anzi, sono praticamente «certificato» come tale. Questo non m’impedisce di pensare tutto quel che ho scritto, che è poi alla base delle garanzie della persona, dell’individuo. E non sono il solo».

Resta il fatto che il «populismo giudiziario», che lei avversa, oggi stia soprattutto a sinistra. O no?

«È di destra o di sinistra pensare che nessuna ragione al mondo può giustificare il sacrificio di diritti fondamentali di una persona, se non nei limiti stabiliti dalla legge democratica? È per questo che chi crede davvero nella civiltà giuridica non può accettare le troppe disfunzioni della giustizia italiana. Ed è per questo che io non potevo più tacere».

Soro, Garante della privacy: «Stop ai processi mediatici, ne va della vita delle persone», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. C’è una parola che Antonello Soro non si stanca di ripetere: «Dignità». A un certo punto tocca chiedergli: presidente, ma com’è possibile che non riusciamo a tenercela stretta, la dignità? Che abbiamo ridotto il processo penale a un rodeo in cui la persona è continuamente sbalzata per aria? E lui, che presiede l’Autorità garante della Privacy, può rispondere solo in un modo: siete pregati di scendere dalla giostra. La giostra del processo mediatico, s’intende. «È una degenerazione del sistema che può essere fermata in un modo: se ciascuna delle parti, stampa, magistrati, avvocati, evita di dare un’interpretazione un po’ radicale delle proprie funzioni. C’è un nuovo integralismo, attorno al processo, da cui bisogna affrancarsi. Anche perché la giustizia propriamente intesa si fonda sulla presunzione d’innocenza. Quella mediatica ha come stella polare la presunzione di colpevolezza».

Senta presidente Soro, ma non è che il processo mediatico è una droga di cui non possiamo più fare a meno, magari anche per alleviare i disagi di una condizione generale del Paese ancora non del tutto risollevata?

«Non credo che per spiegare le esasperazioni dell’incrocio tra media e giustizia sia necessario arrivare a una lettura del genere. Siamo in una fase, che ormai dura da molto, in cui prevale un nuovo integralismo, anche rispetto alla preminenza che ciascuno attribuisce al proprio ruolo. Succede in tutti gli ambiti, compreso quello giudiziario. Ciascuna delle parti si mostra poco disponibile ad affrontare le criticità del fenomeno che chiamiamo processo mediatico».

Be’, lei descrive una tendenza che brutalmente potremmo definire isteria forcaiola.

«È il risultato di atteggiamenti – che pure non rappresentano la norma – sviluppatisi tra i giornalisti e anche tra i magistrati, persino tra gli avvocati. Ciascuna di queste componenti finisce in alcuni casi per deformare la propria missione. Il tema è sicuramente complesso, io mi permetto sempre di suggerire che si lascino da parte i toni ultimativi, quando si affronta la questione. Lo sforzo che va fatto è proprio quello di trattenersi dall’esaltare la propria indispensabile funzione. Esaltare la propria si traduce fatalmente nel trascurare la funzione degli altri».

È una situazione di squilibrio in cui parecchi sembrano trovarsi a loro agio, tanto da difenderla. È il caso delle intercettazioni.

«Nessuna persona ragionevole può mettere in discussione l’utilità delle intercettazioni e il diritto dei cittadini all’informazione. Due elementi di rango differente ma ugualmente imprescindibili. Nessuno pensa di rinunciare né alle intercettazioni né all’informazione. Si tratta di valutare con il giusto spirito critico la funzione di entrambe».

E non dovrebbe volerci uno sforzo così grande, no?

«No. Però cosa abbiamo davanti? Paginate intere di intercettazioni, avvisi di garanzia anticipati ai giornali, interrogatori di indagati in stato detentivo di cui apprendiamo integralmente il contenuto, immagini di imputati in manette, processi che sembrano celebrarsi sui giornali più che nelle aule giudiziarie. E in più c’è una variabile moltiplicatrice».

Quale?

«La rete. E’ un tema tutt’altro che secondario. La diffusione in rete delle informazioni e della produzione giornalistica non è neppure specificamente disciplinata dal codice deontologico dei giornalisti, che risale al 1998, quando il peso oggi acquisito dal web non era ancora stimabile».

Qual è l’aspetto più pericoloso, da questo punto di vista?

«Basta riflettere su una differenza, quella tra archivi cartacei e risorse della rete. Su quest’ultima la notizia diviene eterna, non ha limiti temporali, ha la forza di produrre condizionamenti irreparabili nella vita delle persone».

La gogna della rete costituisce insomma un fine pena mai a prescindere da come finisce un processo.

«È uno degli aspetti che contribuiscono a rendere molto complesso il fenomeno dei processi mediatici. Tutto può essere riequilibrato, ma ora vedo scarsa attenzione per tutto quanto riguardi il bilanciamento tra i diritti fondamentali in gioco. Un bilanciamento che invece ritengo indispensabile quando riguarda la dignità delle persone».

È un principio di civiltà così elementare, presidente, che il fatto stesso di doverlo invocare fa venire i brividi. Di paura.

«Nel nostro sistema giuridico anche chi è condannato deve veder riconosciuta la propria dignità. Basterebbe recuperare questo principio. Che nella nostra Costituzione è centrale. Una comunità che rinuncia a questo presidio di civiltà ha qualche problema».

Com’è possibile che abbiamo rinunciato?

«Ripeto: stiamo dicendo per caso che dobbiamo eliminare l’uso delle tecnologie più sofisticate nelle indagini? No. Si pretende di negare il diritto all’informazione? Neppure. Si dovrebbe solo coniugare questi aspetti con la dignità delle persone, anche con riguardo alla loro vita privata. La privacy non è un lusso. Il fondamento della privacy è sempre la dignità della persona».

Se si prova a toccare le intercettazioni parte subito la retorica del bavaglio.

«Al giudice, in una prima fase, spetta la decisione sull’acquisizione delle intercettazioni rilevanti ai fini del procedimento, mentre al giornalista spetta, in seconda battuta, la scelta di quelle da pubblicare perché di interesse pubblico. Non è detto che il giornalista debba pubblicare tutti gli atti che ha raccolto compresi quelli irrilevanti ai fini del processo».

Spesso quelli irrilevanti sul piano penale sono i più succosi da servire al lettore.

«Guardi, è plausibile che alcune intercettazioni contengano elementi utili per la ricostruzione dei fatti penalmente rilevanti anche se non riguardano la persona indagata. Può avere senso che elementi del genere vengano resi pubblici. Ma altri che non hanno utilità ai fini del processo andrebbero vagliati con particolare rigore in funzione di un vero interesse pubblico. Prescinderei dai singoli episodi. Ma ricorderei due princìpi abbastanza trascurati. Da una parte, la conoscenza anche di un dettaglio della vita privata di un personaggio che riveste funzioni pubbliche può essere opportuna, se quel fatto rischia di condizionarne l’esercizio della funzione. È giusto che il cittadino conosca cose del genere».

Ad esempio, il fatto che Berlusconi ospitasse a casa sua molte giovani donne, alcune delle quali erano prostitute e lui neppure lo sapeva.

«Sì, però poi i dettagli sulle attività erotiche di un leader politico, tanto per dire, possono alimentare curiosità, ma è difficile riconoscerne il senso, in termini di diritto all’informazione. In altre parole: può essere utile sapere che quel leader, in momenti in cui esercita la propria funzione pubblica, compie atti che, ad esempio, lo espongono al ricatto; ma riportare atti giudiziari che entrano morbosamente nel dettaglio, diciamo così, va al di là di quell’informazione utile di cui sopra. A meno che non riferiscano comportamenti che costituiscono reato».

Negli ultimi anni l’inopportunità di certe divulgazioni spesso è emersa quand’era troppo tardi.

«E in proposito mi preoccupa ancor di più il dramma vissuto da privati cittadini casualmente intercettati ed esposti a una gogna molto pesante. E la gogna mediatica è una pena inappellabile, a prescindere da come finisce in tribunale. Ho segnalato più volte la situazione del cittadino Massimo Bossetti. Nel suo caso sono stati divulgati i dati genetici di tutta famiglia, i comportamenti del figlio minore e di tutti familiari, fino al filmato dell’arresto, all’ audio dell’interrogatorio e al colloquio con la moglie in carcere: tutto questo contrasta la legge sul diritto alla riservatezza. Che rappresenta una garanzia per i cittadini e che però viene travolta da una furia iconoclasta, funzionale al processo mediatico. Nel processo propriamente inteso vige la presunzione di innocenza, in quello mediatico si impone la presunzione di colpevolezza».

Come se ne esce?

«Tutti, magistrati, giornalisti, avvocati, cittadini, debbono cercare il punto di equilibrio più alto. E smetterla di pensare che qualche diritto debba essere cancellato. Anche perché oltre alla dignità delle persone è in gioco anche la terzietà del giudice».

Cosa intende?

«Chi siede in una Corte viene ‘inondato’ da una valanga di informazioni dei media che finiscono per costruire un senso comune. In un ordinamento in cui esistono anche i giudici popolari c’è il rischio che questi non formino la loro convinzione in base alla lettura degli atti ma in base al processo mediatico, che ha deciso la condanna molto tempo prima, e non nella sede dovuta. Intercettazioni, atti e immagini divulgati dai media, non solo costituiscono uno stigma perenne per la persona, ma rischiano di condizionare anche l’esercizio della giurisdizione in condizioni di terzietà».

Ma non è che i magistrati alla fine spingono il processo mediatico perché pensano di acquisire in quel modo maggiore consenso?

«Guardi, quando un singolo magistrato ricerca il consenso può casomai far calare un po’ il consenso dell’intera magistratura. E questo lo hanno affermato negli ultimi tempi autorevoli magistrati, che hanno usato parole molto eloquenti nel criticare gli abusi di singoli colleghi. Mi riferisco in particolare al procuratore capo di Torino Armando Spataro quando dice che durante Mani pulite, per esempio, alcuni magistrati sembravano più preoccupati della formazione della notizia da prima pagina che della conclusione del processo. Ecco, la legittimazione che ha il magistrato viene messa in discussione proprio da quei comportamenti impropri. La ricerca del consenso non è propria della funzione del magistrato. Chi ha da decidere della giustizia ha un compito che da solo gratifica e impegna la vita. Io ho una grandissima considerazione di questo compito e credo vada preservato».

Nordio agita i colleghi in toga: "Niente multe, via i pm scarsi". Il procuratore di Venezia critica la scelta del governo sulla responsabilità civile: "Inutile, paga l'assicurazione", scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. I magistrati hanno una gran fretta: per denunciare davanti alla Consulta l'incostituzionalità della legge sulla responsabilità civile, varata solo a febbraio, non hanno aspettato che un cittadino chiedesse i danni a uno di loro. Hanno giocato d'anticipo. Per il giudice civile Massimo Vaccari del tribunale di Verona basta il timore di un giudizio di responsabilità per condizionare l'autonomia e l'indipendenza della toga, ledere i suoi diritti e privarla della necessaria serenità nel suo lavoro. Così, il 12 maggio ha inviato alla Corte costituzionale 17 pagine di ricorso, che sostengono contrasti con diversi articoli della Carta. La notizia arriva proprio mentre il Matteo Renzi ricorda su Twitter l'anniversario della morte di Enzo Tortora, sottolineando che da allora, e grazie a lui, le cose sono cambiate. «Ventisette anni dopo la morte di Tortora - scrive il premier-, abbiamo la legge sulla responsabilità civile dei giudici e una normativa diversa sulla custodia cautelare #lavoltabuona». Nella stessa giornata e proprio partendo dal tempestivo ricorso del giudice veronese, su Il Messaggero il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio firma un editoriale che certo non farà piacere ai suoi colleghi. Basta il titolo: «Il magistrato che sbaglia va rimosso più che multato». Mentre le toghe, con l'Anm in testa, protestano aspramente per la legge, minacciano lo sciopero e si organizzano perché la Consulta la faccia a pezzi, Nordio sostiene dunque che le nuove norme sono troppo deboli e non risolvono i problemi, cioè le cause degli errori giudiziari: dall'«irresponsabile potere dei pm» a quello dei giudici di «riprocessare e condannare un cittadino assolto», con una «catena di sentenze». Il magistrato accusa governo e Parlamento di aver «risposto in modo emotivo» alle richieste dell'opinione pubblica, puntando sull'«effetto intimidatorio delle sanzioni, privilegiando peraltro quelle pecuniarie». Così, per Nordio, hanno fatto «una scelta inutile, perché ci penserà l'assicurazione; e irragionevole, perché la toga inetta o ignorante non va multata, va destituita». Denunciando davanti all'Alta corte, sostiene il pm, «la parte più ambigua della legge, quella che consente, o pare consentire, di far causa allo Stato prima che la causa sia definitivamente conclusa», paralizzando i processi, se ne otterrà forse una parziale abrogazione. E «i magistrati impreparati o inetti tireranno un sospiro di sollievo». Vedremo se andrà proprio così. Intanto, il ricorso a bocce ferme del giudice veronese deve superare il giudizio di ammissibilità. Vaccari cita un precedente simile contro la legge del 1989, ma non è affatto detto che riesca nel suo intento. I magistrati, però, si sono organizzati da un pezzo per ricorsi singoli o collettivi e, se questo verrà bloccato, di certo alla Consulta ne arriveranno molti altri. L'ultima parola sarà anche stavolta dei giudici costituzionali.

Eppure, ciononostante succede questo!

Quel pomeriggio del 23 maggio del 1992 ero al lavoro come sostituto alla Procura di Palermo e mi stavo occupando di un sequestro di persona. Mi chiamò molte volte la squadra mobile di Palermo, per motivi di lavoro. E quando squillò ancora una volta il telefono ero convinto si trattasse di una nuova comunicazione della Questura. E invece gli stessi funzionari con cui ero in contatto, mi avvisavano di un grave fatto accaduto, di cui non si conoscevano ancora i dettagli”. Alfredo Morvillo, procuratore della Repubblica di Termini Imerese e fratello di Francesca Morvillo, moglie del giudice Giovanni Falcone anch’essa uccisa a Capaci, racconta a “Voci del mattino”, Radio 1, i drammatici momenti in cui apprese della strage. “Quando si è in prima linea come lo era Giovanni, ci si abitua a convivere con una certa tensione e si ci concentra unicamente sul lavoro. – aggiunge – Giovanni non sottovalutava i rischi cui andava incontro, ma da quando era Direttore al Ministero di Grazia e Giustizia, a Roma, aveva un po’ allentato l’attenzione sulla sicurezza, tanto è vero che qualche volta capitava di andare da soli, senza scorta, a fare due passi o al ristorante”. “È noto a tutti – continua – che Falcone avesse maturato rapporti difficili con taluni ambienti giudiziari e gli ostacoli incontrati lo avevano convinto a spostarsi a Roma, al Ministero. Alcuni, ben individuati colleghi, lungi dal riconoscere a Giovanni la sua grande capacità analitica e investigativa, non convinti del lavoro di squadra, lo ostacolarono in tutti i modi. Arrivarono anche a prenderlo in giro dicendo che, dopo la Procura Nazionale Antimafia, il suo obiettivo era creare la ‘Procura planetaria’. In conclusione, all’interno del tribunale vi era una parte di colleghi che sicuramente non lo amava”. Per Morvillo inoltre “se si voleva eliminare soltanto Falcone, non serviva mettere in piedi un progetto criminale così clamoroso, con il rischio di uccidere decine di persone. Giovanni, come dicevo, a Roma aveva un po’ allentato le misure di sicurezza, pertanto ucciderlo lì non sarebbe stato affatto impossibile. Bastava pedinarlo mezza giornata e poi colpire. Chi ha ucciso Falcone voleva che questo atto avesse una chiara, inequivocabile impronta mafiosa; quindi, fatto a Palermo, con metodi mafiosi, in modo che per tutti fosse evidente che era stata la mafia e che non si potesse pensare ad altro”.

Magistrati e mafia...

Zamparini il 21 maggio 2015 all’Università. «La mafia? A volte penso sia stata inventata per dare uno stipendio a quelli che fanno antimafia... Io in Sicilia non ho mai trovato alcun impedimento. Le cose si possono fare anche qui. Mi sento inattaccabile, non sono corrotto e non ho mai corrotto nessuno -ha detto il presidente del Palermo, Maurizio Zamparini, durante un incontro con gli studenti dell’Università del capoluogo presso l’Aula Magna della Scuola Politecnica - La politica rappresentativa non esiste più, non esistono più i partiti. Ci hanno preso per il naso per cinquant’anni, io non sono ne’ di destra ne’ di sinistra. Farei premier papa Francesco, che è un dono del cielo. Io sono nato cattolico ma penso che tutte le religioni, dal Buddhismo all’Islam, sono buone se parlano d’amore», ha aggiunto Zamparini.

Magistrati ed espropri...

«Siamo in presenza di un esproprio di un'azienda da parte della magistratura, senza che la proprietà sia stata consultata e sia potuta intervenire. Da sostenitore della libera impresa, io non sono d'accordo». Queste le parole sull'Ilva del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi a margine dell'assemblea annuale di Federacciai il 22 maggio 2015. «E' irrazionale e incomprensibile quanto è accaduto all'Ilva – ha detto Squinzi – nell'economia reale di un paese a forte specializzazione industriale la presenza di una solida produzione siderurgica è essenziale per rifornire il mercato interno e rispondere con i fatti ad una pretesa di marginalizzazione del nostro Paese nei nuovi assetti di un'economia sempre più globalizzata». Giudizio condiviso dal presidente di Federacciai Antonio Gozzi: «Abbiamo combattuto con forza fin dall'inizio la scelta dei commissariamenti - ha detto -, decisione che si è trasformata in un esproprio senza indennizzo» ai danni della proprietà Riva. “Sono da sempre stato contrario ai commissariamenti”, ha attaccato Gozzi. “Personalmente li considero un esproprio senza indennizzo. Credo che quella dell’Ilva di Taranto sia una macchia sulla reputazione del Paese“. Definizione, quella di “esproprio”, ripetuta poco dopo dal presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, che ha anche bollato come “irrazionale e incomprensibile” quanto accaduto all’Ilva. Ma l’amministratore delegato di Duferco non si è fermato qui e ha rincarato la dose affermando che “questo vulnus alla proprietà dell’azienda non ha portato risultati né sul fronte ambientale, né su quello industriale. Anzi. L’azienda versa in condizioni preoccupanti dal punto di vista produttivo e finanziario”. Secondo Gozzi “bisogna uscire da questa storia prima che sia troppo tardi, altrimenti si arriva a un punto di non ritorno”, ma “c’è poco tempo” perché il patrimonio iniziale di 2,5 miliardi dell’Ilva è “azzerato” dopo due anni di gestione commissariale: “Un tentativo disperato di fare cassa che ha portato a condotte commerciale che hanno provocato gravi perturbazioni sul mercato”.

Magistrati ed espropri mafiosi...

"Il tribunale di Palermo da pochi mesi ha una sezione dedicata alle misure di prevenzione. Palermo è una sezione speciale per la quantità di beni sequestrati: ne ha quasi la metà del resto di tutta l'Italia". Lo ha detto il magistrato Silvana Saguto e riferito dall’Ansa, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, nel corso dell'audizione, davanti alla Commissione Antimafia, che rientra nel filone d'inchiesta sui beni confiscati e per un approfondimento sulla vicenda Italgas e Gas Natural Italia Spa attualmente in amministrazione giudiziaria disposta dal tribunale di Palermo. "Il fenomeno mafioso in Sicilia - ha detto Saguto - non è più vasto rispetto ad altre località ma è molto più seguito e ha dato molti più risultati grazie all'azione di prevenzione. Il problema è la gestione delle imprese, mantenere vive le imprese, continuare a gestirle nel corso degli anni, a volte numerosi. Sono molte le difficoltà nel dover convertire una impresa che nasce "viziata", in settori che vanno dall' edilizia alla gestione dei servizi, con tutte le ricadute che questo comporta". Saguto ha riferito che la magistratura ha saputo dal pentito Angelo Siino di un "tavolo per la gestione degli appalti", che si stava spostando a livello nazionale, con la possibilità di gestire l'assegnazione delle varie gare pubbliche: "questo è tutt'ora il problema”.

Mafia:beni confiscati, Mattiello, puntata Iene impone reazione. Relatore riforma,auspicabile censura sul piano dell'opportunità, scrive l’Ansa”. La puntata delle Iene sulla gestione delle misure di prevenzione a Palermo "impone una reazione". A sostenerlo è il deputato Pd Davide Mattiello, componente delle Commissioni Giustizia e Antimafia e relatore della riforma del Codice antimafia che riguarda le misure di prevenzione. "La Commissione Antimafia - dice Mattiello - ha avuto modo in più di una occasione di approfondire la situazione". E' stato infatti audito in vari momenti sia l'avvocato Cappellano Seminara, sia la presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo Silvana Saguto e sono stati acquisiti gli atti relativi agli affidamenti giudiziari. "Io stesso nell'ultima audizione della presidente Saguto, avvenuta il 28 Aprile - ricorda Mattiello - ho posto esplicitamente la questione del conflitto di interessi e della concentrazione degli incarichi. Per quel che mi risulta, la magistratura non ha ritenuto fino a qui di rilevare alcuna ipotesi di reato, tuttavia credo sia auspicabile una censura sul piano della opportunità di simili comportamenti, pur considerando l'enorme mole di lavoro svolto dal Tribunale misure di prevenzione di Palermo, che da solo gestisce circa il 45% del totale dei sequestri in Italia. Della censura di inopportunità è senz'altro titolare la Commissione Antimafia e trovo una sintonia tra questo mio auspicio e le coraggiose parole della presidente Bindi sul tema delle candidature "imbarazzanti": la qualità dello Stato non viene minata soltanto dalle condotte che costituiscono reati, ma anche da quelle condotte che alimentano la diffidenza dei cittadini". In questi giorni a Palermo si sta svolgendo un convegno promosso dal prof. Costantino Visconti: "spero che possa essere una occasione per prendere posizione. Sarà sicuramente una posizione autorevole", conclude Mattiello.

Il miracolo delle aziende sequestrate alla Mafia. Così si crea lavoro danneggiando i clan. Tremila dipendenti, nuovi assunti e bilanci in attivo. Le imprese sottratte ai clan e ai corrotti nella Capitale non falliscono come nel resto del Paese. Un esempio da esportare e da valorizzare che il governo ignora, scrive Giovanni Tizian su “L’espresso”. L’Espresso è notoriamente uno sponsor di Libera, l’associazione di sinistra filo magistrati condotta da Don Ciotti. Libera che ha il monopolio dell’associazionismo antimafia in mano alla CGIL. "L'hotel sequestrato alla 'ndrangheta al Gianicolo Tra i tavoli di Pizza Ciro non si respira più aria di camorra e gli affari vanno comunque bene, anche senza i quattrini del clan. Un caso isolato? Al Gianicolo il grand hotel costruito dalla 'ndrangheta in un ex convento di suore, pagato 13 miliardi di vecchie lire, è oggi un'eccellenza nel panorama spesso desolante dei beni sequestrati alle mafie. L'albergo macina utili, ha messo in regola i giovani dipendenti ben prima dell'entrata in vigore del job acts e il ristorante ha ottenuto una paginetta nella mitica guida Michelin. Anche la catena Pizza Ciro ha aumentato i dipendenti da quando lo Stato ha messo alla porta i camorristi. E poi c'è la coop rossa di Mafia Capitale, quella del braccio destro di Massimo Carminati, Salvatore Buzzi. La cooperativa dopo la retata è passata di mano ed è finita in custodia di amministratori giudiziari scelti dal tribunale di Roma. E i molti che avevano scomesso sul fallimento dell'azienda che con Buzzi fatturava 60 milioni di euro si sono dovuti ricredere. La coop 29 giugno, infatti, con i dirigenti nominati dai magistrati continua a vincere appalti garantendo così occupazione a 1.300 persone. Una scommessa vinta dal tribunale di Roma e soprattutto dalla sezione misure di prevenzione guidata da un giudice, Guglielmo Montoni, di grande esperienza nella lotta ai clan della Capitale. Quest'ufficio si è trovato a gestire la più grande azienda di Roma, prendendo in carico tutti quei lavoratori della imprese sotto sequestro. In tutto 3 mila dipendenti, paragonabile a un grosso stabilimento Fiat del Sud Italia. Ma il dato incredibile, e in controtendenza rispetto alla malagestione italiana delle società sequestrate, è che i ristoranti, le imprese edili, le cooperative gestite dagli amministratori del tribunale di Roma creano occupazione. Un'inchiesta dei quotidiani locali del Gruppo Espresso mette in luce dove crescono e quante sono le proprietà che le istituzioni strappano alla criminalità organizzata. Ma in alcuni casi, dopo la confisca, le aziende falliscono o i beni non vengono gestiti con attenzione. Sono circa una trentina i nuovi contratti stipulati. Camerieri, direttori di sala, muratori. Delle 250 società sotto controllo del tribunale di piazzale Clodio solo dieci sono a rischio chiusura, le altre navigano in buone acque e alcune hanno persino aumentato gli utili del 35 per cento rispetto al periodo in cui i capi clan erano padroni. Una sfida difficile, piena di insidie, su cui pesa un trend nazionale negativo: nel 90 per cento dei casi le imprese passate in mano allo Stato sono destinate al fallimento. Il crollo di clienti e fatturato è un fatto fisiologico. I fornitori complici dei boss svaniscono, ma soprattutto aumentano i costi, perché quando si subentra alla mafia tante spese che prima non venivano neppure prese in considerazione iniziano a pesare sui conti. Gli imprenditori mafiosi infatti molte regole non le rispettavano e perciò avevano margini di guadagno più alti. Gli amministratori invece hanno sanato le posizioni in nero, fatturano ogni cosa e per occupare il suolo pubblico con i tavolini hanno chiesto le autorizzazioni. Sembra una banalità, ma gli uomini della cosca Contini fino a due anni fa titolari della catena Pizza Ciro, frequentata da vip e politici, non rispettavano alcuna regola. Non si erano fatti scrupoli nell'occupare abusivamente la strada antistante con i tavoli. Irregolarità che nessuno aveva segnalato. Ora che il locale di piazza della Maddalena non è più loro, i professionisti incaricati dal tribunale hanno chiesto l'autorizzazione al Comune e hanno segnalato alla procura una sorta di accanimento dei vigili che, ora sì, sono diventati scrupolosi nei controlli. Per mantenere in vita questi veri e propri gioielli dell'economia locale, è fondamentale affidarli a un nucleo di bravi amministratori giudiziari, i quali a loro volta vengono affiancati da una sorta di manager in grado di andare oltre i conti e gli equilibri di bilancio. Non solo, la strategia si basa anche su una rete costruita con protocolli firmati tra procura, tribunale, associazioni di categoria e banche. Il segreto per evitare il crollo dell'azienda sotto sequestro è agire immediatamente. Insomma, una volta messo alla porta il prestanome del boss, un minuto dopo devono entrare i nuovi amministratori. Se la sotituzione non avviene rapidamente, il ristorante, la pizzeria, l'azienda di costruzioni, perde clienti e appalti, e inizia quella discesa senza scampo che porta alla chiusura. L'esempio emblematico del fallimento è il Cafè de Paris, simbolo della dolce vita e oggi chiuso dopo la confisca. I turisti che passano davanti alle vetrine si fermano e osservano. Non capiscono quello scempio. Una malagestione che assomiglia tanto a una resa incondizionata delle istituzioni. In molti per esempio erano convinti che la cooperativa 29 giugno senza il padrone Salvatore Buzzi non avrebbe resistito a lungo senza le relazioni di cui godeva il capo di Mafia Capitale Massimo Carminati. E invece è ancora lì, con i suoi 1.300 dipendenti, due esperti nominati dal Tribunale e nuovi appalti conquistati. Il nuovo corso della 29 giugno per ora è una scommessa vinta. Così come lo è la catena di ristoranti e pizzerie Pizza Ciro. Tutti i venticinque locali sequestrati al clan Contini della camorra, sparsi per il centro di Roma, vanno a gonfie vele, hanno messo in regola i dipendenti e ne hanno persino assunto di nuovi. C'è poi il Grand hotel Gianicolo sequestrato alla 'ndrangheta dal tribunale di Reggio Calabria e affidato agli amministratori utilizzati dai giudici di Roma. Forse l'esperienza meglio riuscita nel panorama del patrimonio sotto custodia statale. Bilanci in attivo, nuovi dipendenti, un direttore capace e un giovane chef calabrese che ha scelto di affidarsi allo Stato ottenendo un contratto regolare che il clan gli ha sempre negato. E ora può mostrare agli amici con una punta d'orgoglio la pagina che la guida Michelin dedica al ristorante dell'albergo da cui si ammira il cupolone di San Pietro. C'è in questa guida dell'antimafia che funziona anche un altro storico locale di Roma, i Vascellari. Un tempo proprietà della camorra, oggi è gestito dal team del tribunale con ottimi risultati. Oltre ai beni mafiosi, ci sono quelli sottratti ai corrotti. Il Salaria sport village, il tempio dove la cricca Anemone-Balducci-Bertolaso si rilassava con massaggi “stellari”, è il fronte su cui il tribunale sta investendo molte energie. Il progetto per recuperare a pieno la struttura è ambizioso. L'ipotesi è affidarla a una multinazionale dello spettacolo così da trasformarlo in un polo della cultura oltre che dello sport. Secondo le prime indiscrezioni manca solo la firma per concludere l'accordo che obbligherebbe la società a investire somme milionarie sul centro sportivo. In pratica lo Stato, in cambio di garanzie di investimenti seri, ha concesso l'affitto della struttura che altrimenti resterebbe nel limbo della macchina giudiziaria con il rischio più che concreto di non aprire mai più. Da questa buona gestione il primo a guadagnarci è proprio lo Stato che così non vede svanire nel nulla i costi indiretti dei singoli procedimenti di sequestro. Attività che impegna magistrati e detective anche per un anno e mezzo a cui vanno sommate le parcelle per gli amministratori. E dopo il sequestro ci sono le bollette da pagare e la manutenzione da effettuare. Per questo se viene messo a reddito nel minor tempo possibile l'amministrazione si libera di costi che nel tempo pesano molto sui conti pubblici. Il sistema virtuoso messo a punto dovrebbe essere valorizzato dal governo. Tuttavia, c'è un decreto approvato che va nella direzione opposta. Il provvedimento equipara gli amministratori giudiziari ai curatori fallimentari, con la premessa che il lavoro dei primi è molto più semplice e per questo i loro stipendi dovranno essere ridotti. La norma non è stata accolta benissimo nei tribunali. In particolare a Roma dove tre cancellieri e cinque giudici, che di rado vanno in ferie, negli ultimi 12 mesi hanno assegnato 60 beni alla comunità romana. E per farlo si sono affidati a un gruppo di 30 amministratori giudiziari competenti, più simili a manager che a burocrati, che hanno compiuto il piccolo miracolo".

L’Espresso è notoriamente uno sponsor di Libera, l’associazione di sinistra filo magistrati condotta da Don Ciotti. Libera che ha il monopolio dell’associazionismo antimafia in mano alla CGIL.

Denuncia la "miseria ladra" col vitalizio da consigliere. Il coordinatore di Libera e braccio destro di don Ciotti invoca il reddito minimo, poi intasca 2.600 euro al mese, scrive Giuseppe Alberto Falci su “Il Giornale”. Da animatore delle campagne contro la povertà al vitalizio da 2.619 euro netti al mese il passo è breve. Addirittura brevissimo se il soggetto interessato si chiama Enrico Fontana ed è anche il coordinatore nazionale di Libera, l'associazione fondata da Don Luigi Ciotti. Associazione nata nel marzo del 1995 «con l'intento - si legge nel sito internet di Libera - di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere la legalità e la giustizia». Nessun imbarazzo insomma per i venerabili maestri della sinistra benpensante quando si tratta di arricchire la cassaforte di famiglia. A Fontana, classe '58, giornalista professionista, ideatore del termine «ecomafie», che fa il maestrino a destra e a sinistra pubblicando libri per Einaudi e inchieste per l'Espresso , è bastato farsi eleggere alla Regione Lazio nel 2006. Anzi, subentra ad Angelo Bonelli che nel frattempo diventa capogruppo a Montecitorio del Sole che ride, gruppo a sostegno dell'ex premier Romano Prodi. Sono gli anni di Piero Marrazzo a governatore della Pisana. Anni in cui Fontana pungola l'esecutivo sui temi più disparati, dai rifiuti passando ai beni confiscati, continuando a presenziare in convegni dal titolo «Il sole sul tetto, energie rinnovabili e risparmio energetico». Ovviamente, non perdendo mai di vista il tema della povertà, cruccio della carriera dell'attuale braccio destro di Don Luigi Ciotti. Ma la legislatura finisce con qualche mese di anticipo per le dimissioni del governatore Marrazzo, coinvolto in uno scandalo a base di festini e trans. Ciò ovviamente consente al nostro Fontana di ottenere un lauto vitalizio. Dopo cinque anni scarsi in Regione e dopo aver versato circa 90mila euro di contributi, dal 2011 Fontana ricevo un assegno mensile di 3.187 euro che, a causa delle recenti sforbiciata apportate dalla modifica della normativa sui vitalizi, si è ridotto a 2.616,32 netto (dato che è possibile reperire all'interno del sito del M5s Lazio che monitora giornalmente le evoluzioni dei vitalizi). In sostanza, facendo un calcolo di massima, Fontana ha già incassato più di 150mila euro recuperando i 90mila euro versati di contributi. Ma non finisce certo qui. Perché dal settembre del 2013 Fontana è il coordinatore nazionale di Libera. E dalla casa di Don Ciotti, non è uno scherzo, Fontana lancia e anima la campagna «Miseria ladra». Gira ogni angolo del Belpaese per diffondere il verbo del padre nobile di Libera. Ma il vero paradosso è il seguente: il 15 aprile di quest'anno - insieme a Giuseppe De Marzo, coordinatore di «Miseria Ladra» - invia una lettera a tutti i parlamentari «per calendarizzare in aula entro cento giorni una legge per il reddito minimo o di cittadinanza, per contrastare povertà e disuguaglianza, così come da tempo ci chiede l'Europa». Il virtuoso della «legalità e della giustizia» incalza Montecitorio e Palazzo Madama ma intanto incassa, senza batter ciglio, il vitalizio. D'altronde è nello stile dei vertici di Libera. Nando Dalla Chiesa, presidente onorario dell'associazione, riceve mensilmente un assegno di 4.581,48 euro. Insomma, «miseria ladra» per gli altri, non per i venerabili maestri.

Il prete delle coop fustiga tutti ma salva gli amici che lo finanziano. Questa volta don Ciotti, di fronte a scandali e corruzione, non ha lanciato scomuniche come nel suo stile. Nessuna sorpresa: sono le cooperative rosse che danno soldi alla sua associazione, scrive Stefano Filippi su "Il Giornale". Cacciate i ladri: è un vasto programma quello che don Luigi Ciotti, il sacerdote dell'antimafia, ha assegnato alla Lega delle cooperative. Era lo scorso dicembre, i giorni dello scandalo romano di «Mafia capitale». Degli arresti tra i «buoni». Dei cooperatori che sfruttano i disperati. Dei volontari (o pseudo tali) che intascano soldi da Stato e Regioni pontificando che invece li avevano usati per accogliere gli extracomunitari. Dei portaborse Pd che facevano da intermediari tra enti pubblici e malaffare. Del ministro Poletti fotografato a tavola con i capi di Legacoop poi indagati. Dell'ipocrisia di una certa parte della sinistra pronta a denunciare le pagliuzze negli occhi altrui senza accorgersi delle proprie travi. Ma don Ciotti, il custode della legalità, il campione della lotta contro le mafie, il prete che marcia in testa a qualsiasi corteo anti-corruzione e pro-Costituzione, ha trattato con i guanti le coop rosse. «Bisogna sempre vigilare - ha detto - non c'è realtà che si possa dire esente». E ancora: «Non possiamo spaventarci di alcune fragilità. Ve lo dico con stima, gratitudine e affetto: dobbiamo imparare sempre di più a fare scelte scomode». E poi: «Siate sereni, cacciate le cose che non vanno. Le notizie sulle tangenti non possono lasciarci tranquilli - ha proseguito -. Molti con la bocca hanno scelto la legalità ma dobbiamo evitare che ci rubino le parole. Non si sconfiggono le mafie se non si combatte la corruzione». Un appello generico, parole di circostanza davanti a un sistema smascherato dalla magistratura. Nulla a confronto delle scomuniche lanciate contro i mafiosi, i sì-Tav, i «nemici della Costituzione», i «guerrafondai», e naturalmente Silvio Berlusconi. D'altra parte, difficile per lui usare un tono diverso. Perché il prete veneto cresciuto a Torino è anche il cappellano di Legacoop. Il rapporto è organico. Le coop rosse (con la Torino-bene, la grande finanza laica e le istituzioni pubbliche) sono tra i maggiori finanziatori del Gruppo Abele e di Libera. L'associazione antimafia ha tre partner ufficiali: le coop della grande distribuzione, il gruppo Unipol e la loro fondazione, Unipolis. Nei bilanci annuali c'è una voce fissa: un contributo di 70mila euro da Unipolis. Legacoop collabora con il progetto «Libera terra», che si occupa di mettere a reddito i terreni confiscati ai mafiosi. «Un incubatore per la legalità», lo definiscono i cooperatori rossi che grazie a questa partnership aprono sempre nuove coop al Centro-Sud che sfornano prodotti «solidali». Don Ciotti si scomoda perfino per le aperture di qualche punto vendita, com'è successo quando le coop inaugurarono la loro libreria davanti all'Università Statale di Milano. L'agenda del prete è fittissima. Firma appelli, presenta libri di Laura Boldrini, promuove manifestazioni, guida cortei, interviene a tavole rotonde (a patto che non odorino di centrodestra), appare in tv, commemora le vittime della mafia, incontra studenti, ritira premi: l'ultimo è il Leone del Veneto 2015, ma nel 2010 fu insignito, tra gli altri, del premio Artusi «per l'originale contributo dato alla riflessione sui rapporti fra uomo e cibo». E poi inaugura mostre fotografiche e fa addirittura da padrino a rassegne di pattinaggio (è successo a Modena lo scorso 7 febbraio per il 19° trofeo intitolato a Mariele Ventre). In questo turbine di impegni, don Luigi non ha trovato il tempo di condannare apertamente le infiltrazioni della malavita organizzata nella galassia della cooperazione rossa. E non esistono soltanto «Mafia capitale» a Roma o le mazzette per il gas a Ischia; ci sono le indagini per la Tav, i lavori al porto di Molfetta, gli appalti di Manutencoop, le aziende legate al «Sistema Sesto» che coinvolgeva Filippo Penati, i cantieri Unieco in Emilia Romagna dove lavoravano famiglie della 'ndrangheta. Nei bilanci delle associazioni di don Ciotti i finanziamenti di Unipolis sono tra i pochi di cui è chiara la provenienza. Libera e Gruppo Abele rappresentano realtà consolidate. L'organizzazione antimafia ha chiuso il 2013 con entrate per 4 milioni 770mila euro raccolti in gran parte da enti pubblici: mezzo milione per la gestione dei beni confiscati, altrettanti per progetti e convenzioni internazionali, ulteriori 766mila per attività di formazione; 645mila euro arrivano grazie all'8 per mille, 200mila dalle tessere, 700mila dai campi estivi e 900mila da campagne di raccolta fondi. Maggiori problemi ha il Gruppo Abele, che ha chiuso il 2013 (ultimo bilancio disponibile) con una perdita di 273mila euro, e il 2012 era andato pure peggio: un buco di quasi due milioni su uno stato patrimoniale di circa 10. La situazione finanziaria è disastrosa, con debiti verso le banche per 5 milioni e altri 800mila verso fornitori garantiti da un cospicuo patrimonio immobiliare valutato in circa 6 milioni 300mila euro: la sede di Corso Trapani è un ex immobile industriale donato a don Ciotti dall'avvocato Agnelli. Affrontare il disagio sociale costa e molte attività assistenziali non possono essere soggette a «spending review». Indebitarsi è oneroso: 261mila euro (quasi tutta la perdita di esercizio) se ne vanno in anticipi e interessi su prestiti principalmente verso Banca Etica, Unicredit e Unipol banca. I ricavi non seguono l'andamento dei costi. Le rette delle persone ospitate in comunità e i proventi per corsi di formazione o vendita di libri e riviste fruttano 2.838.000 euro. Più consistenti sono le entrate da contributi: quasi 3.700.000 euro. Oltre tre milioni piovono da Commissione europea, ministeri, regioni ed enti locali, fondazioni imprecisate; altri generici «terzi» hanno donato 731mila euro mentre istituti bancari senza nome hanno erogato quasi 350mila euro. Don Ciotti è un campione nel fare incetta di finanziamenti pubblici. Ma non bastano. Ecco perché deve girare l'Italia e sollecitare la grande finanza progressista a essere generosa con i professionisti dell'antimafia e dell'antidroga. È uno dei preti di frontiera più famosi, con don Virginio Colmegna e don Gino Rigoldi. Dai convegni coop alle telecamere Mediaset (è andato da Maria De Filippi, ma nessuno si è indignato come per Renzi e adesso Saviano), dagli appelli per la Costituzione (con Rodotà, Zagrebelsky, Ingroia, Landini) perché «l'Italia è prigioniera del berlusconismo» fino alle manifestazioni no-Tav, don Ciotti è in perenne movimento. Non lo frenano gli incidenti di percorso: il settimanale Vita ha segnalato («legalità parolaia») che Libera e Gruppo Abele figurano tra i firmatari di un accordo con i gestori del business delle sale gioco mentre il loro leader si è sempre scagliato contro l'azzardo. Dopo che Papa Francesco l'anno scorso l'ha abbracciato e tenuto per mano alla commemorazione delle vittime di mafia, don Ciotti vive anche una sorta di rivincita verso la Chiesa «ufficiale» che a lungo l'aveva tenuto ai margini. Lo scorso Natale ha promosso un appello per «fermare gli attacchi a Papa Francesco»: è l'ultimo manifesto, per ora, proposto da don Ciotti. Ma non passerà troppo tempo per il prossimo.

Quel romanzo che fa a pezzi il prete antimafia, scrive Alessandro Gnocchi su  “Il Giornale". Domani arriva in libreria I Buoni di Luca Rastello. È il primo titolo di narrativa pubblicato da Chiarelettere, editore più noto per le inchieste giornalistiche. La collana «Narrazioni», che accoglierà titoli di Gianluigi Nuzzi (sul Vaticano) e Luigi Bisignani (sul direttore di un quotidiano, forse ispirato a Ferruccio De Bortoli) è in linea con lo spirito battagliero del resto del catalogo. I Buoni non mancherà di fare discutere, perché racconta in modo impietoso il mondo dell'associazionismo, del volontariato e soprattutto dell'antimafia. La vicenda ruota attorno a don Silvano, prete anti-cosche, uomo santo per definizione, (ex) predicatore di strada, paladino degli ultimi. Ma anche manipolatore, parolaio, condiscendente oggetto di idolatria, amico di politici e rockstar. L'antimafia esce, dalle pagine de I buoni, come un sistema non troppo dissimile, nei fini e nel linguaggio, alla mafia stessa. L'associazione di Don Silvano, che amministra i beni sequestrati ai clan, favorisce la «mafia» dei propri amici e utilizza i soldi pubblici per scopi privati. Mentre don Silvano recita omelie in memoria dei caduti sul lavoro, i dipendenti della sua onlus sono privati dei diritti elementari. Legalità e trasparenza valgono solo per gli altri. In casa propria ci si regola invece secondo convenienza. E se i bilanci sono truccati, amen. L'intimidazione, riassunta nella frase omertosa «ci sono cose che non sai», è lo strumento per zittire chiunque osi avanzare una critica. Chi manifesta dubbi, viene liquidato senza cerimonie. È il potere dei più buoni, così come lo cantava Giorgio Gaber, «costruito sulle tragedie e sulle frustrazioni». Il finale apocalittico però suggerisce che il castigo (divino?) giungerà dalle mani di un criminale (un Cattivo, dunque). Il giornalista e scrittore Luca Rastello, tra le altre cose, ha esperienza di questo mondo, avendo lavorato per il Gruppo Abele di don Luigi Ciotti in qualità di direttore della rivista Narcomafie. Adriano Sofri, sul Foglio, ha già messo in luce le analogie tra finzione e realtà, tra don Silvano e don Ciotti. I riscontri sono puntuali, dai luoghi fino all'arte oratoria passando per fatti di cronaca. Rastello in un'intervista a Nicoletta Tiliacos, sul Foglio, ha spiegato che I Buoni è un romanzo, non un pamphlet, «un'operazione narrativa» che fa «riferimento alla realtà». Don Silvano, dunque, è solo don Silvano: «uso personaggi reali - dice l'autore - come paradigmi di un mondo, di un sistema di manipolazione, di sequestro delle coscienze, non come oggetto di denuncia indirizzato a qualcuno in particolare». Comunque la somiglianza con «i personaggi reali» non passerà inosservata, anzi: scatenerà un uragano che nasconderà i pregi del romanzo. Rastello propone una visione anti-retorica della memoria e della legalità. Ma più interessante è la riflessione sulla nostra dipendenza dai simboli e dalle icone. Don Silvano è un impostore. Come dice Andrea, uno dei protagonisti, «abbiamo bisogno di lui» perché abbiamo bisogno di «convivere col male, fingendo di combatterlo». Don Silvano è l'alibi, la consolazione, l'anestetico, la foglia di fico di una società senza slancio e dalla falsa coscienza.

Aziende e amministratori giudiziari, in attesa di una querela facciamo qualche domanda alla D.I.A., scrive Pino Maniaci su "TeleJato". “Io lo posso dire aboliamo la Dia”, dice Gratteri criticando il soprannumero di dirigenti, uffici e segreterie, mentre gli stessi uomini in surplus potrebbero essere riportati sul territorio. Sono queste le proposte che avrebbe fatto se fosse arrivato al dicastero della giustizia. “Nessuno ha il coraggio di farlo, i politici mi chiamano e mi dicono: ‘Se lo facciamo ci danno dei mafiosi’. Allora lo dico io. Non possiamo pensare che non si possa chiudere un tribunale inutile. Non possiamo lasciare il 35 per cento di magistrati in più alla procura di Palermo. O si ha il coraggio di mandare a regime il ministero della giustizia oppure non cambierà mai nulla. . Non possiamo sperperare le energie”. La critica è diretta soprattutto agli interventi poco incisivi del passato: “Io sono d’accordo anche nel fare tagli, ma negli ultimi governi sono stati fatti solo quelli lineari del 5 per cento. Oggi guida la commissione che deve redigere norme e procedure per combattere la criminalità organizzata e annuncia le proposte che verranno fatte nei prossimi mesi uomini in surplus potrebbero essere riportati sul territorio. Ma vogliamo risparmiare davvero? Allora chiudiamo la Dia (Direzione investigativa antimafia). Parlo io: risparmiamo in dirigenti e segreterie e affitti e facciamoli tornare sul territorio. Aboliamo il Dap: sapete quanto guadagna un dirigente? 20mila euro”. Ed è proprio lì che, secondo Gratteri, bisogna intervenire. Queste le parole di Gratteri cioè di un magistrato in prima linea che fa’ i conti dello sperpero di ingenti capitali tra forze di polizia in surplus, che non servono a nulla se non a vivere di immagine di comunicati stampa e sparare minchiate di numeri nei vari sequestri di ingenti capitali; ma anche per far si che amministratori giudiziari e periti vengono pagati con le cifre fittizie dei lanci di agenzie. Partendo da questo presupposto vogliamo parlare di quello che succede nel nostro territorio, avendo sempre il coraggio di assumerci le responsabilità e sperando in una querela che finalmente apra uno squarcio di verità su quello che è diventato il business dell’antimafia fittizia e parolaia, buona per fare affari sulle spalle di mafiosi ma anche di cittadini onesti, sperperando e rubando soldi alla comunità tutta. Abbiamo parlato di giudici e amministratori giudiziari voraci, ladri che commettono illegalità diffuse che vengono denunciate agli organi competenti che per convenienza (e vorremmo capire che tipo di convenienza o connivenza) non danno seguito alle segnalazioni fatte da cittadini inermi di fronte a tribunali blindati, che non rispondono nemmeno alle domande di giornalisti che non sono leccaculo. Partiamo dal fatto e ci rivolgiamo alla Dia e speriamo che abbia il coraggio di risponderci, anche se fosse il caso con un mandato di cattura. La nostra Italia o ha investigatori che sanno lavorare o come viene molto spesso fuori dalle notizie di cronaca si prestano a fiancheggiare tribunali dove si trovano magistrati; e non siamo solo noi a dire che sono delle mele marce a cui piace visibilità e i “picciuli”. Prima domanda: oggi con i mezzi a disposizione quanto ci vuole a risalire ad una transazione di denaro? Con la tracciabilità e i potenti mezzi che disponete, perché prima sequestrate un’azienda e poi cercate di capire di chi è la proprietà? Prestate il fianco a far mangiare e arricchire amministratori giudiziari e loro collaboratori, che sono figli di magistrati, di cancellieri e cosi via? C’è un’organizzazione parallela che si spaccia per antimafia e che invece fa’ affari alla stessa maniera dei mafiosi? È questa l’Italia della legalità, della giustizia, della legge uguale per tutti? C’è da ridere se si va’ a sequestrare un impianto di carburante che un onesto cittadino ha comprato ben 16 anni fa’ in maniera regolare, e avete pure il coraggio di farvi consegnare i soldi che ha in tasca continuando a ridergli in faccia. Costate 70 milioni di euro al mese per pagare super stipendi a chi non sa’ nemmeno fare un’indagine seria? Allora chiudiamo la Dia anche perché non sa lavorare; inoltre, ci sono troppe forze di polizia superflue ed inutili che vivono solo di immagine di lanci di agenzie e di sperpero di denaro pubblico. Cara Dia, perché non indagate come un’ amministratore giudiziario possa guadagnare più di sette milioni di euro l’anno? Di chi è amico? Chi lo sostiene? Chi lo foraggia? Chi ci lavora dietro? E quante illegalità ha commesso, tanto da rischiare il giudizio per truffa aggravata e rimanere ancora in carica? Un rappresentante dello Stato deve aspettare eventualmente i tre gradi di giudizio? O per etica morale e dignità di un tribunale deve essere cacciato a pedate in culo? Perché le nomine come amministratori coadiuvatori etc etc vengono fatte anche a figli di cancellieri del tribunale come Grimaldi o come Cannarozzo, sempre gli stessi e sempre olio per tutte le insalate? Perché c’è un’ albo di 4000 pretendenti amministratori, ma vengono nominati sempre i soliti dieci? Sono bravi? Gli piacciono i picciuili? E sempre gli stessi portano al fallimento le aziende sequestrate. C’è pure chi se li vende o rimane all’interno dopo la confisca come amministratore dell’azienda? E l’albo nazionale previsto per legge è un’ optional? Perché sparate sempre cifre iperboliche non conformi alla realtà dei beni sequestrati? Usate i parametri catastali, o il valore di mercato che vi inventate? E sapete poi che i periti vengono pagati sulle cifre da voi esposte? Credo che di materiale per denunciarmi, arrestarmi o investigare, se decidete di fare le cose seriamente ce ne sia abbastanza; ma le nostre domande non finiscono qui: ne abbiamo anche di riserva, insieme alle carte e alle prove che vorremmo sottoporre alla vostra attenzione. Noi speriamo che la sezione misure di prevenzione di Palermo e gli ingenti capitali che amministra siano oggetto di attenzione da parte dei ministeri e della politica di competenza, perché la legge, così com’è, troppo allegra e troppo fantasiosa, colpisce i mafiosi; e lì saremo sempre al vostro fianco, ma colpisce anche le persone per bene. E come una volta mi ha detto un magistrato in prima linea della procura di Palermo, noi i beni prima li sequestriamo e poi vediamo di chi sono non funziona, non funziona, funziona solo per fare arricchire altri manciatari che rappresentano lo stato. Per chiudere, Gratteri è un pazzo? Il prefetto Caruso è un pazzo? Noi pensiamo di no, ma pensiamo invece che la Dia lavori male molto male. Siamo pronti come abbiamo già fatto al tribunale di Caltanissetta e in commissione nazionale antimafia ad essere uditi . Aspettiamo risposte.

Proprio mentre si sta facendo luce sul malaffare che ruota attorno al Tribunale di Palermo, sezione misure di prevenzione (vedi i servizi delle Iene e di Telejato, Marco Salfi), proprio quando viene fuori il coinvolgimento della Saguto nell'affidamento fin troppo allegro degli incarichi a pochi amministratori giudiziari, esce fuori la notizia che la mafia, non si sa come, vorrebbe uccidere la Saguto.

La mafia vuole uccidere la Saguto. È il giudice che sequestra i beni, scrive Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Allarme attentato. Una nota dei Servizi segreti mette in guardia il presidente che guida la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Uno "scambio di favori" fra clan gelesi e palermitani. A rischio ci sarebbe anche un altro magistrato. Potenziate le misure di sicurezza. Le notizie sono tanto frammentarie quanto inquietanti: la mafia vuole uccidere Silvana Saguto, il giudice che guida la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Come se non bastasse, c'è un altro dato che rende lo scenario ancora più preoccupante: per eliminare il magistrato, che fa la guerra ai clan a colpi di sequestri e confische patrimoniali, c'era un accordo fra i clan mafiosi gelesi e palermitani. Uno scambio di favori tra boss: qualcuno legato agli Emmanuello avrebbe dovuto uccidere il giudice di Palermo e i palermitani, in cambio, si sarebbero dovuti sbarazzare di un altro magistrato. Indiscrezioni vogliono che si tratti di Renato Di Natale, oggi procuratore capo di Agrigento, ma in passato a Caltanissetta dove ha coordinato le inchieste che hanno decimato il clan Emmanuello. C'era Di Natale alla testa dei pm che davano la caccia a Daniele Emmanuello. La latitanza del capomafia finì nel sangue, morto nel 2007 nel corso di un conflitto a fuoco con la polizia in provincia di Enna. Con i suoi fratelli aveva organizzato uno dei clan più potenti della Sicilia sud-orientale, in grado di dialogare con i boss di Palermo. L'allarme è suonato per la prima volta l'anno scorso, ma due mesi fa è stata una nota dei Servizi segreti a fare scattare il piano di sicurezza straordinario per la Saguto. Per proteggere il giudice sono arrivati più uomini di scorta, le è stata assegnata una nuova macchina, messa a disposizione dal ministero dell'Interno, con il livello massimo di blindatura, e l'esercito vigila sotto la sua abitazione. Il progetto di morte - si parla di un attentato le cui modalità restano top secret - ad opera del clan gelese sarebbe stato sventato mesi fa grazie ad alcuni arresti. Ed era un progetto già entrato nella fase operativa, visto che gli esecutori avevano eseguito dei sopralluoghi in città. La nota dell'intelligence, però, avrebbe proiettato nel presente il rischio attentato, probabilmente alla luce di alcune conversazioni captate dalle microspie. Le stangate patrimoniali hanno messo a rischio la stessa sopravvivenza di alcuni clan palermitani. Perché decidere di affidarsi agli uomini al soldo degli Emmanuello? Forse a Palermo non era stata trovata l'intesa tra i boss su chi dovesse entrare in azione o forse sapevano di essere sotto osservazione. Avrebbero così preferito affidarsi a killer che, venendo da fuori città, avrebbero destato meno sospetti. Ma quale famiglia mafiosa palermitana voleva eliminare il giudice? Impossibile fare delle ipotesi, visto che i sequestri delle Misure di prevenzione hanno colpito a tappeto tutti i mandamenti mafiosi. Troppi interessi economici - dalle piccole attività alle grandi imprese - sono stati intaccati della sezione Misure di prevenzione. Senza soldi la mafia non è più in grado di garantire assistenza alle famiglie dei detenuti, pagare gli stipendi dei picciotti, assoldare nuove leve. Insomma senza soldi, Cosa nostra non può né rinnovarsi, né garantire quella catena di mutuo soccorso e assistenza che ne rappresenta il punto di forza. Da quando c'è la Saguto alla guida della sezione del Tribunale, sono stati oltre 400 i provvedimenti avviati. Molti su input della Procura ma tantissimi su iniziativa degli stessi giudici. Sono saltate le connivenze, molto spesso le cointeressenze, fra pezzi dell'imprenditoria e le famiglie mafiose. Un lavoro scomodo che qualcuno vorrebbe spegnere con un gesto eclatante.

Questa mafia bifronte. I patrimoni di Cosa Nostra. I beni tolti ai boss, aumenta il numero dei gestori di tesori immensi, scrive Leopoldo Gargano su "Il Giornale di Sicilia". Ha iniziato la sua carriera facendo da uditore giudiziario con Giovanni Falcone e adesso ha 34 anni di sequestri e confische antimafia alle spalle. Una vita spesa a togliere denaro ai boss ed ai loro complici, quella di Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale. Proprio come sosteneva Falcone, che della lotta ai patrimoni mafiosi aveva fatto un punto fermo del suo lavoro. «Follow the money», diceva il giudice ucciso a Capaci, frase abusatissima ma sostanzialmente vera. Bisogna seguire il denaro per scoprire i misteri di Cosa nostra e dopo averlo seguito, possibilmente bisogna toglierlo alla mafia e restituirlo ai cittadini. E in questi anni di beni e denari, strappati ai mafiosi ce ne sono stati tanti. Dall' ottobre 2010 ad oggi, questo il periodo della gestione Saguto dell'ufficio, sono stati avviati 451 nuovi procedimenti patrimoniali e ne sono stati definiti 401. Ancora pendenti, dunque in attesa di confisca definitiva o di restituzione, ne risultano 257. La stima sui milioni di euro bloccati, tra immobili, aziende, terreni e conti correnti, è molto più difficile. Il valore dei beni sequestrati varia da personaggio a personaggio, impossibile fare una media. Ma per capire di che cifre parliamo, basta citare i due sequestri più grossi degli ultimi mesi. Quello ai danni degli eredi Rappa, un colpo da 800 milioni di euro, e il provvedimento a carico del ragioniere di Villabate Giuseppe Acanto, ex deputato Biancofiore all' Ars e collaboratore del mago dei soldi Giovanni Sucato, a cui è stato bloccato un tesoro da 750 milioni di euro. Ma chi amministra questo enorme patrimonio che da solo potrebbe fruttare quanto una legge finanziaria dello Stato? È uno dei punti di maggior criticità, secondo il punto di vista di alcuni osservatori. Troppo denaro, troppe aziende concentrate nelle mani di pochi professionisti superfortunati che si spartiscono, praticamente senza reale concorrenza di mercato, una torta gigantesca. Il presidente Saguto preferisce non intervenire sulla questione, sostiene di non volere in alcun modo alimentare polemiche. Ma i suoi uffici comunicano un dato. In quattro anni e mezzo, sono stati nominati poco più di cento nuovi amministratori giudiziari, che mai in passato avevano lavorato con la sezione. Una media di 25 ogni anno. Facendo un po' di conti dunque, ognuno gestisce non più di quattro procedimenti. E nuove nomine sono state fatte pochi giorni fa, giovani commercialisti e avvocati che hanno iniziato la carriera di amministratori di patrimoni considerati «sporchi», fino a prova contraria. E poi c'è la questione delle questioni. Le aziende sequestrate sono destinate a chiudere in poco tempo, il loro destino è il fallimento. Questa l'obiezione ripetuta un po' ovunque, lo slogan letto sui cartelli portati in piazza da operai licenziati. È così? Dagli stessi uffici al piano terra del nuovo tribunale, viene fornito un dato. Ovvero un numero: l'1. C'è una sola azienda che ha chiuso i battenti per fallimento. Ed è la sala Bingo Las Vegas di viale Regione Siciliana, un tempo gestito dal clan di Nino Rotolo. Lo Stato si era trasformato in croupier ma ha avuto scarsa fortuna e la società è naufragata. Ma non è finita qui. Perché proprio il mese scorso è stato ceduto il ramo di azienda e l' attività è stata rilevata da un imprenditore che riaprirà la sala, riassumendo parte dei vecchi dipendenti. Alcuni erano stati rimossi perché considerati troppo vicini ai vecchi titolari mafiosi. Le aziende in difficoltà sono invece tante, causa anche la crisi che ha devastato la già gracile economia siciliana, ma inutile nascondere che non è solo questo. Quando comanda il boss, spesso i fornitori sono molto più morbidi, gli impiegati sono in nero e costano di meno e la concorrenza fa un passo indietro. Per legge però i debiti fatti sotto amministrazione giudiziaria sono garantiti dall' Erario, mentre per quelli accumulati in precedenza, e dunque da saldare, c' è il disegno di legge presentato da Rosy Bindi, presidente della commissione antimafia, che dovrebbe essere risolutivo. Inutile usare eufemismi. Quando arrivano gli amministratori il discorso cambia. Intorno si crea una sorta di ostracismo, le banche sono propense a chiudere i conti ed i clienti fuggono. Come nel caso del ragioniere Acanto. Gestiva la contabilità di circa 400 aziende, 390 delle quali dopo il sequestro si sono volatilizzate in meno di una settimana. Ma gli sono rimaste fedeli. Il ragioniere ha aperto un nuovo studio e tutte le imprese sono tornate da lui.

La signora Saguto in una intervista al Giornale di Sicilia replica alle accuse sulla sua gestione: tutto falso, scrive Telejato. Siamo al botta e risposta. Ma non in un dibattito a viso aperto, in un procedimento giudiziario per diffamazione, nei riguardi della redazione di Telejato, che potrebbe essere fatto senza problemi, poiché la magistratura e i suoi componenti hanno in mano tutti gli strumenti per inquisire, giudicare, condannare. Un procedimento giudiziario potrebbe portare alla luce tante cose che è preferibile tenere nascoste, che è meglio secretare per allontanare la presenza della stampa e delle telecamere. Il botta e risposta avviene in modo più sottile, proprio grazie alla possibilità di poter disporre in qualsiasi momento di giornalisti compiacenti, di porgitori di microfono, di cantori d’ufficio delle opere, delle meraviglie e del grande contributo nella lotta contro la mafia che una singola persona è stata capace di portare avanti nella conduzione dell’ufficio misure di prevenzione di Palermo. E così, dopo i due servizi delle Iene sul comportamento e sull’operato disastroso degli amministratori giudiziari di Palermo, sui fallimenti del 90% delle imprese sequestrate, sul cumulo impressionante di cariche e nomine nelle mani di pochi amministratori giudiziari, ecco che la regina di cui parliamo, la dott.ssa Saguto, per mostrare che si tratta solo di fumo e di notizie sbagliate, alza il telefono, chiama un giornalista del solito Giornale di Sicilia, questa volta si tratta di Leopoldo Gargano, e si fa fare un’intervista nella quale dichiara che nei suoi 34 anni di servizio ha avviato 451 sequestri, che di questi 275 sono in attesa di confisca definitiva, che non è vero che gli amministratori sono sempre gli stessi, ma che sono più di cento i “quotini”, pardon, gli amministratori giudiziari nominati, alcuni dei quali di nuovissima nomina, che non è vero che i beni sequestrati sono amministrati male e falliscono, ma che ne è fallito uno solo , la sala Bingo Las Vegas di Nino Rotolo, dal momento che ai palermitani non piaceva che lo stato si fosse trasformato in croupier, ma che anche questa sala al più presto riaprirà. È vero, ci sono difficoltà c’è la crisi, il boss comandava con metodi non legali, le banche non fanno credito agli amministratori, i clienti fuggono, ma tutto si sistema piano piano. Quindi tranquilli, tutte menzogne di gente che non si rende conto di fare un favore alla mafia nel momento in cui se la prende con questa eroina e regina dell’antimafia, erede del messaggio di Falcone, che è quello di colpire la mafia nei suoi patrimoni. Non è il caso di dire che, a giudicare da quanto si dice attorno, sia la Commissione Antimafia, sia la stampa, sia gli stessi vertici giudiziari di Palermo e Caltanissetta stanno cercando di alzare il velo sui tanti misteri e sulle distorsioni e anomalie che ruotano attorno all’ufficio misure di prevenzione, evidenziando l’assoluta urgenza di nuove normative che regolino il complicato settore della gestione dei beni mafiosi. Staremo a vedere se tutto, come al solito non sarà archiviato. La Saguto, nella sua sapiente strategia di controllo del tutto, cerca di metterci una pezza, o, come diciamo in siciliano, di “mettersi u ferru arrieri a porta”. Da tempo denunciamo tutto ciò, ma da tempo il potere finge di non sentire e non vuole procedere: tutto va bene, abbiamo scherzato, tanti omaggi, dott.ssa Saguto, dio salvi la Regina.

I Quotini. Il Cerchio magico che ruota intorno agli amministratori giudiziari, tutti in quota, nella quota del loro re, cioè di colui che li fa lavorare..., scrive Salvo Vitale su "Telejato". Avere visto allo stadio di Palermo, in tribuna d’onore, la sig.ra Silvana Saguto, il sig. Cappellano Seminara e il sig. Aulo Giganti, ospiti di Zamparini, ha fatto suonare una serie di campanellini d’allarme. Che, malgrado il muro d’impenetrabilità che circonda l’argomento, hanno trovato qualche conferma. L’inghippo che sta sotto questo affare è grosso , tutti suggeriscono di “levarci mano”, tanto non si potrà cambiare, perché il sistema di potere che è stato organizzato attorno ai beni confiscati è capace di resistere a qualsiasi attacco. C’è chi dice che dietro ci sta la massoneria, si parla, senza poterlo dimostrare, di rapporti d’affari tra Cappellano Seminara e il marito della sig.ra Saguto, tal ingegnere Caramma, si dice che la convivente del figlio della Saguto, un’altra avvocatessa dal nome esotico, Donna Pantò, gestirebbe i beni delle aziende Rappa assieme a Walter Virga, figlio del magistrato Virga del Consiglio Superiore della Magistratura, che ha archiviato un procedimento giudiziario nei confronti della Saguto. Queste e altre maldicenze non mettono in discussione un principio: esiste un cerchio magico tra i personaggi che abbiamo citato, tant’è che sono sempre gli stessi , gestiscono imperi economici e hanno trovato vitalizi, affari e ricchezze, senza che nessuno parli e denunci con chiarezza. Sono i nuovi padroni della città. Hanno scoperto come vivere parassitariamente alle spalle degli altri, secondo lo stesso schema e lo stesso principio usato dai mafiosi, sfruttando i proventi dell’accumulazione mafiosa, nel momento in cui questa ha scelto, sperando di poter “farla franca”, cioè di sfuggire ai fulmini del controllo istituzionale, di darsi all’imprenditoria, soprattutto nel settore dell’edilizia. La strada della denuncia nei loro confronti e nei confronti del magistrato delle misure di prevenzione che li nomina è in genere sconsigliata dagli avvocati, sia perché pure essi devono campare, sia perché inasprirebbe le sanzioni repressive, mentre essi devono dimostrare di sapere portare a casa del cliente qualche risultato, sia perché non ci sarebbe più nessuna possibilità di lavoro né per il cliente sotto indagine né per i propri eredi, dal momento che non ci vuole nulla a combinare un’accusa di associazione mafiosa, basta un contatto, uno scontrino, un’intercettazione fraintesa o manipolata, un documento che lasci supporre una presunta amicizia pericolosa, magari del padre o del nonno ed è fatta. Il denunciato dovrà preoccuparsi di dimostrare la legittimità di quello che possiede, ma, anche se fosse in grado di farlo, dovrà andare incontro a una serie di rinvii giudiziari, scientificamente studiati, che durano anni e che finiscono col distruggere la vita dell’incauto oltre che le aziende e i beni che gli sono sequestrati. Qualcuno ha parlato di “mafia dell’antimafia”: non è esatto spacciare per antimafia l’esercizio di un potere fatto a fini repressivi. La repressione ha un senso quando sotto c’è il dolo, ma l’altra parte del dolo, quello di chi esercita la repressione, eufemisticamente chiamata “prevenzione”, diventa molto spesso prevaricazione e sopruso, specie se sotto c’è un disegno e un circuito affaristico da tutelare. Il circuito lo abbiamo individuato: è fatto dai vari Dara, Cappellano Seminara, Gigante, Turchio, Benanti, Sanfilippo, Aiello, Virga e da una serie di “collaboratori”, avvocati e dipendenti che vi girano attorno, girano da uno studio all’altro, perché agiscono tutti in accordo: così, se uno di essi compie otto mesi di lavoro, retribuito da 3 a 5 mila euro, ha diritto alla disoccupazione, scaduta la quale sarà assunto da un altro avvocato del giro, per un altro incarico. A Palermo, negli ambienti giudiziari li chiamano “quotini”, nel senso che ognuno versa una quota al sommo re dei “giustizieri”, a colui che regge le fila della Cappella. A vederli, i collaboratori sono tutti avvocaticchi, i “nominati”, cioè gli assunti per espletare incarichi di sorveglianza, sono figli di avvocati, di magistrati, di militari, di alti dirigenti e cancellieri che hanno trovato come succhiare alle mammelle dei beni confiscati, visto che i loro emolumenti escono dagli incassi o dalle vendite dei beni loro affidati. Calcolando missioni, spese di viaggio gonfiate, fatture a rimborso ecc, si arriva a impressionanti cifre. Si veda il caso dei negozi di Niceta, che, al momento del sequestro avevano un fatturato di 20 milioni, che, con la crisi avevano dimezzato la cifra, ma riuscivano a mantenerla, anche in gestione giudiziaria: è stato calcolato un budget spese di 500.000 euro l’anno, di cui, almeno 200 nelle tasche dell’amministratore capo Gigante: lui stesso ha detto che in fondo non è una grande cifra, è pari al 5%, cioè a un vero e proprio pizzo. Anche gli emolumenti dei suoi collaboratori, che non fanno assolutamente niente, se non un saltuario atto di presenza, magari per rifornirsi il guardaroba, sono sbalorditivi: tutto naturalmente grava sui mancati pagamenti per le commesse d’acquisto, sulla chiusura di alcuni punti vendita, che, per una falsa concezione dell’economia, comporterebbero risparmio, e su contratti di solidarietà con i quali si obbligano i dipendenti ad accettare una riduzione del 20% dello stipendio. Onde evitare licenziamenti in grande numero, che susciterebbero clamore mediatico e proteste, oltre che suscitare malumori per le norme che regolano l’amministrazione dei beni sotto sequestro, si spostano i dipendenti del punto chiuso in un altro che ancora resiste e che comunque è già sufficientemente coperto dal personale. E intanto, visto che i fornitori, non avendo più le garanzie di una volta, si rifiutano di fornire merce, gli scaffali si svuotano, gli inizi di stagione, che in genere comportano molte vendite, non partono, sono finiti gli sconti, che hanno portato , con il 70%, perdite e fine rapporti di lavoro. Da questa disperazione, vengono fuori altri risvolti: perché alla Conca D’oro di Zamparini al negozio di Zara, oltre 2000 mq. è stato concesso di non pagare affitto per due anni, mentre Niceta paga 20 mila euro al mese di spazio? C’è forse un sottile disegno che vuole favorire l’imprenditoria straniera e bloccare qualsiasi forma di lavoro in Sicilia, con l’accusa che tutta l’economia palermitana è mafiosa? E se c’è questo, cosa c’è sotto di questo?

Il “Re” è nudo. Come nella favola di Hans Christian Andersen l'incantesimo sembra si stia spezzando, il re è nudo,  scrive Marco Salfi su "Telejato". Parliamo di un Re che paradossalmente ha molti tratti in comune con quello delle fiabe per bambini dello scrittore Danese. Si tratta infatti del sovrano degli amministratori giudiziari, diciamo per usare un eufemismo che è il più quotato a Palermo. I dati della camera di commercio parlano chiaro e non mentono a differenza di quanto a riferito nell’intervista rilasciata a Matteo Viviani. Ma andiamo con ordine. Telejato da più di tre anni sta portando avanti un inchiesta sugli amministratori giudiziari e il sistema a tratti marcio che si è sviluppato intorno alle misure di prevenzione del tribunale di Palermo. L’abbiamo di recente ribattezzata “La mafia dell’antimafia” e in merito alle vicende scoperte e denunciate dalla nostra emittente, da diverso tempo abbiamo chiesto di essere ascoltati dalla commissione nazionale antimafia che più volte si è occupata del tema, ascoltando solo la campana della presidente della prima sezione misure di prevenzione de tribunale di Palermo, la dottoressa Silvana Saguto. Si tratta di un giro d’affari di svariati miliardi nelle mani di pochissimi e sotto la responsabilità di uno dei due giudici a latere del fu maxi processo. Le vicende che si intrecciano in queste storie sono diverse e vanno dalla mala amministrazione di patrimoni acclarati mafiosi, a presunti sequestri arbitrari di beni che in alcuni casi hanno portato pure all’amministrazione controllata di grandi aziende come l’Italgas. La speranza è che dopo il passaggio delle Iene non si spengano i riflettori e che la commissione nazionale antimafia e gli organi della magistratura competenti possano far luce su questa vicenda, tenendo conto anche delle tante denunce fatte non solo dalla nostra emittente, ma anche dal prefetto Caruso, che più volte è stato ascoltato in merito, proprio dalla commissione d’inchiesta parlamentare presieduta da Rosy Bindi. Forse finalmente qualcosa sta cambiando e auspichiamo che associazioni che a volte si sono comportate da “professioniste dell’antimafia” possano inserire seriamente questi temi nelle loro agende, in maniera laica, lontane quindi da logiche che poco hanno a che fare con la lotta e il contrasto  alla criminalità organizzata. L’antimafia non è un business.

Le Iene intervistano Cappellano Seminara, scrive Salvo Vitale su "Telejato". Parliamo di Cappellano Seminara, un personaggio che ormai i nostri telespettatori conoscono bene, da noi definito “u re”, ovvero il signore degli amministratori, al quale sono stati dati una sessantina di incarichi da parte della Procura di Palermo, ufficio misure di prevenzione, diretto dalla dott.ssa Saguto. Di questi tempi Cappellano si fa vedere anche con un altro bell’esemplare della razza degli amministratori giudiziari, l’avv. Aulo Gigante, anche lui nel cuore della Saguto e attuale amministratore dell’impero dei Niceta, ormai ridotto allo sfascio. I due si conoscono sin dai tempi in cui a Cappellano venne affidata l’amministrazione giudiziaria del Gruppo Aiello a Cappellano Seminara, e l’avvocato Gabriele Aulo Gigante era il legale rappresentante del Gruppo. Poiché Cappellano Aveva già molte amministrazioni, tirò fuori dal cappello il nome di Andrea Dara, un oscuro revisore dei conti, al quale, tramite i suoi contatti privilegiati con l’Ufficio misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, riuscì a fare dare la nomina di amministratore giudiziario, restando egli nell’ombra a muovere i fili delle imprese sequestrate. Dara intorno al 2007 ebbe una serie di contrasti e divergenze con Gigante, che diede le dimissioni, e si scrollò anche della tutela di Cappellano, il quale, nel timore che Dara stesso potesse coinvolgerlo nel dissesto in cui il Gruppo Aiello stava precipitando, prese le distanze e iniziò un contenzioso per il recupero di parcelle per amministrazione della Clinica S. Teresa. La richiesta iniziale era di circa € 1.200.000. Due anni fa Dara, come amministratore, è stato condannato a pagare € 1.000.000 allo stesso Cappellano. Bazzeccole. E nessuno pensi che Dara li abbia tirati fuori dalla sua tasca. In altre occasioni vi abbiamo parlato di come il Cappellano controlla un “cerchio magico” dei “quotini”, ovvero di avvocati, figli di magistrati ecc. in qualche modo legati a lui, nella sua quota”, ai quali vengono dati incarichi vari dal tribunale o da parte di lui stesso. Per darvi una mezza idea del personaggio vi diremo che, dove Cappellano ha realizzato il suo miglior capolavoro è nella Legal.gest.consulting srl, in sigla LGConsulting srl, che risulta di proprietà della figlia Cappellano Carlotta, la quale ha versato 100 euro di quote nominali per diventarne azionista, ma solo del 5%, mentre il padre Gaetano ne ha versati 9.900, proprietario perciò al 95% e ne è amministratrice unica la madre Seminara Elda, nata nel 1932 e quindi di 82 anni. Si tratta di un albergo che mette il Cappellano in concorrenza con se stesso, perché amministratore giudiziario dell’hotel Palazzo Brunaccini. Nel 2011 la Legal gest cede la gestione dei servizi alberghieri ad un’altra società, la Turism project srl, della quale il 100% delle quote sociali è della Legal gest consulting srl, socio unico, cioè lo stesso Cappellano Seminara, il quale è amministratore giudiziario di un altro gruppo alberghiero, la ghs hotel Ponte spa. Tutto questo è quel che si sa sino al 2011, dopodichè, non si sa con quale motivazione, le nomine degli amministratori e delle aziende loro affidate sono diventate segreti d’ufficio. Adesso, dopo il bel servizio sulle imprese Cavallotti e sull’altro bel campione delle amministrazioni giudiziarie che è Modica de Moach, i simpatici ragazzi delle Iene ci riprovano con Cappellano. Quello che hanno combinato lo sapremo in questi giorni e, dopo che andrà in onda, speriamo di darvi tutto il servizio, dal momento che la nostra collaborazione è stata preziosa per la sua realizzazione. Ecco una feroce satira con cui Telejato ha bollato l’immarcescibile amministratore giudiziario:

Seminara Cappellano è un gran figlio di bu….ano…,

quando allunga un po’ la mano egli prende a tutto spiano,

Parcheggiato all’Arenella tiene un gran catamarano

sequestrato a un mafioso siciliano e palermitano,

ci va sopra e va lontano, si diverte a tutto spiano,

Beni ne ha affidati tanti, di mafiosi e pur di santi,

fa fallire tutti quanti, frega soldi e non va avanti.

Porta tutti al fallimento, solo allora egli è contento.

State attenti a Cappellano, non girate il deretano

è capace di strapparvi tutti i peli intorno all’ano.

Tutti dicon che è un co…cciuto, quelli che l’han conosciuto,

tutti eccetto la dott.ssa Saputo.

Cappellano Seminara, “il re” è rinviato a giudizio dalla procura di Roma, scrive "Telejato". L’elenco dei beni sequestrati ed affidati a Gaetano Cappellano Seminara coinvolge una cinquantina di aziende già confiscate ( di quelle sequestrate non si sa nulla), ed offre uno spaccato di come l’attenzione dei mafiosi sia particolarmente rivolta al settore edilizio e immobiliare, ma non disdegna di occuparsi di altri campi, come quello delle forniture mediche, del turismo, dei trasporti, della plastica, delle reti idriche, del metano, dei lavori della pubblica amministrazione. Buona parte dei beni in oggetto si trovano nel circondario di Bagheria, dove Seminara ha uno studio e dove l’imprenditoria siciliana legata a Bernardo Provenzano ha trovato un fertile terreno per investire denaro. A Bagheria c’è Villa Teresa, una delle cliniche più attrezzate, costruita con i soldi di Michelangelo Aiello,il più ricco imprenditore siciliano, con investimenti collaterali di Bernardo Provenzano e con la protezione politica di Totò Cuffaro, oltre che con la complicità della Regione Sicilia, che ha assicurato pagamenti esorbitanti di pagelle mediche. Comunque Villa Teresa è stata affidata a un altro di questi campioni, Dara, al quale l’incarico è stato revocato dopo lunghi anni di cattiva amministrazione. Non faremo l’elenco dei circa 60 beni affidati al nostro grande amministratore, forse il più grande, il re degli amministratori giudiziari. Titolare di uno studio legale nel quale, per sua ammissione, lavorano oltre trenta dipendenti. Si può dire che buona parte dell’imprenditoria palermitana sia finita sotto le sue grinfie, perchè la dott.ssa Silvana Saguto, che dirige il settore delle misure di prevenzione, è assolutamente convinta che nessuno sia migliore di lui. In quest’orgia di affari, ne è capitato uno che si è rivelato la classica buccia di banana su cui il Cappellano è scivolato. Si tratta della discarica di Bucarest, ritenuta la più grande d’Europa, sulla quale aveva messo le mani Vito Ciancimino e poi il figlio Massimo, che ne gestivano una parte, poi confiscata e affidata al solito Cappellano. Quando uno dei proprietari si ritirò e bisognava rinnovare il Consiglio di amministrazione, Cappellano pagò un lavavetri per acquistare, come prestanome una quota importante ed entrare nel consiglio di amministrazione, per poi diventarne presidente, giochetto che gli è riuscito numerose volte. Questa volta il gioco è stato smascherato. Infatti, grazie alle grandi intuizioni del Procuratore Capo di Roma Pignatone, già del tribunale di Palermo, e quindi collega della dott.ssa Saguto. Valenti, che già da 5 anni ha smesso di occuparsi della discarica rumena, di cui era socio, è stato arrestato per “tentativo di riciclaggio” dei soldi della discarica rumena. Tutto ciò malgrado il GUP di Palermo nel 2013 si fosse dichiarato incompetente per territorio e avesse dichiarato l’estraneità del Valente rispetto ai fatti di cui era accusato. Il Valente, che ha denunciato anche un tentativo ricattatorio di alcuni sindaci di importanti città italiane (si parla di Roma e, in particolare di Napoli e del suo sindaco De Magistris, il quale avrebbe speso oltre 10 milioni di euro per intercettarlo e spiare i suoi movimenti, con la richiesta di farsi carico del deposito dei rifiuti della città. Un arresto per “tentativo di riciclaggio” è il massimo cui possa ricorrere la giurisprudenza: non il reato, ma il tentativo di farlo, prima che sia stato fatto. Ecco perché le misure di prevenzione. Prevenire è meglio che curare. Ma Valenti, a questo punto, ha sporto denuncia contro l’operato di Cappellano Seminara, il quale si ritrova oggi inquisito, per truffa aggravata, non solo in Romania, ma anche in Italia, esattamente dalla Procura di Roma, dove dovrà presentarsi il 22 ottobre, perché rinviato a giudizio, dopo tre archiviazioni della stessa inchiesta, sulle quali è facile ipotizzare l’intervento dei magistrati di cui ci siamo occupati. Sembra che la quarta volta il GUP non abbia potuto fare a meno di procedere. Tra gli accusatori di Seminara c’è anche il principale gestore della discarica rumena, un certo Dombrowsky, il quale apparteneva ai servizi segreti rumeni quando era ancora dittatore Jarusewsky . Costui ha chiesto 50 milioni all’ufficio diretto dalla dott.ssa Saguto, come acconto per una ulteriore richiesta di rimborso danni per la cattiva gestione della discarica fatta da Seminara, almeno nella parte che gli competeva. E così Seminara, nel prossimo ottobre, farà un viaggetto a Roma, non sappiamo se per raccontare altre balle, mentre la dott.sa Saguto dovrà cominciare seriamente a pensare dove trovare i primi 50 milioni di euro chiesti da Dombrowsky, in attesa che non le si presentino altri conti. Gli suggeriamo di fare una misura di confisca dei beni proprio nei confronti del suo pupillo, Cappellano, il quale di beni confiscati ne avrà messo da parte parecchi.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani. 

MEDIA E MASS MEDIA: I GIORNALI SIAMO NOI!

Mezzo di comunicazione di massa. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La locuzione mezzo di comunicazione di massa fu coniata, insieme all'espressione «comunicazione di massa», nella prima metà del XX secolo in ambito anglosassone. Secondo la definizione che ne dà McQuail, i media di massa sono mezzi progettati per mettere in atto forme di comunicazione «aperte, a distanza, con tante persone in un breve lasso di tempo». In altre parole, la comunicazione di massa (quella classe dei fenomeni comunicativi che si basa sull'uso dei media) è costituita da organizzazioni complesse che hanno lo scopo di «produrre e diffondere messaggi indirizzati a pubblici molto ampi e inclusivi, comprendenti settori estremamente differenziati della popolazione». Per più di quattro secoli, l'unico vero medium di massa è stata la «parola stampata», grazie all'invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg (1456). Agli inizi del XIX secolo, lo sviluppo delle ferrovie, insieme ai progressi nella distribuzione delle reti elettriche, crearono le condizioni per la nascita del secondo mezzo di comunicazione di massa, un vero e proprio salto qualitativo nel mondo delle comunicazioni: il telegrafo. Seguiranno, con un crescendo sempre più rapido, il telefono, la radio e la televisione. La nascita e l'apertura in senso commerciale delle reti telematiche, e in particolare l'avvento di Internet, costituiscono al momento la tappa più recente di questo percorso. In virtù dei tratti peculiari che mostrano (peraltro non tutti in antitesi rispetto ai cosiddetti «media tradizionali»), ci si riferisce ai dispositivi basati sulle nuove tecnologie di comunicazione in rete con l'espressione nuovi media.

La tv regina dei mass media, ma i giovani preferiscono Facebook, scrive “Il Giornale di Sicilia”. Continua la crescita di internet e soprattutto la diffusione di smartphone e tablet. La tv resta nel complesso la regina dei media, anche se i giovani preferiscono Facebook per informarsi. E' quanto emerge dal 12esimo Rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione, promosso da Mediaset, Rai e Telecom Italia. Prosegue la crisi della carta stampata e la lettura dei libri non dà segni di ripresa. L'Italia appare comunque un paese spaccato, con un divario abissale tra giovani e anziani soprattutto sull'uso della rete, mezzo utilizzato in primo luogo per i servizi, ma sempre più anche per gli acquisti.

INTERNET - Nel 2015 gli utenti di internet aumentano ancora (+7,4% rispetto al 2013) e arrivano alla quota record del 70,9% della popolazione italiana. Ma solo il 5,2% si connette con banda ultralarga. Continua la forte diffusione dei social network. È iscritto a Facebook il 50,3% della popolazione, YouTube raggiunge il 42% di utenti, Twitter il 10,1%.

TV - La televisione raggiunge la totalità della popolazione (il 96,7%), con un rafforzamento però delle nuove televisioni: la web tv è arrivata a una utenza del 23,7%, mentre le tv satellitari si attestano al 42,4% e il 10% usa la tv connessa. Anche per la radio si conferma una larghissima diffusione (la ascoltano l'83,9% degli italiani). L'uso degli smartphone continua ad aumentare (+12,9%) e ora vengono impiegati regolarmente da oltre la metà degli italiani (il 52,8%), mentre i tablet raddoppiano la diffusione in un biennio e oggi si trovano tra le mani del 26,6% degli italiani.

CARTA STAMPATA - Non si inverte il ciclo negativo per la carta stampata: -1,6% i lettori dei quotidiani rispetto al 2013, tengono i settimanali e i mensili, mentre sono in crescita i contatti dei quotidiani online (+2,6%) e degli altri portali web di informazione (+4,9%). Dopo la grave flessione degli anni passati, non si segnala una ripresa dei libri (-0,7%): gli italiani che ne hanno letto almeno uno nell'ultimo anno sono solo il 51,4% del totale.

LE FONTI - Le prime cinque fonti di informazione sono: i telegiornali (utilizzati dal 76,5% per informarsi), i giornali radio (52%), i motori di ricerca su internet come Google (51,4%), le tv all news (50,9%) e Facebook (43,7%). Aumento record dell'utenza delle tv all news, in crescita del 34,6% rispetto al 2011, Facebook +16,9%, le app per smartphone +16,7%, YouTube +10,9% e i motori di ricerca guadagnano il 10% dell'utenza di informazione. Ma tra i più giovani la gerarchia delle fonti cambia: al primo posto si colloca Facebook come strumento per informarsi (71,1%), al secondo posto Google (68,7%) e solo al terzo posto compaiono i telegiornali (68,5%).

DISINTERMEDIAZIONE DIGITALE - La funzione pratica di internet maggiormente sfruttata è la ricerca di strade e località (lo fa il 60,4% degli utenti del web). Segue la ricerca di informazioni su aziende, prodotti, servizi (56%). Poi viene l'home banking (46,2%) e l'ascolto della musica (43,9%, percentuale che sale al 69,9% nel caso dei più giovani). Fa acquisti sul web ormai il 43,5% degli utenti, ovvero 15 milioni di italiani. Il 37,1% ritiene che, rispetto ai negozi tradizionali, fare la spesa sul web sia più economico. La comodità rappresenta un vantaggio per il 32,8%. Il rischio che dietro allo scontrino virtuale si celino truffe è segnalato dal 28,7% degli italiani e solo il 10,3% si fida al cento per cento dei pagamenti online. Sbrigare pratiche con uffici pubblici è invece un'attività ancora limitata al 17,1% degli internauti.

Sempre media, ma meno mass. A Perugia la lezione di Jarvis. Al festival del giornalismo l'ex cronista americano oggi docente tra comunicazione e comunità. E poi la strategia mediatica dell'Is, le ombre di Mosca e la festa de l'Espresso , scrive Leonardo Malà su “La Repubblica”. Corre da una parte all’altra della Sala dei Notari, Jeff Jarvis, microfono in mano, per spiegare che i mass media sono finiti, non in quanto media ma in quanto mass. Nell’universo comunicativo di questo ex cronista di Chicago, divenuto negli anni docente universitario alla City University of New York e oggi tra i più autorevoli esperti di comunicazione, non esiste un pubblico indistinto ma una platea di lettori da conoscere quasi individualmente. E a rafforzare il concetto va lui stesso a raccogliere le domande in sala, in questa penultima giornata del Festival del Giornalismo. Introdotto dal direttore di Wired Italia, Massimo Russo, Jarvis ricorda vecchie regole del mestiere,  forse dimenticate per la sbornia tecnologica che ha investito tutto il settore. “Il giornalismo è anzitutto servizio - scandisce Jarvis -, e perché ciò accada occorre conoscere i desideri e i problemi del lettore, andargli incontro, indagare sui suoi bisogni. Tradotto in termini editoriali, e non esclusivamente commerciali, il giornalista deve essere promotore di comunità, organizzare il proprio parco lettori, smetterla di rimpastare agenzie per scrivere il decimillesimo articolo sulla stessa notizia. “Che senso ha - esclama con una faccia che a tratti ricorda molto quella di Corrado  Augias - spedire un giornalista televisivo a migliaia di chilometri di distanza, davanti a un luogo dove la notizia è già avvenuta e che lui utilizza solo come sfondo? Oggi ci sono tecnologie capaci di dare contenuti ulteriori, stimolanti, soprattutto più utili”. Quindi un invito esplicito agli editori: “Siate esigenti ma mettete a disposizione un capitale paziente per essere i primi e raccogliere i frutti”. Il discorso delle comunità è in effetti colpevolmente dimenticato. Una sosta in Italia consentirebbe a Jarvis di individuare nei luoghi di lavoro le nuove community. Basterebbe registrare le conversazioni di ciascuno di noi (un po’ come si fa col diario alimentare per chi non si accorge di cosa e quanto mangia) per capire che il novanta per cento dei discorsi diurni riguardano il lavoro. Eppure i grandi luoghi di occupazione difficilmente hanno un loro “corrispondente”, come ce l’hanno le città o i paesi. Tutto questo mentre i nostri cellulari, le mail, le chiacchiere al bar, si concentrano sul nuovo dirigente in arrivo, sul contratto in scadenza, il ricorso del collega, perfino l’amante del capo. Stessa cosa per i supermercati: esistono le comunità che si riforniscono ai discount e quelle dei mercati rionali. Ci sono volantini merceologici molto più letti di alcuni giornali ma il capitolo degli acquisti, ovvero una seria e attenta valutazione della merce in vendita, difficilmente viene presa in considerazione. “Occorre fantasia - ripete Jarvis -, bisogna ribaltare l’approccio tradizionale, non avere paura di sperimentare e, perché no, premiare i lettori più collaborativi e meritevoli, rendendoli non solo partecipi del proprio lavoro ma, in un certo senso, condividendo con loro i proventi, magari attraverso piccoli benefit e agevolazioni”.

Cartoline da Mosca. Dallo schermo della Sala Raffello si vedono gli agenti della polizia russa entrare nel sito di Open Russia e sequestrare il materiale al suo interno come fosse la cosa più normale del mondo. Sono le cartoline che il governo Putin spedisce al mondo dell’informazione, questa volta con l’indirizzo di Veronika Koutsyllo. Per un attimo si è avuta la speranza di poterla salutare in collegamento Skype ma non ci si è riusciti. Il che non compromette, anzi, esalta il coraggio della giornalista russa che avrebbe dovuto comparire insieme a Zygmunt Dzieciolowski, Ivan Kolpakov, Maria Makeeva e il famoso scrittore Oleg Kashin, lui sì via Skipe. Di quest’ultimo si sapeva che era stato pestato brutalmente (e sì che non è esile…), che l’avevano poi cacciato dal proprio giornale per essersi schierato con l’opposizione, fino alla sua fuga in Svizzera. Della Makeeva è stato invece sorprendente vedere con quali sistemi il governo russo cerca di distruggere le emittenti private, dunque non strettamente legate al potere. Tra leggi che in un solo giorno tagliano dell’80 per cento gli utili pubblicitari e traslochi forzati, la sua Tv Rain è finita col trasmettere da un monolocale in centro città. Un’insistenza che ha convinto le forze più moderne russe a intervenire e a rilanciare l’emittente.

Isis, voglia di kolossal. Affollatissimi tutti i panel che parlano di Isis e della sua strategia di comunicazione. Spalleggiato dai giornalisti Fabio Chiusi e Marta Serafini, il ricercatore Eugenio Dacrema ne ha tracciato la genesi e soprattutto i tratti principali. Tutti molto occidentali, a ben vedere: “Il primo aspetto innovativo è tutto e subito. Nessuna promessa al di là da venire, il paradiso è dietro l’angolo. Il secondo è saperla vendere bene. L’Isis ha perso diversi territori ma le basta un accordo di partnership con altri gruppi eversivi per inondare il web di cartine geografiche con un nuovo stato annesso. Vedrete - dice ai presenti – che prima o poi arriverà anche un loro kolossal cinematografico, con tanto di effetti speciali”. Fa pensare, infine, l’arruolamento delle ragazze, specie le più giovani, sedotte dall’idea di entrare nel giro delle donne del capo, o più probabilmente, di finire come schiave. Senza alcun intendimento giustificatorio, l’offerta occidentale non dev’essere granché visto che più di una abbocca.

Cinquanta sfumature di libri. Amazon presenta ai giornalisti il suo sistema per renderli editori di se stessi. Si va nella piattaforma, si mettono le coordinate giuste, si sceglie la copertina più accattivante (grazie al sistema grafico caricato all’interno) quindi si sceglie un prezzo congruo. Il problema è lo stesso di tutta la rete, emergere da questo pantano dell’anonimato dove l’autopromozione da sola non può molto. Insomma, o si ha un titolo fortissimo oppure, assemblando una serie di articoli su una stessa vicenda, si punta sul pubblico di segmento.

Un desiderio Espresso. Alla festa per i sessant’anni dell'Espresso c’erano Beatrice Dondi, Lirio Abbate, Marco Damilano, Marco Pratellesi e Alessandro Gilioli, tutti giornalisti del settimanale.

Gira che ti rigira la vecchia E apostrofata tira ancora belle sberle, come nel caso della recente inchiesta di Lirio Abbate su Mafia Capitale. Perché a buttarla in cagnara sono buoni tutti ma quando c’è da mordere la differenza si vede. E la storia si sente. Scritto da: Alberto "Malaparte" Puliafito su “Polis Blog”. L'introduzione dell'incontro è affidata all'editore di Wired Massimo Russo, che propone di mettere in discussione alcuni luoghi comuni. Per esempio, il copyright. Per esempio, «l'idea di poter essere esclusivi, grandi cattedrali all'esterno delle quali c'è solo l'eresia. I media non hanno più l'esclusiva del racconto». Per esempio l'idea di essere gli unici a dover creare contenuti. Poi tocca a Jarvis. «Se i mass media vogliono sopravvivere, devono smettere di trattare il pubblico come se fosse una massa identica. Questo è il concetto che deve morire. Non ci stanno uccidendo Google o Facebook, sarebbe ridicolo dar loro alla colpa. Con il modello di business della massa sta morendo anche l'idea stessa di massa: bisogna riconcepire il business dei mass media. «Il giornalismo è un servizio». «Il contenuto riempie le cose. I servizi "compiono" cose. Esistono per migliorare le vite degli individui e delle comunità. Per farlo, dobbiamo conoscere gli individui, non più come massa. Conoscere i problemi dei lettori. Le loro richieste. Dobbiamo cambiare la nostra cultura per diventare fornitori di servizi». «Bisogna essere specializzati. Fare quel che si fa meglio di chiunque altro. Se non lo si fa meglio di chiunque altro, allora bisogna connettersi con chi lo fa meglio». «I giornalisti devono smettere di fare gli stenografi e ribattere i comunicati. Devono diventare "promotori" di qualcosa. Riconsiderare il loro lavoro». «Dobbiamo spostare la nostra attenzione sulla comunità, osservarla, ascoltarla, prima di pensare a quali strumenti giornalistici si possono utilizzare per aiutarla». Poi, insiste sul senso di appartenenza, per esempio la membership del Guardian. Che è qualcosa di più di un "essere abbonati". È un'appartenenza alla comunità dei lettori. «Dovremmo riorganizzare le nostre informazioni relativamente alle necessità del pubblico, e non alla nostra produzione di contenuti». Un colpo all'esterofilia: «Negli Stati Uniti, le notizie in televisione fanno schifo». «Se volete fare più click, mettete gattini. Va bene. Anche a me piacciono i gattini Ma dobbiamo andare al di là del concetto di volume e concentrarci sul valore. Andare al di là del concetto di inserzioni pubblicitarie di cui non interessa niente a nessuno». «Non so se la pubblicità nativa ci salverà. Non so se ci salverà il paywall. Non credo che la pubblicità nativa avrà prestazioni così buone andando avanti nel tempo. Cercare di prendere in giro il pubblico non va bene». «Dobbiamo reindirizzarci verso i rapporti, conoscere i lettori come individui, utilizzare le informazioni che condividono volontariamente. Dobbiamo riconcepire il nostro lavoro, il prodotto come servizio per le necessità delle persone». «Visualizzazioni delle pagine, utenti unici, like, click, link, tutte queste cose sono la strada verso le immagini dei gattini». «Alcuni dicono che l'attenzione sia una metrica migliore. Va bene, ma potrebbe diventare una ludicizzazione. La metrica che conterà di più sarà la qualità, non la quantità. Riguarderà il livello di valore che possiamo avere nella vita delle persone. Andare al di là del volume. Venderemo comunque pubblicità. Ma non sarà questa la strada verso il successo». «Il capitale tende ad essere impaziente. Gli investitori vogliono risultati subito. Ma noi abbiamo bisogno di tempo, e non possiamo usarlo per mantenere il passato, dobbiamo utilizzarlo per guardare al futuro, sperimentare, creare nuovi prodotti che riguardano le news». «È pura e semplice arroganza pensare di sapere dove ci porterà internet. Le cose cambiano, ma cambiano lentamente. Le riviste, i giornali sono ancora riconoscibili in quanto tali. Dobbiamo invece ripensare il rapporto del giornalismo con i propri lettori». Nella sessione delle domande, è un giovanissimo a fare la migliore in assoluto, quando osserva che «non voglio dare troppi dati miei a un giornalista. Voglio che sia il giornalista a sapere come catturare la mia attenzione». Jarvis è d'accordo, ma fa un esempio che, banalmente, si può riassumere in "segmentazione" o "profilazione" (e si parla sempre di giornale monolitico vs. giornale "profilato". Dice di non essere interessato alla pagina sportiva del Nyt, ma a quella sui media sì. Quindi gradirebbe che il Nyt lo sapesse e gli offrisse quello che gli interessa). «Sono abbonato al Nyt non solo per i contenuti, ma perché sono un sostenitore del Nyt». «Abbiamo letto – e sono state scritte – cinquemila versioni, cinquemila articoli sul dannato vestito bianco e oro o blu e nero. Quello che non funziona, qui, è proprio il modello di business. Se il modello fosse basato sul vero valore, al massimo avremmo link a quella storia, non un pezzo su quella storia».

I giornali siamo noi. Sulle conseguenze (e le responsabilità) di ogni nostro like e retweet, scrive Roberto Catania su  “Panorama”. Ammetto di esserci cascato anch’io, l’ultima volta mentre scorrazzavo allegramente sulla mia bacheca di Facebook: mi è scappato un like pavloviano a un articolo pubblicato su un autorevole quotidiano torinese che ironizzava sulle esperienze a pagamento nella tenuta biodinamica di Sting. Ho fatto insomma quello che un buon giornalista non dovrebbe mai fare: recepire una notizia di getto, senza confrontare le fonti, in parole povere senza approfondire. C’è voluto un collega più saggio a riportarmi sulla retta via, a farmi notare che trattavasi di notizia falsa e tendenziosa, strumentalizzata ad arte per mettere in ridicolo l’ex Police. La verità è che viviamo nell’era del clic compulsivo. Basta vedere un titolo ad effetto, una foto strappalacrime, un aggiornamento di stato capace di solleticare le corde dei nostri sentimenti più intimi (e istintivi), per far scattare il pollice alto, la doppia freccia, la stellina, il cuoricino e qualsiasi altra azione di condivisione con la nostra social-sfera. Tutto è così veloce e automatico che quasi ci dimentichiamo dell’effetto a valanga - in gergo si chiama viralità – determinato dai nostri gesti su Internet. Vi piaccia o meno siamo quello che leggiamo, e viceversa. Se ne sono accorti persino i politici che ormai più che contendersi i salotti delle tribune politiche televisive fanno a gara a chi è più blogstar. Perché una buona presenza su Facebook e su Twitter vale più di qualsiasi cosa. Nessun altro media ha la capacità di passaparola del Web; in pochi giorni, anzi, in poche ore, una notizia può fare ripetutamente il giro del mondo. Non importa - o perlomeno non importa a tutti - che sia verificata o meno, basta saperla vendere bene. Nell’era del clic compulsivo puoi leggere di tutto, e il bello è che spesso è il tuo migliore amico a segnalarti la notizia. Puoi leggere di arbitri chiusi negli spogliatoi, di aerei che cadono per colpa delle scie chimiche, di vaccini che avvelenano i neonati, di tumori guariti coi succhi di frutta, di cerchi di grano disegnati dagli alieni. Le chiamano bufale, forse perché le bugie sanno ingolosire più della migliore mozzarella campana. È lo scotto che deve pagare chi (tutti noi) ha deciso di informarsi su Internet. Ogni risposta ai nostri perché è a un clic di distanza. Anche se magari è sbagliata. Non serve essere giornalisti per capirlo. Sono sufficienti un paio di ricerche su Google, un po’ di spirito critico, un pizzico di buon senso. Ha ragione Roberto Saviano quando dice che siamo noi a decidere cosa fare dell’informazione: possiamo scivolarci sopra come dei consumati pattinatori, oppure decidere di andare in profondità, scavare, cercare di capire dove sta - o almeno dove tende - la verità. Pensiamoci bene, insomma, prima di mipiaciare o di ritwittare quello che leggiamo sui social. Ne va della qualità della nostra informazione. A scuola i bambini maleducati di norma vengono messi in castigo. Sarebbe bello che la cattiva informazione facesse la stessa fine: relegata negli angoli più bui e trascurati del Web.

11 cose che non sapevate sui Social Network. Sono causa di divorzi ma, anche, Facebook paga chi riesce a violarlo. Queste e altre curiosità raccolte nel video ironico di BuzzFeed, scrive Marina Jonna su “Panorama”.

1. I social superano il porno. Nel 2008 l'interazione sul web dei social ha superato il porno: ovvero gli utenti passavano più tempo online a interagire con i social, invece di cercare siti porno...incredibile ma vero!

2. Causano divorzi. Lo sospettavamo ma ora è una certezza: Nel 2011 1/3 delle cause di divorzio nel Regno Unito riporta nel verbale la parola Facebook...#sapevatelo.

3. Facebook paga chi lo riesce a violare. Facebook paga un ricompensa minima di 500 dollari a chiunque riesca a violare il suo sistema di sicurezza. Gli hacker sono avvertiti: la sfida è aperta!

4. Utenti Twitter: 4ª nazione nel mondo. Se tutti gli utenti di Twitter si riunissero nella vita reale, formerebbero la quarta nazione più grande del mondo...forse il resto appartiene a Facebook!

5. Il tweet di Obama: un record? Con più di 700K di retweet, il tweet di Obama che annunciava il suo secondo mandato è stato un record!...fino a quando non è stato pubblicato da Ellen DeGeneres il selfie dalla notte degli Oscar 2014: 1.3 milioni di retweet in meno di un'ora! E aveva causato addirittura un Twiiter down momentaneo.

6. Come si chiama la mascotte di Snapchat? Il nome del fantasmino simbolo dell'app di Snapchat è Ghostface Chilla: in onore del rapper Ghostface Killah del gruppo Wu-Tang...avrà le royalties?

7. Quanti selfie ci sono su Istangram? La mania dei selfie ha il suo social di riferimento: ci sono circa 57 milioni di selfie su Istangram. Oltre ai piedi....i cibi...i bambini...e i gatti!

8. Record di selfie su Instagram. Kylie Jenner è la regina dei selfie: più di 450 scatti inondano il suo profilo . Segue il rapper Snoop Dog. Anche se, rispetto a lei, risulta essere un principiante...nel suo profilo trovate anche foto di altri!

9. Google+...Google + plus esiste. Ma sembra non ci siano cose interessanti da segnalare...Sorry !

10. MySpace: c'era una volta un re... Lo sapevate che MySpace era una volta il re indiscusso dei social media? Nel 2005 MySpace rifiutò di acquistare Facebook. Per ben due volte...meglio non pensare come si sentano oggi i vertici...!

11. Facebook vs MySpace. Oggi Facebook ha circa 1,25 miliardi di utenti. MySpace meno di 36 milioni. E, come dice Zuckerberg ridendo, "...per ora...!”.

Facebook e le catene: di che libro sei? Continuano le richieste sul social: dai test "scopri che animale sei” alle nomination "dimmi i tuoi 10 libri preferiti”. Ma cosa nascondono?Continua Marina Jonna su “Panorama”. Quest'anno si è aperto all'insegna di "scopri che animale sei”, siamo passati poi a scoprire che personaggio dei fumetti sei, che tipo di donna/uomo sei, fino ad arrivare all'età mentale. Ora siamo in fase letteraria: dimmi i tuoi 10 libri preferiti. Una domanda che ha coinvolto moltissimi utenti, corsi a stilare la loro classifica . E ora parte la catena dei giocatori preferiti Dunque, il social crea catene di continuo: ma vi siete chiesti il perché? Tutte le informazioni che scriviamo sono di proprietà di Facebook, che ne fa un uso commerciale, ovviamente. Ogni nostra inclinazione, gusto o propensione viene raccolta: e diventiamo un boccone ghiotto per le nuove frontiere della pubblicità che ritaglia offerte "su misura” per ogni utente. Lo sapevate che gli annunci pubblicitari che appaiono a voi non sono gli stessi che escono ai vostri amici? Facebook vi chiede di usare la vostra posizione, chiede l'autorizzazione per un numero di servizi elevato, conosce la vostra e-mail, il numero di telefono e il vostro nome, grado di studio e, come se non bastasse, gli interessi: in campo culturale, sportivo e culinario. Ormai il numero degli utenti sfiora cifre da capogiro: circa 180milioni. Ha fatto il giro del mondo l’articolo del Wall Street Journal dove venivano segnalate alcune applicazioni, utilizzabili su Facebook, che avrebbero raccolto gli ID identificativi degli utenti. Per poi inoltrarli a 25 società di pubblicità che tracciavano le attività degli utenti on line. Dopo questa denuncia FB aveva cambiato la normativa sulla privacy, facendo di fatto le stesse cose, ma avvertendo chiaramente l'utente che le avrebbe fatte. La normativa, infatti, che dovrebbe essere letta con attenzione da ogni utente di Facebook , elenca tutto quello che Facebook potrebbe fare con i dati inseriti: quelli obbligatori (nome, e-mail, sesso e data di nascita) e quelli facoltativi (gusti, amici, foto, video, professione). Non solo, FB potrebbe anche tenere traccia delle azioni che vengono compiute sul social: dalla condivisione di un video, dai like messi su alcuni post. Sulla normativa si legge infatti: "....per esempio, se condividi un video, oltre a memorizzare l’effettivo contenuto che hai caricato, potremmo registrare il fatto che lo hai condiviso”. Da qui, il passo a raccogliere informazioni attraverso test e catene è un attimo. Quindi tutto molto chiaro, come chiaro è anche il fatto che se accettiamo di iscriverci niente sarà più privato. Tra le parti da riguardare con attenzione sulla normativa, e che Facebook potrebbe usare, c'è la raccolta dei dati "sul browser che usi, su dove ti trovo e sull’indirizzo IP, nonché sulle pagine che visiti”; e può anche raccogliere “informazioni su di te da altri utenti”; e, cosa leggermente inquietante,  “se i tuoi amici si connettono a un’applicazione o sito web, questa entità sarà in grado di accedere al tuo nome, alla tua immagine del profilo, al sesso, all’ID utente e alle informazioni che hai condiviso con l’impostazione “tutti”. Potrà anche “inviare delle informazioni ai fornitori grazie ai quali mettiamo a disposizione degli utenti i nostri servizi”. Insomma il vero Grande Fratello è tra noi. Utente avvisato, mezzo salvato. O, forse, reso solo più cosciente.

Facebook: ecco come ti cambia il cervello. Circa 180milioni di utenti passano in media due ore al giorno sui social. Ecco 5 conseguenze che intaccano il cervello e il comportamento, scrive Marina Jonna su “Panorama”. Il team di AsapScience ha descritto in un video ironico quali siano le conseguenze sul cervello di un utilizzo smodato e costante dei social. 5 le principali:

1. Dipendenza: i social rappresentano una dipendenza, come dal fumo o dall'alcool. E le conseguenze sul cervello sono simili: perdita di attenzione, incapacità decisionale, perdita dell'attenzione. Questo perché i social appagano senza sforzo: abituano il cervello a ricevere lo stimolo voluto restando passivo.

2. Multitasking: Pensare che l'utilizzo di più social contemporaneamente possa sviluppare la nostra capacità multitasking, è un errore. In realtà chi passa da un social all'altro perde la capacità di concentrazione e immagazzina informazioni nella memoria con più difficoltà.

3. Sindrome della vibrazione fantasma: La sensazione che il telefono stia vibrando o che ci sia arrivata una notifica. Quando invece è solo una nostra percezione. E' capitato a tutti, ma quando la situazione inizia a ripetersi con un po' troppa frequenza, forse si dovrebbe di lasciare lo smartphone a casa ogni tanto. Evitando di viverlo come fosse un prolungamento della nostra mano. Sembra infatti che, alcune aree del nostro cervello, dedicate alle sensazioni tattili, inizino a percepirli come "arti fantasma”...e non dico altro.

4. Dopamine: Il rilascio di dopamine crea una sensazione di benessere al nostro cervello. E' dimostrato che i centri di ricompensa del cervello sono più attivi quando in una conversazione parliamo di noi, invece di ascoltare. Nelle conversazioni vis-à-vis parliamo di noi al massimo per il 30-40% del discorso totale. Sui social la percentuale si sposta all'80%: ovviamente il nostro cervello entra in uno stato di benessere totale. Che soddisfa il nostro egocentrismo.

5. Le relazioni: a differenza di quello che si pensava, le relazioni nate online si sono dimostrate solide, almeno secondo uno studio dell'Università di Chicago. Forse perché si sondano passioni e gusti online prima di incontrarsi. Sempre che non si menta sullo scambio di informazioni e ...sulle foto del profilo!

Facebook e Twitter: la spirale del silenzio. Se avvertiamo sui social che i nostri contatti non la pensano come noi, preferiamo non esprimere la nostra idea. Lo rivela uno studio del Pew Research Center, scrive Marina Jonna su “Panorama”. La chiamano la spirale del silenzio: secondo lo studio " I social media e la spirale del silenzio” pubblicato dal Pew Research Center, l'utilizzo dei social tende a rendere gli utenti conformisti. Ovvero, quando l'utente di un social avverte che i suoi contatti in rete la pensano come lui, è spronato a esprimere la sua opinione. In caso contrario tende a non rendere pubblico il proprio pensiero. La tendenza a esprimersi online sui social che, appare più libera e senza freni, in realtà non è così. Almeno secondo questo studio condotto su un campione di 1.801 americani intervistati sulle rivelazioni di Snowden che riguardavano la sorveglianza di massa via e-mail e telefono. Nonostante l'86% volesse parlare del programma di sorveglianza, solo il 42% di chi usava Facebook e Twitter intendeva farlo postando sui social. Le conclusioni? Solo se gli utenti percepiscono il consenso della rete, si sentono liberi di esprimere la loro opinione. Altrimenti non condividono il proprio pensiero sui social e preferiscono il silenzio. Ma non è tutto: questa tendenza sembra avere conseguenze anche nella vita reale. I dati raccolti suggeriscono infatti agli studiosi che non solo Facebook e Twitter non aprono nuovi ambiti di discussione, ma influenzano anche le relazioni faccia a faccia. Per lo studio di Pew, si potrebbe applicare ai social la teoria della spirale del silenzio, che la sociologa Elisabeth Noelle-Neumann aveva formulato negli Anni 70 e che descriveva il potere dei mass media nei confronti degli utenti. Ma proprio un altro studio pubblicato nel 2012 sempre da Pew "I social media e l'impegno politico” metterebbe in discussione la conclusione cui è giunta l'equipe di ricercatori: questa pubblicazione rilevava che il 66% degli utenti dei social utilizzavano proprio Facebook e Twitter per esprimere le proprie opinioni in ambito politico e sociale. Quindi? Probabilmente l'effetto silenzio è più forte in chi non vuole entrare in polemica sul social e cerca di evitare di innescare una discussione (che normalmente si rivela sterile e potrebbe anche degenerare nell'insulto). Ma che lo stesso comportamento venga poi rispecchiato nella vita reale, ho qualche dubbio: forse il problema non è nella dinamica dei social, ma è insito nel carattere di ciascuno di noi. Se non abbiamo il coraggio di esprimerci per non creare disaccordo, non lo avremo né sul social né di persona. Oppure, decidiamo di non averlo sul social semplicemente perché non conosciamo più della metà dei nostri contatti e, se vogliamo avere un confronto di opinioni, preferiamo farlo di persona. E con chi, possibilmente, stimiamo.

Quando la giustizia diventa spettacolo. Il processo mediatico finisce nella tesi del comandante Zona. Il controverso tema del "processo mediatico" ha catturato l’interesse del comandante della Stazione dei Carabinieri di Corato, Pietro Zona, che ne ha parlato nella sua recente tesi di laurea in Scienze della politica, scrive “Corato Live”. Seguire le vicende di cronaca nera avendo come unica fonte i talk show televisivi è ormai una prassi tristemente consolidata. Ledere la privacy delle persone direttamente coinvolte ed emettere sentenze di condanna solo in virtù dei primi elementi raccolti, anticipando le decisioni di tribunali e magistrati, è purtroppo divenuta la normalità. E' il cosiddetto “processo mediatico” che, con tutte le sue criticità, ha catturato anche l’interesse del luogotenente Pietro Zona, comandante della Stazione dei Carabinieri di Corato. Il tema è stato affrontato nella tesi in Scienze della politica con indirizzo economico giudiziario, in cui Zona si è laureato alla fine del marzo scorso presso la seconda Università degli studi di Napoli. Nell'elaborato il fenomeno è indagato a fondo, a partire dal principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza. L'articolo 27, alla base del nostro ordinamento garantista, al secondo comma recita infatti: “L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Così Zona distingue tra verità processuale e verità mediatica. «Il rapporto tra mass media e segretezza delle indagini è problematico - si legge nella tesi di laurea - poiché i mass media hanno la funzione di rendere pubbliche notizie, mentre le indagini sono caratterizzate da riservatezza, anche se, alle volte, si registrano "fughe di notizie"». La differenza sostanziale tra il processo mediatico e quello vero nelle aule di tribunale riguarda l'aspetto emotivo. Le emozioni, ridotte al minimo nei palazzi di giustizia, pervadono invece ogni processo sugli schermi televisivi, dove risulta semplice ed immediata l'emissione di "sentenze" dotate di scarsa se non nulla attendibilità e fondate solo sulle sensazioni che una vicenda di cronaca nera è in grado di trasmettere. Il comandante - già laureato in Scienze dell'amministrazione, sempre con indirizzo economico giudiziario - sostiene che un soggetto imputato, alla luce di quando detto, corra il rischio di vedersi giudicare ben due volte: la prima da parte della magistratura, la seconda ad opera dell'opinione pubblica. È il noto concetto di spettacolarizzazione del diritto, che non giova al procedimento penale, «dal momento che la ricostruzione della verità dei fatti non ha bisogno di fragore, di trambusto, ma piuttosto, ha bisogno di elementi probatori sui quali deve essere fondata la decisione del giudice penale». L'attenzione di Zona, ispirata anche dalla sua lunga esperienza sul campo, si concentra inoltre sul rapporto fra giornalisti ed esponenti del mondo della giustizia, definito «fortemente complicato dalle affinità esistenti tra i membri di questo binomio», poiché entrambe le attività «comportano l'esercizio di un potere che incide non poco sulla dignità dei cittadini, prima ancora che sulla loro libertà». Nella tesi vengono presi come esempi due casi specifici balzati agli onori della cronaca: il delitto di Balsorano e quello di Cogne, entrambi altamente spettacolarizzati, probabilmente perché le vittime erano due bambini indifesi. Chiudono il discorso alcune riflessioni sulla postmodernità e la sovraesposizione dei processi, lasciando intravedere l'opportunità di una corretta e civile collaborazione tra i mezzi di comunicazione di massa e il potere giuridico. Due mondi che spesso entrano in rotta di collisione, ma che potrebbero tuttavia orientarsi al medesimo obiettivo, vale a dire il rispetto della dignità umana.

La gogna vista dalla procura. A Prato c’è un procuratore da urlo (e di sinistra) che ha scelto di andare in pensione in anticipo per protestare contro gli scandali della giustizia. Intercettazioni, giornalisti, bignè. Chicche su Ruby. Storia di Piero Tony, scrive Claudio Cerasa su “Il Foglio”. Le intercettazioni. Il processo mediatico. La gogna. La vergogna. La giustizia politicizzata. Le correnti. La custodia cautelare. Il bignè. Il Csm. Il governo. Il rapporto con i giornalisti. Le persecuzioni. I trattamenti speciali. I poteri dei magistrati. Il copia incolla dei giudici. E ovviamente il caso Ruby (con una vicenda). Ma prima di arrivare qui, prima di arrivare alla ciccia, al succo del discorso, bisogna partire dall’inizio. Dal perché. Dal motivo vero. Dalla ragione della scelta. Un magistrato di sinistra con trent’anni di esperienza che va in pensione con due anni di anticipo rispetto alla tabella di marcia per lanciare un messaggio, per dare un segno, per protestare contro una giustizia che troppe volte dimostra di essere ingiusta, che troppo spesso dimostra di essere eccessivamente politicizzata e che troppo spesso sembra essere incapace di autoriformarsi e di imboccare una giusta direzione. Siamo andati a Prato e abbiamo trovato una storia da urlo. Una storia che riguarda il procuratore capo di questa città e che mette insieme tutto. Il garantismo. Il processo. Le intercettazioni. I giornali. Il circo mediatico. Si comincia da qui, e Piero Tony, il protagonista di questa storia, lo dice tutto d’un fiato. Il perché. Il motivo vero. Dice Piero Tony: “La verità è che non era più possibile, che non resistevo, che non potevo continuare, che era una situazione surreale, che vedevo troppe cose che non avrei voluto vedere e che tra stare ancora due anni qui, in mezzo a tutto questo, e andare invece via, facendo un po’ di chiasso, riprendendomi la mia vita e lanciando un messaggio, la seconda era l’unica cosa da fare. Nessun dubbio, l’unica. Perché in Italia, lo sanno anche i bambini, il processo non è più un semplice processo ma è una gogna, a volte una vergogna, e chi ha coscienza del suo lavoro sa come funziona, sa i giochi che si fanno con gli imputati e sa come si usano le intercettazioni, le carte, gli spifferi, le indagini, gli arresti. Beh, io dico no. E lo dico da sinistra. Lo dico da militante di una corrente di sinistra. Lo dico dopo aver girato mezza Italia. E lo dico dopo trent’anni di carriera. La giustizia, purtroppo, in Italia non sempre funziona come dovrebbe funzionare. Sarebbe bello, sarebbe un sogno, dire che è solo un problema di riforme, di scelte del governo, di leggi fatte e di leggi non fatte. C’è anche quello, sì, ma il problema è nostro, prima di tutto, e fino a quando non cambieremo noi non sarà possibile cambiare nulla”. Lui si chiama Piero Tony, è nato a Zara il 3 giugno 1941, entra in magistratura nel 1969, a 28 anni diventa giudice istruttore a Milano, a trent’anni si iscrive a Magistratura democratica, per undici anni lavora a Venezia come giudice minorile, nel 1984 si è trasferito a Firenze e nel 1991 arriva alla procura generale del capoluogo toscano. Dove diventa famoso, dove, creando scandalo, comincia a teorizzare che il magistrato deve interessarsi più alla giustizia che all’accusa, e dove, durante il processo d’Appello per i delitti del mostro di Firenze, parlando dai banchi dell’accusa, finisce sulle prime pagine di tutti i giornali per via della sua requisitoria di cinque ore con cui smonta punto per punto la sentenza di primo grado emessa dalla Corte di Assise su Pietro Pacciani. Così: “Mi pesa chiedere ciò che mi appresto a chiedere di fronte a un imputato che concentra in sé, con o senza colpa, perché sicuramente non avrà scelto lui la culla in cui nascere, buona parte del peggio della natura umana. Perché violento e pericoloso, perché bugiardo, sordido, prevaricatore, spregevole, lubrico. Il verbale di dibattimento è costituito da ottanta fascicoli, però di polpa non ce n’è poi tanta”. Era il 1996, anni dopo Pacciani venne assolto, passano i mesi, gli anni, Piero Tony nel 2006 arriva a Prato e otto anni dopo, con due anni di anticipo rispetto al previsto, decide di farsi da parte. Di dare un segnale. E smetterla di avere a che fare con una giustizia ingiusta. La notizia del pensionamento anticipato di Piero Tony la offre in anteprima un giornale locale, il Tirreno, due settimane fa, e tra un detto e un non detto si capisce che il procuratore di Prato è un tipo che non aspetta altro di parlare, di spiegare, di raccontare, di ragionare. E’ così? Contattiamo Tony via email. Gli chiediamo un incontro. Il procuratore ci pensa qualche giorno e alla fine decide di riceverci. A Prato, in Toscana, venti minuti di treno da Firenze. Un vecchio palazzone a un chilometro e mezzo dalla stazione. Molti pini marittimi. Molti faldoni accatastati. Molti funzionari con pantaloncino corto, calzino bianco tirato su fino al ginocchio, camicie a quadri con le maniche arrotolate. Lunghi silenzi. Rumori di porte schiaffeggiate dal vento. Piero Tony è qui, al terzo piano della procura, al suo penultimo giorno di lavoro, e ha voglia di parlare. Di giustizia. Di intercettazioni. Di governo. Di riforme. Di processo. Di correnti. Di politica. E di un dettaglio importante che riguarda un’inchiesta pesante: Ruby. Il procuratore ci fa accomodare nel suo studio, tra una bustona ripiena di libri, una scatola con molti ricordi, un paio di faldoni con inchieste da definire, e accetta di rispondere alle nostre provocazioni. Lo guardi, lo studi, lo ascolti e capisci che nelle parole di Piero Tony c’è la voce di tutti quei magistrati che in tutti questi anni hanno osservato con frustrazione la trasformazione dei processi che regolano la giustizia italiana. I diritti della difesa calpestati, l’esplosione della gogna mediatica, la violazione sistematica della privacy, i mostruosi poteri concessi all’accusa, la progressiva politicizzazione delle procure. Piero Tony fissa negli occhi l’interlocutore, si dondola sulla sedia e inizia a parlare. Si comincia da qui. Prendiamo appunti. “Vede, non so come dire, io faccio questo mestiere da molti anni, ho lavorato nelle procure più importanti d’Italia, con i poliziotti più importanti d’Italia, con i magistrati più importanti d’Italia e già negli anni Settanta mi ero accorto che c’era qualcosa che non funzionava. Qualcosa di distorto, per certi versi inevitabile, che riguarda il tema della custodia cautelare. La verità è questa: è dagli anni Settanta che i magistrati vivono con il cautelare, lo usano in modo discrezionale, con molti eccessi, e lo usano come se fosse un modo per determinare la certezza della pena. Il ragionamento è logico: non so come andrà a finire questo processo ma per far sì che il mio indagato possa avere una punizione intanto lo metto dentro. Non è sempre così, ovvio, ma la storia ci insegna che questo metodo è andato a peggiorare nel corso del tempo con l’affermazione di quello che potrei definire senza problemi il processo mediatico. E oggi, quando si parla di processo passato in giudicato, si intende sostanzialmente questo: una misura cautelare amplificata dal processo portato avanti dalla stampa. Il giudicato, anche grazie al fatto che ci sono spesso magistrati che portano avanti processi che sanno già in partenza che cadranno in prescrizione, coincide ormai con la pena generata dalla gogna mediatica. Ed essendo diventato il processo mediatico una costola del processo tradizionale è ovvio che esistano molti magistrati che giocano spesso con gli amici giornalisti per amplificare gli effetti generati dal processo”. Il magistrato riprende fiato, tira fuori da un cassetto il suo codice di Procedura penale, sfoglia rapidamente alcune pagine, arriva all’articolo numero 358 e improvvisamente, quasi colto da un lampo, ce lo legge – vedremo perché. Articolo numero 358, Titolo V, Attività di indagine del pubblico ministero. “Il pubblico ministero compie ogni attività necessaria ai fini indicati nell’articolo 358 e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”. Dice Tony: “Lei ha presente Karl Popper?”. Più o meno. Bene. Popper diceva che qualsiasi teoria, per essere scientifica, deve essere falsificabile. Il che significa che dalle sue premesse di base devono poter essere deducibili le condizioni di un esperimento che la possa dimostrare integralmente falsa alla prova dei fatti. Il magistrato, secondo me, dovrebbe comportarsi allo stesso modo. Dovrebbe raccogliere non solo il materiale utile a dimostrare una tesi, la sua tesi, ma anche quello utile a dimostrare il contrario. Non lo dice Piero Tony lo dice il codice di procedura penale. E invece no. Troppo spesso si va avanti a forza di gomitate, di forzature, e spesso succede che un magistrato si innamori così tanto del suo teorema da non voler accorgersi di tutti gli elementi che quel teorema lo contraddicono. E da questo punto di vista le intercettazioni, il modo in cui sono state utilizzate in questi anni, il modo in cui sono diventate un ingrediente importante del processo mediatico, hanno svolto un ruolo chiave nel rafforzare i teoremi dei magistrati, facendogli perdere qualche volta contatto con la realtà”. Piero Tony fa qualche esempio. “L’eccessiva disinvoltura con cui vengono inserite le intercettazioni nei fascicoli è spesso l’indice di una difficoltà con cui gli inquirenti gestiscono un’indagine. Esistono naturalmente casi in cui le intercettazioni costituiscono un elemento imprescindibile di un’indagine ma esistono anche casi in cui le intercettazioni vengono utilizzate in eccesso per ragioni mi verrebbe da dire di pigrizia. Come un surrogato di altre tecniche, di altre modalità investigative. Penso agli appostamenti, per dire, ma si potrebbero fare decine di altri esempi. Ciò che in questi anni mi ha stupito in maniera negativa, e che per fortuna nella mia procura non si è mai verificato, è il modo francamente assurdo con cui agiscono alcuni giudici e alcuni magistrati. E’ il metodo copia-incolla. Tu ricevi dodicimila pagine di intercettazioni, le inserisci nella richiesta di custodia cautelare, poi te le ritrovi nell’ordinanza del gip e anche se alcune intercettazioni non hanno alcun rilievo penale hai la certezza che grazie al metodo copia-incolla rimarrà tutto lì. A ingrossare il fascicolo e a regalare qualche ottimo bignè ai giornalisti”. Slurp. “Sento dire spesso ai vari governi che si sono alternati in questi anni che servirebbe un’udienza filtro per scegliere insieme con le parti le intercettazioni che andrebbero utilizzate e quelle che invece non andrebbero selezionate, e mi viene da sorridere: perché l’udienza filtro, che in realtà si chiama udienza stralcio, esiste già oggi, è prevista dal codice di Procedura penale, servirebbe a tutelare le persone terze non indagate e a salvaguardare la privacy degli indagati. Il problema è che nessuno rispetta questa regola e tutti fanno più o meno come diavolo gli pare. Eppure – dice Piero Tony mostrando al cronista un foglio di carta – basterebbe così poco e basterebbe solo volerlo”. Il foglio di carta in formato A4 poggiato in mezzo ad alcune scartoffie accatastate lungo i bordi del tavolo dello studio del procuratore capo è il regolamento interno, o meglio, “il progetto organizzativo”, presentato ai colleghi da Piero Tony pochi giorni dopo il suo arrivo a Prato. Tony ci mostra un punto. E’ il numero tredici, comma cinque: “Il risultato delle intercettazioni telefoniche e ambientali deve essere utilizzato in ogni atto processuale compresa la richiesta di misure cautelari, al fine di tutelare la privacy sia delle persone estranee che degli stessi indagati, con la mera indicazione delle fonti intercettate nonché del sintetico contenuto di quel risultato, quest’ultimo nelle sole parti conferenti alle indagini ed evitando quanto possibile ogni inserimento testuale delle relative trascrizioni”. Basterebbe poco, dice Piero Tony, eppure molte procure vivono in un regime di dubbia legalità. Dovrebbero inserire nei fascicoli solo i riassunti ma in realtà inseriscono tutto quello che non dovrebbero inserire. Effetto bignè. Chiede il cronista: ma questa grande discrezionalità di cui possono godere gli inquirenti sommata all’estrema politicizzazione della magistratura non rischia di creare un mix pericoloso per il sistema giudiziario? Tony ci offre un altro sorriso e prosegue il suo ragionamento. “Bisogna riconoscere che negli anni ai magistrati sono stati assegnati diversi strumenti con i quali hanno avuto la possibilità di operare con grande discrezionalità. Non penso solo alle intercettazioni – perché è ovvio che un magistrato o un giudice che non ama particolarmente un indagato o un imputato sarà più portato a inserire nel fascicolo molti di quei bignè che non hanno alcun rilievo penale ma che piacendo molto ai giornalisti rappresentano oggettivamente un supporto necessario per portare avanti un processo – ma penso anche a strumenti e a tipologie di reati discutibili come per esempio il concorso esterno (tipologia di reato che non esiste nella legge, che è di fatto una creazione giurisprudenziale, che è stata più volte contestata dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione, e che da trent’anni avrebbe bisogno quantomeno di un intervento legislativo). L’Italia è ricca di tipologie di reato che permettono di inquadrare un reato senza che sia necessario portare grandi prove provate. E’ così, c’è poco da fare, e per quanto mi riguarda posso dire che la mancanza di tipicità nella giustizia è davvero parente stretta di mancanza di legalità. Il libero convincimento del giudice – prosegue – è un principio sacrosanto ma per convincere il giudice servono fatti, non chiacchiere o motivazioni apparenti”. Pausa. “Anche la storia dell’obbligatorietà dell’azione penale è una simpatica barzelletta, un giochino da salotto. Ci sono delle scelte prioritarie. La macchina giustizia non riesce ad affrontare milioni di processi. Deve sempre scegliere, in teoria, quali dovrebbe consegnare alla prescrizione e quali invece no. L’obbligatorietà non esiste. Il magistrato, in un modo o in un altro, sceglie sempre di privilegiare una cosa rispetto all’altra. Non c’è un meccanismo automatico che costringe un pm a portare avanti un’indagine se riceve una denuncia o una querela. C’è sempre una discrezionalità. Da un certo punto di vista ci deve essere. Perché bisogna approfondire e bisogna valutare se si tratta di una cazzata o di una cosa seria. L’obbligatorietà dell’azione penale è diventata una favola. E purtroppo, quando un magistrato è politicizzato, può utilizzare questo strumento anche in maniera anomala. Discutibile, diciamo”. E la politica? Piero Tony si illumina, poggia le mani sul tavolo come a voler fare stretching con le braccia, si prepara, si carica, e parte in quarta. “E’ una tautologia dire che la magistratura sia politicizzata. Non si tratta di un’opinione ma si tratta di un dato di fatto. Esistono le correnti. Esistono i magistrati che professano in tutti i modi il loro credo politico. Esistono grandi istituzioni, come il Csm, dove si fa carriera soprattutto per meriti politici. E francamente non riesco a criticare fino in fondo chi sostiene che con una magistratura politicizzata ci sia sempre il rischio che le sentenze abbiano una venatura politica. Per questo, e lo dico da associato, da uno che paga da più di trent’anni la sua quota annuale a Md, dico che le correnti, per la magistratura, tendono a essere un male. Un dramma. E in tutto questo noto un elemento di grande contraddizione. Viene quasi da sorridere. Per quale ragione un magistrato non può essere iscritto a un partito e può invece far parte di un prodotto del pantografo, ovvero di una corrente, che di fatto è configurata come un partito? Perché ci prendiamo in giro così?”. Osiamo: il ragionamento vale anche per Berlusconi? Piero Tony si fa più serio, si ferma un attimo, cerca le giuste parole da utilizzare, le trova, si fa prudente, ma non rinuncia a dire quello che pensa. “Non entro nel merito dei processi, non ho titolo per farlo, ma posso dire senza paura di essere smentito che se Berlusconi non fosse entrato in politica non avrebbe ricevuto tutte le attenzioni giudiziarie che ha ricevuto. E anche sul processo Ruby, che in linea teorica dovrebbe essere un ordinario processo di concussione e prostituzione minorile, è evidente che l’ex presidente del Consiglio ha avuto un trattamento speciale”. Un trattamento speciale, già. Il caso vuole che a Prato, proprio a Prato, uno dei vice di Piero Tony sia Antonio Sangermano, pubblico ministero che ha fatto a lungo parte del pool di magistrati che hanno seguìto da Milano il caso Ruby. E proprio su Sangermano, a Prato, i cronisti di cronaca giudiziaria raccontano un episodio clamoroso. L’episodio riguarda una richiesta particolare arrivata dal Csm e dalla procura di Milano (da Bruti Liberati) per far sì che il dottor Sangermano, nonostante la sua nuova collocazione a Prato, potesse essere ancora utilizzato dalla procura di Milano per seguire il caso Ruby. In giuridichese: “Applicazione extradistrettuale alla procura della Repubblica presso il tribunale di Milano”. Era il dicembre 2011. Il procuratore capo di Prato conferma che quella storia è vera e che quel giorno rispose così: “Gentile procuratore generale. Mi consenta di rilevare che l’impegno del dottor Sangermano nel ‘delicato processo a Milano’ non appare nemmeno paragonabile all’impegno quotidiano dei magistrati di questo ufficio anche a voler considerare tutto quanto si è appreso dai mass-media e si è commentato nelle sedi le più varie. Al di là del possibile riverbero politico – che non compete alla magistratura – e giudiziario sulla persona dell’ex presidente del Consiglio dei ministri pare trattarsi, invero, di mere violazioni alla Legge Merlin da parte di sole tre persone, violazioni in quanto tali di non eccezionale gravità e peso in relazione sia alle pene edittali sia alle aspettative delle parti lese sia alle esigenze dell’istruttoria dibattimentale così come prevedibile”. Il riverbero politico “non compete alla magistratura”. Proprio così. Piero Tony – nonostante la sua richiesta non sia andata a buon fine – lo dice con naturalezza, lo dice da sinistra, lo dice da magistrato, lo dice da garantista e lo dice con libertà. Con lo sguardo e con la voce di tutti quei magistrati e di tutte quelle persone di buon senso che in tutti questi anni hanno osservato con frustrazione la trasformazione della giustizia italiana.

FORCAIOLI CONTRO GARANTISTI.

Il “Fatto” vorrebbe chiuderci. Logico. Ma…, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. C’è un signore che su twitter ha scritto così: «Felice per il fallimento del Garantista. Sansonetti mafioso». E ha corredato questo post con la foto di un tizio (non so se sia lui stesso) col dito medio all’insù. Chi è? Beh, importa poco, dice di chiamarsi Enrico Moriero ed è un lettore del “Fatto”, il giornale di Travaglio. Il linguaggio, si capisce, è quello. Il nostro Enrico si riferisce a un articolo pubblicato nell’edizione on line del “Fatto”, credo ieri, nel quale si riferisce ai lettori dello stato di agitazione sindacale al nostro giornale (per via degli stipendi non ancora pagati) e poi si prosegue con un attacco violento e frontale del quale, francamente, c’è poco da stupirsi. Al “Fatto” non è mai piaciuto il “Garantista”, e non poteva essere altrimenti. Il “Fatto” è il giornale dei magistrati e noi siamo nati, dichiaratamente, per opporci allo strapotere della magistratura. Del resto anche noi,molto spesso, attacchiamo il “Fatto”, non perché vogliamo che chiuda, ci mancherebbe, ma perché ci sembra utile contestare le posizioni e le idee della magistratura, che consideriamo autoritarie e molto pericolose per la conservazione della libertà e dello Stato di diritto. Ancora sull’ultimo numero del giornale, quello di Pasqua, abbiamo dedicato tutta la terza pagina a una polemica molto aspra con Marco Travaglio per via delle sue posizioni favorevoli all’abolizione dei diritti alla privacy, e lo avevamo accusato di “sognare” un’Italia di spioni, che assomigli alla Germania di Honecker e Ulbricht. Non so se le frustate tirate il giorno dopo dal “Fatto” on line siano state una reazione a quell’articolo, o se la coincidenza temporale sia casuale. Non è molto importante. Noi però, quando attacchiamo il “Fatto”, generalmente, attacchiamo le posizioni che esprime. Non cerchiamo di screditarlo come impresa editoriale o come gruppo politico-giudiziario. Anche perché, obiettivamente, il “Fatto” è una impresa editoriale molto solida e un gruppo politico molto forte: vende un botto di copie, guadagna un sacco di soldi, è protetto dal più robusto e dilagante dei poteri pubblici, che è quello della magistratura. Difficile paragonare un vascellino come il nostro a una corazzata come il “Fatto”, vi pare? E tuttavia, a noi, di essere piccolini e gracili – e anche, obiettivamente, in difficoltà economiche – non ci procura vergogna, anzi, ci procura orgoglio. Siamo una piccola cooperativa, costituita da una ventina di giornalisti, di sinistra e di destra e di centro, cristiani convinti e atei impenitenti, poveri in canna e nemmeno molto noti, che a un certo punto ci siamo messi in testa di fare un giornale quotidiano che provasse a coprire, nel panorama dell’informazione italiana, un buco grande come una casa: il punto di vista libertario e garantista. È un punto di vista del tutto assente nei grandi giornali, considerato “sospetto” a sinistra, e approvato a destra soltanto quando si assume la difesa dei politici di destra, a partire da Berlusconi, ma vituperato se per caso si difendono i poveri cristi, i drogati, i rom, i carcerati, le puttane. La nostra è stata una impresa “folle e temeraria” (è scritto così anche nell’articolo del “Fatto”). Senza un soldo, contro il potere, soprattutto contro lo strapotere dei magistrati, contro l’intero schieramento della stampa italiana, contro i partiti e su una posizione politico intellettuale “non prevista” dal senso comune. Eppure…Eppure non è affatto vero che stiamo fallendo. Il giornale è in campo, sebbene sia molto giovane, vende parecchie copie, sta iniziando a smuovere idee e posizioni, a ottenere risultati, conduce con coraggio le sua battaglie (e fa innervosire parecchio, certo, buona parte del partito dei Pm) e non ha affatto intenzione di chiudere i battenti. Tutt’altro. Le difficoltà economiche ci sono, e non ce le risolverà certo il signor Bonaventura. Le affrontiamo da soli, le risolveremo da soli, con la forza nostra e il grandioso spirito di sacrificio dei nostri redattori e dei dipendenti della cooperativa. Che non hanno affatto intenzione di ammainare bandiera bianca. Certo, in Calabria una agitazione sindacale è una mosca bianca, e quando avviene tutti si stupiscono. Negli altri quotidiani calabresi, dove spesso i redattori sono senza contratto o a contratti dimezzati e dove spesso si resta senza stipendio per mesi, non si è abituati a fare sciopero o agitazioni sindacali. I padroni del vapore in Calabria sono potentissimi, ti stroncano se vogliono (e non sempre il sindacato ti difende). Nell’articolo del “Fatto”, Lucio Musolino (l’autore) racconta di quanti giornalisti in questa regione siano supersfruttati, eppure nessuno ricorda un giorno di sciopero nei loro giornali. Da noi è un po’ diverso. I contratti ci sono, e c’è anche la libertà. Il confronto sindacale è giusto che ci sia, e deve essere pienamente libero. Dentro questo confronto si trova la soluzione, non fuori. E noi – sebbene squattrinatissimi e senza santi protettori – troveremo la soluzione. Con calma, serenità, e con grande convinzione nelle nostre idee. Il “Garantista” è un giornale assolutamente nuovo. Non c’è mai stato niente di simile in Calabria. E neppure in Italia. Non ha paura di nessuno, osa sfidare la mafia e l’antimafia, la magistratura e i padroni, gli sfruttatori e partiti politici. Ovvio che non stia simpatico a nessuno. Però – tranquilli – va avanti. E pagherà gli stipendi. Ci dispiace per quel signore gentile col dito medio alzato, e ci dispiace anche per l’amico Travaglio.

Lo Stato teocratico moderno secondo Travaglio, continua Piero Sansonetti. Ormai, se provi a pronunciare in pubblico qualche parola garantista, o a difendere le libertà individuali, la riservatezza della persone, ti linciano. Ti mettono alla berlina. Proprio come facevano i fascisti, i nazisti, una settantina d’anni fa. Ieri Marco Travaglio ha scritto un lungo articolo sul ”Fatto” nel quale sbeffeggia un prestigioso e stimato esponente della politica italiana, Antonello Soru, che è anche il presidente dell’autorità sulla privacy, accusandolo ( e stavolta sulla base di prove certe) di essere il presidente dell’autorità della privacy. Travaglio lo considera un reato. E poi accusandolo di essere un medico, peggio, un dermatologo. Un’intera colonna, in prima pagina, è dedicata a sbeffeggiare l’ex parlamentare sardo e a metterlo in ridicolo, perché medico. Cosa ci fa un medico in parlamento? Se ne troni tra i malati di scabbia che fa meglio! L’essere medico secondo Travaglio è la prova del dilettantismo di questa politica. Ma chi dovrebbe sedere, invece, in Parlamento? Probabilmente nessuno, perché in fondo il Parlamento è abbastanza inutile. Sarebbe più che sufficiente costituire una giunta di magistrati (della corrente giusta, e tutti comunque sottoposti al giudizio di Giancarlo Caselli) e affidare ad essa la stesura delle leggi, la cancellazione di tutti i codici che prevedano diritti o sconti di pena, e infine l’esecuzione stessa delle leggi. Fuori dalle palle medici, avvocati, ingegneri, operai, autisti dei pullman. Che ne sanno loro di come si governa un paese o una prigione? Il motivo dell’attacco sfascisteggiante del ”Fatto” al malcapitato Soru è semplicemente che lo stesso Soru, visto che fa il garante della privacy, aveva fatto notare che la privacy, almeno un po’, va garantita, e che la vita privata della gente, specie quando non c’è alcuna notizia di reato, non può essere raccontata ai quattro venti da magistrati e giornalisti e trasformata in ”metriale” per costruire fango e merda da gettare addosso a chi ci sta antipatico. Travaglio respinge con sdegno l’ipotesi di salvaguardare la privacy , perché – spiega – misure di questo genere sfascerebbero il potere dei Pm, danneggerebbero le indagini _ cioè il bene supremo di uno Stato moderno – e ridurrebbero il nostro paese alla stregua degli Stati Uniti, o della Francia, o di altri libertini e lassisti paesi dell’Occidente corrotto. I processi devono essere fatti dal popolo, celebrati sui giornali e in Tv, e devono essere celebrati sulla base delle informazioni fornite dai magistrati, anche eventualmente – come spesso avviene – violando la legge vigente. Poi alla Corte toccherà ratificare la decisione presa dal tribunale della televisione e del popolo. E Soru, se si oppone, è un medicastro da mettere subito a tacere. Naturalmente Travaglio intuisce l’obiezione, perché ogni tanto se la sente fare: ma vuoi ridurre l’Italia come era una volta la DDR (la mitica Germania comunista di Ulbricht e Honneker, che nei decenni che precedettero l’89 viveva con l’intero ceto intellettuale o politico intercettato per 24 ore al giorno dalla polizia politica)?La Germania comunista era considerata, probabilmente a ragione, il paese più illiberale e poliziesco d’Europa. Naturalmente Travaglio, da buon anticomunista e allievo di Indro Montanelli (il quale però pare che fosse inconsapevole di questa ”discepolatura”) non può esaltare la Germania di Honneker. E allora mette nero su bianco questo ragionamento, francamente candidissimo e disarmante: una cosa – dice – sono ”le aberrazioni della Stasi, la polizia segreta della Germania comunista” e una cosa completamente diversa sono le intercettazioni nell’ambito ”delle doverose indagini della magistratura italiana”. Come fai a rispondere a uno che ti dice così? E’ esplicito, Travaglio, non lascia zone d’ombra: il problema non è cosa si fa, cosa si può fare, cosa è legittimo fare: il problema è chi lo fa. La stessa cosa, fatta dai cattivi è una aberrazione, fatta dai buoni è ”doverosa”. Perfino il linguaggio lascia un po’ senza commenti. Un tipo scanzonato e violento – nella polemica – come Travaglio, quando parla dei magistrati si trasfigura e assume toni da ciambellano, o da sagrestia: ”le doverose indagini...”. Manca solo che dica: ”delle vostre eccellenze…” Il punto è proprio questo (al di là del metodo fascista col quale si offende una brava persona come Soru, che però, essendo un intellettuale di livello, non si sarà neanche offeso di queste fesserie…): è la convinzione della ”superiorità della razza”, la razza dei magistrati (anzi, dei Pm, anzi, di un certo settore dei Pm…) e di alcuni giornalisti. Diciamo del partito giustizialista. Questa convinzione, e la certezza che un buono Stato non deve essere uno stato democratico ma uno Stato Etico, un po’ come il terzo Reich o l’Unione sovietica prima di Gorbaciov, risolvono qualunque questione o contrasto o dubbio politico. La ragione e il torto non sono né confuse tra loro e neppure possono essere ”divise” attraverso un dibattito o un approfondimento: la Ragione è del partito (del partito giustizialista) il torto è di tutti gli altri, in particolare del politici e della vil razza dannata dei garantisti. E’ una visione perfettamente teocratica, ma per fortuna molto meno sanguinaria della teocrazia immaginata dall’Isis…Ho usato due volte la definizione ”partito giustizialista”. Cos’è? Solo una frase fatta, solo propaganda? No, io credo che ormai il partito giustizialista sia strutturato, fortissimo, goda di un grande sostegno nell’opinione pubblica, possa contare su fortissimi strumenti di potere in tutti i campi: economia, editoria, politica, capacità repressiva e di persecuzione dei nemici. E’ un partito che ha il suo nerbo essenziale nella cordata dei Pm che fa capo all’Anm, ma ha anche molte altre componenti, correnti, strumenti. Sarebbe interessante disegnare una mappa di questo partito. Con la sua ala più vistosa, ma forse meno decisiva, che ovviamente sono i Cinque stelle, cioè la componente anarchica, con sfumature di sinistra. Poi c’è ”Il Fatto”, che è la corrente di destra, con una ideologia militaresca, un po’ fascista. Poi ci sono i vari pezzi della magistratura, dai caselliani (che mettono divisa ed elmetto e non sorridono mai) ai Brutisti-Bocassianiani, che vanno al sodo e pensano solo a come processare più gente possibile, ci sono i folcloristici (tipo quel mattacchione di Woodchock che però, simpatico simpatico, fa un sacco di guai), e infine la corrente più seria e ragionante (la meno reazionaria ma anche la più insidiosa, perché dotata di pensiero e conoscenze) che è quella di Sabelli, cioè del vertice dell’Anm. Dietro a questo esercito, che picchia duro e spara a raffica, ed è la mano armato del partito, c’è il potere economico, che dal 1992 ha fatto la scelta di usare la magistratura per demolire la politica. E ha mietuto successi, successi, successi. Ormai questo potere è diventato un potere assoluto, senza opposizione, senza concorrenti. La demolizione della politica, realizzata dal partito giustizialista, è stato il capolavoro del potere economico. E’ buffo che sia così. Travaglio forse non lo sa, e se lo sapesse inorridirebbe: lui ha sempre lavorato per conto del ”Corriere della Sera”, per i gruppi di potere che si aggruppano intorno al Corriere, si proprio così, all’odiato Corriere che fui di Paolo Mieli…Ahi, ahi, ahi.

Renzi, Grillo, Travaglio, Salvini: Ecco a voi i “nuovi Farinacci”, conclude Piero Sansonetti. Il capo del quarto ( o terzo) partito italiano, Matteo Salvini, l’altro ieri non è andato al colloquio con il presidente della Repubblica e ha motivato questa sua (legittima) decisione con una frase offensiva contro Mattarella (”Cosa dovevo andare a chiedergli, il numero di telefono del suo parrucchiere?”). Il Presidente del Consiglio chiama gufi i dirigenti del suo partito che esprimono dissenso nei suoi confronti, e dopo una riunione della Direzione del Pd nella quale ritenne di aver sconfitto Massimo D’Alema, ex presidente del Consiglio, commentò esprimendosi in questi termini: ”Lo ho asfaltato”. Volete che citi qualche dichiarazione di Marco Travaglio? Non c’è bisogno, credo, basta dire che il suo giornale una volta ha pubblicato un editoriale intitolato (”La repubblica delle troie”) e che lui abitualmente usa polemizzare storpiando il nome del suo interlocutore, o affibbiandogli un soprannome insolente. Di Grillo cosa posso dirvi? Che chiama Berlusconi il nano, Bersani lo chiamava, mi pare, Zombi o Gargamella, Renzi lo chiama ”bimbo-minchia”. Fermiamoci qui. Anche perché queste poche citazioni non servono in alcun modo a rappresentare il campionario vastissimo, dilagante, dell’uso dell’offesa, camuffata da sberleffo, per sostituire la polemica politica di sostanza. Io dico: sostituire. Non dico: rafforzare. La durezza dello scontro politico non è una novità, esisteva già nella prima Repubblica, quando la battaglia si inaspriva e i dissensi politici si allargavano e si drammatizzavano. Però, allora, lo spunto era il dissenso, la diversità di opinioni su una grande questione, e l’offesa era un di più. Ora l’offesa è la sostanza e il dissenso sfuma, non si vede o quantomeno è secondario. Mi ricordo, trent’anni fa, fu Claudio Martelli, educato filosofo milanese, a rompere le righe e usare il termine ”neuro-comunismo”(al posto di ”euro-comunismo”) per insultare Enrico Berlinguer. E successe il finimondo, perché fu considerato uno strappo alla buona educazione politica. Martelli lo fece nel corso di un intervento in Parlamento mentre era in corso un ostruzionismo del Pci contro il taglio della scala mobile che durò tre mesi e si concluse solamente, il 7 giugno del 1984, perché Berlinguer fu colpito da un ictus che poi ne provocò la morte. Lo scontro era feroce: ma su un tema sociale, non sulla ricerca dell’urlo, della clamorosità, della ferocia, dell’esaltazione dell’odio come strumento per radunare le proprie truppe. Anche l’ostruzionismo del Pci era uno strumento per radunare le truppe, ma non sull’adesione a un’invettiva bensì sulla difesa di un interesse di gruppo (di classe, si diceva allora) e cioè sul terreno del più puro e drammatico scontro sociale. La ”beatificazione” della volgarità, del trivio, del bullismo estremo, come metodo di lotta politica è invece una eredità del fascismo. C’era un famoso gerarca, che si chiamava Roberto Farinacci, origini popolari e poi breve carriera giornalistica in alcuni giornali locali prima socialisti e poi fascisti, che veniva definito dai suoi stessi camerati ”Farinacci il selvaggio”, era uno specialista in questo tipo di polemica politica. Annientare gli avversari, colpire basso, senza riguardi, puntare all’umiliazione, alla demolizione dell’interlocutore. E poi sorridere, e chiamare l’applauso del circo dei propri sostenitori. Salvini, Grillo, Travaglio e vari altri giornalisti, lo stesso Matteo Renzi, amano questo agonismo politico. Ieri il premier ne ha fatta un’altra. Ha detto che presto l’Italia supererà la Germania come potenza industriale, e diventerà la prima potenza industriale d’Europa. Voi sapete che Mussolini dichiarò: «Spezzeremo le reni alla Grecia». E che quella frase infelice (anche perché l’Italia in Grecia finì con le reni rotte) è diventata un po’ il simbolo della spacconeria politica idiota. Beh, a dire il vero aveva più probabilità Mussolini di vincere la guerra con la Grecia che Renzi di portare l’industria italiana a superare quella tedesca. Lo stile però è quello. Considerare la politica un campo nel quale si fa spettacolo, vince chi recita meglio. E questa scelta porta all’imbarbarimento del linguaggio, che è un imbarbarimento di sostanza. L’imbarbarimento prende il posto dello scontro tra visioni diverse, o dello scontro di classe, o della battaglia ideologica. Non c’è niente da fare, torna il mito di Farinacci. Sgrammaticato, un poco ignorante, digiuno della politica vera, ma aggressivo e capace di fare dell’aggressività la bandiera del fascismo. Io non credo che in Italia esista un pericolo fascista. Altre volte ho polemizzato contro la retorica antifascista, che è stata per settant’anni lo scudo dietro il quale la sinistra ha coperto le sue difficoltà politiche, e che ha usato per ricucire trame di unità quando era più divisa. Penso che quell’antifascismo, spesso illiberale, sempre retorico, militaresco, blindato, sia qualcosa da buttar via. Pericoloso, perché è un antifascismo che scimmiotta il fascismo. Quello del Pd, o dei centri sociali, è lo stesso. Oggi nella società ci sono tanti e diversissimi ”semi” illiberali, autoritari, razzisti, che attraversano come una lunghissima cicatrice tutto il campo politico, dalla sinistra estrema a Casapound. Senza distinzioni profonde. Condizionano il pensiero e il senso comune di partiti e di larghi ceti professionali e sociali, dalla borghesia al proletariato, dalla magistratura, alla chiesa, alla scuola, all’intellettualità. Dove mi pare che il fascismo – lo spirito di quello che a me sembra il fascismo moderno – emerge con più chiarezza è proprio in questo linguaggio della ”demolizione” e dell’odio. Farinacci aveva usato l’invettiva triviale – in parte degradando alcuni temi dannunziani o futuristi – con uno scopo rivoluzionario. Riteneva che quel linguaggio spezzasse luoghi comuni, rovesciasse tabù, potesse accompagnare un fortissimo rivolgimento sociale. ”Sparava sul quartier generale”, come più tardi fecero gli adepti di Mao Tse Tung nella rivoluzione culturale cinese. Il risultato – in un caso e nell’altro – fu la vittoria di chi odiava la libertà, la dignità, la storia. L’estrema conseguenza di quelle lotte triviale furono i falò di libri. Oggi non è molto diverso. Grillo e Travaglio, e con loro Salvini dicono che stanno radendo al suolo il quartier generale. Renzi dice che lui sta rottamando. Lo so che non lo sanno di esser fascisti. Lo so che molti possono ritenere che questo non sia un male. Io dico solo questo: che assomigliano tutti, maledettamente, a Farinacci ( per il quale, peraltro, ho molto rispetto: perché morì, eroicamente, fucilato senza processo da un tribunale del popolo).

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene.  C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”.  Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.

"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie  quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude  quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».

Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione. 

Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte.  Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita.  Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».

Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».

Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.

Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.

Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.

Le vera mafia è lo Stato che ci vessa. È arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Per la prima volta un Papa ha scomunicato la mafia. Benissimo! È arrivato il momento di far luce su chi sia la mafia. Chi potrebbe non essere d'accordo con la condanna assoluta di chi usa la violenza nelle sue varie forme, psicologica, economica e fisica, per sottomettere le persone al proprio arbitrio, al punto da violare i diritti inalienabili alla vita, alla dignità e alla libertà? Ma chi è veramente il Male che sta devastando la nostra esistenza? È la criminalità organizzata che impone il pizzo ai commercianti e fa affari con il traffico di droga e dei clandestini? È la massoneria che gestisce in modo più o meno occulto il potere ovunque nel mondo? È il Gruppo Bilderberg che associa chi più conta nella finanza e nell'economia sulla Terra? Certamente queste realtà interferiscono con la nostra vita con conseguenze tutt'altro che trascurabili. Ma si tratta di realtà che o non riguardano tutti noi o non ne conosciamo bene i contenuti e i risvolti. Viceversa siamo tutti, ma proprio tutti, più che consapevoli delle vessazioni che tutti i giorni lo Stato ci impone attraverso leggi inique e pratiche del tutto arbitrarie. Chi è che ci ha imposto una nuova schiavitù sotto forma del più alto livello di tassazione al mondo, fino all'80% di tasse dirette e indirette? Chi è talmente spregiudicato da speculare sulla nostra pelle legittimando e tassando il gioco d'azzardo, gli alcolici e le sigarette? Chi è a tal punto disumano da tassare la casa, il bene rifugio dell'80% delle famiglie italiane? Chi è che condanna a morte le imprese applicando un centinaio di tasse e balzelli in aggiunta a un centinaio di controlli amministrativi? Chi è che sta accrescendo la disoccupazione e la precarietà in tutte le fasce d'età e lavorative? Chi ha permesso che 4 milioni e 100mila italiani non abbiano i soldi per comperare il pane? Chi protegge le grandi banche e le grandi imprese che continuano a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite? Chi ha finora istigato al suicidio circa 4.500 italiani attraverso le cartelle esattoriali di Equitalia o coprendo le vessazioni delle banche quando non erogano credito o ingiungono di rientrare negli affidamenti entro 24 ore? Chi ha svenduto la nostra sovranità monetaria, legislativa e giudiziaria all'Europa dei banchieri e dei burocrati? Chi è responsabile della crescita inarrestabile del debito pubblico e privato dal momento che siamo costretti a indebitarci per ripianare il debito acquistando con gli interessi una moneta straniera? Chi sta devastando le famiglie obbligando entrambi i genitori a lavorare sodo per riuscire a sopravvivere? Chi ci ha portato all'ultimo posto di natalità in Europa e ci sta condannando al suicidio demografico? Chi sta incentivando l'emigrazione dei nostri giovani più qualificati perché in Italia non hanno prospettive? Chi sta danneggiando gli italiani promuovendo l'invasione di clandestini e umiliando i più poveri tra noi favorendo gli immigrati nell'assegnazione di case popolari, posti all'asilo nido e assegni sociali? Chi sta consentendo l'islamizzazione del nostro Paese riconoscendo il diritto a moschee, scuole coraniche, enti assistenziali e finanziari islamici a prescindere dal fatto che confliggono con i valori fondanti della nostra civiltà, indifferenti al fatto che sull'altra sponda del Mediterraneo i terroristi islamici stanno massacrando i cristiani e riesumando dei califfati in cui il diritto alla vita è garantito solo a chi si sottomette ad Allah e a Maometto? Ebbene è questo Stato che si è reso responsabile dell'insieme di questi comportamenti che ci stanno impoverendo e snaturando, trasformandoci da persone con un'anima in semplici strumenti di produzione e di consumo della materialità, assoggettati al dio euro e alla dittatura del relativismo. Ecco perché è arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato. Di ciò sono certi tutti gli italiani perché è una realtà che pagano sulla loro pelle giorno dopo giorno. Quindi caro Papa Francesco lei ha scomunicato le alte personalità che ha ricevuto in Vaticano, a cui ha stretto la mano e ha augurato successo. Per noi sono loro i veri mafiosi che stanno negando agli italiani il diritto a vivere con dignità e libertà.

Magdi come la Fallaci processati per le loro idee. La scrittrice finì alla sbarra in Italia, Francia e Svizzera per i suoi scritti sul pericolo islamico E anche lei diceva: «Non mi faccio intimidire», scrive “Il Giornale”. Li chiamava «i miei trofei». E di «trofei», alias processi per reato d'opinione a causa delle idee sull'islam espresse in libri e articoli, Oriana Fallaci ne ha subiti diversi nel corso della sua vita, in tutta Europa, dalla Francia alla Svizzera. E naturalmente pure in Italia, anche se l'ultimo, a Bergamo, è cominciato a giugno del 2006, due mesi prima che lei morisse, il 15 settembre. Oriana Fallaci come Magdi Cristiano Allam, anzi molto di più. A parte «l'amicizia complessa», così la definì Allam quando lei morì, che li legava sul fronte comune della denuncia dei pericoli del fondamentalismo islamico e del suo radicamento in Europa, c'è anche la persecuzione per via giudiziaria delle opinioni che li accomuna. Per Allam, oggi, si tratta di un procedimento avviato dal Consiglio di disciplina nazionale dell'Ordine dei giornalisti che lo accusa di «islamofobia». Per la Fallaci, all'epoca, erano invece veri e propri processi penali, per vilipendio all'islam, razzismo, xenofobia. La sostanza, però, non cambia: vietato essere critici nei confronti dei musulmani, pena la gogna, anche giudiziaria. Si arrabbiava, la Fallaci, per quei quattro processi: due in Francia, a partire dal 2002 (quello per «razzismo», nel 2003, si chiuse con la sua assoluzione) e uno in Svizzera, tutti legati a La rabbia e l'orgoglio ; e un altro in Italia, nel 2006, finito con la sua morte. Li chiamava sì trofei ma li riteneva profondamente ingiusti. Ecco come lei stessa li raccontava a novembre del 2005 nel discorso di ringraziamento per il conferimento dell' Annie Taylor Award , il cui testo è stato pubblicato qualche giorno fa da Libero : «I trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni Paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle , la Patrie du Laïcisme , la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité , dove per vilipendio all'islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste , dove tre anni fa gli ebrei francesi della Licra (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica in fronte) si unì ai musulmani francesi del Mrap (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l'Orgueil (La rabbia e l'orgoglio, ma la richiesta fu respinta, ndr ) o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: “Attenzione! Questo libro può costituire un pericolo per la vostra salute mentale”. Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweits , la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il ministro della Giustizia osò chiedere al mio ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell'islam viene impartita nel mio paese». Era furibonda, la Fallaci, per il processo di Bergamo, legato ad alcune affermazioni contenute in La forza della ragione . Un processo travagliato, partito dalla denuncia, nel 2004, di Adel Smith, il presidente all'epoca del'Unione dei Musulmani d'Italia che aveva definito il crocifisso un «cadaverino nudo inventato per spaventare i bambini musulmani». Il pm aveva chiesto l'archiviazione per la Fallaci, ma il gip l'aveva rigettata, imponendo l'imputazione coatta. Ecco cosa scriveva la stessa Fallaci a luglio del 2005, sul Corriere della Sera, nel celebre articolo dopo gli attentati di Londra «Il nemico che trattiamo da amico» : «Mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all'islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al cristianesimo. Nonché per istigazione all'omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l'esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi, anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo Van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro dell'Interno dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia». Al processo, iniziato il 9 giugno del 2006, la Fallaci non si presentò per scelta. Per quel processo ricevette attestati di solidarietà da mezzo mondo, pure dall'ex presidente polacco Lech Walesa. E quel processo finì nel nulla. Alla fine lo beffò la morte della giornalista e scrittrice, il 15 settembre del 2006.

L’ordine dei giornalisti contro Allam così si calpesta la libertà di opinione, scrive Pierluigi Battista su “Il Corriere della Sera”. Trasformare in un crimine un’opinione, per quanto criticabile, non dovrebbe rientrare nei compiti di uno Stato che voglia conservare la sua anima liberale, figurarsi di un Ordine professionale come quello dei giornalisti. E invece mettere sotto accusa le opinioni di un commentatore come Magdi Cristiano Allam è diventato l’occupazione estiva dell’Ordine dei giornalisti. Una parodia dell’Inquisizione che fa di un’associazione di categoria, nata durante il fascismo e senza eguali in nessun’altra democrazia liberale con l’eccezione del post-salazariano Portogallo, un tribunale abusivo che si permette di interpretare a suo modo i princìpi della libertà di espressione e che si permette di emettere verdetti sulle opinioni espresse da un proprio associato. Già l’Italia è caricata da una pletora di reati d’opinione mai smaltiti in tutti gli anni della Repubblica post-fascista. Non c’è bisogno di processi aggiuntivi istruiti da chi si arroga il diritto di giudicare le opinioni altrui solo perché munito del tesserino di un Ordine professionale. Se un giornalista commette un reato, dovrà essere giudicato come tutti gli altri cittadini da un Tribunale della Repubblica. Piccoli tribunali del popolo che si impancano a misuratori dell’eventuale «islamofobia» di Allam sono invece pallide imitazioni di epoche autoritarie che non distinguevano tra reato e opinione. Mentre la libertà d’opinione, dovremmo averlo imparato, è indivisibile e non dovrebbe essere manipolata a seconda delle predilezioni ideologiche. Si vuole criticare Allam? In Italia c’è il pluralismo della critica e dell’informazione e il conflitto delle idee è il sale di una democrazia liberale. La giustizia fai da te, i tribunali delle corporazioni che si permettono di intromettersi non su un comportamento, o su una grave negligenza professionale, bensì sul contenuto di un articolo, sono invece il residuo di un’intolleranza antica, e che non sopporta la diversità delle opinioni, anche delle più estreme. Per cui i censori dell’Ordine potrebbero rimettere nel cassetto i loro processi, togliersi la toga dell’inquisitore e ammettere di aver commesso un errore. Non è mai troppo tardi per la scoperta della libertà.

Caso Allam, una decisione sconcertante. Su "Il Giornale", il presidente dell'Odg: "Magdi potrà difendersi". Ma la vicenda resta sconcertante risponde Alessandro Sallusti.

Caro direttore, leggo i servizi dedicati all'Odg in relazione a una vicenda che riguarda Magdi Cristiano Allam. Debbo dirti che alcuni toni e non poche espressioni mi sconcertano. L'idea che ci siano degli intoccabili non appartiene alla mia cultura né, a leggere il Giornale, alla tua. Potrei tacere, perché solo un ignorante (nel senso che non conosce le cose) può non sapere che il Consiglio nazionale di disciplina è organismo autonomo, voluto come tale da una legge dello Stato. Ma, come ben sai personalmente, non amo le fughe, tanto da essere stato - doverosamente, a mio avviso, ma ugualmente andando contro «corrente» - accanto a te quando a Milano eri sotto processo. Se non si trattasse di Allam mi verrebbe il sospetto che questa vicenda vien cavalcata per riaccendere l'attenzione su un impegno personale e politico. Ma le cose non stanno esattamente come si afferma, pur citando correttamente i passaggi di un capo di incolpazione. Non so, essendo estraneo all'organismo, come finirà. Ma so che ad Allam sono state accordate, doverosamente, tutte le opportunità di acquisire i documenti, contenuti nel fascicolo, che riterrà utili. Di più: ha eccepito che i termini di 30 giorni non gli erano sufficienti e gli uffici, mi assicurano, gli hanno formalizzato un prolungamento che, mi riferiscono, è stato di sua soddisfazione. Ma si tende a trasmettere una informazione distorta. Allam non è stato processato. Ci si è limitati a ritenere «non manifestamente infondato» un esposto presentato da una associazione (sconosciuta, perchè sul web non c'è traccia), «Media e diritto», che si duole per alcune affermazioni contenute suoi articoli. Personalmente non mi sarei sentito oltraggiato (ma non mi sento «intoccabile», come scritto in premessa), ma, anzi, avrei colto la notizia non tanto (né solo) come l'opportunità di rivendicare la possibilità di dire quel che penso, ma anche per argomentarne più approfonditamente le ragioni. Ancor di più, non mi sarei scandalizzato perché questa procedura conferma che non ci sono «intoccabili» e che le ragioni di tutti vengono valutate con attenzione. Una differenza non marginale, ad esempio e senza generalizzazioni, con chi vive di una giustizia, sommaria e tutta sua, sgozzando davanti alla telecamera un giornalista. Enzo Iacopino, Presidente dell'Ordine nazionale dei giornalisti.

Caro presidente, in effetti ho provato sulla mia pelle la tua solidarietà e te ne sono riconoscente e grato. Il che non ha impedito che nostri solerti colleghi mi ri-processassero, nonostante la «grazia» che mi ha concesso il presidente Napolitano, e condannassero a due mesi di sospensione (l'appello, come saprai è a giorni). Ma questa è un'altra storia. È vero, come dici, che non ci devono essere intoccabili, ma chissà perché chi la pensa in un certo modo è più toccato di altri. E quando ad allungare le mani sono colleghi od organi che sia pure autonomi riconducibili all'Ordine dei giornalisti, allora mi preoccupo. Mi piacerebbe che l'Ordine, e tutto ciò che ruota attorno ad esso, si battesse sempre e comunque per la libertà di pensiero ed espressione, di chiunque. Perché è questo, per stare in tema, che distingue la nostra società da quella islamica, il più delle volte fondata sulla sharia. A quei signori che hanno fatto l'esposto bastava spiegare questa semplice verità non trattabile: ci spiace, ma da noi si è liberi di pensare, dire e scrivere, ciò che si crede, per eventuali reati rivolgersi alla magistratura ordinaria. Alessandro Sallusti.

Vogliono toglierci la libertà di critica. Il cardine della democrazia è mettere in discussione (anche) le religioni, scrive Ida Magli su "Il Giornale". Islamofobia: strano concetto da usare in un procedimento disciplinare. «Fobia» è, infatti, termine medico che definisce un particolare disturbo psichico, presente in genere nelle nevrastenie, e che si presenta come paura, ripulsione non infrenabile nei confronti di un qualsiasi fenomeno della realtà. Freud ha aggiunto poi, con le teorie psicoanalitiche sull'inconscio, una spiegazione ulteriore del comportamento fobico affermando che il paziente è indotto a razionalizzare la propria fobia attribuendola agli aspetti negativi degli oggetti o delle persone di cui teme. Siamo sempre nel campo della psichiatria. Da qualche anno tuttavia, in Europa, e in Italia in particolar modo, le accuse di «fobia» si sprecano. Non si può aprire bocca su un qualsiasi argomento senza incorrere in questo rischio. Sarebbe bene, invece, cominciare a ricordarsi quanto cammino abbiamo fatto, quante lotte intellettuali e fisiche abbiamo dovuto sostenere, soprattutto noi, gli italiani, per giungere alla civiltà cui oggi apparteniamo. Abbiamo sofferto e pagato con il carcere e con il sangue non tanto la libertà concreta, quanto la certezza della ricerca scientifica e delle sue conoscenze, disgiunta dal pensiero filosofico, da quello politico e da qualsiasi fede religiosa. Finalmente siamo giunti anche noi, italiani, a poter godere di una democrazia totalmente laica in cui il rispetto per le convinzioni dei singoli cittadini non comporta l'impossibilità di discuterle. Questo è il punto fondamentale di una democrazia sicura di se stessa e della forza della propria libertà: ogni cittadino può e deve poter parlare con tutti gli altri di qualsiasi argomento perché vive in un gruppo ed è la vita di gruppo che forma una società e un popolo. È secondo questi principi di convivenza nella democrazia che si ha il diritto, ma soprattutto il dovere, di discutere delle religioni. Oggi nessuno ritiene, in nessuna parte del mondo, che le religioni non facciano parte integrante delle culture e delle società. E ogni religione, proprio perché religione (religio è legame fra più individui) non è un fatto privato, né può essere trattato da nessuno, né singoli né governi né istituzioni, come un fatto privato. In Italia, poi, per la sua particolare storia, le discussioni e le critiche, anche fortissime, ad associazioni cattoliche, a vescovi, a parroci, a Papi, non sono mai mancate. Sarebbe sufficiente ricordarsi i dibattiti appassionati per la legislazione sul divorzio e sull'aborto. I cattolici hanno fatto allora tutto il possibile per sostenere le loro tesi che erano appunto fondate su norme dettate da un testo sacro, il Vangelo; altrettanto hanno fatto i partiti laici, e alla fine si sono svolti con assoluta libertà i relativi referendum. Cosa sarebbe stato dell'Italia, della democrazia in Italia, se qualcuno avesse pensato che i giornalisti non potevano discutere delle norme di un testo sacro, che bisognava porre loro il bavaglio, o intimorirli con provvedimenti disciplinari? Ho citato esplicitamente il Vangelo perché gli italiani possono supporre che il Corano, scritto diversi secoli dopo la venuta di Gesù, debba in qualche modo somigliargli, riprendere qualcuna delle sue tesi fondamentali. Siccome è vero il contrario perché il Corano è fondato sull'Antico Testamento, sulla legge del taglione, sulla vendetta contro i nemici, sull'obbligo di convertire gli infedeli, sui tabù dell'impurità, è quindi agli antipodi del Vangelo e agli antipodi della civiltà in cui viviamo. Visto che i musulmani sono già numerosissimi sul suolo italiano e aumentano ogni giorno, è dovere e diritto degli italiani sapere quali siano le norme di comportamento imposte da Maometto ai suoi fedeli, i quali, appunto in quanto fedeli, dovrebbero ritenerle giuste e averle fatte proprie. Ma chi dovrebbe informarli se non i giornalisti? L'ipocrisia non è nell'interesse di nessuno oggi in Italia. Intervengano i musulmani o i loro giornalisti (non gli imam) insieme a noi sui giornali e ci assicurino che, pur essendo fedeli a Maometto, ritengono sbagliate la giustizia del taglione, le norme sull'inferiorità e l'impurità delle donne, sulla fustigazione degli omosessuali, sulla lapidazione delle adultere, sull'uccisione degli infedeli... Noi gli crederemo.

Haisam Sakhanh, il jihadista che andava in tv all'Infedele di Gad Lerner, scrive “Libero Quotidiano”. L'orrore dei tagliagole, giorno dopo giorno, ora dopo ora, sconvolge l'Occidente. Solo poche ore fa, il video delle quattro sospette spie decapitate dai fanatici dell'Islam. Immagini strazianti, terrificanti, e che fanno ancor più paura perché è sempre più chiaro che i seguaci della jihad ce li abbiamo in casa. Sono molti, alcuni noti, altri no. C'è un Imam che giura: "Ci prenderemo il Vaticano". E c'è anche chi invece, in passato, andò in televisione. Due anni fa, per la precisione. Stiamo parlando di Haisam Sakhanh, nome di battaglia Abu Omar, che un tempo viveva nel milanese e che, una volta, si fece vedere negli studi de L'Infedele, la trasmissione di Gad Lerner su La7. Da mercoledì la procura di Milano ha fatto sapere di star indagando su di lui: la sua foto, ora, appare su tutti i giornali. Eppure era chiaro da tempo chi fosse, questo Abu Omar. Come ricorda Il Giornale, già nell'aprile del 2013 fu girato un video in cui il siriano-milanese si rese protagonista dell'orrore: assieme ad altri militanti prese parte all'esecuzione di 7 soldati filo-governativi, un colpo e testa e via, gli uomini in ginocchio vengono ammazzati. Nel 2012, inoltre, le autorità italiane non ritennero necessario svolgere qualche approfondimento su mister Haisam, ex elettricista a Cologno Monzese, e la sua rete: fu arrestato al termine di un assalto all'ambasciata di Roma. Haisam e i suoi vengono interrogati, indagati per danneggiamento, violazione di domicilio e violenza privata aggravata e rinviati a giudizio per direttissima. Ma non accadde nulla: tornò libero e riprese a fare proselitismi, nel nostro Paese, a Milano e hinterland. La replica di Lerner, via blog, arriva nel pomeriggio ed è velenosa. "Fra gli altri siriani che parteciparono alla trasmissione come pubblico, senza intervenire, scopriamo ora da una fotografia pubblicata su Facebook che si infiltrò un elettricista di Cologno Monzese, tale Haisam Sakhanh, che nel frattempo è entrato nella milizia Isis col nome di battaglia Abu Omar". "Naturalmente - spiega Lerner - io non ho invitato proprio nessun jihadista in trasmissione, né tre anni fa né mai. Tanto meno costui ha mai preso la parola all'Infedele. Ma per certe testate ogni occasione è buona per insultare".

Noi censurati, il jihadista invitato in tv da Lerner. L'elettricista di Cologno andato a combattere per l'Isis in Siria è indagato per terrorismo, ma due anni fa in Italia veniva trattato da eroe della rivolta, scrive Gian Micalessin su "Il Giornale. I tagliagole amici e complici dell'Isis li avevamo in casa. Vivevano e manifestavano a Milano, mentre a Roma godevano delle migliori coperture. E così quando polizia della Capitale li arrestava mentre assaltavano e devastavano le sedi diplomatiche, i magistrati li rimettevano in libertà. Del resto i ministri del governo Monti, gli stessi che rispedivano i nostri marò nella trappola indiana, ricevevano i loro capi politici alla Farnesina trattandoli alla stregua di eroi. Gad Lerner, nel frattempo, li invitava nel suo salotto televisivo. E Pier Luigi Bersani, allora segretario del Pd, non si faceva problemi ad appoggiarli concionando da un palco adornato con la bandiera dei ribelli. La stessa bandiera in cui s'avvolgevano le sprovvedute attiviste Vanessa Marzullo e Greta Ramelli inghiottite qualche settimana fa dall'inferno siriano. Ma siamo nel Belpaese. Un paese dove l'Ordine dei Giornalisti indaga chi critica l'Islam, ma si guarda bene dall'obbiettare se qualcuno da voce ad un terrorista. E dunque non succedeva nulla. E così anche quando Il Giornale , si permetteva di mostrare i volti e documentare le atrocità di questi signori tutti facevano vinta di non vedere, di non sapere, di non capire. Guardate questo signore. Il suo vero nome è Haisam Sakhanh, il suo nome di battaglia è Abu Omar. Da mercoledì, da quando l'assai sollecita procura di Milano ha fatto sapere di star indagando su di lui, tutti fanno a gara a parlarne. La sua foto campeggia dal Corriere della Sera a Repubblica e i telegiornali fanno a gara nel descriverlo come il reclutatore dei jihadisti di Milano e dintorni. Bella scoperta. Sul Giornale la sua foto era già comparsa l'11 gennaio accanto a un titolo che recitava «Cercate killer islamici? Eccone uno». Come lo sapevamo? Semplice. A differenza degli «ignari» magistrati, politici, diplomatici e di tanti colleghi, sempre pronti a chiuder gli occhi quando le notizie non sono politicamente corrette, non c'eravamo fatto scrupoli a identificare i protagonisti dell' agghiacciante video girato nell'aprile 2013 nella provincia siriana di Idlib e pubblicato lo scorso settembre sul sito web del New York Times . In quel video il siriano-milanese Sakhanh-Abu Omar è protagonista, assieme ad altri militanti guidati dal comandante Abdul Samad Hissa, della spietata esecuzione di 7 soldati governativi appena catturati. Nel filmato indossa un giubbotto marroncino, impugna il kalashnikov e ascolta il comandante che spiega a lui e altri nove militanti perché sia giusto e doveroso ammazzare i prigionieri. Subito dopo preme il grilletto e infila un proiettile nella nuca di un soldato denudato e fatto inginocchiare ai suoi piedi. A gennaio dopo la nostra denuncia nessuno muove un dito. Ma questa non è una novità. Ben più grave è che nessuno si curi di accertare i contatti e i collegamenti di Haisam alias Abu Omar nel febbraio 2012 quando il militante viene arrestato al termine di un vero e proprio assalto all'ambasciata siriana di Roma. Un assalto durante il quale guida alcuni complici all'interno degli uffici della sede diplomatica devastandoli e malmenando alcuni impiegati. Interrogati dal giudice Marina Finiti e indagati per danneggiamento, violazione di domicilio e violenza privata aggravata Haisam e i suoi vengono rinviati a giudizio per direttissima. Ma anche allora non succede nulla. Lui torna libero, continua a far proseliti e a guidare il suo gruppetto basato a Milano e dintorni. Tra questi si distingue l'amico Ammar Bacha che il 19 agosto 2012 non si fa problemi a pubblicare un video in cui i decapitatori dell'Isis (Stato Islamico dell'Iraq e del levante) illustrano la propria attività con il consueto corollario di atrocità e violenze. Anche stavolta tutti fanno finta di non vedere. Del resto solo pochi mesi prima, il 13 maggio 2012, il ministro Giulio Terzi ha incontrato alla Farnesina il Presidente del Consiglio Nazionale Siriano (Cns), Bourhan Ghalioun, capo politico di quei ribelli già allora finanziati dal Qatar e monopolizzati dall'estremismo di Al Qaida e dell'Isis. E così qualche mese dopo pm e polizia si guardano bene dal fermare il signor Sakhanh e il suo sodale. E loro fuggono in Turchia e poi in Siria. Dove possono finalmente dedicarsi alla loro attività più congeniale. Ovvero uccidere e massacrare.

Le decapitazioni di Isis e gli allarmi della Fallaci. Il video dell'uccisione di James Foley riporta alla mente le parole (inascoltate) della scrittrice, scrive Marco Ventura su Panorama. E quindi non è "un conflitto di civiltà" quello che è sotto gli occhi di tutti in Iraq, Siria, Africa? Il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, sempre così graziosamente politically correct, nega in Parlamento la matrice di "civiltà" nei sanguinosi eventi di queste ore e nella risposta di Stati Uniti e Europa, quasi dovessimo vergognarci di difendere i valori dell'Occidente contro una versione esasperata e integralista dell'Islam globale. Ma è così? Arancione e nero. Sapete a cosa penso guardando quell’immagine surreale, terribilmente cinematografica, del giornalista americano James Foley in tuta arancione come i prigionieri di Guantanamo inginocchiato davanti a un paesaggio desertico, il busto eretto e il mento dritto, la postura fiera incongruente con le parole che deve pronunciare, e poi guardando quella figura di morte nera accanto a lui, in piedi, quel tagliagole mascherato dell’Is, coltello in mano, che si rivolge direttamente in inglese a Barack Obama (“You, Obama”) prima di decapitare la sua vittima? Penso, ecco, a Oriana Fallaci. Ai profeti inascoltati che l’Italia ha avuto, e al fatto che per vedere meglio nel futuro si sono dovuti trasferire all’estero, negli Stati Uniti, e da lì vaticinare, puntare l’indice, declamare il j’accuse, le loro omelie laiche da italiani che amano l’Italia e disprezzano però una certa Italia (e Europa). La Fallaci come Prezzolini, isolato nel suo esilio americano (e svizzero). Penso a quanti hanno criticato la Fallaci degli ultimi anni considerando i suoi scritti, le sue invettive finali (o definitive) contro l’invasione islamica, il pericolo islamico, la brutalità islamica, una sorta di metastasi del pensiero, quasi un cancro dello spirito parallelo al male che le consumava il corpo. Ascoltate (sì, ascoltate) quello che Oriana scriveva “Ai lettori” all’indomani dell’11/9, in apertura de “La rabbia e l’orgoglio” (Rizzoli): “Dall’Afghanistan al Sudan, dall’Indonesia al Pakistan, dalla Malesia all’Iran, dall’Egitto all’Iraq, dall’Algeria al Senegal, dalla Siria al Kenya, dalla Libia al Ciad, dal Libano al Marocco, dalla Palestina allo Yemen, dall’Arabia Saudita alla Somalia, l’odio per l’Occidente cresce. Si gonfia come un fuoco alimentato dal vento, e i seguaci del fondamentalismo islamico si moltiplicano come i protozoi d’una cellula che si scinde per diventare due cellule poi quattro poi otto poi sedici poi trentadue. All’infinito”. Ognuno di quei paesi evoca oggi qualcosa di terribile che è avvenuto (che avviene). I talebani comandano ancora in Afghanistan (fino in Pakistan). In Egitto la primavera araba è morta con l’avvento dei Fratelli musulmani, finalmente stroncati dalla restaurazione del generale Al-Sisi. In Libia gli islamisti proclamano il Califfato di Bengasi, guerreggiano e spargono odio e caos anche se nelle elezioni hanno dimostrato di valere poco più del 10 per cento. Tra Somalia e Kenya i guerriglieri islamisti di Al Shabaab fanno incursioni omicide lungo le strade, stragi nei centri commerciali a Nairobi. In paesi come la Nigeria che la Fallaci non citava (la sua lista oggi sarebbe più lunga) i massacri islamisti e i rapimenti delle studentesse sono firmati dalle milizie di Boko Haram. Nello Yemen dei sequestri operano cellule di Al-Qaeda. In Palestina, Hamas usa i civili come scudi umani e lancia razzi su Israele con l’obiettivo di cancellare lo Stato ebraico dalle mappe. Con l’Iran rimane il contenzioso nucleare. Di Iraq e Siria sappiamo. In Libano spadroneggiano gli Hezbollah. L’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo non sono ancora usciti dall’ambiguità, chi più e chi meno, di sostenere o chiudere un occhio sui finanziamenti alle formazioni integraliste. E così via. Dal 2001 sono passati 13 anni e le parole de “La rabbia e l’orgoglio” si avverano. “Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. Distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri…”. Oriana tuonava contro “i nuovi Mori”. Dietro le figure in nero, che c’erano anche allora, vedeva i colletti bianchi, che ci sono ancora. Ascoltiamola.I nuovi Mori con la cravatta trovano sempre più complici, fanno sempre più proseliti. Per questo diventano sempre di più, pretendono sempre di più. E se non stiamo attenti, se restiamo inerti, troveranno sempre più complici. Diventeranno sempre di più, otterranno sempre di più, spadroneggeranno sempre di più. Fino a soggiogarci completamente. Fino a spegnere la nostra civiltà. Ergo, trattare con loro è impossibile. Ragionarci, impensabile. Cullarci nell’indulgenza o nella tolleranza o nella speranza, un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso”. Chissà che non dovremo darle ragione, nonostante il nostro perbenismo intellettuale, pure sui rischi dei flussi migratori. Proprio in conclusione del suo pamphlet la Fallaci scrive infatti dell’Italia che “nonostante tutto esiste. Zittita, ridicolizzata, sbeffeggiata, diffamata, insultata, ma esiste. Quindi guai a chi me la tocca. Guai a chi me la invade, guai a chi me la ruba. Perché (se non l’hai ancora capito te lo ripeto con maggiore chiarezza) che a invaderla siano i francesi di Napoleone o i tedeschi di Hitler o i compari di Osama Bin Laden, per me è lo stesso. Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem”. E per finire: “Stop. Quello che avevo da dire l’ho detto… Ora basta. Punto e basta”.

Oriana Fallaci, la sua lezione su Libero Quotidiano: Maestra di libertà. la profezia sull'Islam fanatico, gli insulti della sinistra, i processi. Il testo di cui oggi iniziamo la pubblicazione - per gentile concessione di Edoardo Perazzi, nipote e erede della Fallaci - è quello di un discorso pronunciato da Oriana Fallaci nel novembre del 2005. La grande toscana fu insignita del Annie Taylor Award, un premio conferito dal Centro Studi di cultura popolare di New York. Il suo discorso, in versione integrale inglese, fu pubblicato pochi giorni dopo da Il Foglio. Poi, il primo dicembre del 2005, Libero ne pubblicò la versione italiana, col permesso della stessa Fallaci, che volle rivederne personalmente la forma (modificandola tramite memorabili telefonate con l'allora responsabile delle pagine culturali Alessandro Gnocchi). Abbiamo deciso di ripubblicare questo testo perché pensiamo che oggi, a quasi dieci anni di distanza, sia più attuale che mai. Bé: un premio intitolato a una donna che saltò sopra le Cascate del Niagara, e sopravvisse, è mille volte più prezioso e prestigioso ed etico di un Oscar o di un Nobel: fino a ieri gloriose onorificenze rese a persone di valore ed oggi squallide parcelle concesse a devoti antiamericani e antioccidentali quindi filoislamici. Insomma a coloro che recitando la parte dei guru illuminati che definiscono Bush un assassino, Sharon un criminale-di-guerra, Castro un filantropo, e gli Stati Uniti «la-potenza-più-feroce, più-barbara, più-spaventosa-che-il-mondo-abbia-mai-conosciuto». Infatti se mi assegnassero simili parcelle (graziaddio un’eventualità più remota del più remoto Buco Nero dell’Universo), querelerei subito le giurie per calunnia e diffamazione. Al contrario, accetto questo «Annie Taylor» con gratitudine e orgoglio. E pazienza se sopravvaluta troppo le mie virtù. Sì: specialmente come corrispondente di guerra, di salti ne ho fatti parecchi. In Vietnam, ad esempio, sono saltata spesso nelle trincee per evitare mitragliate e mortai. Altrettanto spesso sono saltata dagli elicotteri americani per raggiungere le zone di combattimento. In Bangladesh, anche da un elicottero russo per infilarmi dentro la battaglia di Dacca. Durante le mie interviste coi mascalzoni della Terra (i Khomeini, gli Arafat, i Gheddafi eccetera) non meno spesso sono saltata in donchisciotteschi litigi rischiando seriamente la mia incolumità. E una volta, nell’America Latina, mi sono buttata giù da una finestra per sfuggire agli sbirri che volevano arrestarmi. Però mai, mai, sono saltata sopra le Cascate del Niagara. Né mai lo farei. Troppo rischioso, troppo pericoloso. Ancor più rischioso che palesare la propria indipendenza, essere un dissidente cioè un fuorilegge, in una società che al nemico vende la Patria. Con la patria, la sua cultura e la sua civiltà e la sua dignità. Quindi grazie David Horowitz, Daniel Pipes, Robert Spencer. E credetemi quando dico che questo premio appartiene a voi quanto a me. A tal punto che, quando ho letto che quest’anno avreste premiato la Fallaci, mi sono chiesta: «Non dovrei esser io a premiare loro?». E per contraccambiare il tributo volevo presentarmi con qualche medaglia o qualche trofeo da consegnarvi. Mi presento a mani vuote perché non sapevo, non saprei, dove comprare certa roba. Con le medaglie e i trofei ho un’esigua, davvero esigua, familiarità. E vi dico perché. Anzitutto perché crediamo di vivere in vere democrazie, democrazie sincere e vivaci nonché governate dalla libertà di pensiero e di opinione. Invece viviamo in democrazie deboli e pigre, quindi dominate dal dispotismo e dalla paura. Paura di pensare e, pensando, di raggiungere conclusioni che non corrispondono a quelle dei lacchè del potere. Paura di parlare e, parlando, di dare un giudizio diverso dal giudizio subdolamente imposto da loro. Paura di non essere sufficientemente allineati, obbedienti, servili, e venire scomunicati attraverso l’esilio morale con cui le democrazie deboli e pigre ricattano il cittadino. Paura di essere liberi, insomma. Di prendere rischi, di avere coraggio. «Il segreto della felicità è la libertà. E il segreto della libertà è il coraggio», diceva Pericle. Uno che di queste cose se ne intendeva. (Tolgo la massima dal secondo libro della mia trilogia: La Forza della ragione. E da questo prendo anche il chiarimento che oltre centocinquanta anni fa Alexis de Tocqueville fornì nel suo intramontabile trattato sulla democrazia in America). Nei regimi assolutisti o dittatoriali, scrive Tocqueville, il dispotismo colpisce il corpo. Lo colpisce mettendolo in catene o torturandolo o sopprimendolo in vari modi. Decapitazioni, impiccagioni, lapidazioni, fucilazioni, Inquisizioni eccetera. E così facendo risparmia l’anima che intatta si leva dalla carne straziata e trasforma la vittima in eroe. Nelle democrazie inanimate, invece, nei regimi inertamente democratici, il dispotismo risparmia il corpo e colpisce l’anima. Perché è l’anima che vuole mettere in catene. Torturare, sopprimere. Così alle sue vittime non dice mai ciò che dice nei regimi assolutisti o dittatoriali: «O la pensi come me o muori». Dice: «Scegli. Sei libero di non pensare o di pensare come la penso io. Se non la pensi come la penso io, non ti sopprimerò. Non toccherò il tuo corpo. Non confischerò le tue proprietà. Non violenterò i tuoi diritti politici. Ti permetterò addirittura di votare. Ma non sarai mai votato. Non sarai mai eletto. Non sarai mai seguito e rispettato. Perché ricorrendo alle mie leggi sulla libertà di pensiero e di opinione, io sosterrò che sei impuro. Che sei bugiardo, dissoluto, peccatore, miserabile, malato di mente. E farò di te un fuorilegge, un criminale. Ti condannerò alla Morte Civile, e la gente non ti ascolterà più. Peggio. Per non essere a sua volta puniti, quelli che la pensano come te ti diserteranno». Questo succede, spiega, in quanto nelle democrazie inanimate, nei regimi inertamente democratici, tutto si può dire fuorché la Verità. Perché la Verità ispira paura. Perché, a leggere o udire la verità, i più si arrendono alla paura. E per paura delineano intorno ad essa un cerchio che è proibito oltrepassare. Alzano intorno ad essa un’invisibile ma insormontabile barriera dentro la quale si può soltanto tacere o unirsi al coro. Se il dissidente oltrepassa quella linea, se salta sopra le Cascate del Niagara di quella barriera, la punizione si abbatte su di lui o su di lei con la velocità della luce. E a render possibile tale infamia sono proprio coloro che segretamente la pensano come lui o come lei, ma che per convenienza o viltà o stupidità non alzano la loro voce contro gli anatemi e le persecuzioni. Gli amici, spesso. O i cosiddetti amici. I partner. O i cosiddetti partner. I colleghi. O i cosiddetti colleghi. Per un poco, infatti, si nascondono dietro il cespuglio. Temporeggiano, tengono il piede in due staffe. Ma poi diventano silenziosi e, terrorizzati dai rischi che tale ambiguità comporta, se la svignano. Abbandonano il fuorilegge, il criminale, al di lui o al di lei destino e con il loro silenzio danno la loro approvazione alla Morte Civile. (Qualcosa che io ho esperimentato tutta la vita e specialmente negli ultimi anni. «Non ti posso difendere più» mi disse, due o tre Natali fa, un famoso giornalista italiano che in mia difesa aveva scritto due o tre editoriali. «Perché?» gli chiesi tutta mesta. «Perché la gente non mi parla più. Non mi invita più a cena»). L’altro motivo per cui ho un’esigua familiarità con le medaglie e i trofei sta nel fatto che soprattutto dopo l’11 Settembre l’Europa è diventata una Cascata del Niagara di Maccartismo sostanzialmente identico a quello che afflisse gli Stati Uniti mezzo secolo fa. Sola differenza, il suo colore politico. Mezzo secolo fa era infatti la Sinistra ad essere vittimizzata dal Maccartismo. Oggi è la Sinistra che vittimizza gli altri col suo Maccartismo. Non meno, e a parer mio molto di più, che negli Stati Uniti. Cari miei, nell’Europa d’oggi v’è una nuova Caccia alle Streghe. E sevizia chiunque vada contro corrente. V’è una nuova Inquisizione. E gli eretici li brucia tappandogli o tentando di tappargli la bocca. Eh, sì: anche noi abbiamo i nostri Torquemada. I nostri Ward Churchill, i nostri Noam Chomsky, i nostri Louis Farrakhan, i nostri Michael Moore eccetera. Anche noi siamo infettati dalla piaga contro la quale tutti gli antidoti sembrano inefficaci. La piaga di un risorto nazi-fascismo. Il nazismo islamico e il fascismo autoctono. Portatori di germi, gli educatori cioè i maestri e le maestre che diffondono l’infezione fin dalle scuole elementari e dagli asili dove esporre un Presepe o un Babbo Natale è considerato un «insulto-ai-bambini-Mussulmani». I professori (o le professoresse) che tale infezione la raddoppiano nelle scuole medie e la esasperano nelle università. Attraverso l’indottrinazione quotidiana, il quotidiano lavaggio del cervello, si sa. (La storia delle Crociate, ad esempio, riscritta e falsificata come nel 1984 di Orwell. L’ossequio verso il Corano visto come una religione di pace e misericordia. La reverenza per l’Islam visto come un Faro di Luce paragonato al quale la nostra civiltà è una favilla di sigaretta). E con l’indottrinazione, le manifestazioni politiche. Ovvio. Le marce settarie, i comizi faziosi, gli eccessi fascistoidi. Sapete che fecero, lo scorso ottobre, i giovinastri della Sinistra radicale a Torino? Assaltarono la chiesa rinascimentale del Carmine e ne insozzarono la facciata scrivendoci con lo spray l’insulto «Nazi-Ratzinger» nonché l’avvertimento: «Con le budella dei preti impiccheremo Pisanu». Il nostro Ministro degli Interni. Poi su quella facciata urinarono. (Amabilità che a Firenze, la mia città, non pochi islamici amano esercitare sui sagrati delle basiliche e sui vetusti marmi del Battistero). Infine irruppero dentro la chiesa e, spaventando a morte le vecchine che recitavano il Vespro, fecero scoppiare un petardo vicino all’altare. Tutto ciò alla presenza di poliziotti che non potevano intervenire perché nella città Politically Correct tali imprese sono considerate Libertà-di-espressione. (A meno che tale libertà non venga esercitata contro le moschee: s’intende). E inutile aggiungere che gli adulti non sono migliori di questi giovinastri. La scorsa settimana, a Marano, popolosa cittadina collocata nella provincia di Napoli, il Sindaco (ex seminarista, ex membro del Partito Comunista Italiano, poi del vivente Partito di Rifondazione Comunista, ed ora membro del Partito dei Comunisti Italiani) annullò tout-court l’ordinanza emessa dal commissario prefettizio per dedicare una strada ai martiri di Nassiriya. Cioè ai diciannove militari italiani che due anni fa i kamikaze uccisero in Iraq. Lo annullò affermando che i diciannove non erano martiri bensì mercenari, e alla strada dette il nome di Arafat. «Via Arafat». Lo fece piazzando una targa che disse: «Yasser Arafat, simbolo dell’Unità (sic) e della Resistenza Palestinese». Poi l’interno del municipio lo tappezzò con gigantesche foto del medesimo, e l’esterno con bandiere palestinesi. La piaga si propaga anche attraverso i giornali, la Tv, la radio. Attraverso i media che per convenienza o viltà o stupidità sono in gran maggioranza islamofili e antioccidentali e antiamericani quanto i maestri, i professori, gli accademici. Che senza alcun rischio di venir criticati o beffati passano sotto silenzio episodi come quelli di Torino o Marano. E in compenso non dimenticano mai di attaccare Israele, leccare i piedi all’Islam. Si propaga anche attraverso le canzoni e le chitarre e i concerti rock e i film, quella piaga. Attraverso uno show-business dove, come i vostri ottusi e presuntuosi e ultra-miliardari giullari di Hollywood, i nostri giullari sostengono il ruolo di buonisti sempre pronti a piangere per gli assassini. Mai per le loro vittime. Si propaga anche attraverso un sistema giudiziario che ha perduto ogni senso della Giustizia, ogni rispetto della giurisdizione. Voglio dire attraverso i tribunali dove, come i vostri magistrati, i nostri magistrati assolvono i terroristi con la stessa facilità con cui assolvono i pedofili. (O li condannano a pene irrisorie). E finalmente si propaga attraverso l’intimidazione della buona gente in buona fede. Voglio dire la gente che per ignoranza o paura subisce quel dispotismo e non comprende che col suo silenzio o la sua sottomissione aiuta il risorto nazi-fascismo a fiorire. Non a caso, quando denuncio queste cose, mi sento davvero come una Cassandra che parla al vento. O come uno dei dimenticati antifascisti che settanta e ottanta anni fa mettevano i ciechi e i sordi in guardia contro una coppia chiamata Mussolini e Hitler. Ma i ciechi restavano ciechi, i sordi restavano sordi, ed entrambi finirono col portar sulla fronte ciò che ne L’Apocalisse chiamo il Marchio della Vergogna. Di conseguenza le mie vere medaglie sono gli insulti, le denigrazioni, gli abusi che ricevo dall’odierno Maccartismo. Dall’odierna Caccia alle Streghe, dall’odierna Inquisizione. I miei trofei, i processi che in Europa subisco per reato di opinione. Un reato ormai travestito coi termini «vilipendio dell’Islam, razzismo o razzismo religioso, xenofobia, istigazione all’odio eccetera». Parentesi: può un Codice Penale processarmi per odio? Può l’odio essere proibito per Legge? L’odio è un sentimento. È una emozione, una reazione, uno stato d’animo. Non un crimine giuridico. Come l’amore, l’odio appartiene alla natura umana. Anzi, alla Vità. È l’opposto dell’amore e quindi, come l’amore, non può essere proibito da un articolo del Codice Penale. Può essere giudicato, sì. Può essere contestato, osteggiato, condannato, sì. Ma soltanto in senso morale. Ad esempio, nel giudizio delle religioni che come la religione cristiana predicano l’amore. Non nel giudizio d’un tribunale che mi garantisce il diritto di amare chi voglio. Perché, se ho il diritto di amare chi voglio, ho anche e devo avere anche il diritto di odiare chi voglio. Incominciando da coloro che odiano me. Sì, io odio i Bin Laden. Odio gli Zarkawi. Odio i kamikaze e le bestie che ci tagliano la testa e ci fanno saltare in aria e martirizzano le loro donne. Odio gli Ward Churchill, i Noam Chomsky, i Louis Farrakhan, i Michael Moore, i complici, i collaborazionisti, i traditori, che ci vendono al nemico. Li odio come odiavo Mussolini e Hitler e Stalin and Company. Li odio come ho sempre odiato ogni assalto alla Libertà, ogni martirio della Libertà. È un mio sacrosanto diritto. E se sbaglio, ditemi perché coloro che odiano me più di quanto io odi loro non sono processati col medesimo atto d’accusa. Voglio dire: ditemi perché questa faccenda dell’Istigazione all’Odio non tocca mai i professionisti dell’odio, i mussulmani che sul concetto dell’odio hanno costruito la loro ideologia. La loro filosofia. La loro teologia. Ditemi perché questa faccenda non tocca mai i loro complici occidentali. Parentesi chiusa, e torniamo ai trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle, la Patrie du Laïcisme, la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité, dove per vilipendio dell’Islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste, dove tre anni fa gli ebrei francesi della LICRA (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica sulla fronte) si unì ai mussulmani francesi del MRAP (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice Penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l’Orgueil o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: «Attenzione! Questo librò può costituire un pericolo per la vostra salute mentale». (Insieme volevano anche intascare un grosso risarcimento danni, naturalmente). Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweitz, la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il Ministro della Giustizia osò chiedere al mio Ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell’Islam viene impartita nel mio paese. (Un paese dove senza alcuna conseguenza legale qualsiasi mussulmano può staccare il crocifisso dai muri di un’aula scolastica o di un ospedale, gettarlo nella spazzatura, dire che il crocifisso «ritrae-un-cadaverino-nudo-inventato-per-spaventare-i-bambini-mussulmani». E sapete chi ha promosso il processo di Bergamo? Uno dei mai processati quindi mai condannati specialisti nel buttare via i crocifissi. L’autore di un sudicio libretto che per molto tempo ha venduto nelle moschee, nei Centri Islamici, nelle librerie sinistrorse d’Italia. Quanto alle minacce contro la mia vita cioè all’irresistibile desiderio che i figli di Allah hanno di tagliarmi la gola o farmi saltare in aria o almeno liquidarmi con un colpo di pistola nella nuca, mi limiterò a dire che specialmente quando sono in Italia devo essere protetta ventiquattro ore su ventiquattro dai Carabinieri. La nostra polizia militare. E, sia pure a fin di bene, questa è una durissima limitazione alla mia libertà personale. Quanto agli insulti, agli anatemi, agli abusi con cui i media europei mi onorano per conto della trista alleanza Sinistra-Islam, ecco alcune delle qualifiche che da quattro anni mi vengono elargite: «Abominevole. Blasfema. Deleteria. Troglodita. Razzista. Retrograda. Ignobile. Degenere. Reazionaria. Abbietta». Come vedete, parole identiche o molto simili a quelle usate da Alexis de Tocqueville quando spiega il dispotismo che mira alla Morte Civile. Nel mio paese quel dispotismo si compiace anche di chiamarmi «Iena», nel distorcere il mio nome da Oriana in «Oriena» e nello sbeffeggiarmi attraverso sardoniche identificazioni con Giovanna d’Arco. «Le bestialità della neo Giovanna d’Arco». «Taci, Giovanna d’Arco». «Ora basta, Giovanna d’Arco».

Scontro di (in)civiltà. Oriana Fallaci: le galline della sinistra in ginocchio dagli islamici. Per gentile concessione dell’erede Edoardo Perazzi, continuiamo la pubblicazione del discorso che Oriana Fallaci pubblicò nel 2005, quando fu insignita del «Annie Taylor Award», prestigioso riconoscimento statunitense. I temi che la Fallaci affronta sono quelli delle sue celebri opere, tutte edite da Rizzoli. Lo scorso agosto venni ricevuta in udienza privata da Ratzinger, insomma da Papa Benedetto XVI. Un Papa che ama il mio lavoro da quando lesse Lettera a un bambino mai nato e che io rispetto profondamente da quando leggo i suoi intelligentissimi libri. Un Papa, inoltre, col quale mi trovo d’accordo in parecchi casi. Per esempio, quando scrive che l’Occidente ha maturato una sorta di odio contro sé stesso. Che non ama più sé stesso, che ha perso la sua spiritualità e rischia di perdere anche la sua identità. (Esattamente ciò che scrivo io quando scrivo che l’Occidente è malato di un cancro morale e intellettuale. Non a caso ripeto spesso: «Se un Papa e un’atea dicono la stessa cosa, in quella cosa dev’esserci qualcosa di tremendamente vero»). Nuova parentesi. Sono un’atea, sì. Un’atea-cristiana, come sempre chiarisco, ma un’atea. E Papa Ratzinger lo sa molto bene. Ne La Forza della Ragione uso un intero capitolo per spiegare l’apparente paradosso di tale autodefinizione. Ma sapete che cosa dice lui agli atei come me? Dice: «Ok. (L’ok è mio, ovvio). Allora Veluti si Deus daretur. Comportatevi come se Dio esistesse». Parole da cui desumo che nella comunità religiosa vi sono persone più aperte e più acute che in quella laica alla quale appartengo. Talmente aperte ed acute che non tentano nemmeno, non si sognano nemmeno, di salvarmi l’anima cioè di convertirmi. Uno dei motivi per cui sostengo che, vendendosi al teocratico Islam, il laicismo ha perso il treno. È mancato all’appuntamento più importante offertogli dalla Storia e così facendo ha aperto un vuoto, una voragine che soltanto la spiritualità può riempire. Uno dei motivi, inoltre, per cui nella Chiesa d’oggi vedo un inatteso partner, un imprevisto alleato. In Ratzinger, e in chiunque accetti la mia per loro inquietante indipendenza di pensiero e di comportamento, un compagnon-de-route. Ammenoché anche la Chiesa manchi al suo appuntamento con la Storia. Cosa che tuttavia non prevedo. Perché, forse per reazione alle ideologie materialistiche che hanno caratterizzato lo scorso secolo, il secolo dinanzi a noi mi sembra marcato da una inevitabile nostalgia anzi da un inevitabile bisogno di religiosità. E, come la religione, la religiosità finisce sempre col rivelarsi il veicolo più semplice (se non il più facile) per arrivare alla spiritualità. Chiusa la nuova parentesi. E così ci incontrammo, io e questo gentiluomo intelligente. Senza cerimonie, senza formalità, tutti soli nel suo studio di Castel Gandolfo conversammo e l’incontro non-professionale doveva restare segreto. Nella mia ossessione per la privacy, avevo chiesto che così fosse. Ma la voce si diffuse ugualmente. Come una bomba nucleare piombò sulla stampa italiana, e indovina ciò che un petulante idiota con requisiti accademici scrisse su un noto giornale romano di Sinistra. Scrisse che il Papa può vedere quanto vuole «i miserabili, gli empi, i peccatori, i mentalmente malati» come la Fallaci. Perché «il Papa non è una persona perbene». (A dispetto di ogni dizionario e della stessa Accademia della Crusca, il «perbene» scritto "per bene"). Del resto, e sempre pensando a Tocqueville, alla sua invisibile ma insuperabile barriera dentro-la-quale-si-può-soltanto-tacere-o-unirsi-al-coro, non dimentico mai quello che quattro anni fa accadde qui in America. Voglio dire quando l’articolo La Rabbia e l’Orgoglio (non ancora libro) apparve in Italia. E il New York Times scatenò la sua Super Political Correctness con una intera pagina nella quale la corrispondente da Roma mi presentava come «a provocateur» una «provocatrice». Una villana colpevole di calunniare l’Islam... Quando l’articolo divenne libro e apparve qui, ancora peggio. Perché il New York Post mi descrisse, sì, come «La Coscienza d’Europa, l’eccezione in un’epoca dove l’onestà e la chiarezza non sono più considerate preziose virtù». Nelle loro lettere i lettori mi definirono, sì, «il solo intelletto eloquente che l’Europa avesse prodotto dal giorno in cui Winston Churchill pronunciò lo Step by Step cioè il discorso con cui metteva in guardia l’Europa dall’avanzata di Hitler». Ma i giornali e le TV e le radio della Sinistra al Caviale rimasero mute, oppure si unirono alla tesi del New York Times. Tantomeno dimentico ciò che è avvenuto nel mio paese durante questi giorni di novembre 2005. Perché, pubblicato da una casa editrice che nella maggioranza delle quote azionarie appartiene ai miei editori italiani, e da questi vistosamente annunciato sul giornale che consideravo il mio giornale, in un certo senso la mia famiglia, un altro libro anti- Fallaci ora affligge le librerie. Un libro scritto, stavolta, dall’ex vice-direttore del quotidiano che un tempo apparteneva al defunto Partito Comunista. Bé, non l’ho letto. Né lo leggerò. (Esistono almeno sei libri su di me. Quasi tutti, biografie non-autorizzate e piene di bugie offensive nonché di grottesche invenzioni. E non ne ho mai letto uno. Non ho mai neppure gettato lo sguardo sulle loro copertine). Ma so che stavolta il titolo, naturalmente accompagnato dal mio nome che garantisce le vendite, contiene le parole «cattiva maestra». So che la cattiva-maestra è ritratta come una sordida reazionaria, una perniciosa guerrafondaia, una mortale portatrice di «Orianismo». E secondo l’ex vice-direttore dell’ex quotidiano ultracomunista, l’Orianismo è un virus. Una malattia, un contagio, nonché un’ossessione, che uccide tutte le vittime contaminate. (Graziaddio, molti milioni di vittime. Soltanto in Italia, la Trilogia ha venduto assai più di quattro milioni di copie in tre anni. E negli altri ventun paesi è un saldo bestseller). Ma questo non è tutto. Perché nei medesimi giorni il sindaco milanese di centro-destra mi incluse nella lista degli Ambrogini: le molto ambite medaglie d’oro che per la festa di Sant’Ambrogio la città di Milano consegna a persone note, o quasi, nel campo della cultura. E quando il mio nome venne inserito, i votanti della Sinistra sferrarono un pandemonio che durò fino alle cinque del mattino. Per tutta la notte, ho saputo, fu come guardare una rissa dentro un pollaio. Le penne volavano, le creste e i bargigli sanguinavano, i coccodè assordavano, e lode al cielo se nessuno finì al Pronto Soccorso. Poi, il giorno dopo, tornarono strillando che il mio Ambrogino avrebbe inquinato il pluriculturalismo e contaminato la festa di Sant’Ambrogio. Che avrebbe dato alla cerimonia del premio un significato anti-islamico, che avrebbe offeso i mussulmani e i premiati della Sinistra. Quest’ultimi minacciarono addirittura di respingere le ambite medaglie d’oro e promisero di inscenare una fiera dimostrazione contro la donna perversa. Infine il leader del Partito di Rifondazione Comunista dichiarò: «Dare l’Ambrogino alla Fallaci è come dare il Premio Nobel della Pace a George W. Bush». Detto questo, onde rendere a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, devo chiarire qualcosa che certo dispiacerà ad alcuni o alla maggioranza di voi. Ecco qua. Io non sono un Conservatore. Non simpatizzo con la Destra più di quanto non simpatizzi con la Sinistra. Sebbene rifiuti ogni classificazione politica, mi considero una rivoluzionaria. Perché la Rivoluzione non significa necessariamente la Presa della Bastiglia o del Palais d’Hiver. E certamente per me non significa i capestri, le ghigliottine, i plotoni di esecuzione, il sangue nelle strade. Per me la Rivoluzione significa dire «No». Significa lottare per quel «No». Attraverso quel «No», cambiare le cose. E di sicuro io dico molti «No». Li ho sempre detti. Di sicuro vi sono molte cose che vorrei cambiare. Cioè non mantenere, non conservare. Una è l’uso e l’abuso della libertà non vista come Libertà ma come licenza, capriccio, vizio. Egoismo, arroganza, irresponsabilità. Un’altra è l’uso e l’abuso della democrazia non vista come il matrimonio giuridico dell’Uguaglianza e della Libertà ma come rozzo e demagogico egualitarismo, insensato diniego del merito, tirannia della maggioranza. (Di nuovo, Alexis de Tocqueville...). Un’altra ancora, la mancanza di autodisciplina, della disciplina senza la quale qualsiasi matrimonio dell’uguaglianza con la libertà si sfascia. Un’altra ancora, il cinico sfruttamento delle parole Fratellanza-Giustizia-Progresso. Un’altra ancora, la nescienza di onore e il tripudio di pusillanimità in cui viviamo ed educhiamo i nostri figli. Tutte miserie che caratterizzano la Destra quanto la Sinistra. Cari miei: se coi suoi spocchiosi tradimenti e le sue smargiassate alla squadrista e i suoi snobismi alla Muscadin e le sue borie alla Nouvel Riche la Sinistra ha disonorato e disonora le grandi battaglie che combatté nel Passato, con le sue nullità e le sue ambiguità e le sue incapacità la Destra non onora certo il ruolo che si vanta di avere. Ergo, i termini Destra e Sinistra sono per me due viete e antiquate espressioni alle quali ricorro solo per abitudine o convenienza verbale. E, come dico ne La Forza della Ragione, in entrambe vedo solo due squadre di calcio che si distinguono per il colore delle magliette indossate dai loro giocatori ma che in sostanza giocano lo stesso gioco. Il gioco di arraffare la palla del Potere. E non il Potere di cui v’è bisogno per governare: il Potere che serve sé stesso. Che esaurisce sé stesso in sé stesso.

Maestra di libertà. Oriana Fallaci e l'Islam: "Diventeremo l'Eurabia. Il nemico è in casa nostra e non vuole dialogare". Per gentile concessione dell'erede Edoardo Perazzi, continuiamo la pubblicazione del discorso che Oriana Fallaci pubblicò nel 2005, quando fu insignita del Annie Taylor Award, prestigioso riconoscimento statunitense. I temi che la Fallaci affronta sono quelli delle sue celebri opere, tutte edite da Rizzoli. Questo può apparir demagogico, semplicistico, e perfino superficiale: lo so. Ma se analizzate i fatti vedrete che la mia è pura e semplice verità. La verità del bambino che nella fiaba dei Grimm, quando i cortigiani lodano le vesti del re, grida con innocenza: Il re è nudo. Pensateci ragionando sull'attuale tragedia che ci opprime. Perbacco, nessuno può negare che l'invasione islamica dell'Europa sia stata assecondata e sia assecondata dalla Sinistra. E nessuno può negare che tale invasione non avrebbe mai raggiunto il culmine che ha raggiunto se la Destra non avesse fornito alla Sinistra la sua complicità, se la Destra non le avesse dato il imprimatur. Diciamolo una volta per sempre: la Destra non ha mai mosso un dito per impedire o almeno trattenere la crescita dell’invasione islamica. Un solo esempio? Come in molti altri paesi europei, in Italia è il leader della Destra ufficiale che imita la Sinistra nella sua impazienza di concedere il voto agli immigrati senza cittadinanza. E questo in barba al fatto che la nostra Costituzione conceda il voto ai cittadini e basta. Non agli stranieri, agli usurpatori, ai turisti col biglietto di andata senza ritorno. Di conseguenza, non posso essere associata né con la Destra né con la Sinistra. Non posso essere arruolata né dalla Destra né dalla Sinistra. Non posso essere strumentalizzata né della Destra né della Sinistra. (E guai a chi ci prova). E sono profondamente irritata con entrambe. Qualunque sia la loro locazione e nazionalità. Attualmente, per esempio, sono irritata con la Destra americana che spinge i leader europei ad accettare la Turchia come membro dell’Unione Europea. Esattamente ciò che la Sinistra europea vuole da sempre. Ma le vittime dell’invasione islamica, i cittadini europei, non vogliono la Turchia a casa loro. La gente come me non vuole la Turchia a casa sua. E Condoleezza Rice farebbe bene a smetterla di esercitare la sua Realpolitik a nostre spese. Condoleezza è una donna intelligente: nessuno ne dubita. Certo, più intelligente della maggioranza dei suoi colleghi maschi e femmine, sia qui in America che al di là dell’Atlantico. Ma sul paese che per secoli fu l’Impero Ottomano, sulla non-europea Turchia, sulla islamica-Turchia, sa o finge di sapere assai poco. E sulla mostruosa calamità che rappresenterebbe l’entrata della Turchia nell’Unione Europea conosce o finge di conoscere ancora meno. Così dico: Ms. Rice, Mr. Bush, signori e signore della Destra americana, se credete tanto in un paese dove le donne hanno spontaneamente rimesso il velo e dove i Diritti Umani vengono quotidianamente ridicolizzati, prendetevelo voi. Chiedete al Congresso di annetterlo agli stati Uniti come Cinquantunesimo Stato e godetevelo voi. Poi concentratevi sull’Iran. Sulla sua lasciva nucleare, sul suo ottuso ex-sequestratore di ostaggi cioè sul suo presidente, e concentratevi sulla sua nazista promessa di cancellare Israele dalle carte geografiche. A rischio di sconfessare l’illimitato rispetto che gli americani vantano nei riguardi di tutte le religioni, devo anche chiarire ciò che segue. Come mai in un Paese dove l’85 per cento dei cittadini dicono di essere Cristiani, così pochi si ribellano all’assurda offensiva che sta avvenendo contro il Natale? Come mai così pochi si oppongono alla demagogia dei radicals che vorrebbero abolire le vacanze di Natale, gli alberi di Natale, le canzoni di Natale, e le stesse espressioni Merry Christmas e Happy Christmas, Buon Natale, eccetera?!? Come mai così pochi protestano quando quei radicals gioiscono come Talebani perché in nome dei laicismo un severo monumento a gloria dei Dieci Comandamenti viene rimosso da una piazza di Birmingham? E come mai anche qui pullulano le iniziative a favore della religione islamica? Come mai, per esempio, a Detroit (la Detroit ultra polacca e ultra cattolica le ordinanze municipali contro i rumori proibiscono il suono delle campane) la minoranza islamica ha ottenuto che i muezzin locali possano assordare il prossimo coi loro Allah-akbar dalle 6 del mattino alle 10 di sera? Come mai in un paese dove la Legge ordina di non esibire i simboli religioni nei luoghi pubblici, non consentirvi preghiere dell’una o dell’altra religione, aziende quali la Dell Computers e la Tyson Foods concedono ai propri dipendenti islamici i loro cortili nonché il tempo per recitare le cinque preghiere? E questo a dispetto del fatto che tali preghiere interrompono quindi inceppano le catene di montaggio? Come mai il nefando professor Ward Churchill non è stato licenziato dall’Università del Colorado per i suoi elogi a Bin Laden e all’11 Settembre, ma il conduttore della Washington radio Michael Graham è stato licenziato per aver detto che dietro il terrorismo islamico v’è la religione islamica? Ed ora lasciatemi concludere questa serata affrontando altri tre punti che considero cruciali. Punto numero uno. Sia a Destra che a Sinistra tutti si focalizzano sul terrorismo. Tutti. Perfino i radicali più radicali. (Cosa che non sorprende perché le condanne verbali del terrorismo sono il loro alibi. Il loro modo di pulire le loro coscienze non pulite). Ma nel terrorismo islamico non vedo l’arma principale della guerra che i figli di Allah ci hanno dichiarato. Nel terrorismo islamico vedo soltanto un aspetto, un volto di quella guerra. Il più visibile, sì. Il più sanguinoso e il più barbaro, ovvio. Eppure, paradossalmente, non il più pernicioso. Non il più catastrofico. Il più pernicioso e il più catastrofico è a parer mio quello religioso. Cioè quello dal quale tutti gli altri aspetti, tutti gli altri volti, derivano. Per incominciare, il volto dell’immigrazione. Cari amici: è l’immigrazione, non il terrorismo, il cavallo di Troia che ha penetrato l’Occidente e trasformato l’Europa in ciò che chiamo Eurabia. È l’immigrazione, non il terrorismo, l’arma su cui contano per conquistarci annientarci distruggerci. L’arma per cui da anni grido: «Troia brucia, Troia brucia». Un’immigrazione che in Europa-Eurabia supera di gran lunga l’allucinante sconfinamento dei messicani che col beneplacito della vostra Sinistra e l’imprimatur della vostra Destra invadono gli Stati Uniti. Soltanto nei venticinque paesi che formano l’Unione Europea, almeno venticinque milioni di musulmani. Cifra che non include i clandestini mai espulsi. A tutt’oggi, altri quindici milioni o più. E data l’irrefrenabile e irresistibile fertilità mussulmana, si calcola che quella cifra si raddoppierà nel 2016. Si triplicherà o quadruplicherà se la Turchia diventerà membro dell’Unione Europea. Non a caso Bernard Lewis profetizza che entro il 2100 tutta l’Europa sarà anche numericamente dominata dai musulmani. E Bassan Tibi, il rappresentante ufficiale del cosiddetto Islam Moderato in Germania, aggiunge: «Il problema non è stabilire se entro il 2100 la stragrande maggioranza o la totalità degli europei sarà mussulmana. In un modo o nell’altro, lo sarà. Il problema è stabilire se l’Islam destinato a dominare l’Europa sarà un Euro-Islam o l’Islam della Svaria». Il che spiega perché non credo nel Dialogo con l’Islam. Perché sostengo che tale dialogo è un monologo. Un soliloquio inventato per calcolo dalla Realpolitik e poi tenuto in vita dalla nostra ingenuità o dalla nostra inconfessata disperazione. Infatti su questo tema dissento profondamente dalla Chiesa Cattolica e da Papa Ratzinger. Più cerco di capire e meno capisco lo sgomentevole errore su cui la sua speranza si basa. Santo Padre: naturalmente anch’io vorrei un mondo dove tutti amano tutti e dove nessuno è nemico di nessuno. Ma il nemico c’è. Lo abbiamo qui, in casa nostra. E non ha nessuna intenzione di dialogare. Né con Lei né con noi. Di Oriana Fallaci.

Montanelli Fallaci, libro a 4 mani. Finì a “ti disprezzo” e “ti credevo migliore”, scrive Riccardo Galli su Blitz Quotidiano. Il titolo lo si sarebbe potuto trovare facilmente e avrebbe potuto, magari, suonare più o meno così: “L’impossibile libro a 4 mani”. E’, anzi era il progetto editoriale targato Rizzoli che poco meno di mezzo secolo fa avrebbe voluto dare i natali ad un libro scritto da due monumenti del giornalismo italiano: Indro Montanelli e Oriana Fallaci. Un progetto naufragato però ancor prima di reificarsi a causa delle personalità delle due “penne”. Personalità a dir poco ingombranti e, di certo, poco disponibili ad una posizione di non protagonista assoluto. Foss’anche nella stesura di un libro. Un progetto abortito e sconosciuto, almeno sino a che Paolo Di Paolo, raccogliendo materiale per un libro su Montanelli, non si è ritrovato tra le mani una lettera della Fallaci. Una lettera in cui la giornalista, da New York, scriveva alla moglie di Montanelli parlandole proprio del libro in questione: “Niente schemi rigidi, niente cattedre da una parte o dall’altra”. Da questo frammento è partita una ricerca che ha svelato la storia, o almeno parte di essa, del libro mai nato. Una storia che Di Paolo racconta sul Corriere della Sera. “Cinque anni prima – agosto 1971 – erano stati (Montanelli e la Fallaci ndr.) sul punto di scrivere un volume a quattro mani, ma il progetto naufragò. Questo libro mai nato rischiava di essere un capo lavoro: provate ad immaginare due penne simili – così sopra la media di chiunque scriva oggi, così brillanti, così feroci e libere – nello stesso spazio editoriale”. “’Niente schemi rigidi, niente cattedre da una parte o dall’altra’ precisa la Fallaci scrivendo alla moglie di Indro, Colette Rosselli, il 7 agosto del ’71,. Mentre lavoravo ad un libro su Montanelli – racconta Di Paolo sul Corriere – ho ritrovato questa curiosa lettera: l’Oriana racconta a Colette di aver tardato ad iniziare il lavoro per una serie di ragioni – una febbre tropicale presa durante un servizio in Asia, la malattia della madre e dello zio Bruno, ma anche una ‘comprensibile paura, una comprensibile timidezza che un po’ per volta mi aveva invaso’”. Da questa traccia si possono quasi immaginare i due, Montanelli e la Fallaci, uno al di qua e una al di là dell’Atlantico, da New York dove viveva, scambiarsi appassionate lettere. Internet, e con lui le e-mail, erano ancora lontani da venire e, per comunicare, i due dovevano per forza di cose ricorrere all’unico sistema allora efficiente: carta e penna. E allora lettere. Lettere in cui la Fallaci confida un pizzico di timore reverenziale alla moglie di quello che comunque, complici i 20 anni di differenza, considera in qualche modo un maestro. E lettere in cui il “maestro” manifesta comunque l’ammirazione per quella che ai suoi occhi è una “ragazzina”, seppur piena di talento. Lettere in cui dalla timidezza si passa alle idee e, rapidamente, allo scontro e alla fine ai veri e propri insulti. Una parabola in cui si possono riconoscere i caratteri dei due che, idee politiche a parte, hanno effettivamente contribuito a fare la storia del giornalismo italiano. La rabbia e l’orgoglio che, prima di divenire il titolo del libro probabilmente più celebre della Fallaci, erano parte integrante e caratterizzante della giornalista. E poi l’indisponibilità ad accettare lezioni da una “ragazzina” e le differenti visioni del mondo e, soprattutto, della Resistenza che Montanelli e che la Fallaci hanno e che saranno alla base della rottura tra i due. Dall’idea di un lavoro fatto insieme infatti a questo si arriva: ad una rottura praticamente definitiva tra i due. Anche se, entrambi, non smetteranno di riconoscere il valore dell’altro. “Ti disprezzo”, scriverà Montanelli. “Ti credevo migliore” le risponderà la Fallaci. Epitaffio di una collaborazione che avrebbe potuto essere magnifica ma che non poteva in realtà essere.

E poi c'è quello che nessuno ha mai detto. L'Oriana Fallaci che visse la storia di Gesù in diretta. "Stampo da mezzo secolo L'Evangelo di Maria Valtorta, 10 volumi. Contiene dettagli inediti che solo una testimone oculare può aver visto", scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. Immaginate un'Oriana Fallaci al fianco di Gesù, pronta a osservare e a riferire tutto ciò che vede, con una dovizia di particolari da lasciare attoniti; una cronista dalla penna insuperabile, molto più attenta di Marco, Matteo, Luca e Giovanni, i quattro evangelisti che narrarono la vita del Nazareno in modo succinto o riferendo episodi dei quali non furono testimoni diretti. Quella donna è esistita. Si chiamava Maria Valtorta. La cosa incredibile è che nacque a Caserta il 14 marzo 1897 e morì a Viareggio il 12 ottobre 1961. Ciononostante ha lasciato 122 quaderni di scuola - in tutto 13.193 pagine - compilati in uno stato di ascesi mistica fra il 1943 e il 1947, nei quali descrive per filo e per segno l'infanzia, la predicazione, i miracoli, la passione, la morte, la resurrezione e l'ascensione al cielo del Salvatore, citando luoghi, personaggi e dialoghi che nei Vangeli non compaiono. Ho potuto vedere alcuni di questi quaderni: la grafia, sgorgata da sette penne stilografiche tuttora conservate, è nitida, regolare, senza ombra di correzioni o tremori. Eppure la Valtorta era paraplegica, rimase inchiodata nel letto per 27 anni, fino al decesso, e come scrittoio doveva usare le proprie ginocchia arcuate, che infatti al momento di chiuderla nella bara erano ancora piegate in quella posa innaturale. Emilio Pisani, 79 anni, laureato in giurisprudenza, è da sempre il curatore e l'editore unico dell'opera monumentale ricavata da questi quaderni, L'Evangelo come mi è stato rivelato. Sono 10 volumi, per un totale di 5.000 pagine. Oltre 10 milioni di caratteri. Ciò significa che il racconto valtortiano è 25 volte più lungo dei quattro Vangeli canonici. «Quante copie sono in circolazione? Non lo so, c'è chi dice milioni», si sottrae pudico lo stampatore. Una cosa è certa: dal 1956 a oggi è stato tradotto persino in arabo, cinese, coreano, giapponese, russo, lituano, ucraino, croato, indonesiano, vietnamita, malayalam, tamil, rwandese e swahili. Oltre una trentina di lingue. Pisani, fondatore del Cev, il Centro editoriale valtortiano, va considerato un editore unico anche per il fatto che nessun altro suo collega al mondo ha in catalogo un solo autore. Né mi era mai capitato d'incontrare un editore che arde nel caminetto di casa i manoscritti inediti di questo suo autore. In gioventù Maria Valtorta perse il padre molto presto e così si risolse a scrivere un romanzo autobiografico, Il cuore di una donna, dal quale sperava di ricavare qualche soldo per la famiglia. In realtà non volle mai pubblicarlo e ordinò a Marta Diciotti, la governante-infermiera che la assistette dal 1935 sino alla fine, di distruggerlo. La donna non ebbe però il coraggio di farlo. «Nel 2001, prima di morire, la Diciotti consegnò il testo a me e a mia moglie», rievoca Pisani. «Lo aprimmo soltanto 10 anni più tardi. Erano pagine fittissime. Senza leggere neppure una riga , ci parve giusto bruciarle. Le ceneri le spargemmo qui fuori, nell'aiuola delle rose, che da allora fioriscono ancora più rigogliose». La villetta dei Pisani è nel giardino in cui ha sede la casa editrice, a Isola del Liri. Dal 2012 è più vuota: Claudia Vecchiarelli, insegnante di lettere e traduttrice che aveva aiutato il marito a diffondere il verbo della Valtorta, è morta di tumore. Il suo Emilio, un uomo mite dagli occhi limpidi come l'acqua delle cascate che si ammirano nel paesino della provincia di Frosinone, le ha dedicato un libro, Lettera a Claudia, in cui ripercorre la straordinaria avventura capitata a entrambi. Insieme hanno dato vita alla Fondazione Maria Valtorta Cev onlus, che amministra l'eredità materiale e spirituale della veggente e che ha acquistato dai Servi di Maria la sua casa di Viareggio, ora trasformata in museo. Per testamento sono finiti a loro tutti i documenti autografi della «evangelista», inclusi i famosi quaderni, oggi custoditi a Isola del Liri. Proprio in questi giorni gli italiani Marco Ruopoli e Matteo Ferretti e il mauritano Mor Amar, della cooperativa Sophia di Roma, hanno ultimato di digitalizzarli in alta definizione, per cui presto saranno consultabili in Pdf. Dopodiché gli originali finiranno in un caveau climatizzato, isolati dalla luce e dalla polvere.

Com'è diventato l'editore di Maria Valtorta?

«Cominciai come correttore di bozze con mio padre Michele, che negli anni Venti aveva aperto insieme al cognato Arturo Macioce una tipografia specializzata nella stampa di vite dei santi e trattati di teologia per il Vaticano e gli istituti religiosi. Una copia dell' Evangelo, dattilografata con la carta carbone dal direttore spirituale della Valtorta, il servita padre Romualdo Migliorini, fu data in lettura a Camillo Corsanego, notaio dei conclavi e decano degli avvocati concistoriali per le cause dei santi, il quale, benché sposato e padre di 6 figli, poteva fregiarsi del titolo di monsignore. Un'altra copia andò all'arcivescovo Alfonso Carinci, che era stato insegnante del futuro Pio XII all'Almo Collegio Capranica. Un'altra ancora al famoso endocrinologo Nicola Pende, che rimase impressionato dalla “perizia con cui la Valtorta descrive, nella scena dell'agonia di Gesù sulla croce, una fenomenologia che solo pochi medici consumati saprebbero esporre”. Quando i Servi di Maria chiesero al Sant'Uffizio il permesso di pubblicare il testo, la risposta fu negativa. Al che mio padre, che era stato convocato a Roma per stamparlo, si assunse l'onere di farlo come editore in proprio e nel 1952 firmò il primo contratto di edizione con la Valtorta».

Lei l'ha conosciuta?

«Certo. Andai a trovarla a Viareggio, dove il Venerdì santo del 1943 ebbe la prima rivelazione e il primo dettato».

Fu una visione? O udì una voce?

«Penso a un fenomeno interiore. Diceva di vedere Gesù e Maria accanto a sé e di essere stata fisicamente presente agli episodi narrati nei Vangeli. Leggendo la sua Autobiografia, mi ero convinto che fosse una grande donna. Giaceva nel letto e ripeteva spesso: “Che sole c'è qui!”, anche se fuori pioveva. Era in uno stato di isolamento psichico, come se avesse offerto il suo intelletto a Dio. Non le interessava comunicare con il resto dell'umanità. Quando nel 1956 ebbe fra le mani il primo volume del suo Evangelo che avevamo appena stampato, lo guardò distrattamente e lo appoggiò sulla coperta, come se non le appartenesse».

Che cosa sa della mistica?

«Era la figlia unica di Giuseppe Valtorta, mantovano, ufficiale di cavalleria, e di Iside Fioravanti, cremonese, docente di francese. A 4 anni, nell'asilo delle orsoline a Milano, le sue coetanee erano spaventate da un Cristo deposto dalla croce, raffigurato con crudo verismo nella cappella dell'istituto. Lei, invece, avrebbe voluto aprire l'urna in cui era deposto per mettergli nella mano trafitta dal chiodo il confetto che la nonna le dava ogni mattina accompagnandola a scuola. Studiò nel collegio Bianconi di Monza e nel 1917 entrò nel corpo delle infermiere volontarie che a Firenze curavano i feriti della Grande guerra. Si fidanzò due volte e per due volte sua madre, una donna fredda, dispotica, terribile, le mandò a monte il matrimonio. Nel 1920 fu aggredita per strada da un giovane facinoroso, che le diede una mazzata sui reni gridando: “Abbasso i signori e i militari!”. A causa dell'aggressione, nel 1934 rimase paralizzata dalla cintola in giù».

Ma che ha di speciale L'Evangelo ?

«Introduce personaggi e racconti che nei Vangeli sinottici non appaiono. Giovanni dice solo che Giuda era un ladro. Nell' Evangelo si spiega che rubò del denaro a Giovanna di Cusa, moglie di un intendente di Erode. Lo stesso Giuda si accorge che il Maestro piange dopo aver resuscitato il figlio della vedova di Nain, al quale la Valtorta dà per la prima volta un nome, Daniele. Interrogato dal discepolo traditore sul motivo di quelle lacrime, Gesù risponde: “Penso a mia madre”. L' Evangelo presenta figure sconosciute, come Giovanni di Endor, ex ergastolano, e Sintica, schiava greca assai colta, convertiti al cristianesimo. Per una delazione di Giuda al sinedrio, vengono esiliati ad Antiochia, da dove inviano lettere al Nazareno in cui descrivono la città della Siria con immagini e toponimi che hanno sbalordito lo studioso francese Jean-François Lavère e il mineralogista Vittorio Tredici. Quest'ultimo era di casa in Palestina e annotò come la Valtorta superasse “la normale cognizione geografica o panoramica” facendola diventare “addirittura topografica e più ancora geologica”».

L'autrice potrebbe aver attinto questi particolari in qualche biblioteca.

«E quale, considerato che non era in grado di muoversi? I libri che teneva in casa li ho io e nessuno di essi tratta della città di Seleucia Pieria, o dei monti Casio e Sulpio, o dei colonnati di Erode. Ma la cosa più strabiliante è che la Valtorta riporta in modo minuzioso la pianta e persino il colore rosso delle pareti di un palazzo che Lazzaro di Betania, resuscitato da Gesù a quattro giorni dalla morte, possedeva sulla collina di Sion. Soltanto nel 1983 un'équipe di archeologi diretta dal professor Nahman Avigad della Hebrew University di Gerusalemme ritrovò i resti della dimora, perfettamente corrispondenti alla descrizione fattane dalla mistica 40 anni prima».

Mi sfugge il senso di tanta meticolosaggine narrativa.

«Ma non sfugge a Gesù, che il 25 gennaio 1944 impartì alla Valtorta - è lei a riportarlo - questo comando: “Ricorda di essere scrupolosa al sommo nel ripetere quanto vedi. Anche una inezia ha un valore e non è tua, ma mia. Più sarai attenta ed esatta e più sarà numeroso il numero di coloro che vengono a Me”».

L'Osservatore Romano il 6 gennaio 1960 bollò L'Evangelo come «una vita di Gesù malamente romanzata».

«Inevitabile. Pochi giorni prima, il 16 dicembre 1959, era stato condannato dal Sant'Uffizio. Fu l'ultima opera messa nell' Indice dei libri proibiti, prima che Paolo VI lo abolisse: per non liberare il carcerato, demolirono il carcere. Il tutto a causa di qualche passaggio giudicato scabroso, come il racconto di Aglae, un'ex prostituta che confida a Maria di Nazaret il modo in cui un soldato romano la adescò dopo averla vista nuda».

Però nel 1985 l'allora cardinale Joseph Ratzinger ribadì la condanna.

«Con un distinguo: spiegò che la pubblicazione fu a suo tempo vietata “al fine di neutralizzare i danni che può arrecare ai fedeli più sprovveduti”. Quindi ai fedeli più avveduti non può arrecare danno, non essendovi in essa nulla contro la fede. Il cardinale Dionigi Tettamanzi, quand'era segretario della Cei, avrebbe preteso che inserissi nel colophon una postilla per avvertire i lettori che l'opera non è di origine soprannaturale. Ma chi sono io per arrogarmi questa autorità?».

È vero che Pio XII stimava la Valtorta?

«È vero che lesse l' Evangelo in dattiloscritto e che disse a padre Migliorini: “Pubblicatelo così com'è. Chi legge capirà”. Di sicuro lo capì San Pio da Pietrelcina. La bolognese Rosi Giordani nel 1989 mi scrisse che Elisa Lucchi di Forlì chiese al frate in confessione: “Padre, ho udito parlare dei libri di Maria Valtorta. Mi consigliate di leggerli?”. La risposta fu: “Non te lo consiglio, ma te lo ordino!”».

Ha notato che i veggenti, così numerosi nei secoli scorsi, sono spariti?

«Non sono mai stato né a Lourdes, né a Fatima, né a Medjugorje, pur rispettando chi ci va. Non aggiungerebbero nulla alla mia fede. La Valtorta non ambì mai a farsi conoscere. Il suo Evangelo doveva camminare nel mondo senza essere del mondo; pretese persino che la prima edizione uscisse in forma anonima. Una sola volta lo reclamizzai con un'inserzione a pagamento su Tuttolibri della Stampa: ebbene, nelle settimane seguenti ricevetti un unico ordine, evento mai capitato in precedenza. Come se l'opera rifiutasse la pubblicità».

Sorprendente.

«Le dico di più. Nel 1973 la salma della Valtorta fu esumata a Viareggio per essere traslata a Firenze, nella Basilica della Santissima Annunziata, dove vi è il celebre affresco della Madonna, a lei molto caro, che secondo Pietro Bargellini sarebbe stato completato da un angelo. Il servita Corrado Berti si aspettava un evento straordinario, per esempio il ritrovamento del corpo incorrotto. Invece affiorarono poche ossa, che fecero l'estremo viaggio con me alla guida dell'auto, mia moglie accanto e la governante Marta sul sedile posteriore».

Perché me lo racconta?

«Perché sul letto di morte la Valtorta aveva la mano sinistra già bluastra, mentre la destra, quella con cui aveva scritto L'Evangelo, era ancora rosea, come se fosse viva: nel 1961 fu considerato un segno del cielo. E la vuol sapere una cosa? Le uniche ossa che mancavano quando la disseppellimmo erano proprio quelle della mano destra. Dissolte. Come se la mistica volesse dirci per l'ultima volta: “Non pensate a me. Pensate a Lui”».

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte? 

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);

L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);

La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);

L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);

La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);

L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);

L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).

Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.

Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti.  Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.

I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.

Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.

In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.

In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.

“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?

Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.

La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.

Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.

La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.

Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.

La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.

Parlare di legge, bene o male, ogni  leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.

Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.

La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.

Essa vien da lontano.

E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.

La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.

Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.

Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.

Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.

Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.

Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.

- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?

- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…

- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.

- Le giuro…

- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.

- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.

Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?

Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.  

Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.

Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%  dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.

Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

Ma chi e quando le cose cambieranno?

Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".

Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.

Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.

"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere.  «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.

"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".

Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».

Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.

«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps.  «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.

Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.

Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase  processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.

Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.

La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. 

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”,  dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si  può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» 

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil. 

Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.

Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode. 

Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.

Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.

Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.

Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.

E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.

Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.

Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista. 

Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.

Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.

Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).

Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.

''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.

D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.

Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.

Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.

"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta,  Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario".  Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".

Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".

Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.

LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.

Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».

Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".

La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento  (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier  di partecipare all’udienza  del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri.  Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".

Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it,  è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali.  Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.

“VADA A BORDO, CAZZO!!”.

E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia.  Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio  il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.

De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?

Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»

De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»

Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»

De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».

Schettino: «Comandante le dico una cosa...»

De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».

Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».

De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.

Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:

« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».

« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».

Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).

Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.  Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.

Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.

E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.

Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.

Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.  Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.  

Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono:  “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.

Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".

I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».

«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.

L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.

Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.

C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.

Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.

Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.

Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è  di nove anni e quattro mesi di reclusione per  aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici.  Spaccarotella  era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.

Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino  è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.

Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.

Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.

Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.

Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle,  accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.

Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene  sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.

Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.

Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori  nei confronti della comunità romena di San Gregorio.

All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.

Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.

«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Taranto, Milano, l’Italia.

“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.

Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.

«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri. 

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.

Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).

Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.

Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.

C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.

Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.

E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.

E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.

Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.

Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.

Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.

La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.

La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.

Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.

L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.

La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.

La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.

Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.  

Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.  

Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.

Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.

In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media  di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.

113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.

E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».

Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La  sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio». 

A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!! 

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.

Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con  la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.

Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi.  La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».

La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.

TOGHE ROSA

Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".

È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.

Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».

Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".

Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.

Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.

Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.

Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.

Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?

Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?

Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.

Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.

Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.

Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.

A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.

A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula. 

La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti. 

Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.

Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.

Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre  a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali". 

Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».

Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».

Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.

Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.

Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.

E poi giudice donna è per il processo………

E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».

Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?

Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.

L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi  anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche  - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente  intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno  maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile  attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,  tracciando  un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.

Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?

Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.

Bene.  L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri)  e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.

Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.

Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.

Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.

Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».  Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso.  Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.

Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.

Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.

Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.

Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.

Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.

Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).

Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.

Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.

Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.

Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).

Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.

Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.

Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.

Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.

Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.

Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.

Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.

Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.

Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).

Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.

Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.

Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.

Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.

Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.

Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.

Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».

Ieri come oggi la farsa continua.

Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.

«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in  questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».

Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».

Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.

Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.

MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?

Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali? 

Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".

Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.

Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.

Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.

Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.

Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione  apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa,  ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente,  non può guardare in faccia i giudici di quella che  si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene  a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.

Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.

Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!

E la stampa censura pure…..

Pensavo di averle viste tutte.

La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.

La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di  cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.

Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.

Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.

I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre. 

«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».

«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».

«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio». 

Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".

Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».

Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.

Cosa????

Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.

Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Quando la tv criminalizza un territorio.

7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”

In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».

Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.

In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.

Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.

Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:

L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;

L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.  

Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.

Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?

Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.

La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.

Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.

Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.

Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".

Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?

Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -  senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del  giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza  entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato  anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”

Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.

La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.

Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.

Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).

Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.

 “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.

Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.

Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.

Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.

Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.

MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.

C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.

Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.

Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare.  Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".

«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.

Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.

Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».

Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?

«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».

Con le sue parole?

«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».

Strategia dei contenuti.

«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».

Il potere ha proprio l'oro in bocca.

«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».

Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?

«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».

Abbiamo perso anche questa occasione.

«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».

Ma era anche un invito a sognare.

«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».

In che senso?

«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».

E di cosa?

«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».

Ci faccia un esempio.

«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».

Cosa otterrà?

«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».

Sono passati un bel po' di anni.

«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».

La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.

STATO DI DIRITTO?

Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.  Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.  Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.  Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.  Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.  È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.  Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.  Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.  Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.» 

Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.

«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.

Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei. 

Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.

Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.

 “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?

Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.

Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?

Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che  - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.

Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.  

E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.

Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga  a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».

Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note.  I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.

Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

CHI E’ IL POLITICO?

Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.

L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.

L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.

Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.

CHI E’ L’AVVOCATO?

Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.

O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.

“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.

La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.

Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.

Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.

La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.

L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.

I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.

Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).

“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.

L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.

Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.

Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.

Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.

Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.

Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.

La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).

Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.

Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.

Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.

Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.

Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.

Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.

Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.

L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“ 

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

CHI E’ IL MAGISTRATO?

"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)».  Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso. 

Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta. http://imageceu1.247realmedia.com/0/default/empty.gif

Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.

L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e  Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.

Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.

 “La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.  Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori. 

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo? 

E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».

Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.

A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.

COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.

IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.

LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.

LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.

IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.

IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.

IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.

IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.

Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.

Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".

Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".

Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.

E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".

Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.

Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".

Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria". 

Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".

"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.

Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".

FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.

Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».

La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.

2,30 del mattino,  Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".

9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.

Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista  di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice  Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.

Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.

11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00. 

Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.

13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene  per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri.  “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”.  Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.

La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.

Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.

Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza. 

Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".

ITALIA DA VERGOGNA.

Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.

È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.

ITALIA BARONALE.

I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.

Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.

L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.

È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.

Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.

CASA ITALIA.

Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».

Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il bene placido delle Istituzioni.

Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.

L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?

Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.

Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

E gli alloggi di proprietà?

Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.

23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.

23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.

L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.

In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.

Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.

La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!

"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.

Cosa ha veramente la Cassazione?

L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.

Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.

La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condotta e dolo specifico.

L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).

Flagranza e procedibilità d'ufficio.

Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).

L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).

Come agire?

Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.

Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.

L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.

L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.

L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.

L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.

A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.

L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

Ma come sono cari  (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.

Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci  un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un  “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?

«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»

ITALIA: PAESE ZOPPO.

Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro  racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.

Che cosa c’è di nuovo in questo libro?

«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»

Filo conduttore?

«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»

Si parte dalla Conferenza di Versailles...

«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»

E l’Italia?

«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»

Che si affacciò al balcone...

«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»

Partiti dilanianti e latitanti?

«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»

Sarebbe a dire?

«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»

E gli italiani non se ne accorgono?

«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»

Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?

«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»

Come si chiama questa malattia?

«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»

La cura?

«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»

E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?

«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»

Beppe Grillo?

«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»

Enrico Letta?

«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»

Matteo Renzi?

«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»

Veltroni?

«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»

Pier Luigi Bersani?

«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»

Massimo D’Alema?

«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»

Silvio Berlusconi?

«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»

Giorgio Napolitano?

«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»

Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè,  quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007.  Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio.  Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.

«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.

E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.

Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.

Ed Ancora. Tre agenti di polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione falsificata.

Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.

Ecc. Ecc. Ecc.

G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.

La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.

Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.

Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”.  Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di  alcuni agenti.  Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.

Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico.  Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”

E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.

Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.

Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?

Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?

Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:

1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti.  Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?

2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.

Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».

Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».

3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.

Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»

La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.

E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.

Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.

Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.

Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?

Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.

Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.

Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.

C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.

Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.

E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».

Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.

Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti  alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.

Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.

Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista.  Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.  

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.

La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?

«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.

E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.

Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.

Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.

A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).

E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.

E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».

Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.

Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?

Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.

Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.

Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari.  Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente,  che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.

Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere».  E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».

Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho  con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento  di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la  mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.

Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).

«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.» 

La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive  Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti  confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....".  Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico  sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva  cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle   primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni.  Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso  annuncia con tono routinario, quasi  fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise".  Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da  Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E'  l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di  numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci  a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".

Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine  titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times  che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post  preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro  (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".

Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini  su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...

Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam  su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.

In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».

Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle  successive  torture  dell’imam  Abu  Omar,  non  si  è  presentato  mai    al  processo,  non  ha  mai  confessato  alcunché,  non  si  è  mai  pentito  del  gesto,  non  ha  chiesto  scusa  a  nessuno,  non  ha  mai  scontato  un giorno  di  carcere  e  per  la  giustizia  italiana  era  un  latitante  al  pari del  superboss  Matteo  Messina  Denaro.  La  grazia  giunse  dal  Colle dopo  appena  7  mesi  dalla  pronuncia  definitiva  della  Cassazione e  con  il  parere  contrario  dei  magistrati. C’è  ancora  qualche  anima  bella  o  dannata  disposta  a  sostenere  la  tesi  che  il  presidente  della  Repubblica  non  poteva  adottare  lo stesso  metodo  nei  confronti  di  Silvio  Berlusconi?  Chiamiamo  le cose  con  il  loro  nome:  è  mancato  il  coraggio  per  concedere  la grazia.  Il  provvedimento  avrebbe  aperto  una  fase  nuova  nella storia  di  questo  Paese,  sarebbe  stato  l’atto  di  non  ritorno  verso la  pacificazione  dopo  vent’anni  di  guerra  combattuta  nel  nome dell’eliminazione  per  via  giudiziaria  del  Cavaliere  il  quale,  statene certi,  avrebbe  abbandonato  la  politica  attiva.  Il  capo  dello  Stato ha  avuto  l’opportunità  di  consegnarsi  alla  storia  e  non  l’ha  fatto.  E solo  quando  giungerà  quel  famoso  giorno  in  cui  gli  avvenimenti  di oggi  potranno  essere  riletti  senza  veli  e  senza  partigianerie  capiremo se  al  suo  mancato  gesto  dovremo  aggiungere  i  caratteri  poco commendevoli  del  cinismo,  della  pavidità  o  del  calcolo  politico. Nel  quadro  tenebroso  dell’oggi  trova  un  posto  nitido  Enrico Letta,  il  presidente  del  Consiglio  che  ha  conferito  a  questo  Paese una  stabilità  degna  di  un  cimitero,  come  ha  giustamente  notato il  Wall  Street  Journal.  Incapace  di  avviare  le  riforme  oramai  improcrastinabili per  l’Italia,  Letta  non  è  stato  neppure  capace  di imporre  il  più  impercettibile  distinguo  sulla  giustizia  (settima anomalia)  ed  è  rimasto  avvinghiato  al  doroteismo  stucchevole di  una  linea  che  voleva  tenere  distinte  la  vicenda  di  Berlusconi e  le  sorti  dell’esecutivo  quando  anche  un  bambino  ne  coglieva l’intimo  intreccio.  Ma  i  bambini,  si  sa,  hanno  la  vista  lunga.  E  ora tutti  sanno,  anche  quelli  dell’asilo,  che  l’unico  orizzonte  di  Letta non  è  quello  di  varare  le  riforme,  giustizia  compresa,  ma  quello di  mantenere  il  potere. E  infatti  eccoci  all’ottava  anomalia,  Angelino  Alfano:  ha mollato  il  Pdl  per  fondare  il  Nuovo  centrodestra,  che  al  momento si  distingue  solo  per  la  fedeltà  interessata  al  governo.  Sarebbe toccato  proprio  ad  Angelino  costringere  Napolitano  e  Letta  a guardare  la  realtà,  a  spalancare  gli  occhi  sullo  scempio  del  diritto che  si  stava  consumando,  a  denunciare  con  argomenti  solidi  e  di verità  l’inganno  di  una  procedura  interpretata  in  maniera  torbida e  manigolda.  Come  quella  della  retroattività  della  legge  Severino sulla  decadenza  (nona  anomalia),  che  una  pletora  di  giuristi  e politici  di  buon  senso  non  affini  ma  certamente  lontani  dal  mondo berlusconiano  voleva  affidare  al  vaglio  della  Corte  costituzionale per  un’interpretazione  autentica. Anche  per  questo  motivo  il luogotenente  del  Cav  avrebbe  dovuto  elevare  il  caso  B  a  caso internazionale,  avrebbe  dovuto  sfidare  in  campo  aperto  i  satrapi dell’informazione  truccata.  E  invece  ha  preferito  chinarsi  sulla propria  poltroncina,  talmente  affascinato,  e  impaurito  di  perderla, da  consumare  lo  strappo  di  ogni  linea  politica  e  di  ogni  rapporto umano  con  il  proprio  leader. Napolitano,  Letta,  Alfano:  in  questo  triangolo  delle  Bermude, che  si  autoalimenta  nel  nome  dello  status  quo  e  di  un  governo fatto  solo  di  tasse  e  bugie,  c’è  finito  Silvio  Berlusconi.  E  la  conclusione della  storia  è  stata  ovvia:  l’hanno  inghiottito,  macinato  ed espulso  senza  tanti  complimenti.  Neppure  il  colpo  di  reni  finale hanno  sfruttato  i  tre  del  triangolo  mortale,  quello  offerto  dalle nuove  prove  squadernate  dall’ex  premier  per  chiedere  la  revisione del  processo.  Un  percorso  perfettamente  legalitario,  quello del  Cav,  condotto  all’interno  del  perimetro  disegnato  dal  Codice di  procedura  penale  e  che  avrebbe  dovuto  fermare  la  mannaia dell’espulsione  dal  Senato.  Per  mille  motivi,  ma  soprattutto  per una  possibile  e  atroce  beffa:  se  la  Corte  d’appello  darà  ragione al  Cavaliere  e  lo  proscioglierà,  lui  si  troverà  già  fuori  da  Palazzo Madama.  E  nessuno  potrà  dirgli:  «Prego,  ci  scusi,  si  accomodi  e riprenda  il  suo  posto».  Con  il  corollario  non  secondario  che,  senza lo  scudo  da  senatore,  i  picadores  in  toga  potranno  infilzare  il  Cav e  compiere  l’ultimo  sfregio:  l’arresto  (decima  anomalia). In  questa  cornice  assai  triste  tocca  togliersi  il  cappello  di  fronte al  coraggio  di  Francesco  Boccia,  deputato  del  Pd  di  prima  fila (almeno  fino  al  9  dicembre,  quando  Matteo  «Kermit»  si  presenterà sul  palco  della  segreteria  del  partito)  che  martedì  26  novembre, dopo  aver  visto  gli  elementi  esposti  da  Berlusconi,  ha  dichiarato: «Se  fosse  così  mi  aspetto  una  revisione  del  processo  come  per qualsiasi  altro  cittadino».  E  ancora:  «In  un  Paese  normale  si  sarebbe aspettata  la  delibera  della  Corte  costituzionale  sull’interpretazione della  legge  Severino».  Un  Paese  normale  questo?  È  una  battutona, ditelo  a  Matteo  «Kermit»,  che  magari  se  la  rivende.  Dovrà  fare  in  fretta, però.  Perché  adesso  inizia  un’altra  faida,  che  lo  metterà  contro Letta  e  Napolitano.  I  tre  non  possono  convivere:  i  loro  interessi  non sono  convergenti,  i  loro  orizzonti  non  corrispondono.  Per  questo, già  prima  dell’8  dicembre,  ne  vedremo  delle  belle.  Sarà  il  seguito della  politica  da  avanspettacolo  che  ci  hanno  rifilato  negli  ultimi mesi.  Successe  più  o  meno  la  stessa  cosa  ai  tempi  di  monsieur  de Robespierre  e  dei  giacobini.  Fatto  fuori  il  re,  si  illusero  di  avere  la Francia  in  pugno.  Manco  per  niente.  Iniziarono  a  scannarsi  l’un l’altro.  Fin  quando  un  giorno  accompagnarono  Robespierre,  l’Incorruttibile, al  patibolo.  Gli  gridavano  dietro:  «Morte  al  tiranno». Avete  capito  la  storia?

Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.

Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.

L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.

A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».

"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non  candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".

Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 -  che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.

E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.

E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.

Parcheggi abusivi, applausi abusivi,

Villette abusive, abusi sessuali abusivi;

Tanta voglia di ricominciare abusiva.

Appalti truccati, trapianti truccati,

Motorini truccati che scippano donne truccate;

Il visagista delle dive è truccatissimo.

Papaveri e papi, la donna cannolo,

Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.

Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.

Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:

C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.

Commando sì, commando no, commando omicida.

Commando pam, commando prapapapam,

Ma se c'è la partita

Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,

Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.

Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.

Primario sì, primario dai, primario fantasma.

Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;

Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:

"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.

Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".

Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh

Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.

Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.

Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.

Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.

Squerellerellesh, cataraparupai,

Italia perfetta, perepepè nainananai.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.

Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.

Italia sì: uè.

Italia no, spereffere fellecche.

Uè, uè, uè, uè,uè.

Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.

«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».

Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.

La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.

"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.

Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché  nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".

L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.

È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto». 

"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".

Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".

La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.

Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.

Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.

Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.

L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.

La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.

La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.

La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.

Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.

Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".

Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”

Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».

La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.

«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso.  Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica.  La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».

Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».

Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».

Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.

L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.

“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.

Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.

E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.

La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.

Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.

E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...

I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.

Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.

Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.

Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.

''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.

In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.

Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.

Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.

Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.

Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.

Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.

Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.

Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.

Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.

Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".

Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".

Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".

Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.

I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).

Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.

"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa ’classificà. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).

Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??

Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.

Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.

Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….

Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.

Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.

E che dire delle leggi?

Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.

La redazione degli atti deve essere:

chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;

semplice, concisa, esente da elementi superflui;

precisa, priva di indeterminatezze.

Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:

l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;

la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.

Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...

Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.

Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.

GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.

L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".

Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."

Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."

Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.

L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".

Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?

Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:

- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.

- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.

- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.

Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:

- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;

- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);

- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;

- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);

- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.

- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.

Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è imprescrittibile.

Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.

1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:

a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;

b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;

c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;

d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;

e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.

2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.

a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:

- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;

- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;

- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.

b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.

c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.

La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).

E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.

Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono  un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta  agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che,  in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal  fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.

Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a  formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento  illegittimo,  quindi  fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel  fatto che  si suole  farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti  avvertono come un’applicazione  così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che  la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la  problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.

Ve ne riporto alcune:

“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.

“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.

“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”

“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”

“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”

“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).

Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve  la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero,  l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento  risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni,  dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste  conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.

Il Parlamento abusivo rischia l'arresto. Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio Signorini  su “Il Giornale”.  Illegittimo il sistema elettorale che ha portato quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che, più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e, più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica, la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta. I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese, ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi - regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro. Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare), ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi. Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa. Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la Consulta - eletto con una legge illegittima.

Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.

Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali.  Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?

Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.

Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.

Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.

Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.

Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica.  A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.

«Abusivi».  Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre,  amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.

Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».

Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?

«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».

Quali, avvocato?

«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».

E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?

«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».

E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?

«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».

Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?

«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».

Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?

«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».

Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?

«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».

Al loro posto chi dovrebbe subentrare?

«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».

Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.

«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».

Che pericoli vede all’orizzonte?

«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».

Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?

«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?

Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?

Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma  nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato;  si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia  di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».

Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.

In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.

Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.

LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.

Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:

a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);

b) situazioni di povertà:

c) situazioni di reddito medio – basso.

Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?

Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!

Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?

«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»

Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.

«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?”  La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».

Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.

Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.

Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.

All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».

“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.

Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.

Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.

«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.

FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.  Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.

«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».

Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».

Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».

Alberto Stasi: «Io sono innocente».

Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.

Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?

Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".

Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.

Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.

I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...

Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.

Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?

Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»

C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)

Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

Vengo anch'io? No tu no

Per vedere come stanno le bestie feroci

e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera

Vengo anch'io? No tu no

Con la bella sottobraccio a parlare d'amore

e scoprire che va sempre a finire che piove

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

Vengo anch'io? No tu no

Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale

Vengo anch'io? No tu no

per vedere se la gente poi piange davvero

e scoprire che è per tutti una cosa normale

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed  i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:

- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.

- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.

- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.

- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.

- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.

- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.

- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.

- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.

E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.

Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.

Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»

Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI

PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO

“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.

E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.

L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo. 

Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.

Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”

NON VI REGGO PIU’.

Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.

"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.

A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:

" E allora amore mio ti amo

Che bella sei

Vali per sei

Ci giurerei. "

È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni d'amore..".  Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio dopo quarantaquattro anni.

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè con le canzoni

senza patria o soluzioni

La castità (Nun te reggae più)

La verginità (Nun te reggae più)

La sposa in bianco, il maschio forte,

i ministri puliti, i buffoni di corte

..Ladri di polli

Super-pensioni (Nun te reggae più)

Ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori,

diete politicizzate,

Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)

Auto blu, sangue blu,

cieli blu, amori blu,

Rock & blues (Nun te reggae più!)

Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)

DC-PSI (Nun te reggae più)

DC-PCI (Nun te reggae più)

PCI-PSI, PLI-PRI

DC-PCI, DC DC DC DC

Cazzaniga, (nun te reggae più)

avvocato Agnelli,

Umberto Agnelli,

Susanna Agnelli, Monti Pirelli,

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)

..Gianni Brera,

Bearzot, (nun te reggae più)

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,

Villaggio, Raffà e Guccini..

Onorevole eccellenza

Cavaliere senatore

nobildonna, eminenza

monsignore, vossia

cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)

Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)

abbasso e alè!

Il numero cinque sta in panchina

si e' alzato male stamattina

– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)

Il nostro è un partito serio.. (certo!)

disponibile al confronto (..d'accordo)

nella misura in cui

alternativo
alieno a ogni compromess..

Ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

si sarà la ress

Se quest'estate andremo al mare

soli soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore

che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia...

Dove sei tu? Non m'ami più?

Dove sei tu? Io voglio, tu

Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)

Uè paisà (..Nun te reggae più)

il bricolage,

il '15-18, il prosciutto cotto,

il '48, il '68, le P38

sulla spiaggia di Capo Cotta

(Cardin Cartier Gucci)

Portobello, illusioni,

lotteria, trecento milioni,

mentre il popolo si gratta,

a dama c'è chi fa la patta

a sette e mezzo c'ho la matta..

mentre vedo tanta gente

che non ha l'acqua corrente

e nun c'ha niente

ma chi me sente? ma chi me sente?

E allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

vale per sei

ci giurerei

sei meglio tu

nun te reg più

che bella si

che bella no

nun te reg più!

NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...

LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura

e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,

sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,

incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia

e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,

che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare

e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche avere un’opinione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza

e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,

con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo

e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche un gesto o un’invenzione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e  via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):

Noi fummo da secoli

calpesti, derisi,

perché non siam popolo,

perché siam divisi.

Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:

di fonderci insieme

già l’ora suonò.”

e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci

Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!

IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980

Io se fossi Dio

E io potrei anche esserlo

Se no non vedo chi.

Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente

Non sarei mica un dilettante

Sarei sempre presente

Sarei davvero in ogni luogo a spiare

O meglio ancora a criticare, appunto

Cosa fa la gente.

Per esempio il cosiddetto uomo comune

Com'è noioso

Non commette mai peccati grossi

Non è mai intensamente peccaminoso.

Del resto poverino è troppo misero e meschino

E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto

Lui pensa che l'errore piccolino

Non lo veda o non lo conti affatto.

Per questo io se fossi Dio

Preferirei il secolo passato

Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico

Dove si amava, e poi si odiava

E si ammazzava il nemico.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Non sarei mica stato a risparmiare

Avrei fatto un uomo migliore.

Si, vabbè, lo ammetto

non mi è venuto tanto bene

ed è per questo, per predicare il giusto

che io ogni tanto mando giù qualcuno

ma poi alla gente piace interpretare

e fa ancora più casino.

Io se fossi Dio

Non avrei fatto gli errori di mio figlio

E specialmente sull'amore

Mi sarei spiegato un po' meglio.

Infatti voi uomini mortali per le cose banali

Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti

Ci avete proprio una bontà

Da vecchi un po' rincoglioniti.

Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate

E tutti che ostentate la vostra carità.

Per le foreste, per i delfini e i cani

Per le piantine e per i canarini

Un uomo oggi ha tanto amore di riserva

Che neanche se lo sogna

Che vien da dire

Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.

Io se fossi Dio

Direi che la mia rabbia più bestiale

Che mi fa male e che mi porta alla pazzia

È il vostro finto impegno

È la vostra ipocrisia.

Ce l'ho che per salvare la faccia

Per darsi un tono da cittadini giusti e umani

Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani

E tante altre attenzioni

Per handicappati sordomuti e nani.

E in queste grandi città

Che scoppiano nel caos e nella merda

Fa molto effetto un pezzettino d'erba

E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.

Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti

Che usate gli infelici con gran prosopopea

Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare

Dalla rupe Tarpea.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti

Che certamente non sono brave persone

E dove cogli, cogli sempre bene.

Signori giornalisti, avete troppa sete

E non sapete approfittare della libertà che avete

Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate

E in cambio pretendete

La libertà di scrivere

E di fotografare.

Immagini geniali e interessanti

Di presidenti solidali e di mamme piangenti

E in questo mondo pieno di sgomento

Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:

Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti

E si direbbe proprio compiaciuti

Voi vi buttate sul disastro umano

Col gusto della lacrima

In primo piano.

Si, vabbè, lo ammetto

La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia

Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza

Non avrei certo la superstizione

Della democrazia.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.

Nel regno dei cieli non vorrei ministri

Né gente di partito tra le palle

Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.

E tutti quelli che fanno questo gioco

Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso

Come la febbre e il tifo

E tutti quelli che fanno questo gioco

C' hanno certe facce

Che a vederle fanno schifo.

Io se fossi Dio dall'alto del mio trono

Direi che la politica è un mestiere osceno

E vorrei dire, mi pare a Platone

Che il politico è sempre meno filosofo

E sempre più coglione.

È un uomo a tutto tondo

Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo

Che scivola sulle parole

E poi se le rigira come lui vuole.

Signori dei partiti

O altri gregari imparentati

Non ho nessuna voglia di parlarvi

Con toni risentiti.

Ormai le indignazioni son cose da tromboni

Da guitti un po' stonati.

Quello che dite e fate

Quello che veramente siete

Non merita commenti, non se ne può parlare

Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.

Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli

Sarebbe come scendere ai vostri livelli

Un gioco così basso, così atroce

Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.

Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto

E mi dispiace ma non son proprio capace

Di tacere del tutto.

Ci son delle cose

Così tremende, luride e schifose

Che non è affatto strano

Che anche un Dio

Si lasci prendere la mano.

Io se fossi Dio preferirei essere truffato

E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato

Preferirei la più tragica disgrazia

Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.

Signori magistrati

Un tempo così schivi e riservati

Ed ora con la smania di essere popolari

Come cantanti come calciatori.

Vi vedo così audaci che siete anche capaci

Di metter persino la mamma in galera

Per la vostra carriera.

Io se fossi Dio

Direi che è anche abbastanza normale

Che la giustizia si amministri male

Ma non si tratta solo

Di corruzioni vecchie e nuove

È proprio un elefante che non si muove

Che giustamente nasce

Sotto un segno zodiacale un po' pesante

E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.

Io se fossi Dio

Direi che la giustizia è una macchina infernale

È la follia, la perversione più totale

A meno che non si tratti di poveri ma brutti

Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.

Io se fossi Dio

Io direi come si fa a non essere incazzati

Che in ospedale si fa morir la gente

Accatastata tra gli sputi.

E intanto nel palazzo comunale

C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti

In modo tale che in questa messa in scena

Tutto si addolcisca, tutto si confonda

In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale

È una schifosa facciata immonda.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Vedrei dall'alto come una macchia nera

Una specie di paura che forse è peggio della guerra

Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti

È la camorra.

È l'impero degli invisibili avvoltoi

Dei pescecani che non si sazian mai

Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi

È l'impero dei mafiosi.

Io se fossi Dio

Io griderei che in questo momento

Son proprio loro il nostro sgomento.

Uomini seri e rispettati

Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati

Così sicuri dentro i loro imperi

Una carezza ai figli, una carezza al cane

Che se non guardi bene ti sembrano persone

Persone buone che quotidianamente

Ammazzano la gente con una tal freddezza

Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.

Io se fossi Dio

Urlerei che questi terribili bubboni

Ormai son dentro le nostre istituzioni

E anzi, il marciume che ho citato

È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri

Alla Camera e allo Senato.

Io se fossi Dio

Direi che siamo complici oppure deficienti

Che questi delinquenti, queste ignobili carogne

Non nascondono neanche le loro vergogne

E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi

E mostrano sorridenti le maschere di cera

E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.

Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato

Perché la macchia nera

È lo Stato.

E allora io se fossi Dio

Direi che ci son tutte le premesse

Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.

Con una deliziosa indifferenza

E la mia solita distanza

Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente

Sprofondare lentamente nel niente.

Forse io come Dio, come Creatore

Queste cose non le dovrei nemmeno dire

Io come Padreterno non mi dovrei occupare

Né di violenza né di orrori né di guerra

Né di tutta l'idiozia di questa Terra

E cose simili.

Peccato che anche Dio

Ha il proprio inferno

Che è questo amore eterno

Per gli uomini.

IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista

sono sensibile e altruista

orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista

da un po’ di tempo ambientalista

qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo

per carità lo dico in senso letterale

sono progressista  al tempo stesso liberista

antirazzista e sono molto buono

sono animalista

non sono più assistenzialista

ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

forse da buon opportunista si adegua senza farci caso

e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,

il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza

è un animale assai comune che vive di parole da conversazione

di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori

il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo

e farsi largo galleggiando

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario

sono femminista

son disponibile e ottimista

europeista

non alzo mai la voce

sono pacifista

ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone

il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione

è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie

poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato

vive e questo già gli basta e devo dire che oramai

somiglia molto a tutti noi

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che si vede a prima vista

sono il nuovo conformista.

Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.

Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.

Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:

“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

 il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

 forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”

La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.

LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997

Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.

DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001

Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.

La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

tutti i films che fanno oggi son di destra

se annoiano son di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po' di destra

ma portarle tutte sporche e un po' slacciate

è da scemi più che di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po' di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze è più che mai di destra

la pisciata in compagnia è di sinistra

il cesso è sempre in fondo a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po' di destra

mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione, l'ossessione

della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa, dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera è di destra

la Nutella è ancora di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il pensiero liberale è di destra

ora è buono anche per la sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po' degli anni '20, un po' romano

è da stronzi oltre che di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare

un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c'è

se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra

la mancanza di morale è a destra

anche il Papa ultimamente

è un po' a sinistra

è il demonio che ora è andato a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po' più di destra

ma un figone resta sempre un'attrazione

che va bene per sinistra e destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Basta!

IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003

La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.

TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:

Io G. G. sono nato e vivo a Milano.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell'inno nazionale

di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

se arrivo all'impudenza

di dire che non sento

alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

e altri eroi gloriosi

non vedo alcun motivo

per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

ma ho in mente il fanatismo

delle camicie nere

al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

questa democrazia

che a farle i complimenti

ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

pieno di poesia

ha tante pretese

ma nel nostro mondo occidentale

è la periferia.

Mi scusi Presidente

ma questo nostro Stato

che voi rappresentate

mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

agli occhi della gente

che tutto è calcolato

e non funziona niente.

Sarà che gli italiani

per lunga tradizione

son troppo appassionati

di ogni discussione.

Persino in parlamento

c'è un'aria incandescente

si scannano su tutto

e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

dovete convenire

che i limiti che abbiamo

ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

noi siamo quel che siamo

e abbiamo anche un passato

che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

ma forse noi italiani

per gli altri siamo solo

spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

son fiero e me ne vanto

gli sbatto sulla faccia

cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

forse è poco saggio

ha le idee confuse

ma se fossi nato in altri luoghi

poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

ormai ne ho dette tante

c'è un'altra osservazione

che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

noi ci crediamo meno

ma forse abbiam capito

che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

lo so che non gioite

se il grido "Italia, Italia"

c'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

o forse un po' per celia

abbiam fatto l'Europa

facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo

per fortuna o purtroppo

per fortuna

per fortuna lo sono.

Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.

E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive

 Andrea Signini su “Rinascita”.

“IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio.  Ecco uno stralcio delle intercettazioni:

LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».

GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».

LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».

GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».

LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».

GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.

Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.

PRINCIPI COSTITUZIONALI

L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.

I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.

LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.

E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO  ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.

LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.

IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.

LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.

E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.

L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.

IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.

I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.

GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.

LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.

IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.

I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.

I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.

IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.

LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.

Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.

L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.

« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)

Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.

Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".

Non solo legisti.....

Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.

ADDIO AL SUD.

"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il  pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura  e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione  selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano'  del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.

Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:

«Finita la guerra prenderò congedo

e solo allora dirò a mia figlia

e solo allora dirò a mio figlio:

tu questo sei.

Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.

Adesso anche tu vieni da Sud».

Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.

Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».

Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.

Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.

Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”.  Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.

Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.

Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera”  — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.

Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.

“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.

L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.

"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.

Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista  raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.

Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.

Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.

Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.

La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.

Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.

Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla.

Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

Se potesse aiutarmi….

Illustre parlamentare, inanemente non è la prima volta che mi rivolgo a lei od ai suoi colleghi. Ma a chi dovrei rivolgermi per avere un interessamento? Una richiesta di ispezione o di inchiesta. Una interrogazione al Ministro. Io non dispero che in questo Parlamento, finchè dura, possa trovare qualcuno con il cuore d’oro. Le farebbe onore se, con analitica cognizione di causa che io le prospetto, potesse affrontare una questione che attanaglia me dal 1998, ma anche centinaia di migliaia di giovani meritevoli impediti all’accesso ad una professione o ad un impiego pubblico. La differenza tra il dire e il mare è il fare. Vediamo quanto lei vale e quanto lei sia propenso a battersi per i diritti calpestati. Giusto per non avere io vergogna di essere un italiano.

"Non so come possa aiutarla. Parla di accesso ad una professione od ad un impiego pubblico, mi sembrano due cose diverse. Leggerò il suo saggio, quando avrò un po di tempo. Saluti. Luigi Gaetti, senatore."

No. Sono la stessa cosa. Lei dovrebbe saperlo meglio di me. In generale:

Stessa legge regolatrice. D.P.R. 9 maggio 1994, n. 487. "Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi."

Stesso sistema per l’esame di abilitazione come per i concorsi di pubblico impiego, salvo piccole differenze particolari.

Stesse commissioni di esame. (rappresentanti professionali, magistrati, professori universitari), come per dire una mano lava l’altra e i controlli vanno a farsi benedire.

Ergo. Basta cambiare le regole e non dare ampia discrezionalità alle commissioni di favorire o di danneggiare i candidati.

Nel particolare: basta far controllare a chi di competenza se i miei compiti sono stati corretti e in che modo. Ci si accorgerà che i miei elaborati, come quelli di altri centinaia di migliaia di candidati, non sono stati corretti.

Le inchieste dei magistrati non nascono se fondate, ma solo se comode.

Per il resto, se non si è convinti che in Italia i concorsi pubblici e gli esami di abilitazione sono truccati e non basta una montagna di prove a dissuadere tale convinzione, così come migliaia di scandali, anche riferiti alla sua professione, vuol dire che è inutile anche parlarne ed è scontata la frase di risposta "non so come posso aiutarla". Se poi tale affermazione viene da un penta stellato che della rivoluzione culturale ne fa bandiera. Allora stiamo proprio freschi. Nessun cambiamento avverrà mai in Italia.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Ma perché tutto quanto è taciuto dai giornalisti. Perché?

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non  previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.

Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.

A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.

Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.

Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.

A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.

La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.

Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.

Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………

Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.

Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…

Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.

Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.

Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!

Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino,  (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.

In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….

Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.

Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.

Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.

Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.

«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.

Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.

Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?

Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.

Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.

Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)

La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.

Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta,  “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi  hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.

Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.

Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).

Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.

Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.

Di che ci stupiamo?

Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che  sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore  della provincia di Bergamo, sposato e  padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio  2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno  ancora stato messo sotto processo come  inequivocabilmente colpevole. 

Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su  “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.

Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.

Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…

Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni  ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...

Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.

Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?

«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».

Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?

«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».

I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?

«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».

L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?

«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».

Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?

«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».

Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?

«Spero di scoprirlo presto».

In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.

«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».

Di fronte a tale affermazione come ha reagito?

«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».

In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…

«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».

Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?

«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».

Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…

«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».

Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?

«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».

Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?

«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».

Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?

«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».

Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di  appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.

Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.

Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. STOP A RICORSI PROLISSI ED A TESTIMONI INUTILI.

Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruoscrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….

La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.

Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.

Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.

"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.

Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?

«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».

Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?

«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».

Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?

«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».

Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.

«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».

Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?

«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».

Ma all'inaudito non c'è mai fine....

Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.

DE MAGISTRIS ED I PASDARAN DELLA NOTIZIA SPICCIA. L’EVOLUZIONE DELL’INFORMAZIONE.

Luigi De Magistris condannato e sospeso da Sindaco. I pasdaran si scatenano.

Il reato, intanto, va verso la prescrizione. Un disappunto quanto trattasi degli altri.

Raphael Zanotti su “La Stampa”, sipega la vicenda di De Magistris.

Perché Luigi De Magistris è stato sospeso dall’incarico di sindaco di Napoli?

Per effetto della Legge Severino che dal 2012 prevede la sospensione dalle cariche elettive di chi viene condannato, anche se non in via definitiva, per una serie di reati tra cui l’abuso d’ufficio.

Qual è la condanna di De Magistris?

Il sindaco di Napoli è stato condannato il 24 settembre scorso dal tribunale di Roma per concorso in abuso d’ufficio insieme al consulente informatico Gioacchino Genchi. Per entrambi la pena è stata di un anno e tre mesi (sospesa e con la non menzione) per aver acquisito, quando De Magistris era pm a Catanzaro, i tabulati telefonici di alcuni parlamentari senza la necessaria autorizzazione da parte delle Camere. La sentenza prevede l’interdizione dai pubblici uffici per un anno, ma questa sanzione accessoria scatta solo quando la sentenza diventa definitiva. Non così per la Legge Severino, che non viene considerata una norma penale, seppur derivante da una condanna penale.

Quali erano i parlamentari intercettati illegalmente?

Tra i politici intercettati comparivano Romano Prodi, Francesco Rutelli, Antonio Gentile, Clemente Mastella, Giancarlo Pittelli, Marco Minniti e Sandro Gozzi.

Perché De Magistris li aveva intercettati?

Perché i loro numeri di telefono comparivano nell’agendina dell’imprenditore Antonio Saladino, al centro dell’inchiesta. Ma i politici non sono stati coinvolti nel processo. In realtà il pm che ha sostenuto l’accusa contro De Magistris e Genchi, durante la sua requisitoria, aveva chiesto l’assoluzione dell’ex pm sostenendo che il vero artefice delle intercettazioni illegali era Genchi. “Unica colpa” di De Magistris sarebbe stata di dare carta bianca al consulente informatico che preparava da sé i decreti di acquisizione atti (è anche ufficiale di polizia giudiziaria) facendoli firmare a De Magistris che non controllava con la dovuta accuratezza. Una tesi, però, che non ha convinto il giudice che ha condannato entrambi.

Ora cosa succederà?

Deve essere il prefetto di Napoli a far applicare la sospensione prevista dalla Legge Severino. Il sindaco di Napoli, che in queste settimane ha più volte respinto tutte le richieste di dimissioni, potrà rivolgersi al Tar e, in quella sede, tentare di far sollevare una questione di legittimità costituzionale della Legge Severino davanti alla Consulta.

"ERA UN SISTEMA ILLEGALE, L’ARCHIVIO PRIVATO DI GENCHI ERA UN APPARATO MEDIATICO E ANDAVA FERMATO”, scrive Massimo Malpica per “il Giornale”. «Il punto cruciale della vicenda de Magistris-Genchi è la privatizzazione del business delle intercettazioni e dell'analisi dei tabulati. Perché affidarle a un consulente e non, per dire, al Ros o alla postale?». Quando esplose l'inchiesta Why Not , Francesco Rutelli era vicepremier del governo Prodi. Tra i tabulati di parlamentari acquisiti illecitamente, e che hanno portato alla condanna dell'ex pm e del suo consulente informatico, c'era anche il suo. «Mai avuto nulla da nascondere - attacca il leader di Api - ma la domanda centrale è: perché incarichi per milioni di euro a un consulente privato?».

Ecco, perché?

«Secondo me, nel caso di Genchi è emersa una doppia finalità. Creare un archivio che lo rendesse appetibile per alcune procure, una sorta di portafoglio di milioni di informazioni. E usare mediaticamente il materiale ricavato dal lavoro commissionato e profumatamente pagato da quelle procure, che veniva rapidamente girato ad alcuni giornali. Ecco, per me è importante che si sia interrotta questa dinamica che sembrava inarrestabile, arginando l'idea che si possano privatizzare banche dati sensibili, create per interessi specifici».

Travaglio li difende: leciti l'archivio e le acquisizioni dei tabulati, non potevano sapere a chi quelle utenze erano intestate.

«Per Travaglio difendere De Magistris vuol dire difendere un metodo investigativo spregiudicato che non ha retto alla prova dei fatti. E difendendo Genchi, difende una sua preziosa fonte di informazioni, che tra l'altro non avrebbero dovuto essere pubblicate. Peraltro, Travaglio dice che sono tabulati e non intercettazioni, come se fossero meno importanti. Ma i tabulati sono significativi e potenti, tracciano una persona e le sue relazioni nell'arco di mesi o anni. Travaglio dice anche che l'archivio era lecito, ma sbaglia. È lecito incrociare dati se l'incarico ricevuto dal pm è mirato, non indiscriminato come qui. Questo archivio era un apparato mediatico-politico-sociologico: basta vedere la raffica di interviste concesse da Genchi su materiali acquisiti come perito. Quanto all'intestazione delle utenze, sapevano bene di chi erano».

Come fa a dirlo?

«Parliamo di acquisizioni di tabulati di utenze ricavate da rubriche telefoniche, quindi utenze collegate a nomi e cognomi. È mancata la buona fede. Infatti c'è condanna in primo grado perché i giudici hanno ritenuto che non ci fosse negligenza, ma un comportamento illecito».

Lei ha seguito il caso anche da presidente del Copasir.

«Dopo aver letto e sentito che de Magistris e Genchi erano stati fermati nelle loro inchieste per aver messo le mani sulle connessioni tra intelligence, criminalità organizzata, massoneria e corruzione politica, li abbiamo ascoltati per capire che informazioni avessero. Quello che emerse fu zero. A parte l'ampiezza dell'acquisizione dei dati e il loro incrocio. Genchi non è stato solo un fornitore di informazioni e un creatore di scenari suggestivi per le procure che lo ingaggiavano, ma anche per alcuni giornali, permettendo la diffusione indiscriminata che associava persone indagate a non indagate, che scoprivano a mezzo stampa d'essere finite in questa enorme ragnatela di informazioni».

Archivio o dossieraggio?

«O spionaggio? Se figlie e moglie d'un ex capo dell'intelligence italiana sono state tracciate per oltre due anni, come lo qualifichiamo? Il tabulato contiene dati sensibili che è significativo acquisire se indaghi su un delitto, non su un “minestrone”, e per di più se sei un privato, foraggiato dallo Stato, che dichiaratamente, poi, queste informazioni le conserva per sé. È grave. Accumulo dati, li incrocio, cedo a questo o a quello notizie prelibate. E l'interesse non solo giudiziario ma giornalistico è provato proprio da quanti oggi si affannano a difendere questa procedura. Che per fortuna, mi auguro, è finita».

LA NEMESI BEFFARDA DI GIGGINO ‘A MANETTA PALADINO DELLA LEGALITÀ CHE RESISTE ALLA LEGGE, scrive Francesco Merlo. Manca solo che li chiami comunisti. Da giudice accusava i politici che resistevano alla legge, da politico accusa i giudici e resiste alla legge. Insomma, è diventato uno dei suoi imputati Luigi De Magistris, ex giudice inflessibile e ora sindaco flesso. E forse è Nemesi o forse Contrappasso o forse è solo Napoli che rende possibile l’impossibile. Di sicuro fa a un danno epocale a tutti i giudici italiani questo finale grottesco del rivoluzionario arancione che si candidava a tutto: «La prospettiva di guidare la sinistra non mi dispiace e non mi spaventa». E trascina nel folklore anche il serissimo conflitto tra magistratura e politica e la stessa riforma della giustizia il botto finale della breve carriera populista del sindaco-condannato che diceva di mirare a Palazzo Chigi ma collezionava più soprannomi del Belzebù Andreotti: “Giggino a manetta”, “o skipper”, “o scassatore”, “a promessa”….Quale che sia l’esito finale della sua parabola di autodistruzione resteranno di lui - cult su Youtube - due soli videoclip, quello di ieri mattina dove definisce «melassa putrida» e «sistema criminale» lo Stato italiano che lo ha condannato, e quell’altro dove, in camicia bianca, invita Al Pacino a venire nella nostra bella Napoli che più sta e più bella diventa: «Ciao Al, sono Luigi…». E denunzia la persecuzione dei giudici il sindaco che, secondo la sentenza di primo grado, da giudice non perseguiva ma perseguitava i politici: abuso d’ufficio per le illegittime intercettazioni (tabulati) a strascico a Rutelli, Mastella, Minniti, Gozzi, Prodi…. , ed ecco perché “O strascico” è un altro dei suoi soprannomi. Inutile dirgli che, se fosse davvero innocente, De Magistris dovrebbe affrontare con dignità la sentenza, la sospensione, e aspettare l’Appello. Nessuno meglio di lui dovrebbe sapere che nei processi di primo grado l’errore giudiziario è un’ipotesi fisiologica ma sicuramente rimediabile perché le sentenze si riformano. Persino Andreotti lo capì. Invece il persecutore De Magistris è ora un perseguitato ma, come nella grande letteratura, dal proprio naso (Gogol), dalla propria ombra (Andersen), dal proprio doppio: il povero Dr Jekyl vilipeso dall’odioso Hyde. «Io sono figlio di magistrato e nipote di magistrato» ricordava sino all’altro ieri l’ex magistrato che divenne famoso perché allargava così tanto le indagini da renderle inoffensive ma molto rumorose. «Ha fatto ‘o pireto cchiù ddò culo» dicono ora a Napoli, e sarebbe una reazione ingenerosa se non fosse la traduzione ironica delle lodi con cui l’ex giudice si imbroda: «sono un enorme plusvalore», «sono sicuro di essere stato un ottimo magistrato». E invece tra i flop gli contano almeno tre inchieste lucane, il villaggio turistico di Marinagri, i fidanzatini di Policoro e le toghe corrotte; su 150 indagati di “Why Not?” la quasi totalità ne è uscita, in vari modi, indenne e solo 6 attendono il giudizio; e poi ancora c’è l’indagine archiviata sui depuratori Poseidone…: “O floppe” è l’altro malizioso soprannome. Di sé diceva «sono una toga anarchica» ma il rapporto di De Magistris con la giustizia sta diventando ormai eversivo. La legge che lo sospende dalla carica di sindaco «è ingiusta» ha sostenuto ieri, e se una legge è ingiusta, ohibò, non è legge. E anzi, secondo De Magistris, forse l’ex ministro Severino, «che era avvocato della mia controparte», la ideò proprio contro di lui, e qui siamo già sul lettino di Freud. Comunque «i magistrati dovrebbero dimettersi» e «farò il sindaco in strada» sono annunzi sediziosi che ricordano sia il plebeismo carismatico di Achille Lauro e sia la famosa marcia per non marcire davanti al tribunale di Milano di Alfano e degli altri deputati berlusconiani. Bleffa? Sicuramente sopravvaluta il rapporto con la sua città che, è vero, ama i condannati e ad ognuno di loro offre una zona franca, luoghi a statuto speciale come Scampia e Secondigliano, lo stadio e San Gennaro, insomma esalta l’anomia, protegge la dimensione del fuorilegge e garantisce a furor di popolo quell’impunità che adesso De Magistris rivendica dimenticando però il suo blasone di legalità e dunque mettendo a rischio il consenso di tutta quella bella sinistra anti-Cosentino che l’aveva plebiscitato. Ma senza però conquistare gli altri, la plebe e il popolo anarchici, perché anche i fuorilegge hanno un codice e neppure a Napoli è permesso il passaggio di ruolo con destrezza: «ogni presepe ha i suoi pastori » e «chi nasce tondo non muore quadrato». Non si può essere al tempo stesso guardia e ladro, mettersi alla testa della Napoli dell’illegalità di Davide Bifolco e convincere quella dei ragazzi che già una volta credettero al suo profilo eroico, quando il Csm lo aveva condannato: «Mi hanno messo a tacere non con il tritolo ma con il trasferimento»; «se mi dovesse succedere qualcosa basta leggere il mio diario per capire chi è stato». È dunque una storia italiana emblematica e purtroppo molto triste quella del De Magistris finito sottosopra. E si capisce che non potrà resistere a lungo, ma più resiste alla legge appellandosi alla piazza più l’ex uomo di legge precipita nella maledizione del pittoresco, preda del diavolone plebeo che di nuovo inchioda Napoli al destino crociano di “città dei lazzari”, al quale proprio questo sindaco avrebbe dovuto sottrarla. E invece De Magistris ha costruito passo dopo passo la sua storia di eccessi, a partire dal suo errare nell’errore e nell’orrore: dipietrista, grillino, orlandiano, ingroiano… sino a renziano respinto: «Si imbuca come un liceale nelle feste» lo sgamò Pina Picerno che è più ciaciona di lui, verace di natura e non di convenienza, e infatti il sangue di San Gennaro, che resiste a lui, si scioglie per lei. E De Magistris è un prodotto televisivo di Santoro che ne intuì e ne valorizzò la natura di Masaniello: “sparami ’n pietto” è un altro soprannome, il petto in fuori e il coraggio virile del guappo, ma di buona famiglia. E infatti “guappo e mammete” è l’ennesimo nomignolo divertito, e forse perché quelle frasi narcise - «sono bello, piaccio alle donne, è un fatto che sta lì, oggettivamente lo constato» - solo le mamme del Vomero riescono a imprimerle nella psicologia di un figlio: “Giggino Banderas” è l’ultimo dei soprannomi. È la mamma che gli cucì la toga in 48 ore il giorno della tesi di laurea. La mamma gli ha insegnato a tenere il Vangelo sempre sul comodino. Ma forse la mamma, che è l’erede del grande italianista Luigi Russo, mai aveva pensato a un destino di “ammuina populista”, di giudice “sciuè sciuè”.

Fantastico questo De Magistris. Il ministro dell'Interno Alfano preannuncia la sua sospensione da sindaco di Napoli e lui, sfrontato:"Salutatemela". Come a dire, alla napoletana: "E chi se ne fotte", scrive Angelo Maria Perrino, il direttore di “Affari Italiani”. Quale senso dello Stato, quale garbo istituzionale promana dalla bocca di questo improbabile servitore dello Stato, prima magistrato fallito e poi sindaco contestato e detestato di una delle più grandi e blasonate città d'Europa. Lo stesso senso dello Stato che egli ha manifestato ieri in tv (da Floris a Ballarò o da Giannini a dimartedi, li confondo) quando, davanti alla canea montante dei giornalisti moralisti in servizio permanente effettivo, da Mentana a Stella allo stesso conduttore, che lo spolpavano (mentre ieri lo esaltavano del tutto acriticamente) e lo deridevano, obiettava secco e col gesto tipico delle dita della mano che accarezzano il mento, per tre volte: "Non mi dimetto, non mi dimetto e non mi dimetto". Tiè, stronzi. L'hanno chiamato Giggino 'a manetta questo figlio degenere ma meno rozzo e più belloccio del contadino molisano Antonio Di Pietro, ricordando i suoi tanti provvedimenti restrittivi quasi tutti immotivati e le sue inchieste tanto clamorose quanto inconsistenti. Bufale allo stato puro. Ora Giggino veste i panni di Masaniello e lancia l'attacco ai suoi ex colleghi magistrati che gli hanno spezzato una già declinante carriera politica sfrattandolo da palazzo San Giacomo. "Non mi dimetto, non mi dimetto", proclama annunciando che lascerà il Palazzo e continuerà a fare il sindaco dalla strada. "Come vuole la mia gente", spiega. Non è vero, a Napoli si sono pentiti di averlo eletto. Ma fingiamo che sia così e assecondiamolo, questo campano verace che ha dimenticato gli studi di diritto e applica un codice giuridico personale. Purchè non ce lo propinino in tutti i talk show: egli non ha davvero più nulla da dire nè da fare. Abbiamo già dato. Facciamo scendere l'oblio.

De Magistris, il caso della condanna come rappresaglia contro il ‘giustizialismo’, scrive Daniela Gaudenzi su “Il Fatto Quotidiano”. Dopo tre giorni di titoli cubitali e di copertine dei Tg con il nemico pubblico dell’equilibrio democratico Luigi De Magistris dato in pasto al pubblico ludibrio viene spontanea una domanda: c’è un principio di proporzione tra “la resistenza” di Luigi De Magistris a non lasciare la carica di sindaco nonostante la condanna in primo grado per abuso d’ufficio e la mole nonché “la qualità” delle reazioni politico-mediatiche? La volontà espressa da De Magistris di non dimettersi, con accenti decisamente forti nei confronti del tribunale di Roma, nonostante la precisa previsione della legge Severino possa essere ampiamente criticata perché può non apparire conseguente all’impegno di chi ha messo al centro del suo impegno di magistrato e di eletto il principio di legalità e di uguaglianza davanti alla legge. Ma quello a cui si sta assistendo a reti e testate unificate è un’orgia di livore, di ignoranza e mistificazione dei fatti storici e processuali, di sete di resa dei conti con quella che viene incredibilmente definita “la stagione giustizialista durata un ventennio” che avrebbe in De Magistris uno dei mala exempla da sbattere in prima pagina come mostro, senza attenuanti. Nessuno tra quanti pontificano, inveiscono, stigmatizzano senza appello si è preso la briga di rispondere, nemmeno incidentalmente alla banale domanda che mi ha rivolto “ingenuamente” un’amica e che dovrebbe essere un “a priori” per chi si definisce giornalista: ma che cosa ha fatto De Magistris? Per quanto ho potuto verificare mi risulta che l’unico, con l’eccezione di pochi giornalisti e blogger de il Fatto Quotidiano, ad aver cercato di ricostruire quello che viene definito con sarcasmo “lo strano caso del sindaco magistrato” sia stato Marco Travaglio nell’editoriale del 26 settembre. E infatti “come sa chi conosce i fatti alla base del processo” e ha conservato “il vizio della memoria” l’inchiesta Why Not a Catanzaro (non a Potenza come hanno detto al Tg3 facendo confusione con Woodcock, tanto i rompiscatole sono tutti uguali) aveva al centro un sistema organico e pervasivo di interessi “opachi” di cui il faccendiere ciellino Antonio Saladino era uno degli snodi. E ricorderà anche come questo factotum avesse accesso ai numeri privati di esponenti politici di alto livello e rigorosamente bipartisan. E chi ha seguito le tappe di Why Not scippata a De Magistris con un’avocazione anomala su input dell’allora ministro della giustizia del governo Prodi Clemente Mastella, coinvolto nell’inchiesta, ricorderà anche come il processo incardinato stranamente a Roma e dopo che De Magistris era già stato archiviato per abuso a Salerno non si fondasse sullo “sterminato archivio Genchi”, né su una mole gigantesca di “intercettazioni illegali” bensì unicamente sui tabulati telefonici. I telefoni molto caldi di Saladino & Co. erano venuti a contatto con centinaia di numeri tra cui anche quelli di ben otto parlamentari dei quali non era possibile conoscere in anticipo l’identità né ovviamente la relativa immunità. E’ quasi impossibile ripercorrere in poche righe l’intero iter di Why Not: dall’avocazione con smembramento e relativo affossamento dell’inchiesta, quanto meno per segmentazione, fino al procedimento disciplinare a carico di Luigi De Magistris anch’esso alquanto inusuale e caratterizzato da una oggettiva compressione del diritto alla difesa dell’incolpato. Procedimento sfociato con una condanna esemplare da parte della sezione disciplinare presieduta da Nicola Mancino nei confronti del “cattivo magistrato”, definito tale dalla consigliera laica Letizia Vacca in via preliminare per “aver inteso la professione come una missione”. E la definizione è stata incredibilmente ripresa alla lettera dal rappresentante del procuratore generale della Cassazione nel procedimento disciplinare a suo carico, come ha precisato Luigi De Magistris nell’intervista che mi ha rilasciato nel marzo del 2008. Gli altri quesiti che rimangono a proposito del processo per abuso di ufficio a carico di De Magistris e Genchi ineriscono sia la competenza, che per i reati dei magistrati che operano a Catanzaro è della procura di Salerno e non di Roma, sia la revisione della fattispecie dell’abuso di ufficio, limitata dal ’97 all’ipotesi che produca un “danno ingiusto” o un “ingiusto vantaggio patrimoniale” a chi lo pone in essere. I dubbi o le critiche alla sentenza di condanna hanno perciò piena cittadinanza e come ha sostenuto Marco Travaglio ci sono ottimi motivi per essere oltremodo curiosi di conoscere le motivazioni. Che ricostruire i fatti storici e contestualizzare la storia di Why Not diventi oggetto di scherno contro “la banda dei manettari allo sbando” come hanno fatto, secondo la loro ragione sociale, Il Giornale e Libero può essere solo una banale conferma di come il giornalismo nostrano si fondi sulla scomparsa dei fatti e sulla manipolazione sempre nel senso dell’aria che tira. E quanto sulla giustizia aleggi un vento impetuoso per “chiudere” il ventennio berlusconiano imponendo attraverso Renzi “le riforme” di Berlusconi lo dice sul Corriere della sera, con soddisfazione incontenibile, Pigi Battista quando addita in De Magistris che “si inchioda alla poltrona” niente altro che “il simbolo della fine di una stagione: quella del giustizialismo forcaiolo, arrembante, aggressivo, santificato da un’intransigenza di ispirazione giacobina”. Sarebbe stato probabilmente meglio non offrire l’appiglio risibile del “De Magistris uguale a Berlusconi”, perché non si “schioda” e contesta la condanna,  ma forse non è del tutto negativo che i garantisti all’italiana abbiano l’occasione di mostrare tutto il loro spessore e la loro capacità di discernimento.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: "De Magistris non era solo, vi racconto chi erano i suoi complici". Immaginate che cosa ci avrebbe costruito lui, De Magistris, abituato com’era a intravedere cosmogonie attorno a delle semplici parentele: parliamo di quando, nel tardo aprile 2009, lui - che mediaticamente era stato inventato da Michele Santoro - fu prosciolto da una cognata di Michele Santoro, a Salerno. Immaginate la connection che ci avrebbe costruito: considerando che un suo cognato (di De Magistris) era pm a Catanzaro e che una zia di sua moglie (moglie di De Magistris) lavorava a Il quotidiano, giornale schieratissimo a suo favore. Prosciolto da quale accusa, comunque? Questa: concorso in diffusione di notizie coperte da segreto. Prosciolto. Anche se, per sapere che c’era stato un passaggio di notizie dalle inchieste di De Magistris direttamente ai giornalisti (Carlo Vulpio del Corriere incontrò De Magistris persino ad Eurodisney) bastava leggere gli stessi giornali, o, meglio, le intercettazioni del caso. De Magistris, nell’agenda del suo cellulare, aveva memorizzati i numeri di Marco Lillo dell’Espresso, Sandro Ruotolo di Annozero, Carlo Vulpio del Corriere (una telenovela, la loro) e poi di Federica Sciarelli di Raitre (la incontrò in un albergo) e Antonio Massari della Stampa (che gli dedicò anche un libro) e Peter Gomez de l’Espresso (con cui cenò alla presenza di Gioacchino Genchi) e ancora Stefania Papaleo del Quotidiano: e molti altri ancora. Due giornaliste andarono a casa sua, di De Magistris, a serata inoltrata; e una delle due preparò addirittura una rassegna stampa estiva personalizzata per il magistrato. Ma andava tutto bene, non c’era stata violazione di niente. Lo decise la cognata di Santoro. E poi queste sono sciocchezze, dài, le fonti sono le fonti. L’erezione del personaggio De Magistris in realtà risale all’autunno 2007, precisamente ad Annozero del 4 ottobre: il pm divenne la punta di diamante di una campagna che cercava un punto debole del governo (Prodi) e lo trovò nel Guardasigilli Clemente Mastella, già cucinato anche a Ballarò del 25 settembre: Romano Prodi dovette affrettarsi a solidarizzare col suo Guardasigilli. De Magistris preferì esternare in televisione prima ancora che al Csm, e la richiesta della «società civile» fu di togliere dalle mani di Mastella il ruolo di titolare dell’azione disciplinare contro De Magistris. Il quale pronunciò anche due frasi che davano l’idea, già allora, di quanto valesse la sua parola: 1) «Non querelo i giornalisti... anche quando mi hanno detto le peggio cose, io non ho querelato. Devi saper accettare una dialettica molto aspra e molto dura». Nota: ha fatto milioni di querele, e, quando le hanno fatte a lui, si è scudato con l’immunità europarlamentare; 2) «Sono contrario ai magistrati che vanno in televisione» disse in televisione, coi capelli impiastricciati di gel. Il rapporto con Marco Travaglio fu sicuramente di vicinanza. Non a caso, Di Pietro aveva già cercato di arruolare sia Travaglio sia De Magistris nelle proprie liste: ma il primo aveva rifiutato, il secondo non era benvoluto da Walter Veltroni. De Magistris però già impazziva per la stampa, tutta: nell’autunno 2007 fece aspettare in sala d’aspetto gli ispettori ministeriali perché era impegnato con un’intervista televisiva a Michele Cucuzza. A metà novembre accettò l’invito di Grillo e Travaglio a partecipare a un «dibattito pubblico» a Strasburgo sull’uso dei finanziamenti europei. «Abbiamo fatto un viaggio in macchina incredibile, io Beppe e Travaglio abbiamo percorso il tragitto in sei ore». Quando il magistrato si candidò per l’Italia dei Valori, due anni dopo, Travaglio ne difese la scelta: «È inopportuno che si candidino magistrati e giornalisti, arbitri della politica... De Magistris comunque fa eccezione: come Michele Santoro, si candida al Parlamento europeo perché gli è stato impedito di fare il suo lavoro». Tra l’altro era pure indagato, De Magistris: ma era solo «un un atto dovuto», giustificò Travaglio. A un certo punto, però, ci fu una rottura tra De Magistris e Carlo Vulpio, cronista del Corriere e autore di vari scoop sulle inchieste del magistrato: durante un incontro a Ferrara, presente anche De Magistris, Vulpio se la prese con Santoro e il magistrato insorse così, secondo il racconto di Vulpio medesimo: «Poi Di Pietro e Grillo e Travaglio rompono le palle a me, per le cose che dici tu». De Magistris mandò anche un sms a Travaglio: «Vulpio sta attaccando Santoro, ma io mi sono dissociato». Ma comprendere il rapporto di De Magistris con la stampa significa anche comprendere che la stampa italiana, quando occhieggia a un personaggio, è pure disposta a passare per scema. Quando si si seppe che la notizia dell’iscrizione di De Magistris nel registro degli indagati stava per uscire, la mattina del 17 marzo 2009, Di Pietro e De Magistris convocarono una rapida conferenza stampa di presentazione del neocapolista: anche se al voto europeo mancavano ancora due mesi e mezzo. L’agenzia di stampa con la notizia che De Magistris era indagato, puntuale, giunse poche ore dopo: così De Magistris potè invertire causa ed effetto. «La notizia esce proprio il giorno in cui viene presentata la mia candidatura, ma io non mi faccio condizionare». Meraviglioso. E la stampa non eccepì. Di Pietro aveva anche detto che non avrebbe candidato inquisiti: ma pace. A proposito del rapporto di De Magistris con la stampa nazionale, infine, tocca riportare un episodio personale. Nel tardo inverno 2009, quando la stellina politica del magistrato era ormai lucente, cercai di capirci qualcosa di più: chi accidenti era, questo De Magistris? Che aveva fatto, in definitiva? Passavano gli anni, ma su di lui - parlo di inchieste, approfondimenti, libri - non era mai stato pubblicato niente di serio. Così partii per la Calabria e ci rimasi per tre giorni. Bene: raccogliere materiale inedito sul magistrato Luigi De Magistris, in assoluto, fu l’impresa più semplice e di tutta la mia carriera. Avvocati, politici, cittadini, soprattutto magistrati: fui letteralmente inseguito e caricato di materiali che in altre circostanze avrebbero richiesto, non esagero, mesi o anni di ricerca. Mi sembrò semplicemente pazzesco che nessuno, a parte la gloriosa stampa locale, se ne fosse mai occupato prima: era materiale incredibile e parlava di un tizio che era sulle prime pagine tutti i giorni. E non era importante, a quel punto, se le varie fonti ce l'avessero tutti con De Magistris o no: le carte erano carte, le inchieste erano le sue, gli esiti pure. Rivolgermi a dei simpatizzanti, del resto, sarebbe stato impossibile: da quelle parti non ne risultavano. Mentre in una cittadina della Basilicata come Policoro, viceversa, poteva capitare d’imbattersi in una «Associazione vittime di De Magistris» con migliaia di iscritti, ripeto: migliaia. Bene: sulla stampa nazionale non si era mai letta una riga. E neanche su internet c’era nulla. La gente non legge più le inchieste, è vero: soprattutto se nessuno le scrive.

GIORNALISTI: ZERBINI DEI MAGISTRATI.

Livatino, Falcone e la responsabilità civile delle toghe, scrive Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Il 21 settembre di 24 anni fa, il giudice Rosario Livatino veniva ucciso in un agguato di stampo mafioso in Sicilia. Livatino aveva una idea molto netta e chiara sulla responsabilità civile delle toghe e la spiegò in delle riflessioni, quantomai attuali, che l’Ansa riporta alla luce. “Non esiste, si può dire, atto del giudice e più ancora del pubblico ministero che possa dirsi indolore. Ogni giudice, quindi, nell’atto stesso in cui si accingesse alla stipula di un qualsiasi provvedimento, non potrebbe non domandarsi se per caso dal suo contenuto non gliene possa derivare una causa per danni. E sarebbe quindi inevitabile ch’egli si studiasse, più che di fare un provvedimento giusto, di fare un provvedimento innocuo”, argomentava Livatino. Che poi aggiungeva: “Come possa dirsi ancora indipendente un giudice che lavora soprattutto per uscire indenne dalla propria attività non è facile intendere. Né si dica che le parti raramente ricorrerebbero a questa possibilità. La facilità con cui, specialmente in certe regioni, si ricorre all’esposto contro il giudice, anche per i più ingiustificati motivi, autorizza la previsione che una riforma del genere aprirebbe subito un ampio contenzioso. La colpa del giudice, se c’è, è sempre grave per definizione, data dall’importanza degli interessi sui quali egli dispone. L’altro effetto perverso, che potrebbe essere indotto dalla riforma, sarebbe quello di indurre il giudice al più rigido conformismo interpretativo: per cautelarsi contro il pericolo di seccature. Gli effetti più devastanti di una proposta del genere si avrebbero in materia penale. Se l’organo dell’accusa sa che le sue iniziative investigative possono costargli, quando non ne seguisse una condanna, una causa per danni, ci si può chiedere se sarà mai più possibile trovare un pretore od un pubblico ministero che di sua iniziativa intraprenda la persecuzione di quei reati che per tradizione o per costume o per altro nel passato erano raramente perseguiti. Ci si può chiedere ancora se si troverà un giudice che, in presenza di un reato che consente ma non impone la cattura, avrà l’ardire di imprigionare, ad esempio, un bancarottiere per qualche miliardo, quando rifletta alle conseguenze che gliene potrebbero derivare se, per caso, costui venisse assolto. Questo è l’effetto perverso fondamentale che può annidarsi nella proposta di responsabilizzare civilmente il giudice”.

Sono riflessioni sicuramente non banali, seppur scritte da un diretto interessato. Sempre sullo stesso filone, ho trovato questo articolo di Repubblica datato novembre 1988, in cui vengono riportate le parole del giudice Giovanni Falcone durante un convegno del Movimento per la Giustizia, poco tempo dopo il risultato del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Cito le parti più salienti: “Gli italiani non ci vogliono più bene? Per forza: siamo incompetenti, poco preparati, corporativi, irresponsabili. (…) Non può non riconoscersi che il referendum, a prescindere da qualsiasi sua strumentalizzazione, ha consentito di accertare, senza equivoci, un dato estremamente significativo: e cioè che la stragrande maggioranza dell’ elettorato ritiene che la funzione giurisdizionale non è svolta attualmente con la necessaria professionalità e che bisogna porre rimedio alla sostanziale irresponsabilità dei magistrati. La gente non si fida di come lavorano i giudici. Bisogna riconoscere responsabilmente, in altri termini, che la competenza professionale della magistratura è attualmente assicurata in modo insoddisfacente (…) Il linguaggio è chiaro: l’ azienda giustizia deve garantire un servizio ai cittadini, questo servizio è cattivo, non si vede perché non adottare quei criteri di rendimento e competitività che una qualsiasi azienda usa per evitare il fallimento (…) Autonomia e indipendenza sono valori che vengono sempre più interpretati dalla società come inammissibili privilegi di natura corporativa. E invece vanno difesi proprio garantendo un servizio-giustizia efficiente e adeguato”.

Al netto dell’importanza e delle differenze sostanziali tra le due posizioni, ad oggi ci sono solo due certezze: entrambi i giudici sono stati uccisi dalla mafia e il dibattito sulla responsabilità civile delle toghe tiene ancora banco. Senza trovare però una soluzione.

Livadiotti: «La magistratura è un sistema talmente malato e marcio che va cambiato», scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Intervista a Stefano Livadiotti, giornalista dell’Espresso che ha scritto il libro inchiesta “Magistrati. L’Ultracasta”: «È inutile chiedere una maggiore severità della sezione disciplinare del Csm: il 93 per cento dei procedimenti non vengono neanche ammessi». Stefano Livadiotti, giornalista de l’Espresso, è autore di numerose inchieste. Una di queste, molto densa, è sfociata qualche anno fa in un libro di successo: Magistrati. L’Ultracasta. Livadiotti, infatti, per primo è entrato nelle segrete della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, rivelando gli aspetti significativi, e spesso involontariamente comici, della giustizia italiana quando è esercitata nei confronti di colleghi togati. Eppure oggi l’intervento disciplinare severo è da alcuni, ad esempio dal vicepresidente del Csm Michele Vietti, additato come esempio che la giustizia sui magistrati funziona, e che non occorre l’introduzione di una responsabilità civile dei magistrati.

Data la sua conoscenza del sistema disciplinare e giudiziario, da osservatore esterno cosa ne pensa dell’emendamento che introduce la responsabilità civile diretta per i magistrati?

«Vorrei ricordare a chi (compresa l’Anm di Palamara) parla di intimidazione, ritorsione o vendetta sulla magistratura che la responsabilità civile è stata votata con una maggioranza schiacciante nel referendum del 1987, in cui parteciparono 26 milioni di italiani: e l’80 per cento votò sì. I magistrati devono pagare come qualsiasi professionista. La reazione a questo emendamento mi sembra il solito tentativo dei magistrati di mantenere dei privilegi ammantando tutto, come al solito, con la scusa dell’indipendenza della magistratura. Non penso affatto che ci saranno magistrati che firmeranno sentenze con mano tremolanti: non è che i chirurghi hanno smesso di operare perché sono responsabili direttamente. Dal 1988, quando è nata la legge Vassalli n.117 che ha introdotto la responsabilità civile per i giudici dopo il referendum, lo Stato si è rivalso sul magistrato in 4 casi. Praticamente mai. Si vede che così non funziona.»

Chi è contrario alla responsabilità civile diretta del magistrato ammette il problema ma sostiene che piuttosto si deve intervenire con una maggiore severità della sezione disciplinare. Cosa ne pensa?

«Potrei essere anche d’accordo, se ci fosse una sezione disciplinare che funzionasse. Tra il 1995 e il 2002  i magistrati che hanno perso la poltrona per un procedimento disciplinare sono stati lo 0,065 per cento. A titolo d’esempio ne L’Ultracasta raccontavo il caso di un magistrato pedofilo sorpreso nei bagni di un cinema: al Csm sono riusciti a riabilitare persino lui, è evidente che la disciplina non funziona. Rinviare la soluzione alla maggiore severità della sezione disciplinare mi pare il solito sistema di dire di no. Solo che appena le toghe hanno detto che sarebbero saliti sulle barricate contro la responsabilità civile, anche il governo dei tecnici, come prima quelli politici di centrodestra o di centrosinistra, ha fatto un passo indietro. Questo dimostra che la politica ha paura della magistratura. Credo che se oggi si rivotasse quel referendum dell’87, gli italiani sceglierebbero di nuovo per la responsabilità civile: perché non capiscono il motivo per cui una casta non vada punita»

Come commenta i dati sui procedimenti disciplinari avviati nel 2011 e resi noti dal Procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito, all’apertura dell’anno giudiziario 2012?

«Oggi, proprio come tre anni fa quando scrissi il mio libro, il 93 per cento dei procedimenti non supera neppure il filtro della Cassazione, che decide se la pratica merita di andare al Csm oppure no. Per quanto riguarda poi gli esiti dei procedimenti, nel mio libro scrivevo che tra il 99 e il 2006 c’erano stati 1.004 procedimenti disciplinari. L’80,9 per cento di questi è finito con assoluzione o proscioglimento. Per quanto riguarda le condanne invece: 126 magistrati sono stati puniti con l’ammonizione, un richiamo lieve; 38 con la censura, quello che definisco una “tirata d’orecchie” più forte; 22 i magistrati puniti con la perdita di anzianità, 2 con la rimozione e 4 con la destituzione. Mi pare che i numeri parlino da soli. Dei dati citati dal pg di Cassazione dico anche che non mi pare una buona notizia nemmeno «il sensibile aumento delle iniziative per “violazione di norme processuali penali e civili”» o le «abbastanza elevate percentuali di procedure “per commissione di reati” e “per ritardi e negligenza nelle attività d’ufficio”». I ritardi non vanno sottovalutati: ricordo il caso, ad esempio, di un extracomunitario che rimase 15 mesi in più in carcere per colpa di un ritardo nel deposito degli atti da parte del magistrato. Ci vanno di mezzo le vite, per un ritardo. Ora però passiamo dal magistrato cialtrone a uno anche peggiore. Quando ho scritto L’Ultracasta, ho parlato anche di una carriera in cui automaticamente, dopo 28 anni dalla prima volta che si indossava la toga, e con qualsiasi incarico, si arrivava comunque all’apice per grado e stipendio. È come se un giornalista, appena assunto, sapesse a priori che dopo 28 anni di carriera arriverebbe alla qualifica, allo stipendio e al grado del direttore del Corriere della Sera. Quando in una professione si sa di andare avanti a prescindere dall’incarico e dalla bravura, le cose come funzionano? Uno giustamente se ne va a giocare a tennis. La carriera automatica è il primo de-motivo per cui non funziona la magistratura. Aggiungiamo  il fatto che gli esami per passare da un livello all’altro sono stati per decenni una farsa, e che la sezione disciplinare del Csm non funziona, e il gioco è fatto. La magistratura è un sistema talmente malato e marcio che va cambiato. Ci fu una sentenza del Csm, ricordo, che stabiliva il numero di ore lavorative di una toga: 1560 ore all’anno. Una media di 4, 2 ore al giorno cioè. Dopo ci credo che abbiamo milioni di processi arretrati. È davvero un’ultracasta: e direi proprio che lo è rimasta. Infatti dinanzi all’ennesima proposta che intacca un loro privilegio hanno ripreso a minacciare».

Ciononostante i giornalisti sono gli zerbini dei magistrati.

Snobbati i penalisti, i giornali prendono ordini dalle procure, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. A Venezia è in corso una discussione molto seria su tutti i problemi della Giustizia, alla quale partecipano centinaia di avvocati. Voi che leggete il Garantista questa cosa la sapete, ma se non leggeste il Garantista sareste all’oscuro di tutto. I giornali italiani non si sono occupati né punto né poco (per restare nel toscanissimo dialetto di regime…) della faccenda, che ritengono trascurabile (si sono distinti esclusivamente il Sole e il Messaggero che hanno pubblicato dei piccoli articoli). Faccio il giornalista da tanti anni, so – più o meno – come si riconosce una notizia, e nessuno può dirmi che un congresso nazionale delle Camere penali – al quale partecipa per altro sia il capo della magistratura (Sabelli Fioretti) sia il ministro della Giustizia (Orlando) e durante il quale discute la parte più impegnata dell’intellettualità giuridica italiana – che ha come tema fondamentale la riforma della Giustizia, cioè uno degli argomenti caldi della battaglia politica di questi giorni, e che avanza proposte, idee, analisi, e che contesta aspramente il governo, lo Stato, la linea dell’Anm, eccetera eccetera eccetera, beh nessuno può dirmi che tutto ciò non costituisca notizia giornalistica. E invece qui a Venezia, dove ieri sono intervenuti in assemblea i due autorevolissimi candidati a succedere a Valerio Spigarelli (che conclude il mandato) nella leadership dei penalisti italiani, non si vede l’ombra di un giornalista. Per dirne una: dove sta Liana Milella, che in fondo intervista quasi tutti i giorni Sabelli, e avrebbe potuto almeno prender spunto dal suo intervento a Venezia per prendergli al volo una intervista nuova? Non c’è, e Repubblica, giornale giudiziario per eccellenza, non ha trovato gli spiccioli per mandare neppure un inviato. Neanche il Corriere ha trovato gli spiccioli, né la Stampa, né tantomeno il Fatto, organo ufficiale dell’ala militante della magistratura, che – diciamo la verità – di questioni giudiziarie è di solito abbastanza ghiotto. Mi era capitato molto raramente di partecipare a un congresso con quasi 400 delegati e neppure un giornalista delle grandi testate. Penso che persino il mio amico Marco Ferrando, se tiene il congresso del suo partito comunista dei lavoratori, un po’ di giornalisti li raggruppa. E allora c’è una sola spiegazione. Si chiama così: boicottaggio. I giornali italiani hanno boicottato il congresso. E perché lo hanno fatto? Ve lo dico: a un congresso di avvocati si mandano i giornalisti della giudiziaria, ma – da circa 20 anni – i giornalisti giudiziari italiani sono – praticamente al gran completo – alle dipendenze dirette dalle Procure. Si iscrivono alla Procura territoriale, come una volta ci si iscriveva alla sezione di un partito. E da quella Procura prendono ordini, in modo militare, blindato. Ma le Procure, si sa, non gradiscono che i loro giornalisti seguano un congresso degli avvocati penalisti, perché le Procure non sopportano gli avvocati penalisti, e pensano che vadano messi in condizione di non nuocere. E i direttori dei giornali – e gli editori stessi – in gran parte dipendono dai loro giornalisti giudiziari – con un singolare rovesciamento delle gerarchie tradizionali – da loro prendono ordini e non sono in grado di darne. In nessun altro campo dell’informazione è così: certo non nella politica, o negli esteri, ma neppure nell’economia dove in fondo le cordate sono tante, sono tante le lobby, e nessuna – come nel caso della magistratura – è in grado di controllare tutti i giornali. Il risultato – che appare chiarissimo, plastico in queste giornate veneziane – è molto drammatico: l’Italia è l’unico paese dell’Occidente dove non esiste piena libertà di stampa. Noi ci preoccupavamo – giustamente – del conflitto di interessi e di Berlusconi. Ma Berlusconi è riuscito a condizionare solo una parte piccola della stampa italiana. L’Anm, il partito dei giudici, la controlla tutta. Tutta, come ai tempi del fascismo. Mi dispiace l’asprezza di questo paragone, ma è l’unico paragone possibile e reale.

ANTIMAFIA RAZZISTA E CENSORIA. PERCHE’ CE L’HANNO CONTRO I MERIDIONALI?Dici Calabria o Sicilia o Campania, pensi a tutto il Sud Italia.

Nei libri scritti da Antonio Giangrande, “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE”, “MEDIOPOLI. DISINFORMAZIONE, CENSURA ED OMERTA’” ed “ITALIA RAZZISTA”, un capitolo è dedicato all’Antimafia razzista e censoria.

Su questo tema Antonio Giangrande, il noto saggista e sociologo storico che ha pubblicato la collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", ha svolto una sua inchiesta indipendente. Giangrande sui vari aspetti del razzismo palese o latente contro il popolo dell’Italia meridionale si è soffermato prendendo spunto dai fatti di attualità.

Quando i posti di chi ha ragione sono tutti occupati……..e gli occupanti parlano, anche il Papa si fa abbindolare………

Gli ‘ndranghetisti rinchiusi nel carcere di Larino non vogliono più partecipare alla messa della domenica, scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”. Dopo le parole pronunciate da Papa Francesco proprio in Calabria ("Coloro che nella loro vita hanno questa strada di male, i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati"), in tanti hanno protestato con il cappellano del penitenziario don Marco Colonna e annunciato che non parteciperanno più alle funzioni in cappella. E lo sciopero della messa è andato avanti per giorni. A rivelarlo è stato il vescovo di Termoli-Larini Gianfranco De Luca che ha varcato la soglia del carcere di Larino per incontrare i detenuti che protestano e officiare una messa speciale per loro.  "Ma per favore non parlare di rivolta... - s’infuria don Marco rispondendo alle domande di Repubblica.it - qui nessuno è in rivolta. Oggi alla messa erano in tanti per fortuna. La verità è che in questi giorni tanti detenuti hanno manifestato dubbi e proteste dopo le parole del Papa. Parole che a quanto pare hanno colpito nel segno se tanti di loro sono venuti a parlarmi per chiedermi cosa dovevano fare. Se dovevano ritenersi scomunicati. Alcuni mi hanno detto: padre, ma se siamo scomunicati noi a messa che ci veniamo a fare? A questo punto non veniamo più... Io invece ho spiegato loro che il Papa non vuole cacciare nessuno. Ha indicato solo la retta via, ha chiesto la loro redenzione, non la loro espulsione”. Ed è stato il vescovo di Campobasso, Giancarlo Bregantini a confermare la vicenda: «la Sezione di alta sicurezza del carcere di Larino - ha spiegato durante un intervento alla radio Vaticana - si è messa in protesta con questa frase: “Se siamo scomunicati, a Messa non vale la pena andarci”. Ne hanno parlato con il cappellano; quest’ultimo questa mattina ha invitato il vescovo al carcere per parlare e spiegare il senso dell’intervento del Papa. Questo dimostra come non sia vero che dire certe cose, sia clericalismo; in realtà le parole del Papa, come quelle della Chiesa e di Gesù Cristo, hanno sempre una valenza etica che diventa poi sempre culturale ed economica, quindi con grandi riflessi politici». La direttrice del carcere Rosa Ginestra ha voluto comunque smentire la notizia della rivolta. «Ma chi ha usato il termine rivolta? Quale rivolta... E’ falso. Oggi in carcere è un giorno tranquillo come gli altri». E don Marco spera di aver fermato lo sciopero della messa. A Oppido Mamertina, nelle stesse ore, esplode il caso della Madonna portata in processione davanti alla casa di un boss ergastolano ai domiciliari. "Interverremo con provvedimenti energici", assicura il vescovo.

Il razzismo è latente: dici Calabria, pensi al Sud Italia.

RAZZISTI. SE QUESTA E’ L’ANTIMAFIA. Questo è un pezzo scritto da Nando Dalla Chiesa. Esso va letto con gli occhi e con il senso che si può dare al di là delle parole. Si capisce fino in fondo quanto può essere cattivo l’animo umano di un settentrionale. Interi paesi del nord Italia contro l’infiltrazione della ‘ndrangheta? No. Contro l’inserimento dei calabresi nel loro territorio padano. “Mettiamola così: questo è un diario di bordo, una testimonianza doverosa di un militante dell’antimafia che in vita sua ne ha viste, studiate e sentite tante. E che una sera capita a Viadana, ricca provincia mantovana. Invitato da militanti locali del Pd che vogliono dare la sveglia all’ambiente. Strattonare gli ignavi, gridare che con la ‘ndrangheta non si può convivere. “Per favore, vieni a presentare il tuo Manifesto dell’Antimafia, ce n’è bisogno”. E’ la sera di martedì 1 luglio quando arrivo a Viadana dopo un passaggio alla biblioteca comunale di Mantova. Ho già scoperto dai toni tirati, preoccupati, usati nell’occasione dall’ex sindaco del capoluogo Fiorenza Brioni che deve esserci qualcosa di grave nell’aria. La classica cortina di ferro, già vista innumerevoli volte, da Palermo a Milano, tirata su, stavolta anche a sinistra, in difesa del solito argomento: l’inesistenza della mafia in provincia, la rimozione maledetta; magari pure la derisione o l’alzata di spalle verso che denuncia. Affetto da protagonismo, mosso da ragioni personali. E’ appena finita una bufera d’acqua. La presentazione, prevista in piazza, è stata spostata sotto i portici. Che sono già affollati all’ora dell’inizio, file di sedie bianche che gli organizzatori continuano ad allungare e allargare all’esterno dei portici. Al tavolo un membro del circolo anti-‘ndrangheta del Pd locale (commissariato come l’altro), un esponente dell’associazionismo e il corrispondente della “Gazzetta di Mantova”. Non ci vuole molto per capire che l’atmosfera è elettrica. Che i presenti (c’è anche qualcuno di Forza Italia) vogliono ribellarsi a qualcosa. Vengono subito in mente gli incontri fatti negli ultimi anni a Desio, Lonate Pozzolo, Bordighera, i comuni dove i clan calabresi avevano affermato il loro dominio contrastati da un pugno di persone senza ascolto nei partiti. Questa è zona di tradizioni democratiche. Eppure è successo qualcosa che ha sconvolto tutto. “Viadana è nostra” giurava gongolando nel 2006 un giovane esponente dei clan in una telefonata. Una millanteria? No, i segni ci sono tutti. Gli incendi, linguaggio inconfondibile e prova provata della presenza mafiosa. Le imprese edili calabresi infarcite di pregiudicati che crescono nel mezzo di una crisi che non risparmia nessuno. L’ingresso di tesserati sconosciuti nel maggior partito di governo (il Pd), provenienza Isola di Capo Rizzuto e zone confinanti. Gli avvertimenti che giungono sibillini a chi promuove in consiglio comunale un questionario da dare ai cittadini sulla percezione della presenza mafiosa, nulla di forte, per carità, ma loro capiscono e prendono cappello lo stesso. O l’assessore che porta un ferito da arma da fuoco in ospedale asserendo di averlo raccolto per strada come un buon samaritano: uno sconosciuto, dice; mentre l’interessato lo dichiara amico suo. Eccetera eccetera. Un oratore racconta che chi ha dato i volantini della serata è stato seguito e oggetto di attenzioni non amichevoli. Il giornalista aggiunge che quando ha indagato sull’accoglienza riservata al questionario, si è imbattuto nel vittimismo. Ce l’hanno con noi perché siamo calabresi, è un pregiudizio razzista. Obietto che i veri razzisti sono gli uomini dei clan, visto che in tutte le conversazioni intercettate identificano se stessi con “la Calabria”. Mi viene poi detto che i più tosti nell’innalzare la bandiera vittimista non ne vogliono però sapere di prendere le distanze dagli Arena, il clan che a Isola di Capo Rizzuto spadroneggia che è un piacere. “E’ accaduto tutto quello che dici nel libro. Le tre ‘C’, i complici, i codardi e i cretini. L’avessimo saputo prima… anche il gemellaggio che dici, pure quello abbiamo fatto, con la processione del loro santo. Ma ti rendi conto?”. Mi rendo conto. L’ho visto decine di volte. E’ così che conquistano i paesi, che si mette nelle loro mani un pezzo d’Italia dopo l’altro. Con le autorità che concedono le white list a imprese assai discusse, per non avere grane con il Tar. Con i partiti più preoccupati dei loro equilibri interni che dei drammi del paese e che proprio non ci riescono a pensare come se fossero lo Stato. Metti una cosa dietro l’altra e alla fine succede la cosa più logica: vincono loro. Soprattutto se chi si ribella viene commissariato”.

SINONIMI E CONTRARI: 'NDRANGHETISTA E' UGUALE A CALABRESE. QUEL FASTIDIOSO MARCHIO MESSO NERO SU BIANCO DA DALLA CHIESA. "Nei cantieri che sono di Expo abbiamo rilevato segni di presenza mafiosa così come abbiamo rilevato la capacità delle organizzazioni criminali di inserirsi in opere anche appaltate direttamente da Expo. C'è una situazione che deve essere controllata meglio". È questo l'allarme lanciato dal presidente del Comitato antimafia del Comune di Milano, Nando Dalla Chiesa, nel corso della presentazione della V relazione stilata dall'organo da lui presieduto il 3 agosto 2014. Una relazione questa presentata "con una certa urgenza - ha chiarito Dalla Chiesa - e che riporta i segni di presenza mafiosa riscontrati dal Comitato". Fin qui tutto nella norma potremmo dire, Ferdinando Dalla Chiesa presiede il Comitato antimafia del Comune di Milano che a sua volta stila una relazione nella quale segnala la presenza di forze mafiose nei cantiere dell'Expo. Nulla da dire se non fosse che nel documento in questione i calabresi tutti vengano bollati come affiliati alla 'ndrangheta, ma andiamo con ordine, scrive Maria Chiara Coniglio su “Telemia”. Dalla Chiesa nel corso della conferenza stampa del Comitato antimafia ha detto senza troppi giri di parole che bisogna chiudere i varchi non agli 'ndranghetisti ma ai calabresi. Una gaffe, può aver pensato qualcuno, e invece no, Dalla Chiesa a scanso di equivoci ha ampiamente ribadito il concetto all'interno del documento in cui per ben 13 volte il termine calabrese viene utilizzato come sinonimo di 'ndranghetista. Nel testo si fa infatti riferimento alla presenza di "padroncini calabresi nello svolgimento di lavori che pur si realizzano a forte distanza dai comuni di loro residenza" o ancora a come l'impresa Perego avesse il compito di mantenere "150 famiglie calabresi". Insomma basta con questo stupido buon senso e addio al non far di tutta l'erba un fascio, un capro espiatorio dovrà pur esser trovato e qual miglior posto della Calabria per dar frutto ad una simil ed ardua ricerca. Del resto in regione al fango si è purtroppo concesso che ci abituassero e poco è stato fatto per rimuovere il marchio dei brutti, sporchi e cattivi. Calabrese è uguale a 'ndranghetista ed ora Dalla Chiesa lo ha messo nero su bianco in un documento ufficiale in barba ai calabresi, silenti vittime di un razzismo sempre più manifesto. 

Il delegato di Confindustria Calabria per Expo 2015, Giuseppe Nucera, ha inviato una lettera al presidente del Consiglio regionale Francesco Talarico, stigmatizzando la mancata presa di posizione del mondo politico-istituzionale calabrese di fronte alle affermazioni rese nei giorni scorsi da Nando Della Chiesa durante la conferenza stampa di presentazione del rapporto del Comitato Antimafia del Comune di Milano, scrive “Stretto Web”. In quella sede, Dalla Chiesa, che presiede l’organismo, ha affermato che bisogna “chiudere ai calabresi” in quanto ‘ndranghetisti. Nella missiva, Nucera sollecita una presa di coscienza e una corale reazione da parte della società civile e dei corpi intermedi della comunità calabrese. “Alla gravità di quanto sostenuto da Dalla Chiesa – scrive Nucera a Talarico – non è seguita una ferma e forte presa di posizione da parte dei politici calabresi e/o degli organi istituzionali regionali . L’ufficio che lei presiede rappresenta tutti i calabresi residenti e non e, quindi, ci aspettavamo che la massima istituzione della Calabria scendesse in campo per difendere la dignità e l’onore dei suoi cittadini. Silenzio assoluto da destra e da sinistra. Allo sconcerto di quelle dichiarazioni oggi aggiungiamo l’indignazione nei confronti di chi esercita una funzione di rappresentanza dei calabresi”. “Solo Confindustria – aggiunge il delegato degli industriali calabresi per l’Expo – ha preso posizione e porterà in tribunale Nando Della Chiesa. Questo è il fatto. Da qui bisogna partire per iniziare un percorso diverso, una riflessione, una strategia che ci consenta di uscire dal ghetto in cui ci hanno portato. Abbiamo il dovere di reagire per i nostri figli, per i nostri nipoti che vivono, studiano, lavorano in Lombardia e in tutto il mondo” Ad avviso di Giuseppe Nucera, “bisogna reagire con un piano strategico di comunicazione su vasta scala, che metta in evidenza la vera identità del popolo calabrese. Un’identità sfregiata dai mafiosi e da coloro che se ne servono per i loro sporchi affari sia in loco che nel nord Italia. Saranno i giudici a stabilire le responsabilità penali ed a colpire il ghota mafioso e gli ambienti economici che ci sguazzano. Noi siamo positivi, siamo la vera Calabria e chiederemo ai calabresi di scienza, di cultura, di impresa, che hanno dato prova di ottima e sana amministrazione pubblica e privata, di scendere in campo, di testimoniare con la propria storia l’identità di un popolo. E’ un grande impegno a cui dobbiamo far fronte – conclude Nucera – altrimenti ci saranno altri Nando dalla Chiesa e qualcuno, quanto prima, chiederà la deportazione dei calabresi e l’apertura dei campi di sterminio. Adesso basta”.

Da diversi mesi sono troppe le notizie e le illazioni che leggiamo sui media locali e nazionali e sui diversi social network tese a delegittimare un intero sistema economico e sociale. I calabresi non sono tutti malavitosi. Basta con questi vili attacchi, scrive Angelo Marra, Presidente del Gruppo giovani imprenditori di Confindustria Reggio su “Zoom Sud”. Purtroppo l’ostilità mediatica degli ultimi giorni sta innescando un circuito pericoloso che avrà conseguenze molto negative. Credo che quanto stia accadendo non nasca in maniera accidentale, bensì sia il risultato di un’azione ben programmata al fine di delegittimare tutto e tutti, aziende e cittadini, per una volontà politica-commerciale precisa. Se si continua su questa scia, se i vari personaggi pubblici continueranno a descriverci come ‘pericolosi’ o ‘disonesti’, tutte le nostre imprese correranno grossi rischi, perderanno commesse o trattative. In un periodo storico di grandi difficoltà economiche, eliminare un competitor, considerando tra le altre cose, che gli spazi sono sempre più ristretti, è una strategia di mercato. Non sta a noi descriverci come aziende sane e rispettose delle regole, ma tutti gli sforzi fatti fin qui da migliaia di uomini e donne reggini e calabresi, rischiano di divenire vani se continuano ad etichettarci come qualcosa che non siamo. La Calabria è colma di imprenditori onesti e professionali, di giovani talentuosi e vogliosi di fare impresa e dare corpo alle proprie idee. Vogliamo competere ad armi pari con le imprese settentrionali e per farlo pretendiamo dalle istituzioni da un lato maggiori controlli, a garanzia di legalità e trasparenza, e dall’altro, con la stessa scrupolosità, maggiore impegno ad eliminare radicalmente il gap atavico del nostro geographical handicap ”.

QUANDO L'ANTIMAFIA DIVENNE RAZZISMO: CALABRESE= 'NDRANGHETA. LETTERA APERTA A NANDO DALLA CHIESA. Carissimo dott. Dalla Chiesa (scrive Angelo Costantino Presidente "Giovani Per il Futuro"), curiosando sulla prima pagina de "Il Garantista",non ho potuto fare altro se non acquistare il quotidiano e sfogliare frettolosamente sino a pag. 4. Il titolo era alquanto emblematico, ma volevo capirci meglio. Non potevo credere ai miei occhi. Le parole riportate nell'articolo, la relazione che Lei ha presentato al Comune di Milano nella veste di coordinatore del comitato antimafia sarebbero dovute essere state scritte da un neofita, ma non da Lei. Lei che ha visto i propri genitori morire sotto i colpi della mafia per le strade di Palermo, Lei che è docente di Sociologia della Criminalità organizzata presso l'Università degli Studi di Milano, Lei che ha ricordato nei suoi scritti Falcone e Borsellino, ma anche uno sconosciuto a molti come Rosario Livatino, Lei che è un esperto dell'argomento non poteva permettersi una simile caduta di stile. Chi Le parla è uno studente di Giurisprudenza presso l'Università Cattolica di Milano, REGGINO CALABRESE INCAZZATO. "Del resto chi è nato e cresciuto da quelle parti, qualcosa da nascondere ce l'ha sempre, al limite qualche parentela o amicizia sospetta." Con queste parole Lei ha chiaramente voluto intendere che chi nasce in Calabria è marchiato a vita,che calabrese equivale a 'ndranghetista. Che per noi non v'è alcuna speranza. Lei questa la chiama realtà, io razzismo. Le replico con durezza perché queste parole mi hanno fatto male,e so per certo che rappresento lo sgomento di milioni di calabresi. Lei con poche ma incisive parole ha mancato di rispetto ai milioni di cittadini onesti; ai numerosi ragazzi che militano nelle associazioni antimafia; agli imprenditori che resistono, denunciano, e non pagano il pizzo; ai politici che non si fanno piegare; ai magistrati che per speranza e passione non hanno più una vita normale; ai ragazzi che non si arrendono e sperano ogni giorno in un futuro migliore. Ha offeso suo padre, morto per combattere il sistema. Ha offeso tutti i morti "ammazzati", i nostri veri eroi. La sua grande conoscenza dell'argomento l'ha portata ad una conclusione ignorante. Non si diventa simboli dell'antimafia sparando a zero o facendo di tutta l'erba un fascio, ma solo arrivando al cuore del problema, lottando e appoggiando la gente onesta e desiderosa di cambiamento, quella stessa gente che Lei ha offeso. La invito a scusarsi per alcune parole da Lei pronunciate e, mi auguro, interpretate in modo errato. Ma soprattutto La invito a venire qui da noi, ospite dei Calabresi onesti, per dimostrarLe che la nostra terra è più bella che maledetta, ma soprattutto ricca di speranza.

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima.

Fino a poco tempo fa nessuno aveva mai parlato di inchini. Poi i giornali, in riferimento alla Concordia, hanno parlato di "Inchini tollerati". Lo sono stati fino a qualche ora prima della tragedia sulla Costa Concordia che ha provocato morti e feriti incagliandosi sulla scogliera davanti al porto dell'Isola del Giglio. Repubblica.it lo ha documentato: nei registri delle capitanerie di porto che dovrebbero controllare il traffico marittimo, emerge che la "Costa Concordia" - così come tutte le altre navi in zona e in navigazione nel Mediterraneo e nei mari di tutto il mondo - era "seguita" da Ais, un sistema internazionale di controllo della navigazione marittima che è stato attivato da alcuni anni e reso obbligatorio da accordi internazionali dopo gli attentati dell'11 settembre (in funzione anti-terrorismo) e dopo tante tragedie del mare avvenute in tutto il mondo. Si è scoperto così che quel passaggio così vicino all'isola del Giglio era un omaggio all'ex comandante della Costa Concordia Mario Palombo ed al maitre della nave che è dell'isola del Giglio. Si è scoperto anche che per ben 52 volte all'anno quella nave aveva fatto gli "inchini". Inchini che fino al giorno prima, fino a prova contraria, erano stati tollerati: nessuno fino ad allora aveva mai chiesto conto e ragione ai comandanti di quelle navi. Nessuno aveva cercato di capire perché passassero così vicini alla costa dove per legge è anche vietato (se una piccola imbarcazione sosta a meno di 500 metri dalle coste, se beccata dalle forze dell'ordine, viene multata perché vietato). Figuriamoci se a un bestione come la Costa Concordia è consentito "passeggiare" in mezzo al mare a 150-200 metri dalla costa. Il comandante Schettino, come confermano le indagini e le conversazioni radio con la capitaneria di porto di Livorno, ha fatto errori su errori, ma nessuno prima gli ha vietato di avvicinarsi troppo all'isola del Giglio. Quando si è incagliata era troppo tardi.

Da un inchino ad un altro. Dopo il 2 luglio 2014 l’anima italica, ipocrita antimafiosa, emerge dalle testate di tutti i giornali. I moralisti delle virtù altrui, per coprire meglio le magagne governative attinenti riforme gattopardesche. Si sa che parlar dei mondiali non attecchisce più per la male uscita dei pedanti italici. Pedanti come ostentori di piedi pallonari e non di sapienza. Lo dice uno che sul tema ha scritto un libro: “Mafiopoli. L’Italia delle mafie”.

Una protesta plateale. Se la Madonna fa l’inchino ai boss, i carabinieri se ne vanno. Se i fedeli e le autorità, civili e religiose, si fermano in segno di “rispetto”, davanti alla casa del mafioso, le forze dell’ordine si allontanano, in segno di protesta. E ne diventano eroi. Tanto in Italia basta poco per esserlo. È successo il 2 luglio 2014, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: durante trenta secondi di sosta per simboleggiare, secondo tutti i giornali, l’inchino al boss Giuseppe Mazzagatti, i militari che scortavano la processione religiosa si sono allontanati. Tutti ne parlano. Tutti si indignano. Tutti si scandalizzano. Eppure l’inchino nelle processioni è una tradizione centenaria in tantissime località del sud. Certo è che se partiamo con la convinzione nordista mediatica che il sud è terra mafiosa, allora non ci libereremo mai dei luoghi comuni degli ignoranti, che guardano la pagliuzza negli occhi altrui. Gli inchini delle processioni si fanno a chi merita rispetto: pubbliche istituzioni e privati cittadini. E’ un fatto peculiare locale. E non bisogna additare come mafiosi intere comunità (e dico intere comunità), se osannano i singoli individui e non lo Stato. Specie dove lo Stato non esiste. E se ha parvenza di stanziamento, esso dà un cattivo esempio. A volte i giudizi dei tribunali non combaciano con quelle delle comunità, specie se il reato è per definizione nocumento di un interesse pubblico. Che facciamo? Fuciliamo tutti coloro che partecipano alle processioni, che osannano chi a noi non è gradito? A noi pantofolai sdraiati a centinaia di km da quei posti? Siamo diventati, quindi, giudici e carnefici? Eliminiamo una tradizione centenaria per non palesare il fallimento dello Stato?

Dare credibilità agli amministratori locali? Sia mai da parte dei giornali. Il sindaco di Oppido Mamertina, Domenico Giannetta, ha rilasciato un lungo comunicato per spiegare l'accaduto «Noi siamo una giovane amministrazione che si è insediata da 40 giorni e non abbiamo nessuna riverenza verso un boss. Se i fatti e le motivazioni di quella fermata sono quelli ricostruiti finora noi siamo i primi a condannare e a prendere le distanze», spiega Domenico Giannetta, sindaco di Oppido Mamertina. «A quanto appreso finora - spiega ancora il sindaco - la ritualità di girare la madonna verso quella parte di paese risale a più di 30 anni, ma questa - chiarisce Giannetta - non deve essere una giustificazione. Se la motivazione è, invece, quella emersa condanniamo fermamente. Noi - sottolinea - siamo un’amministrazione che vuole perseguire la legalità. Ci sentiamo  come Amministrazione Comunale indignati e colpiti nel nostro profilo personale  e istituzionale. Era presente al corteo religioso tutta la Giunta Comunale, il Presidente del Consiglio Comunale, il Comandante della Polizia Municipale e il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Oppido. Giunti all'incrocio tra via Ugo Foscolo e Corso Aspromonte, nel seguire il Corteo religioso tutti i predetti camminando a piedi svoltavamo a sinistra, circa 30 metri dietro di noi vi erano i presbiteri e ancora dietro la vara di Maria SS. Delle Grazie. Mentre tutti procedevamo a passo d'uomo la vara si fermava all'intersezione predetta e veniva girata in direzione opposta al senso di marcia del Corteo, come da tradizione. Peraltro, nell'attimo in cui i portatori della vara hanno espletato tale rotazione, improvvisamente il Comandante della Stazione locale dei Carabinieri che si trovava alla destra del Sindaco si è distaccato dal Corteo, motivando che quella gestualità era riferibile ad un segno di riverenza verso la casa di Mazzagatti. Sentiamo dunque con sobrietà di condannare il gesto se l'obiettivo era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone che trasportano in processione l'effigie, venga dissacrata l'onnipotenza divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro nell'immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di buon senso e non abbiamo abbandonato il Corteo per non creare disagi a tutta la popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi paesi ed evitare il disordine pubblico».

Se non vanno bene, possiamo cambiare le regole. Bene ha fatto a centinaia di km in quel di Salerno il clero locale. Meno applausi e più preghiere, affinchè la processione di San Matteo ritorni ad essere «un corteo orante» e non un teatro o un momento «di interessi privatistici», scrive “La città di Salerno”. L’arcivescovo Luigi Moretti annuncia così le nuove “regole” che, in linea con la Cei, caratterizzeranno la tradizionale celebrazione dedicata al Santo Patrono, invitando tutti - fedeli, portatori, istituzioni - a recuperare il senso spirituale della manifestazione. Non sono previste fermate dinanzi alla caserma della Guardia di Finanza,  nè dinanzi al Comune. Aboliti gli “inchini” delle statue che per nessuna ragione dovranno fermarsi sulla soglia di bar e ristoranti, visto che «sono i fedeli che si inchinano ai Santi e non il contrario». Nessuna “ruota” delle statue, fatta eccezione per tre momenti di sosta all’altezza di corso Vittorio Emanuele, corso Garibaldi e largo Campo. I militari che sfileranno dovranno essere rigorosamente non armati e le bande saranno ridotte ad un unica formazione. Le stesse statue saranno compattate «in un blocco unico per evitare dispersioni». Nei giorni che precedono la processione saranno organizzate iniziative nelle parrocchie della zona orientale, «che prima erano tagliate fuori dalla celebrazione». Il corteo sarà aperto da croci e candelabri, poi le associazioni, con l’apertura anche a quelle laiche, altra novità di quest’anno. A seguire la banda, le statue, il clero «su doppia fila», l’arcivescovo che precederà San Matteo e dietro i Finanzieri, il Gonfalone del Comune e le autorità con il popolo. Durante la sfilata «si pregherà e verranno letti dei brani del Vangelo». No ai buffet allestiti per ingraziarsi il politico di turno con brindisi e pizzette. «Quelle, se i fedeli vorranno, potranno recapitarle a casa dei portatori», ha ironizzato Moretti. «Ben venga chi vuole offrire un bicchiere d’acqua a chi è impegnato nel trasporto delle statue, ma il resto no, perchè c’è un momento per fare festa ed uno per pregare».

In conclusione sembra palese una cosa. Gli inchini nelle processioni non sono l’apologia della mafia, ma spesso sono atti senza analisi mediatica dietrologica. Molte volte ci sono per ingraziarsi, da parte dei potenti, fortune immeritate. Sovente sono un segno di protesta contro uno Stato opprimente che ha vergognosamente fallito.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima. Si inchina a tutti, per poi, un momento dopo, tradirlo. D'altronde ognuno di noi non si inchina a Dio ed ai Santi esclusivamente per richieste di tornaconto personale? Salute o soldi o carriera?

Ricordatevi che lo sport italico è solo glorificare gli appalti truccati ed i concorsi pubblici falsati. Eppure la demagogia e l'ipocrisia non si spegne.

La Madonna si inchina al covo del padrino, processione shock tra i vicoli di Ballarò. Il boss Alessandro D’Ambrogio è in carcere a Novara ma domenica, a Palermo, la sfilata del Carmine gli ha reso onore davanti al luogo simbolo di Cosa Nostra. La chiesa: “Ancora una sosta anomala”, scrivono Salvo Palazzolo e Giorgio Ruta su “La Repubblica”. L’ultimo padrino di Cosa Nostra è rinchiuso nella sezione “41 bis” del carcere di Novara, ma è come se fosse ancora tra i vicoli di Ballarò, qui dove due anni fa portava orgoglioso la vara della madonna del Carmine. Domenica scorsa il boss Alessandro D’Ambrogio non c’era. Ma la processione ha voluto comunque rendergli onore: si è fermata proprio davanti all’agenzia di pompe funebri della sua famiglia. Un uomo di mezza età, con la casacca della confraternita di Maria Santissima del Monte Carmelo, urla: «Fermatevi». E così la processione della madonna del Carmine si ferma, mentre la banda continua a suonare. La vara tutta dorata di Maria immacolata si ferma davanti all’agenzia di pompe funebri della famiglia del capomafia Alessandro D’Ambrogio, uno dei nuovi capi carismatici di Cosa nostra palermitana. Lui non c’è, rinchiuso dall’altra parte dell’Italia, nella sezione “41 bis” del carcere di Novara, ma è come se fosse ancora qui, tra i vicoli di Ballarò. Questo accadeva domenica, intorno alle 19: la processione ferma per quasi cinque minuti davanti all’agenzia di via Ponticello, tra la gente in festa per l’arrivo della statua della madonna. Fino a un anno e mezzo fa, in questi uffici arrivavano solo poche persone, scendevano da auto e moto di lusso e si infilavano velocemente dentro. Nell’agenzia di pompe funebri dove la processione si è fermata Alessandro D’Ambrogio organizzava i summit con i suoi fedelissimi, ripresi dalla telecamera che i carabinieri del nucleo investigativo avevano nascosto da qualche parte. Ecco perché questo luogo è un simbolo per i mafiosi di tutta Palermo, il simbolo della riorganizzazione di Cosa nostra, nonostante la raffica di arresti e di processi. Ecco perché il capomafia di Ballarò sembra ancora qui: la processione gli rende omaggio nella sua via Ponticello, a due passi dall’atrio della facoltà di Giurisprudenza dove sono in bella mostra le foto dei giudici Falcone e Borsellino il giorno della loro laurea. È questa l’ultima cartolina di Palermo. Ancora una volta, diventa sottilissimo il confine fra mafia e antimafia. Quasi non esiste più confine fra sacro e profano. Due anni fa, D’Ambrogio portava orgoglioso la vara di questa madonna con la casacca della confraternita. Adesso è accusato di aver riorganizzato la mafia di Palermo, aver diretto estorsioni a tappeto e traffici di droga milionari. Ma la processione continua a rendergli onore. I tre fratelli del padrino sono tutti lì, davanti all’agenzia di pompe funebri, per accogliere la festa più importante dell’anno. Franco, con amici e parenti. Iano e Gaetano un po’ in disparte. I fratelli D’Ambrogio non sono mai stati indagati per mafia, ma non è per loro che si ferma la processione. Sembra una sosta infinita, la più lunga di tutto il corteo. Anzi, soste ce ne sono ben poche lungo il percorso. Per i giochi d’artificio o per le offerte di alcuni fedeli. I D’Ambrogio non fanno né fuochi d’artificio, né offerte. Chiedono ai confrati di portare sin sulla statua due bambini della famiglia. Poi, Franco D’Ambrogio saluta con un sorriso. E la processione riprende. «È stata una fermata anomala», ammette fra’ Vincenzo, rettore della chiesa del Carmine Maggiore. «Anche quest’anno è accaduto», sussurra il giorno dopo la processione. «Io ero avanti, su via Maqueda, stavo recitando il santo rosario. A un certo punto mi sono ritrovato solo. Ho capito, sono tornato indietro di corsa, e ho visto la statua della madonna ferma. Qualcuno stava passando un bambino ai confrati, per fargli baciare la Vergine. Cosa dovevo fare? Era pur sempre un atto di devozione quello. Qualche attimo dopo, la campanella è suonata e la processione è andata avanti». Adesso, frate Vincenzo cerca con dolore le parole: «Avevo cercato di esprimere concetti chiari durante la preparazione del triduo della Madonna, richiamando tutti al senso di questa processione così importante. Ho detto certe cose nel modo più gentile possibile, per evitare reazioni, ma le ho dette. Ed è accaduto ancora. Cosa bisogna fare?». Il frate va verso l’altare. «Cosa bisogna fare?», ripete. Da quando l’anziano sacerdote si è ammalato lui è solo nella frontiera di Ballarò, che continua ad essere il regno dei D’Ambrogio, nonostante i blitz disposti dalla procura antimafia. «Da qualche tempo, la Curia si sta muovendo in modo deciso — il tono della voce di fra’ Vincenzo diventa più sollevato — sono stati chiesti gli elenchi dei componenti delle confraternite, e poi il cardinale ha inviato suoi rappresentanti alle processioni ». Anche domenica pomeriggio, a Ballarò, c’era un ispettore inviato dal cardinale Paolo Romeo. Perché Cosa nostra continua ad essere molto legata ad alcune processioni. Uno degli ultimi boss arrestati, Stefano Comandè, era addirittura l’autorevole superiore della Confraternita delle Anime Sante, che organizza una delle più importanti processioni del Venerdì Santo a Palermo. I carabinieri l’hanno fermato alla vigilia di Pasqua, poche ore dopo aver portato in giro per il quartiere della Zisa le statue di Cristo morto e di Maria Addolorata: le microspie hanno svelato che Comandè era fra i registi di una faida che stava per scoppiare. La Curia l’ha rimosso e ha sciolto la confraternita. Anche perché il boss devoto non si rassegnava e dal carcere faceva sapere tramite i familiari: «A giugno faremo un’altra grande processione. E alla confraternita nomineremo una brava persona». Ma questa volta l’intervento della Chiesa è stato severissimo: «Scioglimento della confraternita a tempo indeterminato per infiltrazioni mafiose». È la prima volta che accade in Sicilia.

Gli “inchini” della Chiesa ai boss? Cosa volete, sono le superstizioni dei poveri meridionali sottosviluppati. Su Repubblica il commento di Augias al video della processione palermitana con presunto omaggio mafioso diventa un affondo devastante sulla fede del Sud Italia, scrive “Tempi”. Nella rubrica delle lettere di Repubblica tale Plinio Garbujo chiede oggi a Corrado Augias un commento sul caso – sollevato un paio di giorni fa dalla stessa Repubblica – del «video shock» in cui si vede una scena che il lettore, sulla base della ricostruzione offerta dal quotidiano, sintetizzata così: «Durante la processione della Madonna del Carmine, la statua con il baldacchino si è fermata davanti all’agenzia funebre del boss D’Ambrogio, luogo simbolo di Cosa Nostra, per rendergli onore, mentre lui è in carcere a Novara». «Sembrerebbero notizie del lontano Medio Evo, anche se il fatto è accaduto domenica scorsa», osserva Garbujo, scandalizzato perfino dal fatto che «i genitori che partecipano a tale processione si affrettano a far salire i loro bambini sul baldacchino (…) per poter baciare la Madonna». Insomma, rimprovera il lettore di Repubblica, «siamo nel 2014 dopo Cristo. Di quanto tempo ha ancora bisogno il Sud per potersi liberare di queste tradizioni e di queste manifestazioni in cui chi comanda non è la parrocchia – e a quanto pare nemmeno il Papa – ma il boss locale?». Bene. A parte l’avventatezza del giudizio di Garbujo (è ancora tutta da verificare la tesi secondo la quale la tappa della processione filmata da Repubblica fosse in effetti un “inchino al boss”), quello che stupisce davvero – si fa per dire – è la risposta di Augias, il quale anziché restituire il giusto spazio al dubbio sulla vicenda, come ci si aspetterebbe da un intellettuale laico quale egli dice di essere, decide di approfittarne per buttare là valutazioni anche più spinte. «Gli abitanti di quelle città riusciranno mai a rendersi conto che siamo cittadini d’Europa dove si rispettano le regole, si pagano le tasse, si protegge il territorio e non ci si nasconde dietro all’omertà e al servilismo interessato per qualche favore clientelare?», domanda indignato il lettore in coda alla missiva. «Non lo so», replica Augias. «Temo che non lo sappia nessuno, del resto». Però c’è una cosa cha Augias ritiene di sapere con sorprendente certezza: «Avergli reso omaggio (al boss mafioso, ndr) facendo sostare la statua della Madonna davanti alla sua agenzia di pompe funebri è un insulto sia religioso sia civile» che «contraddice lo stesso indirizzo che la Chiesa cattolica si è data di recente grazie al papa Francesco». Ma l’intellettuale non si ferma all’aspetto “legale” della vicenda. Come gli capita spesso si sente in dovere di giudicare anche l’aspetto religioso della faccenda. In questo modo: «Le processioni – scrive – sono retaggio di una religiosità tipicamente mediterranea», infatti, all’epoca, quando «i nostri emigranti meridionali» tentarono di riprodurle in America secondo Augias «suscitarono la riprovazione degli irlandesi, cattolici anche loro ma di una fede meno idolatrica». Con la diffusione del cristianesimo, insiste il commentatore di Repubblica, «il culto dei santi e della Madonna sostituì i cortei dedicati alle varie divinità o a momenti dell’anno agricolo o al culto della fecondità con la famose “falloforie”. Si tratta di manifestazioni sconosciute all’ebraismo, alle confessioni protestanti e allo stesso cattolicesimo nordeuropeo. Sopravvivono nel Mezzogiorno dove una blanda fede si mescola ad antiche superstizioni, sfiducia, speranza, complicità, un semiconsapevole bisogno di assistenza celeste». La rubrica è finita, andate in pace. Anzi no: «Gli inchini ai capi criminali sono solo l’appendice di tutto questo. Non sarà facile venirne a capo». Amen.

“Inchino” a Palermo, parla il priore: «Escludo che ci siano stati omaggi alla mafia. Sono strumentalizzazioni per chiuderci dentro le chiese», scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Intervista a padre Leta, superiore dei carmelitani organizzatori della processione a Ballarò finita nel “video shock” di Repubblica: «Il diavolo si annida tra i mafiosi. Ma anche tra i giornalisti che inseguono lo scoop ad ogni costo». «Sono certo che il diavolo si annida dentro i mafiosi. Ma a volte anche tra i giornalisti che inseguono lo scoop ad ogni costo». Padre Pietro Leta è il priore dei frati carmelitani del Carmine maggiore di Palermo, gli organizzatori della processione della “vara” della Madonna che domenica 27 luglio ha attraversato il quartiere di Ballarò, intorno alla quale si sono scatenate violente polemiche mediatiche a causa di un video di Repubblica che documenterebbe il presunto omaggio della Vergine al boss Alessandro D’Ambrogio, provato – secondo il quotidiano – dalla fermata del corteo per il cosiddetto “inchino” davanti all’agenzia funebre di proprietà del mafioso.

«Escludiamo categoricamente che a Ballarò ci sia stato alcun omaggio, inchino o gesto di compiacenza alla mafia» scandisce invece padre Leta a tempi.it.

Padre, cos’è successo allora domenica scorsa? Nel mirino dei media è finita la confraternita di Maria Santissima del Monte Carmelo, che nel momento della fermata portava la statua della Madonna. Ma voi avete svolto indagini per vostro conto.

«Occorre inquadrare la festa nel suo insieme innanzitutto. La statua della Madonna è molto grande, la cosiddetta “vara”, su cui è poggiata la statua, ha una base mastodontica, tanto che dev’essere spinta da numerosi confrati, i quali si devono dare addirittura dei turni. Nel percorso la processione incontra sempre alcuni ostacoli, e deve tener conto di alcune tradizioni. Gli ostacoli sono ad esempio i cavi elettrici lungo le strade, che possono essere pericolosi, perciò la statua, e di conseguenza la processione, è costretta spesso a fermarsi per consentire un passaggio non rischioso. Una delle tradizioni di cui tenere conto, invece, è quella che vuole che durante la processione i genitori, come gesto di “dono” e domanda di benedizione alla Madonna, chiedono alla vara di fermarsi e porgono i loro bambini ai confrati perché li avvicinino alla statua. A questi due fatti, se ne aggiunge un terzo: attorno alla vara, oltre ai membri della confraternita che indossano un abito ufficiale, si affiancano diversi uomini che non hanno nulla a che fare con i confrati e che indossano uno scapolare fatto in casa, usato da diverse generazioni e passato di padre in figlio. Domenica, durante il percorso ufficiale della processione, sono state fatte almeno una quarantina di fermate della statua e del corteo, alcune per evitare il pericolo dei cavi elettrici, altre per potere avvicinare alla statua alcuni neonati».

Nell’occhio del ciclone è finita però una particolare fermata. Perché proprio lì?

«La fermata vicino all’agenzia di D’Ambrogio in realtà non ha nulla – ripeto: nulla – a che vedere con l’inchino ai boss. Abbiamo approfondito e posso assicurare che la fermata c’è stata per i pochi minuti necessari a consentire a una giovane coppia di avvicinare il proprio bambino alla statua. Una cosa naturale, tanto è vero che poco dopo la statua è ripartita e si è fermata nuovamente a pochi metri di distanza, perché una signora africana che aveva assistito alla scena precedente ci ha chiesto a sua volta di poter issare la sua neonata vicino alla statua. Dunque tutto quello che si è ipotizzato sui giornali è autentica strumentalizzazione. Il cronista di Repubblica ha “zoomato” la sua attenzione e il suo video esclusivamente sulla fermata davanti all’agenzia, tagliando tutti gli elementi che avrebbero fatto capire cosa aveva portato a farla. La strumentalizzazione è consistita nel collegare quella fermata a un fatto che risale a due anni fa: all’epoca un mafioso aveva preso parte al gruppo dei portatori. Poi il mafioso è stato arrestato. Ma attenzione: noi escludiamo categoricamente che quel boss facesse parte della confraternita del Monte Carmelo. Lo escludo nel modo più assoluto».

Perché secondo lei c’è stata questa strumentalizzazione?

«La strumentalizzazione del giornalista Palazzolo si è giocata nel collegamento tra la fermata e il vocabolo “inchino”, che è rimasto cristallizzato nella mente dell’opinione pubblica a causa della processione di Oppido Mamertina e per le parole di giusta condanna del Papa nei confronti dei mafiosi. Solo che qui a Ballarò invece non c’è stato alcun inchino, né nessun altro gesto di compiacenza verso la mafia. Lei mi insegna che il cronista vuole fare lo scoop, ed è questo quello che persegue. Palazzolo ci è riuscito creando questo collegamento, e in effetti tutti i lettori sono stati portati a pensare che “ancora una volta succede quello che è accaduto in Calabria”. Questo non è giornalismo, bensì spregiudicatezza nell’uso dell’opinione pubblica. Il diavolo certo si annida tra i mafiosi, ma anche tra i giornalisti che vogliono fare scoop. La chiave di quello che è accaduto è che un cronista ha ottenuto quello che voleva. La sua notizia si è guadagnata la prima pagina e poi è stata ripresa dai principali media, cavalcando l’onda dell’indignazione provocata dai fatti calabresi (che tra l’altro personalmente condivido) attraverso tre parole evocative: inchino, processione e Madonna. Ma nel modo più categorico io dico: la Madonna non si inchina ai mafiosi, sono i mafiosi al contrario che si devono piegare e inginocchiare davanti a Lei. Le anticipo inoltre una notizia: la confraternita ha presentato un esposto al procuratore della Repubblica contro il giornalista per diffamazione».

Sempre su Repubblica Corrado Augias ha scritto che le processioni sopravvivono ormai solo nel Mezzogiorno «dove una blanda fede si mescola ad antiche superstizioni». Lei che ne dice?

«Augias fa il suo lavoro, e pure lui come il collega unisce le parole processione e superstizione. In realtà dal Concilio Vaticano II c’è stato nella Chiesa un lungo cammino di purificazione della tradizione popolare nelle celebrazioni religiose. È chiaro che c’è un retaggio antico nelle tradizioni, ma la richiesta di fede si esprime anche attraverso le tradizioni. Bisogna chiedersi quali grandi ruoli hanno esercitato le confraternite religiose, non solo al Sud, ma anche al Nord. Le “Misericordie”, ad esempio, che hanno svolto a partire dalla Toscana un lavoro di assistenza e carità».

Nelle feste religiose a cui partecipano migliaia di persone diventa difficile separare i mafiosi dal resto dei fedeli. Cosa è possibile fare allora secondo lei?

«Non si può separare i “buoni” dai “cattivi”, né possiamo esigere per ogni bambino che viene presentato alla Madonna i nomi del padre e della madre, o la loro fedina penale. È chiaro che una persona conosciuta da tutti come mafiosa la allontaniamo. Ma è anche vero che Gesù ha chiesto la conversione del peccatore e ha inveito contro il peccato: nella parabola della zizzania ha detto di lasciare crescere il grano con la zizzania, perché c’è il rischio che togliendo la zizzania si distrugga anche il grano buono. Questo significa che anche al mafioso, come a ogni peccatore, è data la possibilità di convertirsi: noi possiamo solo continuare a lavorare per isolare la mafia».

Ma papa Francesco ha scomunicato i mafiosi. 

«E chi non è d’accordo con il Papa su questo? Noi lo siamo pienamente. In Sicilia, tanto più a Palermo, viviamo queste cose sulla pelle. Noi vogliamo testimoniare la nostra fede insieme a padre Pino Puglisi che è stato martire della mafia».

Secondo lei andrebbero eliminate queste processioni a rischio “infiltrazione”?

«Va chiarita una cosa. Non si arriva a una processione come quella del 27 luglio da un giorno all’altro, ma dopo un cammino di un anno. La confraternita è seguita nel suo cammino di formazione spirituale con incontri mensili, il programma della festa viene predisposto da confraternita e religiosi molti mesi prima, sin da marzo, e tutta la comunità, religiosi e laici, si prepara alla processione con un itinerario spirituale ben articolato. A chi partecipa alla processione “dall’esterno”, infine, possiamo solo dare una testimonianza della nostra fede, pregando e cantando. Ci sono alcuni gesti poi che non si possono sradicare: non si può fare una processione dentro la chiesa, ma nel territorio. E non vogliamo smettere di farla lì, perché il territorio è uno spazio importante, mentre i falsi benpensanti, con le polemiche di questi giorni, mirano proprio a tagliare il nostro legame con il territorio, chiudendo la fede dentro le chiese. Non a caso con queste polemiche chiedono indirettamente anche di eliminare le confraternite, che sono segno invece di una lunga tradizione di rapporto tra la Chiesa e la comunità locale. Le confraternite vanno continuamente educate alla fede, questo sì. Ma eliminate no».

In tutta questa ipocrisia stona la retorica del sud assistito.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

Lo scandalo del giorno, un inchino inventato, scrive Giovanni Alvaro. Eccoli di nuovo all’attacco. Schierati come un sol uomo, sorretti da un unico obiettivo, determinati, senza alcuna soluzione di continuità e pronti a massacrare senza possibilità di appello. Dalle Alpi alle Piramidi si ode, quindi, un solo grido: giustiziamo sulla pubblica piazza il sacerdote della chiesa di Oppido Mamertina, responsabile della processione e del cerimoniale che ne consegue. Uniti in una santa alleanza si ritrovano, quindi, mass media nazionali, scritti e parlati (salvo qualche eccezione), a cui non sembra vero poter denigrare un pezzo di Calabria, una sua provincia e la stessa intera regione presentati come perduti nelle spire ‘ndranghitiste; professionisti dell’antimafia pronti a cavalcare il conseguente giustizialismo che è la loro stessa ragion d’essere, ma che stanno con l’occhio attento ai propri interessi economici e politici. Oltre a pubblici ministeri votati a missioni salvifiche, interessati a non perdere la centralità mediatica conquistata (trampolino di lancio per futuri incarichi). E poi, con loro, alleati occasionali: gli stessi carabinieri che si accorgono dopo trent’anni di ipotetici inchini. Dulcis in fundo, politici di mezza tacca pronti a dire la propria. Nessuno di costoro si è chiesto se fosse vero o meno quanto rimbalzato sulle agenzie di stampa. Anzi, per la verità, molti di costoro non si son posti alcuna domanda, dato che per loro è essenziale essere presenti al debutto di un avvenimento, infischiandosene di come potrebbe andare a finire. E allora, avanti con la mazurka. Alfano: “Deplorevoli e ributtanti rituali cerimoniosi”; Rosy Bindi: “Quanto è avvenuto nel corso della processione sconcerta”; Enzo Ciconte: “Il gesto dell’inchino è stato un atto di sfida, di forza e tracotanza”; Cafiero de Raho: “Fermare un corteo religioso per ossequiare il vertice della cosca locale è sovvertire le regole sociali, religiose e di legalità”; Nicola Gratteri: “Ora la ‘ndrangheta ha sfidato ufficialmente il Papa”. È solo un assaggio delle dichiarazioni demenziali sentite in questi giorni. Demenziali perché costruite su un falso, un vero e proprio falso, se è vero come è vero che la processione a Oppido prevede, da molti decenni, cinque fermate a incroci prestabiliti per far girare l’immagine della Madonna verso quella parte di paese dove non è previsto il passaggio della processione stessa. Vuole il caso che in una di queste traverse (non dinanzi all’abitazione dove da dieci anni il mafioso sconta per motivi di salute, gli arresti domiciliari, ma nella traversa incrociata) abiti l’82enne ergastolano. inchino al boss, in vergognosa sottomissione al malavitoso? Chi ha spinto per montare il casus belli che ha riacceso la polemica della procura reggina contro la Chiesa? Chi ha tirato le fila riattizzando il razzismo ormai non più latente, del Nord nei confronti del Mezzogiorno? Dalle risposte a queste domande si potrà capire quanto strumentale possa essere l’antimafia da convegno e come essa venga usata per fini diversi dalla lotta al crimine. “Non riescono a battere la mafia e se la prendono con la Chiesa” ha dichiarato l’Arcivescovo di Reggio in un’intervista a “Il Garantista” di Piero Sansonetti e ha continuato: “Chissà se un giorno si decideranno ad affrontare le cause vere del fenomeno ‘ndranghetista”. Di sicuro il non riuscire a battere la mafia nasce anche dalle “distrazioni” che i ruoli dell’antimafia offrono per sentirsi pienamente appagati. E la grancassa continua con l'applauso della ‘ndrangheta.

Guai però a schierarti contro il conformismo.

Cafiero De Raho contro i giornalisti del Garantista. Il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Cafiero De Raho: «esistono giornalisti coraggiosi i quali denunciano episodi del genere, e altri che invece coprono la verità e che bisogna decidere da che parte stare.»

Così muore la democrazia. «Cafiero de Raho (procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, ndr) è convinto di essere alla testa di un esercito di magistrati, politici, giornalisti, preti, professionisti e popolo, il cui compito è la lotta militare e poliziesca all’illegalità e alle cosche. Non è così. I magistrati devono indagare, i poliziotti arrestare, i preti predicare, i politici riformare la società, i giornalisti raccontare e anche esprimere pareri. Il giorno in cui i giornalisti dovessero diventare – e in gran parte, purtroppo, già lo sono diventati – soldati della Procura, in Italia sarebbe finita la democrazia. Forse la lotta alla mafia avrebbe dei buoni risultati – li ebbe anche durante il fascismo – ma noi perderemmo la libertà. Mi dispiace, signor procuratore, ma il prezzo è troppo alto. Preferiamo non arruolarci». Piero Sansonetti, Il Garantista, 17 luglio 2014.

«Caro procuratore  De Raho, ho letto la sua dichiarazione. Faccio uno sforzo per capire le sue ragioni ma voglio anche porle alcuni problemi che lei non può ignorare. So qual è la sua bussola e il suo obiettivo: fare delle indagini, farle bene, ottenere dei risultati. Giusto. Però non è questa l’unica garanzia del funzionamento di una società moderna e democratica. Talvolta gli interessi degli inquirenti possono entrare in conflitto con altre spinte che sono essenziali a garantire un regime di libertà. Per esempio i diritti degli imputati, o delle persone sospette, o i diritti dei testimoni, oppure – questo oggi mi interessa, soprattutto – i diritti dell’informazione e della stampa. Quando il buon funzionamento dell’attività giudiziaria confligge con il diritto all’informazione, come si stabilisce il confine da non oltrepassare? E’ un buon tema di discussione, mi sembra, e mi piacerebbe affrontarlo con lei  e con altri settori della magistratura. Non è stata mai fatta questa discussione, nel nostro Paese, perché la lotta senza quartiere tra magistratura, giornalismo e politica si è svolta solo sulla base delle convenienze di gruppi, lobby, partiti, schieramenti, e mai sui grandi principi e sulle idealità. Voglio essere ancora più chiaro, rivolgendole questa domanda: secondo lei, le esigenze degli inquirenti possono “sospendere” quel comma dell’articolo 21 della Costituzione che dice: “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”? Caro Procuratore, secondo me voi, con i sequestri e le perquisizioni compiuti l’altra sera nella nostra redazione di Reggio, e con l’avviso di garanzia consegnato al nostro cronista giudiziario Consolato Minniti, avete violato quel comma della Costituzione. Sono convinto del fatto che non volevate compiere una azione di intimidazione. E tuttavia, caro Procuratore, oggettivamente l’intimidazione c’è stata, noi l’abbiamo vissuta come tale e per noi, da oggi, sarà più difficile lavorare a Reggio. E’ un problema o no? E’ un vantaggio o no per la città? E anche per la magistratura reggina, questa “dimostrazione di potere”, questa prova di forza, giova? O invece danneggia la vostra immagine? Caro Procuratore, a me sembra enorme ipotizzare che la pubblicazione di notizie relative all’azione della DNA possa essere un atto di aiuto alla mafia. Ma scusi, come dobbiamo intendere la lotta alla mafia, come un atto militare, nel quale anche i giornalisti – sul modello della guerra in Iraq – devono essere embedded? Non credo che sia la sua opinione, ammetterà però che l’attacco dell’altra sera al nostro giornale abbia dato questa impressione. Lei dice: «Ma era un obbligo quell’azione, perché c’era stato il reato». Sarà anche vero, ma io so che lo stesso reato è stato commesso negli ultimi anni centinaia di volte da altri giornali. Perché non si è mai intervenuti? Ci sono quotidiani che, se non violassero il segreto istruttorio, sarebbero costretti ad uscire massimo un giorno alla settimana! Lei questo lo sa. E allora: siamo uguali tutti, davanti alla legge, o forse no? E lei capirà benissimo come il dubbio che il segreto si possa violare se si è testata molto amica dei giudici, e invece non si possa violare se – come nel nostro caso – si è spesso critici verso la magistratura, sia un sospetto del tutto legittimo.
Mi piacerebbe poterla incontrare, per spiegarle meglio queste mie idee. Se vorrà, sono a disposizione. Per il resto, le assicuro, il nostro giornale continuerà a fare il suo lavoro con tenacia, a criticare i giudici e i politici quando gli sembrerà giusto, a combattere la mafia, ad essere totalmente indipendente e un po’ corsaro. E forse, anche, qualche volta, a violare di nuovo il segreto d’ufficio…
Con Stima. Piero Sansonetti».

Ed ancora......Gratteri contro i giornalisti del Garantista: «Bisogna stanarli, vi fanno ammazzare». Ma questo giornale non cambia linea, scrive Piero Sansonetti. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria – che è stato anche candidato a fare il ministro della Giustizia – l’altro giorno, partecipando a una pubblica manifestazione, ha lanciato un attacco furibondo contro i giornali calabresi che criticano la magistratura. Gratteri non ha fatto nomi, però noi siamo sicuri che ce l’avesse con “Il Garantista”, perché non esistono in Calabria molti giornali critici con la magistratura, e non ne esiste nessuno – tranne “Il Garantista”- critico con Gratteri. (La certezza che ce l’avesse con noi è venuta dopo una telefonata con lo stesso Gratteri che vi raccontiamo tra qualche riga). La frase pronunciata da Gratteri è agghiacciante, perché, nella sostanza, accusa i giornalisti critici verso la magistratura di essere assassini, o almeno istigatori all’assassinio. Per questo chiediamo l’intervento delle autorità, in particolare del ministero della Giustizia (oltre che della federazione della stampa  e della stessa Procura di Reggio) a difesa dei giornalisti calabresi critici verso la magistratura e in particolare a difesa del nostro giornale. Ci domandiamo se si ritiene normale, in un regime di democrazia, che un procuratore aggiunto si scagli contro giornalisti e giornali e li accusi di istigazione all’omicidio, e se questo non possa essere considerato un atto illegale di attacco alla libertà di stampa e ai diritti costituzionali, oltreché una offesa e una diffamazione. Per essere più chiari, vi trascrivo qui il testo delle dichiarazioni rilasciate da Gratteri e poi vi riferisco della telefonata che ho avuto con lui ieri pomeriggio. Ha detto Gratteri, rivolto ai vertici della federazione della stampa: «Bisogna stanare certo giornalismo calabrese che sguazza negli interstizi che lasciate. Dovete essere severi, feroci. In Calabria vi sono giornali e giornalisti che, per partito preso, per motivi ideologici, sono sempre contro qualcuno, scrivono cose non vere, fanno disinformazione». Poi Gratteri si è riferito a coloro che attaccano la magistratura e ha detto: «Non li denuncio perché darei loro pubblicità. Ma il punto di partenza per tutelare i giornalisti come Albanese è stanare chi non ha a che fare col giornalismo. Vi sovrespongono, vi fanno ammazzare». Vi confesso che quando ho letto queste frasi ho pensato a un equivoco. E ho fatto la cosa più semplice, per verificare: ho preso il telefono e ho telefonato a Gratteri. Mi ha risposto. Quando ha sentito il mio nome è diventato gelido. Gli ho chiesto se ce l’aveva con noi. Mi ha risposto, sempre più gelido: «Stia tranquillo, io non ce l’ho con lei, io non ce l’ho con nessuno». Ho insistito, gli ho detto se allora per favore mi diceva con quali giornali ce l’aveva, visto che in Calabria non ci sono moltissimi giornali. Mi ha risposto: «Io con lei non parlo, dovrei denunciarla, querelarla, per le cose che lei ha scritto su di me. Non lo faccio per non farle pubblicità. Lei deve imparare che non si possono lanciare accuse senza avere le prove». Io gli ho fatto notare che non lo avevo mai accusato di niente, tranne che di essere poco esperto di diritto. Ma questa è una mia opinione e non bisogna avere le prove. Dopodichè, siccome era impossibile proseguire il dialogo, lo ho salutato e ho messo giù il telefono. Però la frase che mi ha detto è uguale a quella che ha pronunciato la sera prima in pubblico (dovrei denunciarla ma non le farò pubblicità…). Dunque, indirettamente – ma non tanto – Gratteri ha confermato che ce l’aveva con me e con noi del “Garantista”. E dunque anche il seguito della frase pronunciata in pubblico (fino al: «Vi fanno ammazzare!») era riferita a noi. Posso garantire ai lettori del “Garantista” che nonostante una intimidazione così pesante e smaccata da parte di una delle più alte autorità giudiziarie, il nostro giornale non cambierà linea rispetto alla magistratura. Continuerà a criticarla e anche – come sapete – a darle la parola, perché ci piace discutere e non ci piace dare dell’assassino a chi non è d’accordo con noi. Vorremmo sapere dal ministro Orlando se possiamo contare su qualche protezione da parte dello Stato democratico, o se dobbiamo pensare che questa battaglia per la democrazia ci tocca combatterla in assoluta solitudine.

Gli strali della stampa ossequiosa e conformista, nonostante, o forse proprio per l’oscuramento del loro sito web, non si sono fatto attendere. Di tutti se ne riporta uno. La posizione del direttore Luciano Regolo de “L’Ora della Calabria”. L’attacco di Sansonetti a Cafiero De Raho: opportunismo garantito? Angela Napoli: “Così si rischia di isolare i magistrati”. «Debbo confessare che non leggo e non ho mai aperto dalla sua fondazione il nuovo quotidiano di Sansonetti. Oggi, però, sollecitato dai colleghi e amici di Cosenza che stanno collaborando con me al progetto del nostro giornale, ho visto, inviatomi per e-mail, l’editoriale odierno del direttore de “Il Garantista”: un attacco duro al procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Cafiero De Raho. Che cosa avrebbe fatto il magistrato per meritarsi l’invettiva (copiosa) di Sansonetti? Ha semplicemente dichiarato, riguardo alla vicenda della processione con l’inchino al boss di Oppido Mamertina, che esistono giornalisti coraggiosi i quali denunciano episodi del genere, e altri che invece coprono la verità e che bisogna decidere da che parte stare. Tanto basta al direttore romano, andato via dalla Calabria scrivendo di esserne rimasto profondamente deluso, per poi tornare a stringervi intese editoriali dopo pochi mesi, per dedurne che Cafiero De Raho avesse voluto attaccare lui o il suo giornale. Troppo astuto lo scrivente perché si pensi a un’excusatio non petita (visto che il magistrato non nomina alcuna testata). Molto più verosimile l’ipotesi che Sansonetti cerchi di fare pubblicità al suo prodotto giocando il ruolo della voce controcorrente, l’intellettuale fuori le riga “de noantri”, come si direbbe nel suo (a)dorato e salottiero contesto capitolino. Ognuno, sia chiaro, può fare il “gioco” che vuole e soprattutto professare ogni opinione. Ma la libertà di pensiero non può esimere dal rispetto verso chi effettivamente conduce, con rischi pesanti e impegno costante, una durissima lotta contro la criminalità organizzata e le sue oscure aderenze nei poteri costituiti della Calabria. Screditare, Cafiero De Raho, ipotizzare che voglia una stampa prona a lui, come avviene in regimi dittatoriali, oltre che grottesco è a mio avviso estremamente pericoloso. Io ho visto soltanto una volta il procuratore, lo incontrai per pochi minuti nel tribunale di Reggio, quando fui ascoltato dalla Commissione Antimafia dopo l’oscuramento del sito e la sospensione delle pubblicazioni dell’Ora della Calabria. Ma ho imparato ad apprezzarne il rigore e il piglio, quando, poco dopo il mio arrivo, in un intervento sul nostro giornale a proposito del commissariamento dei Comuni sciolti per mafia spiegò che sarebbe necessario prolungarlo non soltanto durante le elezioni ma anche per un certo periodo successivo all’insediamento della nuova amministrazione perché solo così si potrebbe veramente spezzare l’influenza delle cosche. Poi ne ho ascoltato la relazione in occasione della “Gerbera Gialla” in cui illustrò in termini molto chiari in quanti e quali modi si estendano i tentacoli della ‘ndrangheta sul territorio calabrese, spesso favoriti da lobby oscure e infedeli di Stato. Non mi sembra affatto uno che fa crociate, che vuole schieramenti o che cerca ribalta mediatica, come lascia intendere Sansonetti. Il direttore de “Il Garantista” aggiunge che Cafiero De Raho sarebbe contro la Chiesa ma è un assurdo, perché le esternazioni di papa Francesco e del presidente della Conferenza episcopale calabrese (oggi riunita per parlare proprio di quello che l’Osservatore Romano dopo il caso di Oppido Mamertina ha definito “pervertimento religioso”), monsignor Salvatore Nunnari, vanno nella medesima direzione del magistrato. Bergoglio ha detto con estrema chiarezza a Scalfari che ci sono tanti sacerdoti che sottovalutano l’influenza della mafia e non si levano abbastanza e tutti lo abbiamo letto e sentito. Ma la superficialità è diffusa, a volte è ingenua, altre no. Può nascere da interessi precisi o dalla semplice vanagloria, oppure essere conseguenza della paura delle ritorsioni. Io credo che correttamente Cafiero De Raho abbia voluto semplicemente richiamare l’intera comunità calabrese, giornalisti e non, a non sottovalutare i mezzi (come le incursioni in pratiche religiose di lunga tradizione) con cui la ‘ndrangheta tende a legittimare la propria supremazia territoriale. Sottovalutare questo aspetto come ha scritto il procuratore significa sul serio favorirne l’azione, consapevolmente o meno. Io l’ho sostenuto più volte, ma non sono nella squadra dei magistrati come sostiene, non senza alterigia, Sansonetti. Né credo lo siano Pollichieni, Musolino, Inserra, tanti altri giornalisti calabresi che sono intervenuti sulla questione di Oppido Mamertina stigmatizzando quell’inaccettabile inchino. Fra questi anche il vicesegretario nazionale e segretario regionale della Federazione nazionale della Stampa, Carlo Parisi, che ha di recente, dopo i sospetti insorti anche sulla processione di San Procopio, ricordato con veemenza quanto siano assurdi gli attacchi ai colleghi che rivelano queste realtà scomode, miranti a farli passare come dei denigratori della Calabria o degli smaniosi di protagonismo. Anche il sindacato dei giornalisti, secondo Sansonetti, scrive sotto… dittatura della magistratura? Perché il direttore è convinto che solo lui sia immune da questa influenza, così com’era convinto quando lasciò l’Ora della Calabria di essere diventato immune dall’influenze delle famiglie potenti della nostra regione e lo annunciò nell’editoriale di congedo, sparando accuse contro il suo ex editore e amico conviviale, Piero Citrigno, che poi invece è andato a salutare prima di lanciare la sua nuova creatura “Il Garantista”. L’essere concentrati troppo su stessi, sulle proprie idee o sui propri business, a volte distrae da problemi molto seri in una regione come la Calabria. Mentre spiegavo alla Commissione Antimafia dei rapporti insoliti, non rientranti nelle consuete dinamiche delle aziende editoriali, tra Citrigno e De Rose, il nostro stampatore protagonista della telefonata del cinghiale, l’onorevole Dorina Bianchi mi domandò come mai il mio predecessore (Sansonetti, ndr) in tre anni di direzione non avesse ravvisato nulla d’insolito. Risposi che dovevano domandarlo a lui, perché non lo sapevo. Non so se gliel’abbiano mai domandato. Ma so che l’onorevole Bruno Bossio, grande estimatrice di Sansonetti, presentatasi all’audizione nonostante i duri attacchi che mi aveva rivolto (su Facebook e in una lettera inviatami al giornale, in cui cercava di farmi passare come uno che voleva ottenere da lei documenti giudiziari secretati), cercava per tutto il tempo di minimizzare la vicenda che riguarda noi dell’Ora, sostenendo che la sospensione delle pubblicazione fosse unicamente dovuta all’indisponibilità finanziaria dell’editore e non aveva alcuna relazione con il caso Gentile-De Rose. Questo nonostante ci fosse stato oscurato anche il sito, proprio il giorno in cui in un editoriale denunciavo la manovra di far finire la proprietà del giornale nelle mani di De Rose. Per la cronaca il legale di Bilotta, il nostro liquidatore, è quello stesso avvocato Celestino, che difese Adamo, il marito della Bruno Bossio nell’inchiesta “Why not”, e assiste anche i Citrigno: io lo conobbi nel suo studio, accompagnato lì da Alfredo Citrigno, pochi giorni dopo l’Oragate, quando lo stampatore che non aveva mai sollecitato i suoi pagamenti non riscossi, improvvisamente con una lettera che noi pubblicammo chiedeva tutto subito o avrebbe fatto fallire l’azienda. Forse la drammaticità di quanto i colleghi dell’Ora e io abbiamo vissuto e stiamo vivendo, potrebbe rendermi troppo emotivamente coinvolto. Per questo, riguardo all’attacco sferrato da Sansonetti contro De Raho, ho pensato di chiedere un parere ad Angela Napoli, ex presidente della Commissione Antimafia e tuttora impegnata in prima linea contro le influenze delle ‘ndrine. Ecco la sua valutazione: «Alcuni giorni fa evidenziavo sulla mia pagina Facebook lo stato di preoccupazione che sto vivendo alla luce sia di alcune sentenze giudiziarie sia di alcune cronache giornalistiche, a mio parere, eccessivamente garantiste e, sempre a mio parere, non utili a debellare il fenomeno mafioso ed i suoi collaterali. Oggi sono più che mai convinta che la preoccupazione ha ragione di permanere, ritenendo che sia in atto una “strategia” tendente ad isolare quei pezzi della Magistratura, delle Forze dell’Ordine, delle Istituzioni e della politica che realmente lavorano con coraggio non solo per reprimere la ‘ndrangheta ma anche per aiutare a sradicare quella sub-cultura mafiosa che per anni ha invaso alcuni cittadini calabresi. Ho parlato di “strategia” di isolamento: l’attacco al dottor Gratteri, apparso la scorsa settimana su “Il Garantista” e quello odierno al Procuratore Cafiero De Raho, sempre sullo stesso quotidiano, e che recano la firma del suo direttore responsabile, non possono che apparire, almeno ai miei occhi, ma sicuramente anche a quelli del comune lettore, proprio come tendenti a raggiungere l’obiettivo dell’isolamento. Sono convinta che tale obiettivo non verrà conseguito perché con piacere incomincio a registrare una voglia di riscatto nel cittadino calabrese. Questa voglia non potrà che portare alla rivolta nei confronti di tutti coloro che, dopo aver affossato, in supporto alla ‘ndrangheta, la nostra Calabria, oggi tentano ancora di mantenere a galla il “sistema malato” che sovrasta questa Regione. Ormai la stragrande maggioranza dei cittadini calabresi e’ in grado ed ha la volontà di saper distinguere il “bene” dal “male” e di saper anche quale “autobus” prendere per percorrere la strada della piena legalità».»

Piero Sansonetti: “l’Ora, fallimento di un’esperienza”. Lascio la direzione di questo giornale, per via di alcuni dissensi con la proprietà. Mi era stato chiesto di preparare un piano di ristrutturazione che prevedesse un fortissimo taglio del personale e io mi sono rifiutato. Ho messo a punto un piano alternativo, che consentiva risparmi molto forti senza sacrificare il personale. Il mio piano è stato approvato all’unanimità dall’assemblea ma all’editore non è piaciuto. Non lo ha considerato sufficiente. E così, dopo travagliate discussioni e tentativi di trovare vie d’uscita, l’altra sera siamo arrivati alla decisione dell’editore di respingere il mio piano, procedere al mio licenziamento e nominare un nuovo direttore. Il motivo per il quale mi sono opposto ai tagli del personale non credo di doverlo spiegare a voi. Se in questi tre anni avete letto qualche mio articolo conoscete la mia posizione si questi problemi. La lotta contro i licenziamenti, contro il dilagare del lavoro precario, contro lo sfruttamento, è stata sempre una mia idea fissa. Tra qualche riga proverò a dirlo meglio, ma già lo ho scritto spesso: considero l’assenza di “Diritto nel lavoro” il problema principale di questa regione. Penso che è lì che avvengono le sopraffazioni maggiori. E addirittura penso che l’assenza del diritto sia un male più grande ancora della ’ndrangheta e della criminalità organizzata. Me ne vado da qui, e torno a Roma, con una grande amarezza e con la convinzione di avere fallito. Sia chiaro: non do la colpa a nessuno. E’ una vecchia abitudine, quando si va a sbattere contro un muro e ci si fa male, quella di strepitare: “è colpa sua, è colpa sua”. E’ semplice: se sono andato a sbattere vuol dire che guidavo male. Volevo fare un giornale che desse una scossa vera all’intellettualità e alla classe dirigente calabrese. E che fosse un giornale davvero popolare, cioè vicino al popolo, ai suoi bisogni, capace di difenderlo senza assecondare le pulsioni populiste e qualunquiste. So benissimo di non esserci riuscito. E di avere dato poco a questa regione della quale – questo ve lo giuro – in questi anni mi sono perdutamente innamorato. Per questo sento l’angoscia di essere cacciato dalla Calabria. Quando si prende atto di un fallimento – netto, chiaro, indiscutibile, come è stato il mio – bisognerebbe avere la lucidità per capirne le cause, e dirle. Purtroppo non ho questa lucidità, o ancora non la ho. So di avere accettato troppi compromessi, perché pensavo di essere così forte e bravo da potere guidare io i compromessi, e di poterli utilizzare, e di sapere ricondurre tutto al mio disegno. Che sciocchezza! Non ci sono riuscito mai. E quando ho deciso di non fare più compromessi, ed ero ancora convinto di essere così forte da poter sconfiggere qualsiasi nemico, mi hanno stritolato in un tempo brevissimo. Ma siccome la presunzione è una malattia inguaribile, resto presuntuoso, e prima di andarmene voglio dirvi cosa credo di avere capito di questa regione. Di solito, se si parla della Calabria, si dice che il suo problema è l’illegalità. Io non ho mai creduto al valore della legalità, anzi, disprezzo la legalità. Credo a un principio molto diverso: quello del Diritto e dei Diritti. La legalità può essere ingiusta, può essere oppressiva, può essere conformista, bigotta, vetusta, persecutoria, conservatrice – anzi: è sempre conservatrice – e non è affatto detto che sia garanzia dei diritti. La legalità è il contrario della ribellione. Non mi è mai piaciuta. Il Diritto è un’altra cosa: il diritto – e i diritti – sono quei grandi valori della civiltà, in continua evoluzione, che si oppongono alla sopraffazione, al dominio, e tendono ad affermare l’uguaglianza delle donne e degli uomini e la primazia della loro dignità rispetto agli interessi dell’economia e del potere. Il Diritto tende all’uguaglianza. Ed è il contrario del Potere. Quando si dice che il problema della Calabria è la legalità si cerca di irrobustire quel vecchio pregiudizio del Nord, secondo il quale la questione meridionale è una questione criminale. E così è facile trovare la soluzione: più polizia, più giudici, più manette, un po’ di esercito e un po’ di razzismo sano e moderno, alimentato dalla buona stampa nazionale. Io invece penso che il problema all’ordine del giorno sia il Diritto, soprattutto il Diritto della Calabria nei confronti del Nord. E’ il Nord che da decenni viola i diritti fondamentali della Calabria. Prima di tutto il diritto del popolo calabrese ad essere popolo calabrese. Quello che solitamente viene chiamato il fenomeno dell’emigrazione – ma che io preferisco chiamare “la deportazione” – e cioè il trasferimento al Nord di milioni di calabresi, sottomessi e spinti a lavorare per il miracolo economico lombardo, o piemontese, o ligure o romano – è uno dei più grandi atti di sopraffazione di massa compiuti sotto l’occhio benevolo della Repubblica italiana. E’ un delitto. E non ha trovato opposizione. Neppure la sinistra, nel dopoguerra, si è mai fatta carico di questa gigantesca ingiustizia. Perché? Perché purtroppo, in Italia, anche la sinistra è settentrionale. La Calabria – nonostante grandi personaggi politici isolati, come Sullo, o Mancini, o Misasi – non ha mai avuto una sinistra. Così come tutto il Mezzogiorno d’Italia. Nasce da qui, esattamente da qui, la consuetudine di cancellare il Diritto della Calabria, e in particolare il Diritto del lavoro. Mi piacerebbe raccontare qualcosa di scandaloso ai miei amici e compagni di Roma e del Nord, compresa Susanna Camusso, il capo del sindacato che recentemente è scesa qui da noi e ha anche detto cose sagge, perché sicuramente è una persona seria. Cara Camusso, lo sai quanto paga la ’ndrangheta un picciotto? Mille euro al mese. E sai quanto guadagna un coetaneo del picciotto che lavora legalmente a tempo pieno in un call center, o in campagna, o anche in ufficio e persino in un giornale, come giornalista? E’ facile che guadagni meno della metà. Qui ho imparato che un trentenne con uno stipendio di sette o ottocento euro si considera fortunato. Camusso, pensi che in queste condizioni ci sia da stupirsi se la ’ndrangheta prospera? E pensi che aumentando il numero dei poliziotti e dei giudici – ottime e spesso eroiche persone – le cose possano migliorare? Mi piacerebbe davvero, Camusso, conoscere la tua risposta, perché non sono domande retoriche, né polemiche, però sento che sono domande drammatiche e penso che sia giusto porle. Quando sono sceso a Cosenza, da Roma, e ho preso la direzione di Calabria Ora, ho scritto un editoriale nel quale dicevo essenzialmente una cosa: qui manca la classe dirigente. La Calabria ha bisogno di una classe dirigente che sappia rappresentare il popolo, sbattere i pugni sul tavolo a Roma e assumersi finalmente la responsabilità dell’affermazione dei diritti. Dopo tre anni confermo quelle cose, con l’angoscia di chi sa di non essere riuscito a smuovere nemmeno uno stecchetto di paglia per cambiarle. Vedete, io penso che la Calabria soffra dell’assenza delle classi sociali che hanno costruito l’Italia: la borghesia e la classe operaia. Qui non c’è borghesia: c’è il padronato. E non c’è classe operaia: c’è un popolo sconfitto, sfregiato, deportato, oppresso, e che non riesce ad uscire dalla rassegnazione. Sì: il “padronato”, proprio con quell’accezione assolutamente negativa della parola che usavamo noi ragazzi degli anni settanta. Un padronato che considera il proprio borsellino come un Dio, e tratta gli esseri umani come cose, accidenti, strumenti, “rifiuti”. Già lo ha detto il papa, ha usato, indignato questa parola: “rifiuti”. Per una volta fatelo scrivere anche a me, ateo e anticlericale: viva il papa. Prima di tornarmene a Roma devo dire qualcosa sui giudici. Perché in questi anni sono stati un mio bersaglio fisso. In realtà ho grande stima per quasi tutti gli investigatori calabresi, credo però che il compito di un giornale sia quello di mettere sempre sotto controllo e sotto accusa il potere. E io sono persuaso che oggi in Italia – ma soprattutto in Calabria – il potere dei magistrati sia – insieme al potere economico e padronale – di gran lunga il potere più forte. Per questo io considero il garantismo un valore assoluto, da difendere coi denti, come caposaldo della civiltà. Oggi il garantismo è pesantemente messo in discussione – anzi sconfitto – dal dilagare, nell’opinione pubblica, di un feroce giustizialismo. Talvolta ispirato dai più tradizionali principi reazionari, talvolta da forti spinte etiche. Recentemente ne ho discusso, in un dibattito a Gerace, in Aspromonte, col Procuratore di Reggio, Federico Cafiero De Raho. Lui, a un certo punto della discussione, ha sostenuto che la giustizia serve ai deboli, perché i forti non ne hanno bisogno. Io gli ho risposto che apprezzo la sua spinta etica, ma che giustizia ed etica non devono mai coincidere, perché il male dei mali è lo Stato etico, che può essere solo autoritario e fondamentalista. Come fu lo stato fascista, come furono gli stati comunisti. Devo dire, onestamente,  che lui –  Cafiero –  poi ha precisato meglio il suo parere, e che io ho apprezzato moltissimo la sua capacità di discutere – e ci siamo detti che avremmo proseguito la discussione in altra sede, e invece, con dispiacere, dovrò disdire l’appuntamento – ma in me resta questo grande timore: per i giudici – capaci, onesti – che pensano di svolgere una missione. Non è così, fare il magistrato è un mestiere, non una missione assegnata da Dio! E il prevalere di una concezione giudiziaria della vita pubblica non può che nuocere alla Calabria, ne sono convintissimo.

MAGISTRATI: FACCIAMO QUEL CHE VOGLIAMO!

La toga rossa ammette: i giudici fanno quello che vogliono, scrive di Cristiana Lodi su “Libero Quotidiano”. La sintesi è che i giudici fanno quello che vogliono. Perché hanno margini di discrezionalità sconfinati nella ricostruzione e nella valutazione dei fatti. Perché anche le possibilità d’interpretazione delle norme non conoscono limiti. Perché in Tribunale il clima è cambiato (o forse è tornato ancora più uguale a quello di un tempo), nel senso che il principio dell’uguaglianza di tutti (deboli e forti) davanti alla legge, di fatto, non esiste. O, di fatto, non è proprio mai esistito. La sintesi che noi riportiamo, non l’ha esposta un individuo qualunque, ma una toga. Un magistrato che di nome fa Livio Pepino, membro del Consiglio superiore della magistratura (l’organo di autogoverno dei giudici) dal 2006 al 2010, ex sostituto procuratore generale a Torino. E presidente di Magistratura democratica. Dunque una toga rossa, anche. In un articolo pubblicato ieri sul giornale comunista il Manifesto, Livio Pepino spiega come la sentenza Ruby che assolve Silvio Berlusconi dai reati di concussione per costrizione e prostituzione minorile, sia la prova provata che i giudici - anche i più irreprensibili e convinti di agire in piena indipendenza - alla fine fanno quello che vogliono. Questo con buona pace dei giornalisti vari o dei sostenitori della giurisdizione, i quali si sono sprecati nel giudicare, considerare e spiegare l’assoluzione dell’ex capo del governo come «una conseguenza (quasi) obbligata della modifica del delitto di concussione operata con la cosiddetta legge Severino (in realtà, precedente alla sentenza di primo grado)». Ma vi pare? Tempo buttato cimentarsi in simili esercizi interpretativi. Perché, scrive il magistrato, «come sempre le ragioni di una decisione sono molte, ma certo le principali stanno non nelle modifiche legislative bensì nelle scelte dei giudici». Che fanno quel che gli gira in quel momento. «E l’esercizio di tale discrezionalità risente del clima in cui essi stessi operano». Con una disinvoltura che ricorda, dice ancora il giudice Pepino, il caso dell’ex ministro Scajola: «Accusato di avere ottenuto un illecito finanziamento mediante il pagamento di parte cospicua del prezzo di acquisto di un prestigioso alloggio romano e assolto in primo grado per essere tale pagamento avvenuto “a sua insaputa”». Come contraddirlo? Difficile. Così com’è complicato sostenere che il magistrato ha torto quando afferma che «mai» si è visto un pubblico ufficiale macchiarsi del reato di concussione per costrizione perché ha usato la minaccia di una pistola puntata alla tempia del concusso. Anche se, aggiungiamo noi, non lo ha certo inventato il prete che l’elemento costitutivo del delitto di concussione, dal quale Berlusconi viene assolto dalla Corte d’Appello, è proprio la minaccia grave ed esplicita (come ad esempio quella con armi). Le interpretazioni giuridiche, in tal caso possono sì essere infinite e lasciare gran margine di decisione ai giudici, ma se la minaccia grave non esiste, diventa improbabile inventarla. Perfino quando l’imputato si chiama Berlusconi Silvio, giudicato a Milano. Il quadro nei tribunali «è mutato», insiste Livio Pepino, «una fase si sta chiudendo. Accade quotidianamente. In forza del nuovo/antico ruolo attribuito alla giurisdizione si divaricano le regole di giudizio adottate nei processi contro i “briganti” (poveri o ribelli che siano) e in quelli contro i “galantuomini”: qui il canone probatorio del “non poteva non sapere” di Scajola è sacrilegio; là è regola». Dunque nessuno è uguale davanti alla legge. E i giudici decidono quel che loro garba. Ergo: fanno quello che vogliono. E se a dirlo è una toga. Per di più rossa...

LA BANDA DEGLI ONESTI.

La maledizione della Faraona. In quel tempo un demone feroce lanciò sul popolo italico la Maledizione di Ruby..., scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. In quel tempo un demone feroce lanciò sul popolo italico la Maledizione di Ruby. L'anatema accusava il suo re di ogni nefandezza, come l'abuso e traffico di carne umana, ma si abbatteva su tutto il suo popolo. In seguito al verdetto malefico caddero sull'Italia le Sette Piaghe d'Egitto, dalla presunta nazionalità della ancor più presunta vittima. La prima piaga fu l'odio civile che spaccò il Paese, gli uni contro gli altri: mezzo popolo contro il governo, mezzo popolo contro i magistrati, mezzo potere in fuga come le celebri galline, mezza Italia contro l'altra. La seconda piaga fu distrarre governo e popolo dalla crisi drammatica e dai suoi rimedi per concentrarli sulla Maledizione. La terza piaga fu che mentre il Verdetto Abominevole arrivò atroce e puntuale, costando un'Ira di Dio, milioni di processi languivano in attesa di giudizio e l'ingiustizia regnava sovrana. La quarta piaga fu la vergogna mondiale e il ridicolo che gettò sul popolo e i suoi regnanti, accusati di riti antropofagi come il famigerato bunga-bunga. La quinta piaga fu lo sputtanamento della vita intima del re col vivavoce che amplificava nelle piazze anche i suoi bisogni corporali, generando disgusto e sollazzo. La sesta piaga fu che per punire il popolo sodomita fu inviato l'Angelo Sterminatore Mari O Monti. La settima piaga fu che quel processo divenne poi, come dissero gli stessi demoni, la Madre di tutti i processi che paralizzarono il Paese e capovolsero la volontà popolare. La maledizione ora ritorni su chi la emise.

Sentenza Ruby, è anche la sconfitta di "Se non ora quando", scrive Angela Azzaro su “Il Garantista” Il caso Ruby, con tutti i cascami politici e giudiziari, coincide con il movimento di “Se non ora quando?” che il 13 febbraio 2011 porta in piazza quasi un milione di donne in tutta Italia al grido di “giù le mani dalla nostra dignità”. La ragazza marocchina (non levantina come nella sua, ormai celebre, requisitoria disse Boccassini beccandosi da più parti della razzista) diventa il simbolo del male, colei che viene usata e si fa maldestramente usare dal potere maschile. «Tu Ruby, io lavoro», era una delle tante scritte che si potevano leggere nei cartelli esibiti da giovani e meno giovani, convinte che il vero degrado dei nostri tempi fosse l’accusa rivolta qualche giorno dopo dai giudici di Milano nei confronti dell’allora presidente del Consiglio. Ruby non era sola. Insieme a lei, nella lista nera, c’erano Noemi Letizia, la giovane campana che per prima fu usata contro il premier, poi tutta la serie di ragazze che la stampa nemica ma anche amica non tardò a definire in maniera dispregiativa “le olgettine”. Davanti all’ennesima divisione tra donne perbene e donne per male, qualche voce si levò anche da sinistra per protestare, per avvertire del pericolo. In nome della dignità, e non più della libertà, si stava producendo la trita e ritrita contrapposizione tra donne. Le leonesse di Snoq cercarono di rilanciare dicendo che loro non ce l’avevano con le altre donne, che il problema era il degrado dell’immagine femminile che “olgettine” e “rubettine” diffondevano in mondo visione. Ma lo dicevano senza convinzione. Anche perché l’operazione, con il senno di poi, e con una sentenza come quella di ieri, appare finalmente molto chiara. Ruby è stata usata, sì usata ma da una parte del movimento delle donne, per portare avanti una controffensiva di carattere culturale. Negli anni Settanta ci si batteva per la libertà sessuale, per liberare il corpo dai pregiudizi? Negli Ottanta si manifestava con il movimento delle prostitute? Beh, per Snoq era arrivato il momento di voltare pagina, di tornare a essere, come scrisse Concita De Gregorio (in questo insuperabile) mamme, zie, sorelle, compagne. Tutto fuorché donne libere. Qualche sofisticata analista ha tentato in questi anni di ragionare sul rapporto tra sesso e potere, tra pubblico e privato, tra politica e relazioni sessuali o sentimentali, spostando l’asse della riflessione. Ma sono rimaste analisi perlopiù isolate. Ha invece vinto la controffensiva, il ritorno indietro: il corpo come peccato, la sessualità come colpa. L’immagine di Ruby, così come prima quella di Patrizia D’Addario, ha oscillato tra peccatrice e vittima. A seconda delle necessità ha servito scopi opposti. Un giorno sedeva sul banco degli imputati, «la furbizia levantina», l’altro ancora serviva per accreditare l’immagine di persone in balia del volere altrui, di donne oggetto incapaci di intendere e di volere. Così, tra una Ruby e l’altra, si è dato vita a una nuova cultura, oggi purtroppo maggioritaria. Soprattutto a sinistra. La abbiamo vista esprimersi nel suo massimo fulgore nel caso di Paola Bacchiddu, la responsabile comunicazione di Tsipras processata in pubblica piazza per aver osato chiedere, nella sua pagina facebook, di votare la lista ma con un bel bikini. Apriti cielo. Le donne, soprattutto le femministe, le sono andate contro in difesa del corpo delle donne che Bacchiddu avrebbe offeso. Dopo l’assoluzione di Berlusconi, vengono meno alcuni appigli di “verità” che sostenevano i ragionamenti delle più infervorate e dei più convinti. Sarebbe bello pensare che anche dal punto di vista culturale e dei costumi possa iniziare una nuova fase. In cui corpo e sessualità, prostituzione e libertà, responsabilità individuale non siano più brutte parole da mettere all’indice, ma confini su cui vale, sempre e comunque, la possibilità del singolo o della singola di scegliere. Sì, perché dopo tutti questi anni, dopo tutte queste discussioni, forse è davvero arrivata la volta buona per cambiare passo: se non ora quando?

Vittorio Sgarbi in una intervista resa a https://ssl.gstatic.com/ui/v1/icons/mail/images/cleardot.gifAndrea Radic su “Affari italiani” spara a zero:"Sono i magistrati i pericolosi maniaci sessuali. La Boccassini, Forno e Bruti Liberati andrebbero arrestati e cacciati dalla magistratura per aver mortificato la giustizia e la libertà. Vittorio Sgarbi intervistato da Affaritaliani parte dalle riforme e mette sotto processo la magistratura condannandola senza appello. Per l'ex Sindaco Berlusconi è un povero coglione che non può essere riabilitato politicamente.

Sgarbi, le riforme avranno strada più facile dopo la sentenza di assoluzione per l'ex presidente del Consiglio?

«Le riforme fanno ridere e Renzi è leader di riforme che peggioreranno l'ordinamento. La sentenza prova che due gradi di giudizio paritari portano a soluzioni opposte. Nulla di più idiota di questa riforma. Che poi le riforme andassero fatte senza preoccupazioni giudiziarie con l'opposizione è giusto, e l'opposizione è Berlusconi, come le elezioni europee hanno confermato con il 17 per cento dei voti.»

La sentenza di ieri...(Sgarbi non permette di finire la domanda e si scaglia con forza)

«La sentenza entra a gamba tesa perché riabilita un Berlusconi che era considerato un criminale pedofilo di ogni natura, ma non si capiva perché una telefonata deve essere considerata concussione. Una telefonata è una telefonata non è concussione, solo dei pazzi criminali che non possono fare i magistrati, ma andrebbero arrestati come Bruti Liberati, la Boccassini e Forno, loro sì maniaci sessuali pericolosi, possono averla considerata tale.»

Prosegua...

«Abbiamo vissuto 3 anni di incubo in cui ogni respiro di Berlusconi diventava un crimine in virtù della visione della Boccassini, ma la Boccassini chi cazzo è?? Ma quale autorità morale deve avere, quale processo può fare su di un reato che non esiste, una così va presa e cacciata dalla magistratura con ignominia e le devono togliere anche la pensione, altro che buttare i miei soldi per andare a vedere con chi scopa Berlusconi...roba da pazzi.»

Capisco...

«Una ragazza che vuole fare e andare con chi vuole, non deve essere giudicata in un tribunale da tre mezze megere malate di moralismo ridicolo. Vanno cacciati dalla magistratura, non per aver condannato Berlusconi, ma per aver mortificato la giustizia e la libertà. Applicato criteri personali facendo uso personale della giustizia. Questo è il dato oggettivo.»

Quest'oggi, il vice capogruppo del PD al Seanto Tonini ha detto che deve finire l'antiberlusconismo, che ne pensa?

«L'anti berlusconismo c'è lo stesso, il problema è che se io prendo un costituente e dico che è un pedofilo, rendo la riforma costituzionale un po' inquinata, il problema è sia un pedofilo veramente. Hanno accusato Berlusconi, odiandolo, di essere pedofilo, invece era un povero coglione qualunque come è sempre stato. Un poveretto che si è trovato in una cosa più grande di lui.»

Allora il problema qual'è?

«Il problema è il "boccassinismo", un giustizialismo che consapevolmente e in perfetta malafede, pur di eliminare il nemico politico ha usato armi improprie. Quanto accaduto è gravissimo.»

La sentenza riabilita politicamente Berlusconi?

«Berlusconi non può essere riabilitato perché ha dimostrato indegnità politica per essersi circondato di gentaglia, e questo è politicamente imperdonabile.»

Quindi responsabilità gravi della magistratura?

«È gravissimo che per toglierlo di mezzo sia stato accusato di reati che non ha commesso. Vanno puniti i magistrati che hanno fatto un uso abnorme della giustizia. Andrebbe loro data una lezione esemplare perché hanno contravvenuto al principio di giustizia di cui dovrebbero essere sacerdoti. Voglio dirle cosa ho scoperto...»

Prego..

«Ho scoperto che Ostuni, capo di Gabinetto della Questura di Milano la notte in cui Ruby venne fermata,  tiene per il Milan. Per cui la telefonata era del presidente del Milan che parlava con un tifoso. Il tema cruciale è che non c'è nessuna concussione, Berlusconi ha chiamato in quanto persona autorevole come avrebbe potuto chiamare il cardinal Bagnasco o Moratti, presidente dell'Inter, sarebbe stato lo stesso, avrebbe chiesto un favore.»

Secondo lei perchè Berlusconi chiamò personalmente?

«Perchè la telefonata è comunque la telefonata di un cretino che avrebbe dovuto far chiamare da un suo cameriere il Prefetto o Maroni che avrebbero usato una cortesia istituzionale. Ha chiamato lui per un rischio paventato che Ruby parlasse dei festini, ma non esiste. La ragazza non aveva nulla da dire, nessuno le avrebbe creduto. Non esisteva alcun rischio. Insomma, una telefonata gratuita di uno scemo che fa un favore a una cretina. e la dimostrazione è in queste due frasi che le cito. Berlusconi dice di "Ruby è la nipote di Mubarak" e lei risponde "per me Silvio è la Caritas".»

In sintesi?

«Sei anni a uno perché risparmia cinque ore di questura a una ragazza? Roba da pazzi. La Bocassini lo sa ed è in perfetta malafede, dovrebbe avere una richiesta di danni miliardaria da parte Berlusconi e dovrebbe  pagare per un errore gravissimo sul piano del suo lavoro. Per fortuna non sono presidente del CSM perché se no li prenderei e li rivolterei come calzini.»

Filippo Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: Ruby e Puttanopoli sono la più grande sconfitta di Ilda Boccassini. E di qualche giornalista.....Forse sì, forse è la più grande sconfitta patita della procura di Milano in vent’anni di processi ad personam contro Silvio Berlusconi. Questa non è l’America, dove un procuratore sconfitto ha delle immediate ripercussioni sulla carriera: qui un procuratore sconfitto fa subito ricorso contro il malcapitato, s’infila in cento altri processi contro di lui, se necessario prosegue la sua campagna per quindici o vent’anni, certo, sì. Ma stavolta la sconfitta non ha rimedio perché è inequivoca, netta, il reato non esiste e stop, non ci sono margini (manca soltanto il sigillo della Cassazione) e stiamo parlando del processo più rumoroso, mondialmente sputtanante e al tempo stesso più semplice da capire, l’unico che era stato ampiamente pre-giudicato dall’opinione pubblica e l’unico, soprattutto, che a suo modo pareva perduto dalla procura anche dopo la vittoria in primo grado. Ora gli esterofili si divertirebbero nel chiedersi «in quale Paese al mondo» una procura possa processare un capo del governo per concussione e prostituzione minorile e poi, dopo la sconfitta, uscirsene come se nulla fosse, come se la sua azione in nome del popolo italiano non si fosse tradotta in un sostanziale danno al popolo italiano. Di che parliamo? Di una campagna mediatica spaventosa, senza paragoni con qualsiasi altra, migliaia di intercettazioni che hanno sputtanato uomini e donne costrette in qualche caso a rifugiarsi all’estero, una task-force di magistrati che ha strapazzato le regole pur di aggiudicarsi un processo che spettava ad altri e che ha contribuito a sfaldare la procura davanti al Csm, e tutto per una domanda che da ieri è alla portata di tutti, cittadini e giornalisti e politici e giudici di ogni orientamento, ossia questa: ci voleva tanto? Ci voleva tanto a capire che era tutta un’immensa e pruriginosa cazzata? Era così difficile - anche senza scomodare procedure e giurisprudenze - capire che quella telefonata non era una concussione? Che una concussione senza concussi resta improbabile? Che la signorina Ruby si era facilmente spacciata per maggiorenne senza esserlo? Che una furbastra e una mitomane è da considerare sempre furbastra e sempre mitomane? Che un rapporto sessuale negato, in un’aula di giustizia, non si può dimostrare per teorema? Che per anni e anni e anni ci siamo occupati solo degli stracazzi personali di Silvio Berlusconi? C’erano quelli, nelle 500 pagine di allegati che giunsero alla Camera il 17 gennaio 2011 assieme alla richiesta di perquisizione per l’ufficio di Giuseppe Spinelli, ragioniere dal quale partivano bonifici per alcune «olgettine» già ospiti delle serate a villa San Martino: c’era il «sistema Arcore», quello in cui giovani donne facevano semplicemente quello che volevano e non facevano quello che non volevano. Un giorno s’infilò una minorenne che Ilda Boccassini definì di «furbizia orientale» (anche se era marocchina e il Marocco è a Occidente) ed ecco che la mitica procura di Milano si scaraventò a perseguire il reato notoriamente più grave e urgente: un caso di sospetta prostituzione minorile. E quattro anni dopo non è una sconfitta, è un’ecatombe. Egregio vicepresidente del Csm Michele Vietti, sono queste le mazzate che distruggono la credibilità di una procura davanti all’opinione pubblica: mica gli esposti di Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati. Ecco, Bruti Liberati: mesi o anni passati a dividere l’ufficio, a favorire i suoi pubblici ministeri preferiti a scapito di altri, acrobazie procedurali per spiegare che Berlusconi era un concussore ma che i presunti concussi, i funzionari della Questura, avevano commesso solo delle scorrettezze amministrative. Paf, tutto disciolto in una sbrigativa camera di consiglio. Con la complicazione che alcuni funzionari poco collaborativi sono stati addirittura indagati per depistaggio, senza contare la complicazione ancora più complicata di un Ruby bis - il processo parallelo per corruzione di testimoni - che ora resta appeso al nulla. Il fatto non sussiste. Il fatto non costituisce reato. Senza contare che questa sentenza d’appello potrebbe ripercuotersi sulle residue puttanopoli sparse per il Paese. E poi c’è lei, Ilda Boccassini, una delle più grandi investigatrici del Paese - nessuna ironia - ma che ora rischia di gettare una luminosa carriera nell’ombra di questo processo ridicolo. Quando Berlusconi fu inquisito per la prima volta, nel 1994, lui aveva 58 anni ed era presidente del Consiglio; la Boccassini quell’anno ne aveva 45 ed era reduce da esperienze importanti in Sicilia sulle orme degli assassini di Falcone e Borsellino, e stava appunto per coinvolgere Berlusconi in inchieste pesantissime su corruzioni giudiziarie, roba tosta ma che l’hanno lasciato illeso. Poi c’è un terzo soggetto, Karima el Mahroug, detta Ruby, che in quel 1994 si limitava a ciucciare il biberon perché aveva un anno. Ora, cioè una ventina d’anni dopo, rieccoci con un Berlusconi che ha 78 anni, è ancora politicamente in sella e però è stato appena assolto da un processo imbastito ancora da lei, Ilda Boccassini, che ora ha 63 anni e l’anno scorso aveva finalmente ottenuto una pesante condanna: e per che cosa? Per una concussione e una prostituzione minorile alle quali non ha mai creduto nessuno. Non pochi, nel giorno della condanna di Berlusconi in primo grado, lessero nell’assenza di Ilda Boccassini un doppio imbarazzo: la possibile amarezza per una sconfitta o la possibile amarezza per una vittoria. Finì con la più improbabile delle vittorie, 7 anni e interdizione a vita, un collegio giudicante simbolicamente retto da tre donne. Bella figura anche la loro. Poi ci sarebbe tutto un discorso sui giornalisti, ma tanto è inutile. Ieri Marco Travaglio ha già tirato in ballo un possibile «errore giudiziario» e ha chiarito che «secondo me, a naso, hanno sbagliato i giudici d’appello». A naso: chissà con che cosa ha scritto il suo articolo, poi. «Sono curioso di vedere», ha aggiunto, «come il giudice motiva questa cosa e se è tutto regolare». All’erta, signor giudice. Infine è andato a rincarare la dose a Bersaglio Mobile, da Enrico Mentana, su La7: la parola all’esperto. «Il nostro giornale», ha concluso, «non ha una linea preconcetta per la quale Berlusconi è sempre colpevole». È simpatico, dài.

Assolto. Chi paga? Crolla il teorema dei pm e della stampa di sinistra: Berlusconi fuori dall'incubo. Ma nessuno chiederà scusa, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. La completa assoluzione in appello di Silvio Berlusconi dalle infamanti accuse sostenute dalla procura di Milano nel processo Ruby ripristina - dopo anni di linciaggio - tre fondamentali verità. La prima - che a me, avendo conosciuto l'uomo, preme di più - è quella storica: Silvio Berlusconi non è quel mascalzone immorale dipinto nelle strampalate tesi dell'accusa. Gli viene restituito l'onore e la dignità che non fatti, ma una indebita invasione nella sua vita più privata e un teorema moralista gli avevano tolto. La seconda è la verità giudiziaria: Berlusconi non ha commesso il reato di concussione (gravissimo per un premier in carica) né tantomeno quello - assurdo solo pensarlo - di sfruttamento di prostituzione minorile. La terza verità è quella politica: è ora evidente a chiunque che l'inchiesta, il processo e la sentenza di primo grado - cavalcati dall'opposizione, dai giornali e dai programmi televisivi amici - non erano fondati su concrete ipotesi investigative, ma solo sulla volontà di infangare e danneggiare un leader politico nonché capo del governo in carica. Un giorno, ne sono certo, ne sapremo di più su mandanti ed esecutori. Resta il danno, enorme, provocato all'uomo Berlusconi, alla sua famiglia e al Paese intero. Una maggioranza - è innegabile - si è sfaldata e un governo è caduto proprio sotto i colpi di questa inchiesta, colpi che oggi scopriamo essere stati a salve. Di quell'agguato siamo ancora qui oggi a leccarci malconci le ferite. Da allora si sono succeduti tre governi non eletti i cui operati hanno peggiorato non di poco la situazione economica di imprese e famiglie. Nessuno, temo e prevedo, pagherà per tutto questo. Né professionalmente, né politicamente, tantomeno economicamente (i costi di questa sceneggiata voluta da Bruti Liberati e da Ilda Boccassini sono stati altissimi e sono sul groppone dei contribuenti). Così come non arriveranno le scuse dei direttori di La Repubblica e del Fatto Quotidiano, di Santoro e Floris (tanto per citare i più conosciuti), professori di giornalismo e maestri di verità che hanno guidato la più colossale macchina del fango messa in piedi contro un singolo uomo, che è riuscito a sopravvivere in questi anni solo in forza del suo coraggio e dei suoi mezzi. Ora, siccome da ieri sappiamo che può esserci a Milano un giudice come a Berlino (l'opera di Bertolt Brecht in cui si narra di un magistrato capace di sentenze contro l'imperatore e i colleghi succubi), possiamo sperare più convintamente di poter ribaltare altre dubbie verità giudiziarie. A partire dalla condanna per frode fiscale che ha portato alla decadenza di Berlusconi (in quel caso la sentenza non finì a «Berlino» ma con uno stratagemma fu tolta alla corte naturale e affidata ad una posticcia il cui presidente, Esposito, ora è sotto inchiesta). E poi c'è la politica, che ancora una volta troppo frettolosamente aveva dato Berlusconi per morto. Diamo atto a Renzi di aver tenuto con rispetto la porta aperta al «condannato». Altri, molti altri, dovranno tornare a fare i conti con il leader di Forza Italia. Fra di loro, non tutti hanno la coscienza pulita, qualcuno dovrà abbassare le arie. Ma questa sarà la storia che racconteremo nei prossimi mesi.

Berlusconi è stato assolto dall’ipotesi di concussione perchè il fatto non sussiste e per l’ipotesi di prostituzione minorile perchè il fatto non costituisce reato. In primo grado si era beccato sette anni, uno più delle richieste della Boccassini, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Non stiamo qua a ricordare lo sputtanamento complessivo che il Cav ha dovuto subire e non stiamo qua a ribadire che chiunque venga sottoposto al trattamento Boccassini (intercettazioni, pedinamenti, origliate e supposizioni pruriginose) rischierebbe di fare una pubblica figuraccia. Pensate che goduria ascoltare certe telefonate dei moralizzatori. Ma lasciamo perdere il passato e ragioniamo sul presente. Oggi assistiamo ad altrettanta malafede rispetto. Si dice che Berlusconi sia riuscito a farla franca solo grazie ad una legge ad personam (la cosiddetta Severino) votata dal Pd e dall’allora Pdl durante il governo Monti, che ha modificato il reato di concussione. I campioni sono quelli del Fatto (all’interno stanno vincendo i trinariciuti di travaglio, purtroppo) e più modestamente La repubblica. Si tratta di una balla colossale, ma a forza di dirla in giro con quell’aria di sapientini, qualcuno ci può credere. La realtà è che proprio coloro che accusano il Cav di essersi fatto una legge ad personam (per interposta persona e partito e cioè Monti) sono tra coloro che vogliono leggi contro il Cavaliere per farlo scomparire dalla terra. Ma vediamo perchè si tratta di una colossale balla.

1. Semplice, le date non coincidono. La legge Severino è stata approvata nel 2012, mentre la condanna in primo grado del cavaliere è avvenuta nel 2013. Dunque ci verrebbe da chiedere ai fenomeni perchè i giudici di primo grado hanno inflitto sette anni al Cav, pur vigente la Severino? Se la Severino fosse stata così ad personam non può esserlo a scoppio ritardato. Coloro che giudicarono e indagarono Berlusconi nel 2012 sapevano benissimo della legge in vigore e dei suoi eventuali effetti.

2. Ma la legge l’avete letta. Grazie alla Severino oggi Silvio Berlusconi non è più senatore. Grazie alla medesima legge che i geni dicono che Berlusconi si sia fatto a sua immagine e somiglianza, oggi il Cav ha subito il rapido processo al Senato ed è stato sbattuto fuori. E per di più non vi potrà rientrare per un numero di anni superiore a quello che la sola sentenza di frode fiscale prevede. Senza Severino il Cav oggi sarebbe stato ancora al Senato.

3. Concediamo, ma per puro gioco retorico, che la Severino abbia cambiato la norma in corso di partita. Ma allora perchè in appello il procuratore generale ha continuato a chiedere la medesima condanna ricevuta dal Cav in primo grado? Il procuratore avrebbe potuto chiedere pena inferiore stante la mutata legislazione, più favorevole al concussore. Evidentemente sperava, il procuratore, che la medesima forzatura di primo grado, fosse accolta dai giudici di appello.

4. Il fatto non costituisce reato. Questa è la formula con cui è stato assolto Berlusconi. Insomma lo vogliono capire o no, questi zucconi che non ci vogliono stare, che il giudice d’appello ha banalmente ritenuto (come facevano le persone di buon senso) che la telefonata del Cav in questura non rappresentasse alcuna reato. Come gli stessi poliziotti hanno più volte testimoniato. E dunque l’assoluzione nasce dalla mancanza di reato e non dalla mancanza di una fattispecie penale che permettesse di colpire il Cav. Il giudice di appello avrebbe inoltre potuto derubricare il reato, se questo fosse stato il caso vista la nuova legge, e applicare sanzione più blanda (come in molti compreso Lillo del Fatto si attendevano). E invece non l’ha fatto poichè ha ritenuto che la concussione semplicemente non si configurava.

5. E la prostituzione? Ammesso e non concessa la legge ad personam (che come visto non esiste) che fine fa la condanna ad un anno per prostituzione minorile. Il giudice anche in questo caso ha dato un bel colpo di spugna sostenendo che il fatto non costituisce reato. Vedremo nelle motivazioni perchè. Ma su questa assoluzione tutti zitti. Eppure era il fondamento dello sputtanamento, anche internazionale, del Cav. Nulla. Il giudice ha assolto anche in questo caso. Perchè non è provata la dazione di danaro? perchè non è provato il rapporto sessuale? Perchè non è provato che il cav sapesse della minore età di Ruby? Ancora non lo sappiamo. ma conta relativamente. é stato assolto. I moralisti si rivolgano altrove. Qua parliamo di condanne o assoluzioni.

6. Ha perso la Boccassini. La barzelletta più gustosa è avvenuta ieri sera quando Travaglio a Bersaglio Mobile di Mentana mi contestava ciò che è chiaro a tutti. Il protoPm diceva che a perdere, semmai, era stata la procura generale. E’ seguita lezioncina. Peccato che il protoPm si sia dimenticato di ricordare ai telespettatori di come il processo sia stato imbastito sulle indagini della Boccassini, non su quelle del mago Zurlì. E che in appello si è giocato sul medesimo campo di gioco. Nulla di nuovo è intervenuto. Il procuratore generale ha semmai dimostrato scarsa indipendenza di giudizio e di valutazione nei confronti della Boccassini. Ma la palla avvelenata da lì è stata tirata. La verità è che non ci vogliono stare. Le sentenze non si discutono solo quando condannano i nemici politici.

Ecco perché in Gran Bretagna Travaglio andrebbe in galera. Per tutto ciò che in questi anni hanno combinato a Berlusconi (e non solo) Travaglio&Co, se fossero giornalisti inglesi, sarebbero già in galera da un bel po' e i loro giornali e talk-show chiusi per vergogna, scrive Nicholas Farrell su “Il Giornale”. Per tutto ciò che hanno combinato in tutti questi anni nei confronti di Silvio Berlusconi (e non solo) Travaglio&Co, se fossero giornalisti inglesi, sarebbero già in galera da un bel po' e i loro giornali e talk-show chiusi per vergogna. Marco Travaglio, Michele Santoro, Gad Lerner, Ezio Mauro si vantano di essere moralmente superiori e disprezzano la squallida stampa tabloid inglese. In realtà questi Robespierre del secondo Millennio sono molto più tabloid e più squallidi dei giornalisti di Sua Maestà. Qual è la differenza tra Andy Coulson (l'ex direttore del News of the World ora in galera) e Marco Travaglio? Secondo me, solo una: Travaglio è peggio. Ciò che da anni ha fatto nei confronti di Berlusconi (e non solo) e con orgoglio - addirittura - è mille volte più disgustoso di quello che hanno fatto i giornalisti come Coulson. I tabloid inglesi si trovano nei grossi guai perché alcuni anni fa è saltato fuori che abitualmente intercettavano gli sms di vip e gente comune. Non ne hanno mai pubblicato i contenuti ma li hanno usati per costruire i loro articoli. Non importa, perché lo scandalo è stato enorme. Travaglio&Co. invece, che cosa combinano? Beh, da anni - con la complicità della magistratura italiana - fanno di peggio: pubblicano sms e intere conversazioni telefoniche a tappeto. Nel 2001 in Inghilterra Scotland Yard ha cominciato ad indagare sulle intercettazioni telefoniche illecite da parte della stampa inglese, in particolare di News of the World (vendite medie 2,8 milioni) di Rupert Murdoch, che per vergogna chiuse il tabloid fondato nel 1843. Finora una trentina di giornalisti sono stati arrestati ed alcuni sono stati processati e messi in galera. Tra questi spicca proprio Andy Coulson, l'ex direttore del News of the World condannato nei giorni scorsi a 18 mesi di galera. Dove attualmente si trova in attesa di essere ancora processato per altri reati collegati. Il governo di David Cameron fu costretto a lanciare nel 2012 una commissione pubblica diretta dal Lord Chief Justice Leveson sulla cultura e sull'etica della stampa inglese e come gestirla meglio. Certo, Travaglio&Co non hanno intercettato personalmente i telefoni, sono state le Procure a volte loro complice. Ma cosa cambia? Niente, anzi peggio per loro. La loro difesa è la libertà di parola! Ma cheppalle. Coulson e i cronisti inglesi beccati non hanno mai osato usare il principio della libertà di parola come difesa perché sapevano che la libertà di parola non è mai assoluta. Il diritto di un indagato/imputato a un processo equo è più sacro del diritto della libertà di parola del giustiziere Travaglio e dei suoi complici di sputtanare chiunque. Pubblicare intercettazioni telefoniche mentre un'indagine è ancora in corso e prima di un processo vuol dire per forza fare il processo in piazza prima del processo vero. Di conseguenza - necessariamente - ogni prova viene inevitabilmente inquinata. Ecco perché in Italia non è mai possibile capire se un imputato sia colpevole o no, vedi il caso Amanda Knox? In Inghilterra, uno che fa come fa Travaglio e colui che gli fornisce le intercettazioni (la magistratura italiana) vanno in galera subito. Il reato si chiama contempt of court (oltraggio alla corte) ed è gravissimo. Esiste qualcosa del genere in Italia?
La cosa incredibile, per uno come me nato a Londra e giornalista dal 1983, è che nessun giornalista né alcun giudice viene mai punito. Figuriamoci Travaglio. Poi bisogna dire una cosa: i giornalisti stranieri non capiscono nulla della realtà italiana. Molti di loro fanno copia e incolla di Corriere della Sera e La Repubblica e buona notte. Il giornalista straniero, specialmente quello anglosassone, si fida implicitamente dell'imparzialità della magistratura: pensa che dove ci sia fumo ci sia anche l'arrosto. Quando ci sono di mezzo i pm italiani, i tabloid o la stampa di sinistra c'è sempre fumo. Ma non c'è arrosto.

E la magistratura di cui si parla è questa.

Il procuratore Gozzo indagato per aver passato notizie ad “Il Fatto Quotidiano”, scrive Emiliano Stella on4 luglio 2014 su “”L’ultima ribattuta”. Che “Il Fatto Quotidiano” fosse un’organo di stampa vicino alla Magistratura lo si era intuito. Scoop, esclusive, rivelazioni non si ottengono per caso. E l’indagine che vede coinvolto il procuratore aggiunto di Caltanissetta Nico Gozzo suona come una conferma di questo sospetto. Il giudice è stato rinviato a giudizio dal gip di Catania Oscar Biondi (la Procura etnea è competente per le indagini sui colleghi nisseni), e su di lui pende la pesante accusa di rivelazione di segreto d’ufficio. Il procedimento è stato avviato dopo la pubblicazione di alcune conversazioni, intercettate in carcere, intercorse tra Totò Riina ed i suoi familiari. I dialoghi erano finiti sulle pagine de “Il Fatto Quotidiano”, in articoli a firma di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, ed erano costituiti da frasi in apparenza innocue tipo: “Quest’anno la Juve è una bomba”. Passaggi attenzionati dagli inquirenti in quanto potenzialmente messaggi in codice, riferiti probabilmente al proposito di togliere rumorosamente di mezzo un magistrato palermitano che indaga sulla trattativa Stato-mafia. A seguito di questa pubblicazione furono perquisiti gli appartamenti dei due giornalisti de “Il Fatto”, in cui venne rinvenuto un pc contenente un file che indicherebbe Gozzo come l’autore della fuga di notizie. “Il Fatto Quotidiano”, nel dare la notizia, ha tracciato un profilo di Gozzo. “Per anni pm a Palermo, ha sostenuto l’accusa al processo all’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri. A Caltanissetta, da procuratore aggiunto, ha riaperto e coordinato le indagini sulle stragi di Capaci e sull’attentato di via D’Amelio consumato all’ombra della cosiddetta trattativa Stato-mafia per cui pende un processo a Palermo”. Un modo per rendere giustizia ad un Magistrato scivolato su una buccia di banana o l’ipotesi, nascosta tra le righe, che lo si voglia incastrare per un peccato veniale e sottrarlo alle sue scomode indagini?

Il tribunale di Catania ha rinviato a giudizio Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, per violazione del segreto. Il mastino dell’antimafia avrebbe svelato a Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco, oltre che a un cronista locale, le intercettazioni in cui Riina diceva “quest’anno la Juve è una bomba”…, scrive Mariateresa Conti per "il Giornale". Finisce nei guai il procuratore aggiunto di Caltanissetta Domenico Gozzo, il pm - già accusatore di Marcello Dell'Utri - che coordina le nuove indagini sulle stragi del '92. Il Gip di Catania lo ha rinviato a giudizio per un reato difficilmente contestato alle toghe, violazione del segreto d'ufficio. Secondo l'accusa, sostenuta dal collega procuratore aggiunto degli uffici etnei Carmelo Zuccaro, sarebbe stato lui a «passare» al Fatto quotidiano le notizie relative ad alcune conversazioni intercettate, in carcere, tra il superboss Totò Riina e i suoi familiari. La prima udienza del processo si svolgerà a ottobre. Una bomba. Anche perché Nico Gozzo è uno dei magistrati di punta della Procura di Caltanissetta, il pm che sta riscrivendo la storia delle stragi, smantellando di fatto i primi processi sugli eccidi di Capaci e via D'Amelio viziati dalla falsa collaborazione di Vincenzo Scarantino. Processi istruiti quando a Caltanissetta era procuratore capo Giovanni Tinebra, che a propria volta adesso è procuratore generale a Catania, dove ora Gozzo dovrà presentarsi nell'insolita veste, per lui, di imputato. Che sulla pubblicazione di quelle intercettazioni (in una di esse Riina diceva: «Quest'anno la Juve è una bomba», frase letta come minaccia di attentato a uno dei pm della trattativa Stato-mafia) ci fosse una linea dura si era capito immediatamente. A ottobre del 2013, quando erano stati pubblicati gli articoli sul Fatto e sul quotidiano online LiveSicilia, era scoppiato il putiferio. E nel mirino in prima battuta erano finiti i giornalisti, i cronisti del Fatto Quotidiano Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, e il cronista di LiveSicilia Riccardo Lo Verso, sottoposti a perquisizione a casa e nelle redazioni. Proprio nell'abitazione di uno dei cronisti del Fatto sarebbero stati rinvenuti dei file che attestavano contatti col procuratore aggiunto nisseno. Immediata era stata l'apertura dell'inchiesta, trasferita a Catania per competenza, visto che è la procura etnea ad occuparsi di fatti che riguardano i magistrati nisseni. Ora l'udienza preliminare contro Gozzo. E il rinvio a giudizio del magistrato, che sarà difeso dall'avvocato palermitano Francesco Crescimanno. Per un pm nei guai, un altro ex pm che non se la passa proprio bene, da quando è tornato alla ribalta delle cronache diventando assessore alla Legalità a Pompei: Diego Marmo, l'accusatore di Enzo Tortora. Ieri Il Mattino ha pubblicato una lettera della compagna del presentatore tv, Francesca Scopelliti. Una lettera durissima, a dispetto delle scuse per l'errore commesso affidate a 30 anni di distanza, da Marmo, al quotidiano Il Garantista. Una lettera amara, in cui la compagna di Tortora chiede al sindaco di Pompei, Nando Uliano, di ritirare la delega all'ex pm. «Una semplice domanda, sindaco Uliano – scrive la Scopelliti dopo aver ricostruito l'odissea giudiziaria del presentatore tv – avrebbe mai dato la delega ai lavori pubblici a un ingegnere che ha costruito un ponte crollato il giorno dopo dell'inaugurazione? Diego Marmo è un magistrato che - perseguendo un innocente e dando mostra di colpevole negligenza e di spaventosa protervia – ha fatto crollare la giustizia, ha offeso il diritto, ha umiliato quella toga che invece dovrebbe, secondo il dettato costituzionale, essere una garanzia per i cittadini. Marmo dovrebbe, per dignità, dimettersi, ma so che non lo farà. E allora chiedo a lei un atto di coraggio: ritiri quella delega». Nella lettera la compagna di Tortora ricorda con amarezza le parole usate da Marmo durante la requisitoria del processo di primo grado, la definizione di Tortora come «cinico mercante di morte», l'accusa di essere stato eletto con i voti della camorra. Un teorema poi franato in Appello e in Cassazione: «Non fu – ricorda la Scopelliti – semplicemente un errore, come se ne fatto ovunque e quindi anche nei tribunali: fu, come la definì Giorgio Bocca, una pagina vergognosa di “macelleria giudiziaria”».

E poi c'è Di Matteo, piccolo Ingroia in lite col Colle. Di Matteo che indaga sulla trattativa Stato-mafia insulta Renzi, Cav, Quirinale e Csm come faceva il suo predecessore, scrive Massimiliano Scafi su “Il Giornale”. Ingroia? No, quello vero non c'è, ha perso le elezioni, non s'è più visto, è sparito dai radar. Ma niente paura, ecco a voi il sostituto. Si chiama Antonino Di Matteo, pure lui è di Palermo, pure lui fa il pm antimafia, pure pretende di spiegare al Parlamento come si fanno le leggi e forse, sempre come il suo predecessore, pure lui si butterà in politica. Del resto Beppe Grillo sul suo blog l'ha già incoronato, «l'Italia onesta di Di Matteo», e lo aspetta. Intanto l'Ingroia-bis si dà parecchio da fare. Attacca il Cav, colpevole di «gravi reati» e capo di un partito che ha tra i suoi «fondatori un soggetto colluso con Cosa Nostra», e questo quasi non fa più notizia. Se la prende anche con Matteo Renzi, che «tratta con un condannato» per fare le riforme. Ma il bersaglio grosso è ancora il Quirinale, è quel Giorgio Napolitano che «condiziona il Csm» perché vuole trasformare i pm in passacarte e che, per di più, si rifiuta di scendere in Sicilia per testimoniare al processo sulla presunta trattativa con il Male. Incastrare il Colle dev'essere il suo chiodo fisso. Due anni fa Di Matteo, con Ingroia, fu protagonista del conflitto davanti alla Corte costituzionale, sollevato e vinto dal Quirinale, sull'inutilizzabilità nel processo Stato-mafia delle telefonate intercettate a Napolitano. Due giorni fa la Procura ha ribadito in udienza l'istanza di ascoltare al più presto il capo dello Stato come testimone, sebbene il presidente abbia chiesto con una lettera di cancellare la sua deposizione: «Non ho da riferire alcuna conoscenza utile al processo». La Corte d'Appello deciderà a settembre e non mancheranno altre polemiche. Ma Ingroia-bis ha pensato di portarsi avanti con il lavoro approfittando delle manifestazione per il ventiduesimo anniversario della strage di via D'Amelio, dove Paolo Borsellino saltò in aria con la sua scorta, per rilanciare la palla. Rosy Bindi, presidente della commissione Antimafia, fischiata nell'indifferenza generale. Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco Vito, arrestato la prima volta da Falcone e Borsellino, trattato come un eroe sebbene condannato in via definitiva per riciclaggio del tesoro illecito raccolto dal padre mafioso. Le agende rosse sventolate come ai bei tempi della Rivoluzione civile dell'Ingroia originale. Di Matteo, per illustrare il suo programma politico, non poteva sperare in un palcoscenico migliore e l'assoluzione in appello di Berlusconi nel processo Ruby era troppo fresca per non approfittarne: «In una sentenza della Corte di Cassazione è accertato che un partito diventato forza di governo nel 1994 ha annoverato tra i suoi ideatori e fondatori un soggetto da molto tempo colluso con Cosa Nostra e che da molti anni fungeva da intermediario consapevole dei loro rapporti con l'imprenditore milanese». E oggi, s'indigna, «quell'imprenditore condannato per reati gravi discute con il presidente del Consiglio di riformare la legge elettorale e la Costituzione alla quale Paolo Borsellino aveva giurato fedeltà». Dunque il Patto del Nazareno è «un'onta». Così non va, «bisogna trovare la forza di reagire». Come pure, insiste Di Matteo, «non si può assistere in silenzio al tentativo di trasformare il pm in un burocrate sottoposto alla volontà del proprio capo, di quei dirigenti nominati da un Csm schiacciato e condizionato da pretese correntizio e da indicazioni sempre più stringenti del suo presidente», cioè, Napolitano. Ingroia è tornato? «No - spiega Fabrizio Cicchitto - questo è solo un mediocre imitatore».

BERLUSCONI ASSOLTO: I MANETTARI ROSICANO....

18 luglio 2014. Ruby, Berlusconi assolto: crolla il teorema di Ilda Boccassini, scrive “Libero Quotidiano”. Nel giorno della lettura della sentenza di primo grado, la grande accusatrice, la nemica giurata, la toga rossa, in aula non c'era. Non se l'era goduto quel "trionfo", Ilda Boccassini, la pm che più di tutti ha architettato il teorema-Ruby. Teorema che ha retto solo in primo grado: nella sentenza d'appello Silvio Berlusconi ne esce senza macchia. Assolto dal reato di concussione e da quello di prostituzione minorile. Ilda la rossa non era in aula nemmeno alla lettura del secondo grado. Buon per lei, perché forse, nel momento dell'assoluzione, tutti gli obiettivi dei fotografi, piuttosto che l'ex premier, sarebbero andati a cercare il suo volto. Già, perché ogni storia, ogni battaglia, ha dei vincitori e degli sconfitti. E se tra chi vince, ora, c'è Berlusconi insieme al suo avvocato, Franco Coppi, tra chi perde c'è soprattutto lei, la Boccassini. Il suo teorema crolla. Il suo sogno sfuma. A condannare Berlusconi, lei non ci riesce. L'impresa, semmai, è riuscita all'ormai mitologico Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale di Cassazione che condannò l'allora leader Pdl nella sentenza Mediaset. Oppure è riuscita. Della Boccassini restano impresse nella memoria le roboanti frasi nell'ultima requisitoria prima della sentenza di primo grado: chiese sei anni di reclusione - cinque per prostituzione minorile, uno per concussione - e l'interdizione a vita per il Cavaliere (richiesta accolta e anzi aumentata di un anno). Parlò senza dubbio alcuno di "un sistema prostitutivo organizzato per il soddisfacimento sessuale di Silvio Berlusconi". Un sistema che, a detta sua, era "provato oltre ogni ragionevole dubbio". La sentenza di oggi, però, riscrive la storia. Su Ruby affermava che "si prostituiva" e che "ha fatto sesso con Berlusconi ricevendone dei benefici". Per non farsi mancare nulla, su Karima aggiunse anche che il Cavaliere "sapeva che la ragazza era minorenne". Ilda credeva di sapere tutto, si spingeva ad affermare che "Ruby aveva da Silvio Berlusconi direttamente quello che le serviva per vivere in cambio delle serate ad Arcore". Poi le ironie sul "doppio lavoro" di Nicole Minetti, "pagata dal contribuente" ed "addetta alla gestione" delle cosiddette Olgettine. La violenta arringa di Ilda la rossa, in quel giugno del 2013, dopo la presunta prostituzione minorile si spostava sul reato di concussione, che secondo il teorema togato si sarebbe concretato con la telefonata di Berlusconi al capo di gabinetto della Questura di Milano, Piero Ostuni. La celeberrima telefonata della "nipote di Mubarak", la chiamata dopo la quale la marocchina fu affidata alla Minetti. La Boccassini, anche in questo caso, era sicura: "Ho potuto dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio che quella notte i vertici e funzionari della Questura a seguito di una interferenza del presidente del Consiglio rilasciarono la minore e la affidarono a una prostituta, tramite la Minetti". Peccato però che la verità processuale, oggi, stabilisce che la concussione "non sussiste". Infine, della Boccassini, si ricorda la conclusione della requisitoria, in cui chiese di negare a Berlusconi anche le attenuanti generiche. Tra i motivi, "i testimoni a libro paga" e "l'invasione del palazzo di giustizia da parte di persone delle istituzioni". Si riferiva alla manifestazione dei parlamentari del Pdl. Un mare-magnum di accuse, di infamità. Un teorema crollato, svanito con una doppia, totale, assoluzione. Ma in Italia, le toghe, per i loro errori ancora non pagano.

Chi sono i giudici che hanno assolto Berlusconi. I tre giudici della seconda Corte d’Appello di Milano che hanno ribaltato la sentenza con cui il Tribunale aveva condannato il leader di Forza Italia a sette anni di carcere per il "caso Ruby", scrive Luca Romano su “Il Giornale”. Dopo un processo durato tre udienze e tre ore di camera di consiglio, la Corte d’Appello di Milano ha assolto Silvio Berlusconi per il caso Ruby, ribaltando la sentenza dell'anno scorso.

Vediamo chi sono i tre giudici.

Enrico Tranfa - Sessantanove anni, in magistratura dal 1975, ha esercitato in gran parte a Milano. Negli anni ’90 è stato all’ufficio Gip. Come giudice delle indagini preliminari, nel periodo di Mani Pulite, si era occupato di uno dei filoni dell’inchiesta sugli appalti Anas e di quella sulla centrale dell’Enel a Turbigo per cui dispose l’arresto, tra gli altri, dell’ex assessore lombardo in quota alla Dc Serafino Generoso. In quegli anni ha seguito alcune tranche delle inchieste sulla corruzione all’interno della Gdf e sulla tangentopoli nel mondo della sanità. Nel 1997 è stato gip di "lastre pulite", lo scandalo per cui fu arrestato, tra gli altri, il medico Giuseppe Poggi Longostrevi. L’anno dopo come gup ha mandato a giudizio 4 persone per presunti finanziamenti illeciti alla corrente migliorista del Pc-Pds e ha rinviato a giudizio l’ex assessore Massimo De Carolis e altri cinque per la vicenda di corruzione legata al depuratore Milano Sud. Nel 2002 è stato nominato presidente del Tribunale del Riesame di Milano. Come giudice d’appello nell’ottobre dell’anno scorso ha confermato la condanna a tre anni di carcere per Ubaldo Livolsi per la bancarotta di Finpart.

Concetta Lo Curto - Cinquantuno anni, magistrato dal 1990, Concetta Lo Curto è stata giudice al Tribunale di Milano, prima all’ottava sezione penale e poi alla terza dal 1995 al 2013 quando poi è passata in Corte d’Appello. Nel 2010 assolse Massimo Maria Berruti (allora deputato Pdl), imputato per la vicenda Mediaset (la sua posizione era stata stralciata da quella di Berlusconi e degli altri).

Alberto Puccinelli - Entrato in magistratura nell’89, Alberto Puccinelli, 54 anni, qualche mese fa è stato il giudice relatore al processo di appello che lo scorso aprile si è concluso con la prescrizione per Berlusconi, imputato per la vicenda del "nastro Unipol".

Ruby, Berlusconi assolto: le reazione degli anti-Cav raccolte da “Libero Quotidiano”. 18 luglio 2014 Silvio Berlusconi assolto da entrambi i capi di imputazione nel secondo grado del processo Ruby. Il reato di concussione "non sussiste", mentre quello di prostituzione minorile "non costituisce reato". Una gioia per l'ex premier, uno schiaffo e una tremenda delusione per gli anti-Cav militanti e tutti i manettari che avrebbero voluto vedere inferta a Berlusconi la mazzata finale, quella condanna a sette anni e all'interdizione a vita che, oltre a tagliarlo fuori definitivamente e - forse - da tutto, gli sarebbe costata la revoca dell'affidamento dei servizi sociali e, dunque, gli arresti domiciliari. Ma così non è andata. Silvio è ancora vivo. A barcollare sono i suoi oppositori, e qui andiamo a passare in rassegna le loro reazioni.

Il togato Gad - Si parte da Gad Lerner, che sul suo blog scrive: "La sentenza emessa dalla Corte d'Appello di Milano mi lascia decisamente perplesso ma non può che essere rispettata (...). Gli italiani sono ormai in grado di esprimere un giudizio morale sulle “cene eleganti” e sul comportamento dell’allora capo del governo". E continua: "La sentenza giunge come una bomba sugli equilibri politici del paese. La Procura di Milano subisce una sconfitta bruciante, anche se conferma come l'autonomia della magistratura sia un bene prezioso in uno Stato democratico". Lerner non risparmia Niccolò Ghedini: "Se Berlusconi si fosse rivolto per tempo a avvocati di valore come Franco Coppi, anziché a personaggi come Ghedini...". Lerner conclude: "La resurrezione politica dell'ex Cavaliere ha dell'incredibile ma è un fatto compiuto. Ora avrà più titolo nel presentarsi come l'interlocutore principale di Renzi, rafforzando il patto del Nazareno." Infine un riferimento a Renzi stessi: "Da questo punto di vista, credo che la sentenza non dispiaccia affatto al presidente del consiglio in carica".

Barba-Fatto - La rassegna prosegue poi con Gianni Barbacetto, anti-Cav della prima ora e firma manettara del Fatto Quotidiano, che affida il suo pensiero a Twitter. Dispiaciuto per la non-condanna di oggi, ricorda quella di un anno fa...

La "Savonarola" - Quindi la grillina Roberta Lombardi, deputata ed capogruppo alla Camera del Movimento 5 Stelle. Lei, ai toni da Savonarola, ci ha ormai abituato. Contro Berlusconi, certo, e anche contro tutto l'universo mondo. Oggi, però, si concentra su Silvio, e vomita tutta al sua delusione su Facebook: "Non è vero che le sentenze non si commentano. A volte si commentano da sole".

Zuccate - Poi è il turno Vittorio Zucconi, firma di Repubblica e direttore del sito del quotidiano, che quotidianamente bombarda Berlusconi. Un assoluto tic, quello di Zucconi contro il Cav. Lo sfogo viaggia su Twitter. Non avendo la possibilità di esultare per una condanna la butta sulla provocazione.

Vomitino - Una nota di merito per il grillino Giuseppe Brescia, che a onor del vero, a differenza della sgangherata pattuglia pentastellata, fino ad oggi non si era fatto granché notare per castronerie, complotti, scie chimiche o bestialità diffuse. Ma al Brescia, oggi, viene un conato di vomito.

Deiezioni - Come sempre, Sabina Guzzanti ci va giù con "eleganza". Tempo fa si esercitò nella retorica della morte, augurata a Berlusconi. E oggi che Berlusconi non lo hanno demolito, la comica col vizietto dell'insulto infamante, si lancia - su Twitter - in una volgare intemerata dal sapore complottista che, forse, tira in ballo un po' tutti (giudici, Berlusconi, Renzi, etc...).

Incassi - Spiritoso il direttore de Il Post, Luca Sofri, che da buon giornalista pensa al futuro del settore, che vive - come è noto - una profonda crisi.

Fanghiglie - Non ci si può mica dimenticare di Roberto Saviano, che però non reagisce e piomba in un catatonico e assordante silenzio. E allora lo ricordiamo con quanto aveva scritto su Facebook all'indomani della condanna in primo grado, quando su Facebook pontificava: "Il mio pensiero va a Ilda Boccassini che ha lavorato con disciplina e prudenza, nonostante il fango e le pressioni. Ha vinto il diritto anche grazie a lei e al suo lavoro non condizionato, non forzato, basato su prove rigorose e riscontri". Il fango? Le pressioni? Di fango, qui, ne è stato - copiosamente - gettato solo contro al signor Berlusconi. E Saviano, ora, che dice?

Travaso di bile e insulti degli anti berlusconiani. Dalla Guzzanti a Gad Lerner a Lucia Annunziata: il popolo anti Cav non accetta l'assoluzione, scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. Volti cupi tra i manettari. Travasi di bile nelle schiere anti Cav. Peggio degli incubi peggiori. L'assoluzione, appunto. Perché "il fatto non sussiste". Da far venire le traveggole a qualcuno, da causare svenimenti e mancamenti ad altri. La decisione della Corte d'Appello di Milano al processo Ruby è una tremenda delusione per gli anti berlusconiani militanti che da giorni sognavano l'ennesimo colpo giudiziario ai danni del leader di Forza Italia Silvio Berlusconi. E invece la condanna a sette anni e all'interdizione a vita che, oltre a tagliarlo fuori definitivamente dall'agone politico, gli sarebbe costata la revoca dell'affidamento ai servizi sociali e, dunque, gli arresti domiciliari è stata annullata, cancellata, azzerata. Un fulmine a ciel sereno per gli odiatori di professione che contro Berlusconi ci hanno costruito la carriera di una vita. "La sentenza emessa dalla Corte d'Appello di Milano - scrive Gad Lerner sul blog - mi lascia decisamente perplesso ma non può che essere rispettata. Gli italiani sono ormai in grado di esprimere un giudizio morale sulle “cene eleganti” e sul comportamento dell’allora capo del governo". Al giornalista l'assoluzione proprio non va giù: "La sentenza giunge come una bomba sugli equilibri politici del paese. La Procura di Milano subisce una sconfitta bruciante, anche se conferma come l'autonomia della magistratura sia un bene prezioso in uno Stato democratico". Quindi la conclusione: "La resurrezione politica dell'ex Cavaliere ha dell'incredibile ma è un fatto compiuto. Ora avrà più titolo nel presentarsi come l'interlocutore principale di Renzi, rafforzando il patto del Nazareno". Anche al Fatto Quotidiano la notizia è rimasta un po' indigesta. Su Twitter Gianni Barbacetto si affretta a ricordare il processo sui diritti tv: "Ora si dimenticheranno tutti che è comunque condannato definitivo per frode fiscale. Bazzecole". Non una parola di scuse per le campagne di fango sulle inutili intecettazioni trafugate dai faldoni del Rubygate. Nemmeno un mea culpa per tutto il fango gettato contro l'ex premier e le persone a lui care pur di linciare un governo democraticamente eletto dagli italiani. Adesso chi risarcirà il Cavaliere delle campagne infamanti portate avanti dal Fatto Quotidiano e, più in generale, dalla stampa progressista? Di questi problemi etici, va da sé, Barbacetto se ne infischia. Come se ne infischiano a Repubblica dove rimangono sbigottiti davanti a "una sentenza clamorosa". Su Twitter Vittorio Zucconi non perde certo l'occasione per punzecchiare (a distanza) Berlusconi: "Se le sentenze di assoluzione sono 'politiche', lo sono anche quelle di condanna". Se i giornalisti progressisti punzecchiano con la penna, gli anti Cav più sanguigni passano direttamente agli insulti. Sabina Guzzanti non ci va giù leggera: "Un paese in cui ai posti di comando ci sono solo subdoli pezzi di merda #ruby". Parole e insulti di fuoco da parte di una "comica" che non molto tempo fa augurò al leader del centrodestra la morte. Molto livoroso il commento che Lucia Annunziata affida all'Huffington Post, il sito che dirige: "Tutti a casa, compagni. La guerra è finita e noi la abbiamo persa. Per venti lunghi anni abbiamo dubitato del nostro Premier, lo abbiamo chiamato puttaniere, e lo abbiamo accusato di uso privato del suo potere. Sbagliato. L'uomo è in verità un politico integerrimo. Altro che rottamazione. È quello che ci grida, dall'alto dei suoi scranni, il potere togato, quello stesso che abbiamo venerato per anni, e come smentirlo ora, ora che ha trasformato in un niente il reato di prostituzione minorile e di concussione". E insiste: "La prima è che la parte che mi fa più pena di questa sentenza (sì, ho detto pena) non è la assoluzione dal reato di prostituzione minorile... Penosa è l'assoluzione dal reato di concussione. Fatemi capire: un premier può telefonare in Questura e fare pressione sui dirigenti dello Stato, sui dipendenti da cui dipende il rispetto della legge, e questo gesto non è pressione, è una legittima iniziativa".  Poi con una punta di sarcasmo finge di dar ragione ai berlusconiani: "La seconda lezione da trarre da questa sentenza è fare tanto di cappello al centrodestra italiano. Ha sempre detto che i giudici sono politicizzati. Che sia vero? Oppure i giudici sono molto attenti ai climi stagionali, come spiegarsi altrimenti oscillazioni così radicali tra il massimo di una sentenza e la assoluzione". Conclude quasi rassegnata, senza far venir meno il proprio senso di superiorità: "Una generazione esce sconfitta da questa sentenza, ha avuto torto. Ma speriamo che chi ha vinto abbia davvero ragione, e che sia valsa tutta la pena che si è dato. Non vorrei trovarmi poi nei panni di chi è vittorioso a breve e si vergognerà in futuro".

Lucia Annunziata dopo l'assoluzione di Berlusconi: "La magistratura fa pena", scrive “Libero Quotidiano”. "Tutti a casa, compagni. La guerra è finita e noi la abbiamo persa". Esordisce così Lucia Annunziata dalle colonne digitali dell'Huffington Post. Parla dell'assoluzione di Silvio Berlusconi e lei, anti-Cav militante (il suo scontro in tv con l'allora premier è nella storia dell'italico piccolo schermo), riconosce di aver perso. "L'uomo è in verità un politico integerrimo", scrive con parecchio sarcasmo. "Ci rassegniamo dunque. C'è chi vince e c'è chi perde, e tocca accettare le sconfitte", aggiunge dopo aver ospitato sull'Huffington, poco prima della sentenza, un articolo in cui spiegava perché 7 anni per Berlusconi nel processo Ruby erano troppi. Attacco alle toghe - Dopo aver riconosciuto la sconfitta, l'Annunziata passa all'attacco, e spiega che questa sentenza le fa "pena". "La prima parte che mi fa più pena di questa sentenza (sì, ho detto pena)", spiega, è "l'assoluzione dal reato di concussione. Fatemi capire: un premier può telefonare in Questura e fare pressione sui dirigenti dallo Stato sui dipendenti da cui dipende il rispetto della legge, e questo gesto non è pressione, è una legittima iniziativa?". Una domanda retorica, quella di Lucia, che non vuole in verità alcuna risposta. Fa effetto, però, notare come nel giorno della sentenza favorevole a Berlusconi, chi come l'Annunziata è sempre ed incondizionatamente stato dalla parte della magistratura, passi ad attaccare la magistratura stessa. "Penosa", di fatto, poiché una sentenza che fa "pena" è tutta imputabile alle toghe. Una clamorosa piroetta, quella di Lucia, che dal Tribunale di Milano, evidentemente, si aspettava ben altra "punizione" per il leader di Forza Italia. "Giù il cappello, ma..." - L'intemerata prosegue con "la seconda lezione da trarre da questa sentenza", che è "fare tanto di cappello al centrodestra italiano. Ha sempre detto che i giudici sono politicizzati. Che sia vero? Oppure i giudici sono molto attenti ai climi stagionali, come spiegarsi altrimenti oscillazioni così radicali tra il massimo di una sentenza e la assoluzione?". Alza il tiro, Lucia. Lo alza contro le toghe, ma anche contro Matteo Renzi e Giorgio Napolitano. Già, perché, scrive, "c'è da dire che un vantaggio c'è nell'attuale soluzione: c'è da #starsereni. Quando nel futuro rileggeremo la storia d'Italia il leader politico che ha firmato le riforme che cambieranno il sistema in vigore dal 1948 non sarà definito un condannato, bensì un politico integerrimo e, in più, perseguitato politico. C'è da#starsereni - scimmiotta l'hashtag preferito del premier -: abbiamo un padre della patria a fianco di Matteo Renzi". Risveglio complottardo - E dopo le allusioni, neppur troppo velate, la direttrice dell'Huffington Post rende cristallino il suo pensiero. "Che poi questo era il punto, no? L'Italia aveva bisogno di riforme, e se serviva farlo con un condannato, è bastato togliere la condanna. Un classico caso di montagna che è andata da Maometto". Per Lucia, "l'assoluzione risolve così il maggior problema che aveva il Premier, e il maggiore che il presidente Napolitano voleva risolvere". Dunque l'accusa, diretta, neppure nascosta con la retorica, o almeno non troppo: "Si immagina che il Presidente (Napolitano, ndr) sia stato correttamente terzo mentre si giocavano i destini di tante persone. Ma forse i giudici sanno interpretare oltre che le parole anche i silenzi". Dopo l'assoluzione di Berlusconi, dunque, l'Annunziata si risveglia avvelenata con la magistratura. E complottarda: dietro questa sentenza, lascia intendere, ci sarebbero la "manina" del premier e i "silenzi" di Napolitano...

Come rosicano...Tg3, Berlusconi assolto è la quarta notizia. E Bianca Berlinguer non c'è, scrive “Libero Quotidiano”. Succede che Silvio Berlusconi, per una volta, è stato assolto. Giustizia per il Cavaliere nel secondo grado del processo Ruby. Una notizia. Anzi, una notizia clamorosa. Olgettine, prostituzione, fango, telefonate, pressioni sugli ufficiali in questura: tutto polverizzato dalla nuova sentenza. La concussione "non sussiste" mentre la prostituzione minorile "non costituisce reato". Ecco, qualcuno in Italia - giusto per usare un eufemismo - oggi se n'è accorto: su Twitter, sui siti, in radio e in tv non si parla d'altro. Altri, invece, se ne sono accorti un po' meno. Per esempio il Tg3, il notiziario di Telekabul, la testata televisiva più a sinistra dell'italico piccolo schermo, diretta dalla zarina Bianca Berlinguer. Priorità - Succede che assolvono Berlusconi - una rinascita, per il leader di Forza Italia - e succede che al Tg3 la notizia venga relegata al quarto titolo nel rullo di apertura (quello in cui si presentano le notizie, per intendersi). Si parte dal boeing abbattuto in Ucraina e dalle accuse rivolte da Barack Obama a Vladimir Putin. Quindi si passa all'invasione di terra nella Striscia di Gaza, all'operazione militare intrapresa dall'esercito israeliano. Poi ecco l'assoluzione di Berlusconi. E la scaletta presentata nel rullo che precede il tg viene rispettata nel tg stesso. Il boeing, il serivzio sulla guerra a Gaza e poi anche un collegamento in diretta con Gerusalemme. E il Cavaliere? Il Cavaliere è stato assolto, e al Tg3 questa assoluzione la reputano una notizia meno importante, quasi una notizia marginale (o forse al Tg3 la notizia non piace affatto?). Ora di grazia: 19.12, il momento in cui viene lanciato il servizio sulla vittoria in tribunale del leader di Forza Italia. Quasi a metà del telegiornale. Fatto curioso, per un telegiornale che nella politica ha il suo core business. Bianca sparita - Ma che al Tg3 si respirasse un clima di lutto lo si era capito anche da un altro particolare, che si era manifestato sin dai già citati titoli letti durante il rullo. No, la voce non era quella consueta e familiare della direttrice. Bianca Berlinguer non si sentiva. Lei, sempre in prima linea per l'edizione delle 19, putacaso nel giorno dell'assoluzione di Berlusconi era sparita. Puf, scomparsa. Eclissata. Meglio non farsi vedere nel giorno di una notizia - per loro - funerea? Ah, saperlo. Di sicuro - video canta - alla scrivania del notiziario di Telekabul c'era Tatiana Lisanti. Scura in volto, sia chiaro. Perché Berlusconi che vince, per il Tg3, è una clamorosa sconfitta (da relegare come quarto titolo, al 12esimo minuto, eccetera eccetera...).

Eppure in precedenza si erano dette cose diverse.

Incredibile a casa-Travaglio. Ruby, Il Fatto Quotidiano: "Sette anni a Berlusconi sono troppi", scrive “Libero Quotidiano”. All'antivigilia della sentenza di secondo grado nel processo Ruby, un clamoroso articolo del Fatto Quotidiano. Il giornale vicediretto da Marco Travaglio, che lo vorrebbe vedere in galera a vita, stavolta "assolve" Silvio Berlusconi. L'ingrato compito tocca a Marco Lillo nell'articolo dal titolo: "Ruby, perché sette anni sono troppi". Più che esplicito l'attacco del pezzo: "Per una volta i legali di Berlusconi non hanno tutti i torti: la condanna di primo grado nel caso Ruby non sta in piedi. Se la pena non fosse ridotta in appello non sarebbe uno scandalo". Favori al Pd - Incredibile ma vero, casa-Travaglio, la casa delle manette - soprattutto se ipoteticamente strette attorno ai ponti di Berlusconi - parla di pena sbagliata e troppo pesante nei confronti di Berlusconi stesso. L'articolo spiega: "Quando c'è costrizione, dopo la riforma Severino del 2012, il minimo di pena è 6 anni. La vecchia concussione (compresa quella per induzione) prevedeva pene da 4 ai 12 anni mentre la nuova induzione indebita introdotta dalla legge Severino va da 3 a 8 anni. Per evitare il mezzo colpo di spugna per l'induzione contestata dal pm a Berlusconi - prosegue il Fatto -, il Tribunale ha ricondotto la telefonata di Berlusconi alla costrizione e gli ha affibbiato 4 anni più 2 per l'aggravante. In tal modo - si spiega - la Questura resta una vittima e la legge Severino non produce alcun effetto in favore dell'ex premier, come invece è stato per il Pd Filippo Penati". La "costrizione" - Insomma, il cuore della questione è la "costrizione", contestata da Berlusconi, ma pure dal Fatto. La presunta costrizione contro il capo di gabinetto della Questura di Milano, Pietro Ostuni, "costretto" a rilasciare Ruby. Eppure, ricorda Lillo, a Ostuni un margine di libertà restava eccome. Poteva benissimo richiamare Berlusconi e dire: "Scusi presidente ho verificato: Ruby è marocchina, non è egiziana e non è la nipote di Mubarak. (...) Se non l'ha fatto non è stato per una costrizione di Berlusconi ma per una sua scelta. Con tutta probabilità Berlusconi avrebbe battuto in ritirata e, se fosse andato avanti con le sue richieste, allora sì che si sarebbe potuta ipotizzare una costrizione degna di sei anni di galera". Non in questo caso, però. "Prova debolissima" - Il lungo articolo, inoltre, ricorda come la legge Severino lasci al pubblico ufficiale l'alternativa, secca: decidere tra la costrizione - con cui punire severamente, nel caso, Berlusconi - oppure l'induzione indebita a liberare Ruby, dove però sarebbe colpevole anche Ostuni, complice nella "liberazione" di Ruby. Il sospetto affacciato anche dal Fatto, dunque, è che si sia preferito evitare di toccare la Questura, dipingendola anzi come vittima. Si ricorda poi come la scelta di contestare la "costrizione" sia "figlia della posizione assunta da Edmondo Bruti Liberati", capo delle toghe di Milano, vicinissimo alla Boccassini e fiero oppositore del Cav. Si ricorda, inoltre, come la prova per contestare la costrizione stessa sia debolissima: "Secondo De Petris, i funzionari della Questura si accorsero subito che Ruby non era la nipote di Mubarak ma non dissero nulla al premier proprio per il loro stato di costrizione. La tesi è deboli". Una circostanza evidente a tutti, che la tesi sia "debole". Anche al Fatto. Anche a Travaglio, che di fronte a una macroscopica persecuzione - quella delle toghe al Cav - alza bandiera bianca e, via Marco Lillo, "assolve" il leader di Forza Italia (o, almeno, gli concede uno sconto di pena).

Lucia Annunziata, anche lei dopo Marco Travaglio "assolve" Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. «Appello Ruby: perchè va abbassata quella condanna». A spiegare perchè una condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi sono troppi, e le ragioni per cui almeno uno dei due capi di imputazione dovrebbe essere «derubricato» non è un esponente forzista ipergarantista, bensì Ida Dominijanni sull’Huffington Post. L’autrice dell’analisi non è certo una firma «prezzolata» del Cavaliere, bensì una giornalista che ha lavorato per molti anni a Il Manifesto, cioè il quotidiano comunista, e che alle ultime elezioni politiche era candidata con Sinistra e libertà. Nessuno può sospettarla di connivenza col “nemico” storico, eppure la giornalista e filosofa sostiene che «sulla base di argomenti formali, la condanna di Berlusconi potrebbe e dovrebbe essere derubricata», che nello svolgimento del processo è venuto a galla un «teorema inquisitorio» e che, oltretutto, bisognerebbe chiedersi se è «giusto l’uso di intercettazioni per un reato (...) che ha a che fare così profondamente con la vita intima». Non si tratta di una opinione come tante. La direttrice dell’Huffigton post è Lucia Annunziata, che fu protagonista di uno scontro accesissimo con l’allora premier in tv. È lei ad avere scelto di dare molta visibilità al “post”, promuovendolo a terzo titolo del suo sito di informazione per tutto il pomeriggio di ieri. A più d’uno è venuto il dubbio che si trattasse di un endorsement. Se così fosse, non sarebbe certamente la marcia indietro più clamorosa. Soltanto due giorni fa il Fatto quotidiano, del quale è vicedirettore Marco Travaglio, si era schierato sulla stessa linea. «Per una volta i legali di Berlusconi non hanno tutti i torti: la condanna di primo grado nel caso Ruby non sta in piedi. Se la pena fosse ridotta in appello non sarebbe uno scandalo», ha scritto il giornalista Marco Lillo.

Proprio lui...Gianfranco Fini: "Dobbiamo essere tutti lieti per l'assoluzione di Berlusconi", scrive “Libero Quotidiano”. Fece di tutto, nel 2010, per farlo cadere, per mandarlo a casa e, perché no, per raccoglierne l'eredità politica. Fece di tutto per disarcionare Silvio Berlusconi, travolto dalle inchieste e dal fango del processo Ruby, quel processo Ruby nel quale oggi, venerdì 18 luglio, il Cavaliere è stato assolto. Lui è Gianfranco Fini, ed orchestrò una complessa manovra parlamentare per mandare a casa il governo Berlusconi del quale prima dello strappo - "Che fai, mi cacci?" - era il secondo animatore. L'epilogo fu quel 14 dicembre 2010 che è entrato di diritto nella storia della politica italiana. Nei mesi precedenti, la crisi del centrodestra, con Fini - presidente della Camera - che si era smarcato mettendo in discussione la leadership del Cavaliere con un'escalation di critiche, polemiche ed attacchi. Fu quel 14 dicembre dopo il quale si cominciò a parlare dei "Responsabili" e dopo il quale iniziò l'eclissi politica di Fini, sparito nel nulla con il suo Futuro e Libertà. Quattro anni fa... - Quel 14 dicembre, in Parlamento, si votò la sfiducia nei confronti dell'allora leader del Pdl: a sostenerla anche l'Udc. In mattinata Berlusconi riferì sul suo operato al Senato, dove poi incassò la fiducia con 162 sì, 135 no e 11 astenuti. Quindi il duello alla Camera, molto meno scontato, e sul quale Fini - nuovo totem della sinistra, da Repubblica al Partito democratico - si era giocato tutto. Perdendo. La seduta fu caotica, tra insulti al presidente di Montecitorio, risse e sospensioni. I numeri erano ballerini e incerti. Sembrava che il Cav potesse essere detronizzato. Ma intorno alle 14, a sorpresa, alla Camera la spuntò Berlusconi: per soli 4 voti - 314 a 311 - incassò la fiducia. Per paradosso furono fondamentali proprio quattro voti "finiani", che all'ultimo momento utile cambiarono idea: Catia Polidori, Maria Grazia Siliquini e Giampiero Catone, mentre Silvano Moffa non partecipò al voto. Il resto, è storia. La nota di Fini - Ad aggiungere un ulteriore tassello alla storia, oggi che Berlusconi è stato assolto da quelle accuse che lo spinsero a sfiduciarlo, è proprio Gianfranco Fini. "Al di là del giudizio politico su Berlusconi - ha scritto in una nota l'ex futurista -, tutti gli italiani, e quindi anche i suoi avversari, devono essere lieti della sua assoluzione, perché la magistratura, annullando una sentenza di primo grado che ha pesantemente discreditato le nostre istituzioni in ogni angolo del mondo, ha confermato di essere pienamente autonoma ed imparziale". Fini, dunque, esprime la sua soddisfazione perché le nostre istituzioni non sono state infangate. O meglio, perché il fango è stato lavato via da questa sentenza di secondo grado. Lo stesso fango che Fini accreditò cercando di cacciare Berlusconi da Palazzo Chigi. Dopo il commento di Gianfranco, non si è fatta attendere la risposta - su Twitter - dell'ormai vecchissimo amico Maurizio Gasparri: "Vergognoso ed ipocrita il commento di Fini alla assoluzione di Berlusconi. Contribuì al disastro politico. Meglio che taccia".

Rubygate, le eredità del pornoprocesso. Adesso che B. è stato assolto, è il momento di riavvolgere il nastro e farsi molte domande scomode, scrive di Annalisa Chirico su “Panorama”. E chi lo dice a Ilda? Toccherà dirglielo piano, farla accomodare e sillabare: AS-SOL-TO. Sì, lo hanno assolto. Con formula piena. Concussione? Il fatto non sussiste. Prostituzione minorile? Non c’è traccia di reato. Chissà se dalle parti della procura di Milano riusciranno a farsene una ragione. È sempre possibile ricorrere in Cassazione contro il verdetto pronunciato oggi dal giudice Enrico Tranfa, presidente della seconda sezione penale della Corte d’appello di Milano. Nel pornoprocesso che non sarebbe mai dovuto cominciare il ribaltamento della condanna di primo grado a sette anni di carcere non può essere ridotto alla normale fisiologia del sistema giudiziario italiano. Certo, i gradi di giudizio sono tre, può capitare che un verdetto di primo grado sia riformato in appello. Ma il Rubygate non ha nulla di normale. Sin dalla fase delle indagini preliminari con gli interrogatori in gran segreto che danno sfogo alla fervida fantasia di una giovanissima ragazza che favoleggia di notti con noti calciatori, attori americani, ministre mezze nude. Un’orgia di chiacchiere che anziché essere censurate come tali eccitano i procuratori di Milano a tal punto da dispiegare una macchina poliziesca fatta di intercettazioni a strascico e pedinamenti su larga scala.  Decine di utenze intercettate, chiunque metta piede ad Arcore – nella villa privata dell’allora premier – viene schedato e registrato per giorni e giorni. Il fine assai chiaro è intercettare loro per intercettare lui, inseguire loro per accerchiare lui, nel suo spazio domestico, in assenza delle autorizzazioni previste dalla legge. Il fascicolo della pubblica accusa in primo grado è un glossario erotico, non si capisce quali siano i reati, dove siano le prove, è tutto un pullulare di dettagli piccanti, statuette di Priapo e scollature osé. Eppure il processo inizia. A giudicare sono tre donne, l’indignazione pseudofemminista fa il resto. Che sboccate queste testimoni, si presentano truccate e ben vestite, incedono con passo deciso su tacchi vertiginosi mentre stringono in una mano il manico di una borsa griffata. Ma lei come fa a permettersi questi oggetti? Qual è la sua vera fonte di guadagno? Non sarà mica che lei si prostituisce? Ah, le cene erano eleganti ma lei è sicura che non si è mai prostituita?  E come la mettiamo con i "toccamenti lascivi" tra i presenti? Lei faceva addirittura il trenino? Ebbene sì, questo è il tenore delle domande che i pm rivolgono alle trentatré testimoni. Adesso che lui è stato assolto, sebbene la sentenza non sia ancora definitiva, chi ripagherà quelle donne additate al pubblico ludibrio come "puttane per forza"? La sentenza è inequivocabile: la concussione non sussiste. E la domanda è come i giudici del primo grado abbiano potuto condannare a sei anni di carcere (più uno per prostituzione minorile) sulla base delle prove addotte dall’accusa? Il funzionario della questura ha sempre negato di aver subito pressioni. La ricostruzione della telefonata in udienza non lasciava dubbi: fu una cortese richiesta di interessamento, nessuna costrizione. Del resto, se dovessero intercettare tutte le telefonate in arrivo negli uffici della pubblica amministrazione italiana, saremmo tutti imputati. Di telefonate così se ne fanno a iosa, sono segnalazioni, cortesie richieste, ma da qui a configurare un reato di concussione ce ne passa. Per non parlare dell’oltraggioso rapporto sessuale con l’ultradiciassettenne Karima che dal canto suo, tra mille fantasticherie, è sempre stata ferma su un punto: io con lui non ho mai avuto alcun rapporto sessuale. Anche qui niente testimonianze a sostegno dell’accusa, una montagna di prove invece circa l’inaffidabilità della giovane che, stando ai verbali dei carabinieri, era solita falsificare la propria identità, millantare una parentela inesistente con l’ex rais Mubarak e farsi passare per una 24enne. Ma niente, in primo grado non hanno sentito ragione. Le pornoipotesi dei pm sono diventate il Verbo di una condanna già scritta. Possiamo considerare questa la "normale fisiologia" di un processo? Possiamo accontentarci di un verdetto giusto quando chi ha montato l’ingiustizia con il potere di una toga non sarà mai chiamato a rispondere di alcunché? C’è poco da stare tranquilli perché "questa" giustizia può colpire anche te. Quel che consola è che a Milano una corte equilibrata e imparziale, scrupolosamente fedele soltanto alla legge e non alle partigianerie politiche, ha decretato la vittoria del diritto. In Italia siamo ancora liberi di puttaneggiare senza essere arrestati per oltraggio alla pubblica morale. Però, a lei, diteglielo piano.

Un'inchiesta basata sul nulla che ci è costata una fortuna. Centinaia di migliaia di euro spesi, decine di funzionari statali coinvolti per un processo senza prove, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Possono quattro anni di inchiesta che ha coinvolto decine e forse centinaia di funzionari statali, che è costata centinaia di migliaia di euro, che ha portato all'impeachment di un presidente del consiglio, essersi basati sul niente? Risposta: sì, possono. Assoluzioni e condanne fanno parte della logica del diritto, e sarebbe un paese pericoloso un paese dove tutti i processi si concludessero con la condanna degli imputati. E vale anche in questo caso: come spiega oggi, ancora groggy per il successo, l'avvocato Filippo Dinacci, "questa sentenza è la prova che il sistema funziona, e ci sono dei giudici che fanno il loro dovere". Anche a Milano, nel palazzo di giustizia dove più volte Berlusconi ha denunciato di sentirsi assediato da una falange compatta di magistrati decisi a toglierlo dalla scena, e dove invece tre giudici gli riconoscono oggi la più clamorosa delle assoluzioni. Tutto normale, dunque, tutto "fisiologico", come dicono i cultori del diritto? Non proprio. Perché il processo Ruby non è stato un processo normale. Non lo è stato fin dalle indagini preliminari, quando su questo fascicolo si sono investite risorse di uomini e mezzi inimmaginabili per altri reati dello stesso tipo, e spesso anche per reati più gravi: una macchina investigativa di quelle che si usano solo per dare la caccia ai mafiosi e ai terroristi. Non lo è stato quando, come accertato dall'indagine del Consiglio superiore della magistratura, nella inchiesta ha fatto irruzione, di fatto impossessandosene, un procuratore aggiunto della Repubblica che non aveva alcun titolo per condurre l'inchiesta, se non la ferrea determinazione di incastrare l'indagato alle sue colpe. A Milano, chiunque viva dentro il palazzo di giustizia e sia dotato di un minimo di onestà intellettuale, sa che il processo Ruby è stato vissuto da una parte della magistratura milanese come l'occasione finale e irripetibile di portare l'attacco finale al Cavaliere, all'arcinemico, quello delle leggi ad personam, delle battute battute sui magistrati, dei giudizi sferzanti sulla "casta" delle toghe. Questa battaglia finale è stata combattuta senza risparmio di mezzi investigativi, giudiziari e mediatici. Le fughe di notizie hanno accompagnato, sostenuto e a volte preparato i passaggi cruciali dell'inchiesta. Nel frattempo Berlusconi finiva condannato in via definitiva per un'altra indagine della procura milanese, quella sui diritti tv. Ma la caccia non si è fermata, e forse è stato uno sbaglio strategico non indifferente. Perché ora al Cavaliere che sconta ai servizi sociali la condanna per frode fiscale, viene dato uno strumento formidabile per rivendicare il suo status di ingiustamente perseguitato. Si poteva fare finta di niente, davanti ai primi racconti di Ruby, quando dopo il fermo casuale iniziò a riempire pagine su pagine di verbali su quanto accadeva ad Arcore? Forse no, non si poteva. Una qualche forma di verifica delle pirotecniche rivelazioni della ragazza era doverosa. Ma sarebbe stato più saggio fermarsi un passo prima dell'irruzione in camera da letto, una volta assodato che se qualcuna delle fanciulle varcava quella soglia lo faceva di sua spontanea volontà. E che l'unica minorenne presente a quelle serate, ovvero la stessa Ruby, era universalmente considerata - per quel che diceva e per come appariva - assai più che maggiorenne. Ma il vero errore di ostinazione la Procura lo ha commesso quando si è convinta che in questa indagine evanescente l'arma vera per incastrare Berlusconi, più di quanto avveniva ad Arcore, fosse quanto successo la notte del 27 maggio 2010, la telefonata di Berlusconi in questura a Milano. È quella chiamata, cui Ilda Boccassini attribuisce lo status del grave reato di concussione, l'architrave cui viene appesa l'intera indagine. E pazienza se si scopre strada facendo che Ruby quella notte venne rilasciata come altre decine di adolescenti prima e dopo di lei, prassi vecchia, consolidata, e universalmente applicata senza bisogno di parentele con Mubarak. È quel l'architrave che esce demolita dalla sentenza di oggi. I giudici della corte d'appello lasciano alla Procura un piccolo, quasi impercettibile, premio di consolazione, quando dicono che tra Berlusconi e Ruby qualcosa accadde, anche se non fu reato. Ma la concussione, la costrizione, il timor panico che la chiamata di Berlusconi avrebbe ingenerato nei vertici della polizia milanese vengono retrocessi brutalmente a quello che furono: una telefonata. Nell'ottobre di quattro anni fa, fu il procuratore Edmondo Bruti Liberati a comunicare ai giornalisti che, conclusi i gli accertamenti, i fatti di quella notte erano risultati corretti. Forse fu, da parte di Bruti, una mossa tattica, un depistaggio. Ma col senno di oggi, se ci si fosse fermati li sarebbe stato meglio per tutti. E si sarebbero risparmiati un sacco di soldi.

Il paradosso. Antonio Esposito scopre i giudici di parte: la toga anti-Berlusconi ricusa i membri del Csm "eletti dal Pdl", scrive  Malabarba su “Libero Quotidiano”. Ma guarda, adesso il giudice non ha piacere di essere giudicato. E non è mica l’unico paradosso, perché Antonio Esposito vive un singolare contrappasso: gli tocca utilizzare gli stessi argomenti che tante volte sono usciti dalle labbra di Silvio Berlusconi. Curioso, visto che Esposito presiede la sezione della Cassazione che ha condannato a quattro anni il Cavaliere nel processo Mediaset. Ma non c’è troppo da stupirsi, perché questa vicenda è un piccolo capolavoro di contorsionismo, per non scomodare il surrealismo. Andiamo con ordine, però. Esposito si è guadagnato le prime pagine dei giornali nell’agosto scorso grazie a un’intervista al Mattino di Napoli in cui anticipava le motivazioni della condanna a Berlusconi. Motivo per cui questo venerdì dovrebbe presentarsi di fronte al Consiglio superiore della magistratura per essere giudicato. Per lui sarebbe la seconda volta, dopo che la prima commissione del Csm ha archiviato. Ebbene, a quanto pare Esposito non gradisce affatto. Mercoledì, sul Fatto quotidiano, Marco Lillo ha rivelato che il giudice ha inviato una nota a Michele Vietti (presidente del Csm) in cui sostiene che il giudizio nei suoi confronti sarebbe viziato. In pratica, il giudice non gradisce i giudici. Nel suo scritto, Esposito spiega di aver parlato, il 6 marzo scorso, con il primo presidente della Cassazione Giorgio Santacroce, il quale gli avrebbe detto: «Al Consiglio c’è un clima non buono... Vedo un clima ostile». Insomma, al Csm sarebbero prevenuti. Beh, c’è da dire che questa l’abbiamo già sentita, per l’esattezza da Berlusconi (il quale, dopo tutto, ha qualche ragione in più di Esposito per lamentarsi di quanto accade in aula). Adesso però arriva il bello. Perché se Silvio ce l’aveva con le toghe rosse, il giudice Esposito teme nemici di azzurro vestiti. In particolare, ricusa i consiglieri Francesco Vigorito e Annibale Marini. Motivo? Quest’ultimo, secondo lui, è stato «eletto e proposto anche come vicepresidente del Csm su indicazione del partito (Pdl) che compatto si è mosso a difesa del capo condannato». Questa è bella. Perché Marini non è stato eletto dal Pdl, ma dal Parlamento riunito in seduta comune, che lo ha indicato come componente laico del Csm. Ma ad Esposito non va bene lo stesso, Parlamento o non Parlamento, Marini proprio non lo gradisce. E qui siamo all’ennesimo paradosso. Esposito si lamenta del fatto che chi deve giudicarlo potrebbe non essere imparziale. Da che pulpito. Lui, infatti, ha condannato Berlusconi anche se c’era più di un motivo per sospettare della sua imparzialità. Nello scorso agosto, Stefano Lorenzetto ha raccontato sul Giornale di aver partecipato a una cena a cui era presente anche il giudice Esposito. Il quale si sarebbe lasciato andare a dichiarazioni decisamente poco opportune sul Cavaliere e su alcune deputate del Pdl (di cui riportava le imprese amatorie che avrebbe appreso da intercettazioni telefoniche). A quella stessa cena, il giudice - parlando con un altro commensale - avrebbe definito Silvio «un grande corruttore» e «il genio del male». Ecco, il sospetto che un pochino potesse essere prevenuto sorge. Non è finita. Perché a un’altra cena, organizzata dall’imprenditore Massimo Castiello, Esposito avrebbe di nuovo sparlato del Cavaliere. Per l’esattezza, avrebbe detto: «Berlusconi mi sta sulle palle. Se lo incrocio gli faccio un mazzo così». Chiaramente il giudice ha smentito, ma alla cena era presente un testimone d’eccezione ovvero l’attore Franco Nero. Il quale, intervistato da chi scrive, confermò che Esposito provava «ostilità» nei confronti di Berlusconi. E adesso il giudice ricusa i suoi giudici perché non imparziali. Complimenti.

Le Brigate nere del voyeurismo giudiziario. La Corte d’appello di Milano ha smontato il processo Ruby-Berlusconi, una fiction contrabbandata per processo penale, mentre un manipolo di giornalisti guardoni insiste nel tentativo di lapidazione pubblicando intercettazioni irrilevanti, scrive Giorgio Mulè su “Panorama”.  Lo dico con assoluta certezza: sono stati anni di piombo. Anni putridi, in cui nel nome della superiore necessità di distruggere quel nemico personale e politico chiamato Silvio Berlusconi, s’è sparato ad alzo zero come negli anni più bui della Repubblica. Non abbiamo sentito il rimbombo dei colpi di P38 ma abbiamo sulla nostra pelle le cicatrici di micidiali pallottole di carta mentre le molotov sono state sostituite da vergognose serpentine televisive. E d’altronde l’humus quello era. Quello, cioè, di un gruppo di reduci del ’68 che occhieggiavano alla lotta armata senza impugnare una pistola perché tanto a fare il lavoro sporco ci pensavano i poveracci della classe proletaria. È il loro «stile», che inizia col lurido manifesto contro il commissario Calabresi dopo la morte di Giuseppe Pinelli. Venne pubblicato per tre settimane di fila dal settimanale L’Espresso nel giugno del 1971, meno di un anno dopo Luigi Calabresi veniva ucciso dalla manovalanza di Lotta continua su incarico dell’ideologo del gruppo Adriano Sofri. Quel manifesto agghiacciante che «ricusava» la legge e bollava come «torturatore» il commissario lo firmarono in 757 (andatevi a leggere chi lo sottoscrisse e vi sembrerà di partecipare a una riunione di redazione del gruppo L’Espresso). Non è stato perciò sorprendente, per me, leggere la scorsa settimana su L’Espresso un articolo che dava conto di una intercettazione telefonica del luglio 2013 tra me e Marina Berlusconi della quale ignoravo l’esistenza non essendomi mai stata consegnata dai signori magistrati. Ma all’Espresso, ribadisco, lo stile impunito della casa è questo. Che permette, nonostante una diffida legale, la pubblicazione di un atto penalmente irrilevante qual è questa conversazione tra il direttore e il suo editore, non indagato, in un procedimento comunque archiviato ben quattro mesi fa. Una barbarie assoluta. La cui presunta rilevanza pubblica viene giustificata meschinamente ai propri lettori con il bla bla politico che vuole Marina Berlusconi prossimo leader del centrodestra. Quell’intercettazione, tra l’altro, rappresenta uno dei punti più bassi nella storia giudiziaria italiana. Per settimane, infatti, sull’onda di un’ipotesi di reato offensiva e palesemente farlocca (si presumeva che io avessi corrotto qualcuno per avere uno scoop) vennero ascoltate migliaia di telefonate su 24 utenze in uso al sottoscritto, al vicedirettore esecutivo, al capo della redazione romana, a un giornalista e a un collaboratore. Una gigantesca operazione degna della peggiore Stasi. Un anno fa, appena seppi di questa enorme infamia mascherata da investigazione, misi in guardia dal fatto che «conversazioni personalissime» sarebbero potute finire «nelle mani di giornalisti guardoni» e invocai l’intervento del presidente della Repubblica in qualità di presidente del Consiglio superiore della magistratura, di garante della Costituzione laddove è contemplata la libertà di stampa. Il presidente Napolitano, che ha dimostrato anche recentemente di saper far sentire (eccome!) la sua voce al Csm, non ha mosso un dito. Non l’hanno fatto, se è per questo, neppure i miei colleghi conigli che rappresentano la categoria. Il risultato è che, certamente dall’interno di un ufficio giudiziario, è stata consegnata all’Espresso la telefonata numero 831 (vi rendete conto quante migliaia ne hanno ascoltate!) tra me e Marina Berlusconi. Invocare non un intervento, ma anche una sola parola di condanna da parte di Matteo Renzi sarebbe inutile: il ragazzino deve essere così atterrito dai signori in toga che – pensate in che mani siamo – ha smesso di mandare sms o rispondere ai miei da quando il 30 maggio scorso ho scritto che i nostri scambi sarebbero stati letti anche da «qualche pubblico ministero che controlla le mie comunicazioni».  Il silente ministro della Giustizia, che un giorno sì e l’altro pure corre a confessarsi con Repubblica, potrebbe trovare la favella visto che è alle prese con la riforma anche delle intercettazioni telefoniche. Faccia il seguente esercizio per sentire scorrere un brivido: provi a pensare se una sua conversazione intercettata in cui magari si sfoga e, che so io, dà dello stronzo a Renzi potrebbe finire sui giornali. Brutta roba, eh? Però, vedete, questa è ahimè l’Italia che negli anni di piombo ha lapidato Berlusconi e chiunque gli stesse vicino. È l’Italia che ha additato come «guardie armate» di Berlusconi facenti parte di un’orrida Struttura Delta alcuni direttori del gruppo Mondadori, Mediaset e del Giornale colpevoli, Repubblica dixit, di «propiziare “atti sediziosi” e inquinare fatti incontrovertibili» come l’indagine su Ruby. È l’Italia che ha calpestato la dignità di ragazze che frequentavano Arcore dandogli lo stigma di puttane a vita. È l’Italia dei maître-à-penser che nel 2011 sputavano sul proprio Paese scrivendo sul New York Times articolesse per spiegare «Why have italians, especially the women, tolerated Mr. Berlusconi for so long?». È l’Italia che ha criminalizzato chi si riconosceva in una parte politica e che si è bevuta, nel 2011, un colpo di Stato morbidissimo consumato sull’onda del voyeurismo giudiziario e sull’imbroglio dello spread. Adesso che la Corte d’appello di Milano ha smontato questa fiction agghiacciante contrabbandata per processo penale è il caso di ricordare ciò che Marina Berlusconi disse a Panorama, non intercettata ma in un’intervista, nel maggio del 2013 a proposito della vicenda Ruby: «Finirà tutto in una bolla di sapone, ma all’associazione della gogna non importa nulla di come andrà a finire, interessa solo la condanna mediatica. E, quando il teorema dell’accusa crollerà, quale interdizione dovrebbe essere chiesta per coloro che hanno costruito questa montatura infernale?». Vedremo adesso che cosa succederà nell’Italia del 2014 che si dice coraggiosa e che, finora a parole, vuol cambiare verso.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: Ruby e Puttanopoli sono la più grande sconfitta di Ilda Boccassini. E di qualche giornalista. Forse sì, forse è la più grande sconfitta patita della procura di Milano in vent’anni di processi ad personam contro Silvio Berlusconi. Questa non è l’America, dove un procuratore sconfitto ha delle immediate ripercussioni sulla carriera: qui un procuratore sconfitto fa subito ricorso contro il malcapitato, s’infila in cento altri processi contro di lui, se necessario prosegue la sua campagna per quindici o vent’anni, certo, sì. Ma stavolta la sconfitta non ha rimedio perché è inequivoca, netta, il reato non esiste e stop, non ci sono margini (manca soltanto il sigillo della Cassazione) e stiamo parlando del processo più rumoroso, mondialmente sputtanante e al tempo stesso più semplice da capire, l’unico che era stato ampiamente pre-giudicato dall’opinione pubblica e l’unico, soprattutto, che a suo modo pareva perduto dalla procura anche dopo la vittoria in primo grado. Ora gli esterofili si divertirebbero nel chiedersi «in quale Paese al mondo» una procura possa processare un capo del governo per concussione e prostituzione minorile e poi, dopo la sconfitta, uscirsene come se nulla fosse, come se la sua azione in nome del popolo italiano non si fosse tradotta in un sostanziale danno al popolo italiano. In quale altro Paese - Di che parliamo? Di una campagna mediatica spaventosa, senza paragoni con qualsiasi altra, migliaia di intercettazioni che hanno sputtanato uomini e donne costrette in qualche caso a rifugiarsi all’estero, una task-force di magistrati che ha strapazzato le regole pur di aggiudicarsi un processo che spettava ad altri e che ha contribuito a sfaldare la procura davanti al Csm, e tutto per una domanda che da ieri è alla portata di tutti, cittadini e giornalisti e politici e giudici di ogni orientamento, ossia questa: ci voleva tanto? Ci voleva tanto a capire che era tutta un’immensa e pruriginosa cazzata? Era così difficile - anche senza scomodare procedure e giurisprudenze - capire che quella telefonata non era una concussione? Che una concussione senza concussi resta improbabile? Che la signorina Ruby si era facilmente spacciata per maggiorenne senza esserlo? Che una furbastra e una mitomane è da considerare sempre furbastra e sempre mitomane? Che un rapporto sessuale negato, in un’aula di giustizia, non si può dimostrare per teorema? Che per anni e anni e anni ci siamo occupati solo degli stracazzi personali di Silvio Berlusconi? C’erano quelli, nelle 500 pagine di allegati che giunsero alla Camera il 17 gennaio 2011 assieme alla richiesta di perquisizione per l’ufficio di Giuseppe Spinelli, ragioniere dal quale partivano bonifici per alcune «olgettine» già ospiti delle serate a villa San Martino: c’era il «sistema Arcore», quello in cui giovani donne facevano semplicemente quello che volevano e non facevano quello che non volevano. Un giorno s’infilò una minorenne che Ilda Boccassini definì di «furbizia orientale» (anche se era marocchina e il Marocco è a Occidente) ed ecco che la mitica procura di Milano si scaraventò a perseguire il reato notoriamente più grave e urgente: un caso di sospetta prostituzione minorile. E quattro anni dopo non è una sconfitta, è un’ecatombe. Egregio vicepresidente del Csm Michele Vietti, sono queste le mazzate che distruggono la credibilità di una procura davanti all’opinione pubblica: mica gli esposti di Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati. Ecco, Bruti Liberati: mesi o anni passati a dividere l’ufficio, a favorire i suoi pubblici ministeri preferiti a scapito di altri, acrobazie procedurali per spiegare che Berlusconi era un concussore ma che i presunti concussi, i funzionari della Questura, avevano commesso solo delle scorrettezze amministrative. Paf, tutto disciolto in una sbrigativa camera di consiglio. Con la complicazione che alcuni funzionari poco collaborativi sono stati addirittura indagati per depistaggio, senza contare la complicazione ancora più complicata di un Ruby bis - il processo parallelo per corruzione di testimoni - che ora resta appeso al nulla. Il fatto non sussiste. Il fatto non costituisce reato. Senza contare che questa sentenza d’appello potrebbe ripercuotersi sulle residue puttanopoli sparse per il Paese. E poi c’è lei, Ilda Boccassini, una delle più grandi investigatrici del Paese - nessuna ironia - ma che ora rischia di gettare una luminosa carriera nell’ombra di questo processo ridicolo. Quando Berlusconi fu inquisito per la prima volta, nel 1994, lui aveva 58 anni ed era presidente del Consiglio; la Boccassini quell’anno ne aveva 45 ed era reduce da esperienze importanti in Sicilia sulle orme degli assassini di Falcone e Borsellino, e stava appunto per coinvolgere Berlusconi in inchieste pesantissime su corruzioni giudiziarie, roba tosta ma che l’hanno lasciato illeso. Poi c’è un terzo soggetto, Karima el Mahroug, detta Ruby, che in quel 1994 si limitava a ciucciare il biberon perché aveva un anno. Ora, cioè una ventina d’anni dopo, rieccoci con un Berlusconi che ha 78 anni, è ancora politicamente in sella e però è stato appena assolto da un processo imbastito ancora da lei, Ilda Boccassini, che ora ha 63 anni e l’anno scorso aveva finalmente ottenuto una pesante condanna: e per che cosa? Per una concussione e una prostituzione minorile alle quali non ha mai creduto nessuno. Imbarazzi - Non pochi, nel giorno della condanna di Berlusconi in primo grado, lessero nell’assenza di Ilda Boccassini un doppio imbarazzo: la possibile amarezza per una sconfitta o la possibile amarezza per una vittoria. Finì con la più improbabile delle vittorie, 7 anni e interdizione a vita, un collegio giudicante simbolicamente retto da tre donne. Bella figura anche la loro. Poi ci sarebbe tutto un discorso sui giornalisti, ma tanto è inutile. Ieri Marco Travaglio ha già tirato in ballo un possibile «errore giudiziario» e ha chiarito che «secondo me, a naso, hanno sbagliato i giudici d’appello». A naso: chissà con che cosa ha scritto il suo articolo, poi. «Sono curioso di vedere», ha aggiunto, «come il giudice motiva questa cosa e se è tutto regolare». All’erta, signor giudice. Infine è andato a rincarare la dose a Bersaglio Mobile, da Enrico Mentana, su La7: la parola all’esperto. «Il nostro giornale», ha concluso, «non ha una linea preconcetta per la quale Berlusconi è sempre colpevole». È simpatico, dài.

GUERRA DI TOGHE. ANCHE I MAGISTRATI PIANGONO.

Non solo Milano. Tribunale di Taranto. Guerra di toghe.

Cosa è che l’Italia dovrebbe sapere e che la stampa tarantina tace?

«Se corrispondesse al vero la metà di quanto si dice, qui parliamo di fatti gravissimi impunemente taciuti», commenta Antonio Giangrande, autore del libro “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”, pubblicato su Amazon.

Mio malgrado ho trattato il caso dell’ex Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, Matteo Di Giorgio, così come altri casi della città di Taranto. Questioni che la stampa locale ha badato bene di non affrontare. Prima che iniziassero le sue traversie giudiziarie consideravo il dr. Matteo Di Giorgio uno dei tanti magistrati a me ostile. Ne è prova alcune richieste di archiviazione su mie denunce penali. Dopo il suo arresto ho voluto approfondire la questione ed ho seguito in video la sua conferenza stampa, in cui esplicava la sua posizione nella vicenda giudiziaria, che fino a quel momento non aveva avuto considerazione sui media. Il contenuto del video è stato da me tradotto fedelmente in testo. Sia il video, sia il testo, sono stati pubblicati sui miei canali informativi. Il seguito è fatto noto: per Matteo Di Giorgio quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero. Il Tribunale di Potenza  (presidente Gubitosi), competente a trattare procedimenti in cui sono coinvolti magistrati in servizio presso la Corte d’appello di Lecce, ha inoltre inflitto la pena di tre anni di reclusione all’ex sindaco di Castellaneta (Taranto) Italo D’Alessandro e all’ex collaboratore di quest’ultimo, Agostino Pepe; 3 anni e 6 mesi a Giovanni Coccioli, 2 anni a Francesco Perrone, comandante dei vigili urbani a Castellaneta, 2 anni ad Antonio Vitale e 8 mesi ad un imputato accusato di diffamazione.

L'ex pm Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Csm, fu arrestato e posto ai domiciliari nel novembre del 2010. Le contestazioni riguardano presunte minacce in ambito politico e ai danni di un imprenditore, altre per proteggere un parente, e azioni dirette a garantire l’attività di un bar ritenuto dall’accusa completamente abusivo. Il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Complessivamente il Tribunale di Potenza ha trasmesso alla procura gli atti relativi alle testimonianze di 21 persone, quasi tutti carabinieri e poliziotti. Tra questi l’ex vicequestore della polizia di Stato Michelangelo Giusti.

Eppure Pietro Argentino è il numero due della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati.

Pietro Argentino è il pubblico Ministero che con Mariano Buccoliero ha tenuto il collegio accusatorio nei confronti degli imputati del delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana.

Possibile che sia un bugiardo?  I dubbi mi han portato a fare delle ricerche e scoprire cosa ci fosse sotto. Ed è sconcertante quello che ho trovato. La questione è delicata. Per dovere-diritto di cronaca, però, non posso esimermi  dal riportare un fatto pubblico, di interesse pubblico, vero (salvo smentite) e continente. Un fatto pubblicato da altre fonti e non posto sotto sequestro giudiziario preventivo, in seguito a querela. Un fatto a cui è doveroso, contro censura ed omertà, dare rilevanza nazionale, tramite i miei 1500 contati redazionali.

«Come volevasi dimostrare nessuno dei giornali italiani nazionali o locali ha più parlato dopo il primo maggio 2014 dei quindici anni di galera inflitti al Magistrato di Taranto Matteo Di Giorgio e dell’incriminazione per falsa testimonianza inflitta al Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino - scrive Michele Imperio -. Ma “La Notte” no. “La Notte” non ci sta a questa non informazione o a questa disinformazione. Quando assunsi la direzione di questo glorioso giornale, che ora sta per riuscire nella sua versione cartacea, dissi che avremmo sempre raccontato ai nostri lettori tutta la verità, solo la verità, null’altro che la verità e avremmo quindi sfidato tutte le distorsioni giornalistiche altrui, tutti i silenzi stampa, tutti i veti incrociati dei segmenti peggiori del potere politico. Strano cambiamento. Sarà stata l’aspirazione di candidarsi Presidente della Provincia di Taranto per il centro-destra, maturata nel 2008. Ancora alcuni anni fa infatti il giudice Matteo Di Giorgio era ritenuto il più affidabile sostituto procuratore della Repubblica della Procura della Repubblica di Taranto, tanto da essere insignito della prestigiosa carica di delegato su Taranto della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce. Subì perfino un attentato alla persona per il suo alacre impegno contro il crimine organizzato. Sette capi di imputazione! Però sin poco dopo il mandato di cattura tutti hanno capito subito che qualcosa non andava in quel processo, perché in sede di giudizio sul riesame di quei capi di imputazione la Corte di Cassazione ne aveva annullati ben tre (censure che la Cassazione, in sede di riesame, non muove praticamente mai!) e il resto della motivazione della Cassazione sembrava un’invocazione rivolta ai giudici di marito: Non posso entrare nel merito – diceva la Cassazione – ma siete sicuri che state facendo bene? Tutti i commenti della Rete su questo caso sono stati estremamente critici, quanto meno allarmati. Invece i vari giornali locali, dopo aver dato la notizia il giorno dopo, non ne hanno parlato più. Scrive invece sulla Rete – per esempio – il prof. Mario Guadagnolo, già sindaco di Taranto dal 1985 al 1990: “Premetto che io – scrive (Guadagnolo) – non conosco il dott. Di Giorgio nè ho alcuna simpatia per certi magistrati che anzichè amministrare la giustizia la usano per obbiettivi politici. Ma 15 anni sono troppi se paragonati ai 15 anni di Erika e Omar che hanno massacrato con sessanta pugnalate la madre e il fratellino di sette anni o con i 15 anni comminati alla Franzoni che ha massacrato il figlioletto Samuele. Qui c’è qualcosa che non funziona. Non so cosa ma è certo che c’è qualcosa che non funziona”. Trovo molto singolare che il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino sarà incriminato di falsa testimonianza a seguito del processo intentato contro il dott. Matteo Di Giorgio - scrive ancora l’avv. Michele Imperio su “Tarastv” e su “La Notte on line” -  A parte la stima che tutti riservano per la persona, il dott. Pietro Argentino aveva presentato al CSM domanda per essere nominato Procuratore Capo proprio della Procura di Potenza e il CSM tiene congelata questa delicata nomina da diversi anni. L'attuale Procuratore Capo di Potenza Laura Triassi è solo un facente funzioni e sicuramente anche lei aspirerà alla carica. Certamente questa denuncia terrà bloccata per molti anni una eventuale nomina del dott. Pietro Argentino a Procuratore Capo di una qualsiasi Procura. La sua carriera è stata quindi stroncata. Laura Triassi è inoltre sorella di Maria Triassi, professoressa dell'università di Napoli la quale fu incaricata della perizia epidemiologica nel processo Ilva dal noto Magistrato Patrizia Todisco, la quale è lo stesso Magistrato che già aveva denunciato alla Procura della Repubblica di Potenza il collega Giuseppe Tommasino, poi assolto e che aveva invece lei stessa assolto dal reato di concorso esterno in associazione a delinquere il noto pregiudicato A. F., mandante - fra l'altro - di un grave attentato dinamitardo a sfondo politico, che poteva provocare una strage. Il conflitto Di Giorgio-Loreto lo conosciamo già. Ma di un altro conflitto che sta dietro questo processo non ha parlato mai nessuno. Alludiamo al conflitto Di Giorgio-Fitto. Se infatti il dott. Matteo Di Giorgio fosse stato nominato presidente della provincia di Taranto sarebbero saltati per aria tanti strani equilibri che stanno molto cari all'on.le Fitto e non solo a lui. Inoltre trovo molto strano che l'on.le Raffaele Fitto, il quale fa parte di un partito molto critico nei confronti di certe iniziative giudiziarie, quanto meno esagerate, non abbia mai detto una sola parola su questa vicenda, che vedeva peraltro coinvolto un Magistrato dell'area di centro-destra. Come pure non una sola parola, a parte quelle dopo l'arresto, è stata mai detta sulla vicenda dall'attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio. E nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazzarano, nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino. Nel corso di una dichiarazione pubblica il dott. Sebastio espresse invece, in modo del tutto sorprendente, soddisfazione per l'arresto del dott. Matteo Di Giorgio e disse che auspicava che anche un secondo Magistrato fosse stato allontanato dalla Procura della Repubblica di Taranto (Argentino?). Ora, guarda un pò, anche il dott. Argentino potrebbe essere sospeso dalle funzioni o trasferito di sede....Ciò che è accaduto al Tribunale di Potenza è, quindi, come ben comprenderete, un fatto di una gravità inaudita e sottintende un conflitto fra Magistrati per gestioni politiche di casi giudiziari, promozioni e incarichi apicali, mai arrivato a questi livelli. Voglio fare alcune premesse utili perchè il lettore capisca che cosa c’è sotto. Sia a Taranto che a Potenza, patria di Angelo Sanza, sottosegretario ai servizi segreti quando un parte del Sisde voleva assassinare Giovanni Falcone e un’altra parte del Sisde non era d’accordo (e lui da che parte stava?), come forse anche in altre città d’Italia, opera da decenni una centrale dei servizi segreti cosiddetti deviati in realtà atlantisti, che condiziona anche gli apparati giudiziari e finanche quelli politici della città. Di sinistra. Così pure altra sede dei servizi segreti atlantisti questa volta di destra, opera a Brindisi. La sezione di Taranto in particolare appartiene sicuramente a quell’area politica che Nino Galloni avrebbe chiamato della Sinistra politica democristiana cioè una delle tre correnti democristiane, in cui si ripartiva la vecchia Sinistra Democristiana che erano – lo ricordo a me stesso – la Sinistra sociale capeggiata dall’on.le Carlo Donat Cattin, il cui figlio è stato suicidato-assassinato; la Sinistra morotea capeggiata dall’on.le Aldo Moro, assassinato, e poi inutilmente e per brevissimo tempo riesumata dal Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, anche lui assassinato; la Sinistra politica capeggiata dai vari De Mita, Mancino, Rognoni, Scalfaro e Prodi, i quali non sono stati mai nemmeno scalfiti da un petardo. Ma torniamo a noi e ai giudici tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio. La cui delegittimazione – per completezza di informazione – è stata preceduta da un’altra clamorosa delegittimazione di un altro Giudice dell’area di centro destra, il capo dei g.i.p. del Tribunale di Taranto Giuseppe Tommasino, fortunatamente conclusasi con un’assoluzione e quindi con un nulla di fatto. Quindi Tommasino, Di Giorgio, Argentino, a Taranto dovremmo cominciare a parlare di un vero e proprio stillicidio di incriminazioni e di delegittimazioni a carico di Magistrati della Procura o del Tribunale non appartenenti all’area della Sinistra Politica Democristiana o altra area alleata, ovvero all’area della Destra neofascista finiana. L’indagine a carico del Dott. Matteo Di Giorgio è durata circa due anni ed è stata condotta da un Maresciallo dei Carabinieri espulso dall’arma e caratterizzata dall’uso di cimici disseminate in tutti gli uffici del Tribunale di Taranto e della Procura. E’ capitato personalmente a me di essere invitato dal giudice Giuseppe Di Sabato, (g.i.p.), un Magistrato che non c’entrava niente con l’inchiesta, di essere invitato a interloquire con lui al bar del Tribunale anziché nel suo ufficio, perchè anche nel suo ufficio c’erano le cimici di Potenza. Ma c’è di più! La Sinistra Politica democristiana vuole diventare a Taranto assolutamente dominante sia in Tribunale che in tutta la città, perché corre voce che due Magistrati, uno della Procura l’altro del G.I.P., resi politicamente forti dalla grande pubblicità e visibilità del processo Ilva, starebbero per passare alla politica, uno come candidato sindaco l’altro come parlamentare, quando sarà.»

Sembra che il cerchio si chiuda con la scelta del Partito democratico caduta su Franco Sebastio, procuratore capo al centro dell’attenzione politica e mediatica per la vicenda Ilva, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Procuratore Sebastio, si può giocare a carte scoperte: il senatore Alberto Maritati alla Gazzetta ha ammesso di averle manifestato l’idea del Partito democratico di averla in lista per il Senato...

«Io conosco il senatore Maritati da tempo, da quando era pretore a Otranto. Siamo amici e c’è un rapporto di affettuosa stima reciproca. Ci siamo trovati a parlare del più e del meno... É stato un discorso scherzoso, non ricordo nemmeno bene i termini della questione».

Quello che può ricordare, però, è che lei ha detto no perché aveva altro da fare...

«Mi sarà capitato di dire, sempre scherzosamente, all’amico e all’ ex collega che forse ora, dopo tanti anni, sto cominciando a fare decentemente il mio lavoro. Come faccio a mettermi a fare un’attività le cui caratteristiche non conosco e che per essere svolta richiede qualità elevate ed altrettanto elevate capacità? É stato solo un discorso molto cordiale, erano quasi battute. Sa una cosa? La vita è così triste che se non cerchiamo, per quanto possibile, di sdrammatizzare un poco le questioni, diventa davvero difficile».

«Candidare il procuratore Franco Sebastio? Sì, è stata un'idea del Partito democratico. Ne ho parlato con lui, ma ha detto che non è il tempo della politica». Il senatore leccese Alberto Maritati, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, conferma così la notizia anticipata dalla Gazzetta qualche settimana fa sull’offerta al magistrato tarantino di un posto in lista per il Senato.

Senatore Maritati, perchè il Pd avrebbe dovuto puntare su Sebastio?

«Beh, guardi, il procuratore è un uomo dello Stato che ha dimostrato sul campo la fedeltà alle istituzioni e non solo ora con l'Ilva. Possiede quei valori che il Pd vuole portare alla massima istituzione che è il Parlamento. Anche il suo no alla nostra idea è un esempio di professionalità e attaccamento al lavoro che non sfocia mai in esibizionismo».

LUIGI ABBATE....MA L'EDITORE LO SA?

Taranto: licenziato Abbate, il giornalista sgradito a Ilva e alla politica. Blustar Tv dà il benservito al cronista protagonista di un celebre scontro con il "pr" del gruppo siderurgico e poi deriso da Vendola in una telefonata pubblicata da ilfatto.it. Ad aprile lo scontro in diretta con il deputato Pd Pelillo: "Parlerò con il suo editore", scrive Mary Tota il 26 luglio 2014 su “Il Fatto Quotidiano”. Il video che mostrava quel microfono strappato per fermare la domanda scomoda ha fatto il giro del web in pochi minuti. E così è divenuto famoso anche il nome del giornalista che chiedeva conto al patron dell’Ilva Emilio Riva dell’ottimistica interpretazione dei dati sulla qualità dell’aria di Taranto a fronte di un tasso di mortalità sempre crescente. Anche perché, quel nome, è finito al centro di una telefonata, intercettata e svelata lo scorso novembre da ilfattoquotidiano.it, tra il governatore Nichi Vendola e il braccio destro della famiglia Riva, Girolamo Archinà, artefice dello “scatto felino” con il quale ha afferrato il microfono. Oggi, a distanza di otto mesi da quell’episodio, di Luigi Abbate si torna a parlare. L’emittente per la quale lavorava lo ha licenziato. Di punto in bianco. Crisi del settore? Si, ma non solo questo. Perché in città la verità sussurrata, e a volte detta a voce appena più alta di una confidenza, è anche un’altra. Abbate è stato licenziato perché ritenuto scomodo dalla politica. Questi i fatti: un anno fa la televisione privata Blustar avvia la procedura di mobilità. Motivazione: l’Ilva ha chiuso i rubinetti, cancellando lo stanziamento annuale di 100mila euro in favore dell’emittente. L’effetto immediato è il crollo dell’equilibrio finanziario della tv – già provato dalla crisi che ha investito l’intero settore – e via alla mobilità. Fuori in cinque. Una di questi, però, impugna il licenziamento per mancato rispetto delle quote rosa tra i “superstiti”. E ha ragione, reintegro immediato. A quel punto l’azienda dispone il turn over. Dentro di nuovo la dipendente, fuori Abbate. “La legge prevede la possibilità di fare questo, ma non è un obbligo. Si può anche non fare – chiarisce il diretto interessato – e poi perché io?”. Appunto, perché lui? “Mi viene il dubbio di essere scomodo a qualcuno. Me lo chiedo. Sono scomodo alla grande industria? Sono scomodo a qualche politico? Voglio la verità”. Politica e industria. Il presunto patto d’acciaio che a Taranto ha defenestrato la classe dirigente provinciale. Abbate non si sbilancia, per ora non può. Al suo posto, però, intervengono in tanti. A cominciare da Assostampa Puglia, il sindacato dei giornalisti, che annuncia battaglia. “Non ci sono licenziamenti di serie A e di serie B a seconda delle convenienze politiche del momento – scrive il presidente Raffaele Lorusso -, è evidente che i rapporti tra grande industria e informazione a Taranto, sono ancora inquinati”. Angelo Bonelli, leader dei Verdi, incalza, centrando il cuore del pensiero comune. “A me viene più che un dubbio sul fatto che ci sia una pressione politica dietro questa scelta. Ci sono state pressioni da parte di qualcuno? Era un giornalista scomodo da eliminare? Attendiamo che sia la proprietà di Blustar a rispondere”. Risposta che è arrivata a stretto giro, rigettando le accuse “infondate e pervase di dietrologia”. “Nessuna persecuzione – chiarisce Blustar – ma solo l’applicazione della sentenza del Tribunale del Lavoro di Taranto che ha reintegrato, nel luglio 2014, un’altra giornalista costringendo al licenziamento di chi aveva i requisiti stabiliti dalla legge 223/91”. E ad averli era proprio Abbate. Ma tanto non è bastato. La teoria di Bonelli è avvalorata da Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink. “Abbate è scomodo alla politica perché mostrava l’esistenza di due verità. Da una parte quella sostenuta da noi che, con le nostre ecosentinelle pronte a fotografare i fumi dei camini, con i nostri analizzatori, pari a quelli dell’Arpa Puglia, dimostravamo che le emissioni, fuori controllo, contengono cancerogeni. Dall’altra quella dei politici che davanti a quei dati non battevano ciglio”. Nessun nome. Ma negli stessi minuti, l’associazione ambientalista, pubblica un video su Youtube. È la puntata del 30 maggio della trasmissione condotta da Abbate, ospiti in studio i parlamentari Gianfranco Chiarelli e Michele Pelillo. La discussione si incentra, ancora una volta, sul decreto Ilva allo studio del Parlamento e sui dati forniti dalle associazioni e ritenuti poco attendibili. Quando il conduttore decide di far intervenire in diretta telefonica il presidente del Fondo Antidiossina Onlus Fabio Matacchiera, Pelillo sbotta: “L’editore lo sa? Domani parlerò con l’editore. Voglio sapere se anche lui è d’accordo”. La discussione la conclude Abbate: “Siamo una televisione libera. Il Pd nella campagna elettorale ha fatto figli e figliastri, forse non siamo nelle vostre grazie e per questo diamo fastidio”. Il deputato democratico raggiunto dalla redazione de ilfattoquotidiano.it non intende rilasciare dichiarazioni a riguardo. Stando a voci bene informate, sarebbe arrivato sulle scrivanie dei magistrati tarantini del materiale a sostegno della tesi delle pressioni politiche. Starà a loro, ora, stabilire la verità. Intanto, il telefono di Luigi Abbate scotta. Sono in tanti a manifestargli, in queste ore, solidarietà. Tra questi nessun politico.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

L’UNITA’ E GLI ALTRI: FALLITI DI SERIE A E FALLITI DI SERIE B!

L’Unità, l’ultima beffa sono i pignoramenti contro Concita De Gregorio e gli ex giornalisti, scrive Jacopo Iacopini su “La Stampa”. Una chiamata implicita a star zitti e a non disturbare. Può succedere a chiunque, questa è la verità. Specialmente nei giornali con editori meno solidi, o in quelli che nascono, o ci provano. Ma non solo. Ascoltate perciò questa storia, perché non riguarda solo i giornalisti, riguarda voi. Concita De Gregorio, direttrice dell’Unità dal 2008 al 2011, e altri ventisei giornalisti del quotidiano, stanno subendo una serie molto pesante di ingiunzioni di risarcimento danni (per un totale che si aggira tra i cinque e i seicentomila euro) per cause civili perdute in primo grado. Cause civili, attenzione: quindi subito esecutive. Chi vuole rivalersi per qualche articolo non ha neanche querelato per diffamazione, spesso; ha chiesto soltanto i danni, iter più veloce e, appunto, subito esecutivo dopo il primo grado. Di solito in questi casi interviene l’editore, il giornalista (e il direttore, sempre «responsabile in solido» di tutti gli articoli) non può essere aggredito per più di un quinto dello stipendio. È ovvio perché sia così: perché altrimenti avremmo giornalisti ancor più alla mercé dei soggetti di cui scrivono di quanto già non siano, in Italia. E dunque: chi di loro vorrebbe occuparsi di cronaca giudiziaria, e peggio che mai di mafia? Chi vorrebbe mai scrivere un pezzo scomodo, o critico col potere, o magari semplicemente un corsivo sarcastico? Chi si occuperebbe di politica con articoli veri, non pure e semplici agiografie, su cose come i soldi, gli affari e la politica, i volti meno propagandati e meno indagati del Potere? Questi risarcimenti folli sono la grande chiamata a stare zitti e a non disturbare. Nel caso specifico, l’allora editore dell’Unità – la Nie aperta da Renato Soru - non esiste più, e nessuno si può rivalere su quella società. Così attaccano prevalentemente il direttore, Concita De Gregorio, che subisce un pignoramento di 398 mila euro sulla casa, e poi molti giornalisti. Fino a oggi il nuovo editore Guido Veneziani, e il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi, rispondevano che non era un problema loro ma di gestioni passate. Ieri hanno (forse) capito, e si sono fatti carico della cosa ipotizzando una soluzione: i contributi residui per l’editoria andranno a costituire un fondo per sollevare i giornalisti dai pignoramenti. Si sa, del resto, quanto l’Unità e la libertà di ogni critica stiano a cuore a Matteo Renzi. 

Fallimento dell'Unità: pignorati i beni all'ex direttore Concita De Gregorio. L'ex direttore e altri giornalisti sono stati condannati a risarcire i danni al posto della società editrice, scrive Sergio Rame su "Il Giornale". "Non sono mai stata chiamata in tribunale, né mi è mai stato chiesto di produrre carte con una difesa adeguata, se fossimo stati in grado di produrre le carte sulla base delle quali si fondavano gli articoli avremmo vinto e sono sicura che vinceremo in appello". All'anticipazione del Corriere della Sera dell'inchiesta di Report sul fallimento del quotidiano fondato da Gramsci, parlano l'ex direttore Concita De Gregorio e gli ex giornalisti dell'Unità. Stanno tutti ricevendo pignoramenti e ingiunzioni di pagamento per ripianare i debiti della società editrice Nie. Dal momento che Nie non è più in grado di pagare i creditori, il risarcimento di chi ha vinto le cause di diffamazione si riversa sui giornalisti. Da contratto, infatti, la responsabilità è ripartita tra editore, giornalista e direttore della testata in questa proporzione: 80% per il secondo che ha pubblica, 10% per il secondo che ha controllato i contenuti dell'articolo e 10% per il terzo che fisicamente ha scritto l’articolo. "Tutti e tre i soggetti però sono responsabili in solido - fa notare il Corriere della Sera - significa che se uno dei tre non è in grado di pagare, gli altri possono essere obbligati dal giudice a pagare per lui". Ed così è successo. Come riportato da Report, il tribunale di Roma ha chiesto alla De Gregorio di pagare 400mila euro decretando così il pignoramento di casa e redditi. Anche un'altra giornalista, Natalia Lombardo, ha dovuto fare i conti con il pignoramento della propria abitazione.

L’Unità, De Gregorio: “Costretta a risarcire con miei beni anche i danni dell’editore fallito”, scrive “Il Fatto Quotidiano”. “Da settembre dello scorso anno non solo sto rispondendo personalmente con il mio patrimonio per la mia quota di responsabilità come direttore, ma sono già alla quarta transazione economica con i creditori, e si tratta di somme ingente, per coprire anche le quote che dovrebbe pagare l’editore che non c’è più”. È quanto afferma Concita De Gregorio, ex direttrice de L’Unità dal 2008 al 2011, durante una conferenza stampa che si è svolta alla Camera per cercare di sensibilizzare anche la politica su quello che sta avvenendo ai giornalisti che hanno lavorato presso il giornale fondato da Antonio Gramsci e che non è più in edicola dal 31 luglio 2014 dopo che la Nie, che ha editato l’Unità dal 2001 fino alla sua chiusura, è stata messa in liquidazione e i libri sono stati portati in tribunale con un debito complessivo di 32 milioni di euro. All’incontro erano presenti anche il tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi, alcuni parlamentari e molti giornalisti che hanno lavorato all’Unità. “È una vicenda – ha aggiunto la De Gregorio – che segna uno spartiacque e che può riguardare chiunque. Se domani, infatti, i cinesi o i thailandesi, invece di comprarsi una squadra di calcio, decidessero di acquistare un gruppo editoriale e facessero l’operazione classica di chiuderla e riaprirla, da quel momento esatto direttore, editorialisti, redattori e inviati sarebbero personalmente chiamate a rispondere di un debito che non è il loro debito. Qui – sottolinea De Gregorio – non si tratta di sottrarsi dalle responsabilità individuali, ma di essere costretti a partecipare col proprio patrimonio al posto degli azionisti“. Secondo l’anticipazione dell’inchiesta che andrà in onda a Report, domenica alle 21.45 su Rai3, e pubblicata su corriere.it i quali, alla De Gregorio hanno già pignorato beni per pagare il conto delle cause che l’Unità ha perso in questi anni.

Fallimento dell'Unità: pignorati beni all'ex direttore Concita De Gregorio. Conferenza stampa alla camera: la De Gregorio e altri giornalisti sono stati condannati a risarcire i danni al posto della società editrice. Pignoramenti e ingiunzioni di pagamento per oltre 400 mila euro. L'Unità non paga la sua quota perché è in liquidazione, scrive Emanuele Bellano su “Il Corriere della Sera”. "Concita De Gregorio e altri giornalisti de L'Unità stanno pagando anche il conto dell'editore e questo non è giusto. Non solo, questa situazione rischia di minare profondamente la libertà di stampa nel nostro Paese perché nulla esclude che possa verificarsi in futuro anche in altri giornali". È quanto affermano giornalisti de L'Unità ed esponenti della Fnsi, il sindacato dei giornalisti, riuniti nella conferenza stampa che si è tenuta questa mattina presso la Camera dei Deputati per cercare di sensibilizzare anche deputati e senatori su quello che sta avvenendo a L'Unità. All'incontro erano presenti il tesoriere del PD, Francesco Bonifazi, e alcuni parlamentari. In questi giorni i giornalisti de L'Unità stanno ricevendo pignoramenti e ingiunzioni di pagamento per una cifra che finora supera i 400 mila euro, dopo essere stati condannati in una serie di cause per diffamazione a risarcire i danni al posto della società editrice Nie (Nuova Iniziativa Editoriale Spa). Ma cosa è successo? A giugno scorso la situazione finanziaria di Nie, editore de L’Unità dal 2001, è precipitata: gli amministratori hanno deciso di mettere in liquidazione la società che ha portato i libri in tribunale con 32 milioni di debiti. Da quel momento Nie non è più ufficialmente in grado di pagare i creditori, compresi coloro che hanno vinto le cause di diffamazione e hanno diritto al risarcimento da parte de L'Unità. E qui sorge il problema: la responsabilità nelle cause di diffamazione è ripartita tra editore, giornalista e direttore della testata in questa proporzione: 80 per cento per l’editore, 10 per cento per il direttore, 10 per cento per il giornalista che ha scritto l’articolo. Tutti e tre i soggetti però sono responsabili in solido: significa che se uno dei tre non è in grado di pagare, gli altri possono essere obbligati dal giudice a pagare per lui. Ed è proprio quello che è accaduto: oberata dai debiti Nie non può pagare e così il tribunale ha deciso che a risarcire i soggetti diffamati dovranno essere i giornalisti, per il totale della somma. “Questo comporta – dice Concita De Gregorio, direttore de L’Unità dal 2008 al 2011 – che io dovrò pagare ai creditori non la mia quota di responsabilità, ma la mia più quella di Nie, che naturalmente è molto più grande”. I giornalisti coinvolti sostengono di non avere ricevuto in questi anni dalla segreteria de L’Unità né dall’ufficio legale alcuna informazione e di non essere stati aggiornati sull’evoluzione delle cause in corso. Secondo Giuseppe Macciotta, avvocato de L’Unità, invece i giornalisti hanno ricevuto informazioni costantemente. “Non sono mai stata chiamata in tribunale, né mi è mai stato chiesto di produrre carte – dice Concita De Gregorio – con una difesa adeguata, se fossimo stati in grado di produrre le carte sulla base delle quali si fondavano gli articoli avremmo vinto e sono sicura che vinceremo in appello”. Intanto il tribunale di Roma ha intimato all’ex direttore di pagare 400 mila euro di risarcimenti decretando nei suoi confronti il pignoramento della casa e dei redditi. Natalia Lombardo, altra giornalista de L’Unità, deve pagare 18 mila euro e anche lei ha ricevuto il pignoramento della casa. Nei suoi 14 anni di vita Nie ha ricevuto oltre 60 milioni di euro di fondi pubblici per l’editoria e il Partito Democratico, che dentro la società ha avuto poteri straordinari, finora ha fatto finta di niente.

Soru: «Mi spiace per De Gregorio ma sull’Unità ho perso tanto». L’imprenditore ed ex governatore: anch’io sono parte lesa. Ci ho rimesso fino all’ultimo euro». «Sono solidale. Non sapevo di questa storia. L’ho scoperta martedì su Twitter», scrive Fabrizio Roncone su “Il Corriere della Sera”. La notizia è dell’altro ieri: gli ex direttori e gli ex giornalisti del quotidiano l’Unità, dopo il fallimento della società editrice, sono rimasti da soli a pagare le cause civili e le querele (a Concita De Gregorio, che ha diretto il giornale dal 2008 al 2011, l’ufficiale giudiziario ha pignorato beni per oltre 400 mila euro). Conferenza stampa a Montecitorio.  Accuse precise. Contro il Pd, il partito di riferimento, e contro Renato Soru, l’editore del rilancio mancato. «Ci hanno abbandonati». «Soru è sparito nel nulla».

Soru avrà qualcosa da replicare? (Parlamentare europeo del Partito democratico, ex presidente della Regione Sardegna, inventore di Tiscali, 57 anni, da Sanluri: testimoni raccontano di averlo visto leggere il bilancio di un’azienda in cinque minuti, un uomo geniale e gelido, la timidezza confusa spesso con la supponenza; unico vezzo conosciuto: portare il colletto della camicia bianca abbottonato ma senza cravatta, in puro stile sardo ).

«È molto gentile a chiamarmi: ma io, sinceramente, ne so quanto lei di questa storia» (risponde al telefono, da Bruxelles).

Non ci credo.

«Eppure è assolutamente così».

Vuol farmi credere che non sapeva di...

«Martedì pomeriggio ero a Londra: e lì sono stato avvertito che, su Twitter, la De Gregorio mi tira dentro questa vicenda. Ma io non so di cosa si stia parlando. Né la De Gregorio né il Pd mi hanno mai informato. Per capirci qualcosa, questa mattina ho parlato con l’avvocato Macciotta, che segue l’intera vicenda e che, tra l’altro, portai io all’Unità».

Quindi nemmeno il suo avvocato di fiducia l’ha mai avvertita di ciò che stava accadendo?

«Credo abbia voluto risparmiarmi l’ennesimo dispiacere».

Soru...

«È così. L’avvocato Macciotta sa bene che ripensando alla mia esperienza di editore dell’Unità, già provo da tempo un enorme miscuglio di sensazioni, tra amarezza e delusione».

L’avverto che questa intervista sta prendendo una piega piuttosto curiosa.

«Guardi, ciò che sta accadendo agli ex direttori e agli ex giornalisti è grave, non ci si può nascondere. Ma, certo, io non ho alcuna responsabilità né legale né morale».

Morale, se posso permettermi, visto com’è finita la storia del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, forse un po’ sì.

«Sbaglia. E ora le spiego perché. Vede, io arrivai all'Unità nel 2008, eravamo in piena campagna elettorale, e non era il caso che i libri contabili di un giornale così, fondato come ricorda lei da Gramsci, finissero in tribunale. Perciò, con i miei risparmi, contribuii subito ad evitare la chiusura del giornale...».

Quanti soldi impegnò nell’operazione di salvataggio?

«Tanti. Soldi miei e della mia famiglia. Il programma era chiaro: mettere il giornale dentro un mercato nuovo, affrontare le frontiere del digitale, del web. Purtroppo, e stia attento, non accuso nessuno, purtroppo il giornale reagì con poca elasticità, rimase molto rigido, poco incline ai cambiamenti... i costi continuarono ad essere alti e i ricavi bassi, troppo bassi, e quanto poi alle copie di carta: invece di conquistarne qualcuna, ne perdemmo parecchie. Non è andata bene. Non siamo riusciti a stare dentro un mercato sempre più difficile. Così, lentamente, io sono uscito. Subentrano altri azionisti e io vengo diluito. Le mie azioni scendono intorno al 5%. Allo stato attuale, con la società in liquidazione, ho perso praticamente tutto ciò che avevo investito e, se proprio vogliamo dirla brutalmente, io mi considero parte lesa. Ho cercato di contribuire a salvare l’Unità e ci ho rimesso l’intero investimento, davvero fino all’ultimo euro».

Sulla tempistica della sua uscita dalla guida della società editrice, ci sono notizie contrastanti: in ogni caso, adesso c’è questo grosso guaio dell’ufficiale giudiziario che bussa alle porte dei miei colleghi.

«La prego formalmente di riportare queste frasi: sono totalmente solidale e da qualche ora sto pensando a come rendermi utile. Ma, giuro, non so come. Come posso intervenire? Me lo dica lei...».

Sono certo che gli ex giornalisti dell’ Unità saprebbero come consigliarla.

«Senta: penso che tutte le parti interessate, e mi ci metto anch’io, debbano fare uno sforzo e trovare una soluzione. Però, ecco, una cosa: è assurdo, è ingiusto venirsela a prendere solo con me. Io sono anni che non mi occupo più del giornale».

La folle idea: i cronisti pagano, i fondi vanno ai vip. La De Gregorio è nei guai e la Federazione della stampa si attiva. Ma per gli altri nessuno si muove, scrive Giuseppe Alberto Falci su "Il Giornale". C'è un giornalismo di serie A e un giornalismo di serie B. Ecco il doppiopesismo: Concita De Gregorio, ex direttore de L'Unità , si ritrova nei guai subendo una serie di risarcimenti danni (per un totale di 536mila euro) per cause civili perdute in primo grado. Ma, manco a dirlo, riceve la solidarietà del presidente del Senato Pietro Grasso, del presidente della Camera Laura Boldrini. Di più: la Federazione nazionale della stampa parla addirittura di «un fondo di solidarietà a sostegno dei giornalisti della ex Unità ». Giusto. Così è successo ai giornalisti e ai direttori dell 'Unità . Ma così succede anche a migliaia di cronisti sparsi in tutto lo stivale, che scrivono inchieste per testate più o meno autorevoli, ma non appartengono al circuito della sinistra benpensante. Ad esempio, Emiliano Liuzzi, giornalista del Fatto Quotidiano , quando scriveva per il Corriere di Livorno , è incappato in una situazione simile. E in una lettera inviata a Dagospia lo ha raccontato: «Caro Dago (...), che si muova il sindacato dei giornalisti mi sembra una grave distorsione. Io, modestamente, ho lo stipendio pignorato per lo stesso motivo di Concita. Non mi hanno pignorato la casa perché non la posseggo e perché al Corriere di Livorno - giornale che finì esattamente come l'Unità senza avere quel popò di storia che ha l'Unità - eravamo terrorizzati dalle cause. Attualmente sto pagando 15.000 euro (una sciocchezza rispetto a Concita, ma io non sono biondo, ancora modestamente), (...) Non fu un'impresa facile». Certo, non fu una impresa facile anche perché all'epoca tutti restarono in silenzio. Così come in passato avvenne con giornali non esattamente di sinistra come L'Indipendente e Il Borghese . Stessa situazione, nessuna mobilitazione. Oggi, invece, si cerca di correre ai ripari. Come? Martedì la sala stampa di Montecitorio pullulava di giornalisti e parlamentari Pd, tutti premurosi di risolvere l'affaire Unità . Grasso ha parlato di «situazione grave», e Laura Boldrini non ha perso tempo a fargli eco. La storia è semplice per chi conosce la legge sulla stampa: quando qualcuno cita in giudizio un giornale, vanno a processo l'autore dell'articolo, il direttore responsabile della testata e l'editore. Tutti e tre, si dice in gergo tecnico, ne rispondono «in solido», ma se qualcuno non paga ne rispondono gli altri due. Nel caso specifico l'allora editore de L'Unità - la Nie - non esiste più, e nessuno si può rivalere su quella società. Ma nel Paese non esiste soltanto L'Unita di Concita De Gregorio. Eppure ad oggi la Federazione nazionale della stampa non riesce a fornire il numero di giornalisti in cause pendenti per querele. «Con la conferenza stampa di martedì - afferma il presidente della Fnsi Santi Della Volpe - abbiamo scoperto il vaso di pandora. Noi abbiamo fatto i conti per L'Unità . I giornalisti coinvolti sono 26 e la cifra di risarcimento che comprende le spese processuale ammonta a 536 mila euro. Ma non le so fornire un dato nazionale In queste ore stiamo ricevendo tantissime segnalazioni, da colleghi del Manifesto, del Secolo XIX , e da altre testate». Insomma, si parte dal caso Unità, giornalismo di serie A, e poi si procede con la restante parte dei giornalisti italiani. Secondo quanto risulta al Giornale , la cifra dei giornalisti coinvolti supererebbe quota mille giornalisti stati lasciati al loro destino senza ricevere alcun sostegno da parte del sindacato e dai vertici delle istituzioni. Emblematico, ad esempio, il caso dell'ex direttore di e-polis Enzo Cirillo che ha subito 104 processi per un ammontare di centinaia di migliaia di euro, ma in quel caso - sottolinea- «non ho avuto un aiuto dall'Fnsi». Certo, non si chiamava Concita.

Il Pane Quotidiano (rancido) di Concita De Gregorio. Berlusconi, Brunetta, Feltri e Salvini nel mirino della trasmissione (complice lo psichiatra Andreoli), scrive Nino Materi su "Il Giornale". Nel suo programma, Pane Quotidiano (Rai3), Concita De Gregorio cerca di far parlare di sé (tranquilli, le dedicheremo solo poche righe) perseguendo la modalità, molto piccina, di screditare personaggi che a lei stanno evidentemente antipatici. Ma la De Gregorio, affetta da un tragicomico superiority complex, non fa la «bulla» guardando in faccia la «vittima». No, lei preferisce - un po' vigliaccamente - utilizzare delle «spalle» cui far dire le cose che lei pensa. A prestarsi a questo gioco un po' miserevole è stato nella puntata odierna lo psichiatra Vittorino Andreoli. Cosa ha fatto Concita cuordileonessa? Ha mostrato delle foto ad Andreoli chiedendogli di rapportarle ad eventuali patologie psichiatriche. E che personaggi ha scelto l'ex direttora dell'Unità? Berlusconi, Salvini, Brunetta e Feltri. Potete immaginare le risposte dell'«autorevole» professor Andreoli dinanzi alle quali Concita si è illuminata d'immenso. Per i telespettatori un'immensa tristezza. E il rimpianto di pagare il canone Rai.

La stampa di sinistra si genuflette: Mattarella santo subito. Tra editoriali, ritratti e commenti il quotidiano incensa il neo capo dello Stato: bravo, integerrimo e pure affascinante. E parte la beatificazione, scrive Paolo Bracalini "Il Giornale". Picasso, Nureyev, il Papa, di più: un santo, un apostolo. È un'estasi mistica, un rapimento religioso, un deliquio che sconfina nel culto della persona, questa persona che «emana un senso un po' imperscrutabile di riservatezza e di autonomia», e che sì, è entrata in Parlamento nel 1983 e ci è rimasta 25 anni facendo tre volte il ministro, ma «non ha mai considerato la politica un mestiere, bensì un servizio al Paese», assicura Stefano Folli notista di Repubblica, giornale che, nell'avvincente gara a chi più beatifica il nuovo presidente, sta strappando i risultati migliori. Come per le reliquie dei santi, così ogni particolare anche fisico di Sergio Mattarella è prova tangibile della sua missione salvifica. I capelli bianchi, per esempio. Uno dice: ha 73 anni, capita a quell'età di avere i capelli bianchi. E invece no, quello è un Segno. «La folta canizie di Mattarella evoca le conseguenze di un'emozione così violenta da doversi risolvere con un impegno che l'ha portato infine sul Quirinale» spiega Filippo Ceccarelli sempre sulla Repubblica presidenziale. La linea si era intuita dall'entusiasmo del fondatore, Eugenio Scalfari, che ha trovato l'unico paragone adeguato nell'opera del Santo Padre: «Sergio Mattarella farà per l'Italia quello che Papa Francesco sta facendo per la chiesa». Così, sulla fiducia, prima ancora che si insediasse. Poi una serie di titoli da avvento messianico: «Assisi tifa per lui. I poveri nel cuore», «Un galantuomo al Colle, la via dritta alla politica», «L'antisiciliano che ama i silenzi, Mattarella riscatta la politica sofferta», «La rivincita del leader tranquillo», «Gli applausi di tutti per Mattarella», «Quella visita in Panda simbolo di rottura», «L'autonomia del presidente», «Il nuovo stile di Mattarella, la politica della voce bassa», e pure l'intervista alla suora che ha guardato gli occhi di Mattarella e ha visto che «è una persona per bene, sarà una guida straordinaria». Santo, santo subito. Grazie a Repubblica partecipiamo anche al dramma dell'organista di Santi Apostoli, dove Mattarella è andato a messa domenica mattina. Siccome il presidente è molto discreto, «quasi nessuno, tra i presenti sapeva di assistere alla messa assieme a lui». Neppure il «mortificatissimo musicista, che non si darà pace: "Ma come, ho suonato per il presidente e neanche lo sapevo?". E meno male che non ha saputo della signora Giuseppina, detta Pina da Sorrento, che chiede e ottiene una foto con Mattarella». I soliti raccomandati: «Solo padre Nicola è stato avvertito dell'ospite illustre, ed è rimasto senza fiato», come davanti alla Madonna delle lacrime. Poi, camminando sulle acque, Mattarella esce dalla chiesa - prosegue la parabola su Repubblica - dove due signore riescono a toccare la mano del presidente. «Ho visto la sua chioma bianchissima, ho capito che era lui» spiega una delle due. In alternativa, per localizzare Mattarella, c'è la stella cometa. Ma non ancora niente rispetto agli arpeggi di Concita De Gregorio, in piena esaltazione mistica. Tutto è magico, perfetto, incantato. Come primo discorso dice solo tre cose? È perché «il nuovo presidente Sergio Mattarella ha la misura di Twitter incorporata nella discrezione atavica, nella sottrazione come metodo. Nessuno sforzo apparente. I capolavori del resto hanno questo di speciale». Altro capolavoro assoluto, per la giornalista di Repubblica, è il discorso di insediamento di Mattarella. «La fenomenologia degli applausi non ha paragoni con i precedenti discorsi presidenziali per numero e frequenza. Quarantadue applausi in 30 minuti, nove dei quali in piedi, sono una ginnastica indefessa, quasi un rito liberatorio». Persino i rozzi di centrodestra si chetano, davanti a cotanta Luce. «Anche Maroni e Zaia smettono di ridere, lassù in tribuna. Persino Ignazio La Russa un paio di volte almeno si alza in piedi». Francesco Merlo, per competenza territoriale, spiega i colori di Mattarella. Non è grigio, come dicono gli stolti: «il suo colore è il celeste; ed è vaniglia la sua personalità». Presto allegata a Repubblica la vita e le opere di Mattarella a puntate.

L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.

"Decapitazioni e orrore, Medusa tra di noi". Il sentimento di Marco Belpoliti per il 2015. Il suo sguardo era scomparso da secoli dall’iconografia collettiva, ma le immagini con le decapitazioni dell’Isis lo hanno fatto tornare. E di nuovo ci pietrifica. Lo scopo dei carnefici non è solo quello di uccidere, bensì d’infierire sul corpo. Esattamente come accadeva nei supplizi precedenti l’Illuminismo, scrive Marco Belpoliti “L’Espresso Il primo è stato il fotoreporter americano James Foley. Poi nell’arco di un mese sono stati decapitati un altro reporter statunitense, Steven Sotoff, e il cooperante scozzese David Haines. Il rito pressoché identico prevede che il condannato sia vestito di un camicione arancione, mentre il boia è in nero, con il capo e il viso occultati. Tiene in mano un coltello esibito come strumento di morte. La decapitazione ha generato un immediato senso di orrore lasciando attonita l’intera platea televisiva occidentale. Le immagini della decollazione sono state viste da milioni di persone e commentate da giornali, televisioni, siti internet. Basta? No. Pochi giorni fa la notizia che un commando di talebani pakistani entra in una scuola a Peshawar e uccide a freddo 132 bambini e i loro insegnanti, per poi essere a loro volta uccisi dalle forze di sicurezza. L’orrifico è entrato nelle case degli abitanti dell’Europa e dell’America. Qualcosa che era scomparso da due secoli almeno dalle piazze del Vecchio Continente ha fatto così la sua cruenta riapparizione - per quanto negli ultimi anni ci siano state molte altre decapitazioni, per esempio nelle guerre combattute nell’ex Jugoslavia così come in altri sequestri di ostaggi. Basti ricordare il reporter americano Daniel Pearl, sequestrato in Pakistan e decapitato nel 2002, e il giovane imprenditore Nicholas Berg in Iraq nel 2004: ma non sempre furono così platealmente visibili all’opinione pubblica, e soprattutto non prevedevano la “serializzazione” che caratterizza orrendamente le decapitazioni di oggi. Che appaiono quasi come puntate di una atroce serie, in cui ciascun episodio contiene l’annuncio del successivo. All’inizio del suo volume “Sorvegliare e punire” (1975) Michel Foucault racconta un supplizio, tratto dalla “Gazzetta di Amsterdam”, cui è condannato il 2 marzo 1757 tale Robert-François Damiens. Il suo corpo è squartato tra terribili tormenti sulla pubblica piazza a opera di sei cavalli, che tirano le membra da parti opposte. Nell’arco di pochi decenni da quella data in Europa si smette di amputare, fare a pezzi e marchiare i condannati; il corpo non è più oggetto dello spettacolo pubblico, così da scomparire come “principale bersaglio della repressione penale”. Salvo poi fare la sua terribile ricomparsa con il Terrore, attraverso l’uso della ghigliottina e delle teste mozzate esibite, ancora sulle piazze, durante la Rivoluzione francese. Nel sistema giuridico americano, dove tutt’ora esiste la pena di morte cancellata invece in Europa, ha ricordato di recente Giorgio Mariani, è contemplata l’uccisione del condannato mediante una iniezione letale, sistema indolore e privo di spettacolarità. Nella cultura puritana di quel Paese, almeno sul suo territorio, è respinta come barbara ogni forma di decollazione: la testa non può e non deve essere separata dal corpo, il quale va conservato nella sua integrità nel momento in cui viene eseguita una sentenza di morte. L’orrore che hanno suscitato i filmati dell’Isis proviene anche da questa tradizione, oltre che dal culto del corpo che negli ultimi settant’anni si è diffuso in Occidente. Questo nonostante che nei decenni passati in Europa, come in altri luoghi del Pianeta, siano accaduti fatti terribili, le guerre e i conseguenti massacri della ex-Jugoslavia, o le vicende del genocidio in Uganda, con amputazioni, decapitazioni, squartamenti. In Europa la decapitazione degli ostaggi americani e inglesi nelle mani dei membri dell’Isis sono state vissute come un ritorno al passato, a pratiche medievali, barbariche. Questo nonostante che nella nostra tradizione iconografica sia ben presente l’immagine della decollazione, quella di san Giovanni Battista, o quella di Giuditta nei confronti di Oloferne, come ci ha ricordato non molti anni fa la mostra allestita da Julia Kristeva al Museo del Louvre, poi raccolta in “La testa senza il corpo” (Donzelli). C’è persino un santo, San Dionigi, protettore di Parigi, il cui miracolo è consistito nel mettersi sotto braccio la propria testa tagliata, per mano dei soldati romani, e risalire la collina che prende ora il suo nome nella capitale francese. Per quanto espunto dalla nostra giustizia, l’orrore ritorna continuamente nelle nostre cronache. Si è letto solo pochi giorni fa di una madre che avrebbe ucciso il proprio bambino. L’orrore è cosa ben diversa dal terrore che con gli atti di decapitazione l’Isis vorrebbe provocare nel mondo occidentale, qualcosa di più profondo e radicale. La parola “orrore”, ricorda Adriana Caravero, viene dal verbo latino horreo, di incerta etimologia ma di sicuro significato: indica il rizzarsi dei peli del corpo, il suo tremolio per via dello spavento. Secondo uno studio, a rizzarsi sarebbero i capelli, azione inconsueta ma possibile, che si conserverebbe nel significato della parola italiana “orripilante”. La filosofa nel suo libro “Orrorismo” (Feltrinelli), il cui titolo costituisce un neologismo, sostiene che esiste una “fisica dell’orrore”, collegata a quella dell’agghiacciarsi, reazione fisiologica al freddo, che provoca la cosiddetta “pelle d’oca”. Sono tutti stati del corpo che colpiscono chi è esposto a spettacoli orripilanti. Primo Levi, all’inizio della “Tregua”, descrive la reazione dei giovani soldati russi che raggiungono il Lager dove il deportato si trova nel gennaio del 1945. I russi osservano dall’alto dei loro cavalli lo spettacolo bestiale dei cumuli dei cadaveri abbandonati dai nazisti in fuga. Orrore e insieme ripugnanza, qualcosa di diverso dalla paura, una forma di ribrezzo che in un libro, “Poteri dell’orrore” (Spirali), Julia Kristeva ha definito “ribrezzo”. C’è una figura classica che incarna perfettamente l’orrore di cui si parla: Medusa. La sua visione agghiaccia, paralizza, pietrifica. L’orrore è tale che chiunque ne fissi il viso - gli occhi, lo sguardo, ma anche i capelli a forma di serpenti come l’ha dipinta Caravaggio - viene trasformato in roccia. Quelle che si presentano al nostro sguardo nei film rilasciati nel web dai carnefici dell’Isis sono immagini inguardabili, ripugnanti, che fanno ribrezzo. Lo scopo di questi carnefici non è solo quello di uccidere, bensì d’infierire sul corpo, esattamente come accadeva nei supplizi che precedono le riforme penali prodotte dall’Illuminismo nel diritto occidentale. Si vuole distruggere l’unità del corpo provocando negli spettatori l’orrore. Più questo, ribadisce Caravero, che non il terrore. C’è un’altra figura mitologica che viene spesso evocata proprio per definire l’altro aspetto dell’orrore, cui ci hanno abituato le cronache recenti: Medea. Ripudiata da Giasone a vantaggio della figlia del re di Corinto, Medea uccide i suoi figli per vendetta, come racconta Euripide nella tragedia. Lei, che aveva aiutato il suo uomo a conquistare il Vello d’oro, diventa il modello degli infanticidi a seguire. In una versione del mito citata da Károly Kerényi, Medea taglia a pezzi i corpi delle sue vittime, evocando così la fantasia orripilante dello smembramento. Adriana Cavarero sottolinea come non esista un analogo mito maschile per descrivere l’orrore dell’uccisione dei propri congiunti, e come l’orrore dell’infanticidio sia ascritto alla madre quale segno di una follia estrema. Per riscattare Medea, o almeno cercare di capire l’orrore che la abita, la filosofa ricorda un episodio presente nel libro di W. G. Sebald, “Storia naturale della distruzione” (Adelphi), dedicato ai bombardamenti con cui gli Alleati distrussero le città tedesche nel corso del Secondo conflitto mondiale. Durante una fuga dalle tempeste di fuoco, a una donna si aprì di colpo la valigia che recava. Non conteneva gioielli o oggetti, ma il cadavere di suo figlio. Sebald riporta altri casi in cui le madri recarono con loro nella fuga corpi di bambini soffocati dal fumo o uccisi dai bombardamenti. Nella disperazione, scrive l’autrice, in cui l’orrore le aveva immerse, queste donne cercavano di curare le loro inermi creature oltre la stessa morte. Un modo per salvare i corpi dall’orrore terribile di quella distruzione. Davanti all’orrore delle immagini trasmesse dal web o sui canali televisivi, riportate nelle pagine dei giornali sotto forma di fotografie, a Gaza come in Afghanistan, in Cecenia come in Siria, possiamo decidere legittimamente di distogliere lo sguardo, cambiare canale, girare pagina, per non restare paralizzati, pietrificati da quello che si vede. Per quanto evochino qualcosa di pornografico – piacere morboso insieme all’orrore, com’è stato giustamente detto – non possiamo esimerci dal sapere che queste immagini hanno un valore etico, come ci ha ricordato Susan Sontag in “Davanti al dolore degli altri” (Mondadori). Fanno sorgere domande decisive e ci rendono consapevoli del fatto che esseri umani commettono cose terribili nei confronti di altri esseri umani. Cavarero la chiama “la violenza sull’inerme”, ed è questo il vero orrore che suscitano in noi.

Fatwa e morte. Così uccidono la satira, scrive Simone Di Meo su “Il Tempo”. Si dice che quando l'uomo con la penna incontra l'uomo con la pistola, l'uomo con la pistola è un uomo morto. Si dice, però. Perché la scia di sangue che ha macchiato libri, pellicole e paginate di giornale fresche d'inchiostro è ben più lunga di quella freschissima lasciata sulle vignette di Charlie Hebdo. Il settimanale che, ironia del destino, nel 2006 aveva deciso di mandare in edicola per solidarietà, insieme a numerosi quotidiani europei, anche italiani, le caricature di Maometto pubblicate l'anno prima sul quotidiano danese Jyllands-Posten e successivamente sul giornale norvegese Magazinet. In uno dei disegni, il profeta dell'Islam era raffigurato con una bomba al posto del turbante (il vignettista Kurt Westergaard da allora vive sotto costante protezione della polizia e solo per miracolo i tentativi di assassinio ai suoi danni non sono riusciti). Alla pubblicazione di quelle immagini, successe il finimondo: dall'Africa, al Medioriente, all'Afghanistan, all'Indonesia esplosero le proteste di piazza. In Nigeria morirono 130 persone negli scontri. A quel punto, il premier norvegese Anders Fogh Rasmussen all'inizio del 2006 raggiunse un accordo con la Lega Araba per la distribuzione di una lettera che era sostanzialmente di scuse e che, pur difendendo il principio della libertà di espressione, stigmatizzava la «demonizzazione» di alcuni gruppi in base all'appartenenza religiosa ed etnica. Il 30 gennaio giunsero le scuse anche del direttore del Jyllands-Posten. L'8 febbraio, una provocazione dell'allora ministro leghista Roberto Calderoli legata alle vignette incriminate, portò ad una violenta protesta in Libia e ad un attacco al consolato italiano di Bengasi, nel quale morirono 11 manifestanti. Ancor prima, il 2 novembre del 2004, c'era stato l'omicidio di Theo van Gogh, il regista olandese di “Submission”, un cortometraggio che aveva fatto scandalo nel mondo islamico per la scelta di scrivere dei versi di una sura del Corano sulla schiena della protagonista. L'assassino, Mohammed Bouyeri, in possesso della doppia cittadinanza olandese e marocchina, intercettò van Gogh nel centro di Amsterdam, esplodendo contro di lui otto colpi di pistola. Gli tagliò anche la gola e gli piantò nella pancia due coltelli, in uno dei quali era conficcato un documento contenente minacce ai governi occidentali, agli ebrei e ad Ayaan Hirsi Ali, deputata di origini somale ed autrice del film insieme a van Gogh. Il film fu ritirato e anche il produttore, Gijs van Vesterlaken, subì gravi minacce. Fino ad allora, l'unica condanna a morte nei confronti di un intellettuale inviso al regime islamico risaliva al 1989 ed era stata spiccata nei confronti dello scrittore britannico di origine indiana Salman Rushdie, all'epoca già una star affermata della narrativa internazionale. Nel suo libro, “I versetti satanici”, aveva fatto allusivamente riferimento alla figura del profeta Maometto. Fu per questo che a febbraio di quell'anno l'ayatollah Khomeini emanò una fatwa nella quale condannava a morte Rushdie, colpevole, a giudizio della massima autorità iraniana, di bestemmia. I killer non riuscirono a trovarlo ma nel 1991, fu accoltellato a morte da uno sconosciuto il traduttore giapponese dell'opera, Hitoshi Igarashi; e nello stesso anno, fu ferito anche il traduttore italiano, Ettore Capriolo, mentre nel 1993 fu la volta dell'editore norvegese del libro. Dopo la morte di Khomeini, la fatwa fu confermata nel 2005 dall'ayatollah Ali Khamenei, ma lo stesso Rushdie ammise che la condanna a morte aveva ormai un valore più retorico che reale. Anche se, nel 2012, lo scrittore fu costretto a rinunciare alla partecipazione al festival internazionale di letteratura di Jaipur, in India. I fanatici della Mecca erano tornati a farsi vivi.

Giannelli: «Non sapremo reagire La nostra società si è assuefatta al peggio», scrive “Luca Rocca su “Il Tempo”. L’uccisione dei giornalisti satirici del Charlie Hebdo, a Parigi, non sorprende Giannelli. Di una cosa il vignettista appare certo: stanno cercando di intimidirci. Ed è anche convinto, inoltre, che l’Occidente sia così assuefatto al peggio, che neanche di fronte a una strage di questa portata sarà in grado di reagire.

Giannelli, tre terroristi imbracciano un kalashnikov e colpiscono al cuore la nostra libertà.

«In questo mondo non mi stupisce più niente. La barbarie del nostro tempo supera qualsiasi immaginazione. Chi mai, fino a pochi anni fa, poteva immaginare che saremmo entrati in un tunnel così buio? Bisognerebbe scavare a fondo alla vicenda, capire le radici di questo odio, da dove proviene».

Nella sua carriera, si è mai imbattuto nell’intolleranza dell’Islam?

«Tanti anni fa, quando collaboravo con Repubblica, io e Forattini fummo convocati da Eugenio Scalfari, il quale ci raccomandò di andarci cauti con le vignette sull’Islam. Ho pensato che avesse ricevuto messaggi allarmanti. Personalmente però non ho mai ricevuto minacce».

Perché colpire la satira?

«L'integralismo islamico è intolleranza all'ennesima potenza, non riguarda solo la satira. Ma è vero che verso lo humor l’Islam ha una chiusura ermetica. Credo, però, che un attacco come quello al Charlie Hebdo rappresenti soprattutto un’intimidazione. Dopo una strage come quella avvenuta in Francia, infatti, anche se inconsciamente, prima di pubblicare un'altra vignetta contro Maometto, ci pensi due volte».

Saremo capaci di reagire?

«Io sono vecchio, ero ottimista e non lo sono più. Ho la sensazione che le reazioni della nostra società siano sempre meno frequenti. Siamo capaci di assuefarci a tutto. Ciò che un tempo ci sarebbe sembrato enorme, adesso ci appare quasi accettabile».

Quello di ieri è l’11 settembre della stampa?

«In un certo qual modo è così, ma non vedremo la stessa reazione vista dopo l’attacco del 2001 alle Torri Gemelle. E sa perché? Perché sono passati più di 10 anni, e lentamente ci siamo abituati a ogni efferatezza».

Krancic: «Per proteggere l’Islam l’Occidente si sta suicidando» , scrive “Il Tempo”. È una tappa del suicidio dell’Occidente. A dirlo, nel giorno in cui gli integralisti islamici assaltano il cuore dell’Europa uccidendo dei disegnatori di satira che la loro «libertà di matita» la indirizzavano anche contro Allah, è uno dei maggiori vignettisti italiani, Alfio Krancic, che si dice sconvolto.

Qual è stato il suo primo pensiero alla notizia della la strage nella redazione del Charlie Hebdo?

«Sono ancora frastornato. Aver colpito un settimanale simbolo della trasgressione satirica, è indicativo del clima di odio che si è scatenato verso le manifestazioni di libertà dell'Occidente».

Lei ha mai realizzato vignette sull'Islam?

«Certo, anche sull’Isis e il “califfo nero” al Baghdadi, prendendo sempre le parti di Assad, Gheddafi, Saddam. Meglio quei regimi arabi laici che salvaguardano le altre religioni e ci proteggono dal fanatismo islamico. Perché quando in quei paesi le dittature cadono, non arriva la democrazia. E lo dimostra anche l'attentato in Francia».

Hai ricevuto minacce per quelle vignette?

«No. In Italia, fortunatamente, la minaccia islamica non ha mai preso di mira la satira, ma qualche giornalista, come Magdi Allam, o qualche politico, come Roberto Calderoli, rei di avere idee non in linea con il pensiero islamico e di manifestarle come desiderano».

Perché la satira sull’Islam provoca morte?

«La colpa è anche del politicamente corretto. Corretto unilateralmente, visto che protegge alcune espressioni religiose, come l'Islam, ma non la nostra religione, il cristianesimo. Una forma sadomasochistica ha pervaso le menti dell'Occidente. Siamo persino arrivati a contemplare il reato di islamofobia. L'Occidente si sta suicidando».

Un massacro come quello di ieri può segnare la fine del multiculturalismo in Europa?

«È molto difficile. Le forze culturali e intellettuali che dominano in Europa sono troppo forti. Impediranno ad alcuni movimenti politici e culturali di prendere il sopravvento sul multiculturalismo. Al contempo, però, la strage inevitabilmente aumenterà l'intolleranza verso gli intolleranti».

Vauro: «Difendo il diritto al gioco della libertà e alla libertà del gioco», scrive Massimiliano Lenzi su “Il Tempo”. «La satira è tale perché da sempre sbeffeggia i potenti ed i prepotenti». Vauro, vignettista e satirico a sinistra da una vita (da Il Manifesto a Servizio Pubblico, su La7) - che trent'anni e passa fa, come racconta a Il Tempo, «ha lavorato pure al Charlie Hebdo» - il giorno dopo l'attentato dei fondamentalisti islamici al giornale satirico francese, è sconvolto ed addolorato. «Sono fuori di me, perché la satira è la libertà assoluta e nessuno deve violentarla. Mai. Perché la satira è da sempre contro tutti i tipi ed ogni forma di fondamentalismi».

Gli chiediamo cosa, secondo lui, toscano che attinge la propria ironia da Cecco Angiolieri in avanti, rappresenti per le nostre libertà ciò che è successo a Parigi.

«Si è colpita un'arte – risponde –, la satira, che è la cosa meno violenta che si possa immaginare perché qualsiasi tema affronti è sempre un gioco. C'è sempre un elemento di gioia e di poesia nell'ironia satirica e l'irruzione di una violenza così assurda e demente incarna un attentato contro la fantasia degli uomini e delle donne. È come se i terroristi assassini avessero fatto irruzione durante l'ora di ricreazione in una scuola, compiendo una strage efferata di bambini, Erodi contro ogni libertà, perché vede, la satira ha sempre una propria componente infantile. E poi devo dirle che che c'è un'altra cosa, ancora, che mi preoccupa...».

Che cosa?

«Quello che mi preoccupa è che sento già parlare di scontri e di guerre di religione. Io – aggiunge – vorrei sperare che la satira non diventi arruolabile da nessuno, mai. Vede, sui social media ieri mi sono arrivati inviti a fare vignette contro Maometto, per dimostrare di avere le palle. Ma io non credo si possa fare satira per dimostrare di avere le palle, perché la forza del ridere deve essere più forte della fine, anche della morte. Quello che voglio ostinatamente difendere, continuare a difendere, è il diritto al gioco della libertà ed alla libertà del gioco. Perché dopo l'attentato vigliacco di Parigi al Charlie Hebdo siamo tutti meno liberi. Ed anche meno felici».

Vincino: «L’Islam non c’entra? Certi soloni vadano a quel paese», scrive ancora Lenzi. «La cosa tragica e divertente, sa quale è? È ascoltare certi Soloni dire che l'Islam non c'entra niente, perché è buono e non c'entra che i killer, uccidendo, hanno gridato di vendicare Maometto, con la frase di rito "Allah akbar": ma andate tutti quanti a quel paese, ipocriti!». Vincino, vignettista de Il Foglio ed anticonformista da una vita intera, non si rassegna all'ecatombe delle libertà che si è consumata ieri nel cuore di Parigi, e alla mollezza di certe reazioni italiane ed occidentali. «Ieri hanno centrato ed ucciso un posto come verità, e non come simbolo. Perché il Charlie Hebdo era il luogo dove è nata la libertà di satira in Europa, ed anche la mia. "Il Male" con i suoi autori nacque anche grazie a loro, tutte la rubriche delle copertine rifiutate ad esempio, una colonna straordinaria con 4 vignette terribili in cui potevi mettere le cose più libere ed inimmaginabili». Poi Vincino si sofferma sulle persone, e spiega che «all'interno di Hebdo trovavi poeti veri, come Georges Wolinski, figlio di un polacco e di un'italiana emigrati in Tunisia, un poeta dell'amore e del sesso. E vedere Wolinski morire durante una riunione di satira mi commuove». Perché Vincino, sulla satira, come spiega al nostro giornale, «ha fatto un festival, a Roma, all'epoca di Nicolini. Wolinski era come tutti i veri umili, semplice e generoso. Ma liberi totalmente. E questo vale per il Charlie Hebdo, che perciò va a cozzare con le religioni. Sempre. Poi, oggi, ci sono le religioni che sono un po' più buone ed altre in alcune parti del mondo, più cattive. Cattivissime. L'Hebdo non ha mai ceduto un centimetro sulla vivisezione delle religioni, sia cattolica che islamica. Avevano capito per primi la questione della libertà poste dalle vignette pubblicate dal giornale danese Jyllands-Posten su Maometto, e seguite da mobilitazione contro nei paesi arabi. Roberto Calderoli, una vignetta se la mise su una maglietta sotto la giacca. Noi, comunque sia, speriamo di non finire mai in una maglietta di Calderoli ma quello che ieri è stato attaccato sono l'illuminismo e la nostra civiltà».

Ecco i nomi delle dodici vittime dell'attacco del 7 gennaio 2015 alla redazione di Charlie Hebdo:

- Stephane Charbonnier, alias Charb, vignettista e direttore;

- Georges Wolinski, vignettista;

- Jean Cabut, alias Cabu, vignettista;

- Bernard Verlhac, alias Tignous, vignettista;

- Philippe Honoré, vignettista;

- Bernard Maris, economista ed editorialista;

- Elsa Cayat, psicologa e giornalista;

- Michel Renaud, ex consigliere del sindaco di Clermont Ferrand;

- Mustapha Ourrad, correttore di bozze;

- Fréderic Boisseau, addetto alla portineria;

- Franck Brinsolaro, poliziotto;

- Ahmed Merabet, poliziotto.

Decapitato l’umorismo francese. Quattro celebri vignettisti tra le vittime: Charb, Cabu, Tignous e Wolinski Sull’ultimo numero la caricatura di un terrorista: «Gli auguri entro gennaio», scrive Antonio Angeli su “Il tempo”. Cinque minuti di puro terrore, un muro di piombo e fuoco: alla fine in terra, senza vita, restano in 12. Parigi e il mondo piangono il più grave e sanguinoso atto di terrorismo degli ultimi anni: sono rimasti uccisi 8 giornalisti, 2 agenti, un ospite della redazione e il portiere dello stabile. Delle vittime alcuni sono celebri: vignettisti, inguaribili umoristi, di quelli che se cerchi di mettergli il bavaglio diventano più tenaci, e gli è costata cara, soni diventati bersaglio di una violenza inaudita; una strage che ricorda quella all’inizio di un vecchio film di spionaggio: «I tre giorni del Condor».

Ucciso il direttore del settimanale satirico parigino «Charlie Hebdo», Stéphane Charbonnier detto «Charb» , celebre disegnatore satirico, classe 1967, in passato già minacciato più volte per le vignette su Maometto, e per questo messo sotto la protezione della polizia. Non gli è servito, non è stato sufficiente. Nel numero uscito proprio la scorsa settimana c’è la sua ultima vignetta, profetica e agghiacciante, ora che si è consumato il massacro. Il titolo dell’illustrazione: «Ancora nessun attentato in Francia», sotto il pupazzetto che raffigura un terrorista islamico, con la barba e il mitra sulle spalle, che dice: «Aspettate! Abbiamo tempo fino alla fine di gennaio per fare gli auguri». Caduti sotto il fuoco dei terroristi i tre più importanti vignettisti della testata: Cabu, Tignous e Georges Wolinski, molto famoso anche in Italia, da anni. Nell’attentato è rimasto ucciso anche l’economista Bernard Maris, azionista della testata parigina.

Jean Cabut meglio noto come Cabu , 76 anni, antimilitarista e di spirito anarchico, ha collaborato con tutte le principali testate francesi come caricaturista e disegnatore di fumetti. Attualmente disegnava sia per «Charlie Hebdo» che per il suo principale concorrente, «Le Canard Enchainé». Per «Pilote», una delle principali riviste francesi di fumetti, aveva creato il personaggio del «Grand Duduche», liceale maldestro. Era il padre del cantante Mano Solo, morto di malattia nel 2010. Charb, 47 anni, disegnatore satirico, collaborava anche con il quotidiano del partito comunista «L’Humanité» e due delle principali riviste francesi di fumetti, «Fluide Glacial» e «L’Echo des Savanes». Sue le strisce, irriverenti e al limite del pornografico, del cane Maurice, bisessuale e anarchico, e Patapon, gatto asessuato e fascista.

Ucciso anche Bernard Verlhac, detto Tignous , 57 anni. I suoi disegni venivano pubblicati da «Charlie Hebdo», «Marianne» e «Fluide Glacial».

E poi c’era il più famoso di tutti, fumettista e vignettista noto, non solo in Francia, ma anche in Europa, per il suo caratteristico taglio caustico nel rappresentare la quotidianità. È Georges Wolinski , con «Charlie Hebdo» collaborava da anni. Nato a Tunisi il 28 giugno del ’34, Wolinski aveva esordito come disegnatore per la rivista «Hara-Kiri», dalla quale era poi passato a «Action», «Paris-Presse», «Hara-Kiri Hebdo», «L’Humanité», e infine «Paris-Match». Attualmente era anche capo redattore di «Charlie Mensuel». Wolinski aveva ottenuto la popolarità con i fatti del maggio del ’68, attraverso la rivista «Action». La sua cifra stilistica era costituita dalla capacità di porre l’accento sui personaggi, dall'ampio uso di doppi sensi, anche sessuali - tanto da farlo conoscere a molti come l'umorista del sesso - e dal taglio caustico nel rappresentare il cinismo quotidiano. Il fumettista era anche noto per avere collaborato, negli anni ’70, con Georges Pichard creando il personaggio di Paulette.

Bernard Maris era invece un professore d’economia allo Iep di Tolosa e attualmente insegnava anche all’Istituto di studi europei dell’università Parigi-VIII. Il 68enne era anche una firma per diversi giornali, come «Le Monde», «Le Figaro Magazine» e «Le Nouvel Observateur». Del settimanale satirico era stato uno dei fondatori, con l’11% delle azioni, e fino al 2008 direttore aggiunto. Era uno dei principali studiosi della globalizzazione «etica e sociale». Un grande intellettuale francese, tra le sue attività, anche la scrittura, con la pubblicazione di diverse opere letterarie.

Non tutte le firme del settimanale satirico sono state messe a tacere. È una carneficina che «ha decapitato» il settimanale, come succede in «Siria e in Iraq»: così ha reagito Bernard «Willem» Holtrop, vignettista di «Charlie Hebdo», scampato all’assalto che ricorda che le vittime «non sono dei colleghi, sono degli amici». E la carneficina del settimanale parigino ha scatenato una silenziosa, gigantesca reazione, a livello mondiale. In Francia tantissime persone sono scese in strada con un cartello: «JeSuisCharlie», «Io sono Charlie», con il chiaro riferimento alla testata. L'ambasciata americana a Parigi ha anche cambiato la sua icona Twitter in #JeSuisCharlie, in segno di sostegno alla Francia. «La libertà di espressione è un diritto umano», ha twittato Amnesty Italia.

Charlie Hebdo, una storia di satira irriverente. La testata è nota per le vignette e illustrazioni, ma anche per gli articoli incentrati su politica, cultura, estrema destra, cattolicesimo, islam e giudaismo, scrive “Il Tempo”. Charlie Hebdo è un settimanale satirico di tradizione libertaria, dal tono irriverente e anticonformista. Il giornale difende le libertà individuali e ha un orientamento di sinistra, fortemente anti religioso. Charlie Hebdo è noto per le vignette e illustrazioni, ma anche per gli articoli incentrati su politica, cultura, estrema destra, cattolicesimo, islam e giudaismo. Anche se prende di mira principalmente i politici di destra, il settimanale non risparmia neanche i partiti di sinistra francesi. Secondo l'attuale direttore, il disegnatore Stéphane Charbonnier, noto come Charb, il giornale riflette "tutte le componenti del pluralismo di sinistra e perfino dell'astensionismo".

Nel 2006 il giornale suscitò polemiche pubblicando una serie di caricature del profeta Maometto, diffuse inizialmente dal quotidiano danese Jyllands-Posten. Nella settimana precedente le illustrazioni avevano suscitato proteste in alcuni Paesi musulmani. Diverse organizzazioni musulmane francesi, tra cui il Consiglio francese del culto musulmano, chiesero di seguito di mettere al bando il numero del settimanale contenente altre caricature di Maometto, ma la richiesta non fu accolta.

Nel 2011 la sede del giornale venne colpita da alcune bombe molotov; l'attacco fu lanciato prima dell'uscita nelle edicole di un numero con in copertina un'altra vignetta satirica con Maometto. Il sito web del settimanale fu invece preso di mira da hacker. La storia di Charlie Hebdo comincia negli anni '60 ed è strettamente legata a quella del mensile Hara-Kiri, lanciato da Georges Berniere e François Cavanna, e definito da loro stessi "un giornale stupido e cattivo".

La rivista fu al centro di diverse polemiche e fu interdetta dalla magistratura nel 1961 e poi nel 1966. Trasformata successivamente in settimanale, a novembre del 1970 la rivista suscitò critiche dopo la morte di Charles de Gaulle, titolando in copertina "Bal tragique à Colombey - un mort", ossia 'Ballo tragico a Colombey, un mortò, con un riferimento alla residenza del generale. Di seguito le pubblicazioni di Hara-Kiri vennero bloccate dal ministero dell'Interno francese, ma i giornalisti aggirarono il divieto lanciando una nuova pubblicazione, Charlie Hebdo, che deve il nome al famoso personaggio del fumetto Peanuts. Il settimanale rimase chiuso tra il 1981 e il 1992 dopo un calo del numero di lettori. Prima di Charb a guidarlo furono François Cavanna e Philippe Val. La rivista è pubblicata ogni mercoledì.

Matite satiriche. Satiriche come le penne di sinistra che alzano le sopracciglia quando si parla di satira di destra.

Charlie Hebdo, parlano Staino, Altan, Vauro e Makkox: «La satira non si fa intimidire». Dopo l'attentato al giornale satirico francese, che ha causato dodici vittime, parlano alcuni dei più celebri fumettisti italiani. Che piangono gli amici scomparsi e dicono: "Questi omicidi devono far crescere la nostra voglia di contrastare l'oscurantismo", scrive Daniele Castellani Perelli su “L’Espresso. Hanno la voce rotta. Cercano le parole giuste. Promettono che nulla cambierà nel loro lavoro, ma temono che niente sarà più come prima. Alcuni dei più noti vignettisti italiani, da Staino a Altan, da Vauro a Makkox, commentano al telefono con “l'Espresso” la tragedia parigina, l'assalto al giornale satirico “Charlie Hebdo”.

Il dolore più grande è quello di Sergio Staino, che nell'attacco ha perduto un amico, il disegnatore Georges Wolinski. «La mia prima reazione è stata di andare a vedere se tra le vittime ci fosse Georges. Lo reputavo improbabile, visto che non lavora all'interno della redazione. E invece hanno ammazzato anche lui, significa che sapevano che oggi era prevista la riunione», racconta Staino: «Avevo conosciuto Wolinski all'inizio degli anni Ottanta, quando ero andato a visitare la redazione di “Charlie Hebdo” a Parigi. Poi era stato più volte mio ospite, e aveva anche partecipato a un mio film del 1992, “Non chiamarmi Omar”, con Ornella Muti, ricordo che si era innamorato di Stefania Sandrelli». Staino, storico disegnatore dell'“Unità”, ha fatto vignette su Hamas e l'Islam politico, ma mai sulla religione musulmana in sé. Tuttavia ha sempre difeso il diritto alla libertà di espressione, anche quando, dice, «le vignette erano artisticamente di scarso valore, come quelle su Maometto, una peggiore dell'altra, pubblicate in Danimarca dallo“Jyllands Posten”». La cosa che più lo colpisce è che i terroristi abbiano voluto colpire i più deboli: «Non sono andati a colpire che ne so la Cia, ma dei vignettisti. È come attaccare la Croce Rossa, è una cosa da vigliacchi». E ora? Cambierà qualcosa nel mondo della satira? I vignettisti si autocensureranno? «No, non succederà mai», risponde Staino: «La nostra molla sono la ricerca della verità, lo sberleffo dei fondamentalisti, il dubbio, l'antidogmatismo. Questi omicidi accresceranno la nostra voglia di contrastare l'oscurantismo». 

È d'accordo anche Vauro, storica matita del “Manifesto” prima e di “Servizio pubblico” e “Annozero” poi. «Non credo che reagiremo con quella forma tremenda di censura che è l'autocensura. Noi che viviamo di satira siamo, che piaccia o no, degli istintivi. In noi domina quell'elemento ludico, infantile, anche inopportuno come spesso sono inopportuni i bambini, un elemento che non si fa intimorire dalle minacce di un gruppo di intolleranti». Vauro conosceva Wolinski, e dice di essere rimasto annichilito davanti alla notizia dell'attacco. Lo hanno colpito molto anche certi inviti che gli sono arrivati sui social network, che gli dicevano «Ora disegna Maometto se hai le palle». «Io ho disegnato Maometto, e ho anche “affrescato” i muri dell'ospedale di Emergency a Kabul al tempo dell'oscurantismo talebano. Non mi farò fermare dai fondamentalisti islamici, ma non devo neanche dimostrare niente a nessuno».

Anche Francesco Tullio Altan, storico vignettista di “Espresso” e “Repubblica”, ha perso degli amici oggi. Non nasconde che ora possa diventare più difficile, per un vignettista, ironizzare sull'Islam, ma non crede che l'attacco sia da intendersi contro il mondo della satira: «Come gli attentati alle metropolitane o ai treni, questo non è che un episodio della grande guerra contro la libertà in generale». 

Makkox, infine. Il disegnatore del “Post” e di “Gazebo” ammette di aver sentito crescere in sé una rabbia davanti alla notizia. «Quei nomi, quei colleghi di cui a casa ho i libri...», dice incredulo, per poi confessare il suo tormento interiore: «Oggi cambia tutto. Questo attacco ci radicalizzerà tutti, spingerà tutti noi a essere manichei, è come una chiamata alle armi. Il discorso pubblico verrà sconvolto. Da un lato vorrei dire liberamente che non mi piacciono le vignette contro Maometto o Gesù, che non le trovo efficaci, che il problema sono l'Isis e i preti pedofili e non le religioni, però poi penso subito che un'opinione così non potrò più esprimerla, perché potrei essere accusato di stare dalla parte dei “nemici”. Dall'altra la rabbia che provo mi spinge a prendere posizione, a non tirarmi indietro». La satira si farà più cauta? «Sì farà magari meno cauta, si radicalizzerà, il rischio è che perderemo tutti un po' il senso critico, vincerà l'estremista che è in noi, mentre proprio ora avremmo bisogno di essere razionali». 

Tutti sono consapevoli dei tanti rischi che si aprono. Dice Vauro: «Quello che è successo a Parigi, una vera azione militare, non deve innescare nuove guerre, non dobbiamo inventare nuovi nemici dove non ce ne sono e generare nuovi conflitti armati». Guardando all'Italia, Staino aggiunge: «Il pericolo è ora che nella vicenda inzuppino il pane i fondamentalisti di casa nostra, la destra becera e intollerante. A destra come a sinistra abbiamo bisogno che le persone più illuminate guidino il dibattito, e aiutino la parte migliore del mondo musulmano a farsi sentire».

Vauro Senesi e il "coccodrillo" per Charlie Hebdo: pioggia di insulti sui social. La doppia morale di Vauro Senesi. Va in tv con la maglia "Je suis Charlie", salvo scordarsi le sue feroci critiche alle vignette di "Charb". Su twitter infatti è scoppiata la bufera dopo il coccodrillo in diretta tv del vignettista di Santoro a Sevizio Pubblico dedicato alle vittime del massacro di Charlie Hebdo: "Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo. Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre. Questi mostri li abbiamo creati noi", afferma Vauro da Santoro. Ma dimentica quelle sue parole di qualche tempo fa contro le vignette di Charlie Hebdo: "Questi disegni sono messaggi violenti che provocano reazioni violente". Implacabile la reazione del web: "Vauro sei un paraculo". 

Criticava Charlie, ora lo piange Tutti contro il coccodrillo Vauro. Il vignettista di Santoro indossa la maglietta di solidarietà, ma quando i francesi pubblicarono i disegni anti islam li accusò di provocare "reazioni violente". E il web si scatena: "Che paraculo", scrive Luigi Mascheroni su “Il Giornale”. Sui social, che non sono la rappresentazione del mondo, ma ne incorniciano comunque un pezzo, c'è chi ricorda che le vignette contro i cristiani non hanno mai prodotto vittime, ecco la differenza tra noi e loro: «Bella la vita Vauro, neh!». C'è chi spegne la tv, perché non può sopportare «Vauro, Ruotolo e tutti quei quaquaraquà che ora alzano le matite al cielo, ma fino a ieri invece...». C'è chi non si ricorda, fino l'altro giorno, vignette di Vauro sull'Islam, e chi ricorda invece che Vauro attaccò le vignette danesi anti-Maometto perché, disse, «messaggi violenti provocano reazioni violente». C'è chi ironizza sul fatto che ora «in Italia aspettiamo la risposta di Vauro, che con sprezzo del pericolo farà una vignetta molto aggressiva. Su Berlusconi o Renzi». E chi, esagerando come solo Twitter è capace di esagerare, nel suo micidiale mix di sintesi e cinismo, digrigna la tastiera: «Vauro con la maglietta "Jesuischarlie", lui, amico dei terroristi islamisti...». E in effetti, l'altra sera, in una trasmissione come Servizio Pubblico di Santoro che faticava parecchio, tra distinguo e cautele, tra buonismo e correctness politica, ad avvicinare i termini «terrorismo» e «Islam», faceva impressione (per alcuni pena) vedere Vauro Senesi, in arte Vauro, in pratica un disegnatore con le sue debolezze e i suoi talenti, come tutti noi, indossare a favore di telecamera la t-shirt con la scritta Je suis Charlie . Che, si vedeva, era fuori taglia, e non solo metaforicamente. Perché a Vauro quella maglietta stava strettissima. Piange i colleghi francesi, ma nega che ci sia una guerra in corso. Condanna i terroristi, ma non dice mai «terroristi islamici». Sbuffa: «Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel Medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo», ma dimentica che i passi li ha fatti la civiltà cristiana, in avanti: e infatti per quanto ritenga esecrabili le vignette satiriche contro il Papa, Comunione e liberazione non ha mai organizzato una crociata su Parigi. Un po' troppi «ma», quando ci sono persone uccise a colpi di Ak47 in nome di Allah. Ieri, sul Corriere della sera , in un pezzo nascosto a pagina 15, non richiamato in prima né postato sul sito del quotidiano, Pierluigi Battista ha firmato un pezzo dal titolo «Vauro e gli altri che bocciarono quelle vignette "provocatorie"», smascherando l'ipocrisia di chi, come Vauro appunto o come Ruotolo, oggi piangono gli eroici giornalisti di Charlie Hebdo , ma ieri li consideravano irresponsabili, dei provocatori. E Vauro ha subito risposto su Dagospia invocando, per par condicio, la censura subita per una vecchia vignetta su Berlusconi. Perdendo sia il senso della misura sia quello del ridicolo. «Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre - ha detto - Questi mostri li abbiamo creati noi». La colpa, anche se a sparare sono gli «altri», è sempre nostra. Per il resto, quella che ci stanno disegnando davanti agli occhi, è una vignetta già vista tante volte. Dentro ci sono molte matite perfettamente appuntite nell'offendere il sentimento religioso cristiano, più spuntate nel farlo con i simboli musulmani. Un'unica mina, una doppia morale. E non fa ridere.

Quell'odio a ritmo di rap dove "balla" il deputato Pd. Molti dei jihadisti, tra cui uno di quelli di Parigi, cantavano le rime violente in voga nelle comunità islamiche, Italia inclusa. In un video compare l'onorevole Chauki, scrive Paolo Giordano su “Il Giornale”. Ormai non si può più. Ora che il video del killer parigino Chérif Kouachi in versione rapper ha fatto il giro del mondo (ma è stato girato nel 2005), è impossibile non riconoscere il fil rouge che collega tanti jihadisti a questa espressione musicale. Dopotutto anche il presunto carnefice dell'ostaggio decapitato James Foley è l'inglese Abdel-Majed Abdel Bary che, prima di sparire, aveva un microscopico seguito londinese come rapper. E pure qui in Italia le rime violente vanno di moda, con varie sfumature. Si va da Amir Issa che nel video Ius Music , (in cui canta «da Palermo a Torino scoppierà un casino»), ha ospitato un deputato Pd di origini marocchine (Khalid Chauki), ai rapper che incitano all'odio mortale come Anas El Abboubi, ora ventenne, arrestato a giugno 2013 per «addestramento finalizzato al terrorismo internazionale» però poi rilasciato dopo pochi giorni: adesso sarebbe ad Aleppo con il nome di Anas Al-Italy e, come si legge sul suo profilo Facebook, di professione «lavora presso la Jihad». Quand'era in Italia, lui di origini marocchine ma arrivato giovanissimo in provincia di Brescia, rappava: «Il martirio mi seduce, voglio morire a mano armata, tengo il bersaglio sulla Crociata». Hai letto bene. Dopo, dalla Siria ha annunciato, keffiah al collo e kalashnikov in mano, di aver abbracciato la sharia con i ribelli siriani. Certo i toni sono diversi, ma sempre aggressivi. Intollerabilmente. Ci sono rapper ultrafamosi come Busta Rhymes, Ice Cube, Nas, Everlast o Jay Z che hanno inserito nelle proprie rime espliciti e tolleranti riferimenti alla fede musulmana. E uno, non proprio famoso per coerenza come Snoop Dogg, si è convertito all'Islam per tre anni dal 2009 prima di passare al Rastafarianesimo. Rap islamico si può ascoltare pure in rete e scaricare in free download e, per quanto aggressivo e colorito, rimane lontano dall'integralismo. Come quello celebrato quattro anni fa a Lignano Sabbiadoro dai Giovani Musulmani d'Italia con il concorso di «anashid islamiyà», ossia canzoni islamiche in arabo. Un altro conto sono le rime che inneggiano alla lotta armata e mortale. Sono un segno di quanto pericolosamente, e nell'indifferenza pressoché totale di quasi tutta la politica e l'informazione, la Jihad abbia fatto propri gli strumenti di comunicazione tipici del mondo giovanile: il rap è il linguaggio musicale più usato dagli under 30 e i terroristi lo hanno capito. Dopo una prima e lunga fase di totale chiusura a forme musicali (ad esempio l'Afghanistan talebano era un paese orfano di ogni tipo di musica) hanno drammaticamente assorbito i linguaggi giovanili occidentali per piegarli alla propria propaganda assassina. Ad aprile il rapper olandese-libanese Hozny ha pubblicato un video che mostrava la macabra messinscena dell'esecuzione del deputato Geert Wilders. E proprio in quei giorni il tedesco Deso Dogg (vero nome Denis Mamadou Cuspert) è morto combattendo con i ribelli dell'Isis in Siria. Follie totali. Ora, anche in questo caso, il rischio emulazione si dilata. E senza dubbio il rap, stile di protesta nato negli anni '70 per cantare il bisogno dei neri americani di uscire dai «ghetti» metropolitani, offre la metrica adatta e soprattutto l'indice di penetrazione popolare più alto in tutto l'Occidente. Quindi non sarà difficile che in un futuro immediato saltino fuori altri esempi di integralismo rap. Mutatis mutandis , il punk o il metal sono stati passioni fugaci di terroristi in epoche non troppo lontane. Ma il segreto per non trasformare le eccezioni in una regola è non generalizzare. Oltre che un errore, l'equazione rap = terrorismo sarebbe un assist imperdonabile alla peggiore delle propagande.

Terrorismo, provate a mettervi nei panni di un musulmano. Khalid Chaouki, parlamentare del Pd, parla a cuore aperto dei fatti di Parigi e delle colpe dell'Islam, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. Khalid Chaouki è nato a Casablanca, in Marocco. Ha 32 anni, è arrivato in Italia da bambino, è cresciuto tra Parma e Reggio Emilia. È tra i fondatori dell’associazione “Giovani musulmani d’Italia”, della quale è diventato presidente, siede nella consulta per l’islam istituita al ministero dell’Interno, da ultimo è stato eletto alla Camera dei deputati nelle file del Partito Democratico.

Come vive un musulmano quello che sta succedendo a Parigi?

«Con grande tensione, paura e sconcerto. Con la consapevolezza che bisogna tradurre in azione concreta e positiva le sensazioni che affollano la nostra mente».

Proprio in questo momento leggiamo che i terroristi sono rimasti uccisi durante le irruzioni delle forze speciali, ma tra i morti ci sarebbero anche alcuni ostaggi.

«Altri morti innocenti. Spero almeno sia la fine di un incubo, spero che le prossime ore siano di silenzio e raccoglimento».

Torniamo a voi musulmani.

«I fatti di questi giorni impongono una riflessione a tutti noi musulmani, ci dobbiamo guardare dentro, aprire una riflessione e interrogare sul ruolo che vogliamo avere nella società del futuro. Una riflessione che deve essere trasparente, visibile, alla luce del sole».

Cosa c’è dentro il cuore di un musulmano?

«C’è grande dispiacere. C’è angoscia, per l’immagine e l’utilizzo che viene fatto della tua religione. C’è vergogna, nel vedere la tua fede che viene associata alla morte. C’è un dolore profondo, che non viene percepito dall’esterno».

Basta manifestarlo, urlare se serve.

«Infatti, io credo che noi musulmani proprio in queste ore dobbiamo fare un passo avanti, andare oltre e costruire le basi di quello che sarà il modello di convivenza nel futuro».

Trasformare questi eventi tragici in occasione positiva?

«Nella loro tragicità, i fatti di Parigi ci offrono l’opportunità per toglierci di dosso il peso che noi musulmani ci portiamo dietro dall’11 settembre. È arrivato il momento di urlare al mondo la nostra rabbia per il modo in cui viene sottomessa e manipolata la nostra religione».

La moschea in Italia viene considerata come una sorta di Rubicone, la linea che non bisogna attraversare, la bandierina che non bisogna issare sul nostro territorio. Alla luce di quello che sta succedendo in Francia e nel mondo, non pensa che sia una scelta controproducente? Non pensa che sarebbe più facile la prevenzione contro i cosiddetti cani sciolti se ci fossero dei luoghi di aggregazione e preghiera con regole chiare e accettate da tutti? E con possibilità di controllo maggiore da parte delle autorità?

«Sarebbe tutto molto più semplice. Purtroppo l’Italia ha sprecato troppi anni in balia della propaganda, senza ragionare da paese serio. Il diritto al culto va regolamentato, e la moschea può diventare una occasione per isolare chi si nasconde e fa proselitismo dentro gli scantinati».

I fatti a cui assistiamo in diretta televisiva dalla Francia, lei come li giudica, atti di terrorismo o guerra?

«Si tratta di guerra, una guerra asimmetrica che va combattuta con una forte controffensiva culturale da parte di tutti, con il mondo musulmano che deve diventare il nostro principale alleato».

Cosa rimprovera al mondo musulmano?

«Il tentativo di etichettare questi fatti come la deriva violenta di un piccolo gruppo criminale. Non è così. La questione è molto più ampia e ci investe nel profondo. Nel mondo musulmano c’è un problema di reinterpretazione dei testi sacri alla luce della modernità, va sancito in modo solenne il rapporto pacifico con l’Occidente. Ci sono nodi teologici irrisolti che poi portano a gesti criminali».

C’è il pericolo di gesti inconsulti nei confronti delle comunità musulmane?

«Sta già accadendo in Svezia e in Francia, sono state lanciate molotov contro moschee. Serve un senso di unità molto forte, serve lo sforzo di tutti, come sta avvenendo in Francia, con i musulmani che si stanno riversando sulle strade per manifestare sgomento, indignazione e condanna».

Lei è oggetto di insulti sui social network, come li vive, come li sopporta?

«Il mio impegno civile è sempre stato di frontiera, vengo criticato anche da molti islamici che mi accusano di essere troppo moderato».

Non ha paura?

«A volte fa male, a volte fa paura. Ma se accetti una sfera pubblica e ti impegni per un’Italia migliore, allora devi essere preparato a fare i conti con una società impaurita dai fomentatori di odio professionisti».

Cosa le fa più male delle immagini che ci arrivano da Parigi?

«Il senso di impotenza che sta vivendo un grande paese come la Francia. Il totale black-out di una città meravigliosa come Parigi, che adoro e che ho visitato con mia moglie. Le fotografie di una Parigi deserta ci sbattono in faccia il fallimento di tutti noi».

Charlie Hebdo siamo tutti noi. La strage nel giornale parigino è un attacco alla nostra stessa idea di civiltà. Una sfida portata dall’estremismo fondamentalista che l’occidente deve affrontare e vincere. Perché in gioco c’è il nostro modello di convivenza, scrive Gigi Riva su “L’Espresso. Hanno sparato e ucciso nella sede del giornale satirico francese “Charlie Hebdo” ma è come se lo avessero fatto nelle case di noi tutti. Perché quelle pallottole sono idealmente indirizzate contro uno dei valori su cui si regge la nostra idea di civiltà, progresso, democrazia. È un pilastro fondativo della modernità occidentale il considerare che la satira è, deve essere, libera e nessun potere, fosse anche un potere che fa ascendere la propria fanatica legittimità direttamente da un dio, si può arrogare il diritto di imbrigliarla. “Charlie hebdo” ha avuto il coraggio di ribadirlo, nella sua gloriosa e travagliata storia (irridente anche nei confronti dei regnanti di Francia), davanti alle minacce per i titoli, gli editoriali e le vignette che hanno avuto come bersaglio l’Islam e Maometto (l’ultima, pubblicata sul sito pochi minuti prima dell’assalto, la vedete qua sotto). La vignetta di “Charlie Hebdo” con il califfo che augura: “e soprattutto la salute”Ma l’estremismo fondamentalista non tollera lo sberleffo, mette al bando il sorriso. Vuole pervadere di cupezza censoria e regolare nei dettagli la vita di sudditi da ridurre all’obbedienza. Tutto il contrario di quanto l’Europa e i suoi cittadini hanno deciso per se stessi, almeno dai Lumi in poi, da quando la libertà di espressione è diventata un diritto inalienabile accanto agli altri che definiscono la dignità degli umani. Che l’attacco a queste conquiste, a questo modo di intendere la partecipazione alla vita pubblica, avvenga a Parigi, aggiunge una suggestione simbolica che rende ancor più potente l’atto e chiama a una reazione altrettanto decisa e coesa. La capitale francese è il luogo dove i valori alla base della nostra convivenza hanno trovato la culla. Anche quello dove la laicità si è declinata in quella dottrina dell’assimilazionismo per cui coloro che abitano nel Paese sono perciò “citoyen de la République”, tutti uguali davanti alla legge secolare, con l’opportunità di esercitare il culto che preferiscono a patto che non interferisca coi supremi diritti dello Stato. Un modello di integrazione che ha coinvolto mezzo milioni di ebrei, cinque milioni di musulmani e recentemente entrato in sofferenza anche, e soprattutto, a causa di una crisi economica che ha contrapposto immigrati vecchi e nuovi e francesi delle classi meno agiate. Mai tuttavia, nemmeno nelle rivolte delle banlieue datate 2006, era stato messo in discussione l’ordine dei valori. Anzi: i disperati rivoltosi chiedevano di essere “più francesi”, di avere le stesse chance degli altri “citoyen”. ma ora che il conflitto si è radicalizzato in Medioriente, ora che lo Stato Islamico offre una terra, un credo e un irresistibile richiamo alla violenza nichilista, ecco che alcune frange esportano la guerra in Europa in un furore iconoclasta che ha l’obiettivo di radere al suolo, e a casa nostra, ciò che rende l’occidente un originale e riuscito paradigma di emancipazione. Non siamo ancora a quella catarsi catastrofista che lo scrittore Michel Houellebecq tratteggia nel suo ultimo romanzo “Sottomissione”, ma il livello dello scontro col fanatismo islamista si è alzato con “Charlie Hebdo” e merita che si aprano finalmente gli occhi. Ci si renda conto della realtà emergenziale e si chiami alla comune difesa di un modo di vivere a cui non vogliamo rinunciare, gli stessi fratelli islamici europei non infatuati del Jihad. Per fortuna, la stragrande maggioranza.

1. MOSTRARE O CENSURARE I DISEGNI DI CHARLIE HEBDO: ORA I MEDIA SI DIVIDONO. Enrico Franceschini per “la Repubblica”. Siamo tutti Charlie Hebdo: lo dicono i cartelli della gente nelle strade di tutta Europa, lo affermano i titoli dei giornali di tutto l’Occidente. Ma non tutti i giornali occidentali — pur condannando come barbaro l’attacco di Parigi e difendendo il diritto del settimanale francese di fare satira come vuole su quello che vuole — hanno ripubblicato le vignette messe sotto accusa dagli estremisti islamici. Il mondo dei media si è per il momento diviso fra chi non pubblica nulla o soltanto vignette che non ritraggono Maometto e chi invece ha pubblicato proprio il materiale che ha fatto infuriare gli islamisti, come la famosa copertina di Charlie Hebdo in cui il Profeta ammonisce: «Vi farò dare 100 frustate se non morite dal ridere!» Adesso un appello lanciato da Timothy Garton Ash, docente di relazioni internazionali a Oxford, columnist del Guardian e di Repubblica, autore di saggi di successo, chiede a tutti i giornali d’Europa di pubblicare le vignette più “forti” del settimanale francese come gesto collettivo in difesa della libertà di stampa. Ma le opinioni in materia appaiono contrastanti. In Gran Bretagna nessun quotidiano ha pubblicato le vignette di Charlie Hebdo. «Siamo dei codardi», scrive amaramente un columnist del Times. Viceversa Tony Barber, commentatore del Financial Times, definisce «editorialmente stupida» la scelta del settimanale parigino di provocare consapevolmente l’ira dei musulmani e lo giudica «non il miglior campione di libertà di espressione»: uscito prima sul sito, il suo articolo è stato ritoccato ieri sera, cancellando questi due severi giudizi, che hanno scatenato sdegno sui social network, ma li ha ripristinati nella versione cartacea pubblicata ieri mattina. Non finisce qui. In America il Washington Post afferma: «Non pubblichiamo mai immagini che possono offendere qualunque religione» e il New York Times segue la stessa linea. Ma il quotidiano del Watergate deve incassare le critiche di una delle sue firme di punta, Carl Bernstein, che con Bob Woodword fece esplodere quello scandalo. In Danimarca alcuni giornali hanno pubblicato le vignette e altri no. L’ Huffington Post, il Daily Beast, Slate e altre testate online le hanno pubblicate; la Bbc e la Cnn no. D’altra parte, come denuncia il blog statunitense Gawker, considerato in patria una sorta di “tempio” della controinformazione, il Daily Telegraph britannico e il New York Daily News hanno pensato bene di “pixelare”, quindi rendendole irriconoscibili, le copertine più controverse contro il Profeta e l’Islam. Stephen Pollard, direttore del Jewish Chronicle, un giornale britannico, pone il dilemma in questi termini: «Il mio istinto giornalistico mi dice di pubblicare tutto, ma che diritto ho di rischiare la vita dei miei redattori?».

2. MA PER L’AMERICA I DISEGNI SUL PROFETA MANCANO DI RISPETTO. Paolo Mastrolilli per “La Stampa”. L’attacco terroristico di Parigi sta spaccando i media americani. Non nella condanna dell’attentato, ovviamente unanime, ma nella opportunità di ripubblicare le vignette del periodico Charlie Hebdo, che hanno provocato la furia degli estremisti. I grandi giornali come New York Times, Washington Post, Wall Street Journal e Usa Today hanno scelto di non farlo. La linea usata dai loro direttori è abbastanza simile: non pubblichiamo immagini che sono state pensate con lo scopo dichiarato di offendere la religione e mancarle di rispetto. Descriverle basta, per compiere il servizio di informazione dovuto al lettore. Questa posizione per certi versi si riflette nella prudenza che la stessa Casa Bianca aveva usato nel settembre del 2012, quando la diffusione di un video giudicato offensivo verso Maometto aveva generato proteste in molti Paesi del Medio Oriente. Era seguito poi l’assalto al consolato americano di Bengasi, che però in seguito si è scoperto essere un’operazione premeditata di un gruppo terroristico. Allora il portavoce del presidente Obama, Jay Carney, aveva commentato proprio alcune vignette pubblicate da Charlie Hebdo, dicendo che non metteva in discussione il diritto di stamparle, ma il giudizio della direzione che aveva deciso di farlo. In altre parole, la libertà di espressione andava sempre difesa, ma forse si potevano evitare le provocazioni. Più dura ancora è stata la reazione ieri del gruppo cattolico conservatore Catholic League. Il suo direttore, Bill Donohue, ha detto che «i musulmani hanno il diritto di essere arrabbiati». Naturalmente Donohue non giustifica l’attentato, però aggiunge che «se Stephane Charbonnier, direttore di Charlie Hebdo, fosse stato meno narcisista, oggi sarebbe ancora vivo. Maometto per me non è sacro, ma non mi è mai passato per la testa di insultare deliberatamente i musulmani offendendolo». Questa linea non è stata condivisa da tutti, nelle redazioni dei giornali americani. La pagina degli editoriali del Washington Post, che nella tradizione dei media Usa ha una gestione separata e autonoma dalla direzione, ha pubblicato una vignetta di Charlie Hebdo, e lo stesso ha fatto l’edizione online del Wall Street Journal. Usa Today invece ha optato per mettere le altre vignette che hanno condannato l’attacco di Parigi, mentre diversi giornali hanno stampato foto in cui si vedono i disegni contestati del periodico francese. L’editorialista del New York Times Ross Douthat ha commentato così: «Se qualcuno vuole ammazzarti per una cosa che vuoi dire, significa che quella cosa va detta». Il dibattito dunque è aperto, fra l’opportunità di prendere decisioni editoriali che non siano apertamente mirate a creare guai, e il dovere di evitare sempre la censura e difendere la libertà.

3. PLANTU: “CONTINUEREMO A PRENDERE IN GIRO. CON LE MATITE DENUNCIAMO LE VIOLENZE”. Cesare Martinetti per “la Stampa”. E adesso? «Il faut continuer se moquer», dice Plantu, non dobbiamo smettere di prendere e prendersi in giro con i disegni. Dunque la satira vive, a Parigi, a cominciare dal grande bureau di Jean Plantu, al settimo piano di Le Monde. Il suo studio è una foresta popolata dalle sagome dei suoi personaggi, la sua scrivania un accumulo di bruillon, schizzi, prove, colori. Plantu ci mostra la vignetta che ha appena concluso per il giornale di oggi: una macchia rossa in strada, il tricolore a mezz’asta sulla tour Eiffel, la bandiera di Charlie Hebdo sull’ingresso dell’Eliseo, una Marianna in lacrime, due barbuti che si allontanano con il kalashnikov sulle spalle e il topolino (l’alter ego del disegnatore) che li guarda reggendo un cartello: «gros connards», diciamo grandi bastardi.

Plantu dal 1985 disegna la vignetta sulla prima pagina di Le Monde e dieci anni fa ha creato «Cartoonist for peace». Che fate?

«Cerchiamo ogni giorno di dialogare con disegnatori cristiani, ebrei, musulmani, agnostici, atei e arriviamo talvolta a fare dei ponti con le nostre piccole matite là dove altri con le loro asce scavano fossati».

Nel vostro programma c’è l’impegno ad essere rispettosi dei credenti. Ci riuscite sempre?

«Ci sono mille modi di raccontare le cose, ho passato la notte qui al giornale a ricevere disegni dal medioriente, dal maghreb di tutte le religioni. C’è l’immagine seria e rispettosa e ci può essere quella un po’ folle. E noi vogliamo tentare di essere più forti degli intolleranti, essere impertinenti senza offendere i credenti. Bisogna continuare la battaglia avendo rispetto per il dolore delle persone che vivono in Iraq o in Afghanistan e smettere di dire che la guerra è lontana. No è qui, a casa nostra».

Ma se c’è di mezzo la religione tutto si complica. Come si superano queste divisioni?

«A noi non interessa sapere se Gesù Cristo ha camminato sulle acque o cosa ha fatto Maometto. Quello che ci interessa è: c’è una donna lapidata? Non è un problema di religione ma di diritti umani, e prendiamo matite e pennarelli per denunciare le violenze. E capita che ci riusciamo perché l’arte e la creatività sono sempre più forti dell’intolleranza».

Lei ora si sente un bersaglio?

«Non lo considero un problema. Io lavoro molto con le scuole. Un disegno è qualcosa che ognuno vede, se ne appropria, ci si può esprimere in mille modi, lascio la mia matita a qualcun altro. Oggi siamo con tutto il cuore con Charlie Hebdo e tutti possono firmare questo disegno, la mano è anonima».

A Charlie Hebdo qualcuno aveva passato il segno del rispetto?

«Io penso che gli artisti abbiano tutti i diritti, di disegnare e fare il ritratto di chiunque. Ciò detto siamo nel 2015, e bisogna fare attenzione perché laggiù all’angolo della strada c’è un mascalzone che aspetta soltanto che gli facciamo un regalo per liberare la sue folle armate di kalashnikov e granate. Abbiamo creato l’associazione dieci anni fa per battere l’imbecillità dei farabutti».

I quattro di Charlie erano nell’associazione?

«Solo Tignous».

4. LA LIBERTÀ DEGLI ALTRI. Francesco Merlo per “la Repubblica”. Non ci piacciono le vignette anti islamiche di Charlie Hebdo , anche se abbiamo sempre pensato che fosse suo pieno diritto pubblicarle. Erano coerenti infatti con la natura canzonatoria e provocatoria di quel giornale, con la sua idea di satira vasta e disinteressata, con quell’accanimento derisorio portato alle estreme conseguenze dinanzi al quale, scriveva Italo Calvino «mi faccio piccolo piccolo». «Perché — aggiungeva — supera la soglia del particolare per mettere in questione l’intero genere umano, confinando con una concezione tragica del mondo». E tuttavia non ci piacciono quelle vignette neppure dopo l’enormità dell’atto terroristico e l’immenso dolore per la morte di 12 persone libere e innocenti. Appartengono infatti alla grammatica della blasfemia e non a quella della trasgressione, anche se, sbeffeggiando il profeta Maometto, più che bestemmia in senso stretto quelle caricature erano empietà aggressiva in una città, Parigi, dove tantissime jeunes filles musulmane passeggiano per gli Champs-Élysées con i capelli al vento. A Parigi sono musulmane le studentesse universitarie, le impiegate, le giornaliste, e sono arabi musulmani i grandi chirurghi e i piccoli venditori di frutta, le star del pop e i professori universitari, gli edicolanti e i camerieri dei ristoranti. Tutti laici come i calciatori eredi di Zidane e come il poliziotto finito con un colpo di Kalashnikov dal fanatico terrorista, con un accanimento selvaggio che offende tutti i codici militari e in nome di un Dio killer che svilisce qualsiasi Dio. Di sicuro al Dio macellaio la stragrande maggioranza dei musulmani francesi non crede e non crederà mai. Dunque sono un pretesto le vignette blasfeme. Se Charlie Hebdo non fosse mai esistito i terroristi avrebbero sparato in un bar, in una stazione del metrò o in un aeroporto. Le vignette sono l’alibi dell’attacco e del ricatto all’Occidente, più insidioso per noi, spaventati da una violenza irriducibile dalla quale è difficile difendersi, che per le frustrazioni nazionaliste, etniche e religiose di quella minoranza di profughi ribelli e di barbuti arrabbiati e confusi dalla quale provengono i terroristi in cerca di una scusa per uccidere. Dal punto di vista militare questo nuovo terrorismo diffuso prova a rilanciare, a partire dalla città più civile tollerante e laica d’Europa, il famoso scontro di civiltà. Ma la strage nella sede di un giornale rischia di armare di più i francesi tentati da Marine Le Pen che i francesi musulmani che, per la verità, non sono tentati né dallo Stato Islamico né da Al Qaeda. La bestemmia diventa così uno di quei dispositivi accidentali della storia, come il naso di Cleopatra per esempio. E basta guardare la felicità dei leghisti italiani e le reazioni scomposte dei fanatici delle Leghe Sante. I 12 morti di Parigi sono come un richiamo della foresta per i nostri cristianisti con il Crocifisso tra i denti che papa Francesco aveva messo a cuccia, un ritorno alla natura per l’estrema destra razzista pronta alla difesa di una Francia e di un’Europa bianche e cristiane. La paura sui cui soffiano è quella dall’islamizzazione immaginata nel romanzo Sottomissione da Houellebecq, preso in giro proprio dalla copertina di Charlie Hebdo: «Le predizioni del mago Houellebecq: “Nel 2015 perdo i denti... ” (i suoi problemi odontoiatrici sono noti) e “nel 2022, faccio il Ramadan!”». La verità è che persino la rabbia delle squadracce di banlieue a Parigi, anche se araba e violenta, non è governata dagli integralisti islamici. E in fondo questi terroristi così barbari sono quelli che non ce l’hanno fatta, gli scarti feroci di un’integrazione che è invece riuscita, non solo in Francia. E sono due volte disadattati, sia in Francia sia nelle milizie islamiche dove devono sempre conquistarsi i quarti di nobiltà terrorista sgozzando e massacrando più degli altri. Ieri a caldo una vignetta di Charlie Hebdo mostrava un energumeno tutto bardato di nero incappucciato e sudato che entrava in Paradiso mitragliando e gridando: «dove sono le mie vergini?». Riceveva questa risposta al tempo stesso canzonatoria e malinconica: «Sono nel paradiso dei vignettisti ». Disadattato anche là. È già stato scritto che Charlie Hebdo aveva deriso, e certamente avrebbe continuato a farlo, anche i simboli delle altre religioni. E ricordo bene le natiche del Papa, il matrimonio omosessuale tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e la masculinità di Shiva, senza risparmiare neppure Buddha, un dio “parzialmente scremato”. Si rideva forte e facile con Charlie Hebdo, perché la scurrilità di Maometto, raffigurato prono con le stelline sulle terga, quando ti arriva sotto gli occhi, è più veloce del pensiero. E certo è ancora libertà d’espressione la violazione dei codici del rispetto delle religioni. Ma non avere stampato le bestemmie è stato il nostro codice di libertà di espressione, coniugata, ancora di più adesso che siamo tutti sotto choc, con il controllo degli istinti. La laicità e la secolarizzazione comportano infatti anche un governo dell’invocazione e dell’imprecazione: della preghiera, che non è un selvaggio rito collettivo, e della bestemmia, soprattutto del Dio altrui. Ma viviamo in una parte del mondo — ecco la differenza — dove la libertà è la cosa più importante. Non conta che gli altri la pensino come me: ma che siano liberi di pensare e di esprimere le loro idee con il solo limite del rispetto delle leggi. Ecco perché difendiamo la libertà di Charlie di esprimersi secondo la sua natura e le sue modalità, le sue libere scelte, anche quando non sono le nostre. Facciamo sapere a tutti gli estremisti religiosi del mondo che mai rinunzieremo alla critica e alla satira, anche delle religioni, e non accetteremo un ritorno all’inquisizione e alla punizione fisica delle bestemmie, al medioevo islamico. Anche se non diventeremo mai, come vorrebbero gli estremisti islamofobi, tutti sbeffeggiatori di Maometto.

Terrorismo islamico a Parigi: massacro al giornale Charlie Hebdo. Due terroristi fanno irruzione nella redazione di Charlie Hebdo armati di kalashnikov, poi fuggono a Reims. Tra i dodici morti c'è il direttore Charb. Un poliziotto giustiziato per strada, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. Armati di kalashnikov due terroristi hanno assaltato la redazione di Charlie Hebdo. Cinque minuti di sangue e quello che è l'attentato più cruento commesso in Francia dal 1961, ai tempi della guerra di Algeria, fa ripiombare Parigi e l'intera Europa nell'incubo del fondamentalismo islamico. Al grido di "Vendicheremo il Profeta" due uomini incappucciati e vestiti di nero hanno fatto irruzione nella reception del settimanale satirico e hanno aperto il fuoco. A terra i cadaveri crivellati di colpi di dodici persone. Tra questi il direttore Stephane Charbonnier, che firma le vignette Charb, e altri sette giornalisti. Una raffica di colpi, almeno una trentina, con i mortali AK47. Dodici morti a terra e i giornalisti in fuga sui tetti. Un assalto che porta la firma della jihad islamica. La colpa di Charb e dei disegnatori di Charlie Hebdo? Aver pubblicato vignette satiriche su Maometto. Già nel 2011 la redazione fu distrutta da una molotov. L’attentato, che non provocò vittime, avvenne nel giorno dell'uscita del numero speciale dedicato alla vittoria elettorale degli islamisti in Tunisia. Il titolo "Maometto direttore responsabile di Charia Hebdo" era un gioco di parole sulla sharia. Anche nell'ultimo numero non è mancata la provocazione: in copertina campeggia una foto dello scrittore Michel Houellebecq, al centro di polemiche per il romanzo Sottomissione che racconta l’arrivo al potere in Francia di un presidente islamico. A fare irruzione è stato un commando armato formato da Said e Cherif Kouachi, due fratelli franco-algerini di 32 e 34 anni legati alla rete terrorista yemenita e da poco tornati dalla Siria. Oltre a Charb i due hanno ammazzato otto giornalisti (tra questi Jean Cabut detto Cabu, Tignous, Georges Wolinski, Bernard Maris e Philippe Honoré), il poliziotto Franck D., un ospite della redazione (Michel Renaud) e il portinaio. Tra gli undici feriti c'è il giornalista Philippe Lançon. Dopo il blitz sono scappati a bordo di una Seat guidata dal 18enne Hamyd Mourad. Durante la fuga hanno investito un passante e hanno ingaggiato un secondo scontro a fuoco con le forze di polizia. Immagini di violenza inaudita che sono state riprese dai tetti: l'agente Ahmed Merabet è stato giustiziato con un colpo alla testa mentre si trovava, inerme, ferito a terra. Solo dopo diverse ore le teste di cuoio dei reparti Raid sono riuscite a localizzarli a Reims. Il presidente francese Francois Hollande ha parlato di "attentato terroristico di eccezionale barbarie, un attentato alla nostra libertà". Un attentato che arriva a stretto giro da altri tre inquietanti attacchi al grido "Allah hu Akbar". Il 22 dicembre a Nantes, nella Francia nord occidentale, un camion è stato lanciato sul tradizionale mercatino natalizio ferendo undici persone. Nemmeno ventiquattr'ore prima a Digione, nel nord est del Paese, un 40enne alla guida di una Renault Clio aveva travolto la folla mandando all'ospedale 13 persone. Sempre al grido di "Allah hu Akbar". Vicende troppo simili e troppo vicine per non metterle in relazione tra loro. A queste va poi aggiunta una terza, quella di Jouè-lès-Tours dove un convertito all'Islam è entrato nel commissariato cittadino e ha aggredito tre poliziotti. Una scia di sangue nel nome di Allah.

Dal direttore Charb al mitico Wolinski, la strage della satira nella redazione di Charlie Hebdo. Tra le dodici vittime dell'assalto anche cinque celebri vignettisti: il direttore, il vecchio e storico creatore di "Paulette", Cabu, Tignous e Honoré, scrive Francesco Fasiolo su “La Repubblica. Un giornale satirico simbolo della libertà di stampa e di espressione. Questo è diventato Charlie Hebdo nel corso degli anni. E per questo è tragicamente divenuto anche l'obiettivo simbolo del terrorismo. Dieci collaboratori uccisi in redazione, tra loro alcuni dei grandi vignettisti famosi ben oltre i confini francesi. Una storia cominciata nel 1960, quando nacque Hara-Kiri, definito dai suoi fondatori (tra cui Cabu e Georges Wolinski, tra le vittime dell'attentato) "un giornale stupido e cattivo", da subito protagonista di innumerevoli battaglie e censurato un paio di volte dalla magistratura francese. E' nel 1970 che lo stesso gruppo, dopo l'ennesimo scandalo (una copertina che ironizzava sulla morte di Charles De Gaulle e che costò al giornale il blocco delle pubblicazioni) diede vita al "Charlie Hebdo", riferimento al celebre Charlie Brown dei Peanuts. Da allora sono stati attacchi, sarcasmo e ironie contro la destra, ma anche la gauche, su tutti i fronti e tutti i temi.

Vignette su Maometto. È però nel 2006 che l'Hebdo diventa noto al pubblico internazionale con la scelta di ripubblicare le dodici controverse vignette su Maometto del giornale danese Jyllands-Posten. Immediate arrivarono le proteste di esponenti del mondo islamico, il giornale fu incriminato per razzismo e l'allora direttore Philippe Val fu assolto nel 2008 da un tribunale francese. Nel novembre 2011 esce "Charia Hebdo", il numero speciale dedicato alla vittoria degli islamisti in Tunisia. In copertina una immagine di Maometto che promette "Cento frustate se non morite dal ridere". Prima che l'edizione arrivasse nelle edicole, la sede della rivista viene distrutta da un incendio provocato da un lancio di molotov. Il numero vende 400.000 copie, il direttore Charb viene minacciato di morte e messo sotto protezione.

Le vittime. Charb era il nome d'arte di Stéphane Charbonnier, 47 anni, alla guida del settimanale dal maggio 2009. Insieme a lui, nell'attentato sono morti anche altri quattro vignettisti: Cabu, Tignous, Philippe Honoré e Georges Wolinski. E' proprio quest'ultimo il nome più noto anche fuori dalla Francia. Controcorrente e provocatorio Wolinski, nato a Tunisi nel 1934, lo è sempre stato. Gli italiani lo hanno conosciuto sin dagli anni 70, quando leggevano su Linus le sue storie dissacranti. Disegnatore e sceneggiatore, con Georges Pichard crea il personaggio di Paulette, inizialmente su Charlie Mensuel e poi protagonista di pubblicazioni autonome. La protagonista è una giovane ricchissima, che ha almeno due particolarità: è di sinistra e appare spesso, in pratica sempre, nuda o seminuda. Le sue storie sono sempre in bilico tra l'erotico e il politico, perché la ragazza, in opposizione con la sua vantaggiosa situazione economica e sociale, è pienamente calata nel clima degli anni '70, tra lotte studentesche, manifestazioni contro la guerra in Vietnam, suggestioni hippy. Se in passato Wolinski è stato al centro di polemiche, accusato di immoralità o pornografia per le nudità e le tematiche trattate (tra i suoi libri "Il porcone maschilista" e "Le donne pensano solo a quello") , a 80 anni era uno dei nomi più importanti del fumetto mondiale. Una fama che gli è stata riconosciuta nel 2005, con la vittoria del Grand Prix di Angouleme, in pratica l'equivalente nel mondo dei comics dell'Oscar alla carriera, e con una grande retrospettiva del 2012 alla Bibliotheque Nationale de France, dove sono custoditi tutti i suoi archivi.  Cabu, vero nome Jean Cabut, 76 anni, era uno dei pilastri di Charlie Hebdo, sin dalla fondazione di Hara-Kiri. Il suo nome era rimbalzato sui media di tutto il mondo quando nel febbraio 2006, in piena polemica per le vignette danesi su Maometto, disegnò in copertina il Profeta che insultava i fondamentalisti. Tra i suoi lavori, molto famoso in Francia è "Mon Beauf", serie su un francese medio, razzista e maschilista. Bernard Verlhac era invece il vero nome di Tignous, 57 anni, che lavorava anche per Fluide glacial, storicamente uno dei più importanti magazine francesi di fumetti. Al suo attivo otto libri. Il più recente, intitolato "5 ans sous Sarkozy" (Cinque anni sotto Sarkozy) è stato pubblicato nel 2011. Fa venire i brividi oggi l'ultima vignetta di Charb, pubblicata sull'ultimo numero di Charlie Hebdo, mostrava un terrorista islamico sotto la scritta: "Ancora nessun attentato in Francia". "Aspettate" diceva l'uomo armato "Abbiamo ancora tutto gennaio per farvi i nostri auguri".

Il dissacrante Charlie Hebdo, nato alla sinistra della sinistra, scrive Anna Maria Merlo su “Il Manifesto”. Il settimanale. Da sempre indipendenti, dagli industriali e dalla pubblicità. Vignette e reportage corrosivi. Non solo contro l’islam: il primo bersaglio sono state la chiesa cattolica e l’estrema destra. Cabu e Wolinski, che sono stati assassinati ieri assieme al più giovane Charb, nell’attentato che ha fatto 12 vittime nella redazione del settimanale Charlie Hebdo, sono stati protagonisti fin dagli anni ’60 dell’avventura, iniziata con Hara-Kiri, della stampa satirica libertaria francese della seconda metà del XX secolo. All’inizio, c’erano personalità come Topor, Reiser, lo scrittore François Cavanna, che hanno l’idea di pubblicare la versione francese di Linus italiano. Nel ’70, dopo varie censure di cui è vittima Hara-Kiri – l’ultima, a novembre, dopo la morte di De Gaulle, per un titolo dissacrante – il gruppo fonda Charlie Hebdo (dal nome di un personaggio di Schultz e con un riferimento ironico a Charles De Gaulle). Della prima versione di Charlie Hebdo usciranno, fino all’81, 580 numeri. Un altro numero uscirà nell’82. Nel ’92, la testata rinasce. Fa effetto oggi, di fronte agli avvenimenti, ricordare che la società costi­uita allora per il rilancio si chiamava Les Etitions Kalachnikof. Nel ’92 partecipa già Charb, che dal 2009 era diret­ore della pubblicazione. Charlie Hebdo ha radici nella sini­tra della sinistra, ma non ha mai avuto una linea editoriale precisa. La sua storia è fatta di battaglie, di scontri, di abbandoni, di ostracismi, di ritorni. E di molte polemiche, anche interne alla redazione: nel 2002, un articolo a difesa del libro La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci, viene subito criticato. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 ci sono prese di posizione conflittuali contro una parte dell’estrema sinistra, accusata di non aver condannato gli islamisti per antiamericanismo. Philippe Val, che all’inizio degli anni 2000 diventa direttore della pubblicazione, accusa Tariq Ramadan di essere un propagandista antisemita. Val nel 2005 difende il «sì» al referendum sul Trattato costituzionale europeo, altri difendono il «no» – che sarà vitto­rioso – sulle pagine del settimanale. Charlie Hebdo non si limita alla satira, ma pubblica anche reportage sulla società e sulle grandi questioni dell’attualità mondiale (in particolare, alla fine degli anni ’70, importanti inchieste sull’estrema destra). Oncle Bernard (l’economista Bernard Maris, assassinato anch’egli ieri) ha firmato cronache economiche sempre di grande interesse. La caratteristica di Charlie Hebdo, con le sue vignette corrosive che molto spesso hanno disturbato, è sempre stata l’indipendenza, dalle ideologie come dal denaro. «Non vogliamo ricchi industriali come azionisti – aveva detto Charb nel 2010 – e non vogliamo neppure dipendere dalla pubblicità. Non prendiamo quindi gli aiuti di Stato che vanno ai giornali cosiddetti “di deboli introiti pubblicitari”, visto che non abbiamo pubblicità. L’indipendenza, l’indipendenza totale, ha un prezzo». Charlie Hebdo ha sempre lottato contro tutti i fanatismi. Il primo bersaglio è stata la chiesa cattolica, in quanto religione maggioritaria in Francia. Le vignette sono state sempre corrosive, a volte anche con una certa pesantezza. Il settimanale molte volte è stato denunciato, dai politici, dai cattolici, di recente dai musulmani. Charb ha sempre precisato: la critica è sull’«alienazione delle fede», qualunque essa sia. Nel 2006, Charlie Hebdo pubblica le caricature di Maometto del giornale danese Jyllands Posten, arricchite da altre vignette firmate dai disegnatori del settimanale. Il Consiglio francese del culto musulmano chiede la censura del numero e sporge denuncia. L’allora presidente, Jacques Chirac, condanna le «provocazioni manifeste». Ne seguirà un processo nel 2007, dove ha testimoniato, a favore della libertà di stampa, anche François Hollande, non ancora presidente. La storia delle caricature di Maometto, che sembra all’origine del massacro di ieri, era già stata la causa di un incendio criminale di cui era stata vittima la sede di Charlie Hebdo nel novembre 2011. La redazione, allora, era stata ospitata per due mesi da Libération. Altre caricature di Maometto susciteranno polemiche e denunce nel 2012. La copertina in edicola di Charlie Hebdo questa settimana prende in giro lo scrittore Michel Houellebecq, di cui ieri è uscito l’ultimo libro, Soumission, che racconta dell’elezione di un islamista alla presidenza della Repubblica francese nel 2022.

L'attentato che spazza via le certezze della sinistra. L'attentato terroristico di Parigi è riuscito là dove le innumerevoli stragi dei cristiani hanno fallito: ha risvegliato la coscienza della sinistra italiana ed europea contro l'Islam. Tutto, compreso quello moderato, scrive Roberto Bettinelli su “L’Informatore”. Il massacro nella redazione del giornale satirico Charles Hebdo è riuscito là dove le innumerevoli stragi dei cristiani in tutto il mondo hanno fallito: ha risvegliato l’ottusa coscienza della sinistra italiana ed europea contro l'Islam. Michele Serra su Repubblica ha evocato «la terza guerra mondiale» sentenziando che «esiste un fanatismo islamista terrificante contro il quale l’Islam per primo è chiamato a mobilitarsi». Fino ad ora nessuno mai nel campo della sinistra, e men che meno un esponente illustre della sua intellighenzia come l’ex direttore di Cuore, si era spinto fino a pronunciare una condanna che per la prima volta varca il confine fra l’Islam moderato e l’Islam dei terroristi. Serra l’ha fatto, e nel farlo, ha sicuramente interpretato lo stato d’animo di gran parte del popolo della sinistra che è stato scosso in profondità e con una forza mai provata in precedenza dalla ferocia di un fondamentalismo che ha preso di mira un valore intoccabile come la libertà di stampa e di satira. Una reazione inedita che rivela come per la cultura politica che anima Repubblica esista una gerarchia delle libertà. E fra queste la libertà di stampa e di satira, uno dei generi prediletti dalla sinistra, siano da collocare su un gradino più alto della libertà di religione. La prova che non ci sbagliamo è che in questa occasione Serra e il giornale più letto e autorevole della sinistra italiana hanno preso posizione contro tutto l'Islam, anche quello moderato, rompendo con la lettura ideologica che li separa nettamente e che non è disposta a tollerare nessuna sovrapposizione. E sono stati costretti a farlo da una macabra beffa che cade tragicamente a poche settimane dalla risoluzione del parlamento europeo che ha riconosciuto, per iniziativa del Pse, il diritto alla Palestina di costituire uno stato autonomo. Un'azione diplomatica che sembrava assicurare la pace ma che ha contribuito a innescare la risposta dei terroristi che hanno attaccato il giornale diretto da Stephan Charbonnier, colpevole di aver ripetutamente pubblicato vignette e fumetti contro Maometto e Al Baghdadi, il leader dell’Isis. Lo scenario non poteva essere più chiaro. Da un lato l'Europa che, sulla spinta di un’adesione incondizionata e irresponsabile al dogma del multiculturalismo, riconosce il diritto palestinese di formare un proprio stato nonostante la massiccia presenza di formazioni legate ad Al Quaeda nella striscia di Gaza e in Cisgiordania; dall’altro il terrorismo islamico che colpisce a morte una delle capitali più importanti dell’Unione Europea, uccide 12 persone tra giornalisti e poliziotti, getta nell’incubo perenne degli attentati l’intero occidente. Adesso che i ‘lupi solitari’ hanno travolto con la loro furia omicida un simbolo della libertà di stampa e di satira come Charles Hebdo, la sinistra insorge e attacca l’Islam, tutto, che dovrebbe ribellarsi e comportarsi «come fece la sinistra con le Brigate Rosse». Così suggerisce Serra stabilendo un parallelo fra quello che avrebbe fatto il Pci negli anni di piombo e quello che dovrebbero fare oggi i mussulmani che non si riconoscono nella brutalità di Al Quaeda e dell’Isis. Il consiglio di Serra è apprezzabile, ma ha l’odore fastidioso dell’ipocrisia. A sconfiggere le Brigate Rosse non fu il Pci ma furono i carabinieri del generale Alberto Dalla Chiesa. L’Italia divenne il teatro di uno scontro spietato. Vinse lo Stato. E per un solo motivo: fra i due contendenti fu il più duro e implacabile. Lo stesso deve valere per i terroristi che ammazzano e muoiono nel nome di Allah. Ci saranno altri attentati e altri morti. L’alleanza dell’Islam moderato può essere utile ai fini della vittoria finale. Ma non può bastare. L’Europa e l’occidente, se non vogliono soccombere, non hanno altra scelta che porre fine alle illusioni di un multicuralismo che è l'esatto contrario del rispetto delle identità dei popoli. Ma soprattutto devono accettare di avere di fronte un nemico che vuole la loro fine con tutti i mezzi disponibili. E fare altrettanto. 

Charlie Hebdo, quella satira “cattiva” che disturbava i perbenisti. Il giornale francese è stato bersaglio di polemica da parte degli esponenti musulmani per le sue vignette su Maometto. Venne più volte chiuso e poi riaperto, scrive Cesare Martinetti su “La Stampa”. Un simbolo del giornalismo francese, un giornale nato e cresciuto negli anni 70, che si autodefiniva con ironia “bete e méchant”, bestiale e cattivo, iconoclasta, un giornale che disturbava l’opinione pubblica perbenista, capace anche di ironizzare su Charles De Gaulle il giorno della sua morte e che per questo chiuso per un po’. Nato dalle ceneri di Hara-Kiri, lanciato da Georges Bernier e François Cavanna, Charlie Hebdo è un giornale a fumetti satirico che ha fatto della provocazione la sua cifra costituente. “Journal bete et méchant”, secondo l’autodefinizione degli autori. Vi hanno lavorato negli anni caricaturisti come Francis Blanche, Topor, Fred, Reiser, Wolinski, Gébé, Cabu. Più volte chiuso e poi riaperto in seguito a denunce e a crisi editoriali. Il nome Charlie viene scelto nel 1969 quando il giornale appare sostanzialmente come versione francese dell’italiano Linus e come quest’ultimo prendi il nome da un personaggio dei Peanuts (Charlie Brown). Nel 1992 assume l’attuale identità. Il giornale è sostanzialmente espressione di una sinistra culturale. Tuttavia vi si trovano le opinioni e le posizioni più diverse e anche contrapposte. Nel 2002 aveva preso posizione a favore di Oriana Fallaci quando venne pubblicata in Francia “La rabbia e l’orgoglio”, il suo pamphlet contro i cedimenti occidentali all’islamismo. Nel 2006 CB pubblicò le famose vignette di satira su Maometto e i costumi musulmani che erano uscite sul settimanale danese Jyllands-Posten provocando manifestazioni violente di protesta in tutto il mondo islamico. Disegnatori e giornalisti danesi vennero minacciati ripetutamente. Charlie Hebdo scelse di pubblicare quelle vignette aggiungendone altre francesi per solidarietà e per marcare una linea di libertà di espressione contro tutte le intolleranze religiose. La pubblicazione provocò proteste nella comunità musulmana francese, il Consiglio del culto musulmano chiese che il giornale venisse sequestrato, lo stesso presidente della Repubblica Jacques Chirac censurò la scelta di Charlie Hebdo. Da allora il giornale – che pure tratta con articoli e vignette tutti i temi di società - è stato bersaglio di polemica da parte degli esponenti musulmani. Da allora un presidio di polizia era stato istituito davanti alla sede del giornale.

Charlie Hebdo, la storia della rivista già colpita per le vignette su Maometto. Il settimanale ha un orientamento libertario, di sinistra e fortemente anti-religioso. Pubblicato la prima volta nel 1970, scatena subito polemiche all'indomani dei funerali del generale Charles de Gaulle. Nel 2011 la sede viene incendiata, scrive F. Q. su “Il Fatto Quotidiano”. Satirico, irriverente e anticonformista. E’ questo lo spirito di Charlie Hebdo, il settimanale francese che questa mattina è stato preso di mira da un commando di terroristi armati che hanno compiuto una strage nella sede parigina. Il giornale ha un orientamento libertario, di sinistra e fortemente anti-religioso. E si pone l’obiettivo di difendere le libertà individuali. La rivista è soprattutto nota per le sue vignette e illustrazioni politicamente scorrette, ma anche per gli articoli incentrati su politica, cultura, estrema destra, cattolicesimo, islam e giudaismo. E anche se prende di mira principalmente i politici di destra, il settimanale non risparmia i partiti di sinistra francesi. Secondo l’attuale direttore, il disegnatore Stéphane Charbonnier, noto come Charb, il giornale riflette “tutte le componenti del pluralismo di sinistra e perfino dell’astensionismo”. Nel 2006 il giornale suscitò polemiche pubblicando una serie di caricature del profeta Maometto, diffuse inizialmente dal quotidiano danese Jyllands-Posten e vendendo 400.000 copie. In Italia le vignette vennero riprese dal ministro delle Riforme Roberto Calderoli che in un’intervista televisiva indossò una maglietta con le illustrazioni, un episodio che scatenò forti reazioni popolari nel mondo arabo, culminate con alcuni morti in Libia. Il numero di Charlie Hedbo incendiò proteste violente nei Paesi mussulmani. Diverse organizzazioni musulmane francesi, tra cui il Consiglio francese del culto musulmano, chiesero di seguito di mettere al bando il numero del settimanale contenente altre caricature di Maometto, ma la richiesta non fu accolta. A fine 2011, la redazione venne completamente distrutta da un incendio doloso e il sito del giornale venne attaccato dagli hacker dopo un numero speciale denominato Sharia Hebdo. Attacchi di matrice islamica, secondo gli inquirenti. Temporaneamente, la redazione si trasferì nei locali del quotidiano Liberation, per poi migrare in nuovi locali; l’attacco fu lanciato prima dell’uscita nelle edicole di un numero con in copertina un’altra vignetta satirica con Maometto. La storia di Charlie Hebdo comincia negli anni ’60 ed è strettamente legata a quella del mensile Hara-Kiri, lanciato da Georges Berniere e François Cavanna, e definito da loro stessi “un giornale stupido e cattivo”. La rivista fu al centro di diverse polemiche e fu interdetta dalla magistratura nel 1961 e poi nel 1966. Trasformata successivamente in settimanale, uscì in edicola per la prima volta nel 1970, ispirato a Charlie Brown. A novembre dello stesso anno la rivista suscitò critiche dopo la morte di Charles de Gaulle, titolando in copertina ‘Bal tragique à Colombey – un mort’, ossia ‘Ballo tragico a Colombey, un morto’, con un riferimento alla residenza del generale. Di seguito le pubblicazioni di Hara-Kiri vennero bloccate dal ministero dell’Interno francese, ma i giornalisti aggirarono il divieto lanciando una nuova pubblicazione, Charlie Hebdo, che deve il nome al famoso personaggio del fumetto Peanuts. Il settimanale rimase chiuso tra il 1981 e il 1992 dopo un calo del numero di lettori. Prima di Charb a guidarlo furono François Cavanna e Philippe Val. La rivista è pubblicata ogni mercoledì, ha una tiratura media settimanale di 100.000 copie, con 15.000 abbonati.

Giuliano Ferrara alza i toni l’8 gennaio 2015 durante «Servizio Pubblico» su La7. Il direttore de Il Foglio ritiene che la strage di Parigi non sia "terrorismo" ma che faccia parte di un'ampia strategia voluta dal mondo islamico per «andare contro l'Occidente cristiano-giudaico». «Questa è una Guerra Santa, se non lo capite siete dei coglioni!», tuona Ferrara.

Vietato parlare di Islam, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Dopo la strage di Parigi esiste ancora la libertà di stampa? Si può ancora pubblicare oppure no un’opinione anche quando questa è politicamente scorretta? Ieri tutti i quotidiani traboccavano di articoli di fondo inneggianti alla libertà minacciata dall’assassinio a sangue freddo del direttore e dei principali collaboratori di Charlie Hebdo. E però gli stessi quotidiani si guardavano bene dal prendere di petto la questione, preferendo nascondere se non cancellare la parola islam. Sulla prima pagina del Corriere per trovarla ci si doveva sottoporre a una vera caccia al tesoro. Il titolo a tutta pagina non parlava di strage islamica o di terrorismo islamico, ma di «Attacco alla libertà. Di tutti». Ah sì? E da parte di chi? Per scoprirlo bisognava leggere il sommario su una colonna: «Al grido di “Allah è grande” tre terroristi assaltano il giornale delle vignette satiriche su Maometto: 12 vittime». Per capire poi che l’islam c’entra qualcosa, l’occhio doveva cascare sull’occhiello sfumato (una colonna) che sovrastava l’editoriale di Ernesto Galli Della Loggia: «Islam, la vera questione». Ecco, la notizia era lì, nell’occhiello. Solo allora si scopriva che l’islam c’entra qualcosa in quello che è accaduto a Parigi, perché Galli della Loggia scriveva che esiste un problema islam, «un insieme di religione, di cultura e storia, riguardante in totale circa un miliardo e mezzo di esseri umani dove nel complesso (nel complesso perché vi sono anche le eccezioni e sarebbe da stupidi ignorarle) vigono regole diverse e perlopiù incompatibili con quelle che vigono in quasi tutte le parti del mondo». Questo è il punto. Ma il Corriere ha pensato bene di nasconderlo il più possibile, titolando sull’11 settembre dell’Europa, di cui peraltro nell’articolo non si fa nemmeno cenno e che comunque sarebbe sbagliato perché l’Europa ha già avuto i suoi 11 settembre con le bombe nel metrò di Londra (52 morti) e sui treni alla stazione di Madrid (191 morti). 

Vietato illudersi: l'islam è il nemico, continua Belpietro. "È un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità". Sono passati dieci anni da quando Oriana Fallaci scrisse queste frasi sulla prima pagina del Corriere. La più conosciuta e stimata giornalista italiana era appena stata denunciata per vilipendio all’Islam, perché nei suoi libri e nei suoi articoli si era permessa di metterci in guardia contro il Mostro, così lo chiamava, e di mettere in dubbio la fandonia dell’Islam buono contro quello cattivo. Oriana si opponeva alla nascita della moschea di Colle val d’Elsa, sosteneva che il mondo occidentale era in guerra e doveva battersi, attaccava il multiculturalismo, la teoria dell’accoglienza indiscriminata, la dottrina cattolica che insegna ad amare il nemico tuo come te stesso. E per questo, per quel che scriveva, fu considerata pazza dall’intellighezia progressista mondiale, quasi che l’integralista fosse lei, lei armata di penna e taccuino e non gli islamici armati di esplosivi, coltelli e kalashnikov che noi abbiamo invitato nelle nostre case e nelle nostre città, consentendo loro - in virtù della libera circolazione imposta dal trattato di Schengen - di viaggiare a loro piacimento, senza controlli e con la possibilità di organizzare qualsiasi massacro. Oriana è morta da anni, ma le sue nere profezie si stanno realizzando puntuali come erano state previste. Quel che è accaduto ieri nella redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, una delle poche testate che anni fa difesero nel silenzio generale il coraggio della scrittrice toscana, è esattamente ciò che lei aveva immaginato.

Il lungo incubo di Coco: «Ho aperto quella porta e hanno sparato a tutti». Parla la vignettista che per prima ha incontrato i due attentatori del «Charlie Hebdo» I due boia incappucciati le hanno puntato i kalashnikov alla testa, scrive Elisabetta Rosaspina “Il Corriere della Sera”. «Faccio attenzione quando si tratta di religione. Ci penso due volte prima di fare un disegno. Ma non mi autocensuro, è fuori questione» garantiva tre anni fa «Coco» al sito della cittadina di Carquefou (Loira Atlantica) dove ogni anno, dal 2000, si organizza il festival dei caricaturisti. Era stata lei, Corinne Rey, giovane disegnatrice, allora non ancora trentenne, ma già affermata nel mondo della stampa, a disegnare il manifesto dell’happening del 2011. Un signore dalle grandi fauci che inghiotte il mondo infilzato su uno stecchino, come fosse un’oliva. È lei, Corinne Rey, la mamma cui mercoledì mattina, sotto gli uffici di Charlie Hebdo , a Parigi, i due boia incappucciati hanno puntato i kalashnikov alla testa, ingiungendole di comporre il codice d’ingresso alla sede della redazione, l’ultimo ostacolo tra i killer e le loro prede. Gli assassini non l’hanno riconosciuta come una delle firme del settimanale e, forse, l’hanno risparmiata per questo. O perché, come invece ha ipotizzato lei, non si sono accorti che scivolava al riparo di una scrivania. Ma quella carneficina resterà negli occhi della giovane donna per sempre. «Superato l’ingresso hanno sparato a Wolinski poi a Cabu. Erano seduti uno accanto all’altro. Tutto è durato cinque minuti, forse anche meno. Una pioggia di colpi», ha rivissuto poco dopo il suo incubo, parlando al telefono con i colleghi de «L’Humanité ». Sotto choc, ma anche sotto protezione, come testimone diretta e ravvicinata di quel bagno di sangue, Coco si è salvata perché era andata a prendere la figlioletta all’asilo. Come lei, è scampata al massacro anche un’altra disegnatrice della redazione decimata, Catherine Meurisse, arrivata in provvidenziale ritardo alla riunione settimanale. Catherine ha fatto in tempo a incrociare i due uomini mascherati mentre fuggivano dal palazzo e ha intuito che qualcosa di terribile doveva essere accaduto. Anche se qualche altro passante si era fermato incuriosito, convinto che si stesse girando un film d’azione. È salva Coco, anche se ha visto e sentito morire i suoi colleghi e se non potrà più togliersi dalle orecchie e dalla memoria le urla di soddisfazione dei carnefici che gridavano i nomi delle loro vittime mentre sparavano, come in un sordido appello: «Pagherete per aver insultato il Profeta».

Sottomissione è il romanzo più visionario e insieme realista di Michel Houellebecq, capace di trascinare su un terreno ambiguo e sfuggente il lettore.

A Parigi, in un indeterminato ma prossimo futuro, vive François, studioso di Huysmans, che ha scelto di dedicarsi alla carriera universitaria. Perso ormai qualsiasi entusiasmo verso l’insegnamento, la sua vita procede diligente, tranquilla e impermeabile ai grandi drammi della storia, infiammata solo da fugaci avventure con alcune studentesse, che hanno sovente la durata di un corso di studi. Ma qualcosa sta cambiando. La Francia è in piena campagna elettorale, le presidenziali vivono il loro momento cruciale. I tradizionali equilibri mutano. Nuove forze entrano in gioco, spaccano il sistema consolidato e lo fanno crollare. È un’implosione improvvisa ma senza scosse, che cresce e si sviluppa come un incubo che travolge anche François. Sottomissione è il romanzo più visionario e insieme realista di Michel Houellebecq, capace di trascinare su un terreno ambiguo e sfuggente il lettore che, come il protagonista, François, vedrà il mondo intorno a sé, improvvisamente e inesorabilmente, stravolgersi.

La Parigi "sottomessa" di Houellebecq divide i politici francesi. Il romanzo sull'islam fa discutere. Hollande: "Non si deve cedere a paura e angoscia". Le Pen: "E' fiction ma potrebbe diventare realtà", scrive Alessandro Gnocchi su “Il Giornale”. Questa sera Michel Houellebecq si difenderà dalle accuse scatenate dalle anticipazioni del suo nuovo romanzo Sottomissione (da domani in Francia, in Italia dal 15 gennaio per Bompiani). Lo farà sul canale televisivo France2, intervistato da David Pujadas. Ma lo scrittore ha già rivendicato il diritto, sulla Paris Review , di trattare temi d'attualità, anche scomodi. Respinte le accuse di razzismo e islamofobia, ha osservato la crisi dei valori dell'Illuminismo, il rifiuto crescente della modernità, il ritorno delle religioni, il suicidio dell'Europa e la lotta dei francesi per restare in vita. Il libro entra in pieno nel dibattito in corso da tempo in Francia sull'identità nazionale e sul corretto rapporto con l'immigrazione, specie quella di matrice religiosa musulmana. In Sottomissione , le elezioni presidenziali del 2022 sono vinte dal candidato del neonato partito musulmano, che batte la destra di Marine Le Pen grazie all'appoggio sia dei socialisti sia dei repubblicani. Parigi accetta di buon grado l'islamizzazione morbida propugnata dal nuovo governo. La Francia, forse l'intera Europa, rinuncia alla libertà avvertita come un inutile fardello, il retaggio di un passato ormai finito. La sfiduciata cultura occidentale non può non cedere di fronte alle forti rivendicazioni identitarie dei musulmani. Il protagonista di Sottomissione , un professore esperto di Joris Karl Huysmans, accetta senza opporsi l'islamizzazione dell'università, e in questo segue a suo modo le orme dell'oggetto dei suoi studi. Huysmans, l'autore di A ritroso , passò infatti dal Naturalismo al Cattolicesimo («lo fece per ragioni estetiche, restando freddo di fronte alle grandi domande di Pascal», precisa Houellebecq nella citata intervista alla Paris Review ). Fantapolitica? Dipende dai punti di vista. Dopo critici, filosofi e opinionisti, sono intervenuti i pesi massimi della politica francese. Il presidente della Repubblica, il socialista François Hollande, ha detto che leggerà Sottomissione non appena possibile. Nel frattempo osserva che la tentazione di denunciare «la decadenza, il declino, di esternare pessimismo e dubitare di se stessi» è una costante di molta letteratura, non solo di questo secolo. «Ciascun autore è libero di esprimere quello in cui crede. Il mio compito, invece, è invitare i francesi a non cedere alla paura, all'angoscia». Perché nel Paese ci sono «forze positive» capaci di porre rimedio alle situazioni incerte e di migliorare le condizioni generali. Del resto, pochi giorni prima di Natale, Hollande aveva dichiarato che gli immigrati servono, e il resto è demagogia. Di parere radicalmente opposto la leader del Fronte Nazionale, Marine Le Pen, tra i personaggi del romanzo stesso: « Sottomissione è un libro interessante. È fiction ma potrebbe diventare realtà. Il patto pro islam tra socialisti e repubblicani, in opposizione alla nostro destra, si può già osservare a livello comunale o regionale».

Houellebecq, l’ultimo “Charlie Hebdo” dedicato al suo nuovo libro. Il romanziere sotto scorta ora piange l’amico morto. Disse: «Non sento una responsabilità particolare per quello che scrivo. Un romanzo non cambia la storia», scrive Stefano Montefiori su “Il Corriere della Sera”. Michel Houellebecq è scoppiato in singhiozzi, ieri, quando ha saputo che tra i morti c’era il suo amico Bernard Maris, economista alla Banca di Francia ed editorialista a “Charlie Hebdo”. Sul numero della rivista uscito poche ore prima della strage, Maris conclude con queste parole quello che sarà l’ultimo articolo della sua vita: «Ancora un romanzo magnifico. Ancora un colpo da maestro». Si riferisce a “Sottomissione”, il libro di Houellebecq che negli stessi momenti cominciava finalmente a essere venduto nelle librerie, dopo settimane di indiscrezioni, distribuzioni illegali su Internet e polemiche che, come solo in Francia può accadere, passano rapidamente dalla letteratura alla politica. È stata una giornata spaventosa per tutti. Michel Houellebecq non ha potuto che viverla in modo ancora più drammatico, per le persone colpite a lui vicine e perché quella, fino alle 11 e 30 era la «sua» giornata, quella dell’uscita del libro più atteso dell’anno, da giorni sulle prime pagine di tutti i giornali. Una giornata preceduta la sera prima da un suo intervento al tg delle 20 sul canale pubblico France 2, in cui lo scrittore di tanti romanzi tra analisi della società e profezia aveva risposto con la consueta flemma alle domande del conduttore David Pujadas. «Non sente di avere una responsabilità particolare, lei che è uno scrittore così importante e seguito?», chiedeva Pujadas. «No - aveva risposto Houellebecq -, forse un saggio può cambiare la storia, non un romanzo». Il giornalista alludeva a una voglia di provocazione - tante volte negata - di Houellebecq, che in “Sottomissione” mette in scena il fantasma più angosciante per la società francese di questi giorni: un Islam trionfante, che ha ragione per vie democratiche di una civiltà giudaico-cristiana ormai estenuata, spossata dall’Illuminismo e dal fardello di libertà che pesa su ogni essere umano. Meglio la sottomissione, allora, suggerisce François, il protagonista del romanzo: delle donne all’uomo (la poligamia viene incoraggiata, più mogli smettono di lavorare e restano a casa ad accudire un unico marito), e di tutta la società a Dio. Anzi, ad Allah. Per questo, Houellebecq è stato accusato di soffiare sul fuoco, di usare la paura per vendere libri. Ma Houellebecq è uno scrittore, di sicuro il più celebre e forse il migliore scrittore francese contemporaneo, non un opinionista né tantomeno un uomo politico. Ha il diritto di descrivere la realtà, e anche di offrirci la sua idea di quel che la realtà potrà diventare tra qualche anno, «esagerando e velocizzando», come dice lui stesso. Da quando in autunno si è saputo che il suo prossimo romanzo avrebbe dipinto questa Francia del 2022 in mano all’Islam, l’Islam per certi versi rassicurante (donne a parte) del nuovo presidente della Repubblica Mohammed Ben Abbes, il dibattito culturale - e politico - francese ha cominciato a incentrarsi su Sottomissione , fino a esserne completamente monopolizzato. L’azione militare dei terroristi è stata talmente efficace da essere probabilmente pianificata da mesi, dicono le fonti di polizia: l’uscita di Sottomissione e l’ultimo numero della rivista non c’entrano nulla. I piani si sovrappongono perché c’è la coincidenza dell’uscita nelle librerie, e perché l’ultimo Charlie Hebdo esibisce in copertina una splendida vignetta firmata Luz, almeno lui per fortuna scampato al massacro, che dipinge Houellebecq con l’eterna sigaretta e un ridicolo cappello con stelle e pianeti. Titolo: «Le predizioni del mago Houellebecq», e lo scrittore che dice «Nel 2015 perdo i denti...» (i suoi problemi odontoiatrici sono noti) e «Nel 2022, faccio il Ramadan!». Nell’ultima pagina di Charlie Hebdo , come sempre, «le copertine alle quali siete scampati»: e riecco Michel Houellebecq in braccio a una Marine Le Pen sognante che canta «Sarai il mio Malraux», disegnato da Cabu, morto nell’attentato; Houellebecq in ginocchio che sniffa una pista di cocaina stesa per strada e il titolo «Houellebecq convertito all’Islam?», disegnato da Coco, alias Corinne Rey, la donna che sotto la minaccia delle armi ha aperto la porta della redazione ai terroristi; infine, ecco un ritratto poco avvenente di Houellebecq, lo strillo «Scandalo!» e il titolo «Allah ha creato Houellebecq a sua immagine!». La firma è di Charb, il direttore, l’uomo che più di tutti gli assassini volevano uccidere. Michel Houellebecq è ovviamente sotto la protezione della polizia, come lo sono le redazioni di tutti i giornali e i locali della casa editrice Flammarion, che ieri sono rimasti chiusi. Nel romanzo, gli islamici prendono il potere vincendo le elezioni grazie a un’alleanza con gli esangui partiti di centrosinistra e di centrodestra. Prima che l’ordine coranico regni sovrano sulla Francia e l’Europa, in base al sogno di Ben Abbes di rifondare un impero romano con l’Islam al posto del Cristianesimo, in Sottomissione (uscirà in Italia il 15 gennaio per Bompiani) ci sono scontri, un timido debutto di guerra civile. E la guerra civile, il caos, sono evocati nelle dichiarazioni di mesi fa di Éric Zemmour, l’opinionista che con il bestseller Le suicide français ha generato furiose polemiche su razzismo e islamofobia, con la sua accusa rivolta ai musulmani di Francia di essere «un popolo nel popolo».

Negli ultimi giorni i migliori intellettuali e scrittori francesi, da Michel Onfray a Emmanuel Carrère, si sono pronunciati sulla polemica Houellebecq. Charlie Hebdo, Michel Houellebecq sospende la promozione di Sottomissione, scrive Angela Iannone. L'attentato di matrice terroristica al settimanale satirico francese coincide con la pubblicazione del romanzo di Michel Houellebecq, "Sottomissione". Michel Houellebecq ha deciso di "sospendere la promozione" del suo libro "Sottomissione" perché "profondamente turbato dalla morte del suo amico Bernard Maris, ucciso nell'attacco terrorista al settimanale Charlie Hebdo, nel quale sono state uccise altre undici persone". Lo ha annunciato il suo agente Francois Samuelson, secondo quanto riportato dai media francesi. Lo scrittore, che è sotto scorta, lascerà Parigi, come ha precisato il suo editore Flammarion. L'attentato terroristico alla redazione di "Charlie Hebdo", il settimanale satirico attaccato da un commando armato stamattina, coincide con due pubblicazioni. La prima è la copertina del settimanale stesso, che aveva proprio oggi come protagonista Michel Houellebecq, lo scrittore francese che nel suo ultimo romanzo "Sottomissione", immagina una Francia governata nel 2022 dai Fratelli Musulmani e lancia un allarme sulla progressiva islamizzazione del Paese. La seconda è proprio la pubblicazione di "Sottomissione", che è in uscita oggi nelle librerie francesi. Charlie Hebdo riportava oggi la caricatura dello scrittore travestito da mago, il cui titolo era "Le previsioni del mago Houellebecq" con lo scrittore francese che dice "Nel 2015 perdo i miei denti" e poi "Nel 2022 faccio il Ramadan". Sottomissione è un romanzo fantapolitico che ipotizza una Francia futura nelle mani dell'integralismo islamico. Un Paese in cui un leader musulmano impone l'islamizzazione forzata a tutti  gli abitanti. Circa 300 pagine con una tiratura di 150mila copie diffuse illegalmente già prima della pubblicazione ufficiale, suscitando non poche polemiche tra l'opinione pubblica francese, che si è divisa commentando il titolo come "sublime" o "irresponsabile". Intervistato dalla radio France-Inter, Houellebecq ha minimizzato lo scandalo, ritenendo che non è sia quello il vero senso del libro e che "la parte del romanzo che fa paura  è piuttosto precedente all'arrivo dei musulmani al potere. (...) Si può dire che quello è terrificante, questo regime". "Nel mio libro -continua - l'Islam non è per nulla radicale, al contrario, è una delle religioni più pacifiche che si possano immaginare. Non penso che il mio libro dipinga un Islam minaccioso".

Charlie Hebdo, Houellebecq e Sottomissione, il libro fatale. La strage nel giorno dell'uscita di Sottomissione, scrive “L’Ansa”. Gli assalitori che hanno sparato e ucciso nella sede del settimanale satirico Charlie Hebdo non hanno scelto un giorno a caso: oggi, 7 gennaio 2015, esce in Francia l'ultimo libro di Michel Houellebecq, Sottomissione (traduzione letterale della parola Islam), che in Italia arriverà il 15 gennaio. Proprio a questo libro del controverso autore di Le particelle elementari, Piattaforma, La possibilità di un'isola, il numero di Charlie Hebdo aveva dedicato un articolo e la copertina con una vignetta che ritrae lo scrittore vestito da mago e il titolo: Le previsioni del mago Houellebecq; le profezie dello scrittore sono: Nel 2015 perderò i denti, nel 2022 farò il ramadan. Perché Sottomissione proprio di questo parla: di una Francia governata nel 2022 dai Fratelli Musulmani, che riescono ad andare al governo grazie ad una (poco) incredibile alleanza con quel resta di centristi e sinistra alleate al musulmano moderato  Mohammed Ben Abbes, leader di Fraternité musulmane, contro lo strapotere di Marine Le Pen.  Non è solo l'ennesimo allarme di Houellebecq contro la progressiva islamizzazione del Paese. Come ha scritto Emmanuelle Carriere, Houellebecq ha il merito di essere l'unico a parlare di un problema che esiste ma che molti intellettuali sembrano ignorare. Non solo: per Carriere quella di Houllebecq è una posizione politicamente e sociologicamente ragionevole. L'Occudente si arrende per così dire dolcemente all'Islam, sfinito da secoli di razionalità e illuminismo eccessivamente responsabilizzanti. Nell'acceso dibattito intellettuale francese sul libro e sullo scrittore, non è l'unica recensione positiva incassata da Houellebecq: un altro intellettuale 'scorretto', Michel Onfray , noto per il suo trattato di ateologia e per le sue posizioni anti-cristiane e favorevole al libertinismo, ha parlato di Europa come Continente morto che volontieri si consegna all'Islam dopo averlo fatto con i mercati. E dunque, per Sottomissione, di uno scenario assolutamente plausibile. Proprio ieri, Houllebecq aveva parlato al canale francese France 2 per rivendicare il suo diritto di trattare temi di attualità e soprattutto di sottolineare la crisi dei valori dell'illuminismo e della modernità.

"Ecco la mia Francia nelle mani dell'Islam". Parla lo scrittore Michel Houellebecq. I musulmani prendono il potere. E opprimono le donne. Lo scrittore più provocatorio d’Oltralpe qui racconta “Sottomissione” il suo nuovo romanzo. E dice: «Il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono cattivi musulmani», scrive Sylvain Bourmeau su “L’Espresso”. Michel Houellebecq, lo scrittore più controverso di Francia, non ama parlare con i giornalisti. Per il lancio del suo nuovo romanzo, “Sottomissione”, ha dato una sola  intervista al critico Sylvain Bourmeau, che in vent'anni lo ha incontrato decine di volte e che, malgrado le critiche sincere che gli riserva anche in questa occasione, si è guadagnato la sua fiducia. “L'Espresso” pubblica in esclusiva per l'Italia il lungo colloquio che parte dalla trama del nuovo romanzo, ancora più provocatorio dei precedenti. Il libro è uscito in Francia proprio nel giorno dell'attentato a Charlie Hebdo (in Italia esce il 15 per Bompiani). E lo scrittore, che dopo aver subito un processo per islamofobia non vive più in Francia ma è a Parigi per il lancio del libro, è stato posto sotto scorta. Al centro di “Sottomissione” c'è una Francia trasformata in uno stato islamico dopo la vittoria alle presidenziali del leader di un partito  musulmano. Un'ipotesi irrealistica? Non secondo Houellebecq, che ipotizza un ballottaggio con la leader della destra xenofoba Marine Le Pen. «Per la Le Pen mi pare del tutto verosimile che arrivi al ballottaggio già alle elezioni del 2017», spiega lo scrittore. «Quanto al partito musulmano, mi sono reso conto che i musulmani vivono in una situazione del tutto alienata. Sono molto lontani dalla sinistra e ancor di più dagli ecologisti. E non si vede perché dovrebbero votare per la destra, che li rifiuta. Quindi l'idea di un partito musulmano mi sembra plausibile». Il nuovo romanzo sfrutta la paura dell'Islam che serpeggia per la Francia, ammette Houellebecq. Che però è convinto che «non si può definire  “Sottomissione” una predizione pessimista». Anche perché, dichiara a sorpresa, «il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono dei cattivi musulmani. La guerra santa di aggressione non è permessa per principio, e  solo la predicazione è valida. Dunque si può dire che ho cambiato un po’ opinione. È per questo che non ho l’impressione di essere nella situazione di dover avere paura. Ho l’impressione che ci si possa mettere d’accordo». 

«La civiltà dell’Europa è sfinita». Onfray promuove Houellebecq. «È un continente morto, oggi in mano ai mercati. Domani forse all’islam», scrive Stefano Montefiori su “Il Corriere della Sera”. Il nuovo romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione , immagina una Francia del 2022 governata da un presidente musulmano e un nuovo ordine sociale che prevede poligamia e donne che restano a casa a occuparsi di mariti e figli in omaggio a una religione - l’islam - che ha trionfato sulla civiltà dell’Illuminismo. Prima ancora dell’uscita (il 7 gennaio in Francia per Flammarion e il 15 gennaio in Italia per Bompiani) il libro scatena polemiche e discussioni, tra riconoscimento del valore letterario e critiche a una presunta voglia di provocazione. Il «Corriere» ha sollecitato l’opinione di Michel Onfray, uno dei più noti intellettuali francesi, autore di decine di opere tra le quali il celebre Trattato di ateologia e una Controstoria della filosofia (Ponte alle Grazie); un pensatore ateo che ha letto - e amato - il romanzo del momento.

Visto che «Sottomissione» è un romanzo e non un saggio, è possibile separare il valore letterario dal contenuto profetico?

«È un esercizio di stile, una fiction politica ma anche metafisica: un romanzo sull’ignavia delle persone, degli universitari in particolare. Un romanzo molto anarchico di destra. Un libro sulla collaborazione, vecchia passione... francese! Come un universitario specialista di Huysmans può convertirsi all’islam? Ne scopriamo le ragioni poco alla volta: la promozione sociale in seno all’istituzione riccamente finanziata dai Paesi arabi, gli stipendi mirabolanti dei convertiti, la possibilità della poligamia, una ragazza per il sesso, un’altra meno giovane per la cucina, una terza se si vuole, il tutto continuando a bere alcool... Questo libro è meno un romanzo sull’islam che un libro sulla collaborazione, la fiacchezza, il cinismo, l’opportunismo degli uomini...».

La parte più scioccante è forse il destino riservato alle donne. Qual è la sua opinione? È concepibile nella nostra società un’evoluzione simile?

«La nostra epoca è schizofrenica: bracca il minimo peccato contro le donne e, per fare questo, milita per la femminilizzazione dell’ortografia delle funzioni, la parità nelle assemblee, la teoria di genere, il colore dei giocattoli nelle bancarelle di Natale; la nostra epoca prevede che ci si arrabbi se si continua a rifiutare auteure o professeure (femminili di autore e professore ), ma fa dell’islam una religione di pace, di tolleranza e di amore, quando invece il Corano è un libro misogino quanto può esserlo la Bibbia o il Talmud. Se si vuole continuare a essere misogini con la benedizione dei sostenitori del politicamente corretto, l’islam alla Houellebecq è la soluzione!».

In una sua prima intervista alla «Paris Review», Houellebecq decreta la fine dell’Illuminismo e il grande ritorno della religione (l’islam, ma non solo). In quanto pensatore ateo, qual è la sua reazione?

«Credo che abbia ragione. I suoi romanzi colgono quel che fa l’attualità del nostro tempo: il nichilismo consustanziale alla nostra fine di civiltà, la prospettiva millenarista delle biotecnologie, l’arte contemporanea fabbricata dai mercati, le previsioni fantasticate della clonazione, il turismo sessuale di massa, i corpi ridotti a cose, la loro mercificazione, la tirannia democratica, la sessualità fine a se stessa, l’obbligo di un corpo performante, il consumismo sessuale, eccetera. Quindi, utilizzare i progressi incontestabilmente compiuti dall’islam in terra d’Europa per farne una fiction sull’avvenire della Francia è un buon modo per pensare a quel che è già».

Houellebecq descrive una società francese ed europea stanca, affaticata dalla perdita di valori tradizionali. Cosa pensa? L’Europa è condannata, come dicevano i neocon americani?

«Houellebecq continua a dipingere il ritratto di una Francia post-68. E ha ragione di vedervi un esaurimento, meno in rapporto con il breve termine del Maggio 68 che con il lungo periodo della civiltà giudaico-cristiana che crolla. Questa civiltà è nata con la conversione di Costantino all’inizio del IV secolo, il Rinascimento intacca la sua vitalità, la Rivoluzione francese abolisce la teocrazia, il Maggio 68 si accontenta di registrarne lo sfinimento. Siamo in questo stato mentale, fisico, ontologico, storico. Houellebecq è il ritrattista terribile di questo Basso Impero che è diventata l’Europa dei pieni poteri consegnati ai mercati. L’Europa è morta, ecco perché i politici vogliono farla!».

La mia impressione, leggendo il libro, è che si finisca per credere alla profezia. In questo sta l’abilità di scrittore di Houellebecq? O la sua previsione è davvero plausibile?

«È in effetti uno dei talenti di questo libro: il racconto è estremamente filosofico perché è estremamente credibile... Sottomissione rivaleggia con 1984 di Orwell, Fahrenheit 451 di Bradbury, Il mondo nuovo di Huxley. Per me è il migliore libro di Houellebecq, e di gran lunga. La sottomissione di cui diamo prova nei confronti di ciò che ci sottomette è attualmente sbalorditiva. È un altro sintomo del nichilismo nel quale ci troviamo».

Evocando l’islam, Houellebecq agita un fantasma molto presente nella Francia di oggi, come dimostrano i libri di Alain Finkielkraut e Éric Zemmour. È giustificata, questa preoccupazione dell’identità?

«Ricorrere alla parola fantasma è già un modo di prendere una posizione ideologica. Esiste una realtà che non è un fantasma e che coloro che ci governano nascondono: divieto di statistiche etniche sotto pena di farsi trattare da razzisti ancor prima di avere detto alcunché su queste cifre, divieto di rendere note le percentuali di musulmani in carcere sotto pena di farsi trattare da islamofobi al di fuori di qualsiasi interpretazione di queste famose cifre, eccetera. Non appena si nasconde qualcosa, si attira l’attenzione su quel che è nascosto: se non esiste che un fantasma, allora che si diano le cifre, saranno loro a parlare...».

Edward Luttwak: Islam significa «sottomissione», E questo è il suo vero obiettivo finale. L'ambiguità vi porta al macello. L'Europa, in particolare, tiene il piede in due scarpe, scrive  di Goffredo Pistelli suItalia Oggi”. A Edward Luttwak il politically correct non fa velo. Questo ebreo americano d'origine rumena, politologo e esperto di studi strategici, quando viene chiamato a parlare di terrorismo islamico, non infiocchetta distinguo ma dice quello che pensa. E il suo pensiero è spesso durissimo. È il caso di questa conversazione che ci ha concesso a poche ore dalla strage del Charlie Hebdo a Parigi.

Domanda. Mr. Luttwak questo attentato, nel cuore dell'Europa, è per gli Europei un brutto risveglio, non trova?

Risposta. Il punto non è solo di svegliarsi ma di agire.

D. Vale a dire?

R. Quello che c'è da fare è chiaro: dovete delegittimare questo trionfalismo musulmano.

D. Ma come, c'è un attacco terroristico e lei mi parla del trionfalismo? Che c'entra?

R. Centra, perché il trionfalismo è quello che crea un'atmosfera per cui qualcuno si sente in diritto di uccidere la gente.

D. Ma a quale trionfalismo si riferisce?

R. Quello praticato da persone, ragazze magari, che vanno con il hijab indosso per dimostrare la loro partecipazione a questa forma estrema di islamismo. Magari parlano perfettamente l'italiano, sono carine e gentili, dicono «non siamo affatto sottomesse», ma poi difendono Hamas, con la sua costituzione genocida.

D. Si riferisce a quel dibattito piuttosto animato che ha avuto in dicembre durante una puntata di Announo (in cui Luttwak, collegato dagli Usa, si toglieva l'auricolare quando parlava una giovane esponente musulamana in studio, ndr)?

R. Non mi riferisco a niente in particolare. Dico che queste persone vendono falsità a cominciare dall'etimologia stessa di Islam, che vuol dire «sottomissione», mentre loro dicono che significhi «amore».

D. Quella musulmana non è una religione come tutte le altre?

R. No, perché appunto vuole tutte le altre sottomesse. E in questa sottomissione prevede che le persone e gli Stati chinino il capo. Il disegno è che lo faccia Roma, Parigi, Washington.

D. Non c'è possibilità di discussione, quindi?

R. È inutile perdersi in chiacchiere con gente come Tariq Ramadani (scrittore e imam ginevrino di origine egiziana, che piace molto al mondo francofono, ndr), dovete sfrondare, dovete smettere di legittimarli o vi ritroverete quattro pazzoidi col kalashinikov in pugno, come questi di Parigi, che magari fino a ieri avevano fatto il ragioniere, l'architetto, il medico.

D. Sfrondare come?

R. Smettendo per esempio di parlare per acronimi: basta dire Isis. Cominciate a chiamarlo Stato islamico. E a cessare di trattare la religione musulmano come le altre. Capisco, che sia troppo spinoso, ma dovete ammettere che l'unico scopo di quel credo è sottomettere gli altri.

D. Nessuno la fa, secondo lei?

R. Ci sono già editori e giornalisti che, in Europa, hanno deciso di non occuparsi di questi cose e stare alla larga da queste vicende. La sottomissione comincia così.

D. E con gli islamici europei nessun dialogo è possibile allora?

R. L'unico dialogo è questo: «Riformatevi e diventate un altro tipo di religione». Non possono venire a dirci che non stanno con Isis perché sono brutti e cattivi, in quanto tagliatori di teste, e schierarsi con Hamas che, all'articolo 7 della propria Costituzione, prevede l'uccisione di tutti gli ebrei. Il giornalista, l'intellettuale e chiunque altro appoggi Hamas non merita di stare nella società civile, in quanto sostiene un'intenzione genocida proclamata.

D. Ma l'Europa della politica che cosa dovrebbe fare?

R. Essere meno ipocrita. Francois Hollande lo è quando avalla l'idea di un Islam moderato. È una falsa moderazione: l'imam che non perde un congresso sul dialogo interreligioso, lo trovi poi su YouTube con le prediche in arabo con cui chiama tutti alla jihad, alla guerra santa. I politici europei smettano di essere ipocriti perché, così facendo, indeboliscono milioni di post-islamici del Vecchio Continente.

D. Di chi parliamo?

R. Di quegli immigrati, oggi spesso cittadini francesi, tedeschi, belgi, olandesi, che hanno voltato le spalle alla religione musulmana perché hanno capito che è irreformabile. Sono quelli che lasciano andare le loro moglie vestite all'occidentale, che non menano le loro figlie perché si scoprono le braccia. Vivono in Europa e oggi sono in imbarazzo a causa dell'ipocrisia di tanti vostri primi ministri.

D. Che cosa c'è nelle menti di chi ha organizzato l'attentato di Parigi? Le bombe ai treni in Spagna, nel 2004, spodestarono José Maria Aznar, impedendone la rielezione. Le raffiche parigine vogliono favorire l'avvento delle destre in Europa? Vogliono alzare il livello di scontro?

R. Alzare il livello dello scontro sarebbe sbagliato. Però siete di fronte a una scelta: o delegittimate l'Islam o delegittimate la democrazia.

Macellai islamici. Una dichiarazione di guerra all'Europa e alla libertà. Ma noi #nonabbiamopaura, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Questa è guerra. Altro che islam buono e islam cattivo, altro che multiculturalismo come risorsa e porte aperte all'immigrazione come dovere, altro che «cani sciolti». Hanno fatto strage di giornalisti nel cuore di Parigi, cioè nel cuore dell'Europa, in nome di Allah. Qualcuno li ha addestrati, qualcuno li ha istruiti, qualcuno li ha mandati a sparare agli inermi colleghi del settimanale satirico Charlie Hebdo (la cui testata oggi è affiancata alla nostra in segno di solidarietà). E siccome loro hanno urlato, tra una raffica e l'altra, che il mandante è Allah, ecco allora io dico: per loro Allah è il capo dei terroristi che vogliono sopprimere le basilari libertà dell'Occidente. Dico che l'immigrazione selvaggia è il grimaldello per entrare nella nostra storia, nelle nostre città. Dico che non ci sarà mai possibilità di integrazione, perché come scriveva Oriana Fallaci «non è vero che la verità sta sempre nel mezzo, a volte sta da una sola parte». E non ho dubbi che la parte giusta è la nostra, quella di una «civiltà superiore» (sempre per citare Oriana) che mai si sognerebbe di alzare un dito su Crozza per le sue imitazioni satiriche di Papa Francesco. Abbiamo un problema di polizia, di servizi segreti che fanno acqua, ma prima ancora abbiamo un problema politico e culturale di soggezione (vero presidente Boldrini?) nei confronti dei nostri carnefici, passati (vedi le scuse per Guantanamo), presenti (le cautele e i distinguo di oggi) e futuri. Io odio questa gente, così come gli uomini liberi hanno odiato nazisti e stalinisti. Il problema non è farsi ammazzare, ma farlo in silenzio. È spalancare le porte di casa senza nulla chiedere in cambio al nemico che si presenta con la faccia affamata e sofferente del profugo. È rinunciare a crocefissi, presepi e tradizioni per non offenderli. È inculcare - anche da parte di eminenti cardinali della Chiesa - nei nostri bambini l'idea che Gesù e Allah pari sono. È stato rinunciare - e lo dico da laico - a inserire le «radici cristiane» nella Costituzione europea. È non capire che siamo sull'orlo di una guerra civile europea tra islamici di passaporto europeo e il resto d'Europa. Non kamikaze invasati, ma banditi con tecniche brigatiste che vogliono salvare la loro vita, togliendola agli altri in nome di Allah. Per ribadire la nostra libertà, oggi ripubblichiamo quelle vignette che sono costate la vita ai colleghi francesi, senza che una sola di esse violasse le leggi di quel Paese. A noi i terroristi non hanno mai fatto paura. Ci fanno più paura le «attenuanti culturali» con cui la nostra magistratura troppo spesso giustifica le violazioni delle nostre leggi. E il termine «inarrestabile» usato per arrendersi all'immigrazione selvaggia. Avanti così, qui di «inarrestabile» ci sarà solo la fine dell'Occidente. E a questo gioco, noi non ci staremo mai. Che piaccia o no ad Allah.

L'editoriale-shock del Financial Times: "Stupidi i giornalisti di Charlie Hebdo", scrive “Libero Quotidiano”. È una voce fuori dal coro, una presa di posizione durissima e controcorrente mentre tutto il mondo condannava la strage nella redazione di Charlie Hebdo stringendosi alle famiglie dei morti. E' quella del quotidiano britannico Financial Times, che in un editoriale sul suo sito online afferma che i giornalisti e i vignettisti della rivista satirica francese si sono comportati in modo “stupido”. Il Ft accusa il magazine, che in passato era stato già colpito per la pubblicazione delle vignette su Maometto, di aver peccato di “stupidità editoriale” attaccando l’Islam. “Anche se il magazine si ferma poco prima degli insulti veri e propri, non è comunque il più convincente campione della libertà di espressione“, si legge ancora. Sui social network gli altri media offrono giornalisti e solidarietà, ma il giornale della City invece attacca chi ha con quelle vignette causato la reazione terroristica. “Con questo non si vogliono minimamente giustificare gli assassini, che devono essere catturati e giudicati, è solo per dire che sarebbe utile un po’ di buon senso nelle pubblicazioni che pretendono di sostenere la libertà quando invece provocando i musulmani sono soltanto stupidi”. L'editoriale si chiede anche “quale impatto” gli omicidi “avranno sul clima politico, e in particolare le sorti di Marine Le Pen e il suo estrema destra Fronte Nazionale“.

Altro che moderati. Nel Corano i precetti dei killer. La carneficina della redazione del giornale francese mostra all'Occidente la verità che ci rifiutiamo di vedere. È il Corano a prescrivere l'omicidio contro gli "infedeli", scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Ciò che veramente mi sconvolge è il fatto che, subito dopo la condanna di rito e scontata della strage nella sede di Charlie Hebdo , la preoccupazione generale di tutti, quasi tutti, dal presidente americano Obama al presidente della Camera Boldrini, è di scagionare l'islam sostenendo che l'islam è una religione di pace, che Maometto non c'entra, che la stragrande maggioranza dei musulmani «moderati» sono contrari alla violenza e che i terroristi islamici sono una scheggia impazzita che offende il «vero islam». Eppure se c'è un caso emblematico che ci fa toccare con mano la contiguità e la consequenzialità sul piano del pensiero e dell'azione tra i sedicenti musulmani moderati e i terroristi islamici è proprio questo caso specifico che mette a confronto il divieto assoluto di raffigurare Maometto, precetto condiviso da tutti i fedeli di Allah, con l'esercizio della libertà d'espressione che è il fulcro della nostra civiltà occidentale. Questa strage è la punta dell'iceberg di un contesto saturo di odio per la diffusione di vignette satiriche nei confronti del profeta dell'islam, alimentato e condiviso da lunghi anni da tutti i musulmani di Francia. A partire dai «moderati» della Grande Moschea di Parigi, che rappresenta l'islam istituzionale ed è il referente del governo francese, e dai militanti «moderati» dell'Uoif (Unione delle organizzazioni islamiche in Francia) che s'ispirano all'ideologia dei Fratelli musulmani, che nel 2007 intentarono e persero un processo contro Charlie Hebdo perché aveva ridiffuso delle vignette su Maometto bollate come blasfeme pubblicate dal quotidiano danese Jyllands-Posten . Così come altri terroristi islamici, evidentemente meno professionisti di quelli di ieri, avevano devastato nel 2011 la sede di Charlie Hebdo con una bottiglia molotov. Quella di ieri è stata una vera e propria azione di guerra condotta da terroristi che hanno combattuto e che uccidono spietatamente i nemici di Allah. Probabilmente si tratta di reduci dalla Siria o dall'Irak, dove si stima che almeno 600 cittadini francesi si siano uniti ai terroristi dell'Isis, dello Stato islamico dell'Irak e del Levante. Una realtà che ci obbliga a prendere atto che il terrorismo islamico nella sua versione più feroce è ormai un fenomeno endogeno, interno all'Europa, e che i suoi protagonisti sono cittadini europei musulmani. Così come nel maggio 2013 due terroristi islamici britannici, di origine nigeriana, decapitarono a Londra il soldato venticinquenne Lee Rigby, ieri a Parigi abbiamo assistito a un atto di guerra inedito per il contesto urbano europeo. La Francia, che è il Paese europeo che accoglie il maggior numero di musulmani è, insieme alla Gran Bretagna, il Paese multiculturalista per antonomasia, quello più a rischio di attentati terroristici islamici. E non è un caso. Quanto è accaduto evidenzia il fallimento di un modello di convivenza che precede il fallimento dell'attività dei servizi di sicurezza. Alla base c'è l'ideologia del relativismo con cui noi europei ci autoimponiamo di non usare la ragione per non entrare nel merito dei contenuti delle religioni, perché aprioristicamente le vogliamo mettere sullo stesso piano attribuendo così a ebraismo, cristianesimo e islam la stessa valenza, finendo per legittimare l'islam a prescindere da ciò che prescrive il Corano e da ciò che ha detto e ha fatto Maometto. Così come c'è l'ideologia parallela del multiculturalismo che ci ha portato a concedere a ciascuna comunità etnico-confessionale il diritto di autogovernarsi anche se, ad esempio, la poligamia e l'uccisione dell'apostata in cui credono indistintamente tutti i musulmani, sono in flagrante contrasto con il nostro Stato di diritto. Il fallimento dei servizi di sicurezza è anch'esso legato a un deficit culturale frutto della tesi ideologica secondo cui l'islam è buono a prescindere mentre i terroristi islamici non sarebbero dei «veri musulmani», anche se - come si è ripetuto ieri - massacrano invocando «Allah è grande» e chiarendo «vendicheremo il nostro profeta Maometto». Noi europei saremo inesorabilmente condannati ad essere sconfitti fintantoché non prenderemo atto che il terrorista islamico è solo la punta dell'iceberg di un retroterra che l'ha fatto emergere e che si sostanzia di una filiera che inizia laddove si pratica il lavaggio di cervello predicando e inculcando l'odio, la violenza e la morte nei confronti dei nemici dell'islam. La strage di Charlie Hebdo sostanzia il frutto avvelenato del reato di «islamofobia», il divieto di criticare l'islam, il Corano e Maometto. Si tratta di un pericolo che conosciamo bene anche in Italia. Quell'atrocità potremmo viverla anche qui a casa nostra.

Quell'islam moderato che dietro le quinte finanzia la guerra santa. Dai movimenti che in Italia bruciano false bandiere dell'Isis a Turchia e Qatar, che fingono amicizia con l'Occidente e danno soldi alla jihad, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Non ho mai avuto dubbi che i musulmani possono essere delle persone moderate, essendolo stato per 56 anni. Ma non credo affatto nei militanti del cosiddetto «islam moderato». Quelli che ad esempio lo scorso 21 settembre in Piazza Affari a Milano, usando uno stratagemma e ingannando il pubblico credulone compresi i giornalisti, diedero alle fiamme non la bandiera dell'Isis, che reca la scritta «Non vi è altro dio al di fuori di Allah» e «Maometto è l'inviato di Allah», bensì un drappo nero su cui avevano scritto a mano in italiano «Isis». Eppure stampa e tv hanno titolato: «I musulmani moderati bruciano la bandiera dell'Isis»! La verità è semplice: di islam ce n'è uno solo, Allah è lo stesso per i moderati e per i terroristi, Maometto è il profeta a cui si rifanno tutti i musulmani indistintamente. Bisogna ammettere che in fatto di bandiere fasulle i musulmani nostrani eccellono. Quando il 5 gennaio 2009 circa un migliaio di islamici arruolati dall'Ucoii (Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia) occuparono lo spazio antistante la Basilica di San Petronio a Bologna (che custodisce l'affresco di Giovanni da Modena con Maometto all'Inferno tra i seminatori di discordie, così come lo volle Dante), e diedero alle fiamme le bandiere israeliane, la Procura di Bologna li assolse perché erano da considerarsi «un drappo artigianalmente predisposto con un simbolo grafico», che deve essere ritenuto «un simulacro» e «un tentativo di emulazione», ma non la bandiera israeliana ufficiale! In realtà la contiguità tra i militanti del sedicente «islam moderato» e i terroristi islamici non si limita alla devozione dei nomi di Allah e di Maometto che fanno sì che la bandiera dell'Isis non possa essere bruciata, ma abbraccia l'insieme di un'ideologia che promuove la conversione all'islam, l'instaurazione della sharia e la riesumazione del Califfato. Il caso eclatante è quello della Turchia del regime islamico di Erdogan. A partire dal 2005 l'Occidente si è affidato totalmente alla Turchia nell'illusione che sarebbe riuscito a portare l'«islam moderato» dalla sua parte nella guerra contro Al Qaida. Assecondando la volontà di Erdogan, Stati Uniti e Unione Europea legittimarono politicamente i Fratelli Musulmani che sono riusciti a prendere il potere nei Territori palestinesi con Hamas, in Tunisia con Ennahda, in Libia e in Egitto, mentre in Siria hanno scatenato la guerra del terrore contro Assad. Ebbene la verità è che i turchi sono presenti in massa al vertice e nelle fila delle organizzazioni terroristiche, 2000 in seno a Jabhat al Nusra, affiliata ad Al Qaeda in Siria, e 3000 in seno all'Isis, forti del sostegno di Erdogan che fornisce loro assistenza militare, cure mediche e denaro in cambio del petrolio estratto nello «Stato islamico». Altro caso significativo della contiguità tra l'«islam moderato» e il terrorismo islamico è quello del Qatar, principale finanziatore dei Fratelli Musulmani in tutto il mondo e dei gruppi terroristici affini in Siria, Libia e Tunisia, particolarmente impegnato negli investimenti in Europa come copertura alla più massiccia campagna di costruzione di moschee. Soltanto in Italia, a fronte dell'acquisto di alberghi di lusso, il St. Regis e l'InterContinental a Roma, il Gallia a Milano, il Four Seasons a Firenze e i resort sulla Costa Smeralda, il Qatar Charity Foundation ha donato 6 milioni di dollari ai centri islamici in Sicilia, mentre altre decine di milioni di dollari sono state donate - così come si legge sul suo sito - ai centri islamici a Saronno, Colle Val d'Elsa, Frosinone, Lecco, Roma, Ferrara, Bergamo, Sesto San Giovanni, Modena, Città di Castello, Vicenza, Verona, Torino, Mortara, Olbia, Mirandola, Taranto, Milano, Argenta (Ferrara), Gavardo (Brescia), Quingentole (Mantova). La verità è che il loro jihad, la guerra santa islamica, si traduce comunque nella nostra sottomissione: noi «perdiamo la testa» sia quando i terroristi ci decapitano, sia quando i «moderati» ci condizionano a tal punto da impedirci di usarla per salvaguardare la nostra civiltà.

Il predicatore radicale Choudary: "L'islam non crede alla libertà di pensiero". Dopo l'attacco a Charlie Hebdo difende l'idea che ci debbano essere dei limiti. "Le conseguenze sono note a tutti", scrive Lucio Di Marzo su “Il Giornale”. "L'islam non è pace, ma piuttosto sottomissione ai comandi del solo Allah. Per questo i musulmani non credono nell'idea della libertà d'espressione, perché le loro parole e azioni sono determinate dalla rivelazione divina e non basate sui desideri della gente". La pensa così Anjem Choudary, un predicatore radicale tra i più ascoltati in Europa, intervistato su queste pagine alcuni mesi fa da Barbara Schiavulli, per un reportage nell'Europa estremista. Dopo l'attacco contro la redazione del Charlie Hebdo, in cui sono morte dodici persone, tra le quali giornalisti e il direttore del magazine satirico, ha riassunto in una lettera pubblicata da Usa Today il suo pensiero sui fatti, in netta contraddizione con opinioni molto più moderate espresse da altri imam e fedeli musulmani. "Persino i non musulmani che sposano l'idea della libertà di pensiero sono d'accordo sul fatto che comporti delle responsabilità", scrive Choudary, che ammonisce: "Le potenziali conseguenze dell'insultare il Messaggero Muhammad sono note a musulmani e non musulmani". Parole che suonano come un tentativo di giustificare fatti impossibili da legittimare. "Proprio perché l'onore del Profeta è qualcosa che tutti i musulmani vogliono difendere, molti prenderanno la legge nelle proprie mani", aggiunge il predicatore radicale, che ricorre poi a un argomento molto utilizzato da chi si colloca su posizioni estremiste come le sue. "I governi occidentali sono contenti di sacrificare libertà e diritti quando complici di torture e rendition - scrive - o quando limitano la libertà di movimento ai musulmani, sotto le mentite spoglie della difesa della sicurezza nazionale". E al governo francese chiede perché "mettere a rischio i propri cittadini" continuando a provocare il mondo islamico, come accusa il Charlie Hebdo di avere fatto. Parole, quelle del predicatore, che stupiscono fino a un certo punto. Già in passato aveva lodato gli attentatori dell'11 settembre e al Giornale aveva detto: "Bin Laden è il nostro eroe. Purtroppo è morto, ma la lotta continua anche senza di lui".

Chi l'ha visto il servizio pubblico sulla carneficina dei giornalisti? La figuraccia della Rai, scrive Maurizio Caverzan su “Il Giornale”. Il servizio pubblico della Rai? Chi l'ha visto?. Ma anche L'apprendista stregone e Che Dio ci aiuti . Sono i programmi trasmessi nella serata della strage terroristica di Parigi, definita da molti osservatori l'11 settembre dell'Europa. Niente speciali, zero edizioni straordinarie. Titoli che, riletti oggi, svelano un sapore autocritico verso quella che è una delle pagine più nere dell'informazione pubblica. Facevi zapping da un canale all'altro, mercoledì sera, e trovavi un programma di cronaca nera, un film qualsiasi, su Raiuno addirittura la replica di una fiction. L'informazione può attendere. E il famigerato approfondimento, totem dei talk show che sgomitano quotidianamente nei nostri teleschermi, può mettersi in fila. Senza spingere. Quando invece ci sono dodici morti causati da un atto terroristico nella redazione di un giornale della capitale francese, tutti assenti. In vacanza o chissà. Dopo i tg che hanno conquistato ascolti ben al di sopra della media, lo Speciale TgLa7 di Enrico Mentana è stato un approdo obbligato come lo zapping sulle reti all news , a cominciare da Rainews24 , la più solerte fin dal mattino a rendersi conto della gravità dell'accaduto. Su Mediaset, Retequattro ha aperto una lunga finestra dopo il tg con Mario Giordano e Paolo Del Debbio, mentre Matrix di Luca Telese è andato in onda in edizione straordinaria. In Rai solo a notte inoltrata arriverà uno spezzone di Porta a Porta nel tentativo di tamponare una falla gigantesca. Ma dopo il collegamento con Di Bella e le dichiarazioni del ministro Alfano, vedere Gigi D'Alessio e Lina Sastri commuoversi per la scomparsa del povero Pino Daniele aveva un inevitabile effetto-extraterrestre. Servizio pubblico latitante. Lacunoso. Ritardatario. Sui social network è un diluvio di proteste, di lamentele contro un canone - il cui pagamento la Tv pubblica ricorda in questi giorni con petulanza - purtroppo non corrisposto da servizi all'altezza in un momento storico come questo. Il ritardo sulla notizia si è accumulato fin dalla tarda mattinata quando, come ha notato tal Nicolino Berti su Twitter , «solo Raitre in edizione straordinaria su Parigi, Raiuno deve prima far scolare la pasta alla Clerici». I telegiornali Rai hanno fior di corrispondenti nella Ville Lumière, anche uno di lunga esperienza come Antonio Di Bella. Ma quella di mercoledì 7 gennaio, prima giornata post-festività, rimarrà una pagina buia. Il giorno dopo, la polemica infiamma. Il sindacato dei giornalisti Rai si straccia le vesti («Come si può parlare di riforma se poi di fronte a una vicenda di questa portata, il servizio pubblico non reagisce mettendo in campo almeno su una delle tre reti uno speciale di prima serata?»). Proteste arrivano da quasi tutte le forze politiche che hanno deciso di chiedere spiegazioni al dg Luigi Gubitosi. Riflessi appannati dai troppi dolciumi nelle calze della befana? Sottovalutazione dell'accaduto? Disabitudine alle dirette su fatti internazionali? Intoppi o veti burocratici sembrano da escludere. Non risulta, infatti, che siano state avanzate richieste di modifica dei palinsesti della prima serata dai vari direttori di rete o di testata ai quali compete la valutazione degli avvenimenti. Spostare la replica di Che Dio ci aiuti non sarebbe stato difficile nemmeno per i vertici di Viale Mazzini. Ora, dopo l'ennesima giornata nera, ci si augura che qualcosa cambi. E che Dio aiuti la Rai.

Toh, sui giornali i terroristi non sono più «islamici», scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. I «terroristi islamici» non esistono. Oggi vengono occultati dai mezzi di comunicazione di massa con l'eufemismo «jihadisti». Ma quanti italiani sanno che cosa significhi «jihadisti» o «jihad»? Il motto dei Fratelli musulmani evidenzia il significato più genuino del jihad : «Allah è il nostro obiettivo. Il Profeta è il nostro leader. Il Corano è la nostra legge. Il jihad è il nostro sentiero. Morire lungo il sentiero di Allah è la nostra aspirazione massima». Il divieto di usare il termine «terrorismo islamico» fu formalizzato nel 2006 (...)(...) dall'Unione europea. È sconvolgente il fatto che mentre i terroristi islamici sgozzano, decapitano e massacrano in ottemperanza ai versetti coranici e ai detti e fatti attribuiti a Maometto, l'Occidente - pur di negare l'evidenza - si sia spinto fino a «scomunicare» i terroristi islamici. Lo scorso 14 settembre, dopo la decapitazione dell'ostaggio britannico David Haines, il premier Cameron ha detto che i terroristi islamici dell'Isis «non sono musulmani ma mostri», «dicono di fare questo in nome dell'islam. È assurdo, l'islam è una religione di pace». Anche il presidente americano Obama, intervenendo all'Assemblea generale dell'Onu lo scorso 24 settembre, ha scagionato l'islam: «Gli Stati Uniti non saranno mai in guerra contro l'islam. L'islam insegna la pace». Ma lo sanno Obama e Cameron che il capo supremo del sedicente «Stato islamico», l'autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, oltre ad essere musulmano ha un dottorato di ricerca in Scienze islamiche? Secondo loro questi tagliatori di teste se non sono musulmani che cosa sarebbero? Di quale islam parlano? Il Corano è unico e di Maometto ce n'è solo uno. Il vescovo di Mosul, Emile Nona, intervistato da l'Avvenire lo scorso 12 agosto, ha detto che l'ideologia dei terroristi islamici «è la religione islamica stessa: nel Corano ci sono versetti che dicono di uccidere i cristiani, tutti gli altri infedeli», e che i terroristi islamici «rappresentano la vera visione dell'islam». Eppure il 23 ottobre, sotto l'egida della presidente della Camera Laura Boldrini, la stampa cattolica ( L'Avvenire , Famiglia Cristiana e la Fisc), hanno promosso la campagna «Anche le parole possono uccidere», in cui si denuncia anche l'uso della parola «terrorista» in rapporto ai musulmani. Sempre la Boldrini aveva sponsorizzato nel 2007, da portavoce dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, con l'Ordine nazionale dei giornalisti e la Federazione nazionale della stampa, la «Carta di Roma», in cui si chiede di sostituire la parola «clandestino» con «migrante». Ebbene, dopo che nessun mezzo di comunicazione di massa usa più la parola «clandestino», ci ritroviamo in un'Italia in cui la clandestinità non solo non è più reato ma in cui risorse nazionali sono spese per favorire l'auto-invasione. Inevitabilmente accadrà lo stesso con l'abolizione della parola «terrorista islamico». Già oggi i terroristi islamici con cittadinanza europea, che rientrano dopo aver ucciso, sgozzato e decapitato in Siria e Irak, vengono accolti con la disponibilità riservata al figliol prodigo della parabola evangelica. Consentiamo che nelle moschee e sui siti Internet si predichi l'odio e la violenza nei nostri confronti, concependolo come libertà d'espressione fintantoché non si traduce concretamente nella nostra morte. Di questo passo finiremo per giustificare i terroristi islamici fino a legittimarli, sottoscrivendo noi stessi il nostro suicidio e la fine della nostra civiltà.

L'unica paura della sinistra? Che vincano gli "islamofobi". Dal Pd agli intellettuali progressisti il grande timore non è per la diffusione del radicalismo omicida islamico, ma per la crescita di consensi della destra, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. Una minaccia paurosa, un nemico dentro casa, travestito da anonimo cittadino ma pronto a colpire con la forza cieca dell'odio: è lui, l'«islamofobo». Sì c'è qualche terrorista islamico armato di kalashnikov e lanciarazzi che stermina innocenti, ma il vero problema, il vero pericolo che corrono Francia, Italia ed Europa, adesso, più che l'ascesa degli islamisti, è l'ascesa dei terribili «islamofobi», che con la scusa degli sterminii in nome di Allah rischiano di prendere parecchi voti, e questo l'Occidente non può accettarlo. Bernardo Valli su Repubblica , in un commento a caldo sui dodici morti di Charlie Hebdo, ha subito ravvisato, con un brivido lungo la schiena, il vero rischio implicito nell'attentato: «Attizzare l'islamofobia». Un pericolo da combattere con uno spiegamento di forze speciali, intelligence, ed editorialisti istruiti per educare il volgo, che sennò si impressiona e poi vota male. Scende in campo anche Federico Rampini, sempre sul giornale di De Benedetti, con la domanda che in queste ore attanaglia l'Europa dopo gli attentati jihadisti e le minacce di nuovi morti: «E adesso Marine Le Pen all'Eliseo?». Cioè la domanda non è «E adesso come ci difendiamo?» o «Adesso che fare con il radicalismo islamico», ma «E adesso Marine Le Pen all'Eliseo?». La sconvolgente conseguenza politica della carneficina, osserva l'esperto di esteri di Repubblica , è infatti che si rafforzano «i partiti xenofobi in tutta l'Europa», mentre sarebbe bene si rafforzasse il centrosinistra che piace più a De Benedetti. Adesso «una vittoria di Marine Le Pen nella corsa all'Eliseo è più probabile», mentre la Lega Nord e le formazioni «anti-immigrati» in ascesa ovunque «raccoglieranno più consensi». Ci sarebbe da arrestare i terroristi solo per il favore fatto a Le Pen e Salvini. Terrorizzato anche Khalid Chaouki, deputato Pd di origine marocchina, tra i fondatori dei Giovani Musulmani d'Italia : «Questa tragedia rischia di trasformarsi in un'occasione d'oro per l'estrema destra francese e italiana e per gli ambienti antislamici - scrive preoccupato su Il Garantista - Temo che Marine Le Pen non si lascerà sfuggire l'occasione di cavalcare l'ondata emotiva francese e soffiare sul fuoco pericoloso dell'islamofobia; perciò è doveroso ribadire con forza che noi siamo contro il terrorismo di qualsiasi matrice ma anche contro l'islamofobia, che ne è l'altra faccia». Le feroci cellule islamofobe, fagocitate dai famosi «ambienti antislamici». Gente pericolosa da cui difendersi. Nessun problema culturale di integrazione dell'Islam trova invece l'ex ministro (per mancanza di prove, direbbe Dagospia ) Cécile Kyenge, miracolata da un seggio all'Europarlamento, che invece ravvede una seria minaccia nei fondamentalisti delle brigate Salvini, riconoscibili dalle felpe: «L'unico problema culturale lo ha creato chi come Salvini e la Lega Nord avvelena la società con i suoi proclami di odio e emargina il diverso, stigmatizzandolo» spiega l'ex ministra di origine congolese, che poi mette sullo stesso piano l'Isis e la Lega Nord. «Dobbiamo fermare tutti i moderni califfi fomentatori di odio, inclusi i nuovi professionisti dell'odio politico» come l'odiato Salvini. Sempre dal Pd è il giorno di Lia Quartapelle, giovane promessa di partito alla Farnesina e poi sfumata, che su La7 ha ripetuto la vecchia storia sulle paure sfruttate dagli estremisti di destra, «che fanno lo stesso gioco dei terroristi», mentre «nessun terrorismo è di matrice religiosa». Tutti allievi, però, di Laura Boldrini, che vorrebbe persino epurare il dizionario: «la parola “clandestino” - spiegò - andrebbe cancellata, è carica di pregiudizio e negatività». Gli islamofobi, invece, direttamente ai campi di rieducazione.

A Servizio Pubblico l'islam che sta coi macellai di Parigi: "Fascisti, se la sono cercata". Gli inviati di Santoro nelle banlieue francesi danno voce alla rabbia dei musulmani: "Hanno fatto bene ad ammazzarli, erano razzisti", scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. È la storia di due ragazzi di banlieue sprofondati nell’abisso dell’estremismo e del terrore. Sono Cherif e Said Kouachi, i due franco-algerini di 32 e 34 anni, che ieri hanno insanguinato la Francia nella strage contro Charlie Hebdo.  Eppure, il primo era ben noto all’antiterrorismo di Parigi, condannato nel 2008 per aver partecipato alla filiera delle Buttes-Chaumont, cellula islamica del nord della capitale che tra il 2003 e il 2005 era impegnata nella recluta di combattenti per al Qaeda in Iraq. Ed è proprio in queste banlieue che, ieri sera, Servizio Pubblico ha portato le proprie telecamere. Nel salotto di Michele Santoro va in scena il volto violento dell'islam. "Hanno fatto bene ad ammazzarli - tuona un intervistato - erano razzisti". "Non sono stati gli islamici - fa eco un altro - è tutta una trappola". La strage alla redazione parigina di Charlie Hebdo fa da margine. Eppure le dodici persone ammazzate gridano ancora vendetta. I jihadisti che le hanno fatte fuori a colpi di kalashnikov sono ancora a piede libero. E a Servizio Pubblico c'è pure chi li giustifica, chi li difende, chi è pronto a stare dalla loro parte. Dalla parte dei violenti. Per Santoro, invece, è l'occasione buona per invitare i francesi a non votare il Front National di Marine Le Pen. Perché, a conti fatti, l'unica paura della sinistra è che alla fine vincano i partiti che loro considerano "islamofobi". Dal Partito democratico all'intellighenzia progrsessista non c'è una voce che grida contro il violento diffondersi dell'estremismo islamico. Sono tutti concentrati a tuonare contro la destra che, dall'Italia alla Francia, vede crescere i propri consensi di giorno in giorno. Eppure gli stessi servizi trasmessi dagli inviati di Servizio Pubblico parlano chiaro. Il quartiere di Saint Denis è la fotografia della polveriera su cui siede l'intera europa. Qui la concentrazione di immigrati è altissima. La stragrande maggioranza sono di fede islamica. E sono pronti a difendere, anche davanti alle telecamere, il massacro alla redazione di Charlie Hebdo. "Adesso daranno la colpa a noi - si lamenta un giovane - è sempre così". "Se è successo quello che è successo - fa eco un altro - è perché qualche colpa quelli di Charlie Hebdo ce l'hanno avuta". E ancora: "Se si offende il Profeta è naturale che qualcuno si vendichi". Mentre nelle piazze parigine si manifesta al grido Je suis Charlie, a Saint Denis di solidarietà per le dodici persone ammazzate non c'è spazio. Anche a Reims, città dei fratelli Said e Cherif Kouachi, la musica è la stessa. Nel quartiere di Croix Rouge, dove vivevano i due terroristi islamici, sono molti disposti a difenderli: "Li conoscevo, non sono terroristi". "Non possono essere stati loro - assicura un altro - è tutto un complotto".

Non eravate americani, ora non siete Charlie. Ieri come oggi dichiararsi tutti paladini della libertà è una menzogna vigliacca. Perché abbiamo rinunciato da tempo alla certezza di stare dalla parte giusta, scrive Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. Bugiardi, quelli che dicono o scrivono «Siamo tutti Charlie Hebdo». Mentono ora, come hanno mentito quasi 14 anni fa, quando scrivevano o dicevano «siamo tutti americani», all'indomani dell'11 settembre. È una vigliacca menzogna e qui non si parla del sentirsi oggi paladini della libertà di stampa e di satira. Qui si parla di molto di più. Dell'Occidente che si mette sul petto o sull'account dei social network lo slogan per sentirsi parte di qualcosa alla quale in realtà ha rinunciato da tempo: la certezza di stare dalla parte giusta. Ci abbiamo rinunciato quando abbiamo accettato che passasse la filosofia dei «distinguo». Il fanatismo islamico non conosce differenze: colpisce Stati e persone, militari e civili, cultura e satira. Uccide senza pietà, come ha fatto a Parigi. E la nostra risposta è il dubbio che in fondo ce la siamo cercata. O di più: che magari ci sia sotto la complicità o la manina di chissà quale potere o servizio segreto. La teoria del complotto sulla strage di Charlie Hebdo adesso appartiene a Beppe Grillo, ma presto penetrerà un pezzetto alla volta esattamente come è accaduto 14 anni fa per le Torri Gemelle. È uno dei sintomi della nostra sconfitta preventiva, questo. Aiuta la rimozione, la presa di distanza dall'evento che sconvolge le nostre coscienze nell'immediato, ma poi passa via. Il paragone con l'11 settembre sta in questo: è un ricordo sbiadito, una memoria residua, una rievocazione appannata. Dov'è finito il «siamo tutti americani» del giorno dopo? Non c'è: è sparito così in fretta da non lasciare più spazio nemmeno alla retorica. Quattordici anni sono pochi per ridurre solo a una data il momento che ha cambiato la storia, eppure non c'è un altro fatto che sia diventato passato con la stessa velocità. Sembra che l'Occidente abbia un pudore tutto suo ad alimentare la memoria e a piangere i propri morti: qualcosa che assomiglia alla paura di dare fastidio all'islam e alla vergogna per essersi sentiti tutti colpiti al cuore. Ricordiamo ossessivamente il 25 aprile, nonostante molti di noi non fossero neanche nati quel giorno e invece dimentichiamo l'11 settembre che invece abbiamo vissuto in diretta. Il secondo sintomo della nostra sconfitta sta nell'incapacità di accettare che a una guerra sporca si risponde con leggi straordinarie e a volte anche con qualcosa che sta al confine con la legge. L'hanno fatto tutti i Paesi occidentali quando hanno battuto il terrorismo domestico. Con il terrore internazionale no. Di più, abbiamo messo in discussione tutto: l'apertura di Guantanamo, gli interrogatori ai presunti terroristi, gli arresti dei sospetti. Abbiamo fatto passare i servizi segreti di tutto il mondo per criminali. Abbiamo rinunciato di fatto alla guerra in Afghanistan, convinti che i presupposti fossero sbagliati. Così via alla guerra del drone che ha pulito molte coscienze, ma in realtà ha fatto molti più morti. Anche la clamorosa campagna di autocritica sulle torture è stata un errore colossale. Noi processiamo (soprattutto noi stessi), loro fanno stragi. Allora, che significato ha il nostro senso di colpa? È una sconfitta doppia, perché rende l'Occidente ancora più vulnerabile. Qualcuno davvero pensa che se i governi avessero usato o usassero solo mezzi totalmente leciti la violenza cesserebbe o si ridurrebbe? No. Anzi, forse è il contrario. L'Occidente darebbe il segnale della sua debolezza e presterebbe il fianco a un'escalation del fanatismo. I fondamentalisti attaccano nel centro di una metropoli europea con i kalashnikov e noi applichiamo leggi ordinarie? Non abbiamo capito. Non capiamo. Non capisce soprattutto la politica, assente da 14 anni nel dibattito sulla guerra al terrorismo. Guardate l'imbarazzante reazione dell'Europa ai fatti di Parigi: non una sola voce comune, né tantomeno una voce forte di condanna o di presa d'atto che si tratta di una guerra dichiarata sul nostro territorio. L'Europa non esiste, punto. E più che sull'euro, sulla crisi, sull'austerità, lo dimostra sul terrorismo. Siamo in balia della nostra apatia e della nostra ideologia remissiva: la verità è che ci siamo autoconvinti che l'Occidente sia colpevole. Le immagini di Parigi hanno fatto rimbalzare quelle di Londra 2013, quando due inglesi di origine nigeriana uccisero sgozzandoli due agenti nell'indifferenza collettiva. Nessuna reazione. Paura, punto. L'Occidente si protegge chiedendo scusa. Perché? Ci siamo dimenticati che non siamo noi quelli dalla parte sbagliata. Ci siamo dimenticati che noi siamo le vittime.

Sull'islam aveva ragione quella "pazza" di Oriana Fallaci. L'odio per l'Occidente, il fallimento dell'integrazione: in queste righe sembra di leggere la cronaca di oggi, scrive Oriana Fallaci su “Il Giornale”. Leggete queste righe come fossero un saggio scritto ieri, e avrete una valida analisi dei fatti di attualità degli ultimi giorni. Ma, com'è ovvio, le righe che seguono sono state scritte da Oriana Fallaci non in queste ore, ma all'indomani dell'11 settembre del 2001, dopo l'attacco alle Torri Gemelle. Parole scritte con rabbia e con l'intensità di cui lei era capace, ma anche con coraggio. Un coraggio che dette fastidio a chi preferiva non intendere le sue ragioni. Abbiamo deciso di ripubblicare un estratto dei suoi scritti sul rapporto tra l'Islam e l'Occidente, che si possono leggere in versione integrale nei libri editi da Rizzoli:

Con "La rabbia e l'orgoglio" (2001), Oriana Fallaci rompe un silenzio durato dieci anni, dalla pubblicazione di "Insciallah", epico romanzo sulla missione occidentale di pace nella Beirut dilaniata dallo scontro tra cristiani e musulmani e dalle faide con Israele. Dieci anni in cui la Fallaci sceglie di vivere ritirata nella sua casa newyorchese, come in esilio, a combattere il cancro. Ma non smette mai di lavorare al testo narrativo dedicato alla sua famiglia, quello che lei chiama "il-mio-bambino", pubblicato postumo nel 2008, "Un cappello pieno di ciliege". L'undici settembre le impone di tornare con furia alla macchina da scrivere per dar voce a quelle idee che ha sempre coltivato nelle interviste, nei reportage, nei romanzi, ma che ha poi "imprigionato dentro il cuore e dentro il cervello" dicendosi "tanto-la-gente-non-vuole-ascoltare". Il risultato è un articolo sul "Corriere della Sera" del 29 settembre 2001, un sermone lo definisce lei stessa, accolto con enorme clamore in Italia e all'estero. Esce in forma di libro nella versione originaria e integrale, preceduto da una prefazione in cui la Fallaci affronta alle radici la questione del terrorismo islamico e parla di sé, del suo isolamento, delle sue scelte rigorose e spietate. La risposta è esplosiva, le polemiche feroci. Mentre i critici si dividono, l'adesione dei lettori, in tutto il mondo, è unanime di fronte alla passione che anima queste pagine.

"La forza della ragione" (2004) voleva essere solo un post-scriptum intitolato "Due anni dopo", cioè una breve appendice a "La rabbia e l'orgoglio". Ma quando ebbe concluso il lavoro, Oriana Fallaci si rese conto di aver scritto un altro libro. L'autrice parte stavolta dalle minacce di morte ricevute per "La rabbia e l'orgoglio" e, identificandosi in tal Mastro Cecco che a causa di un libro venne bruciato vivo dall'Inquisizione, si presenta come una Mastra Cecca che, eretica irriducibile e recidiva, sette secoli dopo fa la stessa fine. Tra il primo e il secondo rogo, l'analisi di ciò che chiama l'Incendio di Troia, ossia di un'Europa che a suo giudizio non è più Europa, ma Eurabia, colonia dell'Islam.

Oriana Fallaci intervista se stessa (2004).  “Scrivere per libertà e disobbedienza”: è il monito che ha sempre guidato Oriana Fallaci e che ha ispirato anche questo libro, terzo e ultimo volume della Trilogia iniziata con La Rabbia e l’Orgoglio (2001) e proseguita con La Forza della Ragione (2004). Completando le sue riflessioni sul declino morale e intellettuale della nostra civiltà, la grande scrittrice costruisce una lunga intervista a sé stessa e la arricchisce con uno straordinario Post-Scriptum che si rifà all’Apocalisse dell’evangelista Giovanni. Con la sua scrittura magistrale, potente, provocatoria, la Fallaci ci offre un’accorata testimonianza della sua vita e del suo pensiero: scrive con la consueta schiettezza di terrorismo islamico e della crisi europea, racconta la sua lotta contro il cancro, rimarca principi etici da difendere senza compromessi, colpisce con durissimi fendenti la pavidità della politica e traccia il ritratto senza sconti di un Occidente rassegnato e indifeso, sempre più prossimo al rischio di andare in frantumi.

Un atto di giustizia rileggerli oggi che il quadro è ancora più chiaro e molti, che le davano della pazza, sono costretti ad ammettere che invece ci aveva visto giusto.

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Sono anni che come una Cassandra mi sgolo a gridare «Troia brucia, Troia brucia». Anni che ripeto al vento la verità sul Mostro e sui complici del Mostro cioè sui collaborazionisti che in buona o cattiva fede gli spalancano le porte. Che come nell'Apocalisse dell'evangelista Giovanni si gettano ai suoi piedi e si lasciano imprimere il marchio della vergogna. Incominciai con La Rabbia e l'Orgoglio . Continuai con La Forza della Ragione . Proseguii con Oriana Fallaci intervista sé stessa e con L'Apocalisse . I libri, le idee, per cui in Francia mi processarono nel 2002 con l'accusa di razzismo-religioso e xenofobia. Per cui in Svizzera chiesero al nostro ministro della Giustizia la mia estradizione in manette. Per cui in Italia verrò processata con l'accusa di vilipendio all'Islam cioè reato di opinione. Libri, idee, per cui la Sinistra al Caviale e la Destra al Fois Gras ed anche il Centro al Prosciutto mi hanno denigrata vilipesa messa alla gogna insieme a coloro che la pensano come me. Cioè insieme al popolo savio e indifeso che nei loro salotti viene definito dai radical-chic «plebaglia-di-destra». E sui giornali che nel migliore dei casi mi opponevano farisaicamente la congiura del silenzio ora appaiono titoli composti coi miei concetti e le mie parole. Guerra-all'Occidente, Culto-della-Morte, Suicidio-dell'Europa, Sveglia-Italia-Sveglia.

Il nemico è in casa. Continua la fandonia dell'Islam «moderato», la commedia della tolleranza, la bugia dell'integrazione, la farsa del pluriculturalismo. E con questa, il tentativo di farci credere che il nemico è costituito da un'esigua minoranza e che quella esigua minoranza vive in Paesi lontani. Be', il nemico non è affatto un'esigua minoranza. E ce l'abbiamo in casa. Ed è un nemico che a colpo d'occhio non sembra un nemico. Senza la barba, vestito all'occidentale, e secondo i suoi complici in buona o in malafede perfettamente-inserito-nel-nostro-sistema-sociale. Cioè col permesso di soggiorno. Con l'automobile. Con la famiglia. E pazienza se la famiglia è spesso composta da due o tre mogli, pazienza se la moglie o le mogli le fracassa di botte, pazienza se non di rado uccide la figlia in blue jeans, pazienza se ogni tanto suo figlio stupra la quindicenne bolognese che col fidanzato passeggia nel parco. È un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità. Un nemico che in nome dell'umanitarismo e dell'asilo politico accogliamo a migliaia per volta anche se i Centri di accoglienza straripano, scoppiano, e non si sa più dove metterlo. Un nemico che in nome della «necessità» (ma quale necessità, la necessità di riempire le strade coi venditori ambulanti e gli spacciatori di droga?) invitiamo anche attraverso l'Olimpo Costituzionale. «Venite, cari, venite. Abbiamo tanto bisogno di voi». Un nemico che le moschee le trasforma in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi, e che obbedisce ciecamente all'imam. Un nemico che in virtù della libera circolazione voluta dal trattato di Schengen scorrazza a suo piacimento per l'Eurabia sicché per andare da Londra a Marsiglia, da Colonia a Milano o viceversa, non deve esibire alcun documento. Può essere un terrorista che si sposta per organizzare o materializzare un massacro, può avere addosso tutto l'esplosivo che vuole: nessuno lo ferma, nessuno lo tocca.

Il crocifisso sparirà. Un nemico che appena installato nelle nostre città o nelle nostre campagne si abbandona alle prepotenze ed esige l'alloggio gratuito o semi-gratuito nonché il voto e la cittadinanza. Tutte cose che ottiene senza difficoltà. Un nemico che ci impone le proprie regole e i propri costumi. Che bandisce il maiale dalle mense delle scuole, delle fabbriche, delle prigioni. Che aggredisce la maestra o la preside perché una scolara bene educata ha gentilmente offerto al compagno di classe musulmano la frittella di riso al marsala cioè «col liquore». E-attenta-a-non-ripeter-l'oltraggio. Un nemico che negli asili vuole abolire anzi abolisce il Presepe e Babbo Natale. Che il crocifisso lo toglie dalle aule scolastiche, lo getta giù dalle finestre degli ospedali, lo definisce «un cadaverino ignudo e messo lì per spaventare i bambini musulmani». Un nemico che in Inghilterra s'imbottisce le scarpe di esplosivo onde far saltare in aria il jumbo del volo Parigi-Miami. Un nemico che ad Amsterdam uccide Theo van Gogh colpevole di girare documentari sulla schiavitù delle musulmane e che dopo averlo ucciso gli apre il ventre, ci ficca dentro una lettera con la condanna a morte della sua migliore amica. Il nemico, infine, per il quale trovi sempre un magistrato clemente cioè pronto a scarcerarlo. E che i governi eurobei (ndr: non si tratta d'un errore tipografico, voglio proprio dire eurobei non europei) non espellono neanche se è clandestino.

Dialogo tra civiltà. Apriti cielo se chiedi qual è l'altra civiltà, cosa c'è di civile in una civiltà che non conosce neanche il significato della parola libertà. Che per libertà, hurryya, intende «emancipazione dalla schiavitù». Che la parola hurryya la coniò soltanto alla fine dell'Ottocento per poter firmare un trattato commerciale. Che nella democrazia vede Satana e la combatte con gli esplosivi, le teste tagliate. Che dei Diritti dell'Uomo da noi tanto strombazzati e verso i musulmani scrupolosamente applicati non vuole neanche sentirne parlare. Infatti rifiuta di sottoscrivere la Carta dei Diritti Umani compilata dall'Onu e la sostituisce con la Carta dei Diritti Umani compilata dalla Conferenza Araba. Apriti cielo anche se chiedi che cosa c'è di civile in una civiltà che tratta le donne come le tratta. L'Islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà.

Una strage in Italia? La strage toccherà davvero anche a noi, la prossima volta toccherà davvero a noi? Oh, sì. Non ne ho il minimo dubbio. Non l'ho mai avuto. E aggiungo: non ci hanno ancora attaccato in quanto avevano bisogno della landing-zone, della testa di ponte, del comodo avamposto che si chiama Italia. Comodo geograficamente perché è il più vicino al Medio Oriente e all'Africa cioè ai Paesi che forniscono il grosso della truppa. Comodo strategicamente perché a quella truppa offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà. Ma presto si scateneranno. Molti italiani non ci credono ancora. Si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi.

Multiculturalismo, che panzana. L'Eurabia ha costruito la panzana del pacifismo multiculturalista, ha sostituito il termine «migliore» col termine «diverso-differente», s'è messa a blaterare che non esistono civiltà migliori. Non esistono principii e valori migliori, esistono soltanto diversità e differenze di comportamento. Questo ha criminalizzato anzi criminalizza chi esprime giudizi, chi indica meriti e demeriti, chi distingue il Bene dal Male e chiama il Male col proprio nome. Che l'Europa vive nella paura e che il terrorismo islamico ha un obbiettivo molto preciso: distruggere l'Occidente ossia cancellare i nostri principii, i nostri valori, le nostre tradizioni, la nostra civiltà. Ma il mio discorso è caduto nel vuoto. Perché? Perché nessuno o quasi nessuno l'ha raccolto. Perché anche per lui i vassalli della Destra stupida e della Sinistra bugiarda, gli intellettuali e i giornali e le tv insomma i tiranni del politically correct , hanno messo in atto la Congiura del Silenzio. Hanno fatto di quel tema un tabù.

Conquista demografica. Nell'Europa soggiogata il tema della fertilità islamica è un tabù che nessuno osa sfidare. Se ci provi, finisci dritto in tribunale per razzismo-xenofobia-blasfemia. Ma nessun processo liberticida potrà mai negare ciò di cui essi stessi si vantano. Ossia il fatto che nell'ultimo mezzo secolo i musulmani siano cresciuti del 235 per cento (i cristiani solo del 47 per cento). Che nel 1996 fossero un miliardo e 483 milioni. Nel 2001, un miliardo e 624 milioni. Nel 2002, un miliardo e 657 milioni. Nessun giudice liberticida potrà mai ignorare i dati, forniti dall'Onu, che ai musulmani attribuiscono un tasso di crescita oscillante tra il 4,60 e il 6,40 per cento all'anno (i cristiani, solo 1'1 e 40 per cento). Nessuna legge liberticida potrà mai smentire che proprio grazie a quella travolgente fertilità negli anni Settanta e Ottanta gli sciiti abbiano potuto impossessarsi di Beirut, spodestare la maggioranza cristiano-maronita. Tantomeno potrà negare che nell'Unione Europea i neonati musulmani siano ogni anno il dieci per cento, che a Bruxelles raggiungano il trenta per cento, a Marsiglia il sessanta per cento, e che in varie città italiane la percentuale stia salendo drammaticamente sicché nel 2015 gli attuali cinquecentomila nipotini di Allah da noi saranno almeno un milione.

Addio Europa, c'è l'Eurabia. L'Europa non c'è più. C'è l'Eurabia. Che cosa intende per Europa? Una cosiddetta Unione Europea che nella sua ridicola e truffaldina Costituzione accantona quindi nega le nostre radici cristiane, la nostra essenza? L'Unione Europea è solo il club finanziario che dico io. Un club voluto dagli eterni padroni di questo continente cioè dalla Francia e dalla Germania. È una bugia per tenere in piedi il fottutissimo euro e sostenere l'antiamericanismo, l'odio per l'Occidente. È una scusa per pagare stipendi sfacciati ed esenti da tasse agli europarlamentari che come i funzionari della Commissione Europea se la spassano a Bruxelles. È un trucco per ficcare il naso nelle nostre tasche e introdurre cibi geneticamente modificati nel nostro organismo. Sicché oltre a crescere ignorando il sapore della Verità le nuove generazioni crescono senza conoscere il sapore del buon nutrimento. E insieme al cancro dell'anima si beccano il cancro del corpo.

Integrazione impossibile. La storia delle frittelle al marsala offre uno squarcio significativo sulla presunta integrazione con cui si cerca di far credere che esiste un Islam ben distinto dall'Islam del terrorismo. Un Islam mite, progredito, moderato, quindi pronto a capire la nostra cultura e a rispettare la nostra libertà. Virgilio infatti ha una sorellina che va alle elementari e una nonna che fa le frittelle di riso come si usa in Toscana. Cioè con un cucchiaio di marsala dentro l'impasto. Tempo addietro la sorellina se le portò a scuola, le offrì ai compagni di classe, e tra i compagni di classe c'è un bambino musulmano. Al bambino musulmano piacquero in modo particolare, così quel giorno tornò a casa strillando tutto contento: «Mamma, me le fai anche te le frittelle di riso al marsala? Le ho mangiate stamani a scuola e...». Apriti cielo. L'indomani il padre di detto bambino si presentò alla preside col Corano in pugno. Le disse che aver offerto le frittelle col liquore a suo figlio era stato un oltraggio ad Allah, e dopo aver preteso le scuse la diffidò dal lasciar portare quell'immondo cibo a scuola. Cosa per cui Virgilio mi rammenta che negli asili non si erige più il Presepe, che nelle aule si toglie dal muro il crocifisso, che nelle mense studentesche s'è abolito il maiale. Poi si pone il fatale interrogativo: «Ma chi deve integrarsi, noi o loro?».

L'islam moderato non esiste. Il declino dell'intelligenza è il declino della Ragione. E tutto ciò che oggi accade in Europa, in Eurabia, ma soprattutto in Italia è declino della Ragione. Prima d'essere eticamente sbagliato è intellettualmente sbagliato. Contro Ragione. Illudersi che esista un Islam buono e un Islam cattivo ossia non capire che esiste un Islam e basta, che tutto l'Islam è uno stagno e che di questo passo finiamo con l'affogar dentro lo stagno, è contro Ragione. Non difendere il proprio territorio, la propria casa, i propri figli, la propria dignità, la propria essenza, è contro Ragione. Accettare passivamente le sciocche o ciniche menzogne che ci vengono somministrate come l'arsenico nella minestra è contro Ragione. Assuefarsi, rassegnarsi, arrendersi per viltà o per pigrizia è contro Ragione. Morire di sete e di solitudine in un deserto sul quale il Sole di Allah brilla al posto del Sol dell'Avvenir è contro Ragione.

Ecco cos'è il Corano. Perché non si può purgare l'impurgabile, censurare l'incensurabile, correggere l'incorreggibile. Ed anche dopo aver cercato il pelo nell'uovo, paragonato l'edizione della Rizzoli con quella dell'Ucoii, qualsiasi islamista con un po' di cervello ti dirà che qualsiasi testo tu scelga la sostanza non cambia. Le Sure sulla jihad intesa come Guerra Santa rimangono. E così le punizioni corporali. Così la poligamia, la sottomissione anzi la schiavizzazione della donna. Così l'odio per l'Occidente, le maledizioni ai cristiani e agli ebrei cioè ai cani infedeli.

La Parigi della Fallaci capitale d'Eurabia e dei collaborazionisti. Nella Trilogia, molti passi sulla Francia ormai contro-colonizzata dall'immigrazione musulmana. Colpa (anche) degli intellettuali,, scrive Alessandro Gnocchi su “Il Giornale”. Secondo Oriana Fallaci, Parigi era la capitale d'Eurabia. Quest'ultimo termine, introdotto nel dibattito dalla storica Bat Ye'Or (in Eurabia , Lindau), descrive il futuro del Vecchio Continente dilaniato al suo interno dallo scontro con l'islam. Alla radice ci sono gli accordi di cooperazione tra Europa e Paesi arabi firmati negli anni Settanta. L'Europa avrebbe fornito tecnologia ai Paesi arabi in cambio di greggio e manodopera. Si teorizzava la necessità di una forte immigrazione, presto diventata accesso incontrollato, verso le nostre sponde. La massiccia presenza di stranieri in Europa, secondo la Fallaci, era il cavallo di Troia di una colonizzazione al contrario. Rileggiamo La Forza della Ragione (Rizzoli, 2004). Per i difensori dell'Occidente, Parigi è persa. «Non è facile avere coraggio in un Paese dove esistono più di tremila moschee» e i musulmani sono così numerosi (ben oltre l'ufficiale dieci per cento della popolazione). In Francia «il razzismo islamico cioè l'odio per i cani-infedeli regna sovrano e non viene mai processato, mai punito». Gli imam dichiarano di voler sfruttare la democrazia «per occupare territorio» e sovvertire le leggi laiche in favore della sharia. L'antisemitismo è in crescita. I quartieri di troppe città, stravolte dal cambiamento demografico, hanno perso l'identità francese per acquisire quella magrebina. Di fronte a queste tesi, l'intellighentia scese compatta in campo per screditare la Fallaci. La giornalista fu tra i primi, in Europa, a sperimentare strumenti ed effetti del politicamente corretto. Ripercorriamo questa vicenda esemplare. La Rabbia e l'Orgoglio (Rizzoli) esce a Parigi nel maggio 2002. Mentre la prima tiratura di 25 mila copie va esaurita in due settimane, gli intellettuali si esibiscono sui giornali. Ad aprire la polemica è il settimanale Le Point . Secondo il filosofo Bernard-Henri Lévy, il libro della Fallaci è paragonabile alle peggiori opere antisemite come Bagatelle per un massacro di Louis-Ferdinand Céline: «È un libro razzista. Con meno talento, è un Bagatelle antiarabo». Stessa linea per Françoise Giroud su Le Nouvel Observateur : «La Fallaci tocca nel lettore qualcosa di profondo, d'inconfessato, che egli negherà sempre di aver pensato ma che queste pagine cariche di odio e di disprezzo rischiano di illuminare brutalmente». Il sociologo Gilles Kepel su Le Monde imputa al libro di aver sancito la vittoria di Osama bin Laden, trascinando l'Occidente sul campo della reazione isterica. Una voce fuori dal coro? Charlie Hebdo ammette la verità di fondo del libro. Ma anche il settimanale satirico, di fronte alla reazione dei lettori, è costretto a «ritrattare» (in parte). All'inizio di giugno, la Fallaci risponde sul Corriere della Sera . L'articolo Eppure con la Francia non sono arrabbiata è accompagnato da brani composti in francese per La Rabbia e l'Orgoglio e ora tradotti in italiano. In breve: la specie tutta europea dei «voltagabbana» (o collaborazionisti) trova la sua origine e massima espressione in Francia fin dal Medioevo. Tra i voltagabbana più abili nello schierarsi sempre dalla parte vincente, ci sono gli intellettuali. Oggi ha vinto il politicamente corretto. E quindi... «Queste creature patetiche, inutili, questi parassiti. Questi falsi sanculotti che vestiti da ideologi, giornalisti, scrittori, teologi, cardinali, attori, commentatori, puttane à la page, grilli canterini, giullari usi a leccare i piedi ai Khomeini e ai Pol Pot, dicono solo ciò che gli viene ordinato di dire. Ciò che gli serve a entrare o restare nel jet-set pseudointellettuale, a sfruttarne i vantaggi e i privilegi, a guadagnar soldi». Gli intellettuali hanno rimpiazzato l'ideologia marxista con la «viscida ipocrisia» che «in nome della Fraternité (sic) predica il pacifismo a oltranza cioè ripudia perfino la guerra che abbiamo combattuto contro i nazifascismi di ieri, canta le lodi degli invasori e crucifigge i difensori». La cultura è il regno delle mode. La moda «o meglio l'inganno che in nome dell'Humanitarisme (sic) assolve i delinquenti e condanna le vittime, piange sui talebani e sputa sugli americani, perdona tutto ai palestinesi e nulla agli israeliani». La moda «o meglio la demagogia che in nome dell'Égalité (sic) rinnega il merito e la qualità, la competizione e il successo». La moda «o meglio la cretineria che in nome della Justice (sic) abolisce le parole del vocabolario e chiama gli spazzini “operatori ecologici”». La moda «o meglio la disonestà, l'immoralità, che definisce “tradizione locale” e “cultura diversa” l'infibulazione ancora eseguita in tanti paesi musulmani». La moda di magnificare le conquiste culturali dell'islam per farlo apparire superiore all'Occidente. E infine la moda «che permette di stabilire un nuovo terrorismo intellettuale: quello di sfruttare a proprio piacimento il termine “razzismo”. Non sanno che cosa significa eppure lo usano lo stesso». Passano dieci giorni. Tre associazioni francesi denunciano la Fallaci per islamofobia e incitazione al razzismo. Era accaduto, poco prima, anche a Michel Houellebecq, a causa dei duri giudizi sull'islam contenuti nel romanzo Piattaforma (Bompiani) e ribaditi in un'intervista. Il tribunale di Parigi assolve la Fallaci mentre La Rabbia e l'Orgoglio supera le duecentomila copie. Quanta fatica sprecata per liquidare la Fallaci. Oriana guardava lontano mentre gli intellettuali non si sono accorti dei processi storici e delle ideologie di morte che hanno davanti agli occhi.

Magdi come la Fallaci processati per le loro idee. La scrittrice finì alla sbarra in Italia, Francia e Svizzera per i suoi scritti sul pericolo islamico E anche lei diceva: «Non mi faccio intimidire», scrive “Il Giornale”. L i chiamava «i miei trofei». E di «trofei», alias processi per reato d'opinione a causa delle idee sull'islam espresse in libri e articoli, Oriana Fallaci ne ha subiti diversi nel corso della sua vita, in tutta Europa, dalla Francia alla Svizzera. E naturalmente pure in Italia, anche se l'ultimo, a Bergamo, è cominciato a giugno del 2006, due mesi prima che lei morisse, il 15 settembre. Oriana Fallaci come Magdi Cristiano Allam, anzi molto di più. A parte «l'amicizia complessa», così la definì Allam quando lei morì, che li legava sul fronte comune della denuncia dei pericoli del fondamentalismo islamico e del suo radicamento in Europa, c'è anche la persecuzione per via giudiziaria delle opinioni che li accomuna. Per Allam, oggi, si tratta di un procedimento avviato dal Consiglio di disciplina nazionale dell'Ordine dei giornalisti che lo accusa di «islamofobia». Per la Fallaci, all'epoca, erano invece veri e propri processi penali, per vilipendio all'islam, razzismo, xenofobia. La sostanza, però, non cambia: vietato essere critici nei confronti dei musulmani, pena la gogna, anche giudiziaria. Si arrabbiava, la Fallaci, per quei quattro processi: due in Francia, a partire dal 2002 (quello per «razzismo», nel 2003, si chiuse con la sua assoluzione) e uno in Svizzera, tutti legati a La rabbia e l'orgoglio ; e un altro in Italia, nel 2006, finito con la sua morte. Li chiamava sì trofei ma li riteneva profondamente ingiusti. Ecco come lei stessa li raccontava a novembre del 2005 nel discorso di ringraziamento per il conferimento dell' Annie Taylor Award , il cui testo è stato pubblicato qualche giorno fa da Libero : «I trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni Paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle , la Patrie du Laïcisme , la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité , dove per vilipendio all'islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste , dove tre anni fa gli ebrei francesi della Licra (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica in fronte) si unì ai musulmani francesi del Mrap (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l'Orgueil (La rabbia e l'orgoglio, ma la richiesta fu respinta, ndr ) o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: “Attenzione! Questo libro può costituire un pericolo per la vostra salute mentale”. Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweits , la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il ministro della Giustizia osò chiedere al mio ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell'islam viene impartita nel mio paese». Era furibonda, la Fallaci, per il processo di Bergamo, legato ad alcune affermazioni contenute in La forza della ragione . Un processo travagliato, partito dalla denuncia, nel 2004, di Adel Smith, il presidente all'epoca del'Unione dei Musulmani d'Italia che aveva definito il crocifisso un «cadaverino nudo inventato per spaventare i bambini musulmani». Il pm aveva chiesto l'archiviazione per la Fallaci, ma il gip l'aveva rigettata, imponendo l'imputazione coatta. Ecco cosa scriveva la stessa Fallaci a luglio del 2005, sul Corriere della Sera , nel celebre articolo dopo gli attentati di Londra «Il nemico che trattiamo da amico» : «Mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all'islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al cristianesimo. Nonché per istigazione all'omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l'esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi, anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo Van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro dell'Interno dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia». Al processo, iniziato il 9 giugno del 2006, la Fallaci non si presentò per scelta. Per quel processo ricevette attestati di solidarietà da mezzo mondo, pure dall'ex presidente polacco Lech Walesa. E quel processo finì nel nulla. Alla fine lo beffò la morte della giornalista e scrittrice, il 15 settembre del 2006.

La guerra siriana si combatteva in Italia. Tra il 2011 e il 2012 sono state commesse, tra Milano e Roma, più di venti azioni violente di chiara matrice jihadista con obiettivo soprattutto i cristiani. A rivelarlo è un'indagine della polizia e dai magistrati anti-terrorismo, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso. Un piccolo spezzone della guerra civile siriana si è combattuto in Italia. Ma era ancora troppo presto per capirlo. Tra il 2011 e il 2012 sono state commesse, tra Milano e Roma, più di venti azioni violente di chiara matrice jihadista: ferimenti, aggressioni, pestaggi, danneggiamenti, devastazioni, minacce e intimidazioni. Le vittime appartengono alle minoranze politico-religiose più perseguitate dalle milizie islamiste in Siria: le violenze in Italia hanno colpito soprattutto cristiani. A rivelarlo è un'indagine, avviata dalla polizia e dai magistrati anti-terrorismo di Milano, che viene ricostruita in un articolo del settimanale “l'Espresso”. Da quando è esplosa la guerra civile in Siria, le forze di polizia di tutti i Paesi occidentali hanno cominciato a sorvegliare le partenze degli estremisti verso i fronti di guerra. A Milano la Digos ha messo sotto controllo, in particolare, un gruppo di siriani residenti da anni tra Milano, Como e Monza: spariti dall’Italia, sono ricomparsi, mitra in pugno, in una serie di foto e video pubblicati su Internet tra febbraio e luglio del 2012. Solo a quel punto la polizia, ricostruendo le loro precedenti attività in Italia, ha scoperto che quegli stessi jihadisti siriani avevano già colpito, segretamente, anche a casa nostra. L’unica azione visibile si è svolta nella notte del 10 febbraio 2012 nel centro di Roma: un plotone di oppositori siriani ha dato l’assalto all’ambasciata di Damasco, che è stata occupata e devastata. Quel raid di protesta contro il regime del presidente-dittatore Bashar El-Assad è stato organizzato proprio dal gruppo di estremisti che poi sono partiti per la guerra in Siria. Nei mesi successivi le indagini della polizia hanno collegato alla stessa cellula jihadista molte altre azioni violente, mai denunciate per paura. Tra le vittime, due siriani di fede cristiana, che gestivano un bar a Cologno Monzese. Il loro locale è stato devastato nell'estate 2011 da un commando di oltre trenta uomini armati di bastoni e spranghe di ferro. Sulla saracinesca è poi comparsa una scritta in arabo: «Per tutti i siriani: quelli che sono a favore del presidente devono stare attenti. In Siria ci penseremo noi. Quelli che ammazzano nel jihad, vivono con Dio». Nella primavera 2012, dopo altre gravi intimidazioni, i due cristiani hanno ceduto il bar e si sono trasferiti. Un altro agguato di stampo jihadista ha colpito due siriani che lavorano regolarmente tra Milano e la Brianza: uno è cristiano, l’altro della minoranza sciita-alauita, ma i loro amici più cari sono sunniti. Il 16 luglio 2011 hanno partecipato a una fiaccolata filo-Assad organizzata da un'associazione di cui fanno parte anche cittadini italiani. Mentre tornavano a casa in macchina, sono stati circondati e picchiati ferocemente da almeno 15 sprangatori jihadisti. Le due vittime, sanguinanti a terra, sono state salvate dall'arrivo dei carabinieri. Il cristiano è stato ricoverato al San Raffaele con una gamba spappolata e operato più volte. A una spedizione punitiva è sfuggito anche un religioso legato alla Fratellanza Musulmana, il partito allora al potere in Egitto, che aveva messo al bando le sette jihadiste dalle moschee milanesi. A quel punto l’ala dura dei salafiti siriani lo ha minacciato di morte: «Sei un traditore.... Ti uccideremo a coltellate... Ti sgozzeremo come un cane». Dopo mesi di indagini, la Digos ha smascherato gli esponenti più violenti del gruppo jihadista milanese. Ma a quel punto erano già partiti tutti per la guerra. Uno dei più sanguinari è stato identificato in due video-choc, girati in Siria nel maggio 2012 (e scoperti da un fotoreporter della Rai): con il mitra a tracolla, si è fatto riprendere con un plotone di uomini armati, mentre uccidevano con un colpo alla testa sette prigionieri di guerra, legati e torturati.

COME TI COSTRUISCO UNA BUFALA SUL WEB.

Come ti costruisco una bufala sul web. Il segreto della viralità dei falsi su internet si annida su Facebook. Perché qui si tende a fare amicizia con persone simili a noi che fruiscono i nostri stessi contenuti. Con i like che ne attirano altri succede che alcuni post palesemente farlocchi finiscano per acquistare un successo sorprendente. Le bugie diventano verità, i fake soggetti reali. Per un motivo che gli esperti ci spiegano in modo scientifico, scrive Rosita Rijtano su “la Repubblica”. Per trovare mondi paralleli non bisogna andare lontano, nessun viaggio intergalattico: basta accendere il pc, collegarsi alla Rete, e aprire Facebook, dove coesistono diversi universi destinati a non incontrarsi mai (o quasi) e popolati da utenti con gli stessi interessi, le stesse paure, la stessa dieta mediatica. Ed è qui, nella presunta genesi di microcosmi digitali, che - secondo alcuni studiosi - si nasconderebbe il segreto della viralità delle burle internettiane. "Le bufale si diffondono tanto, e velocemente, semplicemente perché sulla rete sociale tendiamo a fare amicizia con persone simili a noi, che fruiscono i nostri stessi contenuti", spiega Walter Quattrociocchi, informatico, coordinatore del Laboratory of Computational social science dell'IMT di Lucca. Un like tira l'altro, insomma: questa sarebbe la formula magica, la chiave che ci permetterebbe di capire perché alcuni post, anche se palesemente farlocchi, hanno molto successo sul social network di Mark Zuckerberg. Prevedibile, forse. Un conto però è la teoria, un altro paio di maniche è la dimostrazione matematica, scientifica. Quattrociocchi sostiene di averla fatta in un nuovo studio, dal titolo "Viral Misinformation: The role of Homophily and Polarization" (tradotto come  "Disinformazione virale: il ruolo dell'omofilia e della polarizzazione", vedi glossario), condotto con altri sette ricercatori, dislocati in diverse università italiane, e che Repubblica.it ha potuto visionare in anteprima.

Complottisti vs scienziati. Bisogna fare un paio di necessarie premesse. Il paper affonda le sue radici in diversi lavori precedenti. Sempre targati IMT. "Una trilogia del complotto", l'ha definita Fabio Chiusi su Wired. Dove il team ha, di volta in volta, vivisezionato le abitudini di milioni di italiani sulla piattaforma di Menlo Park, in base al modo in cui si informano sul social (se fanno riferimento ai media classici, o a dei siti scientifici, o a quelli di informazione non tradizionale), per arrivare a interessanti conclusioni. Non solo, per l'appunto, che su Facebook "chi si somiglia si piglia". Ma anche che "le varie categorie di utenti, da noi prese in esame, interagiscono molto poco tra loro", spiega Quattrociocchi, "e quando lo fanno litigano, si insultano, ognuno resta della sua idea, poco importa se sia giusta o sbagliata". Non solo: "Appassionati di scienza e complottisti, cioè quegli internauti che si informano su pagine definite alternative, dedicano alle diverse news che leggono la stessa quantità di attenzione, tutto indipendentemente dalla qualità dell'informazione, e persino dalla sua veridicità, perciò le notizie false hanno la stessa rilevanza delle notizie vere". Negli ultimi giorni dell'anno è tempo di bilanci anche per gli scherzi. A ripercorrere le bufale del 2014 è il Washington Post, che grazie alla classifica delle parole più ricercate su Google, fa un quadro delle notizie che hanno ingannato milioni di utenti. A guadagnarsi lo scettro è Jasmine Tridevil, vero nome Alisha Jasmine Hessler. La 21enne della Florida lo scorso settembre è balzata all'onore delle cronache dopo aver rivelato di aver speso circa 20 mila euro per sottoporsi a un'operazione chirurgica per l'aggiunta di un terzo seno, con l'obiettivo di diventare famosa e partecipare a un reality. In realtà si trattava di una protesi mobile, servita per realizzare l'autoscatto diventato virale in poco tempo. A tradirla è stata una denuncia di furto fatta presso il Tampa International Airport, dove tra gli oggetti rubati spuntava anche un 3 breast prosthesis. La bufala è servita comunque da trampolino e Alisha ha recentemente registrato la sua prima canzone. Tra le altre bufale dell'anno anche il video virale della ragazza ubriaca a Los Angeles, esperimento sociale rivelatosi poi finto; l'uomo che si è salvato dall'attacco di un orso grazie alla suoneria del telefonino e le immancabili ''morti annunciate'' di personaggi famosi diffuse sui social network. Ecco alcune delle notizie false che hanno fatto discutere (e persino ridere) nei mesi scorsi.

Al secondo posto la minaccia di un hacker a Emma Watson che prometteva di pubblicare sul sito emmayouarenext.com le foto dell'attrice nuda, presa di mira per il suo accorato discorso contro le differenze di genere e gli stereotipi sulle donne fatto davanti alle Nazioni Unite. Il sito 4chan era stato indicato subito come responsabile delle minacce, ma in realtà la bacheca che aveva diffuso le immagini osé delle attrici rubate dai loro 'cloud', in questo caso, non aveva colpa. Le minacce erano in realtà una trovata pubblicitaria dell'agenzia di marketing virale Rantic che con questa bufala ha generato oltre 48 milioni di contatti sul web, 7 milioni di condivisioni e "mi piace" su Facebook e 3 milioni di menzioni su Twitter.

La medaglia di bronzo va al video girato dalla sconosciuta Stephen Zhang Production chiamato "esperimento sociale", in cui una ragazza finge di essere ubriaca e si aggira barcollando per la più famosa strada del quartiere di Hollywood a Los Angeles facendosi avvicinare da molti ragazzi per dimostrare quali sono le reazioni degli uomini in una situazione del genere. Il video pubblicato sul web in pochissimo tempo ha guadagnato milioni di visualizzazioni, scatenando i commenti degli utenti. Peccato che il regista, tale Stephen Zhang, avesse in realtà allenato gli uomini a recitare.

La misteriosa bandiera bianca comparsa la scorsa estate sul ponte di Brooklyn sembrava essere frutto di una mossa dei ciclisti, in una ipotetica battaglia contro i pedoni. La notizia, rivelatasi poi falsa, era stata diffusa via Twitter, sull'account BicycleLobby. In realtà, si trattava di un blitz rivendicato da due artisti tedeschi, intenti a celebrare il ponte come spazio pubblico.

Nella lista c'è anche l'incredibile storia di un uomo che si è salvato dall'attacco di un orso in Russia, grazie alla suoneria telefonica 'Baby' di Justin Bieber impostata sul cellulare.

La notizia della ''Miracle Machine'' che può trasformare l'acqua in vino. Il marchingegno in realtà non esiste, ma si è trattato di un'operazione di lancio per finanziare il progetto di una ONG che ha come obiettivo quello di portare acqua potabile nei paesi bisognosi. La bravata ha raggiunto comunque il suo scopo: grazie al video, le donazioni sono aumentate del 20%.

Passando dall'America alla Russia, si è rivelato falso anche il video postato su Twitter dalla slittinista statunitense Kate Hansen che mostrava un lupo grigio senza collare aggirarsi liberamente nel corridoio del suo hotel, nel parco olimpico dei Giochi di Sochi (in realtà si trattava di una messinscena, realizzata in uno studio di Los Angeles).

E di un montaggio video si è trattato anche nel caso del filmato diffuso su YouTube all'inizio di agosto che mostrava il presidente russo Vladimir Putin colpito da escrementi di uccello durante il discorso tenuto in occasione del centenario della Prima guerra mondiale.

Nella classifica non potevano poi mancare i sei giorni di buio totale che avrebbe dovuto attraversare la Terra tra il 16 e il 22 dicembre. Un articolo pubblicato dal sito satirico Huzlers.com annunciava l'arrivo imminente di una tempesta solare, che avrebbe bloccato il 90% della luce solare con polvere e detriti. La notizia, che tra l'altro citava come fonte direttamente la Nasa, è diventata virale e a fine ottobre l'agenzia spaziale americana ha dovuto rilasciare una smentita ufficiale.

Infine, chiudono la classifica la morte di Betty White e Macaulay Culkin (foto). In realtà entrambi stanno molto bene: White, che si sta avvicinando il suo 93esimo compleanno, è ancora in tv con la sitcom "Hot in Cleveland", mentre il protagonista di ''Mamma ho perso l'aereo'' è in tour con la sua band Pizza Underground.

Negli ultimi giorni dell'anno è tempo di bilanci anche per gli scherzi. A ripercorrere le bufale del 2014 è il Washington Post, che grazie alla classifica delle parole più ricercate su Google, fa un quadro delle notizie che hanno ingannato milioni di utenti. A guadagnarsi lo scettro è Jasmine Tridevil, vero nome Alisha Jasmine Hessler. La 21enne della Florida lo scorso settembre è balzata all'onore delle cronache dopo aver rivelato di aver speso circa 20 mila euro per sottoporsi a un'operazione chirurgica per l'aggiunta di un terzo seno, con l'obiettivo di diventare famosa e partecipare a un reality.

In realtà si trattava di una protesi mobile, servita per realizzare l'autoscatto diventato virale in poco tempo. A tradirla è stata una denuncia di furto fatta presso il Tampa International Airport, dove tra gli oggetti rubati spuntava anche un 3 breast prosthesis. La bufala è servita comunque da trampolino e Alisha ha recentemente registrato la sua prima canzone.

Tra le altre bufale dell'anno anche il video virale della ragazza ubriaca a Los Angeles, esperimento sociale rivelatosi poi finto; l'uomo che si è salvato dall'attacco di un orso grazie alla suoneria del telefonino e le immancabili ''morti annunciate'' di personaggi famosi diffuse sui social network. Ecco alcune delle notizie false che hanno fatto discutere (e persino ridere) nei mesi scorsi.

E chi, fra gli utenti, ha più probabilità di scambiare la bufala, o la satira, per un fatto reale?, è la successiva domanda quasi obbligatoria. Il ricercatore non ha dubbi: "Osservando i contenuti a cui è generalmente esposto chi la condivide,  troviamo i fan delle pagine di controinformazione, cioè di notizie difficili da verificare. Esempi: Lo Sai, Vaccini e Basta o Coscienza Sveglia". Se siamo disposti a fare un passo in più, in un altro paper che - anche in questo caso - abbiamo avuto in preview, Quattrociocchi & Co. suggeriscono la fede politica di molti "creduloni" digitali. "Questa tipologia di utenti scrive il 27,13 per cento dei commenti che ci sono sulla pagina di Beppe Grillo", chiosa il ricercatore. Insomma, stando ai lavori del gruppo IMT, seppur con tutti i dubbi che può lasciare un'analisi non generalizzabile, limitata a un solo Paese e a determinate tipologie di alimentazione digitale, ci comportiamo così sulla rete sociale più popolare al mondo. Che conta 1 miliardo e 350 milioni di iscritti. Una bordata per chi sostiene che internet sia necessariamente il luogo dell'intelligenza collettiva.

Bufale virali: il ruolo di omofilia e polarizzazione. Ma come, queste dinamiche relazionali, influiscono sulla diffusione pervasiva della disinformazione? Ed ecco che si arriva al nuovo studio, un monitoraggio spalmato nell'arco di 4 anni, e diviso in due fasi. Nella prima gli informatici hanno analizzato post e like di 73 pagine aperte in Italia sul network firmato Zuckerberg: 34 scientifiche (Science & Co.), e 39 cospirazioniste (Lo Sai & Co.). "Così", prosegue Quattrociocchi, "siamo riusciti a inquadrare come si comportano 1,2 milioni di utenti nostrani (su 25 milioni di utenti attivi al giorno, secondo i dati che ci ha fornito un portavoce di Facebook ndr), e a stabilire matematicamente che il numero di "Mi piace" su un determinato post è direttamente collegato all'omofilia, cioè al numero di amici che consumano lo stesso tipo di contenuto". In concreto: più il fake è condiviso da persone che conosciamo, e più aumentano le possibilità di essere contagiati dalla burla a nostra volta. Mentre nulla contano hub e influencer, anzi: la probabilità di trovarne uno diminuisce all'aumentare della viralità della news. Per il secondo step, invece, la lente del team ha zoomato su 4,709 annunci fasulli, messi in circolazione da due pagine satiriche: "Semplicemente Me" e "Simply Humans". Bufale, ma considerate vere dai naviganti. Spiega l'informatico: "Sono state tutte ripubblicate da utenti molto polarizzati, cioè in media con circa l'80 per cento di like su fonti di informazione complottarda, difficili da controllare. Trovato uno, trovati tutti. Perché, grazie all'omofilia, possiamo individuare con esattezza la rete di amicizia di ognuno di loro".

Il problema non è il mezzo: "Manca una preparazione scientifica". "Un lavoro impostato su un'interessante mole di dati", commenta David Lazer, professore alla Northeastern University, e uno dei papà della Computational social science, la disciplina che propone un approccio computazionale alle scienze sociali. "Ma non sappiamo niente di ciò che succede al di fuori del social network preso in esame, cioè di Facebook, come per esempio nelle mailing list". Lo stesso concetto di disinformazione - secondo Lazer - è troppo vasto per poter esser ben inquadrato. Aggiunge: "Ciò che è disinformazione per uno, può essere informazione per qualcun altro. Si tratta, del resto, di un fenomeno che esiste da sempre. Per cui sarebbe più interessante chiederci: quanto internet e i social network lo agevolano rispetto ai media tradizionali?". Trovare una risposta è difficile. Certo, sul web le bufale si diffondono velocemente. "La disinformazione digitale" è "uno dei principali rischi della società moderna", ha ammonito il report 2013 del World Economic Forum. E dalla piattaforma di Menlo Park passa una fetta sempre più consistente delle news che mastichiamo ogni giorno. Ma è anche vero che, quando e se vogliamo, possiamo ottenere la news più corretta e completa. Con lo stesso click. Con lo stesso strumento. Con la stessa velocità. Per Rosaria Conte, scienziata cognitiva e vice presidente del Consiglio scientifico del Cnr, il problema quindi non è il mezzo, "ma la mancanza di una preparazione scientifica da parte di chi fornisce, e fruisce, le notizie". Conclude: "A essere virali non sono tanto le bufale, ma le informazioni non verificate, e la loro conseguente accettazione acritica, un atteggiamento da abbandonare". In questo mondo. Come in un altro, parallelo.

"L'informazione è un fenomeno di contagio sociale", ne è convinto Alessandro Vespignani, fisico, ed esperto di modelli previsionali delle epidemie. Quarantanove anni, professore di Physics, Computer Science e Health Science alla Northeastern University, e autore - con Romualdo Pastor Satorras - del libro "Evolution and structure of the Internet". Da anni scandaglia la Rete. Con un obiettivo: studiare la diffusione delle malattie. L'abbiamo contatto su Skype per parlare della cosiddetta viralità delle notizie. Secondo Vespignani, ci sono delle somiglianze tra le pandemie e il modo in cui circola una bufala online, ma anche delle notevoli differenze. Che affondano le loro radici nel contesto sociale in cui viviamo, cioè nella nostra rete di relazioni quotidiane. Reali e virtuali. "Insomma, si tratta di un meccanismo molto più complesso", avverte. Perciò è difficile prevedere, e analizzare, le sue dinamiche. È, quindi, giusto parlare di intelligenza collettiva quando si parla di Internet? O, forse, sarebbe più appropriata la definizione di ignoranza collettiva?, lo provochiamo. Replica: "Sono due facce della stessa medaglia".

Dottor Vespignani, secondo lei la circolazione sul web delle notizie false può essere equiparata a un'epidemia?

"Di sicuro tutto ciò che è informazione è un fenomeno di contagio sociale. Solo che in questo caso a passare di persona in persona non è un virus, o un patogeno. Ma un concetto, che si diffonde di testa in testa. Così, nel momento in cui recepisco alcune informazioni dai mie amici e comincio a ripeterle, è come se fossi stato infettato. E infettassi gli altri a mia volta. Ci sono, ovviamente, anche delle grandissime differenze con il mondo biologico. Dove a difenderci dai virus è il nostro sistema immunitario. Quando parliamo di informazione, invece, il mondo esterno ha un forte effetto sulle probabilità di contagio. E se la notizia a cui siamo esposti arriva da un amico, da una persona di cui ci fidiamo, o che ha i nostri stessi interessi, potrebbe avere un peso maggiore. Insomma, si tratta di un meccanismo molto più complesso".

È quindi, possibile prevedere, dove, quanto e quando si diffonderà una cosiddetta bufala?

"Prima di tutto bisogna capire che cos'è una bufala, o che cos'è la disinformazione. In alcuni casi, l'interrogativo viene risolto guardando all'informazione in maniera banale. In altri, la differenza è più sottile.  Quindi, comprendere qual è la percezione del mondo rispetto a una determinata notizia, può risultare complesso. Una capacità predizionale in questo campo mi sembra che ancora non sia di portata immediata. Non solo perché dobbiamo risolvere un problema concettuale, stabilire - appunto - che cosa sia disinformazione e che cosa no. Ma anche perché dobbiamo avere una dettagliata mappatura di tutto lo spazio sociale in cui la bufala si diffonde: le persone con cui parlo al telefono, con cui parlo di persona, con cui interagisco su Facebook e così via. Per tanto tempo è stato del tutto impossibile, solo di recente sono stati fatti dei grandi passi avanti. Grazie allo sviluppo di nuove tecnologie, anche pervasive, che monitorano i social network e non solo".

Secondo alcuni studi, i social network, e in particolare Facebook, sono un terreno particolarmente fertile per la circolazione di informazioni fasulle. Qual è la sua opinione?

"Credo che internet sia un'enorme rete di conoscenza. Un'enorme rete di comunicazione che ha effetti molto positivi sul nostro modo di vivere, conoscere, e comunicare. Allo stesso tempo, però, crea un'orizzontalizzazione del sapere. Cioè, mettendo qualsiasi cosa a disposizione di tutti, fa credere a chiunque di poter masticare ogni informazione in modo efficace. Purtroppo non è vero. A volte ci vogliono anni di studi per capire determinate notizie. E discriminare quale sia l'informazione corretta e quale no. Per fare un paragone: è come se ci trovassimo in un grande bazar, dove è possibile incappare anche nella cosiddetta sòla. Perché, così come non tutti siamo esperti di tappeti, allo stesso modo non tutti siamo in grado di leggere un saggio politico, o un paper scientifico. Io, ad esempio, non mi sognerei mai di voler pilotare un aereo solo perché ho letto un articolo sull'argomento".

Intelligenza collettiva o ignoranza collettiva?

"Purtroppo una è lo specchio dell'altra. L'intelligenza collettiva esiste. E internet ne è una sua faccia. Può diventare ignoranza collettiva nel momento in cui la disinformazione si diffonde sulla Rete. Perciò è importante continuare a stabilire una scala dei valori. E, in qualche modo, ognuno di noi non deve farsi abbindolare dall'idea che l'informazione su internet sia automaticamente accessibile e veritiera. Un po' la lezione che abbiamo già imparato con i media tradizionali, insomma".

Quanto sarebbe, invece, importante una corretta informazione? Ci sono dei modi per veicolarla meglio e per evitare di diffondere, a nostra volta, notizie false?

"Una domanda da un milione di dollari. Saper distinguere l'informazione corretta e veicolarla nel modo giusto è, ovviamente, la cosa più importante del mondo. Che cosa bisogna fare? Bisogna diventare più furbi e attenti. I dati, le verifiche: sono importanti. Ma non è da meno l'onestà intellettuale. Tutti noi abbiamo una particolare visione del mondo, di cui cerchiamo conferme. E in Rete si può trovare la conferma di qualsiasi cosa, quindi bisogna stare attenti ai valori reali. Si tratta di una presa di coscienza necessaria per evitare di aprire un grande conflitto tra l'età dell'intelligenza collettiva e quella che lei definiva, invece, età dell'ignoranza collettiva. Quest'ultima può portare a fenomeni catastrofici. Cambiare grandi vittorie della società e trasformarle in sconfitte. Un fenomeno che purtroppo si verifica già oggi, quando si parla di scienza: in certi campi si rischia di tornare indietro di decine di anni".

È il diciassette dicembre 2012 quando su Facebook si diffonde un messaggio: "Ieri il Senato della Repubblica ha approvato con 257 voti a favore e 165 astenuti il disegno di legge del senatore Cirenga che prevede la nascita del fondo per i parlamentari in crisi creato in vista dell'imminente fine legislatura". In che cosa consiste? "Uno stanziamento di 134 miliardi di euro da destinarsi a tutti i deputati che non troveranno lavoro nell'anno successivo alla fine del mandato. E questo quando in Italia i malati di SLA sono costretti a pagarsi da soli le cure". Conclusione: "Rifletti e fai girare". Segue un'ondata d'indignazione: sono più di trentaseimila le condivisioni in poche ore. Un putiferio. Con tanto di petizione online per fermare "questo scempio", come si legge in uno dei 958 commenti al post. Peccato che l'annuncio sia falso. Per accorgersene basta fare un rapido calcolo, dare un'occhiata a qualche dettaglio, prestare attenzione alla didascalia della foto. Il numero dei voti non combacia con i senatori eletti in Parlamento: 422 contro 315. La somma stanziata è superiore al 10 per cento del Pil italiano. Inoltre, a commento dell'immagine, i naviganti sono persino avvisati: si tratta di "un'immane boiata", si legge. Ciò non impedisce all'informazione di diventare virale, e di essere considerata vera, anzi. "Nei giorni successivi c'è stata una gara tra alcuni blog per riprendere, modificare e ripubblicare la notizia", racconta Dino Ballerini, la mente che ha architettato lo scherzo. "Secondo una ricerca, tra post originale e successive repliche, la bufala è stata condivisa da circa due milioni di persone. Un italiano su trenta". Per la prima volta, Ballerini confessa a Repubblica.it: "Sono stato io a inventare la notizia". Tutto durante una pausa pranzo. "Ero stufo di vedere condivise tante stupidaggini". Così, dopo aver redatto il testo di legge, l'ha messo in circolazione sulla pagina "Semplicemente Me", una fan page creata grazie all'incontro virtuale con due troll: Rettiliana Illuminata e Paride Rampicante. Che non ha alcun intento pedagogico. "Oggi la nostra unica motivazione sociale è mettere in luce la carenza di senso critico da parte delle persone. Ma è stata una scoperta che abbiamo fatto successivamente. Lo scopo iniziale era solo quello di divertirci alle spalle dei creduloni, senza ottenere alcun vantaggio economico, ovviamente". Ci sono riusciti? "Pensa: qualcuno, ogni tanto, continua a scrivere sulla bacheca del senatore Cirenga: Vergogna", ride.

False notizie. Dalle tecnologia alla scienza: tutti i tipi di bufale. La storia delle false notizie online segue di pari passo la storia di internet. Un sottobosco di frottole: ha avuto origine con la Rete stessa, e riguarda i campi più disparati. Dall'ambiente alla medicina. Tra passato e presente. Risale al 1997 la leggenda secondo cui Bill Gates regala dei soldi a chi fa girare una email relativa a un test di Microsoft. Mai successo. Il 9 giugno 2014 l'Università di Reading annuncia che un software sviluppato dai suoi ricercatori ha passato il test di Alan Turing. La notizia rimbalza su testate nazionali e internazionali. Il risultato è messo in dubbio il giorno successivo. Qualcuno, come il sito americano Hoaxes.org, prova a tenere traccia degli inganni "on the net". Paolo Attivissimo, giornalista, che si auto definisce "cacciatore di bufale", cerca di mettere ordine. Spiega: "Sicuramente tra le bufale più popolari sul web ci sono quelle che riguardano la salute: gli appelli per aiutare le persone malate; o per evitare preoccupanti, quanto inesistenti, malattie. Al secondo posto, metto la tecnologia. Attenti c'è un virus in quel messaggio di posta elettronica; attenti al wi-fi, causa il tumore; attenti a quell'applicazione, dietro si nasconde una banda di pedofili: sono solo alcuni, ma significativi, esempi". A volte si tratta di piccole sciocchezze. Altre, invece, le informazioni prive di fondamento hanno una portata più ampia. "Come la paura per le sostanze cancerogene contenute, secondo alcuni, in determinati alimenti. O per le scie chimiche, che sono diventate persino oggetto di dibattito politico, in quanto sarebbero sostanze tossiche rilasciate nell'aria per il controllo delle menti, o l'avvelenamento della popolazione". Una bufala in volo da almeno 15 anni. Prosegue Attivissimo: "In realtà, si tratta di fenomeni dovuti alla condensazione dell'acqua presente nell'atmosfera, e generati dalla combustione del carburante degli aeroplani. Infine, ci sono gli inviti razzisti. Uno dei più noti parla dei segni lasciati dai nomadi accanto al citofono per dire se una casa deve essere ancora derubata, o meno. Si potrebbe obiettare: la soluzione è semplice, basta indicare che la tua abitazione è già stata svaligiata".

Fake. In alcuni casi i fake sono cronache dell'assurdo. Con lo scopo di fare pubblicità a chi li ha creati. Prendete Jasmine Tridevil, la ragazza che avrebbe pagato 20mila dollari per avere un terzo seno. Il motivo: voleva disgustare gli uomini, per non avere più appuntamenti con l'altro sesso. Si è scoperto, solo dopo che la news era finita su vari tabloid americani e non solo, che in passato la donna era stata accusata di frode. E la storia della chirurgia era un inganno. In altri, invece, la matrice della bugia è più seria. Durante l'ultima campagna elettorale statunitense, ad esempio, un movimento chiamato Sandy Hook Truthers ha cercato in tutti i modi di diffondere tra gli internauti la convinzione che Barack Obama non è nato alle Hawaii, ma in Kenya. E per questo motivo era ineleggibile alla Casa Bianca. A poco è servito pubblicare il certificato di nascita del presidente sul sito della White House. Sulla sua veridicità, e sui presunti natali africani di Obama, negli Stati Uniti si dibatte ancora oggi.

Un capitolo a parte meritano le notizie scientifiche non corrette. Giusto per citarne alcuni temi top: Hiv, correlazione tra vaccini e autismo, staminali. Ma non sono gli unici. Basti pensare: il post più condiviso su "Semplicemente Me" riguarda quella che viene definita "un'evenienza rarissima,  i cinesi la chiamano shu tan tzu che significa anno della gloria e della fortuna". Quale sarebbe? "Quest'anno dopo 5467 anni, ottobre avrà 5 martedì, 5 mercoledì e 5 giovedì". Un fake. Un tipo di disinformazione, quella sulla scienza, a cui contribuiscono, o hanno contribuito, anche esponenti politici. Più o meno ingenuamente. Nel 1998, nel corso dello spettacolo Apocalisse morbida, Beppe Grillo ha definito l'Aids la più "grande bufala di questo secolo", negando che l'Hiv è un virus trasmissibile capace di danneggiare il sistema immunitario. Non solo: ha anche sostenuto che epidemie come poliomielite e difterite sarebbero scomparse anche senza le campagne di vaccinazioni. "Un'affermazione falsa perché gli agenti patogeni non scompaiono nel nulla, solo che non riescono a trovare un ospite da infettare", ha spiegato Giovanni Maga, virologo dell'Istituto di Genetica molecolare del Cnr, a Wired Italia che ha dedicato un articolo a tutte le fandonie del comico genovese.

Che cosa spinge al click? Bufale diverse, quindi, così come sono diverse le molle che fanno scattare la condivisione. E nel futuro? Quale sarà la prossima informazione sbagliata in grado di diventare virale? Risponde Ballerini: "Impossibile programmarle, è questo il bello. Se ci mettessimo a tavolino per studiare lo scherzo perfetto, magari poi sarebbero in due a condividerlo. Non possiamo stabilire in anticipo che cosa tocca realmente nell'intimo le corde di una persona. Si tratta di una serie di fattori x che non riusciamo a comprendere. Un argomento legato all'attualità può di certo favorire, ma anche l'ora di pubblicazione è determinante". Insomma, tanti dubbi, un'unica certezza: "La prossima bufala ci sarà. Sicuramente".

Bloccare la diffusione delle bufale sul nascere è difficile. Ma difendersi si può. Anzi: si deve. E internet offre tutti gli strumenti necessari per farlo, a patto, sia chiaro, che l'internauta sia disposto a cambiare tutte le sue cattive abitudini. "Il miglior modo per proteggersi è modificare il proprio comportamento", spiega Paolo Attivissimo. Lui lo sa bene: da anni gestisce una piattaforma italiana per controllare la veridicità delle notizie, pubblicate sia online sia sui media tradizionali. Una caccia quotidiana alla frottola. Così il suo primo suggerimento è accantonare, in via definitiva, la tendenza comune più deleteria: "Non ne sono sicuro, non posso controllare. Però, nel dubbio, condivido". Continua Attivissimo: "Diffondendo la notizia, anche quando non sappiamo se sia vera o meno, crediamo di fare un favore ai nostri amici. Mentre in realtà alimentiamo solo la disinformazione. Dobbiamo abituarci a non inoltrare nulla, se non abbiamo tempo per verificare. Del resto, basta poco: andare su un motore di ricerca e digitare le parole, o i nomi, che sono contenuti nell'appello; o rivolgersi a un sito antibufale". Una delle novità più rilevanti in questo campo è Emergent.info, un lavoro sviluppato per il Tow Center for Digital Journalism da un giornalista specializzato nella verifica delle fonti: Craig Silverman. Un progetto ancora in fase sperimentale, ma che ha l'obiettivo di diventare una sorta di cane da guardia, grazie a una web app che combina il lavoro di un algoritmo con il fact checking umano. Un sistema capace di monitorare in tempo quasi reale tutto ciò che è discusso quotidianamente sulla Rete, fino ad analizzarne la correttezza e la diffusione. Compresa la capacità di tracciare chi ha smascherato la menzogna e chi, invece, sta solo riportando la notizia originale. L'obiettivo ultimo, scrivono gli ideatori del progetto, è "individuare i modi per aiutare la verità a emergere velocemente e a diffondersi più che in passato". Emergent.info non è il solo, né il primo, sistema che spinge in questa direzione. Gli strumenti recenti fanno per lo più leva sul crowdsourcing, cioè combinano le verifiche fatte da più utenti, per stabilire se l'informazione è falsa oppure vera. Come Rbutr, che funziona grazie a un plugin: scaricandolo sul browser si mettono a disposizione degli altri internauti tutte le nostre conoscenze su un determinato argomento. O Civic Links, la piattaforma della fondazione Ahref, datata 2012. Alcuni hanno messo in piedi un team di persone specializzate nello scoprire le bugie sul web. Citizen Evidence Lab, ad esempio, è il sito con cui Amnesty International aiuta giornalisti e no ad autenticare video su YouTube. E persino Mark Zuckerberg, sul suo social network, ha avvertito l'esigenza di creare qualcosa per vagliare le news: Facebook NewsWire, una sorta di agenzia stampa che è stata lanciata lo scorso aprile e alal quale si è aggiunto recentemente un nuovo strumento di controllo.  Sul fronte portali, uno degli esperimenti più riusciti e antichi d'oltreoceano si chiama Snopes, un database nato nel lontano 1996 per smontare leggende urbane. Mentre in Italia la sorveglianza è affidata ad Attivissimo.net, Hoax.it e Bufale.net, solo per citarne alcuni. Una presenza di cui si sente bisogno in terra digitale? La risposta arriva dai numeri di Bufale.net: "Contiamo", spiega Claudio Michelizza, uno dei cofondatori, "tra le 400 e le 500mila visite al mese, e più di mille articoli". Perché l'estinzione delle bufale è tutt'altro che vicina.

Un glossario per capire:

A come Agenda setting. È la teoria sociologica secondo cui i media precisano e descrivono la realtà su cui formarsi un'opinione. "L'assunto fondamentale dell'agenda-setting", ha scritto l'accademico Donald Shaw, "è che la comprensione che la gente ha di larga parte della realtà sociale è mutuata dai media".

B come bufala o Big Data. L'etimologia della parola è incerta.  Ma la bufala è, in gergo, un'informazione falsa o inverosimile. Si parla, invece, di Big Data quando si fa riferimento alla pachidermica mole di dati che generiamo ogni giorno, soprattutto grazie alle nuove tecnologie: dai computer agli smartphone, passando per carte di credito ed e-reader.

C come Computational Social Science o Cospirazionista. Con l'espressione Computational Social Science si indica un'emergente disciplina accademica che propone un approccio computazionale alle scienze sociali. Secondo i suoi promotori, la crescente capacità di collezionare e analizzare dati potrebbe rivelarci modelli comportamentali di gruppi e individui. "Con la potenzialità - scrivono i ricercatori nel primo manifesto dedicato alla materia e pubblicato su Science il 6 febbraio 2009 -  di trasformare la comprensione che abbiamo delle nostre vite, delle nostre organizzazioni e delle nostre società". Il cospirazionista, sia online che offline, è colui che crede alle cosiddette "teorie del complotto", cioè quelle che attribuiscono la causa di un evento, o un insieme di eventi, a un accordo segreto.

D come Data Science e Debunking. Data Science è, in generale, la capacità di ricavare conoscenza dai dati. Una possibilità che diventa via via sempre più ricca, grazie ai cosiddetti Big Data. Mentre debunking è un neologismo usato per indicare un individuo che smaschera notizie, informazioni, o affermazioni fasulle. È stato coniato dallo scrittore William Woodward, il quale scrisse che bisognava "tirar fuori il falso dalle cose": "take the bunk out of things".

E come Engagement. Si tratta del numero di like che si possono contare su un determinato contenuto.

F come Fact checking. Il fact checking è semplicemente il controllo dell'informazione che leggiamo online o sui media tradizionali. Internet non è solo uno straordinario strumento per la diffusione delle bufale, ma anche per la verifica delle notizie. Sono, infatti, diverse le piattaforme dedicate a questo scopo. Civic Links; Rbutr; FactCheck.org; Flack Check.org; Attivissimo.net: sono solo alcuni esempi.

G come Grafo o Grado medio. Il grafo è una struttura matematica, studiandola è possibile schematizzare una grande varietà di situazioni e processi: mappe geografiche, reti di amicizie tra persone, aeroporti e voli. Il grado medio indica il numero di amici che un generico utente ha su Facebook.

H come Hub. Nel campo informatico e delle telecomunicazioni l'hub è un nodo che funziona come un dispositivo di rete per lo smistamento dei dati. Quando si parla di social network, con il termine hub si intende - invece - una persona molto centrale nella rete sociale, con un gran numero di amici, attraverso cui è possibile raggiungere molte altre persone. Nelle reti reali gli hub sono pochi e hanno moltissimi collegamenti.

I come Influencer o Intelligenza collettiva. Lo suggerisce la parola stessa: l'influencer è una persona "influente", cioè autorevole nel suo campo. Svolge il ruolo di opinion leader, cioè offre la sua visione su una determinata questione. Un'opinione che poi viene adottata da molti. Che cos'è l'intelligenza collettiva nel cyberspazio? Pierre Lévy, filoso francese che studia l'impatto di Internet sulla società, la definisce così:  "In primo luogo", ha dichiarato in un'intervista, "bisogna riconoscere che l'intelligenza è distribuita dovunque c'è umanità, e che questa intelligenza, distribuita dappertutto, può essere valorizzata al massimo mediante le nuove tecniche, soprattutto mettendola in sinergia. Oggi, se due persone distanti sanno due cose complementari, per il tramite delle nuove tecnologie, possono davvero entrare in comunicazione l'una con l'altra, scambiare il loro sapere, cooperare. Detto in modo assai generale, per grandi linee, è questa in fondo l'intelligenza collettiva".

L come Lurker. Il lurker è una sorta di voyeur internettiano. Si tratta cioè di un utente che partecipa a una comunità digitale (come mailing list, gruppi, chat), osservando attentamente tutte le attività e tutti i messaggi, ma senza intervenire mai nelle discussioni, senza postare o interagire con gli altri. Insomma, senza rendere manifesta la propria presenza. Da qui deriva anche il verbo lurkare, che può essere tradotto come "osservare da dietro le quinte".

M come Meme. Un meme è un fenomeno di internet: un'idea, un'immagine o un'azione che si propaga attraverso la rete e diventa famosa per un certo periodo di tempo. Uno degli ultimi esempi? Harlem Shake, una serie di video comici diventati virali all'inizio del 2013, in cui, con sottofondo la canzone di Baauer, si susseguono due scene: una statica e tranquilla; più una caotica, in movimento.

N come Nodo. Stampanti, modem, computer, fax: in informatica sono tutti dei nodi, cioè dei dispositivi hardware che sono in grado di comunicare tra loro, e con tutti gli altri sistemi che fanno parte della stesse rete.

O come Omofilia. Viene definita omofilia la tendenza (sulle reti sociali ma non solo) a fare amicizia con le persone che hanno i nostri stessi interessi, le nostre stesse opinioni, paure, e aspirazioni. E anche la nostra stessa dieta mediatica.

P come Polarizzazione. Indica il grado di esposizione di un internauta a informazioni che non possono essere verificate. È uguale a uno se l'utente è continuamente esposto a questo tipo di notizie. È invece pari a zero se non lo è mai. Secondo gli studi di Quattrociocchi & Co., in caso di bufala virale, la polarizzazione delle persone che la condividono tende a uno.

Q come Quantitativo. Un approccio matematico e statistico alla comprensione di fenomeni complessi. Che punta a sfruttare la grande mole di dati a nostra disposizione.

R come Rinforzo. Per rinforzo si intende la resistenza di  a cambiare idea, quando si è esposti a una versione dei fatti in contrasto con la nostra opinione.

S come Social network. Con il termine social network intendiamo, nel linguaggio corrente, quelle reti sociali online che ci consentono di interagire con altri utenti di Internet, in base a determinati, e a volte comuni, interessi. Esempi sono: Facebook, Twitter, LinkedIn, Instagram, aNobii, Pinterest, Google+, o il neonato Ello.

T come Troll. La parola troll ha spesso un'accezione negativa. In realtà, troll è sia chi interviene nei dibatti online con affermazioni fuori luogo, provocanti, e a volte offensive, sia chi vuole semplicemente fare dell'ironia su chi sulla Rete si prende troppo sul serio. Non sono - quindi - sempre e necessariamente "cattivi".

V come Virale. Si usa il termine virale per indicare un'informazione che si diffonde velocemente. Come un virus o quasi. Alessandro Vespignani, fisico ed esperto di modelli previsionali, conferma che ci sono delle somiglianze tra la circolazione in Rete delle notizie e il mondo biologico. Ma anche delle differenze. Dice: "A difenderci dai virus è il nostro sistema immunitario. Quando parliamo di informazione, invece, il mondo esterno ha un forte effetto sulle probabilità di contagio. E se la notizia a cui siamo esposti arriva da un amico, da una persona di cui ci fidiamo, o che ha i nostri stessi interessi, potrebbe avere un peso maggiore. Insomma, si tratta di un meccanismo molto più complesso".

W come World Economic Forum. Il World Economic Forum è una fondazione senza fini di lucro nata nel 1971. Di recente ha sottolineato come la "disinformazione digitale" sia "uno dei principali rischi della società moderna".  Quali sono le sue potenzialità sulla vita reale? Ad esempio, citano nel report redatto nel 2013, dei tweet falsi hanno avuto la capacità di muovere il mercato finanziario. Come quando nel giugno del 2012 un falso utente di Twitter, che si spacciava per il Ministro degli Interni russo Vladimir Kolokoltsev, ha annunciato la morte, o il ferimento, del presidente siriano Bashar al-Assad. Il prezzo del petrolio è schizzato alle stelle, fino a che i commercianti si sono resi conto: si trattava di un falso.

Ingannato da un falso impeccabile, commenta Riccardo Stiglianò. Un paio di anni fa avevo dato un annuncio dal blog del giornale: il mio nome figurava, tra quello di Larry Page e Tim Berners-Lee, su uno studio scientifico a proposito di istruzione online. Sedere a destra del padre di Google e a sinistra di quello del web sul frontespizio di A Case for Reinforcement Learning era un risultato di tutto rispetto per un cronista, ancorché con qualche infarinatura tecnologica. Peccato che fosse - ovviamente, vorrei dire, ma il seguito prova che è meglio non dirlo - tutto falso. L'apparenza dello studio, ancora consultabile, era impeccabile: un abstract, dei capitoletti in inglese, note a piè di pagina. Vari conoscenti si erano rallegrati via email. Un mio amico molto intelligente, scaltro e in quel caso frettoloso mi aveva fatto i complimenti addirittura su Twitter e mi ero sentito in colpa di averlo involontariamente trascinato in quella trappola goliardica. Eppure sarebbe bastato leggere sino in fondo il mio breve testo per accorgersi di un post scriptum che confessava il trucco, ovvero che lo studio era frutto di SCIgen - An Automatic CS Paper Generator, un generatore automatico creato da alcuni programmatori del Mit. Così convincente che in un caso sarebbero addirittura riusciti a farne accettare un paper, altrettanto farlocco, in una conferenza scientifica dai controlli assai laschi. La quale, dopo la gaffe che ricorda da vicino l'affaire Sokal, una bufala che nel '96 aveva scosso l'establishment intellettuale newyorchese, sembra aver chiuso i battenti. Cosa sto cercando di dire? Che il falso, nell'èra della sua riproducibilità tecnica, è diventata una commodity. Un prodotto a bassissimo valore aggiunto, da produrre in serie senza sforzo. Ci sono siti che vi recapitano in Val Brembana impeccabili patenti del Wisconsin, altri per stamparsi perfette ricevute illegali o app che ricreano rumori di sottofondo pertinenti al vostro alibi extra-coniugale ("Cara sono alla stazione" e parte lo sbuffo della locomotiva o l'annuncio delle partenze imminenti). Per non dire degli spacci di prodotti fisici contraffatti, dalle borse di Louis Vuitton alle medicine sino alle parti di ricambio degli aerei (Alibaba, prima di diventare una rispettabile superpotenza di commercio elettronico, era famoso per questo). C'è un mondo di contraffazione digitale, fai-da-te o consegnata a destinazione da zelanti falsari. Negarlo sarebbe folle, ma enfatizzarlo come spesso si tende a fare è fuorviante. L'argomento implicito di chi lancia questo allarme è: internet è un posto molto inaffidabile e quindi pericoloso (a differenza del piccolo mondo antico di mattoni e cemento, lineare e sincero). Ed è un argomento risibile, perché se è vero che è più facile falsificare è anche vero che è molto più semplice smascherare i falsi. Con Google e Wikipedia siamo tutti in grado di diventare formidabili fact checker. In teoria, almeno, perché confrontare, scriminare, contestare è una fatica. Anzi, a essere più precisi, un lavoro. Quello che fanno, bene o male, i giornalisti. Il dibattito è vecchio come la rete, e non è il caso qui di rivangarlo. Dico solo che nei primi anni 90 il bestsellerista Michael Chricton annunciò l'imminente scomparsa dei giornalisti in quanto mediasaurus, dinosauri dei media. Non c'era più bisogno di loro perché tutti potevano andare direttamente alla fonte delle informazioni. Che è vero, però così facendo non avreste più tempo per fare il vostro di lavoro, quale esso sia. Pensateci la prossima volta che vi lamentate nel tirare fuori 1 euro o 40 o il corrispettivo per una copia digitale. La differenza tra un software a pagamento e uno free, disse una volta (con evidente conflitto di interessi) l'ad di Microsoft Steve Ballmer, è che nel primo caso a testarlo erano stati i programmatori, nel secondo le cavie eravamo noi. Lo stesso, più o meno, vale per le tante informazioni che circolano allo stato brado nel cyberspazio. Vale, per tutte, la prima raccomandazione delle scuole di giornalismo americane: When your mother says I love you, double check it (quando tua madre dice che ti ama, verificalo e controverificalo). Enunciata ben prima di internet e fresca come non mai. Altrimenti si rischia di credere a tutto, compreso che all'estensore di queste poche righe manchi solo la peer review prima di essere pubblicato con tutti gli onori su Science o Nature insieme al Dio dell'algoritmo e al creatore del world wide web.

UNA FARSA CHIAMATA GIORNALISMO. DALLE SOUBRETTE DELL’INFORMAZIONE AI CORSI BURLETTA.

LA MORIA DEGLI AVVOCATI. Chi studia giurisprudenza pensa che vale la forza della legge. Chi come me ha esperienza e perizia, afferma che vale la legge del più forte. Ossia: nei tribunali la prassi fotte la legge. In tutta Italia.

L’unico consiglio che io posso dare è che, ormai in questa Italia, è meglio non fare nulla, perché si fotte tutto lo Stato, e non avere nulla, perché si fottono tutto i legulei.

Già, i legulei.

I giornalisti approssimativi e disinformati da sempre ce la menano sul dato che in Italia ci siano 250 mila avvocati con la tendenza all’aumento di 15 mila unità all’anno. A loro è imputata ogni sorte di maldicenza. Al loro incremento numerico è addebitata la responsabilità della deriva della giustizia in Italia.

Cosà più falsa non c’è.

Sicuramente tra gli scribacchini ci sarà qualcuno che avvocato lo è o comunque ha partecipato invano all’esame per diventarlo e quindi la verità è a loro portata.

Eppure si sottace o si continua a negare l’evidenza sul come ci si abiliti all'avvocatura, alla magistratura, o ad ogni altra professione, così come attestato dalle sentenze dei Tar di tutta Italia. Un esame truccato nelle voglie dei commissari. Un sistema insito in tutti gli esami o i concorsi pubblici.

Abilitazione uguale a omologazione. Subisci e taci e non rompere il cazzo. Se sei diverso e ti ribelli: sei fuori.

Oggi c'è il paradosso che, a prescindere dall’esame truccato di abilitazione, non conviene più parteciparvi, in quanto pur superandolo non ci si può iscrivere agli albi per esercitare la professione.

Un ostacolo ulteriore per chi entra, un impedimento a proseguire per chi già c’è.

Ecco perché in tempo di crisi non si parla dell’imminente moria dei cosiddetti “pesci piccoli” forensi.

E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu .

Non paghi di aver partorito in Parlamento una riforma forense contro l’inclusione dei giovani nel mondo leguleico, i marpioni, sempre in Parlamento, hanno adottato un riforma, affinchè chi sia entrato nel loro autarchico mondo venga espulso per stato di necessità. E cioè sono coloro che non ben ammanicati nel sistema forense giudiziario non ce la fanno a supportare le inani spese di gestione della professione.

Di questo nessuno ne parla. Ed aimè tocca a me farlo per una categoria che non merita solidarietà ma solo commiserazione.

Da sempre il popolo forense si divide in due parti.

I dinosauri privilegiati con degni  natali e con potere in Parlamento, ma genuflessi alla magistratura;

i loro followers per ignavia o per necessità, ossia i praticanti ed i giovani avvocati.

Il 7 agosto 2014, il Ministero per del Lavoro e delle Politiche Sociali ha approvato il Regolamento attuativo dell'art. 21 della Legge Professionale n. 247 del 2012, che impone a tutti gli avvocati, iscritti all'apposito albo, l'iscrizione obbligatoria anche alla Cassa Forense, con versamento di un contributo di importo fisso indipendentemente dalle condizioni reddituali.

I contributi minimi dovuti dagli iscritti, rivalutati per ogni anno di iscrizione alla Cassa, sono i seguenti:

a) Contributo minimo soggettivo: € 2.780,00;

b) Contributo minimo integrativo: € 700,00;

c) Contributo di maternità: € 151,00.

Il regolamento prevede: o paghi o ti cancelli dall’Albo e nulla valgono le presunte agevolazioni previste.

«La conseguenza immediata di tale provvedimento è che, di qui a poco, circa cinquantamila avvocati italiani, soprattutto più giovani, rischiano di sparire dagli albi professionali, in quanto impossibilitati a far fronte agli onerosi contributi obbligatori richiesti! Molti avvocati con un reddito basso e insignificante non  possono iscriversi alla Cassa per mancanza di liquidità economica e rischiano, pertanto, di subirne  le relative conseguenze, ovvero la cancellazione forzata ed obbligata dai relativi albi professionali di appartenenza. Il  versamento obbligatorio dei contributi previdenziali, così come previsto dalla nuova normativa, se per gli studi legali con giro d'affari multimilionario, risulterà praticamente insignificante,  colpisce, tuttavia, una schiera di professionisti che avranno serie difficoltà a sostenere tale spesa: appunto, qualcosa come cinquantamila avvocati - coloro, cioè, che percepiscono un reddito inferiore ai 10.300 euro annui. Per loro sarà complicato trovare un'alternativa alla disoccupazione, vuoi per l'età, vuoi per l'alta specializzazione in un settore e in nessun altro», dice l’avv. Eugenio Gargiulo di Foggia.

Vero è che la contribuzione obbligatoria e l’esoso peso fiscale accompagnato dalla mano morta della burocrazia colpisce ogni categoria professionale. Ed è questa stagnazione dello status quo che alimenta la crisi economica.

Inoltre i liberi professionisti del ramo tecnico, ingegneri, architetti, geometri e periti sono alla fame. Nessuno ne parla. Sono un esercito di oltre 500.000 persone senza protezioni sociali.

E’ questa l’Italia che continuiamo a volere? Con l’astensionismo elettorale il popolo mette sotto processo la politica inconcludente ed ignava e rea di aver sfornato una classe dirigente inetta, frutto di familismo e raccomandazioni.

Perché in Italia, oramai, si lavora esclusivamente per mantenere le sanguisughe.

La rottamazione assoluta del sistema senza schemi identitari ed ideologici, se non ora, quando?

Ed in carcere cosa succede?

Le squadre speciali usavano la “cella zero” per violenze di ogni tipo. Ecco cosa succedeva, scrive Pietro Ioia su “Il Garantista”. Pietro Ioia, presidente “ex detenuti organizzati napoletani”. Incappucciati, spogliati nudi e azzannati dai cani di razza fino a fargli mordere i genitali. A seguito della nostra inchiesta sui Gom, i reparti speciali del corpo della polizia penitenziaria conosciuti anche per i loro metodi non propriamente democratici e civili, ci scrive l’ex detenuto Pietro Ioia che ci racconta la terribile esperienza vissuta negli anni 80 al carcere di Poggioreale. In particolar modo ci descrive l’utilizzo della cosiddetta ”cella zero” e i metodi di tortura delle squadrette speciali, i precursori dei Gom. Erano gli anni della faida interna della criminalità organizzata campana. Una guerra tra la ”nuova camorra organizzata” di Raffaele Cutolo e la ”nuova famiglia”, la quale si combatteva anche all’interno delle carceri. Per salvaguardare la propria incolumità, ogni detenuto, anche chi non era affiliato, doveva proteggersi con la pistola e fare da sentinella armata all’interno del proprio padiglione. Per far fronte a tutto ciò, lo Stato faceva intervenire il corpo speciale della polizia penitenziaria, la quale utilizzava metodi simili alla tortura di Pinochet. Pietro Ioia attualmente è un uomo libero e ha fondato un’associazione napoletana che si batte per i diritti dei detenuti. A primavera uscirà un suo libro intitolato L’origine e fine della cella zero, dove racconta tutta la terribile vicenda della cella utilizzata per torturare i detenuti. L’eventuale ricavato delle vendite, verrà utilizzato per aiutare i detenuti più poveri che non hanno i soldi per comprare i beni essenziali utili per sopravvivere all’interno del carcere. Grazie alle denunce e testimonianze di Pietro Ioia, la Procura di Napoli ha aperto un’inchiesta per far luce sull’utilizzo recente della ”cella zero”. Secondo la denuncia, tale cella è stata utilizzata fino a qualche mese fa. Oggi, grazie anche al cambio della dirigenza, il carcere di Poggioreale è diventato un po’ più ”dignitoso”. A seguire, la sua lettera shock dove racconta la brutalità delle squadre speciali. Erano le 11 del mattino ed eravamo situati al terzo piano del ”padiglione Salerno” del carcere di Poggioreale. Fuori dalla mia cella si commentava il trasferimento notturno e coatto di alcuni boss mafiosi avvenuti nei giorni scorsi, quando all’ improvviso ci fu l’irruzione armata delle ”teste di cuoio” dei penitenziari, la squadretta che dopo anni verrà chiamata Gom: spararono all’impazzata verso il soffitto del padiglione e tutti noi ci rifugiammo all’interno delle nostre celle. Io mi infilai sotto al mio letto dove sentivo fischiare le pallottole fin dentro la mia cella. Il tutto durò per pochi e interminabili minuti e restammo chiusi per tutta la giornata nelle celle. La ”pace” finì presto.

Verso le 19 e 45 della stessa giornata, mentre stavamo guardando il Tg3 regionale, sentimmo delle urla strazianti in lontananza. Piano piano si fecero sempre più forti finché fu la volta della nostra cella: entrarono due uomini alti, robusti e incappucciati dove con fucili alla mano ci intimarono di spogliarci nudi. Una volta spogliati ci pestarono con il calcio del fucile e ci obbligarono ad uscire di corsa fuori dalla cella. Ad aspettarci c’erano altri uomini che ci accompagnarono con calci, pugni e manganellate giù al piano terra. A quel punto, sotto il tiro delle armi, faccia al muro fummo pestati con manganelli dietro la schiena e sui glutei. Poi ci fecero correre tra le due fila composte da giovanissimi guardie che arrivarono dalla scuola della polizia penitenziaria di Portici. Continuarono a pestarci con manganelli, pugni e, come se non bastasse, venimmo azzannati da cani di razza, i pastori tedeschi. Ad alcuni detenuti, i cani gli morsero i genitali e rischiarono di farseli strappare. Poi di corsa, tutti tumefatti, pieni di sangue e senza alcuna assistenza medica, fummo portati giù alle compresse dove all’epoca cerano celle segrete molte ampie. Dopo due giorni, legato mani alla schiena e incappucciato, venni prelevato e portato in un ufficio. A quel punto mi fu tolto il cappuccio e vidi davanti a me molti uomini con il viso coperto. Alla domanda dove avevo nascosto la pistola, io risposi di non saperlo. Quindi mi fu rimesso il cappuccio e portato di peso al piano terra di un padiglione, mi fu tolto di nuovo il cappuccio e vidi una cella vuota con una luce rossa opaca, uno sgabello e una corda a cappio. Al tal punto io subito dissi dove nascosi l’arma e mi fu risparmiata l’ennesima tortura. Correva l’anno 1982 ed era in corso la guerra di camorra di Raffaele Cutolo e la ”nuova famiglia”: era in quell’anno che io e molti altri detenuti abbiamo assistito alla nascita della cella zero.

Eppure la sedicente stampa di tutto questo se ne fotte. Ed allora dove è mirata la sua attenzione?

Dalla bacheca facebook di Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti si legge.

1 - SOUBRETTE E INFORMAZIONE. LA PRIMA DENUNCIA. Migliaia di persone (la stragrande maggioranza colleghi) hanno letto il post BASTA SOUBRETTE, ORA LE DENUNCIAMO. Esattamente, per gli amanti delle statistiche, 57.504 al momento di questa nota. In 691 lo hanno condiviso, raggiungendo così altre migliaia di cittadini. In 1.663 hanno manifestato apertamente il loro gradimento e un numero significativo ha deciso di aggiungere un commento (qualche isolata critica non è mancata: è la democrazia e va bene così). C’è chi, in privato, mi ha chiesto di non fare mucchi, mettendo tutti i “contenitori” o le trasmissioni sullo stesso piano. Non ci pensa nessuno.  La cosa che mi ha colpito di più è che praticamente tutti hanno pensato mi riferissi alla signora Barbara D’Urso (che non è giornalista). Non pensavo solo a lei, non agiremo solo nei suoi confronti. Mi arrivano le prime segnalazioni in tema di esercizio abusivo della professione. Dobbiamo controllarle, ovviamente (ne capite le ragioni, vero?) e, quindi, occorrerà del tempo. Ma ho firmato la prima denuncia/esposto proprio nei confronti della signora D’Urso. E’ indirizzato a due Procure della Repubblica (Milano e Roma), all’Agcom, al Garante per la protezione dei dati personali e al Comitato Media e minori. Valutino loro. Hanno gli strumenti e, direi, il dovere di farlo. Il femminicidio non si consuma solo con l'uccisione di una donna, ma, oltre la morte, anche con l'oltraggio alla sua vita e a quello della sua carne: i suoi figli.

2 - BASTA SOUBRETTE, ORA LE DENUNCIAMO. Senza distinzioni di genere (il sinonimo al maschile non lo conosco) o di reti sulle quali si esibiscono. L'informazione è materia delicata. Basta con l'occhio umido e la recitata partecipazione alle tragedie. Basta con il dolore come ingrediente dello spettacolo per fare audience. Basta con le banalità/bestialità dispensate a piene mani, soprattutto nelle tv, da chi si preoccupa solo di come aumentare il personale compenso, passando sopra a diritti e sentimenti (Sarah Scazzi, Yara Gambirasio, Melania Rea, Melissa Bassi e, da ultimo, Elena Ceste: tanto per citare alcuni casi e tutti coloro i quali a queste vicende sono collegati), anche di persone estranee alle vicende che possono avere un interesse pubblico. L'esecutivo dell'Odg nazionale ha deciso che, senza eccezione alcuna, denuncerà alle magistratura per esercizio abusivo della professione giornalistica quanti galleggiano sul diritto dei cittadini all'informazione, senza dover rispondere a quelle regole deontologiche che impongono precisi doveri ai giornalisti.

Ecco cosa ha detto il 25 novembre 2014 in diretta, la conduttrice di Pomeriggio 5: "Grazie all'amore che ci dimostrate tutti i giorni, fino all'ultimo minuto di Pomeriggio Cinque. Siamo sottotestata giornalistica, ho il dovere e mi piace informarvi, e stare sui fatti di cronaca e non solo". Queste le parole della presentatrice durante la puntata della trasmissione di Canale 5, dopo che il Presidente dell’OdG Enzo Iacopino ha fatto sapere di aver presentato una denuncia esposto alle Procure di Roma e di Milano contro il nome di Barbara D’Urso.

Abilitazione significa essere abilitati da qualcuno ad essere omologati a loro. La conformità universale è la regola. Essere diverso e rompere le palle al sistema ti pone fuori dal circuito professionale ed impedito a lavorare.

In difesa di Barbara D’Urso, scrive Enzo Ciaccio su “Rete News 24”. Aiuto, sono arrivati, sono tra noi, ce li sentiamo sulla pelle, nel corpo, nell’anima. Eccoli, i Padroni del Dolore che ogni giorno in Tv ci drogano di tragedie, cold case e gole tagliate e comandano da despoti sul ridere e sul piangere di un intero popolo di teleutenti in terapia. Eccoli, con gli occhioni sgranati, le mani in grembo, l’annuncio a sorpresa, la lacrimona a go go. C’è quello che quando parla sembra una mitraglia, quell’altro che ha modi da mezzo prete, c’è l’ex editorialista famosa con un po’ di puzza al naso e la signorina per bene che non ha idea di quel che le hanno chiesto di dire. Sornioni come gatti da strada, ridicoli come manager in mutande. Davanti a una telecamera, i Padroni del Dolore  si rivelano abili come illusionisti, perversi come serial killer, tenerissimi come pedofili. Eccoli, sono sbarcati, compaiono in Tv dalla mattina alla sera, sono abusivi camuffati da giornalisti ma anche giornalisti con la voglia di consumare abusi. Comunque sia, eccoli qui. E sono tanti, tantissimi, hanno occupato tutti i canali, gli spazi, le fasce orarie. Molti anni fa Giorgio Gaber scrisse un brano in cui raccontò come ci avrebbe ridotto male la cosiddetta “Tv del dolore”, quella – cantava – con zio Evaristo che “faceva il matto a Chi l’ha visto”. Oggi, il presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti Enzo iacopino, esasperato dalla pioggia di programmi Tv basati sulla lacrima facile e sulla strumentalizzazione delle tragedie altrui, ha minacciato di denunciare alla magistratura chiunque, senza essere giornalista, speculi su questo tipo di pseudo-informazione. Iniziativa più che condivisibile, la sua. Ma il timore è che sia destinata a una difficile applicazione. Gli strali dell’Ordine dei giornalisti sono indirizzati ai programmi del pomeriggio, quelli – per intenderci – alla “Barbara D’Urso” e “ai suoi occhioni sgranati (per contratto? ndr) sugli orrori della porta accanto”. Resta il fatto, denunce a parte, che i programmi della D’Urso accumulino audience da terno al lotto e che ogni pomeriggio in Italia un popolo da milioni di utenti decida sua sponte di lasciarsi travolgere dalla cascata di persone scomparse, sequestrate, sgozzate, rapinate, seviziate, proposte H24 non solo dalla D’Urso ma anche da tutti coloro che, come lei, fanno Tv sul piagnisteo. Sono tantissimi, i “colleghi” di Barbara. E non sono meno spregiudicati di lei. Perciò, evviva la D’Urso. O almeno, non è mica giusto prendersela solo con la star di Canale 5. Caro presidente Iacopino, c’è poco (o troppo) da denunciare in Tv: ormai sono qui, sono ovunque, sono dentro le nostre case. I Padroni del Dolore stanno intossicando l’Italia, dopo aver già un po’ rimbecillito (secondo molti) una parte degli italiani. C’è da chiedersi: se ancora fosse vivo, Pier Paolo Pasolini farebbe l’eremita o andrebbe ospite in prima serata da Bruno Vespa? Lui, come Gaber, aveva avvertito di guardarci da mamma Tv, che è un po’ come una bellissima donna: se le concedi troppo, può farti del male. E ora, ciao a tutta la fascia d’ascolto. Sta iniziando “Uomini e donne”. E poi c’è la tele-rissa da Giletti. E il pomeriggio con Barbarella.

Caro Iacopino, su Barbara D’Urso hai torto, scrive invece Angela Azzaro su “Il Garantista”. Viviamo immersi nella tv del dolore. Non c’è programma o quasi che non si fondi sull’uso e abuso di casi strappalacrime, molti dei quali sono storie di donne sparite e uccise. Ogni giorno, a ogni ora. A destra come a sinistra. Sulla Rai e su Mediaset. Il dolore fa share e ha solitamente un valido compagno: il giustizialismo. Non basta far piangere. Importante è consegnare al pubblico un assassino, un colpevole, da condannare anzitempo. Su questo rapporto tra televisione e processo abbiamo tanto scritto, ma molto  ancora bisognerà scrivere per ricordare e denunciare come, sempre più spesso, condanne e assoluzioni avvengano sul piccolo schermo e non nei tribunali. Davanti a questo quadro sconfortante, l’ordine dei giornalisti perlopiù tace, non tenta di fare un’analisi complessiva del fenomeno. Preferisce invece prendere di punta solo alcuni casi. Ieri il presidente dell’Ordine, Enzo Iacopino, ha infatti denunciato alle procure di Roma e Milano la presentatrice Barbara D’Urso per esercizio abusivo della professione. Sotto accusa le interviste fatte durante la trasmissione Domenica Live e in particolare quella della scorsa domenica a un amico di Elena Ceste, la donna trovata morta qualche settimana fa,  tra i casi più amati da tutte le trasmissioni  di cronaca e di mistero. La denuncia di Iacopino, presentata anche all’Agcom, al Garante per la protezione dei dati personali e al Comitato media e minori, appare come un gesto intimidatorio. Se infatti dovesse passare la legge già approvata al Senato su chi esercita abusivamente la professione del giornalista, Barbara D’Urso potrebbe rischiare fino a due anni di galera e una multa che va dai 10 ai 50mila euro. La decisione di Iacopino non convince per tanti motivi. Due su tutti.

Il primo è legato esattamente al discorso sulla tv del dolore che lui stesso richiama spiegando il perché della denuncia. La tv del dolore è ovunque, e lascia davvero basiti che si prenda di mira solo una trasmissione e una persona solo perché non è giornalista. Seguendo il ragionamento del venire meno della privacy – e aggiungiamo noi – della persecuzione che spesso viene fatta nei confronti dei cosiddetti colpevoli, Iacopino dovrebbe passare le sue giornate nelle varie procure d’Italia a denunciare metà dei giornalisti italiani e quasi la totalità delle più grandi testate. Perché è stato zitto quando tutti i giornali titolavano: “Preso l’assassino di Yara”? Perché non ha detto niente? È forse bastato che mettessero quella frase tra virgolette? Oppure ci chiediamo se a Iacopino basti che Sciarelli sia giornalista per non dire nulla su una trasmissione come Chi l’ha visto che ha già deciso chi sono gli assassini per esempio di Roberta Ragusa, della stessa Yara e ora di Elena Ceste?

Il secondo motivo per cui non convince la denuncia dell’Ordine nei confronti di Barbara d’Urso è legata all’idea che sia ha della nostra professione e del modo di difenderla. Si tutela questa professione creando condizioni d’accesso uguali per tutti, garantendo alle giovani generazioni un lavoro dignitoso. Non credo che la strada delle denunce sia quella giusta. Va aperto invece un grande dibattito nel Paese sul rapporto tra informazione e procure, tra diritto di cronaca e tutela degli indagati. Serve una messa in discussione degli ultimi vent’anni. Altro che una denuncia per abuso di professione che cozza peraltro con l’articolo 21 della Costituzione. Quello sulla libertà d’espressione, garantita a tutti, che si abbia o no il tesserino.

Viva Barbara d’Urso e la libertà! Scrive Caino Mediatico su “The Frontpage”. “Ho firmato la prima denuncia/esposto nei confronti della signora Barbara d’Urso. Il femminicidio non si consuma solo con l’uccisione di una donna, ma, oltre la morte, anche con l’oltraggio alla sua vita e a quello della sua carne: i suoi figli”. Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine dei Giornalisti, annuncia su Facebook la decisione di presentare la denuncia “a due Procure della Repubblica (Milano e Roma), all’Agcom, al Garante per la Protezione dei Dati Personali e al Comitato Media e Minori“. All’origine della decisione dell’Ordine un’intervista che la conduttrice di Domenica Live ha fatto ad un amico di Elena Ceste, la donna scomparsa il 24 gennaio e trovata morta a metà ottobre nell’Astigiano. Vergogna, vergogna, vergogna. Iacopino non permetterti di minacciare la nostra libertà! Di cittadini, elettori, ascoltatori. La costituzione di questo paese e la carta dei diritti dell’uomo ci fanno liberi di ascoltare, scegliere, decidere chi e cosa che vogliamo sapere. Contro le calunnie ci tutela la legge, contro il buongusto ci tuteliamo da soli. Giù la mani dalla nostra libertà. Non ci sono corporazioni, gilde, massonerie, bastonatori di professione che possano farci paura. Non abbiamo paura di te e di quelli come te. Noi schifiamo ed ignoriamo gli untori che in nome della loro ideologia pretendono di dirci chi ascoltare e leggere minacciando la galera. Riteniamo più credibili tutte la Barbare d’Urso del mondo, con le Tv del dolore o del buonumore, che i finti monaci del paleontologico Ordine dei Giornalisti. Che serve solo a sanzionare politicamente e a minacciare le manette laddove possa, e che presume di stabilire chi possa o debba intervenire e dove. Aguzzini manettari senza rispetto, che in una giornata in cui si parla, male o bene di violenza sulle donne, provate a violentare la libertà di espressione una professionista. Di una persona che il pubblico, e solo il pubblico ha deciso e può decidere se merita di essere ascoltata. Bisogna risalire ai regimi stalinisti, alla Corea Comunista per trovare associazioni ideologiche che si arrogano il diritto di stabilire chi dobbiamo ascoltare, e se quelli che abbiamo ascoltato erano ascoltabili o no. Per fortuna gli Iacopini stanno morendo, i cittadini hanno perso la parola e si cercano le notizie da soli, ed i giovani che mantenete spesso in precarietà con le vostre pretese fanno a meno di voi delle vostre ridicole pantomime. Sempre più cittadini scrivono e leggono quel che vogliono, e sempre più giornalisti seri si chiedono a che cosa servite nel difendere la loro professionalità. La vostra iniziativa rappresenta di fatto un’intimidazione alla libertà di espressione sancita dalla costituzione, e rischia di ricostruire indirettamente una dittatura censoria inammissibile. Spero che qualcuno vi denunci e vi persegua per questo attentato. Per fortuna l’opinione pubblica vi ha già condannato.

Adesso la casta dei giornalisti vuole imbavagliare la D'Urso. Il presidente dell'Ordine denuncia la conduttrice per esercizio abusivo della professione: "Basta tv del dolore", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. Sei mesi di reclusione, ma forse di più se passerà la proposta di legge già approvata al Senato, e caldamente sostenuta dall'Ordine dei giornalisti, per inasprire il codice penale per chi «esercita abusivamente» la professione: due anni di galera e multa da 10.000 euro a 50.000 euro, oltre alla «confisca delle attrezzature e degli strumenti utilizzati». È quel che potrebbe rischiare la conduttrice Barbara D'Urso, volto popolare di Mediaset, oggetto di una denuncia depositata in ben due procure (Milano e Roma), ma anche all'Agcom, al Garante per la protezione dei dati personali e al Comitato Media e minori, dal presidente dell'Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino. Nel mirino alcune interviste realizzate durante Domenica Live che, secondo il presidente dell'Odg, non terrebbero conto «di esigenze quali la difesa della privacy e/o il coinvolgimento di minori» sanciti dai codici deontologici. Ma l'accusa precisa è un'altra: «Si evidenzia che la signora D'Urso - si legge nella denuncia - pur non essendo iscritta all'Albo dei giornalisti compie sistematicamente un'attività (l'intervista) individuata come specifica della professione giornalistica, senza esserne titolata e senza rispettare le regole, con negative ripercussioni all'immagine di quest'Ordine. Si chiede di avviare ogni accertamento di competenza, ivi compreso quello per esercizio abusivo di una professione ai sensi dell'articolo 348 del Codice penale». E questa è solo la «prima denuncia» di una serie, fa capire Iacopino in un post su Facebook intitolato «Soubrette e informazione». «Non agiremo solo nei suoi confronti», avverte il presidente. Denunce pronte per tutti gli altri showman e soubrette che si permettono di intervistare qualcuno senza essere muniti del tesserino dell'Ordine? Iacopino avverte che sta ricevendo già «le prime segnalazioni in tema di esercizio abusivo della professione», che verranno valutate una ad una. I conduttori sono avvisati, qui si rischia la galera. È stata un'intervista in particolare della D'Urso a far partire la denuncia, andata in onda nell'ultima puntata di Domenica Live, ospite un amico di Elena Ceste, la donna di Costigliole d'Asti trovata morta dopo essere scomparsa da casa a gennaio. Un'intervista che ha scatenato un dibattito in Rete. «C'è un tipo di informazione che è un'autentica vergogna ed è quella che io chiamo la tv del dolore - dice il presidente dell'Odg - dove si esibisce la vita e la morte con l'unico obiettivo di acquisire attenzione da parte di un'opinione pubblica che forse non è il meglio di questa società». E dopo l'attacco, la denuncia alle Procure. Da Mediaset non si commenta, bocche cucite ai vertici che rimandano ad oggi una decisione sul da farsi, silenzio anche dallo staff della D'Urso. Che già in passato ha avuto problemi con l'Ordine dei giornalisti, a cui non è più iscritta. All'inizio degli anni '90, quando firmava «interviste aggressive» (ha raccontato lei in un'intervista al magazine del Corriere) sui periodici King e Moda, diretti allora da Vittorio Corona (padre del paparazzo Fabrizio), fu radiata perché faceva anche degli spot pubblicitari. Non è la prima volta che dall'Ordine partono denunce penali per esercizio abusivo della professione. L'Odg del Friuli Venezia Giulia ha spedito in Tribunale una web tv di Pordenone che pubblica video degli utenti, anche su notizie di cronaca o politica (Iacopino: «Chi dà notizie è un canale informativo. E come tale svolge attività giornalistica»). Nei guai è finito anche il coraggioso direttore della tv antimafia Telejato, Pino Maniaci, denunciato per abuso della professione perché non iscritto all'Ordine e poi assolto. E pure sul governatore siciliano Crocetta c'è un fascicolo in Procura perchè si scrive i comunicati stampa da solo. Tutti imputati, insieme alle soubrette «giornaliste abusive», che l'Ordine vuol mandare in galera.

Giornalisti e tv, meglio mettersi una maschera in faccia, per non farsi riconoscere per la vergogna.

Tette, Papi e Femen, scrive Giano su “Torre di Babele”. Non tutte le tette sono uguali. O meglio, come direbbero  i maiali di Orwell, si potrebbe dire che “Tutte le tette sono uguali, ma alcune tette sono più uguali di altre“. Insomma, secondo il più classico doppiopesismo dei moralisti a corrente alternata, c’è tetta e tetta.  Ha fatto scalpore il curioso “incidente hot” successo nel corso del programma  Tale e quale show, condotto da Carlo Conti.  Veronica Maya, durante la sua esibizione canora, forse per un movimento eccessivo del corpo, ha causato lo scivolamento del vestito lasciando in bella vista il seno. Grande imbarazzo, ma la nostra “Maya desnuda“ continua ad esibirsi, facendo finta di coprirsi ( sembra che sia  recidiva; lo stesso “incidente” le era successo già in passato), e intervento di Conti che  interrompe il numero e cerca di coprire le grazie nude della Maya. Del resto, scoprire improvvisamente alcune parti del corpo solitamente nascoste, è un “incidente” che succede molto frequentemente nel mondo dello spettacolo.  Basta ricordare Belen Rodriguez che in diretta TV a Sanremo mostra con disinvoltura la sua farfallina inguinale. O Laura Pausini che durante un concerto in Messico, rientra sul palco, dopo una pausa,  indossando solo un accappatoio che si apre sul davanti, lasciando vedere a tutto il pubblico che, forse per una dimenticanza o per la fretta di rientrare, ha dimenticato di indossare le mutandine. Succede a tutti, no? Strani incidenti che lasciano molti dubbi sul fatto che si tratti di un “incidenti casuali“. Si tratta, comunque, di immagini di nudità che, solitamente, sui media  appaiono ritoccate o censurate (esempio classico è quel ridicolo quadratino o fascetta che nasconde i capezzoli o la sfocatura su foto e video). Poi magari, subito dopo va in onda un film della serie Giovannona coscia lunga, dove si vede di tutto e di più, ma continuano a mettere le fascette sui capezzoli. E’ lo stesso principio per cui, quando ci sono espressioni forti o scurrili in TV vengono censurate col classico Bip. Poi guardate un talk show, dove piovono insulti di ogni genere, o un monologo di Crozza e comici vari, e volano cazzi, culi, fighe e coglioni  come libellule a primavera.  Valli a capire questi censori ed i loro criteri.  Infatti anche nel video pubblicato dal Corriere.it, sopra linkato, si può vedere che il seno viene offuscato da una macchia biancastra. Quanto pudore! E quanta ipocrisia, in dosi industriali. Ma anche il pudore in Italia, come la morale,  è a corrente alternata. Questa a lato è Eva Grimaldi, reduce da non ricordo quale reality, ospite al programma “Quelli che il calcio” su RAI3, di primo pomeriggio, ora di massimo ascolto. Qui un servizio fotografico che documenta la sua performance da far invidia a Sharone Stone. Il fatto è che indossa un vestitino che non può dirsi nemmeno “mini“, è già a livello pubico e, come se non bastasse, ha due lunghi spazi laterali, col risultato che quando si siede, praticamente è come se fosse in  mutande. C’è chi mostra il sopra e chi mostra il sotto. E sembra una gara a chi mostra di più. Le tette della Maya alle 10 di sera fanno scandalo, le mutande della Grimaldi alle 3 del pomeriggio no. Qual è, secondo voi, il parametro di giudizio su ciò che è lecito e ciò che non lo è? Ah, saperlo. Ma non è il caso di farsene un problema, non lo sanno nemmeno gli addetti ai lavori,vanno a caso; questo sì, questo no. Ma torniamo alle tette. Abbiamo appena detto che mostrare il seno in TV non è consentito. Ora, proprio due giorni fa al programma Anno uno su LA7 si sono viste non due tette, ma addirittura 10, tutte nude, ben in vista e con i capezzoli in primo piano, senza sfumature o  quadratini che li coprissero. Erano le Femen, ormai famose per le loro azioni di protesta a seno nudo. Non sono capitate lì per caso, né si è trattato di una incursione, come sono solite fare. No, sono state espressamente invitate dalla conduttrice Giulia Innocenzi, quella che ha poche rivali nel giocarsi il ruolo di più antipatica della TV, grazie alla sua vocina leggermente nasale, il parlare cantilenante e l’aria spocchiosa e supponente della ragazzina  impertinente con la puzza sotto il naso. Ma questa esibizione è considerata del tutto normale. Infatti la Innocenzi, essendo “innocente“, ingenua e pura di cuore, non ci vede niente di male, non corre a coprile ed anzi le ringrazia per la partecipazione. Conclusione: le tette delle Femen sì, quelle della Maya no. Ma cosa c’entrano le Femen in quel programma? Sono andate per protestare contro la visita del Papa al Parlamento europeo, programmata per il prossimo 25 novembre. Dicono: “Siamo qui per annunciare che la parità, i vostri diritti, i nostri diritti, sono in pericolo e, sfortunatamente, la fonte del pericolo è proprio qui in Italia. Il 25 novembre il Papa si reca a parlare al Parlamento europeo, a Strasburgo in Francia. E questo è un attacco diretto alla laicità, alla parità, ai diritti umani ed alla separazione fra Chiesa e Stato, che deve diventare una priorità oggi.“.  Insomma, queste ragazzotte accaldate vogliono decidere chi può e chi non può andare al Parlamento europeo. Alla faccia della libertà di pensiero. Come se non bastasse, non si sono accontentate di fare la loro apparizione in TV. Visto che si trovano in Italia, approfittano delle “Vacanze romane” per fare, come tutti i bravi turisti, una visita a San Pietro. Ma loro sono turiste un po’ particolari e, quindi, si esibiscono in una performance non proprio rispettosa del luogo e del simbolo della fede cristiana.  Eccole che tengono un crocifisso in mano e se lo mettono…nel sedere.  Ecco, queste “brave ragazze“, invece di denunciarle e sbatterle in galera, noi le ospitiamo in televisione e le ringraziamo. Saremmo curiosi di vederle andare a Teheran (o in un altro paese musulmano) e fare una cosa del genere tenendo una copia del Corano sul culo. Non credo che le ospiterebbero sulla televisione nazionale. Di recente due cristiani (marito e moglie) in Pakistan, con l’accusa di blasfemia per aver offeso il Corano, sono stati bruciate in una fornace per laterizi. Altro che ospiti in TV. Ma è risaputo, la Chiesa ed  il Papa si possono offendere, sbeffeggiare, oltraggiare tranquillamente: è libertà di pensiero. Ma guai anche solo ad insinuare qualcosa di poco simpatico contro i musulmani: sarebbe gravissimo atto di islamofobia.  Ecco, questo è un perfetto esempio di doppia morale. Ora, oltre alla sottile differenza fra tette sì e tette no, tette scandalose e tette lecite, fra “tette buone” e “tette No buone“, si pone un altro problema. Non solo le tette delle Femen sono permesse (forse sono politicamente corrette e progressiste, al contrario di quelle della Maya che, evidentemente, sono reazionarie),  ma si tira in ballo il Papa ed il suo diritto di intervenire al Parlamento europeo. Allora bisogna fare un passo indietro e bisognerebbe leggere questo articolo del 28 settembre “Conchita Wurst in Europa; nell’Unione europea si parla di gay e trans”. Conchita Wurst è una trans (oggi vanno come il pane), ma con tanto di barba, che tempo fa ha vinto il festival europeo della canzone. Non è molto chiaro se abbia vinto perché più brava degli altri partecipanti, oppure perché è trans (sembra essere un titolo di merito: si vincono i festival, i reality, si va in Parlamento, si è ospiti fissi in TV)); resta il dubbio. Ovviamente è una delle attiviste militanti della lobby che raggruppa gay, lesbo, trans, bisex  e varia sessualità. Come programmato, lo scorso 8 ottobre, è intervenuta al Parlamento europeo dove ha tenuto un discorso sui diritti omosessuali, con interventi di altri europarlamentari di diversi gruppi. Successivamente si è esibita all’esterno interpretando alcune canzoni. Bastano questi pochi esempi (ma se ne potrebbero fare a centinaia) per  capire che, evidentemente, esiste una strana morale grazie alla quale certe nudità sono oscene ed altre sono del tutto naturali. Basterebbe ricordare che tempo fa la solita sinistra con la doppia morale fece una campagna contro Striscia la notizia, accusando il programma di Ricci di sfruttare il corpo femminile. Ora riguardate la foto di Eva Grimaldi e giudicate le differenze con le due veline che ballano a Striscia e che sono molto più coperte della Grimaldi. Basta ricordare le tante show girl che stazionano perennemente nei salotti TV ad ogni ora del giorno e della notte per notare che tutte sembrano impegnate in quel giochino del mostrare tette, gambe e culi, perché più mostri e più facilmente finisci sulla stampa. Ma allora come si fa a distinguere ciò che è lecito da ciò che non lo è? Non è possibile; l’unico criterio è che non esiste un criterio, vale la regola della doppia morale. Tutto ciò che è in sintonia col pensiero unico dominante e politicamente corretto è bene, lecito, giusto e democratico. Tutto il resto, fossero anche le stesse cose (o le stesse tette), è deleterio, provocatorio, indecente, maschilista, osceno, esecrabile, fallocratico. Chiaro? Ecco perché le veline di Striscia sono un’offesa alle donne e sfruttano il corpo femminile e le tette della Maya sono un “incidente” e vanno subito coperte,  mentre le tette delle Femen dalla Innocenzi sono lecite e regolamentari. Ma, soprattutto, si pone una domanda: perché al Parlamento europeo ci possono andare i trans e non ci può andare il Papa? E perché se una trans va al Parlamento europeo per sostenere la causa dei diritti gay, lesbo, trans, bisex, plurisex, annessi, connessi ed assimilati,  è una legittima e democratica espressione della libertà di pensiero,   mentre se ci va il Papa  è un grave attentato ai diritti umani? Provate a dare una risposta logica ed onesta.

Da questo maquillage mediatico la politica alternativa ci guadagna.

Il candidato ideale, continua Giano su “Torre di Babele”. Sembra proprio che Napolitano abbia intenzione di lasciare il Quirinale. E si scatena subito il “totopresidente”, gioco preferito dei nostri giornalisti, osservatori ed opinionisti;  quelli che si spacciano per esperti tuttologi e ogni giorno imperversano  su stampa, radio e TV, facendo sfoggio di  cultura enciclopedica, informazioni segretissime e doti di preveggenza che esprimono in inutili chiacchiere come quelle che voi fate al bar dello sport. Solo che voi le fate gratis, loro sono pagati per farlo. Chi sarà il prossimo inquilino del Colle? Già si accennano i primi nomi e la Boldrini, giocando d’anticipo, dice che sarebbe la volta di eleggere una donna (che ci stia facendo un pensierino?)..Non so chi sarà il prescelto (non ho doti da paracul…pardon, da paragnosta, come i nostri autorevoli esperti), ma posso elencare alcune caratteristiche del candidato ideale. Sono in corso mutazioni epocali, stiamo vivendo tempi di grandi cambiamenti, di rottura col passato, di grandi fermenti sociali, di nuove tendenze e di valorizzazione della diversità culturali, etniche, religiose, di tendenze sessuali poco ortodosse. Oggi i “diversi”, in tutti i campi, fanno scuola, fanno tendenza, fanno notizia, fanno carriera e fanno quello che gli pare, senza pregiudizi, senza scrupoli, senza remore, senza pudore, senza timore e senza vergogna. Se sei una persona normale non ti nota nessuno. Ma se sei “diverso“ entri automaticamente, di diritto, nel novero delle ”categorie protette“, assistito, coccolato e tutelato da varie associazioni, come le specie in via di estinzione, come il panda o la foca monaca.  E come soggetto tutelato, hai molte probabilità di finire in prima pagina e di avere successo nel mondo dello spettacolo, della politica (puoi entrare in Parlamento o diventare vicepresidente di un grande partito), dell’arte, della cultura, del cinema, della televisione (puoi vincere un talent show, un reality o un festival europeo della canzone), della stampa (puoi diventare anche direttore di famosi settimanali di gossip).  Quindi, italiani, auguri e… figli diversi. In USA hanno eletto Obama, il primo  presidente nero. In Italia una congolese nera è diventata ministro.  In Parlamento  sono entrate porno star come Cicciolina e trans come Luxuria. Le donne, grazie alle pari opportunità ed alle quote rosa, vivono un momento di riscatto e sono a capo di aziende, sindacati ed Enti pubblici. E’ una donna la presidente della RAI Tarantola, la segretaria generale della CGIL Camusso, la ex segretaria della Confindustria Marcegaglia, la presidentessa della Camera Boldrini, la presidente della Regione Friuli Venezia Giulia Serracchiani, l’ex direttore dell’Unità Concita De Gregorio. Sono donne alcune delle calamità televisive nazionali di grande successo, come Antonella Clerici, Mara Venier, Maria De Filippi, Barbara D’Urso, Lucia Annunziata, Lilly Gruber e  molte conduttrici di rubriche e programmi televisivi o a capo di importanti testate giornalistiche; evito i nomi, l’elenco sarebbe troppo lungo.  Essere donna, carina e “renzina” è anche una condizione per scalare il PD; vedi Boschi, Moretti, Madia, Serracchiani, Bonafè, Picierno. Insomma, è un momento d’oro per le donne. Ecco perché la Boldrini auspica una donna al Colle; sarebbe il coronamento ideale del lungo percorso di riscatto femminile. Renzi è oggi il simbolo di questo cambiamento, della rottura. E’ diventato segretario del PD perché predicava la rottura col passato, il cambiamento radicale e la “rottamazione” dei vecchi dirigenti.  Oggi questi sono i requisiti richiesti per avere successo. Parola d’ordine ”cambiamento“; bisogna rompere con il passato, rompere gli schemi, rompere i pregiudizi, rompere gli stereotipi, rompere gli equilibri, rompere gli indugi…insomma, bisogna rompere qualcosa. Ed infatti è da tempo che la nostra classe dirigente e politica rompe; oh se rompe! Il guaio è che tutti rompono, ma nessuno paga. Quindi, tenuto conto di ciò, ritengo che oggi il Presidente ideale, per essere al passo coi tempi e rappresentare al meglio l’aspirazione al cambiamento sociale, culturale, politico, etnico, religioso e sessuale,  debba avere le seguenti caratteristiche: essere donna, nera, lesbica, atea o, meglio ancora, musulmana o buddista. Se fosse anche trans e con ascendenze zingare sarebbe il massimo.

Eppure, del superfluo si parla, nel necessario si tace.

Filippo Facci sulla vicenda Barbara D’Urso e ordine dei giornalisti: ”i giornalisti veri sono al livello della D’Urso”, scrive Giuseppe Ino siu “Tele Blog”. Il giornalista (quello vero) Filippo Facci, notoriamente incline a dire esattamente tutto ciò che pensa e si sa che soprattutto in tv se dici troppo la verità non va bene, è stato intervistato nel programma Lo schiaffo su Class tv, notizia poi riportata anche da Tv blog anche a proposito della vicenda Ordine dei giornalisti contro Barbara D’Urso che sta facendo molto discutere e polemizzare in questi giorni riaprendo una questione che in Italia si verifica da anni ovvero giornalismo vero o presunto. Facci anche in questo caso dice la sua molto chiaramente e davvero non si può non condividere appieno le sue parole e il suo pensiero perchè descrivono alla perfezione lo scenario attuale tutto italiano e “scagiona” almeno parzialmente la D’Urso. Io mi suicido in questa vicenda, non voglio stare con nessuno dei due. Sulla differenza tra informazione e intrattenimento vorrei scrivere dei libri. Mi dispiace che per parlarne si debba ricorrere a Barbara d’Urso. Fino a qualche anno fa le sarei saltato al collo e mi sarei scaldato pensando: “Sono sdegnato dal fatto che una non professionista faccia informazione!”. Adesso però il problema non è che Barbara d’Urso di atteggi a giornalista, ma che il livello dei giornalisti sia ormai quello di Barbara d’Urso. Cogliere la differenza è una questione di tesserino, di surreale esame di stato dato o meno. Bisognerebbe ridefinire che cos’è questo lavoro. Alla fine ci sono delle regolette molto vaghe per cui ogni tanto si incazzano con la d’Urso oppure dicono a un altro che non può fare la pubblicità. Facci for president…subito!

Viva Barbara D’Urso, contro il Minculpop dei giornalisti, scrive Corrado Ocone su  “L’Intraprendente”. Un tempo, quando si entrava in una redazione di giornale, il primo insegnamento che veniva impartito ai giovani dai veterani, sotto forma di monito, era di “stare sulla notizia!”. Il che significava: “Sii sempre aggiornato, non farti sfuggire le notizie, stai al passato coi tempi!”. Ecco, la prima cosa che verrebbe in animo di dire al signor Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine dei giornalisti, è che siamo nel 2014, che non esiste più un Ministero della Cultura Popolare, che gli individui si sono liberati delle dande che li tenevano imbrigliati, che sanno scegliere e sbagliare da soli, che comunque non esiste più un morale pubblica unica o ufficiale su cui gli enti preposti debbono vigilare. Bisognerebbe poi anche dire, al suddetto signore, che se un Ordine come il suo si mantiene ancora in vita è solo in virtù dell’utile che ne ricavano gli iscritti e del poco coraggio che dimostrano i politici nel contrastare un tale “interesse privato in atto pubblico”. Stando così le cose, proprio per difendere meglio questo utile, opportuno sarebbe avere un profilo basso, non far troppo rumore, non far sì che cittadini sempre più incavolati e (veri o presunti) rottamatori si accorgano di una così palesemente inutile sopravvivenza. E invece no! Confortato forse dalle pubbliche scuse del direttore di Chi, Alfonso Signorini, accusato qualche settimana fa per delle battute da caserma poste a commento di alcune foto del ministro Madia, l’Ordine, nella persona appunto del Presidente, si è mosso ieri contro la presentatrice Barbara D’Urso addirittura con una denuncia alle procure di Roma e Milano. L’accusa è quella di non rispettare la deontologia professionale facendo tv sensazionalista e poco rispettosa delle buone creanze. Evidenziando, senza tema di ridicolo, che «la signora D’Urso, pur non essendo iscritta all’Albo dei giornalisti, compie sistematicamente un’attività (l’intervista) individuata come specifica della professione giornalistica, senza esserne titolata e senza rispettare le regole, con negative ripercussioni all’immagine di questo Ordine». Ora a parte che questa immagine è da tempo e per altri motivi già stata deteriorata da molti degli odierni moralizzatori; a parte anche l’odore di autoritarismo fascista e corporativo che promana dalla lettera di denuncia; a parte tutto ciò ed altro ancora, quel che fa qui specie è la patetica idea di poter fermare il mare, e la libertà del suo fluire, con le certificazioni, le autentiche, le carte da bollo e i timbri da provincia borbonica. Ma sa il nostro Iacopino che oggi esiste qualcosa come il web in cui tutti sono/siamo giornalisti, che le informazioni travalicano senza mediazioni professionali le frontiere e lo fanno in tempo reale, che tutti (anche i bambini) riempiono questo nuovo spazio di video e script in cui figurano ora come intervistatori e ora come intervistati? Ma l’anacronismo, che per il giornalismo non conserva nemmeno quell’alone di romantica simpatia che può avere in altre umane espressioni, è solo la superficie evidente della questione. Il fatto, più radicale, è che è l’idea stessa di un ordine dei giornalisti in sé bacata e concettualmente errata: «Un’idea da pedanti, da falsi professori, da giornalisti mancati, da gente vogliosa di impedire altrui di pensare colla propria testa. Giornalisti sono tutti coloro che hanno qualcosa da dire o che semplicemente sentono di poter dire meglio o presentar meglio la stessa idea che gli altri dicono o presentano male…Giudice della dignità o indegnità del giornalista non può essere il giornalista, neppure se eletto membro del consiglio dell’ordine od altrimenti chiamato a dar sentenza sui colleghi…In una professione della quale tutti possono essere chiamati a far parte per una ora o per un anno o per tutta la vita…nella quale sono sempre vissuti, gli uni accanto agli altri, imbrattacarte e grandi pubblicisti, …che cosa significa un tribunale di pari? Null’altro che uno strumento fazioso per impedire agli avversari, agli antipatici, ai giovani, agli sconosciuti l’espressione libera del pensiero». Sono parole che scriveva nel 1945 Luigi Einaudi, perorando l’abolizione di un ordine che era stato voluto dal fascismo: «Ammettere il principio dell’albo obbligatorio -osservava- sarebbe un risuscitare i peggiori istituti delle caste e delle corporazioni chiuse, prone ai voleri dei tiranni e nemiche acerrime dei giovani, dei ribelli, dei non-conformisti». Nulla da fare! L’ordine dei giornalisti e il suo albo furono confermati anche nell’Italia repubblicana. E oggi, nonostante sian passati settant’anni e il mondo e l’informazione siano radicalmente cambiati, siamo sempre qui a parlarne. L’Italia del “servo encomio” e del “codardo oltraggio” è sempre lontana dal passare.

Esercizio abusivo della professione: Maniaci come Barbara D’Urso, ma senza le tette, scrive “TeleJato”. Abusivi sono coloro che occupano le casa vuote e pretendono di diventarne i padroni, come succede a Milano e a Roma, ma abusivo è anche chi esercita la professione di giornalista senza essere iscritto all’albo. Ma va!!!! si, è così. L’albo è stato istituito durante il fascismo per tenere sotto controllo e sotto bavaglio i giornalisti e, malgrado sia passato il tempo l’iscrizione è rimasta come una sorta di prerogativa, una sorta di “licenza di trasmettere”. Abusivo è stato, per un certo periodo, Pino Maniaci, che l’ordine regionale dei giornalisti aveva denunciato perchè non aveva il timbro ufficiale di giornalista: in quella occasione il segretario nazionale dell’Ordine Iacopino intervenne, a Maniaci fu data una tessera ad honorem e tutto si sistemò. Anche perchè Telelato aveva ed ha un direttore responsabile, che è un giornalista con tutti i requisiti, ovvero Riccardo Orioles. Adesso quello stesso Iacopino, diventato Presidente, si è stufato di tutta una serie di personaggi che, pur di fare lo scoop e aumentare l’audience, non esitano a mettere in piazza, ovvero sotto le telecamere, storie personali delicate e interviste a gente che non sempre ha la precisa cognizione di ciò cui va incontro. Niente rispetto della privacy, niente rispetto per le norme che tutelano i minori, insomma, poco riguardo per le più elementari regole della deontologia professionale. Iacopino si è stufato ed ha cominciato con Barbara D’Urso, la pollastra di Canale 5, che nell’ultima puntatadi Domenica Live ha pescato un amico di Elena Ceste, la donna di Castigliole trovata morta dopo essere scomparsa di casa. Tra un gossip e l’altro, a suo tempo la D’Urso è stata radiata dall’albo perchè scriveva articoli e faceva spot pubblicitari contemporaneamente, cosa che non è consentita. Adesso il Giornale della iena Sallusti, oggi si permette di scrivere che la Barby ha subito la stessa accusa del “coraggioso direttore della TV antimafia Pino Maniaci”. E no, caro Sallu, andiamoci piano: altro è fare gossip, altro è cercare di fare audience intervistando persino l’amico Matteo Renzi, altro è stare ogni giorno in campo per parlare di un nemico invisibile e per condurre una battaglia lunga e rischiosa, quella contro le mafie e le ingiustizie. E poi c’è un titolo stupido: “Adesso la casta dei giornalisti vuole imbavagliare la D’Urso”. Tranquilli, non è niente vero, nessuno sarà imbavagliato, nè condannato, come prevede la legge, a due anni di galera e a 50.000 euro di multa. Gli farebbero una pubblicità incredibile. Quindi un consiglio all’amico Iacopino: lascia perdere questi personaggi che, pur di farsi ascoltare sono disposti a inventare notizie o a vendere anche la propria madre. Lascia perdere questi strateghi fasulli che dispongono a tavolino tutto quello che viene detto, compreso le liti, le urla, il parlarsi addosso per non far capire niente. Fare giornalismo è una cosa più seria che parlare di scandali,o organizzarli, soprattutto se ci riferiamo alla scuola di Giuseppe Fava, di Peppino Impastato, di Giancarlo Siani e di tanti altri uccisi per avere il coraggio di dire come stanno le cose. Per costoro basta cambiare canale per toglierseli di mezzo.  ‘’Se giudicassimo quel che succede in Tv, e sindacassimo quanti non siano degni di stare in un qualche albo professionale dato che non sanno fare nulla di nulla, allora di palinsesto televisivo ne rimarrebbero poche ore al giorno. L’Ordine lasci perdere la D’Urso e i milioni di italiani così e così che ne vanno in estasi. Purtroppo”…

La versione di Giampiero Mughini per Dagospia. Caro Dago, e per quanto io lo reputi il più vacuo e inutile degli enti italiani l’Ordine dei giornalisti non cessa di stupirmi. Questa loro iniziativa di procedere contro Barbara D’Urso accusandola di non avere le risorse professionali (giornalistiche) per fare quello che fa - ossia deliziare al pomeriggio il pubblico popolare medio-basso della Tv - è da manuale del grottesco. Immagino che il punto di partenza e di scandalo ne fosse l’ospitata di Matteo Renzi nella sua trasmissione. Qualcosa che ovviamente non aveva niente a che fare con il giornalismo, e ammesso che esista “il giornalismo” e non semplicemente i mass-media su cui qualcuno cerca di comunicare alla men peggio con il pubblico che compra un giornale o che sceglie un canale Tv. La combutta Renzi-D’Urso comunicava qualcosa? Certo che sì. Ovvio che la D’Urso non ha niente a che vedere con il giornalismo, solo che lei non si picca di essere una giornalista. Giornalista è la quarantenne di cui mi dicevano qualche giorno fa, una che scrive su un grande giornale nazionale da 15 anni e le danno 40 euro lordi a botta. La D’Urso i 40 euro lordi li ha già guadagnati appena apre gli occhi al mattino, anzi ad aver aperto un solo occhio. Io ho lavorato con lei, so di chi e che cosa sto parlando. Certo che se il pubblico del pomeriggio televisivo aspirasse ad ascoltare Guillaume Apollinaire o Franz Kafka, la D’Urso sarebbe bella e fritta, ma quel pubblico non vuole affatto i due suddetti autori. E del resto, a guardarli in faccia, nessuno di quelli dell’Ordine Regionale dei Giornalisti che si apprestavano a cancellarmi dall’Ordine, aveva Apollinaire e Kafka fra le sue icone. A ciascuno il suo. Indimenticabili le interviste di Oriana Fallaci, Indro Montanelli, Sergio Zavoli. E’ talmente palese che non tutti i giornalisti iscritti all’Albo siano a quell’altezza, che non tutte le interviste pubblicate ogni giorno su quotidiani e settimanali lo siano. Se poi giudicassimo quel che succede in Tv, e sindacassimo quanti non è che non siano degni di stare in un qualche albo professionale dato che non sanno nulla di nulla e non sanno fare nulla di nulla, allora di palinsesto televisivo ne rimarrebbero poche ore al giorno. L’Ordine dei giornalisti si plachi e si attenga al suo. Al nulla. Lasci perdere la D’Urso e i milioni di italiani così e così che ne vanno in estasi. Purtroppo.

Nessuno tocchi Barbara D’urso, scrive di Mariano Sabatini su “Tiscali”. Non avrei mai pensato di dover prendere le difese della molto Barbara D’Urso, attaccata dall’Ordine dei giornalisti, nella persona del presidente Enzo Iacopino, perché osa fare interviste senza avere nelle griffatissime tasche l’aureo tesserino d’iscrizione all’albo professionale. Non prenderò, infatti, le sue difese, tuttavia vorrei fare qualche distinguo. La signora di Mediaset gestisce, sull’ammiraglia del network, generosissime fette di palinsesto dividendosi, da brava wonder women con nido su Palazzo dei Cigni a Milano2, tra Pomeriggio5 e Domenica Live. Entrambe sotto l’egida di Videonews, struttura giornalistica trasversale – spalmata, cioè, su Italia1, Rete4, Canale5 –diretta da Claudio Brachino; in passato anche conduttore (ricorderete che mise sotto accusa i calzini del giudice Mesiano). L’equivoco nasce da questo: si può lavorare in una struttura giornalistica senza essere giornalisti? Ricordo che anni fa la D’Urso era iscritta come pubblicista; la stessa posizione con cui Ugo Stille, il mitico Misha, arrivò a dirigere il Corriere della sera. Carmelita, detta Barbara, D’Urso senza smentirsi faceva disinvolte interviste sul sesso per il mensile King, a conniventi maschietti che si facevano fotografare seminudi. Ovviamente per fare domande degne non servono le stimmate giornalistiche. La nostra bella Costituzione, all’articolo 21, sancisce la per tutti e con ogni mezzo la libertà di espressione… anche se non l’obbligo. Da sempre a Uno Mattina su Rai1 la conduzione è in tandem: un giornalista indicato dal direttore del Tg1 e un presentatore designato dal direttore di rete. A Mattino5 la non giornalista Federica Panicucci è affiancata dal giornalista Federico Novella. Tralasciando le beghe corporativistiche: il problema non è se si è giornalisti oppure no, ma che tipo di interviste e di programma si propongono. Quelle dell’incriminata D’Urso sono interviste emoticon, supportate da faccine, ridondanze (“questa cosa è brutta, brutta, brutta…”), esagerata gestualità di stampo teatrale. Il suo è giornalismo di fatto o, se volete, disfatto, fondato sull’eccitazione. L’altro giorno trattava, e come ti sbagli, il caso di Elena Ceste con un esperto cronista di nera, riservando per sé la parte della garantista a dispetto di tutto e assegnando al giornalista quella di chi si sta facendo, ipsa dixit, un film colpevolista. Giornalismo situazionista, se così possiamo definirlo, e anche un filino allarmista; considerato che in diretta veniva intimato ad una inviata di spostarsi rapidamente davanti alla casa di Michele Buoninconti per chissà quale imminente rivelazione. Non è solo lei, tuttavia. Pur con sensibili differenze, tutta la Tv usa la “nera” per vellicare gli ascolti. A Mattino5, per un preteso dovere informativo, si mostrano le raccapriccianti foto di quell’infermiera che si faceva ritrarre con i cadaveri nel suo ospedale. Tanto per dare la sveglia ai neghittosi telespettatori. Allora, in estrema sintesi, se l’iniziativa dell’Ordine dei giornalisti vs Barbara D’Urso si prefiggeva comprensibilmente di osteggiare il dolorismo e la spettacolarizzazione del macabro, il metodo scelto (denuncia di “esercizio abusivo della professione”) è sbagliato. Perché l’appartenenza all’istituto di categoria non garantisce la correttezza professionale. Vogliamo parlare delle foto pubblicate da Signorini su Chi?

D’Urso, un pretesto: chi fa giornalismo? Scrive Paolo Paoletti su “Notte Sport”. Storia ridicola, Carmela si è fatta mettere in mezzo. Perchè? La denuncia alla D’Urso, è un pretesto nella guerra dell’inferno in cui versa l’OdG: troppi disoccupati, editori da strapazzo, lobby e lottizzazione sfrenata: questo è il mondo che Iacopino dovrebbe attaccare. Denunciare la D’Urso fa ridere. Carmelita D’Urso detta Barbara, infatti, solo il capro espiatorio dell’antigiornalismo televisivo. Imperante da anni…Il presidente nazionale Enzo Iacopino ha spedito la denuncia alle Procure di Milano e Roma, all’Agcom, al Garante per la protezione dei dati personali e al Comitato Media e Minori per esercizio abusivo della professione. Ha sbagliato indirizzo, avrebbe dovuto denunciare tutti gli autori dei programmi! I risvolti della vicenda sono 2:

1. Il giornalismo tv deve essere fatto dai giornalisti. E deve valere per tutti, non solo per Carmelita D’Urso. Chi ha una abilitazione professionale è sottoposto al rispetto della deontologia. Chi non la rispetta va punito secondo le regole.

2. Il tutto è un falso problema perchè Carmelita come tanti altri in video, donne e uomini, recitano un copione scritto dagli autori dei programmi che non sottoposti a regole deontologiche, rispettano solo quelle degli ascolti. Tutto questo è arcinoto, come è da sempre fatto passare che le attività giornalistiche siano svolte da chi non è abilitato alla professione. I primi colpevoli sono gli editori, seguiti dai produttori e capi struttura: tutti rivolti solo agli ascolti, infischiandosene di come si deve svolgere un lavoro delicatissimo che è informare. Attenzione…l’OdG dovrebbe Intervenire anche e spesso proprio sul lavoro dei giornalisti proni agli Interessi editoriali che per definizione ormai divergono dal dovere di terzietà. In Italia esistono infatti tante verità per quante sono le testate, tutte al soldo di questo o quel padrone, del politico di turno, del pubblicitario, dominus di una attività che non può essere prostituita alla vendita! Quindi caro Iacopino, se Carmela-Barbara D’Urso deve eassere denunciata e sanzionata, si faccia. Al tempo stesso si colpiscano tutti quelli che derogano alle leggi del giornalismo, venduti al potere e agli Interessi dei potenti non del pubblico unico padrone della vera informazione. Iacopino ha pubblicato l’esposto da lui firmato con cui denuncia che “la signora D’Urso pur non essendo iscritta all’Albo dei giornalisti compie sistematicamente un’attività (l’Intervista) individuata come specifica della professione giornalistica, senza esserne titolata e senza rispettare le regole”. Quanti fanno altrettanto? Quanti peggio ancora non rispettano le regole pur essendo giornalisti? Iacopino risponda velocemente a questa domanda…Domenica Live di Canale 5 è certamente uno spazio tv in cui vengono realizzate Interviste “con modalità che non tengono conto di esigenze quali la difesa della privacy e/o il coinvolgimento dei minori”. E’ il solo programma a tradire in modo indegno i telespettatori? Iacopino scrive che sono al vaglio altre segnalazioni oltre al caso D’Urso e spiega: “non agiremo solo nei suoi confronti. Mi arrivano le prime segnalazioni in tema di esercizio abusivo della professione. Dobbiamo controllarle, ovviamente (ne capite le ragioni, vero?) e, quindi, occorrerà del tempo”. Tempo? E perchè…? Cosa fanno e perchè paghiamo i Probiviri dell’Ordine? Le nostre tasse chiedono che il lavoro di controllo venga svolto ad horas e d’ufficio, non per induzione e quindi pro-forma! “Basta soubrette, ora le denunciamo”, scriveva il presidente. benissimo, era ora…“L’informazione è materia delicata. Basta con l’occhio umido e la recitata partecipazione alle tragedie. Basta con il dolore come ingrediente dello spettacolo per fare audience. Basta con le banalità/bestialità dispensate a piene mani, soprattutto nelle tv, da chi si preoccupa solo di come aumentare il personale compenso, passando sopra a diritti e sentimenti (Sarah Scazzi, Yara Gambirasio, Melania Rea, Melissa Bassi e, da ultimo, Elena Ceste: tanto per citare alcuni casi e tutti coloro i quali a queste vicende sono collegati), anche di persone estranee alle vicende che possono avere un Interesse pubblico…” Proprio così caro Iacoppino, come mai ti sei svegliato solo adesso? Con tutti i giornalisti disoccupati che ci sono in giro, quando ci decidiamo a far fare questo lavoro solo a chi lo merita? In tutta sincerità, Carmela-Barbara d’Urso non è neanche la peggiore…ma è tempo di fare piazza pulita. Verso tutti però!

Il problema non è la D'Urso, ma il giornalismo spettacolo, scrive Ruben Razzante su “La Nuova Bussola Quotidiana”. La polemica innescata dalle denunce dell'Ordine nazionale dei giornalisti nei confronti di Barbara D'Urso per esercizio abusivo di professione rischia di far perdere di vista la priorità del mondo dell'informazione, che dev'essere il rispetto della persona. La conduttrice di Domenica live (Canale 5) utilizza con sistematicità lo strumento, tipicamente ma non esclusivamente giornalistico, dell'intervista per far parlare protagonisti della vita pubblica e della cronaca quotidiana, ma non è iscritta all'Ordine dei giornalisti. In verità lo era, ma poi ha deciso di restituire la tessera professionale per essere libera di fare pubblicità, attività vietata dalla deontologia giornalistica. Secondo i vertici dell'Ordine nazionale dei giornalisti, la D'Urso, dietro il paravento dell'etichetta di "conduttrice di trasmissioni di intrattenimento", svolgerebbe un'attività in tutto e per tutto qualificabile come giornalistica e quindi vietata a chi non sia iscritto all'albo professionale. L'Ordine dei giornalisti ha altresì preannunciato lettere di diffida ai direttori delle testate giornalistiche radiotelevisive che, a differenza della D'Urso, risultano regolarmente iscritti all'albo professionale e quindi sono tenuti a rispettare i principi scolpiti nelle carte deontologiche che i giornalisti si sono dati per rendere l'esercizio del diritto di cronaca credibile e rispettoso dei diritti della personalità altrui. Questi direttori, a detta dei vertici dell'Ordine, chiuderebbero un occhio, se non due, su questi esempi di cattiva informazione, di fatto avallandoli. Qualcuno fa rilevare che non è solo la D'Urso a vestire i panni della giornalista senza esserlo e che il confine tra libera manifestazione del pensiero e effettivo esercizio della professione giornalistica è, in verità, molto labile, soprattutto da quando la Rete ha diluito i contenuti informativi prodotti da giornalisti in un mare magnum indistinto di informazioni non vagliate e non filtrate attraverso i canoni del buon giornalismo. Ma la questione sollevata dall'Ordine dei giornalisti è sacrosanta e riguarda in primo luogo i giornalisti stessi, che si sono impegnati a rispettare quelle norme deontologiche violate dalla D'Urso, che però non ne risponde sul piano disciplinare, in quanto non iscritta all'albo, ma che risultano trascurate fin troppo anche da tantissimi giornalisti non sanzionati in alcun modo dall'Ordine. Non sarebbe il caso di prendere provvedimenti disciplinari nei riguardi di quei cronisti che si accaniscono con il microfono per estorcere confidenze, rubare notizie, platealizzare emozioni private solo per esigenze di audience? E' vero, la D'Urso (ma non è la sola) scava nella vita privata dei famigliari delle vittime, teatralizzando il dolore e speculando sulla sofferenza altrui, accende improvvidi riflettori sulla vita intima delle persone collegate ai protagonisti di vicende tragiche come quella di Elena Ceste, solo per citare una delle ultime in ordine di tempo. Ma che dire dei tanti giornalisti che esibiscono la tessera professionale e poi rivolgono domande imbarazzanti ai protagonisti dei fatti di cronaca, anche nera? Emblematiche in proposito quelle rivolte ai famigliari di vittime di omicidi:"Cosa prova per gli assassini di sua figlia? Li perdonerebbe?". Anziché raccontare i fatti, molti giornalisti violano la deontologia travestendosi da psicologi, da pubblici ministeri, spacciano per fatti oggettivi i loro personali e spesso superficiali convincimenti, appalesano le loro emozioni e le loro passioni ideologiche e politiche, pretendendo di persuadere l'opinione pubblica, eppure non vengono sanzionati. Il codice sui processi mediatici (21 maggio 2009) è stato scritto e firmato dall'Ordine dei giornalisti, dalla Federazione nazionale della stampa italiana, dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e da tutte le emittenti radiotelevisive, eppure viene disatteso da giornalisti e non giornalisti. Ecco perchè l'Ordine dei giornalisti fa bene a richiamare questi principi deontologici e a ricordare che anche le testate radiotelevisive potrebbero e dovrebbero essere sanzionate qualora a commettere le violazioni siano figure non giornalistiche. E' proprio di questi giorni la presentazione di una proposta di legge a firma di Pino Pisicchio (capogruppo del Gruppo Misto alla Camera), per tentare di riformare l'Ordine dei giornalisti e l'accesso alla professione. Questi i punti salienti: obbligo di laurea triennale e di frequenza di master universitario sostitutivo del praticantato; drastica riduzione del numero di consiglieri nazionali (da 150 a 70) con prevalenza dei giornalisti professionisti e ridimensionamento del peso specifico dei giornalisti pubblicisti in seno agli organismi di categoria; revisione dei processi di formazione obbligatoria con focalizzazione sui temi deontologici; istituzione del Giurì per la correttezza dell'informazione, che riduca il numero di cause, querele e liti temerarie e risolva tempestivamente casi di violazioni deontologiche o casi come quello della D'Urso, tanto per intenderci, attraverso richiami espliciti e perentori ai direttori giornalisti delle testate; colloquio obbligatorio anche per diventare giornalisti pubblicisti. Un testo analogo di riforma della professione giornalistica è stato bocciato al Senato durante la scorsa legislatura, dopo essere stato approvato alla Camera. Vedremo se la sensibilità delle decine di giornalisti che oggi siedono sugli scranni parlamentari prevarrà sull'indifferenza di larga parte della classe politica verso il rispetto delle regole della buona informazione.

La D’Urso fa infuriare i giornalisti. Il presidente dell’Ordine denuncia la presentatrice tv «Non ha rispettato la difesa della privacy e i minori», scrive Massimiliano Lenzi su “Il Tempo”. Immaginiamo per un attimo Jay Leno, comico e conduttore del «The Tonight Show» (in onda sulla Nbc) negli Stati Uniti, che intervista Barbara Bush, finire denunciato per esercizio abusivo della professione giornalistica; oppure Stephen Colbert, altro comico, che sostituirà David Letterman nel 2015 alla guida del «The Late Show» sulla CBS, costretto a spiegare del perché si occupi di politica nel talk. Nella polemica esplosa in questi giorni in Italia, ma presente da anni, tra soubrette e informazione - e su chi tra le prime possa fare cosa nelle seconde, le news - ciò che non si vede è il concetto di infotainment. L’informazione che diviene spettacolo e intrattenimento, oltreché notizia, e che incarna nella produzione televisiva di questo secolo un vero e proprio genere, oltreché un modello produttivo. Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine dei giornalisti, sulla propria pagina Facebook ha lanciato il sasso su «Soubrette e informazione». «Migliaia di persone (la stragrande maggioranza colleghi) – scrive Iacopino - hanno letto il post "Basta soubrette, ora le denunciamo". (..) C’è chi, in privato, mi ha chiesto di non fare mucchi, mettendo tutti i "contenitori" o le trasmissioni sullo stesso piano. Non ci pensa nessuno. La cosa che mi ha colpito di più è che praticamente tutti hanno pensato mi riferissi alla signora Barbara D’Urso (che non è giornalista). Non pensavo solo a lei, non agiremo solo nei suoi confronti. Mi arrivano le prime segnalazioni in tema di esercizio abusivo della professione. Dobbiamo controllarle, ovviamente (ne capite le ragioni, vero?) e, quindi, occorrerà del tempo. Ma ho firmato la prima denuncia/esposto proprio nei confronti della signora D’Urso. È indirizzato a due Procure della Repubblica (Milano e Roma), all’Agcom, al Garante per la protezione dei dati personali e al Comitato Media e minori. Valutino loro. Hanno gli strumenti e, direi, il dovere di farlo. Il femminicidio non si consuma solo con l’uccisione di una donna, ma, oltre la morte, anche con l’oltraggio alla sua vita e a quello della sua carne: i suoi figli». Un intervento, quello di Iacopino, che scatena una serie di domande: può un non giornalista fare interviste giornalistiche? Quali sono i limiti? E altro ancora. Prima di entrare nel merito, alcune considerazioni: la professione giornalistica in Italia, da professione intellettuale e borghese, di élite, si è progressivamente precarizzata. Il numero dei giornalisti è aumentato, ne sono arrivati da uffici stampa e da scuole universitarie che davano il praticantato, mentre la domanda (di giornalismo) calava, l’offerta aumentava. Tutto ciò mentre attorno la televisione (anche i quotidiani, ma in forma diversa) mutava radicalmente, mischiando intrattenimento e informazione per rendere più seduttiva la seconda e mantenere il valore commerciale – perché i giornali, come i programmi hanno bisogno di un pubblico e di introiti – del prodotto. In questa metamorfosi Barbara D’Urso, con successo, Mara Venier, Paola Perego, Federica Panicucci, Paolo Bonolis, sono diventati volti di intrattenimento su Mediaset e sulla Rai ma - a secondo degli argomenti che trattavano - anche visi da informazione. Colpa loro o colpa del giornalismo che perdeva identità, lentamente, chiudendosi in una dimensione corporativa e sempre meno al passo con la contemporaneità? Pensiamo ai corsi obbligatori di aggiornamento professionale, istituiti dalla legge Severino: 60 crediti in tre anni, almeno 15 per il primo anno: a cosa serve mandare Giuliano Ferrara o Marco Travaglio a seguire qualche ora di corso? Davvero crediamo che un giornalista che scrive, lavora, oggi – se non è aggiornato – possa sopravvivere? Non scherziamo! Il problema del giornalismo italiano non è Barbara D’Urso che intervista Matteo Renzi o che si occupa di cronaca (se sbaglia esiste la legge e non c’è bisogno di battaglie corporative) ma semmai il fatto che mai come nel 2014 italiano suona attuale la frase di Leo Longanesi: «Un vero giornalista spiega benissimo quello che non sa».

Condoni e punti ai relatori. I corsi burletta per giornalisti. La formazione obbligatoria tra norme surreali e pochi controlli. Sanzioni. Chi non segue i corsi compie per legge un illecito ma non esistono vere sanzioni, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Capita anche questo, nel teatrino della formazione continua per giornalisti. Capita di assistere a un corso di deontologia organizzato nella sede e con esponenti del Parlamento europeo (il cui portavoce, per inciso, deontologicamente non rende noti i nomi degli ex eurodeputati che incassano il vitalizio perché «coperti dalla privacy») dal titolo alla Massimo Troisi: «Giornalismo ed Europa. Si riparte da Tre». Succede pure che il suddetto corso faccia da cornice alla consegna del premio «Capitani dell’anno 2014 all’on. Antonio Tajani, vicepresidente vicario del Parlamento europeo, per le sue efficaci iniziative a sostegno dell’imprenditoria». E alla fine, crediti formativi per tutti! Anche ai formatori: cioè i relatori. Il premiato Tajani, giornalista tuttora iscritto all’Albo, li avrà avuti anche lui? L’episodio dice tutto della piega grottesca che ha preso questa faccenda. Tanto da far dire a Carlo Picozza, responsabile della formazione all’Ordine di Roma: «Sono schifato». Invece la presidente Paola Spadari si paragona al bambino olandese Hans Brinker che tappa con il dito il buco nella diga: «Solo nel Lazio dovremmo erogare più di un milione di crediti in tre anni». Siccome però il dito non può reggere all’infinito, fatalmente la diga viene giù. Così il 19 dicembre chi dei 20 mila iscritti all’Ordine dei giornalisti del Lazio non si è ancora accaparrato il minimo dei 15 crediti stabiliti, può partecipare a un Credit-Day durante il quale si procederà alla distribuzione gratis dei punti mancanti. Un condono in piena regola. Ma partiamo dall’inizio. È settembre del 2011: lo spread galoppa e l’ultimo governo di Silvio Berlusconi deve mettere mano all’ultima disperata manovra. Lì dentro spunta a sorpresa una norma attuativa di una direttiva comunitaria, con la quale si decreta l’obbligo della formazione continua per gli iscritti a ogni Ordine professionale. Giornalisti compresi. Norma assurda, perché la direttiva ha lo scopo evidente di tutelare i clienti delle professioni, mentre i giornalisti non hanno «clienti» in senso stretto. Di più. «Il fatto di essere iscritti a un Albo fa dei giornalisti italiani gli unici in Europa soggetti a quell’obbligo», aggiunge la segretaria dell’Ordine del Lazio Silvia Resta. Nessuno però si commuove. L’Ordine nazionale partorisce un regolamento prevedendo l’obbligo di collezionare almeno 60 crediti in tre anni, con un minimo annuo di 15. Come si raccolgono? Innanzitutto con i corsi del medesimo Ordine. Gratuiti, ovvio (anche se quello organizzato a giugno dall’Ordine della Lombardia con docente Raffaele Fiengo, già giornalista del Corriere e storico sindacalista del nostro giornale, costava 50 euro). Poi frequentando convegni. Pure «in qualità di relatore», com’è per esempio avvenuto al corso con premio incorporato del quale abbiamo parlato, dove relazionava il vice dell’Ordine laziale Gino Falleri: semplicemente surreale. Finisce così che si raccattano crediti partecipando alle presentazioni di libri (surreale bis!), come pubblico e come presentatore. Mentre per regolamento, ovvio, ne ha diritto pure l’autore. Per non parlare di chi insegna all’università, oppure segue corsi di formazione «organizzati da aziende, istituzioni pubbliche e private e altri soggetti». E qui l’Ordine emana prontamente una serie di «disposizione attuative» per stabilire chi può tenere quei corsi. A pagamento, s’intende: ogni corso può costare fino a 220 euro a persona. Facile immaginare ciò che si scatena. Soltanto l’Ordine nazionale concede ben 44 autorizzazioni. Ci sono alcune università. Il Centro documentazione giornalistica, che edita l’Agenda del giornalista. Il Sole 24ore della Confindustria. Il Campus Multimediale che fa capo a Mediaset e alla Iulm. La Pegaso di Napoli: ateneo telematico che gestisce Accademia Forza Italia, scuola di formazione politica di Berlusconi. La Espero srl di proprietà di Luigi Danieli, consigliere comunale milanese del Pd. La Mc relazioni pubbliche di Sassari, specializzata nella «formazione medico scientifica» (ha fatto corsi per la Asl di Cagliari), al pari della Hc training di Roma. E ancora la Ad Formandum di Trieste, esperta nella formazione di scuola alberghiera. E la Know-k di Foggia che ha nell’oggetto sociale «servizi informatici e commercio all’ingrosso» di macchine per ufficio. E la Fondazione Courmayeur Mont Blanc. E la Umana Forma di Luigi Brugnaro. E la Greenaccord di Roma, «associazione culturale per la salvaguardia del Creato» che espone fra i soci onorari, le massime autorità religiose e una gragnuola di politici: da Renato Schifani a Stefania Prestigiacomo a Piero Marrazzo a Enrico Gasbarra...Che senso ha tutto ciò? Non ce l’ha per i giornalisti: anche perché nessuno controlla la qualità di questa formazione. Né per il pubblico, che non avrà un’informazione migliore. Ce l’ha invece per il costoso e pletorico Ordine dei giornalisti, governato da 120 (centoventi) consiglieri nazionali, la cui discutibile utilità è stata rianimata da una più che discutibile legge. Come ce l’ha, eccome, per chi si mette in tasca i soldi contando sul timore dei giornalisti di subire sanzioni. Che però non esistono. E qui si tocca l’apice. La legge dice che non formarsi è un illecito disciplinare che gli Ordini devono punire, ma tutto finirà nella solita burletta. Possiamo scommetterci. Il regolamento dei giornalisti prevede questa unica sanzione: «Il mancato assolvimento dell’obbligo formativo è ostativo all’attribuzione di incarichi deliberati dal Consiglio nazionale». No corso? Ahi, ahi, ahi... No poltrona!

DIRITTO D’AUTORE E FINANZIAMENTO PUBBLICO. IL COPYRIGHT DEI CITTADINI.

In questa Italia, quanto vale il diritto del cittadino, rispetto al diritto della lobby dell’informazione?

Il cittadino utente è titolare del diritto d’autore rispetto alle opere intellettuali prodotte da aziende che si finanziano totalmente o parzialmente con i soldi pubblici: quindi, opere pagate dallo stesso cittadino contribuente?

Queste sono le risposte che nessun giornalista darà mai. Sfido la Milena Gabanelli e la redazione di Report a trattare questo tema delicato. Lei che lavora in Rai ed al Corriere della Sera.

La tematica da approfondire è nata sulla diatriba dell’uso libero a fini non commerciali dei video e specialmente sull’utilizzo dei video soggetti al diritto di cronaca pubblicati sul web.

Insomma si parla del divieto persistente di scaricare e pubblicare liberamente su youtube il video di terzi.

Per quanto riguarda l’impedimento dello scarico dei suoi video da parte di Mediaset si potrebbe prospettare una ragione palesata dal suo spot sulle reti del Biscione:

“Qui non incassiamo finanziamenti pubblici

qui non siamo colossi americani

qui contiamo solo sulle nostre forze

e qui ogni mattina arrivano migliaia di persone

che cercano di fare il massimo per regalare una televisione moderna, vivace e completa.

Undici reti gratuite e centinaia di programmi in onda ogni giorno, anche su Internet.

Che non ti costano niente, niente.

Nemmeno un bollettino postale.

Così… giusto per ricordarlo.

Al contrario la Rai è concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo; percepisce, come finanziamento pubblico, un canone pagato dai cittadini e stabilito per legge; con denaro pubblico vengono ripianificati i passivi di cui l'azienda è gravata; è una impresa a carattere pubblico, con finalità non legate al profitto; per le prerogative suddette deve assicurare una comunicazione (politica, culturale, di intrattenimento) equa e qualificante.

Secondo le previsioni della riforma del canone Rai l’importo massimo dovrebbe oscillare intorno ai 60 euro, il minimo intorno ai 35 euro. L’introito stimato per finanziare il servizio pubblico sarà intorno ai 2 miliardi, rispetto al miliardo e 700 milioni attuale, anche grazie a parte dei proventi che lo Stato ricava da tutti i Giochi, compresa la Lotteria Italia.

Ergo la Rai è servizio pubblico e quindi risponde al cittadino contribuente utente.

Eppure su “Il Corriere della Sera” on line del 6 giugno 2014 si legge “Quaranta video. E’ quanto rimane degli oltre 40 mila video storici del canale YouTube della Rai. Nei giorni scorsi, come raccontato anche dal Corriere della Sera, era stato annunciato: i filmati verranno rimossi tutti i 40.000 mila video verranno progressivamente smantellati da YouTube e trasportati sulla piattaforma Rai.tv. E lo stesso accadrà anche per la grande quantità di materiale collocato su YouTube da singoli utenti che hanno ripreso, anche artigianalmente, intere trasmissioni o singole parti: video che comunque appartengono alla Rai. Morale, tutti i video - anche quelli storici - spariscono dal canale. Il rapporto tra la piattaforma video e viale Mazzini si è chiuso senza incidenti. E la motivazione è di tipo prettamente economico. Il ritorno economico di 700 mila euro all’anno è stato considerato insoddisfacente dalla Rai. Da qui la decisione di rimuovere i contenuti dalla piattaforma di Mountain View e di trasferirli su un portale Rai. Morale, per il momento, su YouTube rimangono solo 40 clip. La più vista? «Non ci resta che...», con un’intervista a Massimo Troisi, scomparso 20 anni fa. Poi il link al portale RaiTv per vedere l’intervista integrale.”

Andiamo ai giornali. Se infatti è vero che grandi testate come Il Corriere della Sera, Repubblica, Il Sole 24Ore, non ricevono sussidi diretti, è altrettanto vero che beneficiano ogni anno, come tutti gli altri giornali, dei cosiddetti contributi indiretti: un mare magnum all'interno del quale è difficile orientarsi e che è quasi impossibile censire, visto che le varie agevolazioni fanno riferimento a diversi ministeri e organi di competenza, scrive Gabriella Colarusso su “Lettera 43”. Il grosso dei contributi indiretti ai giornali viene dalle riduzioni fiscali e dalle «forfetizzazioni dell'Iva sulle rese». I quotidiani cartacei infatti pagano l'Iva al 4%, agevolazione che non è concessa anche alle testate giornalistiche online perché la direttiva europea sul commercio elettronico non riconosce loro questo beneficio. Non solo, i giornali di carta hanno anche la possibilità di forfetizzare l'Iva sulle rese (art. 74, dpr 633): l'imposta cioè non viene pagata sulle copie effettivamente restituite, non vendute, ma calcolata a forfait. Si tratta non di soldi dati direttamente ai quotidiani o ai periodici ma di mancate entrate per lo Stato, il cui importo è quasi impossibile conoscere visto che non risulta agli atti del bilancio della presidenza del Consiglio. È l'«Agenzia delle Entrate che ha questi dati», dice una fonte ministeriale a Lettera43.it, «ma finora non li ha resi noti».

Dice il Dr Antonio Giangrande: di questo come di tante altre manchevolezze dei media petulanti e permalosi si parla nel saggio “Mediopoli. Disinformazione. Censura ed omertà”. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu .

Parlando con un giornalista di un noto quotidiano nazionale - continua il dr Antonio Giangrande, sociologo storico - dopo averne tessuto le lodi per un suo coraggioso video servizio, scaricato da me tal quale da un canale youtube e divulgato sui miei canali web senza profitto, e di cui mi segnalava la mancanza del logo de “Il Corriere della Sera” detentore dei diritti, ho avuto contezza del problema che ha dato spunto a questa inchiesta.

Giornalista A.C.: “Gentile dott. Giangrande, mi hanno appena linkato il canale youtube dell’Associazione contro tutte le mafie, di cui lei è presidente, con la raccolta delle mie inchieste sulle carceri. La ringrazio per l’attenzione ma la pregherei di inserire la fonte da dove ha preso quei video, ossia il sito del Corriere della Sera, nonché di inserire i link originali delle videoinchieste . La precisazione è doverosa poiché il Corriere della Sera detiene i diritti d’autore delle mie opere (quindi non basta citare l’autore) ed è l’unico soggetto legittimato a disporne la pubblicazione, tanto più che dai video caricati su YouTube risulta tagliato il logo CorriereTv in alto a destra che ne indica la proprietà.  Sicuro di un suo sollecito riscontro, le porgo cordiali saluti”.

Giangrande: “Le porgo le mie scuse, oltre che annunciarle la mia ammirazione. In 20 anni, su 70 libri scritti e pubblicati e centinaia di video montati e pubblicati, nell’indifferenza generale dei media, è la prima volta che qualcuno sollecita una modifica al mio lavoro. Faccio ammenda ed ho già provveduto alla sua sollecitazione, visibile sulla presentazione del video in oggetto, annunciandole che la modifica è possibile sulla presentazione, ma non nel video, in quanto gli spezzoni originali usati e tratti da altre fonti erano già di per sé sguarniti del logo. Salutandola cordialmente le indico che questa è la modifica inserita in presentazione. Ove non bastasse, mi si solleciti la cancellazione totale del video ed io lo farò, tenendo presente comunque che attraverso il mio canale decine di migliaia di utenti usufruiscono della visione. - Inchiesta video del bravo e coraggioso giornalista A.C., pubblicata su you tube in vari video e su varie fonti, che ne hanno consentito la copia ed il montaggio. Da queste fonti è omessa l’indicazione del logo del detentore dei diritti di pubblicazione. Mancanza non riconducibile al curatore di questo video, ossia il dr Antonio Giangrande, che immediatamente provvede a precisare su sollecitazione dell’autore. La precisazione è doverosa poiché il Corriere della Sera detiene i diritti d’autore delle opere dell’autore (quindi non basta citare l’autore) ed è l’unico soggetto legittimato a disporne la pubblicazione, tanto più che dai video caricati su YouTube risulta tagliato il logo CorriereTv in alto a destra che ne indica la proprietà. Di seguito si indica la fonte ….. Il video serve a sollecitare l’interesse dell’opinione pubblica ed a far conoscere la problematica e l’autore che se ne è interessato, attraverso i canali di una associazione nazionale antimafia riconosciuta dal ministero dell’interno. Uso del video non a fini commerciali. E’ interesse del detentore dei diritti sollecitare l’immediata cancellazione del video, nel caso in cui non aderisse all’iniziativa benefica. Si dà il caso che, invece, sul libro anche a lettura libera “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”, saggio esclusivo d’inchiesta sulla giustizia italiana, ogni articolo di stampa riporta autore e testata di riferimento con il link che riporta all’articolo originale…..Si cerca di fare servizio pubblico, disinteressato e con ritorsioni impunite e taciute, nel rispetto della legalità. Per questo si ringraziano i detentori del copy right dei pezzi di cui non si è chiesta la cancellazione”.

Giornalista A.C.: “La ringrazio per le parole di stima. I suggerimenti che le davo erano per evitare che si attivi l’ufficio legale del Corriere. Ho visto che nel testo ha inserito le precisazioni ma il video risulta ancora senza logo CorriereTv. Se guarda il link che le ho inviato può vedere che il logo c’è e c’è sempre stato. Pertanto le suggerirei di prendere le videoinchieste nella loro interezza come da pubblicazione.”

Giangrande:  “Dr A.C. il video in oggetto ha avuto 27.613 visioni e non sono pochi, tenuto conto dell’argomento che tira poco, rispetto alla visione di tette e culi che vanno per la maggiore. Questo è anche merito del canale divulgativo con i canali ad esso associati. Canali che non ricevono emolumenti da You Tube per la pubblicità, nonostante le 50 mila visioni settimanali dei suoi video.

Con questo mio video ho voluto dare onore a lei, e solo a lei, per il lavoro svolto, rimarcando il nome dell’autore. Del fatto che il Corriere ne detenesse i diritti non ne ero a conoscenza, fino a quando non mi è arrivata la notizia da lei, tanto è vero che i video li ho tratti da….. Video pubblici e liberamente scaricabili. Youtube mi ha comunicato la semplice violazione di brani, che colpiscono il video sin dall’origine e che ne vietano la visione in Germania…..Una cosa le voglio precisare: Il Corriere della Sera, a differenze di La Repubblica o altri giornali con TV web, non permette assolutamente lo scarico dei suoi video, o così risulta a me. I video di La Repubblica  ed altri si possono scaricare per pubblico interesse, attinenza e verità. Essi sono già con il logo incorporato ed il nome dell’autore. E’ scandaloso non poter scaricare i video, se il Corriere percepisse il finanziamento pubblico per l’editoria. In tal caso il diritto d’autore dovrebbe essere condiviso col pubblico, come dovrebbe essere per la Rai. Anche in questo caso ci troviamo a non poter scaricare i video, nonostante da pagatori del canone siamo piccoli azionisti della RAI. Visionarli e sciropparci preventivamente la pubblicità, invece sì, ci è permesso. Comunque, per gli effetti dell’impedimento, anche se volessi, non potrei riprogrammare il video. A questo punto, non potendomi permettere una lite con il Corriere, né con chicchessia; Avendo già ampie ritorsioni per quello che io faccio, e che nessuno fa, contro i poteri forti: specialmente i magistrati, che in galera ci mandano, spesso, gli innocenti. Non avendo amici a cui chiedere aiuto, né sovvenzionamenti, non essendo di sinistra, e non essendo Libera; Essendo già vittima predestinata di ritorsioni impunite; Tenendo alla mia onorabilità ed alla mia missione improntata alla difesa della legalità, in estrema gratuità, non mi rimane che eliminare il video dal mio canale, così la forma è fatta salva, mentre per la sostanza non mancherò di produrre altri video trattanti il tema. In questo modo tutti saremo contenti, meno la libertà dell’informazione: la verità esiste solo se conosciuta e certamente non va remunerata. Ogni forma divulgativa va sfruttata. Mi spiace per lei, il cui nome non sarà più accomunato ad una giusta battaglia. Ed è quello che fino ad oggi ho voluto fare. Con ossequi, rimanendo intatta la mia stima per lei.”

Giornalista A.C: “Non sto qui a discutere la sua personale interpretazione del diritto d’autore (lei vuole scaricare gratis ciò che altri hanno pagato senza neanche chiedere il permesso). I video che segnala non sono pubblici e nemmeno liberamente scaricabili, presto o tardi verranno bloccati da chi ne detiene i diritti, avendoli pagati. Stia tranquillo che la libertà di informazione su questo tema non sarà intaccata. Tutte le videoinchieste sulle carceri sono liberamente visionabili con una semplice ricerca su google, sono stabilmente in home page sul sito del Corriere (home- inchieste - Le nostre prigioni) e non hanno bisogno di pubblicità avendo superato le migliaia di visualizzazioni. Inoltre periodicamente sono riprese dai vari network che ne hanno interesse previo consenso del Corriere. Nessuno le ha imposto di togliere i video ma di citarli correttamente e mandarli in onda senza alterazioni rispetto all’originale. Se questo per lei rappresenta una difficoltà allora fa bene ad eliminarli. Può piacere o meno ma questi sono i doveri e hanno pari dignità dei diritti. La ringrazio per le intenzioni più felici e nobili, spero di esserle stato di aiuto in qualche modo.”

Non ho voluto andare in polemica, sicuro della piega che il seguito avrebbe avuto. Passare per stravagante ed ignorante va bene, ma avevo ben fatto intendere che tenendo alla mia onorabilità ed alla mia missione improntata alla difesa della legalità, in estrema gratuità, non mi rimaneva che eliminare il video dal mio canale, non potendolo modificare, né lo potevo scaricare direttamente da “Il Corriere della Sera”. Così la forma è fatta salva, mentre per la sostanza non mancherò di produrre altri video trattanti il tema.

Ma la doverosa precisazione va data a tutti quelli che pensano di detenere lo scettro della verità e questo potere usato per far poltiglia nell’opinione pubblica.

Per prima cosa va detto, per chi è digiuno di giurisprudenza, che il Diritto materiale nasce su volontà di una maggioranza storica in Parlamento, spesso trasversale e molte volte influenzata da lobbies di potere. Solo per questo la maggioranza in Parlamento ha sempre ragione, traviando l’interesse della maggioranza dei cittadini. Comunque dura lex, sed lex.

Per secondo va precisato che non è degno di vanteria il fatto che qualcuno paghi dei diritti, arrogandone la proprietà, con i soldi di terzi (i cittadini), a cui poi se ne nega la paternità.

Queste convinzioni, essendo tacciate di opinioni, vanno supportate da fatti, iniziando proprio da quel brocardo “dura lex, sed lex”.

C'è un articolo, nella legge sul diritto d'autore, che rappresenta, mutata mutandis, quello che in altri paesi del mondo viene chiamato fair use e fair dealing: è l'art. 70 della Legge 22 aprile 1941 n. 63, che al primo comma recita: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." Questa norma, massima espressione del concetto di libera utilizzazione, è sempre più dimenticata ed ignorata, scrive “Movimento Costo Zero”. Addirittura c'è chi sostiene, come Enzo Mazza, presidente di FIMI (Federazione Industria Musicale Italiana) che "l'uso di materiale coperto da diritti senza autorizzazione è sempre illecito, le storie sull'education ecc. sono bufale che girano in rete". Ad affermazioni di questo genere, fanno eco le spiegazioni delle denunce che SIAE ha indirizzato verso i gestori di siti didattici e culturali: ecco che la citazione parziale di un'opera, così come permessa dall'art. 70, diventa una manipolazione (non gradita: ma la lesione dell'onore e della reputazione non dovrebbe essere rilevata dagli autori o dai loro eredi?) dell'opera stessa, che SIAE, non si capisce a che titolo (visto che il mandato SIAE può avere ad oggetto soltanto i diritti di utilizzazione economica), avrebbe il dovere di sanzionare.

"Il giornalista è uno che, dopo, sapeva tutto prima". (Karl Kraus), scrive Dagoreport su “Dagospia”. “Il Salario (confutato) dell’impostura. "Su un punto la tranquillizzo: i contributi pubblici ai giornali indipendenti come il nostro sono oggi (per fortuna) inesistenti. I nostri stipendi ce li pagano lettori e inserzionisti". L'impudica rispostina di Sergio Rizzo ("contributi inesistenti") appariva sotto la lettera di un ingenuo deputato, Silvano Moffa, che si lagnava per la campagna anti parlamentari del Corrierone. Per altro, meritevole. Nonostante le omissioni. Si tratta presidente della Commissione lavoro della Camera che una volta ricevuti i pesci in faccia dal Corriere, si troverà nell'aula di Montecitorio a votare l'ennesima proroga milionaria ai Signori dell'editoria.
Almeno fino al 2014, secondo la promessa di Monti. Una missiva garbata e argomentata in cui il povero Moffa, en passant, ricordava al Gabibbo (impunito) i contributi pubblici versati all'editoria (un miliardo di euro annui) con cui anche i giornalisti arrotondano lo stipendio. Magari turandosi il naso o ignorandone addirittura la puzza (di provenienza). Ma i professionisti dell'Anti casta sono fatti così. Moralisti à la carte. Tant'è che al momento di andare al "mercatino delle pulci" (altrui) non guardano mai cosa si vende (di guasto) sulle proprie bancarelle dove acquistano per mangiare. E fanno finta di non vedere che da molto tempo i grandi giornali (Corriere, Repubblica, Stampa etc) sono in mano ai Poteri marci. E che questi giornaloni, come ha osservato Salvatore Bragantini (autorevole collaboratore del giornale in cui scrive, spesso sbugiardato, Sergio Rizzo), "sotto il profilo della cronaca economica (...) formano una formidabile flotta, che segue per lo più un'aurea massima: Cane non mangia cane". La citazione appare nel volume dal titolo eloquente: "Capitalismo all'italiana, come i furbi comandano con i soldi degli ingenui". Ma nella stampa (in genere), rovesciando una massima di Calderon de La Barca: "Il servo più furbo trova sempre che la valigia del padrone sia più leggera da portare della sua". Già, perché sembra calato dalla luna chi, proprio sul Corrierone dei "padroni del vapore", disquisisce di "giornali indipendenti" e senza prebende pubbliche. O si sente addirittura fortunato, disconoscendo persino che l'editoria non riceva soldi dallo Stato. Stiamo parlando di un miliardo annuo pagato con le tasse dei cittadini attraverso ben sette voci di sussidi: contributi diretti, credito d'imposta per investimenti, fondo mobilità e rimborsi per carta e teletrasmissioni; Iva privilegiata al 4% rispetto a un'imposta ordinaria del 20%. Un regalino da niente, da parte del governo e del parlamento. Per poi sentirsi accusare di dirigismo. E mettere in croce notai, benzinai, tassisti, avvocati, commercianti, medici e chi più ne ha più ne metta. In un recente studio del Reuter Institute for the Study of Journalism dell'Università di Oxford, tra i cinque paesi presi in esame Italia risulta al primo posto quanto a flussi di sovvenzioni pubbliche rispetto al numero effettivo dei lettori. Il campione esaminato riguarda Italia, Francia, Stati Uniti, Inghilterra e Germania. Nello studio si osserva pure che da questo meccanismo di aiuti (public support) non c'è "nessuna correlazione tra spesa pubblica (sussidi) e penetrazione dei giornali (copie vendute)". Come a dire? Si stratta di soldi dello Stato che finiscono al macero. Come le copie rese dalle edicole. Sergio Rizzo sembra appartenere allora a quella categoria di giornalisti che, per dirla con Francesco Giavazzi (altro editorialista di punta di Flebuccio de Bortoli), "non sanno distinguere tra gli interessi dei loro editori e le regole della trasparenza". E, spesso, neppure si avvedono "che l'essenza della libertà sta anche "nel diritto di opporsi a difendere le proprie convinzioni solo perché sono le nostre convinzioni" (Isaiah Berlin).

E la doppia morale del Corriere della Sera? Scrive “Stampa Alternativa”. La “Terza pagina” del Corriere della Sera, sabato scorso ha deciso di trattare il libro La casta dei giornali di Beppe Lopez, edito da Stampa Alternativa e Rai Eri, che in un paio di settimane è stato ristampato quattro volte e ha venduto 50 mila copie. Un successo, nonostante lo spinoso tema: “come l’editoria italiana è stata finanziata e assimilata dalla casta politica”. Passaparola, grande accoglienza dal mondo di Internet e dei blog, della televisione pubblica e privata, da radio e giornali regionali. I grandi giornali nazionali, infatti, hanno sinora ignorato o trattato il libro marginalmente, con reticenza o sotto titoletti incomprensibili. E il motivo è comprensibile: La casta dei giornali racconta e documenta il portentoso flusso di danaro pubblico, circa 700 milioni di euro all’anno, che finisce nelle casse dei grossi gruppi editoriali, rimpolpaldo di conseguenza anche gli utili degli azionisti. Andando più nel dettaglio, si parla di 29 milioni a Mondadori, 23 milioni a Rcs, 19 milioni al Sole 24 Ore, 16 milioni a Repubblica Espresso, eccetera. Con ovvia distorsione del mercato e annientamento dell’editoria regionale e indipendente, e conseguente manipolazione della circolazione delle idee e della democrazia. Ora, il “Corriere della Sera” recensisce, meritoriamente controccorrente, l’inchiesta di Lopez. Ma seguendo un metodo trasversale e liquidando con poche battute il cuore del libro. Pierluigi Panza che ha scritto il pezzo ha puntato a delegittimarlo, semplicemente parlando d’altro. Sin dal titolo: “La doppia morale della Rai”. Si attacca la Rai, che poi è come sparare sulla Croce Rossa. Panza si dichiara deluso, si sarebbe aspettato di “trovarci svelate le segrete trame, i legami lobbistici, il sistema delle raccomandazioni diffuso nei giornali con tanto di nomi e cognomi”. Si sarebbe aspettato cioè tutto un altro libro. Magari “sul modello della Casta di Stella e Rizzo”, dove si parla meritoriamente di tutti e di tutto, meno che dei finanziamenti pubblici all’editoria. Ma la Rai non è quell’editore finanziato con le tasche di tutti i cittadini? Ma la Rai, almeno, non faccia la morale agli altri, pubblicando con i soldi dei cittadini un libro contro il finanziamento agli (altri) editori. È il nocciolo della recensione. Ma sarebbero bastati un paio di minuti a Panza per verificare che la partnership editoriale della Rai Eri con Stampa Alternativa per La casta dei giornali non prevede, da parte sua, l’esborso anche solo di un euro. Anzi, il contratto firmato dalla due case editrici, prevede che la Rai Eri non solo non ha investito economicamente sul progetto ma percepirà il 2% sui diritti di vendita. Sarebbe gradita e corretta, come nella grande tradizione del “Corriere della Sera”, pubblicare un’errata corrige al riguardo, anche perché sarebbe una beffa non conforme alla storia di Stampa Alternativa, dopo aver garantito alla Rai Eri il suo guadagno, passare addirittura per gli ennesimi mungitori di “mamma Rai”.

Alla bisogna , sempre sul web si trova: Finalmente abolito il copyright sui contenuti prodotti con fondi pubblici, scrive Simone Aliprandi sul suo blog. Ci voleva l'intervento dei cosiddetti "saggi" per fare questo grande passo innovativo... ma l'importante è che sia stato fatto. Sì, perchè è proprio una mossa saggia quella di abolire il diritto d'autore su tutto ciò che è stato prodotto da enti pubblici e con finanziamento prevalentemente pubblico. Una condizione già presente in altri ordinamenti giuridici e che l'Italia, presa da faccende più urgenti, non aveva mai preso seriamente in considerazione. Ma ecco che con la prima riunione dei "saggi" (nominati da Napolitano) tenutasi questa mattina al Quirinale, il primo passo è stato effettuato. Dunque, testi, immagini, video, musiche, trasmissioni televisive, contenuti multimediali, siti web, banche dati e anche software: tutto senza vincoli di diritti d'autore e diritti connessi a condizione che siano prodotti da un ente pubblico o che comunque la loro produzione sia stata finanziata con fondi pubblici per più della metà. Il provvedimento produrrebbe i suoi effetti a partire da 60 giorni dalla data della sua formale adozione. Dunque entro quest'estate dovremmo già riuscire ad avvantaggiarci di questa sostanziale innovazione. Negativo ovviamente il parere del CPPC (Consorzio Produttori Pubblici di opere sotto Copyright), il quale minaccia di sollevare al più presto una questione di legittimità costituzionale.

Su queste basi è nato un movimento di libertà civica “Scarichiamoli”. L'accesso pubblico al sapere e la libera fruizione delle opere dell'ingegno rappresentano un minimo comune denominatore per movimenti tra loro diversi, che si occupano di problemi diversi, ma che trovano una base condivisa nello sviluppo "aperto" della Società della Conoscenza. In armonia con i principi promossi da questi movimenti, vorremmo che le opere dell'ingegno finanziate (a fondo perduto) con soldi pubblici e le opere di pubblico dominio fossero:

pubblicamente accessibili (facilmente reperibili su Internet);

universalmente accessibili (accessibili anche per i diversamente abili);

liberamente fruibili (non occorre pagare per: leggere un testo, vedere un'immagine, ascoltare una musica);

legalmente fruibili (l'utente è certo di poter scaricare un file nella piena legalità);

ottimamente fruibili (qualità digitale idonea a garantire una buona visualizzazione e/o un buon ascolto).

Inoltre, vorremmo che le opere dell'ingegno finanziate (a fondo perduto) con soldi pubblici fossero:

persistentemente non soggette a tutti o ad alcuni diritti di utilizzazione economica (l'autore rilascia la propria opera con licenza free/open content persistente o con licenza libera copyleft: innanzitutto, ciò consente a chiunque di riprodurre l'opera e di metterla in circolazione);

persistentemente non soggette a diritti connessi all'esercizio del diritto d'autore (altri diritti esclusivi che impediscono, innanzitutto, di riprodurre l'opera e di metterla in circolazione);

persistentemente non soggette a misure tecnologiche di protezione (l'autore rilascia la propria opera con licenza, free/open content persistente o libera copyleft, contenente una clausola anti-TPM o più clausole anti-TPM).

CHE QUALCUNO LA RACCONTI GIUSTA! LA STORIA NON SIAMO NOI……

Ai posteri l'ardua sentenza. Così si suol dire. Ma noi siamo capaci di giudicare, specialmente noi stessi?

Le sentenze di assoluzione sono una vergogna! Scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Le sentenze sono di due tipi. Quelle di condanna e quelle di assoluzione. Se sono di condanna vanno bene, e sanciscono il fatto che il condannato è colpevole. Su tutti i giornali si dichiara in modo solenne e devoto: le sentenze (di condanna) si eseguono, non si commentano. E soprattutto non di discutono, non si criticano, non si protesta contro di loro, non le si dichiara ingiuste. Una condanna vale la verità. Il secondo tipo di sentenze sono le sentenze di assoluzione. Queste sentenze sono una vergogna. Per definizione sono una vergogna. E infatti, in genere, in aula c’è un bel gruppetto di persone che grida: “vergogna, vergogna”. E se non c’è, il giorno dopo molti giornali titoleranno così: “Vergogna”. Oppure, in modo più efficace, titoleranno: “delitto tal dei tali, non lo ha commesso nessuno”. O: “Nessun colpevole”. Negando la possibilità che qualcuno abbia commesso il delitto ma non sia stato scoperto, cosa che ogni tanto succede. Le sentenze di condanna, per definizione, non si discutono. Le sentenze di assoluzione, per definizione, sono una vergogna. Come mai? Semplice. Il processo penale, da qualche anno, non si celebra più nelle aule dei tribunali ma molto prima. Quando un Pm emette un avviso di garanzia, il processo è già svolto, di fatto, e l’avvisato, o l’indagato, è – di prassi – considerato colpevole del delitto del quale è accusato. Non c’è bisogno di nessunissima sentenza. Da quel momento si inizia a eseguire la prima parte della condanna che talvolta è il carcere preventivo, il quale può durare anche molti anni, altre volte è la gogna realizzata attraverso giornali e Tv, altre volte è tutte e due le cose. In più c’è spesso la perdita del lavoro, gigantesche spese per pagare gli avvocati, problemi di salute, di tenuta nervosa, eccetera. Poi, molti anni dopo, la magistratura giudicante emette la sentenza, ma è chiaro che la sentenza deve essere di condanna, visto che l’imputato è colpevole, altrimenti non sarebbe stato indagato. E se invece la sentenza è di assoluzione, e dunque nega l’evidenza che l’imputato, in quanto imputato, è colpevole, allora è chiaro che è una sentenza vergognosa. Perché è una vergogna mandare assolti i colpevoli, per di più dopo che comunque hanno già scontato (col carcere e con il letame) gran parte della condanna. E i giudici che mandano assolto un imputato sono corrivi, anzi fetenti. A quel punto conta poco anche il capo di imputazione. Ieri, per esempio, “Il Fatto” ha spiegato che l’assoluzione degli scienziati che erano stati messi sotto accusa (come poteva succedere solo in Corea del Nord) per non aver previsto un terremoto, equivale alla sentenza di assoluzione degli agenti che erano accusati di avere ucciso a botte Stefano Cucchi. Naturalmente, in parte, questo è vero: se non esistono prove della colpevolezza di quegli agenti – lo abbiamo già scritto – è sacrosanto che siano stati assolti. Perché – a occhio – l’assoluzione non dovrebbe dipendere dalla gravità della colpa ma dalle prove raccolte contro l’imputato. Così dicono, almeno, i vecchi libri, polverosissimi, di diritto. E però per giungere ad accostare il reato di omicidio al reato di mancata previsione di un terremoto, bisogna metterci un bel po’ di faziosità e pregiudizio. Credo. Ma forse mi sbaglio, non è faziosità: quelli del ”Fatto” credono davvero che gli scienziati dovrebbero prevedere i terremoti, e conoscere gli oroscopi, e indovinare il futuro (almeno il futuro prossimo) e altre cose così. Anche a Salem (Massachussets) nel seicento, molti credevano che le donne poco “timorate di Dio” fossero streghe, avessero poteri soprannaturali e fossero al servizio del diavolo. E dunque, saggiamente, le bruciavano vive, perché ritenevano che quello fosse l’unico modo per cancellarle per sempre. Ciascuno è bene che sia fedele ai propri principi. Anche Travaglio. Anche Kim il Sung, o come diavolo si chiama suo nipote.

Troppa voglia di giustizia sommaria, scrive Cesare Martinetti su “La Stampa”. Viviamo sull’orlo dell’indignazione permanente. «Vergognosa» la sentenza dell’Aquila. «Sconvolgenti» le assoluzioni dei boss della camorra nel processo Saviano. Non parliamo di quelle del caso Cucchi. Va da sé che i parenti delle vittime del terremoto hanno il sacrosanto diritto di chiedere giustizia. È ovvio che ci sembra incomprensibile una sentenza che condanna l’avvocato che per conto dei boss ha proferito miserabili minacce contro uno scrittore e assolve i mandanti. Siamo con il cuore, e non soltanto, accanto alla signora Ilaria che per amore del fratello morto in carcere e con un vivo sentimento di coraggio civile sta battendosi per una causa che dev’essere di tutti. Ciò detto, però, c’è qualcosa che non va in tutte queste indignazioni che si rivolgono contro giudici legittimi che – salvo prova contraria – hanno pronunciato sentenze legittime in legge e coscienza. Questo qualcosa è che nel nostro Paese è caduto il riconoscimento del potere costituito, sia esso politico, scientifico o, come in questo caso, giudiziario. C’è una domanda di giustizia sommaria. O arriva la sentenza sull’onda di un’accusa costruita sull’indignazione popolare e mediatica, rapida e senza appello, o si castigano in modo esemplare gli imputati del caso anche se ricoprivano nella vicenda un ruolo marginale o subalterno, o è «Vergogna, vergogna, vergogna». E tutto questo quasi sempre senza aver analizzato o conosciuto a fondo le prove di accusa e quelle di difesa, collocato nella giusta valutazione le une e le altre mettendosi nel difficile ruolo del giudice che deve decidere. Condannare i sismologi per il terremoto dell’Aquila è certamente molto popolare ed emotivamente compensatorio nei confronti dei parenti delle vittime. Gli scienziati costituiscono un capro espiatorio ideale e paradigmatico per quanto caricaturale: che fa un sismologo se non sa nemmeno prevedere un terremoto? Gli anni di galera fanno un bel titolo sul giornale. Ma poi? Ha detto il professor Enzo Boschi, prima condannato poi assolto: «Spiegai che il terremoto era improbabile, ma non si poteva escludere... il linguaggio della scienza è diverso da quello dei media...». Superata l’emergenza emotiva che chiedeva la condanna immediata ed esemplare di qualcuno in primo grado, si va in appello, l’emozione è rarefatta e le cose appaiono un po’ diverse. Si scopre, come quasi sempre in Italia, che le indagini sono state incomplete (caso Cucchi) che bisognava risalire alla fonte che non è un’onnipresente Spectre italica che obnubila, confonde, occulta una verità alla Pasolini nota a tutti: io so chi è il colpevole, ma non ho le prove... È invece quella frantumazione di responsabilità che si trasforma in de-responsabilità dove la burocrazia si incrocia con la politica in un impasto oscuro e impunito. Ed è in questo strato opaco che sta il vero scandalo, è lì che si costruisce la vera ingiustizia. Trattasi di una procedura antica, quasi costitutiva del sistema Italia, un Paese dove alla parola «stragi» si unisce con tragico automatismo l’aggettivo «impunite» anche quando impunite non sono. C’è dunque un sentimento diffuso di ingiustizia che giustifica il sospetto e l’indignazione. C’è un sistema giudiziario dove alle inerzie corporative si sommano anni di leggi, leggine e circolari costruite apposta per bloccare e rallentare il corso delle indagini e dei processi. C’è un’insopportabile lentezza delle procedure. In Sud Corea ieri è stato condannato (a 36 anni di carcere) il comandante del traghetto affondato in primavera e 300 studenti sono morti. Era accusato di aver abbandonato la nave. Lo chiamavano lo Schettino di Corea. Da noi il vero Schettino, dopo quasi tre anni dal disastro è ancora sotto processo, nel frattempo ha fatto una lezione all’università ed è diventato personaggio da paparazzare per i rotocalchi, drammatica e patetica maschera della giustizia sospesa: ci dicano se è innocente o colpevole. Tutto questo è insopportabile, ma ciò non toglie che quei «vergogna» lanciati contro i giudici senza nemmeno aver letto i perché di una sentenza siano sbagliati, come erano sbagliati gli applausi per le condanne e gli arresti facili contro i nemici politici o il capro espiatorio del momento. I giustizialisti, che prima invocano le manette per gli altri e poi rifiutano le sentenze su se stessi come il sindaco di Napoli De Magistris sostenuto dal Tar di turno, producono quella nebbia in cui ogni «vergogna» si giustifica. Diradare questa nebbia, rendere trasparenti e riconoscibili le responsabilità politiche e amministrative, semplificare le procedure, sarebbe la prima riforma necessaria al Paese perché i cittadini, innocenti, colpevoli e vittime, si riconoscano senza vergogna nel Paese. E nella sua giustizia.

La storia non siamo più noi: lettere e risposte su “L’Espresso".

La storia siamo noi, nessuno si senta offeso, siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo.

La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso.

La storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da masticare.

E poi ti dicono “Tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera”.

Ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera.

Però la storia non si ferma davvero davanti a un portone, la storia entra dentro le stanze, le brucia, la storia dà torto e dà ragione.

La storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere, siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto da perdere.

E poi la gente, (perchè è la gente che fa la storia) quando si tratta di scegliere e di andare, te la ritrovi tutta con gli occhi aperti, che sanno benissimo cosa fare.

Quelli che hanno letto milioni di libri e quelli che non sanno nemmeno parlare, ed è per questo che la storia dà i brividi, perchè nessuno la può fermare.

La storia siamo noi, siamo noi padri e figli, siamo noi, bella ciao, che partiamo.

La storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano.

La storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano.

Mi scuso per la citazione integrale del bel testo di Francesco De Gregori, “La storia”, che comunque è sempre una bella lettura, ma credo, anzi temo, che ormai la storia non siamo più noi. Quel vento che gonfiava le vele della storia, che proveniva da lontano, che spalancava i portoni chiusi e che, a torto o a ragione, con i suoi eccessi, le sue atrocità, ma con le sue conquiste diede origine alla rivoluzione francese nel 1789, dopo cui il concetto di eguaglianza tra cittadini ha trovato ospitalità, (pur con tutte le ambiguità ed ipocrisie del caso, specie in Italia, terra di gattopardi), quel vento ormai non soffia più. La storia ha cambiato percorso, è sempre più in mano ad un oligopolio di poteri che pur pochi rispetto al totale della popolazione mondiale decidono per tutti. E qui non si tratta di tirare in ballo ipotetici complotti di “illuminati”, massoni e/o quant’altro, pur senza volerli obbligatoriamente escludere, ma semplicemente di prendere atto che le decisioni di una nazione, economiche e quindi sociali sono oramai transnazionali in uno scacchiere in cui l’Unione europea, ad esempio, conta due su dieci (figuriamoci l’Italia da sola quanto conterebbe..). Molti dicono che questo sia il prezzo da pagare per la pace, ma ai molti io replico che la cosiddetta pace riguarda nel caso la sola Europa, non investendo in maniera reale e continuativa nessuno degli altri continenti tranne l’Australia e il Nord America sino al confine con il Messico. E allora gentili forumnauti, se quanto sopra esposto è non dico vero ma almeno verosimile e ragionevole, in questa cultura dell’effimero (nulla a che vedere con quella dello scomparso Renati Nicolini, che nel suo ambito era cosa seria) e dell’apparenza che proprio qui in Italia ha preso così piede (ne dubitavate? Io no…), prendiamone atto. I nostalgici della visione marxiana potranno sostenere che il capitalismo sta vincendo prendendosi la rivincita sul periodo in cui per un po’ vacillò, i liberali saranno o afasici o liberisti, destrelli e sinistrelli si ritroveranno spiazzati perchè entrambi convinti di poter guidare il corso (e gli obiettivi) della storia, si riscoprono invece al più pedine inutili di un gioco che non solo li sovrasta ma li ignora. Il mondo nuovo pare non prevederli, le stesse istanze di cui sono stati portatori si sono riamalgamate tra loro (ironia del melting pop…) e cercano nuovi modi di rappresentanza. Su tutto pare vigere, immanente, un precariato stabile che di fatto impedisce ogni tipo di equilibrio e di futuro sociale che ha già da un pezzo trovato i suoi alfieri e a cui - ecco il punto - le nuove generazioni sono state educate sino a considerarlo l’unico futuro possibile. E i pochi gongolano mentre i molti ogni giorno di più soffrono. Ma non accade nulla, come avvenne invece nel 1789 e per ragioni in parte simili nel 1917 nella Russia zarista dei servi della gleba. Concludendo oggi De Gregori la sua “Storia” non potrebbe più scriverla, perchè la storia non siamo più noi.

La storia dei contemporanei dopo anni va riscritti dai posteri.

“Il consulente di Cossiga deve essere indagato per concorso nell’omicidio di Aldo Moro”. La richiesta del pg Luigi Ciampoli contro Steve Pieczenik, l’ex funzionario del Dipartimento di Stato americano coinvolto nell’unità di crisi durante il rapimento, scrive Raphaël Zanotti su La Stampa”. La richiesta è di quelle shock: il pg Luigi Ciampoli chiede che la procura generale proceda nei confronti di Steve Pieczenik, ex funzionario del Dipartimento di Stato americano e superconsulente di Francesco Cossiga, per concorso nell’omicidio dell’onorevole Aldo Moro avvenuta in Roma il 9 maggio 1978. Secondo il pg, che ieri è stato sentito dalla commissione parlamentare istituita sulla vicenda, sarebbero emersi gravi indizi nei suoi confronti in merito all’istigazione o perlomeno al rafforzamento del proposito criminale delle Br di uccidere lo statista italiano. Elementi contenuti nelle oltre cento pagine di richiesta d’archiviazione che il pg ha consegnato al tribunale per quanto riguarda le rivelazioni dell’ex ispettore di polizia Enrico Rossi che aveva ipotizzato la presenza di agenti dei Servizi Segreti a bordo di una moto Honda, in via Fani, la mattina del rapimento. Non è stato possibile identificare quelle misteriose presenze, ma altri elementi sono emersi dall’indagine. Elementi che portano a una possibile responsabilità di Pieczenik. D’altra parte un ruolo centrale nel drammatico sviluppo di quei giorni se l’era ritagliato lo stesso Pieczenik, psicologo, in un libro confessione (edito in Italia da Cooper nel 2008 e passato sotto silenzio dal titolo «Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall’ombra»). Nel libro Pieczenik raccontava: «Ho messo in atto una manipolazione strategica che ha portato alla morte di Aldo Moro». Il superconsulente racconta come, all’epoca, sarebbe riuscito a portare i comitati dell’unità di crisi dalla sua parte sostenendo di essere l’unico ad avere a cuore la sorte di Aldo Moro visto che era l’unico a non conoscerlo personalmente. In realtà, rivelava qualche anno fa, l’obiettivo era eliminare Moro: lo si voleva uccidere, ma a farne le spese sarebbero state le Br. Sempre secondo Pieczenik l’operazione sarebbe stata condotta facendo crescere la tensione in modo spasmodico, così da mettere le Br con le spalle al muro e non lasciare loro alcuna via d’uscita se non uccidendo Moro. «Mi aspettavo che si rendessero conto del loro errore e che lo liberassero facendo fallire il mio piano - racconta ancora Pieczenik - Fino alla fine ho avuto paura che lo liberassero. Per loro sarebbe stata una grande vittoria». Tutti sappiamo come andò. Pieczenik venne mandato dagli Stati Uniti a Roma come super esperto di terrorismo. «La sua autoreferenzialità era esasperata e quasi schizofrenica - ha detto ancora il pg Ciampoli - In un’intervista a Giovanni Minoli su Rai Storia raccontò che Moro doveva morire perché in questo modo si sarebbero destabilizzate le Brigate Rosse. Noi abbiamo acquisito il cd di quell’intervista televisiva e tutto il girato completo e siamo convinti che la sua posizione meriti un approfondimento da parte della Procura». Nell’intervista televisiva di Minoli, Pieczenik aveva spiegato anche i motivi della sua azione: «Quando sono arrivato in Italia c’era una situazione di disordine pubblico: c’erano manifestazioni e morti in continuazione. Se i comunisti fossero arrivati al potere e la Democrazia Cristiana avesse perso, si sarebbe verificato un effetto valanga. Gli italiani non avrebbero più controllato la situazione e gli americani avevano un preciso interesse in merito alla sicurezza nazionale. Mi domandai qual era il centro di gravità che al di là di tutto fosse necessario per stabilizzare l’Italia. A mio giudizio quel centro di gravità si sarebbe creato sacrificando Aldo Moro». Impossibile risalire all’identità delle due persone a bordo della Honda, quella mattina in via Fani, segnalati in una lettera anonima arrivata nel 2010 alla questura di Torino. Non erano sicuramente Peppo e Peppa (i due agenti dei Servizi il cui coinvolgimento era già stato escluso dalla polizia). E nemmeno Antonio Fissore, il fotografo piemontese morto nel 2012 in Toscana che l’anonimo dichiarava essere un agente segreto sotto il comando del colonnello Camillo Guglielmi dei Servizi. In realtà i magistrati hanno appurato che quella mattina Fissore era su un volo Levaldigi-Varese con rientro su Levaldigi alle 17.15. I magistrati hanno anche risentito l’ingegner Alessandro Marini, l’uomo che quella mattina in via Fani per un miracolo non venne colpito dai proiettili sparati dall’uomo sul sellino posteriore della Honda che s’infransero sul parabrezza del suo motorino. La Procura generale ha appurato che in quei giorni Marini aveva denunciato di aver ricevuto minacce (senza però saper spiegare quali) e che per questo motivo venne montato nel suo appartamento un baracchino per intercettare le chiamate in entrata al suo telefono. Incredibile ma vero, a 36 anni di distanza quel baracchino non era mai stato smontato e la Procura generale lo ha acquisito. Figura centrale nell’inchiesta, il colonnello Camillo Guglielmi, in servizio all’ufficio “R” della VII divisione del Sismi nonché istruttore abba base Gladio di Capo Marrangiu dove gli agenti venivano addestrati anche alla strategia della tensione. Il pg Ciampoli ha riferito che nei suoi confronti si potrebbe ipotizzare un’accusa per concorso nel rapimento di Aldo Moro e nell’omicidio degli uomini della scorta, ma è impossibile procedere perché il colonnello è nel frattempo morto. L’unica cosa certa, però, è che quella mattina intorno alle 9 il colonnello si trovava in via Fani senza un motivo ragionevole. Alla Corte d’assise ha riferito che era lì per caso, perché doveva andare a pranzo con un collega che viveva nelle vicinanze. Una versione ritenuta «risibile» dal pg Ciampoli, nonché smentita dallo stesso collega. Il suo ruolo nel rapimento, dunque, rimane per ora un mistero. 

Consulente Usa accusato di concorso in omicidio nel sequestro di Aldo Moro. La procura di Roma accusa lo 007 americano Steve Pieczenik: "Deve essere processato, ci sono gravi indizi circa il suo concorso al delitto di Via Fani", scrive Ivan Francese su “Il Giornale”. Ci sono importanti novità giudiziarie sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978. ll procuratore generale di Roma Luigi Ciampoli ha chiesto alla procura di procedere nei confronti dello 007 americano Steve Pieczenik, ex funzionario del Dipartimento di Stato Usa e superconsulente del Governo italiano, verso cui vi sarebbero "gravi indizi circa un suo concorso nell'omicidio" dello statista. Il presunto coinvolgimento di Pieczenik è emerso nel corso della richiesta di archiviazione che il pg Ciampoli aveva inoltrato ieri al gip del Tribunale romano per un'altra inchiesta: quella relativa alle rivelazioni dell'ex poliziotto Enrico Rossi, che aveva insinuato la presenza di uomini dei servizi segreti al momento del rapimento di Moro. Ciampoli ha quindi ordinato la trasmissione della richiesta di archiviazione alla procura romana "perché proceda nei confronti di Steve Pieczenik in ordine al reato di concorso nell'omicidio di Moro". Pieczenik, all'epoca consulente del Viminale guidato da Francesco Cossiga, faceva parte del comitato di crisi istituito dal ministero dell'Interno nel giorno del sequestro dello statista democristiano. Dalla procura generale di Roma viene evidenziato che a carico di Piezcenik "sono emersi indizi gravi circa un eventuale concorso nell'omicidio, fatto apparire, per atti concludenti, integranti ipotesi di istigazione, lo sbocco necessario e ineludibile, per le Brigate Rosse, dell'operazione militare attuata in via Fani, il 16 marzo 1978, o, comunque, di rafforzamento del proposito criminoso, se già maturato dalle stesse Br". Pieczenik ha studiato ad Harvard e al Mit, è stato psichiatra ed esperto di terrorismo: nel dibattito storiografico è considerato un personaggio cruciale nella storia dei rapporti tra Italia ed Usa durante gli anni delicatissimi dell'esplosione del terrorismo. Nel 2008 pubblicò un libro-intervista in cui rivelò di aver sviluppato un piano di "manipolazione strategica" che conducesse all'uscita di scena di Moro, considerata ineludibile nel piano di "stabilizzazione" del nostro Paese. Decisivo sarebbe stato il suo ruolo nell'impedire un'iniziativa vaticana (Papa Paolo VI era amico personale di Moro, ndr) per raccogliere denaro da destinare alla liberazione del presidente Dc: "In quel momento stavamo chiudendo tutti i possibili canali attraverso cui Moro avrebbe potuto essere rilasciato. Non era per Aldo Moro in quanto uomo: la posta in gioco erano le Brigate rosse e il processo di destabilizzazione dell'Italia".

L'americano che aiutò Cossiga: "L'ordine degli Usa non era di far rilasciare Moro ma di stabilizzare l'Italia". La testimonianza dello psichiatra americano che nel 1978 arrivò in Italia per aiutare il ministro dell'Interno Cossiga dopo la strage di via Fani, scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale”. Nelle drammatiche settimane del sequestro Moro "nessuno era in grado di fare qualcosa, né i politici, né i pubblici ministeri, né l'antiterrorismo. Tutte le istituzioni erano assenti". Ad affermarlo, 36 anni dopo, è lo psichiatra statunitense Steve Pieczenik. Già assistente al sottosegretario di Stato del governo americano e capo dell'Ufficio per la gestione dei problemi del terrorismo internazionale, Pieczenik nella primavera del lontano 1978 fu inviato in Italia per assistere il ministro dell'Interno Francesco Cossiga. Rimasto nell'ombra per molti anni, alla fine di maggio è stato interrogato dal pm Luca Palamara, che è andato a sentirlo in Florida. Ne parla oggi Giovanni Bianconi in un articolo sul Corriere della sera. Fu Cossiga a chiedere l'aiuto del dottor Pieczenik al segretario di Stato Cyrus Vance: "Ero appena riuscito a negoziare il rilascio di 500 ostaggi americani a Washington in tre diversi palazzi utilizzando tre ambasciatori arabi". Insomma, si era guadagnato una certa fama e così fu chiamato in Italia, dove sbarcò una decina di giorni dopo la strage di via Fani. Lo psichiatra svela quale fosse l'intenzione del suo Paese: "L'ordine non era di far rilasciare l'ostaggio, ma di aiutarli nelle trattative relative ad Aldo Moro e stabilizzare l'Italia". Per gli Stati Uniti, dunque, la vita dello statista della Democrazia cristiana era un particolare secondario. La tesi americana, maggioritaria (a livello politico) anche in Italia, era questa: "In una situazione in cui il Paese è totalmente destabilizzato e si sta frantumando, quando ci sono attentati, procuratori e giudici uccisi, non ci possono essere trattative con organizzazioni terroristiche... se cedi l'intero sistema cadrà a pezzi". E il cedimento non ci fu. Anche se costò la vita a Moro. Ma cosa fece di concreto Pieczenik, oltre a passare le sue giornate nell'ufficio di Cossiga? "Dovevo valutare che cosa era disponibile in termini di sicurezza, intelligence, capacità di attività di polizia. E la risposta è stata: niente". Prosegue mostrando un quadro a dir poco imbarazzante per il nostro Paese: "Ho chiesto a Cossiga che cosa sapeva delle trattative per gli ostaggi e lui non sapeva niente...". E poi ancora: "Dovevamo valutare la capacità delle Br nelle trattative e sviluppare una strategia di non-negoziazione, non-concessione". Su precisa domanda del pm Palamara (è vero che lo Stato italiano ha lasciato morire Moro?) il dottor Pieczenik risponde di no: "L'incompetenza dell'intero sistema ha permesso la morte di Moro. Nessuno era in grado di fare niente... tutte le istituzioni erano insufficienti e assenti". E sottolinea che andò via prima dell'omicidio, dopo essersi reso conto che l'America poteva stare tranquilla: "Cossiga era un uomo estremamente intelligente che ha capito molto in fretta ciò che doveva fare, ed è stato in grado di attuarlo... nessuno scambio di terroristi e nessun altro scambio". Seppe della morte dello statista italiano quando era già in America. E fece questa constatazione: "Ho pensato che sfortunatamente erano dei dilettanti e avevano fatto davvero un grande sbaglio. La peggiore cosa che un terrorista può fare è uccidere il proprio ostaggio. Uccidendo Aldo Moro hanno vinto la causa sbagliata e creato la loro autodistruzione". Ai microfoni di Mix24 nel settembre dell'anno scorso Pieczenick aveva svelato altri particolari interessanti a Giovanni Minoli, parlando chiaramente di una "manipolazione strategica al fine di stabilizzare la situazione dell'Italia" in quel periodo. E rivelò persino di aver temuto che Moro venisse alla fine rilasciato. "A un certo punto - raccontò ancora lo psichiatra a Mix24 - per poter incidere in una situazione di crisi, sono stato costretto a sminuire la posizione e il valore dell'ostaggio, a Cossiga ho suggerito di screditare la posta in gioco" fino a suggerirgli di dire che "quello delle lettere, le ultime soprattutto, non era il vero Aldo Moro". E infine giocò un ruolo determinante nel bocciare l'iniziativa del Vaticano di raccogliere una cospicua somma di denaro per pagare un riscatto. "In quel momento stavamo chiudendo tutti i possibili canali attraverso cui Moro avrebbe potuto essere rilasciato. Non era per Aldo Moro in quanto uomo: la posta in gioco erano le Brigate rosse e il processo di destabilizzazione dell'Italia". Già in un libro del 2008 ("Abbiamo ucciso Aldo Moro", Cooper edizioni) Pieczenick aveva svelato l'importanza della manipolazione delle informazioni, nella difficile gestione del sequestro Moro. Il 18 aprile 1978 fu diramato il falso comunicato del lago della Duchessa (il luogo dove si sarebbe trovato il corpo di Moro, ndr). Secondo lo psichiatra americano era un tranello elaborato dai servizi segreti italiani che era stato "deciso nel comitato di crisi". Il falso comunicato serve a preparare l’opinione pubblica al peggio. Ma sarebbe servito soprattutto a choccare i brigatisti. Una mossa che, alla fine dei conti, metteva in conto l’omicidio di Moro. Che poco dopo sarebbe puntualmente arrivato. 

Ho manipolato le Brper far uccidere Moro. Dopo 30 anni le rivelazioni del «negoziatore» Usa, scrive “La Stampa”. «Ho mantenuto il silenzio fino ad oggi. Ho atteso trent’anni per rivelare questa storia. Spero sia utile. Mi rincresce per la morte di Aldo Moro; chiedo perdono alla sua famiglia e sono dispiaciuto per lui, credo che saremmo andati d’accordo, ma abbiamo dovuto strumentalizzare le Brigate Rosse per farlo uccidere. Le Br si erano spinte troppo in là». Chi parla è Steve Pieczenick. Un uomo misterioso, che volò in Italia nei giorni del sequestro Moro, inviato dall’amministrazione americana ad «aiutare» gli italiani. Pieczenick non ha mai parlato di quello che fece in quei giorni. Dice addirittura di essersi impegnato con il governo italiano di allora a non divulgare mai i segreti di cui è stato a conoscenza. Ed è un fatto che né la magistratura, né le varie commissioni parlamentari sono mai riuscite a interrogarlo. Finalmente però l’uomo del silenzio ha parlato con un giornalista, il francese Emmanuel Amara, che ha scritto un libro («Abbiamo ucciso Aldo Moro», Cooper edizioni) sul caso. Le rivelazioni sono sconvolgenti. Pieczenick, che è uno psichiatra e un esperto di antiterrorismo, avrebbe avuto un ruolo ben più fondamentale in quei giorni. E che ruolo. «Ho manipolato le Br», dice. E l’effetto finale di questa manipolazione fu l’omicidio di Moro. Il «negoziatore» Pieczenick arriva a Roma nel marzo 1978 su mandato dell’amministrazione Carter per dare una mano a Francesco Cossiga. E’ convinto che l’obiettivo sia quello di salvare la vita allo statista. Ben presto si rende conto che la situazione è molto diversa da quanto si pensi a Washington e che l’Italia è un paese in bilico, a un passo dalla crisi di nervi e dalla destabilizzazione finale. Da come maltratta l’ambasciatore e il capostazione della Cia si capisce che Pieczenick è molto più di un consulente. E’ un proconsole inviato alla periferia dell’impero. «Il capo della sezione locale della Cia non aveva nessuna informazione supplementare da fornirmi: nessun dossier, nessuno studio o indagine delle Br... Era incredibile, l’agenzia si era completamente addormentata. Il colmo era il nostro ambasciatore a Roma, Richard Gardner. Non era una diplomatico di razza, doveva la sua nomina ad appoggi politici». Cossiga è molto franco con lui. «Mi fornì un quadro terribile dalla situazione. Temeva che lo Stato venisse completamente destabilizzato. Mi resi conto che il paese stava per andare alla deriva». Nella sua stanza all’hotel Excelsior, e in una saletta del ministero dell’Interno, Pieczenick comincia lo studio dell’avversario. Scopre che invece sono i terroristi a studiare lui. «Secondo le fonti di polizia dell’epoca, ventiquattr’ore dopo il mio arrivo mi avevano già inserito nella lista degli obiettivi da colpire. Fu allora che capii qual era la forza delle Brigate Rosse. Avevano degli alleati all’interno della macchina dello Stato». Una sgradevole verità gli viene spiegata in Vaticano. «Alcuni figli di alti funzionari politici italiani erano in realtà simpatizzanti delle Brigate Rosse o almeno gravitavano nell’area dell’estrema sinistra rivoluzionaria. Evidentemente era in questo modo che le Br ottenevano informazioni importanti». Così gli danno una pistola. «Ogni volta che uscivo in strada stringevo più che mai la Beretta che avevo in tasca». Comincia una drammatica partita a scacchi. «Il mio primo obiettivo era guadagnare tempo, cercare di mantenere in vita Moro il più a lungo possibile, il tempo necessario a Cossiga per riprendere il controllo dei suoi servizi di sicurezza, calmare i militari, imporre la fermezza a una classe politica inquieta e ridare un po' di fiducia all’economia». Ma la strategia di Pieczenick diventa presto qualcosa di più. E’ il tentativo di portare per mano i brigatisti all’esito che vuole lui. «Lasciavo che credessero che un’apertura era possibile e alimentavo in loro la speranza, sempre più forte, che lo Stato, pur mantenendo una posizione di apparente fermezza, avrebbe comunque negoziato». Alla quarta settimana di sequestro, però, quando comincia l’ondata delle lettere di Moro più accorate, tutto cambia. Una brusca gelata. Il 18 aprile, viene diramato il falso comunicato del lago della Duchessa. Secondo Pieczenick è un tranello elaborato dai servizi segreti italiani. «Non ho partecipato direttamente alla messa in atto di questa operazione che avevamo deciso nel comitato di crisi». Il falso comunicato serve a preparare l’opinione pubblica al peggio. Ma serve soprattutto a choccare i brigatisti. Una mossa che mette nel conto l’omicidio di Moro. E dice Pieczenick: il governo italiano sapeva che cosa stava innescando. «Fu un’iniziativa brutale, certo, una decisione cinica, un colpo a sangue freddo: un uomo doveva essere freddamente sacrificato per la sopravvivenza di uno Stato. Ma in questo genere di situazioni bisogna essere razionali e saper valutare in termini di profitti e perdite». Le Br di Moretti, stordite, infuriate, deluse, uccidono l’ostaggio. E questo è il freddo commento di Pieczenick: «L’uccisione di Moro ha impedito che l’economia crollasse; se fosse stato ucciso prima, la situazione sarebbe stata catastrofica. La ragion di Stato ha prevalso totalmente sulla vita dell’ostaggio».

 “Quel giorno ero in via Montalcini e arrivò l’ordine di non intervenire”. L’ex brigadiere della Finanza finito sotto accusa per le clamorose dichiarazioni sul caso Moro racconta per la prima volta la sua verità: «Con altri militari presidiavamo il palazzo adiacente la prigione di Moro. Quando tutti finì ci venne ordinato di dimenticare quello che era successo». Roma, via Caetani, 9 maggio 1978. Il cadavere di Aldo Moro viene fatto ritrovare tra la sede del Pci e della Dc. Due giorni prima l’ex finanziere novarese assicura che era in servizio di vigilanza in un palazzo di via Montalcini, scrive Carlo Bologna suLa Stampa”.  Giovanni Ladu, ex brigadiere della Finanza in pensione da un anno e mezzo, vive a Novara. Il suo nome è venuto alla ribalta in occasione della pubblicazione del libro dell’ex giudice Ferdinando Imposimato al quale Ladu si era rivolto anche con un’altra identità, quella di un fantomatico Oscar Puddu, per rafforzare la tesi del mancato blitz nel covo delle Brigate Rosse in cui era prigioniero Moro. L’ex magistrato, dopo la pubblicazione del libro, si è rivolto alla Procura di Roma sollecitando nuove indagini. C’è voluto poco per scoprire che Ladu e Puddu sono la stessa persona. Ora l’ex finanziere è indagato per calunnia. Per la prima volta ha deciso di rilasciare a La Stampa un’intervista sulla sua versione dei fatti. Respinge l’etichetta di «calunniatore». Giovanni Ladu, ex brigadiere della Guardia di Finanza, parla per la prima volta accanto ai suoi difensori, gli avvocati Gianni Correnti e Giorgio Legnazzi. Nel 1978, nei giorni del sequestro Moro, era un bersagliere di leva. È indagato dalla Procura di Roma perché sostiene che lo Stato era a conoscenza della prigione dello statista ed ha fatto un passo indietro due giorni prima che venisse ritrovato nella Renault rossa in via Caetani. Lui, con altri gruppi pronti al blitz per liberare il leader Dc, garantisce che il 7 maggio era in via Montalcini. Dall’«alto» arrivò l’ordine che l’ex giudice Imposimato, nel libro «I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia» traduce in una denuncia-bomba: la liberazione fu impedita da Cossiga e Andreotti. Imposimato solo a libro stampato si è affidato alla Procura. 

Ladu, la sua è una verità contestata.

«Le e-mail a Imposimato sono state mandate dal 2012 a maggio di quest’anno però quei fatti del ’78 sono stati resi noti ai miei superiori, inizialmente a voce al mio comandante Alessandro Falorni. Dopo le opportune verifiche è stato contattato il giudice che si era occupato del caso Moro».

Lei ha iniziato a raccontare questi fatti nel 2008, perché solo allora? Temeva una rappresaglia?

«Sì, anche perché quando finì tutto, ci era stato detto di dimenticare quello che era successo».

Ma lei chi era in quei giorni?

«Avevo 19 anni, l’anno primo avevo finito il diploma. Ero in servizio di leva obbligatoria ai bersaglieri della caserma Valbella, ad Avellino».

Vi avevano preparato a questa missione?

«No. Ci hanno imbarcato su un pullman “dovete andare a Roma”. Sulle prime ci portano alla caserma dei carabinieri vicino all’hotel Ergife».

Sapevate che c’erano altri gruppi pronti a intervenire in quella che sarebbe risultata la prigione di Moro?

«Inizialmente no. Poi prendiamo possesso di un appartamento adiacente allo stabile dove, scopriremo poi, c’era Moro. Eravamo dieci militari, non in divisa. Non avevamo attrezzature di ascolto (queste attrezzature sono state poi messe in una cascina abbandonata che era di fronte al palazzo, lì c’era una postazione di controllo già predisposta prima che arrivassimo. Noi dovevamo solo verificare chi entrava e usciva, se c’erano persone sospette».

Quando avete intuito che poteva essere il covo?

«Ci avevano detto che c’era un noto personaggio in quell’appartamento, messo in condizione di non uscire. Moro era stato rapito il 16 marzo , in Italia si parlava solo di quello».

E arriva il 7 maggio 1978, con l’ordine di smobilitare senza liberare il «personaggio». In seguito scoprirete che là dentro c’era proprio il presidente della Dc.

«Certo, leggendo i giornali. Io mi sono anche strizzato sotto. Rientrato ad Avellino sono stato destinato subito al reggimento, alla caserma dei bersaglieri di Persano (Salerno)».

I dieci commilitoni non li ha più sentiti?

«No, non so nemmeno che fine abbiamo fatto. Nessun contatto».

Dopo trent’anni, nel 2008, decide di parlare. Perché?

«Ogni anno, in occasione dell’anniversario dell’uccisione di Moro, venivano riferite falsità».

Non ha mai cercato di «vendere» la sua verità?

«Assolutamente no, all’epoca ero ancora in servizio. Non ho avuto, né cerco compensi. Ho fatto i miei passaggi rivolgendomi ai miei superiori gerarchici, loro hanno poi informato il procuratore di Novara Francesco Saluzzo al quale ho fornito un memoriale di tre pagine. Non ho fatto alcun nome, nessun riferimento ai vertici dello Stato. Ho soltanto indicato i fatti di cui sono a conoscenza. E non sono state ravvisate ipotesi di calunnia perché nel 2011 questo procedimento è stato archiviato».

Lei, in questa prima fase, è Giovanni Ladu. Poi nel 2012 si ripresenta con il nome fittizio di Oscar Puddu. Al punto che Imposimato ci casca, pensa che Ladu e Puddu siano due persone distinte. Perché questo espediente?

«Volevo che si riaprisse il caso, per venire a capo di questa vicenda. L’ex giudice faceva delle domande, io rispondevo. Ci siamo scambiati 84 mail, da privato a privato. Io ero in pensione dalla Finanza, Imposimato dalla magistratura».

Imposimato, anche sulla base della sue rivelazioni, arriva a scrivere che «Moro fu vittima della ferocia delle Br ma anche di un complotto ordito da Andreotti e Cossiga».

«Mai fatti quei nomi, sono conclusioni di Imposimato. Lui mi chiese se erano al corrente dell’ipotesi di un blitz e della decisione di fermarlo».

Il figlio di Cossiga ha definito le sue ricostruzioni da «trattamento sanitario obbligatorio».

«Non sono matto, né mitomane. E non ho mai detto che Cossiga ha ordinato quel delitto».

E a chi parla di depistaggio, cosa risponde?

«Nessuna intenzione di alzare polveroni o coprire qualcuno, chiedo l’opposto: che si arrivi alla verità. Non volevo nemmeno tutto questo clamore. Quando ho visto il mio nome nel libro di Imposimato mi sono pure arrabbiato. Ho fatto tutto questo anche contro il volere della mia famiglia ma sentivo che dovevo togliermi un peso. Tutti gli altri hanno seguito l’ordine di dimenticare, io non ci sono riuscito».

L’ex ispettore e i misteri del caso Moro “Parlerò solo con pm e in Parlamento”

Enrico Rossi aveva indagato su una lettera inviata nel 2009 a La Stampa Al centro i due motociclisti sulle Honda comparsi in via Fani. C’era un torinese? Scrivono Grazia Longo e Massimo Numa su “La Stampa”. L’ex ispettore della Digos Enrico Rossi sa di essere, da poche ore, al centro dell’attenzione. Ha rivelato all’Ansa alcuni retroscena del caso Moro, in particolare sul ruolo - mai chiarito - di un motociclista, in sella a una Honda, comparso in via Fani nell’ora X del rapimento di Aldo Moro e della strage della sua scorta. Deciso a raccontare la «sua» verità, perchè gli accertamenti che furono svolti in allora dai suoi colleghi in modo scrupoloso non portarono a nulla. «Tutto è partito - ha detto Rossi all’Ansa - da una lettera anonima scritta dall’uomo che era sul sellino posteriore dell’Honda in via Fani quando fu rapito Moro. Diede riscontri per arrivare all’altro. Dovevano proteggere le Br da ogni disturbo. Dipendevano dal colonnello del Sismi che era lì». Le ricerche dell’ispettore sono nate da una lettera anonima inviata nell’ottobre 2009 alla redazione de La Stampa. Questo il testo: «Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente...Tanto io posso dire, sta a voi decidere se saperne di più». La polizia avviò così le prime indagini. In una casa di Cuneo, dove l’uomo ha vissuto con la prima moglie, vengono trovate due armi regolarmente denunciate: una Beretta e una Drulov, un’automatica di precisione di fabbricazione cecoslovacca. E le pagine originali di Repubblica dei giorni del sequestro Moro. Rossi afferma di aver chiesto di sentire la coppia e di ordinare una perizia sulle armi. Ma non accadde nulla. Sui dettagli dell’indagine Rossi è pronto a testimoniare. «Ma solo con la magistratura e nelle commissioni parlamentari. Aspetto di essere convocato». Che l’Honda blu presente in via Fani il 16 marzo del 1978 rappresenti un mistero è un dato assodato. Tutte da chiarire sono invece le rivelazioni di Rossi: la procura di Roma, che si sta occupando del caso, non ha per ora trovato riscontri. L’attività degli inquirenti, comunque, prosegue. Intanto la memoria ricorre a pochi mesi fa, quando - il 6 novembre scorso - l’ex brigadiere della Guardia di Finanza Giovanni Ladu è stato indagato per calunnia dalla procura della capitale proprio perché, secondo la pubblica accusa, aveva fornito informazioni false sul caso Moro .

La moto Honda di via Fani Un mistero lungo 36 anni. Le rivelazioni di un ex poliziotto: “A bordo c’erano due 007”, scrive “La Stampa”. Per una volta sono tutti d’accordo: magistrati e Br. La Honda blu presente in via Fani il 16 marzo del 1978 è un mistero. I capi brigatisti hanno sempre negato che a bordo ci fossero due loro uomini, ma da quella moto si spararono - sicuramente - gli unici colpi verso un “civile” presente sulla scena del rapimento, l’ingegner Alessandro Marini, uno dei testimoni più citati dalla sentenza del primo processo Moro. Mario Moretti e Valerio Morucci sono stati sempre chiarissimi su quella moto blu di grossa cilindrata: «Non è certamente roba nostra». L’ingegner Marini si salvò solo perché cadde di lato quando una raffica partita da un piccolo mitra fu scaricata contro di lui “ad altezza d’uomo” proprio da uno dei due che viaggiavano sulla moto. I proiettili frantumarono il parabrezza del suo motorino con il quale l’ingegnere cercava di “passare” all’incrocio tra via Fani e via Stresa. Marini fu interrogato alle 10.15 del 16 marzo. Il conducente della moto - disse - era un giovane di 20-22 anni, molto magro, con il viso lungo e le guance scavate, che a Marini ricordò «l’immagine dell’attore Edoardo De Filippo». Dietro, sulla moto blu, un uomo con il passamontagna scuro che esplose colpi di mitra nella direzione dell’ingegnere perdendo poi il caricatore che cadde dal piccolo mitra durante la fuga. La sera a casa Marini arrivò la prima telefonata di minacce: `Devi stare zitto´. Per giorni le intimidazioni continuarono. Si rafforzarono quando tornò a testimoniare ad aprile e giugno. Poi l’ingegnere capì l’aria, si trasferì in Svizzera per tre anni e cambiò lavoro. Il caricatore cadde certamente dalla moto e Marini, dicono le carte, lo fece ritrovare ma questo non sembra essere stato messo a raffronto con i tre mitra (ritrovati in covi Br) che spararono in via Fani (ce ne è anche un quarto, mai ritrovato). Di certo da quella moto si sparò per uccidere Marini, tanto che i brigatisti sono stati condannati in via definitiva anche per il tentato omicidio dell’ingegnere. Marini d’altra parte confermò più volte durante i processi il suo racconto e consegnò il parabrezza trapassato dai proiettili. A terra in via Fani rimasero quindi anche i proiettili sparati dal piccolo mitra ma le perizie sembrano tacere su questo particolare. Sarebbe questa l’ottava arma usata in via Fani: 4 mitra, 2 pistole, oltre alla pistola dell’agente Zizzi, che scortava Moro, e quella in mano all’uomo della Honda: il piccolo mitra. Su chi fossero i due sulla Honda tante ipotesi finora: due autonomi romani in “cerca di gloria” (ma perché allora sparare per uccidere?); due uomini della `ndrangheta (ma non si è andati oltre l’ipotesi); o, come ha ventilato anche il pm romano Antonio Marini che ha indagato a lungo sulla vicenda, uomini dei servizi segreti o della malavita. I Br negano ma, ha detto il magistrato, «una spiegazione deve pur esserci. Io vedo un solo motivo: che si tratti di un argomento inconfessabile». Uomini della malavita o dei servizi? «Allora tutto si spiegherebbe». Certo che quella mattina a pochi passi da via Fani c’era, per sua stessa ammissione, Camillo Guglielmi, indicato alternativamente come addestratore di Gladio o uomo dei servizi segreti, invitato a pranzo alle 9.15 di mattina da un suo collega. E Guglielmi è proprio l’uomo dei servizi chiamato in causa nella lettera anonima che ha dato il via a Torino agli accertamenti sui due uomini a bordo Honda, poi trasferiti a Roma. A Guglielmi si è addebitata anche la guida di un gruppo clandestino del Sismi incaricato di “gestire” il rapimento Moro secondo un’inchiesta che è anche nell’archivio della Commissione stragi, in Parlamento.

Il martire del terrorismo su cui l'Italia resta spaccata. C'è chi ha avviato il processo per la sua beatificazione, chi lo considera un cattocomunista responsabile di molti dei problemi italiani: Aldo Moro rimane uno dei personaggi più controversi della Prima Repubblica, scrive Livio Caputo su “Il Giornale”. C'è chi ha avviato il processo per la sua beatificazione, chi lo considera un cattocomunista responsabile di molti dei problemi italiani. C'è chi esalta tuttora la sua politica di avvicinamento al Partito Comunista di Enrico Berlinguer (le famose convergenze parallele), chi è convinto che il suo progetto di compromesso storico avrebbe addirittura messo in discussione la nostra appartenenza al blocco occidentale. C'è chi ha parole di elogio per la sua politica estera filoaraba, chi la critica al punto di averlo ribattezzato Al-Domor. C'è chi ritiene che con le sue ripetute prese di distanza dagli Stati Uniti d'America abbia fatto gli interessi dell'Italia, chi lo esecra ancora per avere concluso il famigerato trattato di Osimo con la Jugoslavia di Tito. A quasi trentacinque anni dal suo rapimento ed assassinio ad opera delle Brigate Rosse, Aldo Moro, primo capo di un governo di centro-sinistra e poi per cinque volte presidente del Consiglio tra il 1963 e il 1976, rimane uno dei personaggi più controversi della Prima Repubblica. Pugliese di nascita, laureato in legge, profondamente cattolico, Moro ha fatto parte fin dal principio della corrente dossettiana di sinistra, critica della politica centrista di Alcide De Gasperi, ed è rimasto sempre su queste posizioni. Quando fu rapito il 16 marzo del 1978, era presidente del partito e si apprestava a realizzare il suo obbiettivo di inserire formalmente il Partito comunista italiano nei meccanismi del potere. I cinquantacinque giorni della sua prigionia furono i più drammatici degli anni del terrorismo, spaccando governo, partiti e parlamento in un fronte della fermezza, contrario a ogni trattativa per la sua liberazione per non dare un riconoscimento politico alle Brigate Rosse (Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, il Partito Comunista Italiano) e un fronte possibilista disponibile a negoziare uno scambio di prigionieri coi rapitori (Bettino Craxi, Amintore Fanfani, il Vaticano). Durante la prigionia scrisse 86 lettere, di cui alcune ferocemente critiche verso i dirigenti della Democrazia Cristiana («Il mio sangue ricadrà su di loro»). Ma tutto fu inutile: il 9 maggio il suo corpo crivellato di colpi fu ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 rossa a pochi metri da piazza del Gesù a Roma. Per protesta, i familiari rifiutarono i funerali di Stato. Vari aspetti della vicenda sono ancora circondati dal mistero, dando vita a una pletora di teorie complottistiche che attribuiscono il suo assassinio alla P2, alla CIA, al KGB o addirittura ad ambienti democristiani. Inutile dire che nessuna è stata provata.

Troppi bugiardi sul memoriale Moro. La figlia legge il libro di Gotor sugli scritti dalla prigionia "È il momento per chi ha sempre taciuto di dire la verità", scrive Agnese Moro su “la Stampa”. Il nuovo libro dello storico Miguel Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l'anatomia del potere italiano (Einaudi, 2011, 622 pagine, 25 euro) è un lavoro interessante, che ci accompagna nelle avventurose traversie di quel Memoriale che raccoglie le risposte che mio padre, Aldo Moro, diede alle Brigate Rosse, durante gli interrogatori ai quali fu sottoposto nel corso della sua prigionia (16 marzo - 9 maggio 1978). L'Autore ha fatto un minuzioso lavoro di ricostruzione delle vicende che interessarono quello scritto: la pubblicazione, nel corso del sequestro, di alcune pagine riguardanti l'onorevole Paolo Emilio Taviani; il ritrovamento, da parte degli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nell'ottobre del 1978, nel covo di via Monte Nevoso a Milano, di un testo consistente in fotocopie di un dattiloscritto; il secondo ritrovamento, nell'ottobre del 1990, sempre nello stesso covo brigatista, di fotocopie di lettere e di un manoscritto, il cui contenuto è parzialmente diverso da quello del dattiloscritto rinvenuto nel '78. Fino ad arrivare alla ragionevole e documentata ipotesi della esistenza di un manoscritto più ampio di quello del '90 (identificato dall'Autore come ur-memoriale), fin qui mai ritrovato. Le tracce di questo testo originario vengono seguite da Gotor attraverso una raccolta di dichiarazioni di chi quel testo - con ogni probabilità - lo vide e lo lesse. Testimoni che, nel libro, sono divisi in due gruppi: i morti (il generale Dalla Chiesa, il giornalista Mino Pecorelli) e i sopravvissuti (i brigatisti, alcuni giornalisti ad essi in qualche modo contigui, esponenti dell'area dell'autonomia, Francesco Cossiga). C'è un grande lavorio attorno al Memoriale: impossessarsene, ritrovarlo, delegittimarlo (assieme al suo autore), farlo sparire, edulcorarlo. Tutto sembra ruotare attorno alla figura di Giulio Andreotti, sul quale mio padre avrebbe fatto - è questa l'ipotesi - dichiarazioni molto compromettenti. La posta in gioco nella gara drammatica per il recupero e la pubblicazione del manoscritto originale, o, al contrario, perché ciò non avvenga, riguarda, infatti, la presa del potere in Italia, che si gioca proprio attorno alla figura di Giulio Andreotti, e degli ambienti emergenti che a lui fanno riferimento. Si tratta di una destra profonda, ben più ampia di quella rappresentata come tale in Parlamento, alla quale non sono estranee la loggia massonica deviata P2, pezzi dei servizi segreti, la criminalità organizzata, i grandi interessi privati. Una presa di potere che poi effettivamente avverrà, almeno al livello nazionale, con un cambiamento radicale della finalità e della qualità della nostra vita democratica. Non si tratta, purtroppo, di una spy-story, o di uno scritto «a tesi». E' piuttosto la puntigliosa e precisa ricostruzione di un pezzo importante di storia del nostro Paese, che Gotor fa passare sotto i nostri occhi senza abbellimenti. E con una drammaticità non retorica, dal momento che è una storia piena di speranze e di sangue. Al termine di una lettura che mi ha particolarmente, e ovviamente, coinvolta, mi pongo tre quesiti. Il primo riguarda il manoscritto completo: esiste ancora da qualche parte? Sarebbe davvero bellissimo che fosse così, perché ci aiuterebbe a comprendere meglio quello che avvenne allora. Se qualcuno ne sapesse qualcosa sarebbe il momento di dirlo. Il secondo quesito riguarda la consapevolezza o l'inconsapevolezza del mondo politico nel suo insieme rispetto a quanto stava avvenendo, ovvero alla lotta per il potere combattuta con tenacia da forze ostili alla democrazia repubblicana, con tutto quello che essa comporta in termini di sovranità di ogni cittadino, solidarietà e impegno per la costruzione della giustizia. Quanti sapevano? Chi sapeva in quel 1978? Il terzo quesito: quanto hanno pesato le vicende che Miguel Gotor descrive nel libro sulla decisione di non far nulla (come disse papà in una delle sue lettere: «Non c'è niente da fare quando non si vuole aprire la porta») per salvare Moro? Il valore di un libro non si vede solo dalle cose alle quali dà una risposta, ma anche dai quesiti che pone in tutta evidenza, senza che si possa sfuggire loro. Personalmente sono convinta che sia venuto il tempo di unire le forze per dare una compiuta ricostruzione e spiegazione di quegli anni difficili. Unire le forze: gli storici, i protagonisti attivi nella lotta armata, nelle attività eversive,nella politica, nei Servizi o nell' antiterrorismo, coloro che custodiscono i documenti e chiunque possa dare un contributo per chiarire le cose. E noi che abbiamo patito i frutti avvelenati di quella stagione. E' una strada certamente complessa e dolorosa, ma è necessario percorrerla se vogliamo avere quella verità che come Paese attendiamo da troppo tempo. E' il prezzo che dobbiamo pagare se vogliamo rimettere il passato al suo posto, e riprendere, con mitezza e serenità, il cammino che quegli anni terribili hanno interrotto.

Alla fine la storia dà lustro ai bistrattati contemporanei. 

Il ritratto di Giorgio Almirante, il "fascista che amava il Parlamento", scrive Mario Bernardi Guardi su “Libero Quotidiano”. Giorgio Almirante, ricoverato per ischemia cerebrale nella clinica romana «Villa del Rosario», muore il 22 maggio 1988, un mese prima di compiere 74 anni. Accanto a lui la moglie, Donna Assunta Stramandinoli, che della sua «eredità d’affetti» si farà colorita custode. Come nota Aldo Grandi (Almirante. Biografia di un fascista, Sperling & Kupfer, pp. 468, euro 18,90, da oggi in libreria), a scrivere il “coccodrillo” più schietto e polemico fu Indro Montanelli, che «non fece piangere nessuno, ma arrossire tanti», tutti quelli che per oltre 40 anni avevano cercato di emarginare il leader missino. Chissà cosa avrebbe potuto fare quest’uomo - si chiedeva Indro - se avesse scelto di militare in un partito antifascista. Ma, fedele com’era alla milizia repubblichina, nemmeno a pensarci! Tuttavia, nessuno come lui «si adattò alla libertà e seppe adattarvi un partito nutrito di rimpianti totalitari e di tentazioni eversive». Chissà cosa avrebbe potuto provocare il terrorismo nero, «se avesse avuto il supporto, anche solo morale, di un partito organizzato». Invece Almirante lo sconfessò, «prima ancora che il Pci sconfessasse il terrorismo rosso», frenò sempre le tentazioni bombarole e golpiste e, convinto che il Msi potesse avere un avvenire solo se si distaccava dal passato, dette vita alla Destra Nazionale, per costruire un partito moderno e addestrarlo alle battaglie parlamentari. Infatti al fascista Almirante piaceva, eccome, quel Parlamento dove poteva cimentarsi al meglio con la sua «oratoria efficace» e i suoi «interventi puntuali, tempestivi, brillanti». Onesto e coraggioso, era «uno di quei pochi politici cui si poteva dare la mano senza paura di sporcarsela». Su questa immagine positiva, Grandi è d’accordo, tanto che chiude il suo libro proprio con le parole di Indro. Ma il percorso biografico che traccia non ha nulla a che fare con l’agiografia. Perché è, piuttosto, un invito a dibattere, con tanto di documenti e testimonianze, su una figura ricca di luci e ombre. E allora va ricordata prima di tutto la coerenza del fascista. Non un “mistico” come quel Giani o quel Pallotta venerati da Montanelli, ma di sicuro un convinto militante. Con la Destra Nazionale indossò il doppiopetto? Sì, ma non rinnegò mai nulla. Meno che mai Salò. Per dirne una, nel primo comizio che tenne (Brescia, 29 giugno 1969) dopo esser tornato alla guida del partito, affermò che i motivi ispiratori della Rsi dovevano essere «richiamati, attualizzati, proiettati in avanti, per la loro validità storica e per la loro permanente validità morale». Se fu sempre fedele alla sua giovinezza in camicia nera, l’Almirante parlamentare e segretario del Msi prese invece le distanze dalle battaglie antisemite combattute sui giornali di Telesio Interlandi. Mea culpa, confessava Almirante, aggiungendo che, comunque, era sempre stato distante dal razzismo biologico di stampo nazista. Vero? Beh, osserva Grandi, che è andato a rileggersi tutti gli articoli razzisti, Almirante non inneggiava certo allo sterminio, ma auspicava una forte mobilitazione politico-culturale contro l’ebraismo. A partire dal mondo del cinema, formidabile macchina di educazione e propaganda. Insomma Almirante, parlando dei propri trascorsi, gettava un bel po’ d’acqua sul suo «interventismo culturale» razzista. Imbarazzi, reticenze e mezze verità che Julius Evola gli rimproverò. Perché, gli faceva osservare il Barone Nero, prendendo le distanze da ogni furore persecutorio, non hai rivendicato la legittimità di un «razzismo dello spirito», volto alla disciplina del carattere, alla formazione interiore e alla difesa della tradizione culturale “romana” contro ogni meticciato? Mica facile, però, precisare e distinguere… Va da sé che il lungo viaggio attraverso l’antifascismo compiuto dal fascista Almirante avrebbe messo a dura prova chiunque altro non avesse avuto la sua tempra. Anche se non mancano gli errori. Ad esempio, non è certo lungimirante quando oppone al ’68 come «rivolta generazionale», potenzialemente al di là della Destra e della Sinistra, un trucido forcaiolismo piccolo-borghese a presidio del sistema. E poi ci sono un po’ di misteri non del tutto chiari: il passaggio dall’antiamericanismo e dal filoarabismo al sostegno, sempre e comunque, a Usa e Israele, le contraddizioni sulla rivolta di Reggio, il golpe Borghese, i rapporti con la destra radicale, il filo (in)diretto con le questure, il viavai dei servizi segreti... Eppure, alla fine e parafrasando Montanelli: ma se non ci fosse stato Almirante?

E poi si ristabilisca la verità sulle pagine nere della storia italica.

VIA RASELLA Un mistero che dura da sessant'anni, scrive Pierangelo Maurizio su “Il Giornale”. E così la Cassazione ha condannato il Giornale per un articolo di undici anni fa che criticava l'attentato di via Rasella compiuto dai Gap, il braccio armato del Partito comunista italiano, il 23 marzo '44, e ha confermato che si tratta di un'«azione di guerra». Siccome mi sono occupato a lungo di quella vicenda - in quel budello di strada che è via Rasella nel centro storico di Roma ci ho passato i mesi, mentalmente gli anni - provo a offrire la mia testimonianza. Nel '96 - allora lavoravo al Tempo - cominciai l'inchiesta. Trovai le foto del corpo di Piero Zuccheretti, un bambino di 13 anni, fatto a pezzi dall'esplosione della bomba dei Gap. Soprattutto rintracciai il fratello gemello di Piero. Mi raccontò la tragedia abbattutasi sulla famiglia e la rabbia per essere stati costretti al silenzio. Riuscii anche ad avere il certificato di morte di Piero Zuccheretti: risultava morto il 23 marzo '44 «per scoppio di bomba». Se non vado errato, solo a quel punto Rosario Bentivegna, cioè colui che accese la miccia nel carrettino da spazzino imbottito di tritolo, e la «letteratura resistenziale» hanno ammesso che a via Rasella «purtroppo morì un bambino, Piero Zuccheretti». Eppure la famiglia aveva pubblicato fin dal giorno dopo l'attentato sul Messaggero il necrologio di Piero. Primo mistero: perché c'è voluto mezzo secolo per ammettere la morte di un bambino (e dargli un nome)?
Secondo mistero. A via Rasella ho ricostruito l'identità di un altro morto. Si chiamava Antonio Chiaretti. E qui le cose si complicano. Già, perché Chiaretti era un partigiano di «Bandiera rossa». Ma la sua memoria, di partigiano caduto in via Rasella, è stata cancellata. Perché? Come mai? Con lui si trovavano alcuni compagni di «Bandiera rossa» che finirono alle Ardeatine. Che ci facevano a via Rasella? Nei loro ricordi gli ultimi sopravvissuti di «Bandiera rossa» che ho incontrato conservavano l'idea che fossero stati attirati in una trappola. E adombravano il sospetto che si volesse far ricadere la responsabilità dell'attentato su quella formazione. Sul giallo di questa presenza a via Rasella né da Bentivegna né dalla vulgata resistenziale è venuto un aiuto a capire di più.
Terzo mistero. Quante furono le vittime, esclusi i 32 soldati del battaglione Bozen, poi diventati 33 e poi oltre 40? La perizia del professor Ascarelli (lo stesso che eseguì le autopsie sui 335 morti delle Fosse Ardeatine) su quei poveri resti è sparita. Se ne trovano tracce nella sentenza del processo Kappler del '48. Parla, senza fare i nomi, di due cadaveri, un adulto e «una bambina» . Forse si confuse con Piero Zuccheretti? Strano. Oppure le vittime civili furono più di due. Come la Cassazione possa affermare che «ora nessuno più mette in discussione che quelle vittime furono soltanto due» è, storicamente, incomprensibile. La Cassazione fa una descrizione precisa dei componenti del Battaglione Bozen, come «di uomini pienamente atti alle armi, di età compresa tra i 26 e i 43 anni». Vero. Ma traccia il ritratto, in un'epoca in cui la migliore gioventù di 18-20 anni veniva maciullata al fronte, dei perfetti riservisti. È vero, avevano un moschetto e tre bombe a mano alla cintola. La Cassazione però dimentica un piccolo particolare. Nel '96 rintracciai un superstite del «Bozen». Mi raccontò che il Comando tedesco, in ragione dello status di Roma come «Città aperta», con teutonica ottusità, li faceva marciare con i moschetti scarichi. Erano montanari altoatesini, che avevano optato per la cittadinanza tedesca ed erano stati forzatamente arruolati. A Roma stavano seguendo un corso di addestramento, al termine sarebbero stati impiegati come piantoni. Certamente non erano destinati a reparti d'assalto o di SS. Via Rasella non è sempre stata un'«azione di guerra», come ha ora ribadito la Corte di Cassazione. A cose ancora calde, nel '48 la sentenza del Tribunale militare di Roma contro il colonnello delle SS Herbert Kappler, condannato all'ergastolo per le Fosse Ardeatine (non per la rappresaglia ma per i condannati in più che aggiunse arbitrariamente), definì l'attentato dei Gap un «atto illegittimo» contrario a tutte le convenzioni internazionali. Tanto che i familiari di tre poveri ebrei finiti a far numero alle Fosse Ardeatine cercarono di portare in giudizio non solo gli esecutori dell'attentato ma anche i mandanti tra cui, a torto, Sandro Pertini. Per motivi incomprensibili, si trovò il modo di incardinare il processo non al Tribunale militare, non in sede penale, ma in sede civile. Nel '51 poche settimane prima che ci fosse il verdetto il governo De Gasperi conferì onorificenze al valor militare agli esecutori materiali di via Rasella (la medaglia d'argento a Rosario Bentivegna è stata consegnata solo nell'83 dall'allora Presidente-partigiano Sandro Pertini). Qualche settimana dopo il Tribunale civile sentenziò, pressoché sulla base di questo assunto: gli attentatori sono stati appena premiati pubblicamente come eroi, dunque nessun atto illegittimo può essere addebitato loro. Da qui nasce il mito intoccabile di via Rasella «azione di guerra». Da allora chiunque abbia osato contestarlo è stato passibile di querela, con condanna più che probabile. Ne fece le spese anche il grande Indro Montanelli, per aver violato in un libro la sacralità del mito; la Rizzoli - a quanto mi è stato detto - fu costretta a mandare al macero 30mila copie. A lungo si è parlato, e ora ci è tornata sopra la Cassazione, dei manifesti che il Comando tedesco avrebbe affisso invitando gli attentatori a consegnarsi per evitare la rappresaglia, e di cui nessuno è mai riuscito a fornire una prova. Tempo perso. Non è questo il problema. Qualche anno dopo in un'intervista a un settimanale Rosario Bentivegna e la moglie Carla Capponi dissero che «se anche avessimo voluto consegnarci, il partito ce lo avrebbe impedito». E questo è il punto. L'ineffabile professor Nicola Tranfaglia, storico, richiesto di un commento alla nuova sentenza della Cassazione, ha dichiarato che «alle Fosse Ardeatine vennero uccisi antifascisti, ebrei, oppositori». Nella più che prevedibile rappresaglia nazista furono sterminati in prevalenza appartenenti a «Giustizia e libertà», a «Bandiera rossa», ai partigiani monarchici, tutte e tre formazioni contrapposte al Pci o sue rivali. Tutti, a cominciare dall'eroico colonnello Montezemolo (zio di Luca), che come capo del «Fronte militare clandestino» aveva vietato gli attentati a Roma proprio per evitare rappresaglie, nei mesi e nelle settimane precedenti erano stati arrestati, il più delle volte sulla base di delazioni provenienti dall'interno della Resistenza. Nei mesi precedenti l'Unità clandestina, diretta da Mario Alicata, fece una guerra spietata a quelli di «Bandiera rossa», formazione in cui c'erano trozchisti, un anarchico, qualche repubblicano e soprattutto numerosi ufficiali «democratici» come Aladino Govoni (trucidato alle Ardeatine), il figlio del poeta Corrado. Il foglio del Pci arrivò a definirli «emissari di Goebbels» uguagliandoli ai nazisti. Poche settimane prima di via Rasella avvertì che se qualcosa di grave fosse accaduto a Roma «sappiamo di chi è la responsabilità». Lo sterminio alle Fosse Ardeatine di «Bandiera rossa» e delle altre formazioni fu un danno collaterale dell'azione di via Rasella? Un caso? Antonello Trombadori, uno dei leader del Pci, che aveva capeggiato i gappisti romani nella prima fase e si trovava nel carcere di Regina Coeli, si salvò grazie al medico del carcere, il dottor Monaco, che lo dichiarò «intrasportabile» perché malato. Ma alle Fosse Ardeatine finirono storpi e anche un ragazzo di 14 anni. Si potrebbe poi parlare - tra le tante ombre di questa vicenda - del segretario romano del Pci che all'epoca era un informatore dell'Ovra la polizia politica di Mussolini. Il commando di via Rasella in parte fu arrestato poche settimane dopo l'attentato (tranne Rosario Bentivegna e Carla Capponi) e salvato grazie alle complicità della Questura. Si potrebbe discutere degli intrecci e del potere che, a partire dalla «geometrica potenza» dispiegata il 23 marzo del '44, i vertici del Partito riuscirono a imporre su una parte dei servizi segreti ex fascisti. Giorgio Amendola, comandante militare dei Gap a Roma che fece da supervisore dell'attentato, si è portato dietro per tutta la vita il cruccio di via Rasella. Rosario Bentivegna continua a tacciare come «imbecilli e faziosi» quelli che mettono in dubbio la vulgata. Ma io lo abbraccerei, Bentivegna. Pur di mantenere intoccabile il mito si è assunto le responsabilità per tutti, compresi storici e pseudo-storici come i giornalisti, trascinando per decenni il peso di quel carretto carico di centinaia di morti. Lo abbraccerei, e gli chiederei solo: che cosa pensi veramente, che cosa hai capito di questa storia? Ma so che è inutile.

Via Rasella, finalmente qualcuno la racconta giusta. Dopo Via Rasella, una piece teatrale racconta i fatti con empatia verso gli esseri umani, scrive Simonetta Sciandivasci su “Il Giornaleoff”. Per andare da Casalbertone a Termini, a piedi, ci vogliono 50 minuti. Le pallottole non fanno curve, corrono dritte. Niente whiskey, c’è solo l’amaro fatto in casa. Quelle che imparano a scrivere a macchina studiano dattilografia. I notai sono ricchi. Vittorio, protagonista di “Dopo Via Rasella”, si fa prendere da tutto questo mentre tenta di raccontare a Giacomo (Antonio Pisu) la rappresaglia seguita all’attentato del GAP in cui rimasero uccisi 33 tedeschi e che costò la vita a 335 italiani. Si fa prendere da visioni e battute. Vuole dire quanto freddo fa, quanto cammina, com’è il suo lavoro. Non pensiamo mai che alla storia sia attorcigliata la vita e a quanto essa sia materialista, pratica. Se immaginiamo Roma, la mattina dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, la pensiamo solenne, piegata. Invece, era solo Roma: fredda, lunga, rumorosa, tutti incazzati. Compreso Vittorio, ferroviere ed ex alpino, reduce dalla guerra in Grecia, che si sveglia dicendosi “oggi non vado a lavoro”, ma poi ci va. E passa al cimitero, perché di parlare con Dio non se la sente, ma con la moglie sì. Vittorio, nella sua narrazione, fa vincere la vita, che è sempre una distrazione dal suo senso, dal percorso collettivo su cui il tempo la incunea. Non appena comincia a capire cosa gli è successo, di essere stato salvato dal rastrellamento e di essere, quindi, un debitore, Pierpaolo De Mejo, che di “Dopo Via Rasella” è autore, sceneggiatore e attore, fa calare il sipario. Una scelta perfetta che rende lo spettacolo, in scena a Roma dal 6 al 30 novembre presso il Teatro Elettra, quello che il suo autore voleva che fosse: il racconto di una vicenda umana, i cui protagonisti (con Vittorio e Giacomo c’è una ragazza, Olivia Cordsen, che ricorda che si sta parlando di guerra, che sono morte persone ed è importante dire quante e come) hanno un ruolo misericordioso: prescindere da bene e male, dalle coscienze dei carnefici. Per Adorno, dopo l’olocausto non sarebbe più stata possibile la poesia. Si ricredette presto, capendo che proprio da poesia e arte l’umanità sarebbe ripartita. Pierpaolo, trentenne poderoso, dimostra che il teatro, che è poesia mobilitata, può essere civile senza essere politico, guardando con gli occhi (non con i manuali) la storia. Se riuscissimo ad affrontarla senza emotività, l’appropriazione delle tragedie per corroborare o distruggere ideologie sarebbe impensabile: basterebbe l’intuito per illuminarci sulla funzionalità degli eventi e riallacciarci all’empatia verso gli altri esseri umani, anche quelli con le responsabilità peggiori. Quando ci riusciremo, potremo riflettere su quanto strana sia stata la scelta dei partigiani, a pochi giorni dalla liberazione di Roma, di attentare alla vita dei tedeschi, ormai in ritirata.

In questo modo non è scandaloso rivalutare la statura degli statisti del tempo che fu.

 “L’unica lotta alla mafia? Quella di Mussolini”. Una passione per i perdenti, gli oscuri, i  presunti cattivi. Un interesse per i lati poco indagati o indagati male di storia, antropologia, geopolitica. Un certo anti-modernismo di fondo che non è mai diventato mentalità reazionaria. E la convinzione che le categorie di destra e sinistra siano un’eredità ormai da dismettere. Questo è Massimo Fini. Di padre toscano e di madre ebrea russa, brillante ediorialista e inviato per il Giorno e l’Europeo. Compagno di scorribande di Vittorio Feltri all’Indipendente, ora editorialista de Il Fatto Quotidiano. Autore di saggi controcorrente. Siamo andati a trovarlo per una chiacchierata su Nerone, che poi è andata per conto suo. Lo spettacolo di Edoardo Sylos Labini, in questi giorni al Manzoni di Milano, prende titolo, argomento, e impostazione proprio da un saggio di Fini: Nerone. Duemila anni di calunnie (Marsilio, pp 267, Euro 12) “Della piéce mi ha colpito la drammaturgia, la scrittura. Era molto difficile fare una sceneggiatura di quest’opera, soprattutto avendo scelto di valorizzare Nerone e Seneca. Nonostante la modernizzazione degli ambienti siamo all’interno di una storia a pieno titolo romana” racconta Fini a ilgiornaleoff.it.

Qual è il significato storico di una figura come Nerone?

«Nerone è stato un principe rinascimentale calato nella storia romana. Con visioni molto ampie in tutti i campi, ma nato con troppi secoli di anticipo. Da un punto di vista politico fa parte di una linea che parte da Catilina, che tenta di tagliare un po’ le unghie ai “fannulloni” (come li chiama lui) del Senato, e di dare una dignità alla plebe».

E’ una costante della storia romana, dalla crisi della Repubblica in poi: chi vuole il comando cerca di bypassare il Senato e di farsi amica la plebe. Populismo?

«Due imperatori, Caligola e Nerone si interessarono alla plebe per riequilibrare le forze. Nerone di più. E infatti fu amatissimo dal popolo che continuò a portare foori a lungo sulla sua tomba, aspettandone il ritorno. E nei decenni successivi ci furono ben tre falsi Nerone che si presentarono come la sua reincarnazione. Come statista Nerone ebbe una visione molto ampia. Volle abolire le imposte indirette ma senza aumentare quelle dirette attraverso una politica keinesiana di grandi lavori pubblici. Non aveva grande voglia di fare l’imperatore: Nerone era un amante delle arti. Ma ebbe il suo peso anche come uomo politico».

Da un certo momento in poi gli imperatori usano la cultura per realizzare il loro progetto politico. Augusto fa scrivere l’Eneide, Nerone usa molto gli spettacoli del circo…

«Ma mentre il tentativo di Augusto è elitario quello di Nerone no: nell’anfiteatro ci andavano tutti. Augusto era una sorta di proto-democristiano: governava per l’aristocrazia. Un personaggio abbastanza spregevole, tutto sommato».

Seneca. Viene citato ancora oggi come saggio universale, mentre sembra di capire che a lei fa abbastanza orrore. Perché?

«E’ il classico personaggio dalla doppia morale. Faceva prestiti a usura in proporzioni pazzesche. Una delle guerre che a Nerone tocca fare nasce perché Seneca richiede ai Britanni il rientro immediato di dieci milioni e mezzo di sesterzi. E anche come pensatore, Caligola lo definisce “sabbia senza calcina”. E’ un ottimo divulgatore dello stoicismo. Ma non va al di là di questo».

Questa sua mania per vedere i lati oscuri dei personaggi positivi, anche nell’attualità. Qualche anno fa stroncò Emma Bonino, che si era introdotta nei reparti femminili di un ospedale afghano con un codazzo di uomini.

«Lì la Bonino era da frustare con le verghe sacre. Bisogna tenere conto della cultura del paese in cui si entra».

Altre buone fame di cui diffida?

«Per esempio quella di Matteo Renzi. Del tutto basata sul virtuale. Non c’è nulla di concreto che la giustifichi».

Renzi recentemente è andato da Barack Obama.

«Obama quando è venuto in Italia l’unica cosa che ha saputo dire era che il Colosseo è più grande di un campo da baseball. Ma sono due poveretti che non contano più nulla di fronte a Cina, Russia e altre potenze emergenti mondiali. Comunque sappiamo com’è la storia…»

E com’è?

«Il solito tributo all’alleato presunto importante. A proposito, in Italia l’unico che ha tentato una politica autonoma è stato Andreotti. Ha fatto una politica di avvicinamento al mondo mediterraneo, anche molto abile e molto coraggiosa. In un altro paese sarebbe stato un grande statista. Nel nostro è stato a metà un grande statista e a metà un delinquente. Perché purtroppo in Italia non può non andare cosi. Il giornale per il quale scrivo insiste sul parallelo Andreotti-belzebù, i contatti con la mafia…»

E non li aveva?

«Ce li avevano tutti. Anche l’integerrimo Ugo La Malfa aveva il suo uomo in Sicilia, Aristide Gunnella, che era un mafioso…»

Bisogna prendere i voti al Sud…

«Certo. E poi, è noto che la mafia assume il potere che assume perché gli americani l’hanno usata come appoggio per lo sbarco in Sicilia. L’unico regime che l’ha davvero combattuta è stato il fascismo. Un regime forte non può accettare che ci sia all’interno un altro regime forte. Che poi è il motivo perché Saddam Hussein detestava Bin Laden, e quest’ultimo in Iraq non c’è mai stato».

E a questo punto parliamo di geopolitica. Quest’Europa che si preoccupa tanto di osteggiare la Russia, mentre infuria la guerra dell’Isis, è legata a una contrapposizione da guerra fredda, ormai vecchia?

«Assolutamente stupida. Avremmo dovuto prendere le distanze dagli Usa col crollo dell’Urss. Fino ad allora il legame aveva avuto un senso. Ma come dice Luciana Littizzetto (a volte i comici dicono meglio) “Ma quand’è che scade il mutuo?”. Oggi sarebbe molto più ragionevole una vicinanza con la Russia, che ci è più vicina geograficamente e culturalmente. La Russia è Europa».

Ma perché l’idea del dialogo con la Russia ce l’ha solo gente di destra, anche estrema, mentre la sinistra è in blocco filoamericana? Non le sembra un paradosso?

«La destra (parliamo in generale, banalizzando) ha una concezione individualista, è più libera in certe cose. La sinistra sconta ancora il materialismo storico, è collettivista, non riesce a staccarsi dalle sue categorie(tte). E poi chi governa (al momento la sinistra) pensa solo al qui e ora. E vengono fuori disastri, come il fatto che gli Usa ci abbiamo trascinati nella guerra in Libia. Totalmente autolesionista. O nella guerra alla Serbia. Ce la siamo presa con un paese cristiano ortodosso. Attaccare questi per favorire la componente musulmana nei Balcani non è stata una cosa intelligente. Ora in Kossovo e in Albania sono cresciute cellule di radicalismo islamico che ci possono colpire in ogni momento».

Lei si definisce un “onesto pagano”. Non è certo un cattolico. Le domando: c’è un fondamentalismo laico? Ci sono i Mullah del laicismo?

«E come no? L’altro giorno ho pubblicato con gran dispetto del mio direttore una frase di un leader della rivoluzione francese come Louis Antoine de Sant Just: “La verità è una sola, può essere ammesso solo il partito che si riconosce in questa verità. Tutti gli altri devono essere soppressi”. Il gene del totalitarismo laico c’è già. E oggi si è fatto carne. E sta in questa convinzione che il mondo occidentale sia migliore e abbia il dovere di imporre i propri valori agli altri mondi. Lo scontro che c’è adesso in Iraq è lo scontro tra due totalitarismi, laico e religioso».

E questo fondamentalismo laico esiste anche in Occidente? Per esempio col controllo del linguaggio, completamente asservito alla correttezza politica? Non si può più dire “frocio”.

«Non si può più dire “finocchio”. Sono infinite le cose che non puoi più dire in Occidente. E’ una cosa orwelliana, è un aspetto del totalitarismo più complessivo. Questa società di fatto (e credo di poterlo dire) non tollera idee che siano sovversive. E’ un sistema soft di totalitarismo. Non si può parlare di cos’è veramente la donna oggi, per esempio».

Ecco, le donne. Lei ha fama di essere un grande cultore della femmina.

«Della femmina, non della donna».

Che vuol dire?

«Che non amo la donna. Amo la femmina. Conosco donne che arrivano a 36 38 anni e si accorgono che è tardi per avere dei figli, e rimpiangono di non averne avuti. Si guardi in giro. Non si vedono che cani, e niente bambini. Non esiste più la parte materna-accuditiva, che è pure importante. E’ anche vero che contemporaneamente il maschio non fa più il maschio».

E questo dove si vede?

«L’altro giorno ero al bar. Passa una bella donna, vistosa. Un operaio le fa un fischio. Lei lo fulmina con lo sguardo. Poi, quando passa davanti a me, dico alla ragazza: “signora, rimpiangerà il giorno in cui non le faranno più questi fischi”. La sovrastruttura donna ha molto compromesso la struttura femmina».

Bene. Adesso la frittata d’Occidente è fatta. Cosa fare? Cosa consiglierebbe a un giovane per non restare incastrato sotto lo spirito del tempo?

«C’è chi cerca di scappare. Chi se ne va in una cascina. C’è chi si arruola nei fondamentalisti. Uno scrittore può cercare di svegliare le coscienze. Ma il pessimismo non permette di indicare una via d’uscita. Ma non dipende da noi. Questo mondo, come tutti i mondi totalitari imploderà su se stesso».

LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE. L’ALTRA FORMA DI CENSURA: IL POLITICAMENTE CORRETTO.

A proposito della foto del ministro Marianna Madia pubblicata su "Chi" con il titolo "con il gelato ci sa fare". c'è chi scrive Madia-Signorini: giù le mani dal pompino! Scrive Fulvio Abbate su “Il Garantista”. Giù le mani dal pompino! Ecco, di fronte alla querelle Signorini-Madia, volendo essere epici, ma ancora di più sinceri, onesti, popolari, bisognerebbe dire subito così, affermando questa semplice verità, quasi un bisogno di liberazione dalla falsità, perfino dall’ipocrisia virtuosa da educandato o perfino terrazza di sinistra. E ancora di più, occorrerebbe aggiungere abbasso ogni forma di allusione, assodato che alludere in certi casi, quando c’è di mezzo il piacere, il corpo, la realtà genitale, cioè la fica e il cazzo, significa innanzitutto non consentire a un concetto di liberamente volare, quasi che dovessimo vergognarci d’aver semplicemente chiamato una certa cosa, un certo atto, con il suo nome proprio. Dunque, così come una rosa è una rosa, una fellatio è una fellatio, un pompino è un pompino, un cazzo, una fica, ecc…Per questa ragione, sebbene ne abbiamo appena pronunciato la parola, talvolta è davvero da ipocriti dire fellatio, quasi a voler nascondere dietro la grazia remota e letteraria di un affresco pompeiano la realtà delle cose, la realtà concreta del pompino, come atto di piacere e d’amore. Di voglia. Punto. Al di là di chi lo pratica e dei sessi implicati, cioè in questione. Volendo restare in ambito storico, c’è stato un tempo in cui molti infelici, forti di una cultura da bordello, erano assolutamente convinti che quella del pompino fosse una pratica “degradante”, non a caso le prostitute, attribuendo loro un tratto razzista, erano dette e ritenute anche “pompinare”, quasi come un titolo-marchio di felice e necessaria infamia, un Collare della Santissima Annunziata ulteriore, lì a garantire le loro prerogative, la loro abiezione quasi, e tuttavia doverosa. Menzogne, tutte bugie, tutti e tutte, uomini e donne, amano i pompini: farli e averli fatti, riceverli e offrirli. Tutte sciocchezze da antichi tabù da sottoscala o refettorio cattolico concentrazionario sessuofobico che tutto ciò non sia vero. Per questa ragione le allusioni alle foto della ministra Marianna Madia che lecca un cono gelato sono innanzitutto desolanti, così come lo è altrettanto, se non di più, l’idea d’essere in presenza di una lesa maestà per il fatto stesso di avere associato quel gelato all’atto sessuale di cui sopra. Anche il manifesto di “Lolita” con la ragazza Sue Lyon che, armata di occhiali a forma di cuore, tiene tra le labbra un lecca-lecca alludeva, e tuttavia quelle immagini nella loro allusione sembravano esser lì a tracciare un ideale arcobaleno di piacere nel cielo della consapevolezza sessuale. Fa davvero specie che i volti sfigurati dei bambini morti in guerra non facciano suonare la stessa sirena dello sdegno pieno, così come invece accade con il pensiero stesso di un coito orale. Ripeto: nulla è più penoso della cultura rionale dell’allusione, dell’ammicco, del doppio senso di cui si è nutrito l’avanspettacolo del peggiore casino per decenni, forte di canzoni come “Ai romani piaceva la biga, più dinamica della lettiga” o del poema di Ifigonia e delle sue ancelle che “nell’arte di fare pompini battevano le troie di tutti i casini”, e giù con le risate, e giù a ridere ancora con la mano sul “pacco” – ma è ancor più ripugnante pensare che si debba rigorosamente arrossire o magari provare sdegno davanti a un qualcosa che appartiene all’immaginario desiderante, cioè del piacere, dunque della condivisione, poiché in nome di un sacro codice ipocrita si è ritenuto che si tratti di cose indicibili. Anni fa, ragionando nero su bianco sulla sparizione del cosiddetto 69 su un quotidiano, mi ritrovavo a constatare che quel genere di doppio scambio era pressoché svanito dal palmarès delle predilezioni condivise, al contrario, volate via le vecchie bugie sessuofobiche della cultura da bordello, la fellatio – cioè il pompino o bocchino o pompa – e chiamarli qui con il loro nome è innanzitutto un fatto politico, liberatorio, viveva invece intatto e acclamato sull’ideale tabellone luminoso delle predilezioni, dei desideri, delle voglie, per questa ragione non c’è davvero scandalo nelle immagini di Marianna Madia felice del suo gelato da leccare, così come non c’è scandalo nell’affiancare quelle stesse foto al già citato manifesto del film di Kubrick. Giù le mani!

Il mondo è una community sui social network. Nessuno comunica più fisicamente. L’anonimato sui social ci protegge. Fisicamente non ci rimane che comunicare a gesti, oppure conformarsi al politicamente corretto di sinistra o al bacchettone bigotto di destra.

Riportiamo l'opinione del Dr Antonio Giangrande, sociologo storico e noto saggista, autore della collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo".

La virtualizzazione della società si fa sentire in molti aspetti della nostra vita quotidiana. Uno degli ambiti in cui è più presente, e spesso ha effetti più limitanti, è quello della comunicazione fra mezzi d’informazione e pubblico, fra istituzioni e cittadini, fra cittadini e altri cittadini.

Era della comunicazione dove non comunichiamo. Questo paradosso la dice lunga e ci avverte che non si ascolta più, si parla e basta.

Leggiamo sui giornali o ascoltiamo in televisione, morto per overdose…, si uccide perché va male a scuola, bambino di tre anni ucciso in circostanze misteriose,…, figli che uccidono i genitori, madri che uccidono i figli e quel che è incredibile è che le persone si stanno abituando ai fatti negativi. Divenendo negativi essi stessi. Abitudine che potrebbe essere la punta di un iceberg, dove sotto c’è un vuoto di valori causato anche da una generazione che è riuscita a mettere in discussione tutto e il contrario di tutto.

Sono andati in crisi le istituzioni, la chiesa, la famiglia, la scuola, il mondo del lavoro e siamo senza un collante per regole e certezze e la community virtuale è la nostra isola felice dove sfogarci.

Ci indaffariamo a cercare amici sui social e ad aumentarne il numero sui nostri profili per avere visibilità e proseliti, per poi scoprire che proprio amici non sono. Ostilità od indifferenza sono le loro caratteristiche. Le nostre caratteristiche, perchè loro siamo noi.

Recentemente, ci sono stati diversi casi di chiusura di account legati a minacce ed offese sui principali social network. Non ultimo, il direttore del TG di La7, Enrico Mentana, che ha deciso di cancellare il proprio profilo Twitter a causa di continui insulti. Personaggi noti, del mondo dello spettacolo e non, denunciano quasi quotidianamente questo fenomeno dilagante. Insulti gratuiti, minacce, gravi offese e istigazioni alla violenza di ogni genere. C'è un po' di tutto nei social network più famosi. Chiunque, sui social network, inserisce ciò che vuole: considerazioni su politica, personaggi dello spettacolo, link divertenti, video divertenti, fotografie, aggiornamenti di stato….

Questo popolo social ciarlante ed imperito, spesso, vuol far politica......

Il paradosso è che il potere si difende punendo questi comportamenti, con l'intento di renderci tutti conformisti.

Conformista come già cantò Giorgio Gaber

"Io sono un uomo nuovo, talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista.

Sono sensibile e altruista, orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista.

Da un po' di tempo ambientalista, qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo, per carità lo dico in senso letterale.

Sono progressista, al tempo stesso liberista, antirazzista e sono molto buono, sono animalista.

Non sono più assistenzialista, ultimamente sono un po' controcorrente, son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta.

Il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa, è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani e quando ha voglia di pensare, pensa per sentito dire.

Forse da buon opportunista, si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza.

Il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza, è un animale assai comune che vive di parole da conversazione.

Di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori, il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo e farsi largo galleggiando.

Il conformista, il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario, sono femminista

Son disponibile e ottimista, europeista, non alzo mai la voce, sono pacifista.

Ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone.

Il conformista aerostato evoluto, che è gonfiato dall'informazione, è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie, poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato.

Vive e questo già gli basta e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi.

Il conformista, il conformista.

Io sono un uomo nuovo, talmente nuovo che si vede a prima vista sono il nuovo conformista."

Non so più dove girarmi. Giornali on line e non, social network, radio, tv…Non c’è scampo: il buonismo dilaga ovunque. Un buonismo fintissimo: quello politicamente corretto.

Perché oggi, in Italia, se critichi qualsivoglia malvivente sei razzista (se è straniero). 

Sei intollerante (se è italiano). 

Sei sessista (se è un uomo e tu una donna, e viceversa). 

Sei cattivo (se è un essere umano). 

Dobbiamo essere tutti bravi, altruisti e generosi. Comprensivi, giusti e dalla mente aperta. Certo che dobbiamo! Ma non significa certo che dobbiamo anche giustificare tutto e tutti o conformaci alla cultura mediatica che va per la maggiore.

Potremmo esprimere il nostro pensiero con un linguaggio che nel gergo quotidiano è consentito, mentre se diffuso a mezzo stampa è definito scorretto?

Potremmo esprimere un'opinione, senza essere tacciati come discriminatori?

La discriminazione consiste in un trattamento non paritario attuato nei confronti di un individuo o un gruppo di individui in virtù della loro appartenenza ad una particolare categoria. Alcuni esempi di discriminazione possono essere il razzismo, il sessismo, lo specismo e l'omofobia.

L'espressione politicamente corretto (traduzione letterale dell'inglese politically correct) designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di estrema attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona.

Insomma, politicamente corretto significa ipocrisia.

"L'ipocrisia è il linguaggio proprio della corruzione". Lo afferma Papa Francesco, nell'omelia durante la messa mattutina celebrata nella cappella della Domus Santa Marta in Vaticano, presenti fra gli altri i vertici della Rai, con la presidente Anna Maria Tarantola e il direttore generale Luigi Gubitosi. "L'ipocrisia - sottolinea il Papa, facendo riferimento alla pagina del Vangelo sulla domanda dei farisei sulla liceità del tributo da dare a Cesare - non è un linguaggio di verità, perché la verità mai va da sola, mai, ma va sempre con l'amore. Non c'è verità senza amore, l'amore è la prima verità e se non c'è amore non c'è verità". I farisei, gli ipocriti, "vogliono invece una verità schiava dei propri interessi; l'amore che c'è è quello di se stessi e a se stessi: quell'idolatria narcisista li porta a tradire gli altri, li porta agli abusi di fiducia". Francesco punta il dito sui falsi amici che "sembrano tanto amabili nel linguaggio", sui "corrotti che con questo linguaggio cercano di indebolirci". Infatti, "gli ipocriti che cominciano con la lusinga, con l'adulazione, finiscono cercando falsi testimoni per accusare chi avevano lusingato. Il nostro linguaggio - conclude il Papa - sia il parlare dei semplici, con anima di bambini, il parlare in verità dall'amore".

Il politicamente scorretto è tale, però, ad intermittenza.

Sto pensando agli epiteti che sono stati lanciati ad Andreotti sulla sua scoliosi, a Berlusconi o Brunetta per la loro altezza, Alfano per il suo viso... etc. La scusa sciocca della satira non basta: anche al sesso maschile (o femminile purchè del campo avverso) vengono riservate considerazioni sgradevoli. Vogliamo fare una carrellata che non ha scandalizzato stranamente nessuno?

"Condoleezza [Rice], con quelle guancette da impunita, è la leader maxima delle donne-scimmia" (Lidia Ravera, L'Unità, 25 ottobre 2004).

"Di sicuro [il Ministro Gelmini] non è un essere umano. Dovremmo chiamare i professori di chimica per capire che cos’è" (Andrea Camilleri).

"Se dopo De Nicola, Pertini e Fanfani, ci ritroviamo con Schifani, sono terrorizzato dal dopo: le uniche forme residue di vita sono il lombrico e la muffa. Anzi, la muffa no perché è molto utile" (Marco Travaglio).

Appari politicamente scorretto, anche se non lo sei? Scatta l'invettiva, secondo l'accusa dei giornalisti, anche per frasi o comportamenti innocenti.

L'invettiva razzista. Il caso forse più noto tra quelli registrati, però, riguarda la televisione. Si tratta della vicenda che ebbe per protagonista Paolo Bonolis il quale, nel corso della trasmissione di Canale 5 “Avanti un altro” ebbe la infelice idea di travestirsi da domestico filippino e di esibirsi in una gag che scatenò la reazione indignata della comunità filippina in Italia, stufa di essere considerata alla stregua di un'associazione di camerieri e di donne di servizio. Romulo Sabio Salvador, consigliere aggiunto di Roma Capitale, a nome dei suoi connazionali scrisse una lettera indignata a Mediaset, all'Agcom e, appunto, all'Unar. E proprio a proposito di filippini. Il presidente della Sampdoria parlando con Massimo Moratii, ex presidente dell’Inter, ebbe a dire a proposito di Thohir, il suo successore all’Inter: “caccia quel filippino”, giustificandosi poi con Valerio Staffelli su Striscia La Notizia dicendo “l’ho saputo dalla televisione che era indonesiano….”.  Carlo Tavecchio, presidente FIGC, ha dichiarato: «Le questioni di accoglienza sono un conto, le questioni del gioco sono un altro. L’Inghilterra individua i soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare. Noi, invece, diciamo che Opti Poba - dice inventando un nome - è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio. E va bene così. In Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree». Tavecchio è stato punito dai media, dalla UEFA e dalla FIFA.

L'invettiva omofoba. Eziolino Capuano, allenatore dell’Arezzo (Lega Pro), «Prendere gol in superiorità numerica al 90’ è vergognoso, non lo accetto», ha detto a Radio Groove dopo la sconfitta di Alessandria degli amaranto, e prima di esplodere: «Se avessero perso in maniera diversa non avrei detto nulla, però in campo le checche non vanno bene. In campo devono andare gli uomini con le palle e non le checche» Capuano è stato crocifisso dai giornali. Ormai la lobby gay in Parlamento non solo mira ad avere un matrimonio tutto loro ed avere figli non loro, ma sulla comunicazione comune vieta ogni parola riferita alla loro condizione sessuale. Più per gli uomini. Ormai è vietato dire quelli dell'altra sponda, quelli dell'altra parrocchia e poi frocio, ricchione, finocchio, culo, culattone, culano, culatino, bucaiolo, buso o busone, bardassa o bardascia, buggerone, checca, cupio, garrusu, invertito, gay, urningo o uraniano, femminello, mezzafemmina, pederasta, sodomita, invertito, pigliainculo.

L'invettiva sessista. Il settimanale diretto da Alfonso Signorini pubblica quattro fotogrammi rubati del ministro mentre mangia un gelato con il titolo “ci sa fare con il gelato” e l'Ordine dei giornalisti apre un procedimento. "Uno schifo". "Qualcosa di disgustoso". "Spazzatura". L'indignazione, a dir poco, esplode in rete insieme a disgusto e incredulità per quattro fotogrammi rubati al ministro Marianna Madia, e messi in doppia pagina su "Chi" con un titolo volgare e ammiccante. I tweet e i post su Facebook sono migliaia. Due facciate che vengono "difese" proprio dal direttore di Chi, Alfonso Signorini. che twitta: "Calippo si e gelato no?", con l'ashtag #duepesiduemisure. Il riferimento è alle foto di Francesca Pascale apparse nel febbraio 2013. Il riferimento non è puramente casuale, anzi è chiaro e diretto al servizio pubblicato tempo fa da Oggi, gruppo Rcs, in cui venivano riproposte vecchie immagini di Francesca Pascale che mangiava un Calippo nel corso di una clip per una televisione locale. Il direttore di Chi poi, intervistato da Giorgio Mulè alla presentazione del suo libro "L’altra parte di me" nella tappa catanese del tour Panorama d’Italia, ha spiegato meglio il suo pensiero: "Chi oggi s’indigna per il titolo che ho fatto alle foto della Madia che mangia il cono gelato ha marciato per anni sul calippo della Pascale. Io aderisco a una scuola di pensiero secondo cui la malizia sta negli occhi di chi guarda e non di chi la fa, accusare me di sessismo o di persecuzione a sfondo sessuale è assurdo, per non parlare di certe campagne davvero infamanti, per usare la stessa parola che usano oggi contro di me, sulle giarrettiere della Brambilla o il calendario della Carfagna".

L'invettiva pedofila. Del resto oggi tutto ha il sapore di proibito, ma anche solo pensare di essere amorevole con i figli, ti conduce subito sulla sponda più terribile: quella dei genitori oggetto di riprovazione. È una categoria semplice, assoluta e falcidiante. Ha il potere di bloccare l'azione sul nascere, perché influisce direttamente sul pensiero: è la forza del politicamente corretto, che rovina perfino i momenti di divertimento o di affetto. È il motivo per cui non si dà più un bacio innocente o una carezza, agli adulti, così come ai bambini: passi immediatamente per un maniaco o per un pedofilo. Ecco il motivo per cui i bambini non giocano più nei cortili, non prendono più un ascensore da soli, non possono giocare a palla in riva al mare, mentre è così difficile fermare i piccoli sbandati o i delinquenti, quelli veri. Ed è molto più facile fare sentire un genitore come un criminale, che fare divertire un bambino.

L'invettiva giudiziaria. Le lacrime e la rabbia lasciano il posto alla determinazione. «Mi devono uccidere per fermarmi», dice Ilaria Cucchi all’indomani della sentenza della corte di appello di Roma che vede tutti assolti gli imputati per la morte del fratello Stefano, deceduto il 22 ottobre di cinque anni fa dopo una settimana di ricovero in ospedale. Una vicenda che ha provocato uno strascico di polemiche su cui interviene anche il presidente della Corte d’Appello di Roma, Luciano Panzani: «Basta gogna mediatica, non c’erano prove».

L'invettiva specista. Lo specismo è l'attribuzione di un diverso valore e status morale agli individui a seconda della loro specie di appartenenza. Il termine fu coniato nel 1970 dallo psicologo britannico Richard Ryder, per calco da razzismo e sessismo, con l'intento di descrivere in particolare gli atteggiamenti umani che coinvolgono una discriminazione degli individui animali non umani, inclusa la concezione degli animali come oggetti o proprietà. Il termine viene usato comunemente nel contesto della letteratura sui diritti animali, per esempio nelle opere di Peter Singer e Tom Regan. Succede spesso di leggere sui giornali o di vedere video su youtube di incredibili salvataggi, per mano umana,  di animali (specialmente cani) in difficoltà. Quello che però lascia perplessi è leggere di un intervento simile proprio in un luogo come quello di Carloforte, noto per la tradizionale mattanza dei tonni. Questo salvataggio, se ci si sofferma un attimo a pensare, ha davvero dell’incredibile. Uomini che si uniscono e si impegnano con tutte le loro energie per salvare una vita da annegamento certo mentre stanno per calare le reti che spezzeranno le vite, attraverso una lenta e dolorosa sofferenza, di centinaia e centinaia di pesci. Purtroppo questo è lo specismo, che quotidianamente e ovunque nel mondo continua a dilagare ma che dobbiamo cercare di abbattere. Come per l'allevamento Green Hill, ovvero: la preoccupazione riguarda solo i cani di Green Hill, non c'è nessuna condanna delle inenarrabili crudeltà perpetrate in laboratorio su altri animali quali topi, ratti o maiali.

Era della comunicazione dove non comunichiamo. Non si ascolta più, si parla e basta....

In conclusione. Come si può non essere politicamente corretti e conformisti? Basta essere corretti e veritieri nell’espressione del pensiero. Basterebbe abbeverarsi dal sapere dei buoni maestri senza tema di smentita, pensare un attimo a quello che si dice o si scrive e non vedere cose brutte in cose estremamente innocenti!

L'ipocrisia dei "no Cav". Giornalismo malato da  una  guerra  civile. L’odio nei confronti di Berlusconi trasuda sulla stampa di sinistra che rivendica anche la propria egemonia culturale, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Su «Carta straccia» Giampaolo Pansa offre di giornali e giornalisti di oggi uno spettacolo spesso grottesco, ma più spesso desolante. Che il giornalismo italiano sia diverso da quello degli altri Paesi è un fatto storico: per lo più scritto con pretese letterarie e molta retorica supponente si sta trasformando sempre più in una brodaglia di violenza e imprecisione che lascia spesso sbalorditi i colleghi stranieri: «Davvero potete scrivere usando il condizionale senza prove? Da noi ci sbatterebbero in galera…». A nessuno, mai, nel Regno Unito o negli Stati Uniti, in Francia o in Svizzera, ma neanche in Polonia o in Romania, verrebbe in mente di inserire (come è accaduto in questi giorni) nell’articolo di un cattedratico un lungo brano ignoto all’autore ma spacciato come autentico e difendere poi un tale arbitrio come libertà d’informazione. Non sono di quelli che esaltano il giornalismo «anglosassone» immaginato come asettico e impersonale, ma ho un grande rispetto per il giornalismo americano e britannico e per il modo accurato in cui trattano i fatti anche quando le testate si schierano politicamente: del resto in quei Paesi la pagina dei commenti è di competenza dell’editore, perché il direttore si deve preoccupare soltanto delle notizie e curare che siano complete e corredate dalle fonti.
Quel giornalismo, che non è certo esente da difetti, ha però prodotto antidoti e anticorpi che ancora funzionano bene, attraverso scandali e processi sulla cattiva informazione. Walter Lippmann, che influenzò il presidente Wilson alla fine della Grande Guerra e che morì criticando Lyndon Johnson per la politica bellicosa nel Vietnam, creò la parola «stereotipo» – oggi si direbbe «politicamente corretto» – per indicare il pericolo delle opinioni automatiche e moralmente prefabbricate. Fu lui del resto a dire che «la salute della società dipende dalla qualità delle informazioni che riceve» affermazione non contestabile ma priva di riscontro in Italia. Lippmann ricordava anche che la notizia e la verità non sono la stessa cosa e questo perché l’informazione e la comunicazione non sono la stessa cosa: spacciarle l’una per l’altra produce una forma di giornalismo che si vieta di pensare, anticipando così, come ha scritto Marco Bardazzi su «Ttl», il monito di Hannah Arendt: «quando gli uomini rinunciano a dire quel che pensano, spesso smettono anche di pensare». Da noi, peccato, niente Hannah Arendt e niente Walter Lippmann, ma tutt’al più un composto Umberto Eco che nel suo «Costruire il nemico» riconosce che Julien Assange, la primula rossa di WikiLeaks, ha finalmente certificato che il re è nudo ponendo la stampa di fronte alla responsabilità di decidere, senza ricorrere a Internet, che cosa sia reale e meriti di essere stampato. Di «Carta Straccia» condivido il giudizio positivo su Antonio Padellaro direttore del Fatto Quotidiano, e su Marco Travaglio come fenomeno di straordinaria efficacia e qualità, a prescindere dalle differenze di opinione. Del resto è stato proprio il direttore del Fatto Quotidiano a dire a Laura Cesaretti, sul Giornale del 1° novembre 2010, che «la sinistra ha una grande suscettibilità nei confronti della libertà di stampa. Una suscettibilità che può raggiungere livelli insopportabili, in-sop-por-ta-bi-li!». E lo stesso Padellaro, ricorda Pansa, considerò la campagna sulla casa di Montecarlo un’operazione giornalistica efficace e ineccepibile. Anche a me la nascita e il successo del Fatto hanno entusiasmato al di là della linea politica, perché quel successo dimostra che esistono segmenti di opinione pubblica in attesa di essere rappresentati sia sui giornali che in politica. Ma ecco che mi imbatto, fra i documenti di «Carta straccia» in alcune parole di Marco Travaglio che ignoravo, pubblicate sul blog di Beppe Grillo e che, sorpresa, esaltano e rivendicano il diritto all’odio. Così: «Chi l’ha detto che non posso odiare un politico? Chi l’ha detto che non posso augurarmi che il Creatore se lo porti via al più presto? Non esiste il reato di odio». Che cosa rispondere? Che è vero, il reato di odio non esiste sui codici, ma dovrebbe esistere nelle coscienze. Oggi l’odio trasuda dalle pagine stampate di entrambi i fronti, ma con una sperimentata prevalenza dell’odio di sinistra, che è più antico, raffinato e velenoso. Sul Giornale io stesso alcuni anni fa denunciai la categoria degli «odiatori professionisti», come nuova mutazione giornalistica: gente che non attacca soltanto con le notizie, ma che incita all’odio e, di conseguenza, alle sue applicazioni pratiche. Una volta rivendicato il diritto di esprimere l’odio, è difficile prendere le distanze da atti di violenza come il famoso duomo sulla faccia di Berlusconi, a causa del quale Sabina Guzzanti è stata violentemente attaccata avendo lei, antiberlusconiana, espresso disagio alla vista del sangue. Ma la pratica dell’odio e del disprezzo non è una novità fra giornalisti e intellettuali: ricordo che quando da giornalista certificavo che Francesco Cossiga non era affatto matto (come voleva invece il comitato degli intellettuali che seguivano le indicazioni di Eugenio Scalfari) amici e colleghi cominciarono a cambiare marciapiede quando mi vedevano. Ricordo Tullio de Mauro, il celebre linguista, che mi sibilò: «Ma che cazzo scrivi Paolo? Ma non ti vergogni?». E non mi rivolse più la parola. Il giornalismo è da molto tempo al limite della guerra civile latente, sicché berlusconismo e antiberlusconismo sono diventate due categorie del cattivo spirito dei tempi, uno Zeitgeist al limite della malattia mentale. Ma, ancora una volta, non si tratta di una novità dovuta alla discesa in campo dell’uomo descritto come il «Grand Villain», o «Caimano» perché prima di Berlusconi esistevano altri «grand villain» contro i quali la stessa macchina da guerra funzionava attaccando Bettino Craxi e Andreotti, e prima ancora Forlani e Fanfani senza escludere Aldo Moro. Anche allora, con appena una misura di maggior pudore, il clima era quello di una guerra civile giornalistica agli ordini di quella politica è sempre stata coltivata con genialità da personalità della sinistra estremamente colte e raffinate anche se crudeli, come Palmiro Togliatti (sotto lo pseudonimo di «Roderigo de Castilla») o geniali e letterarie come «Fortebraccio» (Mario Melloni). La sinistra nata dai lombi del Pci si presenta poi sempre come un unico campione etico rivendicando di conseguenza una egemonia culturale che interviene alla fine sulle carriere, i finanziamenti, i premi, i festival, le legittimazioni e le delegittimazioni. E questo è un mestiere che il giornalismo di destra, per sua colpa o per un suo limite genetico, non ha mai saputo o voluto correggere, limitandosi a protestare in maniera inconcludente e anche un po’ isterica. L’Italia che Pansa descrive in «Carta Straccia» è un caso grave ma non unico perché l’egemonismo giornalistico di sinistra è universale dagli Stati Uniti alla Francia dove il politico italiano di sinistra Dario Franceschini può veder pubblicato il suo ottimo romanzo presso un editore come Gallimard, cosa che difficilmente potrebbe accadere ad un politico di centrodestra di pari valore. E così nella letteratura: se Gabriel Garcia Marquez, ritenuto di sinistra e amico personale di Fidel Castro, ebbe il Nobel per la letteratura nel 1982, il vecchio e cieco Jorge Luis Borges, accusato di essere un reazionario aspettò invano per tutta la vita. E infatti ha fatto discutere l’anomalia grazie alla quale il premio Nobel sia andato nello scorso ottobre a Mario Vargas Llosa, considerato di destra ma nato a sinistra, autore col figlio anche di un folgorante «Manual del Perfecto idiota Latino-Americano» che ha spellato il giornalismo sinistrese del suo mondo. In Italia, Paese da cui scaturiscono o sono scaturiti cattolicesimo, fascismo e il più influente partito comunista occidentale, la sostituzione del giornalismo con la propaganda è stata una strada obbligata: soltanto da noi si poteva inventare l’espressione «linea editoriale» per giustificare nel servizio pubblico televisivo l’uso di un linguaggio di propaganda, la censura e l’eccesso, sia di sinistra che di destra. La «verità» stessa, come premessa dell’informazione corretta e completa, in Italia è relegata al rango di «arroganza». Ed è questo il motivo per cui, senza dover aspettare Berlusconi, i politici italiani hanno sempre avuto nei confronti del giornalismo un atteggiamento padronale creando il ridicolo fenomeno del politico «di riferimento», padrino-padrone che promette carriere e direzioni nei telegiornali «d’area». Ci fu un tempo in cui Giampaolo Pansa ed io chiudevamo di notte la seconda edizione di Repubblica in tipografia. Una notte arrivarono in redazione, piangendo disperati, i parenti di alcune persone morte avvelenate. Li ascoltammo e Pansa disse: «Avete ragione, è una tragedia immane, guardate qui: “familia” nel titolo senza la “g”! Santo cielo, che catastrofe…». Mentre i parenti delle vittime se ne andavano stizziti per la nostra insensibilità ci precipitammo a correggere il titolo. Un episodio minimo, che però Pansa e io ricordiamo ogni volta che ci parliamo perché contiene forse la misura dell’aneddoto buffo, del mestiere minore, la corsa in tipografia, i casi della vita, quel modo semplice e casuale che costituiva la cifra del nostro mestiere. Eravamo in fondo dei proletari della notizia e appartenevamo a una generazione che si poteva permettere un giornalismo tutt’altro che neutrale, anzi schierato e combattivo, ma usando sempre e soltanto rigorosamente i fatti.

Giampaolo non ha nessuna intenzione di accedere - come molti suoi coetanei - a una vecchiaia omaggiata e sacrale, scrive Luca Telese su “Il Fatto Quotidiano. Non aspira a entrare nel novero dei vecchi saggi che invecchiano bene, centellinano il talento e le esternazioni, amano farsi benvolere da tutti, si risparmiano molto e si fanno celebrare di più. Nel suo ultimo libro, per esempio, Pansa spara su Fabio Fazio, su Ezio Mauro, su Nichi Vendola, su Michele Santoro sul nemico (di sempre!) Giorgio Bocca e tanti altri (ma, stranamente, parla bene di questo quotidiano). E risparmia la destra. Il fatto è che Giampaolo Pansa ha scritto un altro libro sul giornalismo (si intitola Carta Straccia), e ha - diciamo la verità - un caratteraccio: gli piace che nella sua scrittura si indovini il ghigno dei cattivi del cinema francese in bianco e nero, un Jean Gabin marsigliese tutto sangue e inchiostro. In questa parte della sua vita, per dire, Pansa ama farsi nemici, tirare freccette al curaro su alcuni bersagli privilegiati, fra cui svetta Repubblica, il quotidiano che lo ha consacrato. Non è elegante, ma lui se ne frega. Giampaolo è romantico, passionale, viscerale vendicativo, ma anche cameratesco: ora è a Libero, e "i due mastini" della coppia di direzione si trovano effigiati in un capitolo celebrativo che li mostra un po' canaglie, ma simpaticissimi. Pansa, temo, ci seppellirà tutti con uno sberleffo o con una scudisciata a mezzo stampa. Giampaolo, in fondo - se passi ai raggi X la sua bibliografia di ben 45 tomi - ha scritto praticamente trenta libri su due soli argomenti: il giornalismo (e la propria vita); e poi la Resistenza e il fascismo (prima e dopo "il ciclo dei vinti"), su cui ha cambiato clamorosamente idee. Non lo nega, anzi. Ma l'amore ne esaltava la Resistenza e l'eroico partigiano "Infuriato", il ciclo dei vinti è dedicato alla demolizione della Resistenza (prima "quella comunista", poi tutte "le altre"). Insomma, questi libri Pansa li ha scritti raccontando sempre la stessa storia (e talvolta persino gli stessi aneddoti) ma virandoli in maniera diversa, in nome di un revisionismo esistenziale che è uno dei motivi per cui una sterminata tribù di lettori almanacca i suoi libri. Meravigliosa contraddizione: un titolo dispregiativo per officiare il culto della stampa. Anche in questo libro, per esempio, c'è la storia del suo binocolo Zeiss, c'è la redazione de La Stampa conosciuta da ragazzo, e raccontata anche ne Il Revisionista (2009), ma pure nel ''Romanzo di un ingenuo'' (2000) che è stata la sua prima autobiografia. C'è di nuovo l'intervista a Enrico Berlinguer che è stata già raccontata in ''Ottobre addio'' (1982) e - ancora - ne Il Revisionista (2009). E così c'è da esser certi che arriveranno anche un altro libro e un altro ritorno, perchè Pansa riscrive se stesso cambiando continuamente lo scenario che gira intorno,la fissità del demiurgo che scruta il mondo nel circo immaginario del suo Bestiario. Giampaolo è meticoloso, a volte maniacale. Un altro, in un capitolo dedicato alla demolizione sistematica e feroce di Fazio non metterebbe mai una frase come questa: "Non mi ha mai voluto nel suo salotto per una colpa imperdonabile: il mio presunto anti-antifascismo, attestato dai libri che andavo scrivendo sulla guerra civile. Però aveva accolto col tappeto rosso quel collaudato fascista di Fini". Fazio non lo ha voluto e lui ratatatà - squaderna la sua arma più micidiale, l'archivio. Una volta me lo fece vedere, senza compiacimento, come un chirurgo che apre la teca dei bisturi. Un garage della sua casa di San Casciano, un arsenale pronto per essere usato a ogni occorrenza, contro chiunque: "Ho una cartellina anche su di te", e rideva. Pansa è un vecchio cronista cresciuto nella religione del "cartaceo": ritaglia anche le lettere dei lettori. Oppure estrae dal garage la raccolta de ''Il dito nell'occhio'', la rubrica che 15 anni fa Nichi Vendola teneva su Liberazione, infilando una antologia antidalemiana: "Massimo è gravemente atlantico", "cinicamente spoglio di dolore", "goffamente demagogico", "con una spocchia da statista neofita", "livido come i neon del metrò". Conclusione dell'autopsia: "12 anni fa il deputato Vendola era un polemista dal pensiero violento e dal linguaggio stridulo". In fondo ''Carta straccia'', il potere inutile dei giornalisti italiani (Rizzoli, 427 pagine 19.50) è la fusione di uno strumento perfetto e di un umore sulfureo. E' un viaggio nel garage di San Casciano con intenzioni contundenti, ed effetti sorprendenti. Ad esempio nel capitolo su Il Fatto, che dopo tre pagine sugli strafalcioni dei giornali italiani e un paio di scotennamenti senza rete ti potresti stupire: "Nella Grande crisi della carta stampata un solo giornale si rivelò capace di andare contro la corrente: Il Fatto".A Giampaolo questo giornale non piace, ma dopo aver tratteggiato i medaglioni di "Beriatravaglio" (copyright di Staino) e di Antonio Padellaro, rende un onore delle armi al successo ottenuto: "Di chi era il merito? Prima di tutto del direttore, Padellaro. Poi della star del giornale, Travaglio. Infine della redazione". Memorabile l'episodio di un collega di La Repubblica - unico non citato per nome - che propone una brillante intervista al segretario del Psdi Luigi Longo. Il giorno dopo Pansa, all'epoca vicedirettore riceve questa telefonata di Longo: "Ho letto l'intervista. Mi sembra molto fedele, rispecchia bene il mio modo di considerare il momento politico. Ha un solo difetto. Io non ho mai dato nessuna intervista". Per colpire Bocca (per lui ha la stessa passione che Achab ha per Moby dick) estrae dal'articolo una "intervista doppia" del 1980 sul terrorismo raccolta da un giovanissimo Lucio Caracciolo. Bocca sosteneva che i covi delle Br erano una invenzione, Pansa che le Br erano attive dal 1971. Sul quotidiano di Mauro un intero capitolo, e una sentenza feroce: "Perché non fare di La Repubblica una vera formazione politica? I militanti c'erano. I Soldi pure. Anche il leader non mancava. Era un direttore-segretario caparbio, aggressivo, più carismatico di moti big della casta partitica".

Giampaolo Pansa è uomo di furori, non di convenienze, scrive Stefano Di Michele su “Il Foglio”. Pure di rancori, ma non di ipocriti ritegni. E nemmeno di malafede. Forse si è sentito ferito, Pansa – anzi, sicuramente è stato ferito. Una ferita non medicata, la sua, né dagli amici che furono né dai compagni che l’amarono – ché loro, soprattutto, si fecero assalitori. Piuttosto, ognuno a versare sale, su quella ferita, a lanciare stupide accuse, ad attruppare becere squadracce iperdemocratiche (l’iperdemocrazia essendo la china che conduce prima a un’eccessiva considerazione di sé, quindi al fanatismo) per impedirgli di presentare i suoi libri su quella che lui – con ostinazione sempre più ostinata ogni volta che qualcuno gliela rinfaccia – chiama la “guerra civile”. Si è aperta con “Il sangue dei vinti” la seconda vita (da scrittore di gran successo) di Pansa. E con “Il sangue dei vinti” ha avuto inizio la seconda esistenza (di gran disdegno) di Giampaolo agli occhi dei suoi detrattori. Quelli fanatici e offesi, lui cocciuto. E il suo sarà, c’è da pensare, il secondo paradosso giornalistico-politico di quest’Italia da Seconda Repubblica e di ancestrali collere. Se Montanelli, icona del giornalismo di destra, è finito sugli altari davanti ai quali compie riti gente di ogni sfumatura di sinistra, probabilmente tra cento anni (nei giorni caldi della Ventinovesima Repubblica), quando Pansa non ci sarà più, sarà lui, antica icona del giornalismo di sinistra, issato sull’altare davanti al quale s’aduneranno manipoli di destrorsi incontinenti. Essendo uomo di carattere, Pansa ne ha uno pessimo – e la mai sopita intelligenza delle cose (movente, opportunità, aggressori) lo costringe a una tignosa, divertita e (magari) dolente ricapitolazione.+Perché fa i conti con i suoi nemici, Pansa, e fa anche i conti con se stesso. Un pugno di anni, e un intero orizzonte è mutato. E in fondo, come è stato con il suo precedente libro “Il revisionista”, anche questo “Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani” (Rizzoli), è un altro pezzo della sua resa dei conti – con l’antico universo che l’ha amato e poi espulso; con se stesso, che quell’universo ha prima attraversato e poi rinnegato. E’ un libro divertente, perfido, feroce – scritto divinamente, quindi scritto da Pansa. Ma le oltre quattrocento pagine, alla fine, lasciano un senso di amarezza: nell’area della sinistra decente e civile, che il Pansa che fu rimpiange, ma lo stesso ama il Pansa che è, innanzi tutto. E forse, nello stesso autore. Perché il libro è scanzonato, “libraccio carogna” come piace dire a lui, che marcia e macina – facce, parole, giudizi impertinenti. Ma non è un libro sul giornalismo e sui giornalisti: non così ampio, non così riduttivo. E’ un libro su Pansa e sul suo mondo di giornali e giornalismo. Su ciò che fu (con qualche eccesso di sottovalutazione, e forse qualche giudizio ingeneroso) e su ciò che è (con qualche eccesso di partecipazione, e forse qualche giudizio eccessivamente generoso). Una sorta di (nuova) autobiografia professionale, dove Pansa getta via quel che ancora conservava di ricordi affettivi sul fondo di un polveroso cassetto, e abbraccia – con la generosità di sempre, quella che ogni giovane cronista che ha avuto a che fare con lui ha sperimentato – il nuovo mondo: Belpietro invece di Scalfari, Feltri invece di Bocca “l’uomo di Cuneo” (in realtà da un pezzo, al posto di Bocca chiunque andava bene), e Lerner e l’Ingegnere e la ex direttrice dell’Espresso, e la Gruber, ed Ezio Mauro, e la Concita – per tacer, senza tacere, di quel Fazio lì… Ha invece pagine bellissime, commoventi, quando ricorda vecchi colleghi come Gaetano Scardocchia e Gianni Rocca. Fino all’eruzione finale: mai votato il Cav!, Pansa – solo i cretini pensano che le persone intelligenti possano cambiare idea facendo mercato di se stessi – ma se continuano a fargli girare i santissimi… Gran libro di cenere e furie – e pernacchie e (qua e là) persino risate.

LE DONNE IMMIGRATE PER I GIORNALISTI? MEGLIO SCHIAVE CHE PUTTANE.

Processo alla stampa. Un nuovo capitolo riempie il saggio “MEDIOPOLI. DISINFORMAZIONE. CENSURA ED OMERTA’”. Il libro di Antonio Giangrande.

La cronaca è fatta di paradossi. Noi avulsi dalla realtà, manipolati dalla tv e dai giornali, non ce ne accorgiamo. I paradossi sono la mia fonte di ispirazione e di questo voglio rendere conto.

In Italia dove tutto è meretricio, qualche ipocrita fa finta di scandalizzarsi sull’esercizio della professione più antica del mondo. L’unica dove non si ha bisogno di abilitazione con esame di Stato per render tutti uniformi. In quell’ambito la differenza paga.

Si parla di sfruttamento della prostituzione per chi, spesso, anziché favorire, aiuta le prostitute a dare quel che dagli albori del tempo le donne danno: amore. Si tace invece della riduzione in schiavitù delle badanti immigrate rinchiuse in molte case italiane. Case che, più che focolare domestico, sono un vero e proprio inferno ad uso e consumo di familiari indegni che abbandonano all’ingrato destino degli immigrati i loro cari incapaci di intendere, volere od agire.

Di questo come di tante altre manchevolezze dei media petulanti e permalosi si parla nel saggio “Mediopoli. Disinformazione. Censura ed omertà”. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it.

Un esempio. Una domenica mattina di luglio, dopo una gara podistica a Galatone in provincia di Lecce, nel ritorno in auto lungo la strada Avetrana-Nardò insieme a mio figlio ed un altro amico intravediamo sedute sotto il solleone su quelle sedie in plastica sul ciglio della strada due figure familiari: le nostre vicine di casa. Non ci abbiamo mai parlato, se non quando alla consuetudinaria passeggiata serale di uno dei miei cani una di loro disse: che bello è un chow chow! Ciò me li rese simpatiche, perché chi ama gli animali sono miei amici.

Poi poverette sono diventate oggetto di cronaca. I loro nomi non c’erano. Ma sapevo trattarsi di loro.

I carabinieri di Avetrana hanno denunciato un 31enne incensurato poiché sorpreso mentre prelevava due giovani rumene dal loro domicilio di Avetrana per condurle a bordo della sua autovettura, nella vicina località balneare di Torre Lapillo del comune di Porto Cesareo (Le), dove le donne esercitavano la prostituzione - scrivevano il 22 agosto 2014 “La Voce di Manduria” e “Manduria Oggi” - I militari, che da diversi giorni monitoravano gli spostamenti dell’uomo, ieri mattina, dopo aver pedinato a bordo di auto civetta, lungo tutto l’itinerario che dal comune di Avetrana conduce alla località balneare salentina, decidevano di intervenire bloccando l’autovettura con a bordo le due giovani ragazze ed il loro presunto protettore, proprio nel punto in cui le donne quotidianamente esercitavano il meretricio. Accompagnati in caserma, le rumene di 22 anni sono state solo identificare mentre l’uomo è stato denunciato in stato di libertà alla Procura della Repubblica di Taranto, con l’accusa di favoreggiamento della prostituzione. Lo stesso è stato inoltre destinatario del foglio di via obbligatorio dal comune di Avetrana per la durata di tre anni.”

Tutto a caratteri cubitali, come se fosse scoppiato il mondo. E’ normale che succeda questo in una Italia bigotta e ipocrita, se addirittura i tassisti sono condannati per aver accompagnato le lucciole sul loro posto di lavoro e ciò diventa notizia da pubblicare. Le stesse ragazze erano state oggetto di cronaca anche precedentemente con un altro accompagnatore.

“Ai domiciliari un 50enne di Gallipoli per favoreggiamento della prostituzione. Le prostitute, che vivono ad Avetrana, venivano accompagnati lungo la strada per Nardò,” scriveva ancora il 18 luglio 2014 “Manduria Oggi”.

“Accompagnava le prostitute sulla Nardò-Avetrana in cambio di denaro. Ai domiciliari 50enne gallipolino”, scriveva il 17 luglio 2014 il “Paese Nuovo”.

“I militari della Stazione di Nardò hanno oggi tratto in arresto, in flagranza di reato, MEGA Giuseppe, 50enne di Gallipoli, per il reato di favoreggiamento della prostituzione. Nell’ambito dei controlli alle ragazze che prestano attività di meretricio lungo la provinciale che collega Nardò ad Avetrana, i Carabinieri di Nardò, alcune settimane orsono, avevano notato degli strani movimenti di una Opel Corsa di colore grigio. Pensando potesse trattarsi non di un cliente ma di uno sfruttatore o comunque di un soggetto che favorisse la prostituzione, i militari hanno iniziato una serie di servizi di osservazione che hanno permesso di appurare che il MEGA, con la propria autovettura, accompagnava sul luogo del meretricio diverse ragazze, perlopiù di etnia bulgara e rumena. I servizi svolti dai militari di Nardò hanno permesso di appurare che quotidianamente il MEGA, partendo da Gallipoli, si recava in Avetrana, dove le prostitute vivevano e ne accompagnava alcune presso la provinciale Nardò – Avetrana, lasciandole lì a svolgere il loro “lavoro” non prima però di aver offerto loro la colazione in un bar situato lungo la strada. Per cui, avendo cristallizzato questa situazione di palese favoreggiamento dell’attività di prostituzione, nella mattinata odierna i militari di Nardò, dopo aver seguito il MEGA dalla sua abitazione e averlo visto prendere le due prostitute, lo hanno fermato nell’atto di lasciarle lungo la strada e lo hanno portato in caserma assieme alle due ragazze risultate essere di nazionalità rumena. Queste ultime hanno confermato di svolgere l’attività di prostituzione e di pagare il MEGA per i “passaggi” che offre loro. Viste le risultanze investigative, il MEGA è stato tratto in arresto per favoreggiamento della prostituzione e, su disposizione del P.M. di turno, dott. Massimiliano CARDUCCI, è stato posto ai domiciliari presso la sua abitazione”.

Come si evince dal tono e dalla esposizione dei fatti, trattasi palesemente di una velina dei carabinieri, riportata pari pari e ristampata dai giornali. Non ci meravigliamo del fatto che in Italia i giornalisti scodinzolino ai magistrati ed alle forze dell’ordine. E’ un do ut des, sennò come fanno i cronisti ad avere le veline o le notizie riservate e segrete.

Fatto sta che le povere ragazze appiedate, (senza auto e/o patente) proprio affianco al dr Antonio Giangrande dovevano abitare? Parafrasi prestata da “Zio Michele” in relazione al ritrovamento del telefonino: (proprio lo zio lo doveva trovare….). Antonio Giangrande personaggio noto ai naviganti web perché non si fa mai “i cazzi suoi”. E proprio a me medesimo chiedo con domanda retorica: perché in Italia i solerti informatori delegati non fanno menzione dei proprietari delle abitazioni affittate alle meretrici? Anche lì si trae vantaggio. I soldi dell’affitto non sono frutto delle marchette? Silenzio anche sui vegliardi, beati fruitori delle grazie delle fanciulle, così come il coinvolgimento degli autisti degli autobus di linea usati dalle ragazze quando i gentili accompagnatori non sono disponibili.

Un fatto è certo: le ragazze all’istante sono state sbattute fuori di casa dal padrone intimorito.

Che fossero prostitute non si poteva intuire, tenuto conto che il disinibito abbigliamento era identico a quello portato dalle loro italiche coetanee. Lo stesso disinibito uso del sesso è identico a quello delle loro italiche coetanee. Forse anche più riservato rispetto all’uso che molte italiane ne fanno. Le cronache spesso parlano di spudorate kermesse sessuali in spiaggia o nelle piazze o vie di paesi o città. Ma questo non fa scandalo. Come non fa scandalo il meretricio esercitato dalle nostre casalinghe in tempo di crisi. Si sa, lo fanno in casa loro e nessuno li può cacciare, nè si fanno accompagnare. Oltre tutto il loro mestiere era usato dalle ragazze rumene per mangiare, a differenza di altre angeliche creature che quel mestiere lo usano per far carriere nelle più disparate professioni. In modo innocente è la giustifica per gli ipocriti. Giusto per saltar la fila dei meritevoli, come si fa alla posta. E magari le furbe arrampicatrici sociali sono poi quelle che decidono chi è puttana e chi no!

Questa mia dissertazione non è l’apologia del reato della prostituzione, ma è l’intento di dimostrare sociologicamente come la stampa tratta alcuni atteggiamenti illegali in modo diseguale, ignorandoli, e di fatto facendoli passare per regolari.

Quando il diavolo ci mette la coda. Fatto sta che dirimpettai a casa non ne ho. C’è la scuola elementare. Ma dall’altro lato della mia abitazione c’è un vecchio che non ci sta più con la testa. Lo dimostrano le aggressioni gratuite a me ed alla mia famiglia ogni volta che metto fuori il naso dalla mia porta e le querele senza esito che ne sono conseguite. Però ad Avetrana il TSO è riservato solo per “Zio Michele Misseri”, sia mai che venga creduto sulla innocenza di Cosima e Sabrina. Dicevo. Queste aggressioni sono situazione che hanno generato una forte situazione di stalking che limita i nostri movimenti. Bene. Il signore in questione (dico quello, ma intendo la maggior parte dei nostri genitori ormai inutili alla bisogna tanto da non meritare più la nostra amorevole assistenza) ha da sempre delle badanti rumene, che bontà loro cercano quanto prima di scappare. Delle badanti immigrate nessuno mai ne parla, né tanto meno le forze dell’ordine hanno operato le opportune verifiche, nonostante siano intervenuti per le mie chiamate ed abbiano verificato che quel vecchietto le poverette le menava, così come spesso tentava degli approcci sessuali.

Rumene anche loro, come le meretrici. Ma poverette non sono puttane e di loro nessuno ne parla. In tutta Italia queste schiave del terzo millennio sono pagate 500 o 600 euro al mese a nero e per 24 ore continuative, tenuto conto del fatto che sono badanti di gente incapace di intendere, volere od agire. Sono 17 euro al giorno. 70 centesimi di euro all’ora.  Altro che caporalato. A queste condizioni non mi meraviglio nel vedere loro rovistare nei bidoni dell’immondizia. A dormire, poi, non se ne parla, in quanto il signore, di giorno dorme e di notte si lamenta ad alta voce, per mantenere sveglia la badante e tutto il vicinato. Il paradosso è che il signore e la sua famiglia sono comunisti sfegatati da sempre, pronti, a loro dire, nel difendere i diritti del proletariato ed ad espropriare la proprietà altrui. Inoltre non amano gli animali. Ed è tutto dire.

Le badanti, purtroppo non sono puttane, ma semplici schiave del terzo millennio, e quindi non meritevoli di attenzione mediatica.

Delle schiave nelle italiche case nessuno ne parla. Perché gli ipocriti italiani son fatti così. Invece dalle alle meretrici. Zoccole sì, ma persone libere e dispensatrici di benessere. Se poi puttane non lo sono affatto, le donne lo diventano con l’attacco mediatico e gossipparo.

«Marita Bossetti massacrata con il gossip. Accusata gratuitamente di avere due amanti. Ma cosa c’entra questo con l’omicidio di Yara? - si chiede Vittorio Feltri su “Il Giornale” il 21 agosto 2014 - Siamo basiti. Ieri apriamo il Corriere della Sera a pagina 17 e leggiamo il seguente titolo: «Due uomini dai pm: siamo stati amanti di Marita Bossetti». Chi è costei? La moglie di Massimo Giuseppe Bossetti, sospettato di essere l'assassino di Yara Gambirasio, l'adolescente di Brembate (Bergamo), in galera da un paio di mesi per via del suo Dna rilevato sul corpo della vittima. Non riassumiamo la vicenda perché è stata raccontata mille volte e supponiamo che il lettore ne sia a conoscenza. Ci limitiamo a esprimere stupore e indignazione davanti a questa ennesima incursione nella vita privata di una famiglia - quella dei Bossetti, appunto - che avrebbe diritto a essere lasciata in pace, ammesso che possa trovarne, avendo il proprio capo chiuso in una cella senza che esista la minima probabilità che questi reiteri il reato attribuitogli, inquini le prove (che non ci sono) e si appresti a fuggire, visto che in quattro anni non ha mai provato a farlo. Stando a Giuliana Ubbiali, la cronista che ha rivelato quest'ultimo particolare piccante sui coniugi, due gentiluomini si sono presentati (spontaneamente? ne dubito) in Procura e hanno confidato agli inquirenti di avere avuto rapporti intimi con la signora Marita. Hanno detto la verità o no? Non è questo il punto. La suddetta signora ha facoltà di fare ciò che vuole con chi vuole e quando vuole senza l'obbligo di giustificarsi con nessuno, tranne il marito. Perché le toghe ficcano il naso nelle mutande di una sposa già distrutta dagli eventi? A quale scopo? Sarebbe interessante che qualcuno ci spiegasse che c'entrano due supposte (non accertate) relazioni avute dalla donna in questione con il delitto di Yara commesso - forse - dal coniuge. Il gossip non ha alcuna importanza - fondato o infondato che sia - ai fini di accertare la verità. Questo lo capisce chiunque. Nonostante ciò, gli investigatori hanno infilato negli atti processuali che due linguacciuti asseriscono di essersi divertiti, sessualmente parlando, con la consorte di Bossetti. Cosicché questi, oltre a essere inguaiato per un omicidio, nonché detenuto, adesso è anche formalmente cornuto agli occhi di chi si pasce di pettegolezzi. Non solo. Marita ha il suo uomo agli arresti, tre figli da mantenere (in assenza di un reddito), un futuro nebuloso, gli avvocati da pagare e, dulcis in fundo, ci ha smenato pure la reputazione passando ufficialmente (zero prove) per puttana. A voi, cari lettori, questa sembra un'operazione legittima? Comprendiamo la necessità degli investigatori di non trascurare alcun dettaglio nel tentativo di arrivare a capo dell'orrenda matassa, siamo altresì consapevoli che dal quadro familiare di Bossetti sia facile ricavare qualche indicazione utile all'inchiesta, ma prendere per buone le vanterie di un paio di tizi onde avvalorare l'ipotesi che la famiglia Bossetti fosse una specie di bordello, in cui ogni crimine poteva maturare, incluso un omicidio, è troppo. Trattasi di scorrettezza e di crudeltà. Un conto è sondare la vita di un imputato nella speranza di trovare una chiave per aprire la sua scatola nera, un altro è ricorrere a mezzucci degni di un giornaletto scandalistico e indegni, viceversa, di una giustizia decente. I giudici non devono guardare dal buco della serratura e raccogliere materiale da portineria, ma costruire un impianto accusatorio credibile, basato su indizi concreti e non su chiacchiericci volgari che distruggono l'immagine di gente innocente, comunque non direttamente implicata in un fatto di sangue. Alla signora Marita Bossetti e ai suo poveri figli, esposti al pubblico ludibrio a causa di una sciatteria istituzionale imperdonabile, va la nostra solidarietà. Siamo con loro in questo momento tormentato. Un'ultima osservazione. Noi del Giornale spesso siamo stati additati quali manovratori della macchina del fango. Faceva comodo a molti liquidarci così. Ora, davanti alla macchina produttrice di letame gossiparo, che massacra e lorda tante persone, tutti zitti. Zitti e complici».

«Yara, un caso nel caso: gossip estremo o strategia mediatica? Seguendo il corso delle indagini, la cronaca passa ora ai "raggi X" la vita della moglie di Bossetti: per soddisfare la curiosità dei lettori o per qualcos'altro? –Si chiede invece Marco Ventura su “Panorama” - “Massimo Bossetti, il presunto assassino di Yara”. Questa didascalia sul sito del Corriere della Sera, cronaca di Bergamo, dice tutto. Dice più di qualsiasi gossip allungato a giornalisti compiacenti che si prestano a fare da megafono dell’accusa pur di continuare a beneficiare di “presunti” scoop (dico “presunti” perché il giornalismo d’inchiesta all’americana, quello vero, non si affida a una sola fonte, non sposa acriticamente una sola parte, soprattutto si sviluppa anticipando le indagini, non si riduce a diffondere le veline degli inquirenti). Quella didascalia è un insulto alla Costituzione (e ai diritti di tutti noi in quanto potenziali Bossetti), perché “il carpentiere di Mapello”, come viene sbrigativamente inquadrato dai media, agli occhi della legge e a tutti gli effetti è l’opposto del “presunto assassino”. È, invece, un “presunto innocente”, sospettato di aver ucciso l’adolescente Yara Gambirasio. La didascalia accompagna le foto tratte dalla pagina Facebook dell’uomo (che non è neppure imputato ma solo indagato). Altri scatti inquadrano la moglie Marita in macchina che un po’ si vede, un po’ si copre la faccia per evitare i fotografi il giorno in cui va a farsi interrogare. Sono una, due, tre, quattro, cinque istantanee pressoché identiche, per soddisfare il “presunto” voyeurismo compulsivo del lettore. Dico “presunto”, perché a scorrere i commenti alla notizia delle “presunte” relazioni extraconiugali di Marita sul sito dell’Huffington Post che riprende il Corriere (un bell’esempio di complicità mediatica tra il gruppo L’Espresso e il “Corsera”), la gran parte dei lettori si dice più o meno schifata e indignata, e se la prende con un certo giornalismo gossiparo che massacra le persone per fare cassetta. Ma la foto peggiore è quella che campeggia più grande di tutte: Marita a viso aperto, al mare, circondata dai tre figli avuti con Massimo (già, ci sono pure dei figli minori, i volti sono graficamente irriconoscibili, ma basta?). In realtà, dietro quel giornalismo c’è forse qualcosa di più: una strategia mediatica da parte di chi lavora sulle indagini. È singolare che nei giorni scorsi sia apparsa la notizia del rifiuto di Marita a farsi interrogare senza il difensore, Marita che continua a difendere il marito e a proclamare anche pubblicamente la sua fiducia (ricambiata da Massimo di cui sappiamo, dalle indiscrezioni dei suoi già cinque interrogatori nessuno conclusivo, che ai magistrati che lo incalzavano sulle “presunte” avventure della consorte avrebbe replicato: “Impossibile. Sento il suo amore, ho piena fiducia e rispetto di lei”). È mai possibile che di fronte a quella che viene presentata come prova regina, definita dalla stessa difesa di Bossetti come indizio grave, cioè la “presunta” corrispondenza del Dna del “carpentiere di Mapello” con quello ritrovato sugli indumenti intimi di Yara (dico “presunta” perché non c’è al momento una controperizia, una perizia di parte, una ripetizione del test, né un contraddittorio o dibattimento e tante volte abbiamo visto le prove regine perdere la corona nei processi), è mai possibile dicevo che vi sia un simile accanimento sulla famiglia Bossetti, tale da far sospettare (o presumere?) una disperazione dell’accusa, un’angoscia di non riuscire, nonostante tutto, a trovare la verità cioè incastrare il “presunto colpevole”? E mi chiedo: se la moglie (e la madre) di Massimo Bossetti lo avessero “scaricato”, dicendo ai Pm quello che i Pm vorrebbero tanto sentirsi dire, avremmo ugualmente letto notizie così orribilmente intrusive della vita privata di persone che non sono neppure indagate e la cui vita intima non serve probabilmente a far luce sull’ipotizzato crimine del “carpentiere di Mapello”? Massimo Bossetti ha saputo dai magistrati di essere figlio illegittimo, ora sa che forse la moglie gli ha messo le corna (e tutto questo lo sappiamo anche noi). È costretto in carcere a un isolamento totale, anche nell’ora d’aria, perché gli altri detenuti gliel’hanno giurata (per loro è il “presunto assassino” di Yara, anzi per dirla con il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, è “l’assassino” e basta). La moglie si trova a dover fronteggiare non solo i magistrati, ma anche i giornalisti che sanno e partecipano allo scandaglio impietoso della sua privacy (grazie a chi?) e se si azzarda a dire la sua al settimanale Gente, c’è subito pronto il solerte cronista di giudiziaria, nello specifico Paolo Colonnello de La Stampa, che si dedica a sottolineare sotto il titolo “Yara, le contraddizioni della signora Bossetti”, le “presunte” (il virgolettato è mio) discrepanze tra le parole della “bella moglie che rilascia interviste ai settimanali popolari” (stavolta il virgolettato è di Colonnello) e quelle che Marita ha pronunciato davanti ai Pm. A Paolo vorrei ricordare quanto lui stesso ha scritto su Facebook tempo fa, in quello che appariva come un post di encomiabile ma evidentemente “presunta” autocritica, dopo aver premesso che dubitava dell’innocenza di Bossetti: “Ciononostante mi piacerebbe che i giornali avessero il coraggio di distinguersi dal trash delle trasmissioni televisive smettendo di occuparsi di questo caso day by day, proprio per rispetto dei protagonisti e della loro sofferenza. Piccoli dettagli, elucubrazioni, fughe di notizie cui io stesso ho partecipato (con assoluta controvoglia, credetemi) non aggiungono nulla di più a questo punto alla tragedia che si è ormai consumata. La solita tragedia, verrebbe da dire. Perché purtroppo, anche grazie alla nostra morbosità, statene certi che si ripeterà”».

«Dai lettore, prova a metterti nei panni del mostro. Massimo Bossetti non è soltanto accusato di essere l'assassino di Yara. Contro di lui si muove uno tsunami distruttivo, massacrante, implacabile. Domandina: e se poi, invece, fosse innocente? – Si chiede, invece Maurizio Tortorella su “Panorama” - Caro lettore, stavolta ti propongo un gioco: ma fa' attenzione, perché è un brutto gioco. Facciamo finta che due anni fa un bruto, un maniaco sessuale, abbia ucciso una povera ragazzina a una decina di chilometri da casa tua. E facciamo finta che una mattina arrivi da te la polizia, che ti ammanetta e ti accusa di quell'orribile delitto. Dai magistrati inquirenti, che t'interrogano, scopri che sul cadavere della poveretta è stato trovato materiale organico che i periti sostengono sia compatibile con il tuo Dna. Tu non sai proprio spiegartene il motivo, perché sai perfettamente che sei innocente e in realtà non hai mai nemmeno visto la ragazzina. Ma gli inquirenti non vogliono sentire ragione: il colpevole sei sicuramente tu. Così finisci in prigione. I giornali, contemporaneamente, vengono inondati di carte dell'accusa. Il tuo nome esplode su tutti i mass media, la tua vita viene passata al setaccio. Il tuo avvocato è in difficoltà: non riesce a fare passare nemmeno il minimo dubbio. Poi gli inquirenti ti dicono che sono arrivati a te per vie d'indagine complicatissime. E ti spiegano che grazie a quelle indagini hanno scoperto, anche, che tuo padre non è quello che tu hai avuto accanto per decenni, perché in realtà tua madre ti ha concepito con un altro. Aggiungono che tutto questo è provato con certezza dallo stesso Dna. A questa rivelazione, ovvio, resti senza fiato. Sui giornali che ti arrivano in cella leggi che tua madre nega disperatamente, giura che sei figlio di tuo padre, quello che hai sempre creduto che lo fosse. Ma chissà se dice la verità... La vita, che già ti è stata sconvolta dall'arresto e dalle terribili accuse che ti vengono rivolte, ti viene così letteralmente sradicata dall'anima: anche per via sentimentale. Intanto passi i giorni in cella, dove ti disperi leggendo i giornali che parlano del caso e cercando di sfuggire alle violenze degli altri reclusi, tradizionalmente molto ostili a chi viene accusato di aver fatto del male a donne e a bambini. Pensi e ripensi alla tua vita distrutta, ai tuoi figli che inevitabilmente in paese vengono additati come «figli del mostro», a quella poveretta di tua moglie che inutilmente grida alla tua innocenza. I giorni trascorrono, diventano settimane e mesi. Non sai che fare. Dentro sei come morto. Ti aggrappi ai tuoi poveri affetti, in questo momento fragili come e più di te. Pensi solo a tua moglie e ai tuoi figli: sono l'unica cosa che ti resta. Poi una mattina ti svegli, sempre in cella e sempre terrorizzato, e sul primo quotidiano italiano leggi un titolo che ti tramortisce. Perché rivela che due uomini sono stati appena ascoltati dai pm e hanno raccontato loro di essere stati entrambi amanti di tua moglie (che hai sposato nel 1999): uno nel 2009 e uno anche più di recente. Ti domandi se sia vero. Come sia possibile. Ti interroghi anche sul perché gli inquirenti abbiano deciso di ascoltare i due uomini, che cosa c'entrino le loro relazioni con l'accusa che ti viene rivolta. L'articolo ti spiega che i pm vogliono indagare nella tua vita sessuale, per capire se tutto era «normale». La tua disperazione a questo punto è totale: non hai più nulla cui aggrapparti. Che ti resta, al mondo? Pensi alla tua vita, annichilita, e forse vuoi soltanto morire. Ecco, caro lettore. Io non so se Massimo Bossetti sia colpevole o innocente dell'orribile delitto di cui è accusato da oltre due mesi. Ti domando, però, di porre mente a un'ipotesi: e se non fosse colpevole? A quest'uomo la giustizia italiana ha distrutto tutto: vita, famiglia, affetti. Gli è accaduto tutto quello che hai appena finito di leggere, e anche molto di più. È stata una devastazione implacabile, assoluta, senza scampo alcuno. Certo: è possibile che Bossetti sia colpevole. E tu allora mi dirai, in un impeto di violenza: si merita tutto quel che sta soffrendo. Ma che cosa accadrà se invece, in un regolare processo condotto stavolta non sui giornali ma in un'aula di tribunale, davanti a una corte puntigliosa e con tutti i crismi di legge, si dovesse appurare che Bossetti è innocente, magari perché l'analisi del Dna condotta sul corpo della povera Yara è stata sbagliata? In questi casi ho sempre pensato che sia pratica onesta provare a mettersi nei panni dell'accusato, ovviamente ipotizzandosi innocenti. Io l'ho fatto, e confesso la mia debolezza: non so se saprei sopravvivere allo tsunami, alla gogna mediatica e al disastro esistenziale che mi è stato gettato addosso. Proverei forse a impiccarmi in cella. Però l'idea mi sconvolge e mi disgusta profondamente. Perché non è questo il finale giusto, nemmeno nella peggiore vicenda giudiziaria; non può e non deve esserlo: equivale a dichiarare che la giustizia non esiste. È una soluzione abietta, vergognosa, indecente, indegna di uno Stato di diritto. Prova a fare altrettanto. Non ci vuole molto, soltanto un po' di fantasia. Mettersi nei panni dell'accusato è sempre un esercizio utile: solletica sensibilità intorpidite dalla voglia di sangue. E magari fa pensare... ».

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.  

 (Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)   

Lasciatemi votare 

con un salmone in mano 

vi salverò il paese 

io sono un norvegese… 

I GIORNALISTI? SONO PIU’ DISONESTI DEI POLITICI.

«I giornalisti? Sono più disonesti dei politici». Lunga intervista a Massimo Fini, sull'onestà del giornalismo e sulla fedeltà a sé stessi, di Andrea Coccia su “L’Inkiesta”. Quando sei convinto di avere un appuntamento a casa di Massimo Fini alle 6 di sera e alle 4, mentre stai riguardando le domande che ti sei preparato, il telefono squilla con il suo nome sullo schermo, sei portato a pensare che l’intervista che stavi aspettando da settimane non sia esattamente partita con il piede migliore. Prima di rispondere ti schiarisci la voce, poi scorri il tuo ditone sullo schermo e rispondi: «Sì, pronto, buonasera... sì... effettivamente... alle 6... non c’è problema... in un quarto d’ora sono lì...». La prima volta che vidi Massimo Fini fu un pomeriggio di settembre della prima metà degli anni Duemila, mi sembra il 2004. Eravamo a Mantova, lui in una delle sue rare apparizioni festivaliere — a presentare Sudditi. Manifesto contro la democrazia, che era uscito da poco per Marsilio — io nelle vesti di un giovane volontario del Festivaletteratura, di quelli con la maglietta blu. Non avevo idea di chi fosse, non lo avevo mai sentito nominare e men che meno l’avevo sentito parlare o avevo letto qualche suo articolo. Era un perfetto sconosciuto, ma mi capitò di prestare servizio proprio al suo evento, e lo ascoltai, seduto per terra, con le gambe formicolanti, per una bella oretta e mezza. Alla fine, quando mi alzai, ebbi la netta sensazione di non essere esattamente la stessa persona di quando mi ero seduto. E non soltanto perché non sentivo più la gamba destra. Nei dieci anni che separano quella gamba formicolante da quel telefono che vibra sono successe un sacco di cose: Fini ha scritto altri libri — ma non è più tornato a Mantova — ha cominciato a scrivere sul Fatto Quotidiano (che all’epoca ancora non esisteva) e ha fondato un movimento. Io, invece, che intanto sono decisamente meno giovane e non metto più magliette blu nemmeno durante il Festival, di Massimo Fini mi sono letto un sacco di libri: cominciando da Sudditi, che lessi d’un fiato proprio quella sera, passando poi per Il vizio oscuro dell’Occidente, il Di[zion]ario erotico, La Ragione aveva torto?, il Mullah Omar e Ragazzo, fino a Il Conformista, piccola bibbia del giornalismo sulle cui pagine torno spesso, soprattutto nei momenti di difficoltà. Insomma, Massimo Fini è per me un personaggio dannatamente affascinante. E lo è per un motivo che insieme è molto semplice e molto raro: è uno dei pochissimi giornalisti che oggi, in Italia, è dotato di una straordinaria onestà intellettuale, di un’irriducibile coerenza con se stesso che viene sempre prima di ogni altra cosa e che lo ha portato spesso a giocarsi tutto — visibilità, carriera, fama — pur di non sacrificarla. È per tutte queste cose che il 3 giugno, alle 5 del pomeriggio, accompagnato dall’immancabile ansia tipica di questi incontri, mi sono ritrovato nel salotto di Massimo Fini, un salotto stracolmo di libri, impilati sul tavolo, appoggiati disordinatamente su sedie e tavolini, pigiati nella libreria-muraglia, su scaffali dalla tassonomia diligentemente etichettata.

«Sono figlio di un giornalista», attacca lui, alla mia domanda su come ha iniziato a scrivere per i giornali, «ma per ribellismo non ho voluto fare il lavoro di mio padre, almeno all’inizio. È per questo che da giovane ho fatto un sacco di lavori diversi. Ho lavorato alla Pirelli — un lavoro straziante — ho fondato un’agenzia pubblicitaria e molte altre cose».

Uhm, tanti lavori diversi. Mi ricorda qualcosa.

E poi che è successo?

«Poi, a un certo punto, il caso ha voluto che la prova dell’esame di Stato di magistratura alla quale partecipai, a Roma, era truccata. A quel punto, quando tornai a Milano chiesi agli amici di mio padre — a cui non avevo mai chiesto la cosa più normale, ovvero di farmi entrare nel mondo del giornalismo — se quella storia dell’esame di magistratura truccato avesse potuto interessare qualcuno. A me sembrava una cosa grossa, eppure non ebbi nessun riscontro: pareva che non interessasse. A quel punto decisi di andare a bussare alle porte dell’Avanti!, dove non sapevano nulla di me, e proposi la storia. All’Avanti! mi dissero che in quel momento non c’era nessuno dei suoi che poteva occuparsene e mi chiesero di provare a scriverlo io. Lo scrissi e piacque molto. Il direttore, però, mise subito le mani avanti, e mi disse che non c’erano possibilità di entrare all’Avanti!, che c’era già la coda e che poi non ero neppure socialista. Ma che se volevo potevo andare lì ogni tanto, due o tre ore al giorno, per fare esperienza, naturalmente non pagato. Così capii che questo mestiere, che avevo rifiutato per ribellismo verso mio padre, in realtà mi piaceva.»

Bussare alle porte dei giornali per riuscire a cominciare, scontrarsi con la fila di persone che per diritti di nascita o di censo ti precedono, fare esperienza senza essere pagato. Non avrei mai pensato che la vita di un aspirante giornalista negli anni Sessanta fosse così simile alla nostra...

L’Avanti! era organo del partito socialista, o sbaglio? Come ti sei trovato in un contesto del genere?

«Ti confesso che è stato certamente il periodo migliore della mia vita. Lavoravo con facilità, l’Avanti! a quei tempi — a parte una decina di funzionari di partito che però non contavano un cazzo, che stavano lì a occupare la sedia e prendersi lo stipendio — era come una piccola squadra di calcio e quindi ho avuto l’opportunità di seguire casi importanti: il caso Calabresi, quello Feltrinelli. Il PSI non era al governo e quindi noi avevamo la massima libertà e l’ambiente mi piaceva un sacco, un ambiente libertario, interessante. C’era il capocronista — che tra l’altro mi pare che non fosse neanche socialista, ma comunista — che conosceva tutta la città, c’erano intellettuali strani, persone decisamente interessanti.»

Perché te ne sei andato?

«Accadde che mi fecero due proposte. Fu grazie all’interessamento di Camilla Cederna: una mi arrivò dall’Europeo e l’altra dall’Espresso. Scelsi l’Europeo e, come tutte le scelte che ho fatto in vita mia, scelsi in modo completamente irrazionale.»

Come cambiò la tua vita all’Europeo?

«Per la mia vita lavorativa quella all’Europeo è stata un’esperienza importantissima: era un grande giornale. Si lavorava ancora seguendo regole molto severe e c’era la possibilità di viaggiare, anche se io per la verità mi occupavo soprattutto di Italia. Però da un punto di vista personale fu un periodo abbastanza difficile. L’ambiente in redazione era cupo, il direttore — che all’epoca era Tommaso Giglio — era una sorta di sadico padre padrone. Io in realtà me la sono sempre cavata, in fondo. Ero il più giovane, mi avevano preso tutti in simpatia, quindi l’ho subita fino a un certo punto, però c’era un’atmosfera abbastanza pesante. Lì sono rimasto fino al 1976, quando Giglio se ne andò e cominciarono ad arrivare una serie di direttori abbastanza scandalosi, fino ai socialisti di Martelli, e da un rigore che era alla base della storia del giornale, la faccenda si tramutò in una roba comica e dilettantesca.»

In che senso comica?

«Ma sì, sai quelle cose molto italiane. Un esempio su tutti: ricordo un inviato che fu assunto e che pretese che lo fosse anche la sua ragazza che, per l’amor di dio, aveva anche un bel culo, però non sapeva fare niente. Insomma, un dilettantismo clamoroso.»

Cambiò qualcosa solo all’Europeo o fu un cambiamento più generale?

«Fu un cambiamento totale e definitivo del mondo del giornalismo e avvenne a metà degli anni Settanta, quando la politica entrò a piedi uniti nel giornalismo. Prima esistevano ancora i cosiddetti “editori puri”. Lo erano Rizzoli e Mondadori, per esempio. Poi sono cambiate le cose, e i politici sono entrati sia direttamente, sia attraverso i comitati di redazione, che erano spartiti tra schieramenti politici. È da lì che è cambiato tutto.»

Tu come hai vissuto questo cambiamento?

«Ho avuto la fortuna di affermarmi in qualche modo prima di questa storia, verso la fine degli anni Settanta. E infatti nel 1979 me ne sono andato a spasso, a fare il freelance. Una scelta rischiosissima, insomma. Certo, la fortuna era che queste redazioni, seppur pletoriche, mi affidavano dei pezzi. Senza contare che all’epoca mia moglie faceva l’insegnante e portava lo stipendio a casa. In quel periodo mi misi su un progetto molto interessante insieme ad Aldo Canale: fondammo un settimanale che si chiama Pagina, un’operazione interessante, anche se abbiamo molte colpe, lo ammetto.

Si accende una sigaretta, io intanto ne rollo una di tabacco e l’accendo anch’io. Lasciamo cadere la cenere in un piccolo posacenere pieno di sigarette spezzate, appoggiato su un libro dalla copertina blu, sporco di cenere: una vecchia e splendida edizione del Viaggio al termine della notte di Céline.»

Che genere di colpe?

«Abbiamo fatto scrivere gente come Giuliano Ferrara, Ernesto Galli Della Loggia, c’era anche Pigi Battista che era un nostro giovane di bottega, e molti altri. In realtà è stato un gran bel giornale, soprattutto per merito di Canale. Solo che a un certo punto, visto che eravamo un settimanale liberale con venature anarchiche — che erano quelle che portavo io — i socialisti fecero di tutto per toglierci la poca pubblicità che avevamo. E noi, che vivevamo grazie ai soldi di Canale, alle vendite — circa 13mila copie, che non erano affatto male — ma soprattutto grazie alla pubblicità, a quel punto abbiamo dovuto chiudere. La nostra colpa era semplicemente di non essere un organo del partito socialista.»

E poi?

«Poi passai al Giorno, proprio in virtù di Pagina, perché il direttore Magnaschi — forse il miglior direttore che ho avuto — leggeva Pagina e gli piacevano molto i miei pezzi, soprattutto le stroncature, un po’ alla Papini. Mi ricordo che una volta ero disoccupato e stavo sfogliando un giornale di scommesse ippiche cercando di capire su quale cavallo puntare a Milano e, proprio in quel momento, mi chiamò Magnaschi proponendomi di scrivere un pezzo su un’enciclica papale — all’epoca il papa era Karol Wojtila. Gli serviva il mio pezzo per fare il contraltare laico a un altro pezzo, e io accettai. Non sapevo un caz... ehm, ero lontano mille miglia da questa cosa, della storia della Chiesa non sapevo un bel niente, e telefonai a un mio amico comunista, professore a Savona che, come tutti i comunisti, ne sapeva un sacco della storia della Chiesa, lui mi diede qualche dritta e io in due ore avevo scritto il pezzo. Zucconi, per provarmi, mi chiese l’articolo entro le quattro, io lo feci, andò in pagina e funzionò. Da quel momento iniziai una collaborazione con il Giorno che proseguì fino a che ci furono Zucconi e Magnaschi. Fu un ottimo periodo, perché è vero che il giornale era in pratica dell’Eni, quindi un po’ del Psi e un po’ della Dc, però Zucconi era molto abile, e riusciva ad accontentare Craxi e contemporaneamente a garantire libertà alla redazione. Io proprio lì ho scritto le cose più tremende contro la partitocrazia. Zucconi era un gran volpone, quando qualcuno gli diceva che il giornale era troppo buono con i partiti, tirava fuori il fatto che lasciava scrivere me, quando invece aveva delle grane per quello che scrivevo io se la cavava dicendo che in fondo era una rubrica sola, un punto di vista personale, mi dava del pazzo e se la cavava così. Insomma, con questo trucchetto delle tre carte noi alla fine avevamo la nostra libertà.»

Hai avuto buoni rapporti con i tuoi direttori?

«Sì, e devo dire che anche quelli che non mi hanno amato mi hanno sempre difeso. C’era un impegno, forse anche un bravura da parte loro, che ha fatto sì che non avessi mai grossi problemi. Qualcuno mi detestava, certo, però c’era ancora il concetto del rispetto per il lavoro fatto bene e mi lasciavano lavorare.»

E invece con chi hai avuto problemi?

«Con i sindacati e con i colleghi. Con i sindacati perché a un certo punto hanno appiattito tutto, non valeva più né la qualità né la quantità del lavoro, e non solo, succedeva anche che tu andavi in giro a lavorare alle tue inchieste o alle tue storie e quelli che restavano in redazione tramavano e intrecciavano rapporti avanzando di carriera, mentre tu te ne rimanevi sempre allo stesso posto. Con i colleghi era una questione di competizione, cose normali, ma c’erano anche lotte interne, mafiette, cricche e gruppi di interesse. In ogni caso, tutte queste dinamiche a partire dal 1979 non mi interessarono più molto. Al Giorno mi fecero un contratto che mi permetteva di essere libero dalla redazione, e tutte queste cose faticosissime che ti tolgono energia me le sono potute evitare.»

Mi racconti della tua esperienza all’Indipendente?

«Quella per me è stata l’ultima grande stagione, all’Indipendente di Feltri, quando non gli era ancora passato sopra il Berlusconismo. Il momento era molto favorevole. Si era rotto il consociativismo dei partiti, c’era Mani pulite, un fenomeno che Feltri ha cavalcato alla grande, indulgendo anche su posizioni molto forcaiole che ha poi cambiato, diventando garantista quando è andato a lavorare per Berlusconi.»

Che tipo di giornale era?

«Era un giornale molto aperto, fu per questo che forse riuscì a coinvolgere lettori provenienti da tanti settori diversi, con diverse idee politiche, anche. Tra i collaboratori scelti da Feltri c’era chi era di destra e chi di sinistra, ma il tutto aveva una sua faccia, che era la sua, quella di Feltri, che aveva inventato il feltrismo e abbiamo vissuto un anno e mezzo straordinario, con una redazione molto giovane e motivata. Siamo passati da 20mila a 120mila copie nel giro di pochi mesi. Vivevamo in una specie di sogno, quello di un giornale libero, perché il nostro editore Zanussi era uno che ci permetteva di fare tutto: pensa che un giorno arrestarono il nostro amministratore nell’ambito di alcune inchieste di Mani pulite e noi uscimmo con quel pezzo in prima pagina. Insomma, eravamo liberi sul serio. Solo che un giorno d’agosto, Feltri mi invita a cena e mi fa la terrorizzante domanda: «ma se vado al Giornale vieni con me?» E allora io li a spiegargli che era un errore, da ogni punto di vista, sia professionale che politico, e che lo era anche per lui. Insomma, finiamo la cena un po’ brilli tutti e due e lui, bicchiere in mano, alza il calice e dice «ma sì, in culo a Berlusconi, restiamo all’Indi!». Il giorno dopo aveva firmato.»

È curioso, per un trentenne come me, sentir parlare in questo modo di Feltri, per noi nati negli anni Ottanta lui è solo quello che è ora. Che cosa è successo?

«Per Vittorio ha contato per prima cosa il fatto che non si dovrebbe mai nascere poveri — al Giornale gli offrivano un miliardo, da noi prendeva 250 milioni — ma soprattutto aveva capito che Berlusconi era il più forte in quel momento e dunque decise di lasciare quella straordinaria avventura. Abbiamo litigato molte volte su questa cosa, gli ho detto di tutto, anche se poi siamo sempre rimasti in contatto. E devo dire che l’ultima volta che ci siamo sentiti, mi sembra un annetto fa, anche lui ha ammesso che, in fondo, era stata una scelta sbagliata. Prima era il Feltri anarchico di destra, libero e indipendente, poi gli passò sopra il berlusconismo. In quegli anni, però, successe una cosa ben più grave: fu spazzato via tutto ciò che si era in qualche modo opposto alla partitocrazia: la Lega, che fu inglobata, Funari, emarginato, Feltri, comprato, e così andare. Hanno fatto quello che credo cercheranno di fare con Grillo e con il Movimento 5 Stelle.»

Eccoci arrivati alla politica, a Grillo — «siamo amici da trent’anni» — al Movimento 5 Stelle, ovvero a un potenziale pantano. Per un attimo mi spaventa l’idea di vedere la conversazione prendere quella strada, che poco c’entra, anzi quasi per niente, con quello a cui volevo arrivare.

Tornando al giornalismo, che è quello che mi interessa, che cosa significa essere intellettualmente onesti?

«L’onesta intellettuale è un atteggiamento mentale che dovrebbe rappresentare la normalità. Significa trattare nello stesso modo chi ti sta simpatico e chi ti sta antipatico. Una cosa se secondo te è sbagliata, o giusta, lo devi riconoscere indipendentemente da chi la fa. Questo vuol dire essere coerente e onesto intellettualmente, se no fai l’agitatore, che è un altro mestiere. Purtroppo oggi quasi tutti i giornali, piccoli o grandi che siano, sono tutti schierati o da una parte o dall’altra. Certo, questo è un discorso che riguarda soprattutto gli editorialisti, poi all’interno della redazione c’è ancora chi fa servizi, cronaca e reportage molto bene. Mi viene in mente Paolo Rumiz, per esempio. Essere coerenti vuol dire anche che se una volta affermi una cosa e il giorno dopo il suo contrario, per lo meno devi ammetterlo e ricordarlo al tuo lettore. Il grande corruttore in questo senso è stato Eugenio Scalfari, il quale incominciò a dire una cosa per poi dire il suo contrario sei mesi dopo, finché arrivò all’apice assoluto e, in un articolo su Bettino Craxi, scrisse una seconda parte in cui riusciva a smentire ciò che lui stesso aveva detto nella prima. Un tempo questo non sarebbe stato possibile, perché come diceva Giorgio Bocca esisteva una «società degli eccellenti».»

Che cosa intendeva?

«È un concetto da prendere con le molle, ma insomma, certe cose non le potevi fare, se no eri squalificato. Poi è saltato tutto, e infatti lo vediamo nel giornalismo di oggi, ma anche nella politica. «Stai sereno», dice Renzi a Letta, e dopo due giorni gli ha preso il posto. Ecco, almeno per queste cose, un tempo l’Italia era diversa, c’erano delle regole, anche non scritte, ma certe cose non le potevi fare. E non solo nel giornalismo anche nella vita quotidiana. Era un’Italia, quella dei Cinquanta e Sessanta, in cui l’onestà era un valore per tutti: per la borghesia, se non altro perché dava credito, per il mondo contadino, in cui se venivi meno alla parola data o a una stretta di mano venivi escluso dalla comunità, e anche per le classi medie e il proletariato.»

E cosa è cambiato?

«Purtroppo, a un certo punto c’è stato un cambiamento antropologico dell’intera società italiana, e il giornalismo è stato in parte coinvolto, ma in parte è stato anche corruttore e protagonista.»

Quale è stato il punto di rottura?

«Il boom economico, l’idolatria del quattrino. L’idolatria del quattrino ha cambiato gli italiani radicalmente: ora ci si vende per niente. Lo vediamo tutti i giorni, i recenti scandali che abbiamo visto ne sono la prova. E non ci si vende mica per grandi cose, tutt’altro. Io capirei anche una donna che si vende per uno smeraldo che vale un miliardo, abbagliata dalla ricchezza. Ma una che si vende per una cena in un bel ristorante o per delle cose ancora più miserabili, cose che anche un barbone rifiuterebbe, non posso proprio accettarlo. Il dio quattrino è diventato l’unico idolo condiviso di questo paese. Questa è la verità.»

Che responsabilità hanno avuto i giornalisti?

«Il giornalismo e gli intellettuali — uh, che brutta parola — hanno delle responsabilità gravissime, forse maggiori della stessa classe politica.»

Dici che intellettuale è una brutta parola. Perché il termine “intellettuale” è diventato un insulto in questo paese?

«Credo che dipenda dal fatto che gli intellettuali hanno tradito il loro compito, il loro mestiere. E qual è il mestiere dell’intellettuale o del giornalista è, per usare una vecchia formula un po’ usurata, quella del cane da guardia del potere, il controllore. Un ruolo che in alcune parti del mondo ancora esiste, penso agli Stati Uniti, paese che detesto per molti motivi, ma a cui bisogna dare questo merito: la stampa, o almeno, delle parti della stampa sembrano ancora avere l’indipendenza minima, quella che ti permette quando parli dell’Afganistan, per esempio, di criticare l’operato del tuo governo e del tuo esercito.»

E in Italia?

«In Italia la stampa ha smesso da molto tempo di fare il suo mestiere, è totalmente versipelle, ma ci sono esempi di tutti i tipi. Giuliano Ferrara direi che ne è l’emblema, perché è una persona intelligente, anche se in questo caso l’intelligenza mi sembra una aggravante più che un’attenuante. In ogni caso, è questo mondo quello di cui parlo: i Ferrara, i Della Loggia, i Panebianco, i Battista e via dicendo, sono loro che hanno squalificato il lavoro del giornalista. Ma ci sono anche esempi positivi, penso ai Rizzo, agli Stella, che hanno fatto parecchia gavetta e che sono degli ottimi giornalisti. Il problema è che restano in uno stato di perenne gavetta, non avranno mai il peso che può avere un editorialista del Corriere della Sera, che poi non si sa nemmeno più perché debbano essere loro gli editorialisti del Corriere.»

Qual è il prezzo che un giornalista paga per difendere la propria onestà intellettuale?

«Come paga? Be’, con la marginalizzazione, l’estromissione, l’annullamento. Del resto, non si può fare la rivoluzione con la mutua, come pretendevano quelli del '68. Se ti metti contro devi essere disposto a pagarne il prezzo e il prezzo è quello. Ma c’è anche da dire che non è quasi mai una scelta, nel mio caso sta scritto nel Dna, non avrei mai potuto fare altrimenti.»

Credi che una nuova generazione di giornalisti possa cambiare le cose?

«È molto difficile. Prima di tutto perché è difficilissimo entrare. Una volta assumevi il figlio del collega o il nipote di un politico, ma insieme assumevi anche uno bravo. Adesso quelli bravi fanno molta più fatica. Ritornando alla mia storia, io ho avuto la fortuna di essermi affermato un po’ prima di quando cambiarono le cose. Oggi un ragazzo non so come potrebbe fare. Forse il web sarà utile in questo senso, per creare qualcosa di nuovo e indipendente, anche se la rete ha tutta una serie di problemi che non rendono affatto facile emergere. Con l’abbondanza che può offrire il web farsi notare è sempre più un’impresa eccezionale.»

Cosa ne pensi del finanziamento pubblico ai giornali?

«La legge che era nata per finanziare i giornali che erano organi di partito qualcosa di giusto ce l’aveva. Nell’ingenuità dei nostri padri costituenti, questa legge permetteva di fare un giornale anche a chi non aveva per forza un potere economico alle spalle. Poi invece è andata a finire come vediamo oggi: basta un sotterfugio e due parlamentari per aggirare la legge. È la solita storia italiana, insomma, non è che non ci sono buone leggi, è che le buone leggi vengono continuamente bypassate e diventano un’altra cosa.»

Il problema è sempre la disonestà?

«Sì, ma anche se forse tanto seri non lo siamo mai stati, una volta, almeno a livello popolare, un senso di onestà di fondo lo avevamo, io un po’ l’ho vissuto. C’era un rispetto delle regole che iniziava addirittura dalla strada. Per dire, quando eravamo piccoli, nel dopoguerra, noi abbiamo vissuto per strada e c’erano piccole faide di continuo tra gruppi diversi. Però anche lì, anche nelle risse tra ragazzini, c’erano delle regole: se uno cadeva per terra non lo potevi più toccare, non si potevano dare calci, ma solo pugni, se qualcuno si faceva male sul serio gli si dava una mano. Cominciava da lì, dalla strada. C’era tutto un mondo di regole, che poi erano le stesse della vecchia malavita milanese che, fino a Vallanzasca compreso, queste regole le rispettava: sarà stato pure un codice malavitoso, ma almeno era un codice. Quella che è sparita è proprio un’etica pubblica condivisa.»

Sono anni che ti batti contro il conformismo, in particolare contro quella specie di professionismo dell’anticonformismo che, facendo un giro completo, diventa il peggior conformismo. Com’è la situazione ora?

«Non è cambiato poi molto. Ci sono tantissimi finti anticonformisti in Italia, ci sono sempre stati, e se ne stanno benissimo incistati in quello che si chiama pensiero unico, che non sanno nemmeno bene che cos’è.»

Qual è il pensiero unico?

«È il pensiero uscito dalla rivoluzione industriale, che si basa su una distinzione netta tra destra e sinistra, che sono in realtà due facce della stessa medaglia. Questo quando sono onesti intellettualmente. Quando sono disonesti sembrano anche la stessa faccia, perché fondamentalmente si conformano al potente del momento. È normale, è quello di cui parlava Flaiano quando diceva “salire sul carro del vincitore”. Adesso c’è Renzi, prima c’era Berlusconi, poi chi sa chi ci sarà...»

Ti sembra di vedere oggi qualcuno che sfugge da questa dinamica?

«No. Una volta i giornali davano spazio anche a personaggi eterodossi. Certo li usava come foglia di fico, ma almeno li faceva scrivere. Pensa all’esempio di Pasolini, che ha scritto cose micidiali sulle pagine del Corriere della Sera, opinioni eterodosse che oggi non hanno più spazio. Questo tipo di intellettuale è esistito in Italia per molto tempo. Mi vien da pensare anche a una parte della carriera di Bocca, o di Montanelli. Adesso però io non riesco a vedere personaggi di questo genere, di questa statura intellettuale. Faccio fatica, non me ne vengono in mente, e questo probabilmente perché o non riescono ad accedere alla professione oppure, se ce la fanno, pagano un prezzo altissimo, ovvero la quasi completa emarginazione. In ogni caso l’effetto è lo stesso: non si vedono.»

Chi sono i conformisti dell’anticonformismo oggi?

«Sono ancora e sempre i finti anticonformisti, sono una classe di miracolati, è sempre la solita compagnia, il solito giro. E infatti non sentirai o non leggerai mai nelle loro trasmissioni o nei loro articoli, qualcosa di diverso dal solito, di eterodosso. Ti faccio un esempio che mi riguarda: una volta — una sola — sono stato invitato da Ballarò. Era una puntata con D’Alema e si parlava della guerra in Serbia, che io ho sempre giudicato inutile e cogliona. Ho spiegato il perché di questa mia convinzione, ovvero che, al di là del fatto che non avevamo nessun contenzioso con la Serbia e che, anzi, avevamo sempre avuto rapporti discreti, Milosevic in quel momento era una specie di gendarme dei Balcani e, proprio grazie all’intervento della Nato, è stato sostituito da una organizzazione di criminali enormi. E dove fanno i migliori affari questi gruppi criminali? Ovviamente nel paese ricco più vicino, ovvero l’Italia. Bene, io a Ballarò non ci sono più tornato. Magari sbaglio, dicendo queste cose, ma se non mi invitano non è per quello, è perché queste cose non le vogliono sentire. Insomma, o fai parte della compagnia del giro, quella dei Fazio, dei Saviano, dei Gramellini, o non avrai spazio. Per avere spazio devi essere cooptato da qualcuno. Prendiamo l’esempio di Luttazzi, così non parliamo solo di me, Luttazzi è uno che riempie i palazzetti dello sport con i suoi spettacoli, e forse interesserebbe a qualcuno se lo facessero passare in televisione, ma Luttazzi in televisione non ci rientrerà mai più, perché non fa parte di nessun gruppo, non fa parte della compagnia del giro.»

Cosa ne pensi delle scuole di giornalismo?

«Secondo me le scuole non servono a niente, semplicemente perché il giornalismo non è una cosa che si può insegnare. Quando mi chiamano nei licei o, ma molto più raramente nelle università, a tenere delle lezioni di giornalismo io non so che dire. Penso che il giornalismo lo si impari facendolo. Una volta il sistema per entrare nella professione era avere molta tenacia, bussare a tutte le porte, ma erano tempi diversi, i giornali assumevano ancora, era più facile. Ora invece è tutto molto più complicato e mi sembra che le scuole di giornalismo siano lì per cooptare gente cooptabile, ma non hanno quasi nulla a che fare con l’insegnamento della professione. Il problema è che molti ragazzi non hanno alternative, perché oggi quasi non ce ne sono. Un tempo era diverso. Feltri in questo era molto bravo per esempio. Quando eravamo all’Indipendente, visto che eravamo un piccolo giornale e non potevamo assicurarci i ragazzi che uscivano dalle scuole, noi leggevamo sempre i quotidiani locali per trovare firme che ci piacessero, poi li mettevamo alla prova e se ci piacevano li tenevamo. È un po’ quello che è successo a me, ma non mi pare che questa strada oggi sia praticabile. Un altro aspetto preoccupante e molto pericoloso per chi inizia a fare questo lavoro è il pagamento, che ormai è sceso a quote veramente ridicole, mi pare che si arrivi addirittura a meno di cinque euro al pezzo. Utilizzano questi ragazzi, fanno fare loro lavori molto importanti, inchieste o altro, e poi, quando hanno 30-32 anni, che poi è il momento in cui vorresti anche poter decidere qualcosa della tua vita, ti scaricano e ne prendono altri, tanto ormai alla qualità non bada più nessuno. È una specie di selezione al contrario, assolutamente pazzesca, perché chi ha qualche talento a un certo punto se lo va a giocare da qualche altra parte, e quindi restano quelli che di talento non ne hanno, oppure quelli che hanno una vocazione e una tenacia talmente forte che resiste a tutto questo. Ripeto, è estremamente pericoloso mettersi a lavorare in questo settore, magari lavorarci per cinque o dieci anni pagato pochissimo e, dopo un po’, ritrovarsi con niente in mano.»

Quando hai iniziato era molto diverso?

«Anche una volta la gavetta la facevi pagato pochissimo, ma avevi la certezza, se lavoravi bene, che dopo due o tre anni di gavetta poi il giornale ti assumeva, quindi poteva veramente considerarsi un investimento. Ora non è più così.»

Credi che l’informazione sia vicina a una fine o a un nuovo inizio?

«Credo che l’informazione sia finita. Non il nostro mestiere, ma l’informazione. Questo naturalmente è un ragionamento di un vecchio, quindi magari è da prendere con le pinze, però io ne sono abbastanza persuaso: l’informazione è finita per eccesso di informazione. È quello che ti insegnano al primo anno di economia: il primo cucchiaio di minestra ti salva la vita, il secondo ti nutre, il terzo di fa piacere, ma, alla lunga, il decimo ti uccide. Noi siamo attraversati di continuo da messaggi, non solo di tipo informativo, ma anche pubblicitari, per cui non riusciamo più a ritenere nulla di quel che leggiamo. Qualche anno fa lessi un articolo americano che spiegava come i giovani cresciuti in era pre-televisiva avessero una quantità di informazioni molto superiore ai loro coetanei nati dopo. Non parlo di qualità, ma di quantità. È un processo naturale, oserei dire di difesa. Come non puoi emozionarti di tutto, così non puoi ritenere tutto. Non credo che sia una morte definitiva, perché non c’è mai nulla di definitivo, però per gli anni a venire sono molto pessimista, non per difetto, ripeto, ma per eccesso.»

E come si fa a cambiare senza far esplodere i server?

«Eh eh eh... l’altro giorno mi hanno intervistato per una piccola televisione e mi hanno fatto una domanda simile. Io ho risposto che preferivo stare zitto, non volevo essere arrestato. Sai — e qui superiamo i confini del giornalismo — i veri cambiamenti avvengono soltanto quando ci si ritrova in condizioni di crisi veramente profonda. Se ci fosse una crisi economica veramente forte, e adesso non ci siamo ancora, allora forse le persone si sveglierebbero e non farebbero come adesso, che tirano a campare. E questo vale per tutto, non soltanto per l’informazione. L’informazione è un campo strano: se leggi soltanto quella main stream sai che al 90 per cento è taroccata, se invece cerchi in rete ti ritrovi con una massa talmente vasta di informazioni che non sai più nemmeno come gestirla.»

Qual è l’errore peggiore che può fare un giornalista?

«Non scrivere quello che vede e non dire quello che pensa, senza dimenticare mai che quello che pensa non è la verità assoluta, visto che non c’è nessuna verità. La cosa peggiore che può fare un giornalista è non essere onesto. Io l’ho sempre detto: se in un’inchiesta dovessi scoprire che mia madre è una puttana, scriverei che mia madre è una puttana. Questo deve fare il giornalista. Naturalmente non c’è una verità oggettiva, non esiste, ma questo è un tema più profondo, qui sfociamo nella metafisica. C’è un bellissimo film degli anni Cinquanta di Akira Kurosawa che si chiama Rashomon. Kurosawa ti fa vedere la scena di un samurai e di sua moglie che vengono aggrediti in un bosco. Lei viene stuprata e lui ucciso. Poi c’è il processo, e al processo ognuno racconta la sua verità. E Kurosawa ti fa vedere ogni volta la stessa scena, senza cambiare una virgola, ma ogni volta la verità è diversa. Esiste l’obiettività relativa, non quella assoluta. Se tu dici che nel 2000 il Mullah Omar ha proibito la coltivazione dell’oppio in Afghanistan e che nel 2001 la produzione di stupefacenti in Afghanistan è crollata a quasi zero, dici una verità oggettiva, basata sui dati. Anche se dici che ora la produzione di oppio dell’Afghanistan è pari al 93% della produzione mondiale e che i talebani la usano per finanziarsi dici la verità. Ma se non hai detto la prima parte, non stai facendo buona informazione, la stai appiattendo. La verità che emerge da una realtà appiattita è una mezza verità. E le mezze verità sono peggiori delle menzogne.»

Si può cambiare il conformismo della maggioranza?

«Ora che sono arrivato alla venerabile età di 70 anni posso dirti che sono molto deluso, e anche molto pessimista. Certo che quando ho iniziato anch’io pensavo che nel mio piccolo avrei contribuito a cambiare le cose, ma con il tempo mi sono reso conto che non è così, o almeno non è stato così. Anzi, le cose sono andate di male in peggio. È anche vero però che la delusione è responsabilità di chi si illude. Io ho sempre inseguito, non solo nel giornalismo, ma anche nella vita, cose di questo genere. L’utopia di certo non paga, ma nemmeno cose meno ambiziose dell’utopia.»

Che rapporto c’è tra l’idea che hai di una storia prima di incontrarla sul posto e quello che poi ti trovi di fronte?

«Quando vai sul posto e la realtà che incontri corrisponde esattamente alla realtà che ti sei immaginato, allora stai sbagliando qualcosa. Perché la realtà non è mai quella che tu stando a casa tua e leggendo quello che ti pare ti puoi immaginare. Una cosa del genere mi è capitato in Sudafrica, c’erano decine di articoli sulla situazione, ma erano tutti uguali, potevano essere scritti da dovunque, da Washington o da Roma. La realtà che mi trovai di fronte quando arrivai sul posto era un po’ diversa da quella che si raccontava, era più complessa del quadretto che vedeva i bianchi come dei mascalzoni e i neri come delle vittime. Era anche così, certamente, ma non era solo così. Vale il principio fondamentale del nostro mestiere, quello che disse una volta Nino Nutrizio, direttore de La Notte: «il giornalismo si fa prima coi piedi, poi con la testa». Prima devi andare sul posto, osservare, parlare, ascoltare eccetera. È solo dopo che viene la testa.»

Se dovessi indicare i tuoi maestri, che nomi faresti?

«Prima di tutto Curzio Malaparte, poi, come personaggio più abbordabile e più vicino direi Giorgio Bocca. Poi ce ne sono altri, sotto traccia, come Buzzati, Flaiano, Prezzolini, se dovessi far vedere a un ragazzo come si scrive su un giornale farei leggere loro, e poi Montanelli, se non altro per l’eleganza e la chiarezza dell’esposizione.»

Un'ultima domanda, forse la più difficile: qual è il peggior errore che può fare un uomo?

«Non essere coerente con se stesso. Ora mi spiego con un esempio estremamente crudo. Io sono convinto che si debba essere all’altezza delle proprie cattive azioni, anche delle peggiori. Voglio dire, ciò che per me è intollerabile è il mafioso che scioglie un bambino nell’acido e poi, la sera, va a un club e si commuove sentendo My Way di Frank Sinatra. Preferisco, a questo tipo di personaggio, un nazista che è crudele, ma è crudele coerentemente, fino in fondo. È il tradimento che tu fai a te stesso la cosa peggiore che puoi fare come uomo: tradire se stessi vuol dire non essere uomini, e non ne vale la pena. Ho avuto recentemente una polemica con il solito Feltri, che mi ha fatto un ritratto in cui mi ha definito un grande giornalista mancato. «Sì», gli ho risposto io, «può essere, però ho preferito essere un giornalista mancato che un uomo mancato». Una scelta difficile, è vero, infatti come vedi non vivo in una reggia. E mi fanno ridere quelli che mi dicono che è facile parlare dal mio salotto, che vengano a vederlo, il mio salotto... eh eh eh...»

Sono passate quasi tre ore da quando sono entrato in quella casa piena di libri, mi sono già fumato tre sigarette e bevuto due bicchieri di vino — un buon rosso — insieme a Fini. Spengo il registratore, mi alzo e faccio per dirigermi alla porta. Ma prima mi fermo, tiro fuori dallo zaino una copia usurata e pesante de Il Conformista e gliela porgo. Slegando la bicicletta, proprio davanti al portone di Fini, mi è venuto in mente che non la facevo mai da ragazzo, questa cosa del chiedere gli autografi. Poi ho pensato una cosa stupida, che forse si iniziano a chiedere gli autografi quando si passa i trent’anni perché è l’esatto momento in cui si capisce sul serio quanta fretta abbia il tempo.

ITALIA. PROCESSO ALLA STAMPA. COME IL FATTO DIVENTA NOTIZIA.

Siamo sicuri di essere e di voler essere correttamente informati di quello che succede intorno a noi?

In Italia la notizia è tale solo se data da un giornalista iscritto all’albo di origine fascista e non perché il fatto vero, raccontato correttamente da chiunque, può suscitare un pubblico interesse. Se non creata dal pennivendolo, la notizia è solo una misera e opinabile opinione. L’opinione si eleva a notizia solo se è pubblicata come editoriale dal direttore dell’organo di informazione, o da un suo delegato. Gli esperti, che hanno molto da dire, invece, se graditi, parlano solo se intervistati.

Il giornalista, come in tutte le categorie professionali, può essere un incapace raccomandato, vincitore di un esame-concorso truccato. Come tutti, del resto, in Italia. Inoltre in questa professione può essere anche uno sfruttato a 5 euro al pezzo.

La preparazione culturale del giornalista non permette alcuna competenza specifica, né egli ha alcuna esperienza diretta dei fatti, vivendo recluso in redazione, di conseguenza si appoggia alle considerazioni di coloro che lui reputa esperti. Quindi, non ci si aspetti da lui un approfondimento peritale del fatto.

Importante sapere è che i fatti non sono cercati dalle redazioni giornalistiche, d'altronde non possono prevedere gli eventi, ma sono vagliati in base alle segnalazioni ricevute. Sono cestinati i suggerimenti scomodi o che comportano approfondimento e ricerca. Sono dileggiate le note che urtano i loro convincimenti o danno fastidio ai loro amici. Alcune fonti, poi, sono da loro trattati erroneamente come mitomani o pazzi.

Quindi come far diventare notizia, un fatto vero ed interessante ed assolutamente conoscibile?

“Conditio sine qua non” è che il fatto deve essere giornalisticamente pubblicabile: vero; pubblicamente interessante; con obbiettiva, corretta e civile esposizione. A questi requisiti noti si aggiunge il modus operandi corrente: comodo, condiviso ed omologato. Insomma diventa notizia quella che tutti danno. Non esiste lo scoop, se non quello artefatto.

Chi ha un fatto da far conoscere, per prima cosa ha bisogno di attivarsi nel cercare quanto più contatti redazionali, per poter inviare la segnalazione o il contributo pre confezionato in stampo giornalistico. Tra il mucchio si può trovare la redazione interessata alla problematica condivisa dalla  sua politica editoriale. Le grandi testate nazionali, che nessuno più legge, destinati all’estinzione dall’inevitabile assottigliarsi del numero dei loro lettori, disdegnano tutto quanto non esce dalla loro dotta (a loro dire) professionalità. Le piccole testate lette solo dal parentado redazionale ed interessate esclusivamente alle loro sagre paesane, scartano le segnalazioni non attinenti la competenza condominiale. Eccezionalmente, nel mucchio si può anche trovare qualcuno che si impietosisce e fa passare il suggerimento come l’istanza di un caso umano.

Se la nota parte da un organo politico o istituzionale, avrà fortuna solo se il ricevente è un suo referente politico o destinatario di contributi pubblici. Invece le veline dei magistrati e degli organi di polizia giudiziaria, pur attinenti fatti coperti da segreto istruttorio, hanno pubblicazione certa e pedissequa alla virgola, specie se si sbatte il mostro in prima pagina.

Il contributo già formato in stampo giornalistico, inoltre, non deve urtare la suscettibilità del ricevente. Bisogna apparire inferiori intellettualmente. Quindi non deve essere perfetto in sintassi e grammatica ed essere zoppicante nella fluidificazione del discorso. Avere un linguaggio politically  correct. Non avere intercalari di linguaggio comune e moderno, né usare un lessico comprensibile al popolo. Non offendere nessuno. Meglio appuntare i nomi. Non denunciare il malaffare di magistrati ed avvocati e comunque del sistema di potere precostituito di cui i giornalisti sono servi, salvo eccezioni. Chi è giornalista lo sa, chi dice verità scomode è tacciato di mitomania, pazzia o addirittura accusato di diffamazione a mezzo stampa. Oggi il valore del giornalista si compara alla quantità delle querele a carico. Parlar male della politica e di politici in particolare, può segnare l’interesse della redazione avversa a quel partito.

Non approfondire la tematica, pur se esperti, sareste chiamati prolissi. Basta l’accenno del profano. Non collegarli a casi similari, sareste chiamati confusionari. Basta l’allusione dell’inesperto. L’autore del contributo non si deve presentare nel testo, sarebbe accusato di autocelebrazione ed autocitazione. Meglio essere anonimi. Sia mai che diventi propaganda gratuita, perché la pubblicità è l’anima del commercio….e pure dell’informazione. E poi, il testo come può essere firmato come proprio da chi lo riceve e lo pubblica?

Le recensioni dei libri, inviate alle redazioni cultura, devono essere attinenti ai testi pubblicati dall’editore della testata: non è permesso agevolare la concorrenza. Gli scrittori, poi, violentino il loro talento e diano una parvenza di inettitudine allo scritto. Insomma, bisogna essere sintetici e divulgativi. I giornalisti superano l’esame di abilitazione nello svolgimento di una prova di sintesi di un articolo o di un altro testo scelto dal candidato tra quelli forniti dalla commissione in un massimo di 30 righe di 60 caratteri ciascuna, per un totale di 1.800 caratteri compresi gli spazi. Per le moderne testate tutto questo spazio è troppo, meglio centellinare i periodi, altrimenti in pagina non ci entra nello spazio lasciato libero dalle inserzioni pubblicitarie. Per esempio, questo pezzo è troppo lungo è sarebbe di sicuro cestinato.

L’espressione del pensiero deve essere misurato e limitato in spazi preconfezionati. Non si consulti il dizionario, ma la calcolatrice.

Seguendo queste basilari regole, forse, dico forse, tra 1500 testate, ai cui contatti email arrivano le note stampa, qualcuno di loro può prendere in considerazione la missiva sotto forma di lettere al direttore e far leggere ai suo pochi lettori quello che solo allora diventa notizia.

In caso contrario, se i giornalisti altezzosi o permalosi ci ignorano, ci si apre un blog o si fa parte di un social network o di un portale di giornalismo partecipativo. In tal caso, però ci si accorge che i commenti dei lettori alla notizia da noi data, spesso, sono postate da gente esaltata ed alienata: lo specchio della società. Solo allora ci si rende conto qual è l’umanità frustrata che ci circonda e che la notizia dovrebbe leggere. A quel punto ci si pensa che è meglio tenere il fatto per sé, non elevandolo a notizia, e far vivere gli altri nell’illusione di essere informati su tutto. Perché gli altri son convinti che la notizia è solo quella detta dai tg. Perche?!? Perché l’ha detto la televisione!!!

Per inciso ed in conclusione, voglio dire che sui media ho scritto un saggio “Mediopoli. Disinformazione, censura ed omertà”. Ho cognizione di causa. Facendo parlar loro, la cronaca diventa storia. Per il resto i miei scritti, quelli sì, pur non pubblicizzati, sono al vaglio del giudizio dei miei tanti lettori, anzi studiosi, oggetto delle loro tesi di laurea. Ad ognuno il suo.

SI CENSURA, MA NON SI DICE.

Non fu la resistenza a liberare l'Italia ma solo gli alleati. Gli elementi dominanti della Resistenza, quelli comunisti, lottavano per l'Unione sovietica. Ecco perché Churchill voleva puntare non sulla Francia, ma sull'Italia, scrive Nicholas Farrell su “Il Giornale”. Quando guardo in streaming le facce nobili dei vecchi uomini inglesi e americani e del Commonwealth che hanno partecipato all'invasione della Francia nel 1944 e che ora sono tornati alle spiagge della Normandia per commemorare il 70° anniversario del «Longest Day», e poi, quando ascolto le loro parole piango - sorridendo. Sono da onorare perché sono uomini in perfetta sintonia con la regola antica della vita, cioè: per meritare l'onore, un uomo deve dimostrare prima l'umiltà e poi la virtù. E loro, questi uomini che ormai hanno compiuto i 90 anni - e tutti i loro compagni caduti in nome della libertà - ce l'hanno fatta. Poi, però, penso alla liberazione di Roma dagli stessi anglo-americani, accaduta due giorni prima del D-Day - il 4 giugno 1944 - e mi incazzo. Per parecchi motivi. In anzitutto, mi incazzo perché sono inglese ma in Italia si commemora la liberazione d'Italia ogni 25 aprile come se fosse un lavoro compiuto da partigiani e basta. E mi sento offeso che a Forlì in Romagna dove abito la strada che porta ad uno dei due cimiteri degli alleati nella città si chiama Via dei Partigiani. E mi sento offeso che quando si parla di alleati in discorsi o sui giornali, si fa riferimento solo agli «americani». In quei due cimiteri di Forlì giacciono i resti mortali di 1.234 soldati dell'Ottava Armata Britannica. Così tanti morti, solo a Forlì. Ma vi rendete conto? Non è ora - dopo 70 anni - di affrontare una semplice verità? Eccola: la Resistenza in Italia era completamente irrilevante dal punto di vista militare. In ogni caso, nell'estate del 1944 non esisteva una Resistenza in Italia. Dopo, invece - dall'autunno del 1944 in poi - che cosa di concreto ha portato questa Resistenza? Peggio. Secondo la storiografia la Resistenza lottava per la patria, la libertà e la democrazia. Non è vero. I suoi elementi comunisti (quelli dominanti) lottavano per l'Unione sovietica, la dittatura e il comunismo. Ecco perché Churchill voleva puntare non sulla Francia, ma sull'Italia. Voleva a tutti costi fermare le forze comuniste nei Balcani e in Austria. Roosevelt no, invece, e ha prevalso il Presidente americano. Perciò, gli alleati, che avevano invaso l'Italia nel 1943, non ebbero le forze necessarie in Italia per liberarla fino all'aprile 1945. Si dice: solo grazie alla Ue ci sono stati 70 anni di pace in Europa. Non è vero. C'è stata pace in Europa solo grazie agli anglo-americani e al piano Marshall. Oggi, la Ue e la sua moneta unica rappresentano la più grave minaccia alla pace in Europa.

Di questo oscurantismo la tv di Stato ne è molto responsabile, ma guai a toccarla. Santoro confessa: "Sono un vecchio comunista", scrive “Libero quotidiano”. Il teletribuno: "Giusto lo sciopero in Rai, ma la tv pubblica è vecchia e tre tg sono troppi". Lo sciopero Rai? Se lui lavorasse ancora nella tv pubblica vi aderirebbe, "perchè sono un vecchio comunista e se il mio sindacato me lo chiede io non faccio il crumiro". Esordisce così, Michele Santoro, nell'intervista concessa oggi a Repubblica e nella quale affronta lo spinoso tema della televisione pubblica, alle prese col taglio da 150 milioni imposto da Renzi. una mossa che il teletribuno applaude nei fini ma non nei contenuti: "Tagliare di botto 150 milioni significa imporre tagli lineari, costringere l'azienda a ridimensionare il prodotto. Ma Renzi, che ha nell'intuito la sua più grande dote, ha capito che la Rai è l'ultima sopravvissuta del vecchio sistema politico e i tagli sono un modo per destabilizzare tutto. Nel senso che Grillo si è messo a difendere lo sciopero passando così come l'alfiere del passato, col "vecchio" Pd e Forza Italia che hanno fatto alleanza mentre lui li osserva dall'altra parte. Un capolavoro politico". Santoro ricorda i suoi esordi in viale Mazzini nel lontano 1987, "quando ero la voce della piazza mentre ora rischio anch'io di passare per istituzionale perchè la tv generalista, non solo la Rai, è in crisi profonda per una mancanza di reale concorrenza tra i due grandi poli che ha abbattuto la qualità di ciò che viene trasmesso. Basti guardare le fiction: parlano di preti, di carabinieri, di buoni sentimenti. Non c'è il futuro, non c'è modernità, capacità di innovare". Poi c'è la questione della "lottizzazione" e dei tre tg nazionali: "Un sistema vecchio, figlio di quando c'erano le grandi ideologie a contendersi il Paese. Ma oggi non c'è una domanda di pubblico che giustifiche tre grandi redazioni". Con un occhio al suo futuro professionale, con voci che ogni anno lo vedono verso un rientro in Rai, Santoro definisce invece demagogia chiedere che le star del piccolo schermo, da Vespa a Floris a Fazio si taglino lo stipendio: "Se non hai Maradona, lo stadio non lo riempi, così senza Celentano non fai audience". E il futuro di viale Mazzini? "un canale finanziato col canone che faccia tutto quello che il mercato non fa: niente reality, grande informazione, innovazione. E due canali aperti ai privati".

Quando Santoro e De Gregorio erano colleghi al quotidiano comunista. Dopo la parentesi in un gruppo maoista, il teletribuno lavorò a "La Voce della Campania". E tra i collaboratori c'era il nuovo idolo della sinistra, scrive “Libero Quotidiano”. Dopo Massimo Ciancimino, la sinistra manettara, santoriana e travaglina ha un nuovo totem: Sergio De Gregorio. L'ex senatore dell'Idv è il testimone chiave dell'inchiesta napoletana sulla compravendita di onorevoli, per le toghe orchestrata da Silvio Berlusconi, che tra il 2007 e il 2008 avrebbe fatto cadere il governo Prodi. Roba tosta, insomma, roba in grado di trasformare De Gregorio in superstar della prima puntata della nuova stagione di Servizio Pubblico, la trasmissione di Michele Santoro a cui partecipa Marco Travaglio e dalle cui labbra pende tutta la sinistra manettara. Il terzetto si ricompone, insomma, e con De Gregorio si trasforma in quartetto. In questo quartetto, però, c'è un legame che affonda le sue radici più in là nel tempo. E' quello tra il teletribuno Michele e l'ex "traditore" De Gregorio, fino a qualche mese fa liquidato nel migliore dei casi come "maneggione" e oggi, invece, asso nella manica nella guerra contro il Cavaliere. Già, perché i due sono ex colleghi. Entrambi campani - Santoro classe 1951, De Gregorio 1960 -, il primo giornalista e il secondo, invece, ex giornalista, avevano iniziato le loro attività da cronisti nel quotidiano comunista La voce della Campania tra la fine degli anni '70 e gli inizi degli anni '80. Una conoscenza, la loro, nata tra le scrivanie della redazione di un quotidiano comunista: nessuna sorpresa per Santoro, un po' di stupore in più, invece, per De Gregorio (ex socialista ed ex valorista). Che Santoro abbia lavorato a La Voce della Campania non è certo un mistero: la sua parentesi al quotidiano rosso iniziò dopo quella con il periodico Servire il popolo, edito dal gruppo maoista Unione Comunisti Italiani in cui militò fino alla sua chiusura, nel 1975. De Gregorio collaborò con La voce della Campania proprio nella seconda metà degli anni '70: negli anni successivi, dopo l'ingresso in politica, promosse il ritorno in edicola della testata. Il nuovo idolo della sinistra, insomma, il senatore De Gregorio (lo stesso che, ha denunciato Maurizio Belpietro, "mi propose di pagare la Camorra"), consosceva Santoro da anni, dai tempi della militanza comunista. Una carriera iniziata insieme, quella di Michele e Sergio, che a distanza di quasi 40 anni si sono ritrovati sul piccolo schermo, a La7, per spalare fango contro Berlusconi.

La Rai "censura" il giornalista e le sue scomode verità sulla Sardegna. La Rai intervista Anthony W. Muroni (direttore dell'Unione Sarda) e dopo decide per la "censura", non mandando in onda il suo intervento. Poi la retromarcia: ecco la denuncia. Prima l'hanno chiamato per un'intervista sulla tragedia della Sardegna e poi gli hanno riferito che non sarebbe mai andata in onda, con un commento secco: "Meglio non parlare di queste cose". E lui, Anthony W. Muroni, direttore dell'Unione Sarda, ha denunciato la "censura" della Rai sulla sua pagina Facebook. Nell'intervento registrato per il Tg2, riferisce lo stesso Muroni, il giornalista aveva invitato ad interrogarsi sul "perché i ponti crollano, sul perché i cantieri per la messa in sicurezza dei fiumi si bloccano per anni a causa di contenziosi tra Comuni e imprese appaltatrici". Ecco la sua denuncia su Facebook: Mezz'ora fa ho registrato un intervento per il Tg2, nel quale ripetevo i concetti già espressi a Uno Mattina: serve solidarietà, servono interventi, servono aiuti, serve combattere l'emergenza, Ma serve anche interrogarsi sul perché i ponti crollano, sul perché i cantieri per la messa in sicurezza dei fiumi si bloccano per anni a causa di contenziosi tra Comuni e imprese appaltatrici. Ho detto anche: va bene la solidarietà del governo e gli stanziamenti, ma forse dovrebbero rendersi conto che c'è un intero sistema che non funziona. E che in Sardegna, dieci anni dopo Capoterra, stiamo ancora parlando delle stesse cose. Mi ha appena chiamato una collega della Rai: l'intervista non verrà mandata in onda: "Meglio non parlare di queste cose". Tanti saluti. Poi è arrivata la retromarcia, dopo che la notizia aveva fatto il giro dei social network. Come scrive su Twitter lo stesso Muroni, l'intervista, dopo un equivoco, andrà in onda questa sera: "Mi ha chiamato Rocco Tolfa, vicedirettore Tg2: c'è stato equivoco. Intervista in onda alle 20.30".

Censura in Italia. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. L'Italia è ad uno dei livelli più bassi per quanto concerne la libertà di stampa in Europa. Un'analisi effettuata da Freedom House classifica l'Italia come "parzialmente libera", uno dei soli due paesi dell'Europa Occidentale (il secondo è la Turchia), relegandola dietro anche a diversi paesi comunisti dell'Europa Orientale. A livello mondiale, Reporter Senza Frontiere classifica l'Italia al 57º posto per la libertà di stampa. La censura viene applicata tanto sulla televisione quanto sugli altri mezzi di informazione e di stampa.

Storia della censura in Italia. Nel periodo che segue il Congresso di Vienna (1814-1815), in territorio italiano era in atto un incisivo controllo sulla stampa da parte delle monarchie. Nelle capitali dei vari staterelli, e nei centri urbani più importanti, in genere usciva solo un foglio ufficiale della monarchia, generalmente intitolato Gazzetta, che serviva per la pubblicazione delle leggi e di una cronaca attentamente selezionata. Oltre a questi tuttavia erano presenti dei periodici letterari e culturali, dove potevano essere espresse nuove idee. Nel 1816, su iniziativa degli austriaci, a Milano fu fondato un mensile letterario intitolato Biblioteca Italiana, in cui vengono invitati a collaborare (non sempre con successo) oltre 400 fra intellettuali e letterati di tutta Italia. A questa rivista faceva da contraltare Il Conciliatore, periodico statistico-letterario vicino alle idee romantiche di Madame de Staël, che continuerà ad uscire fino al 1819, quando sarà costretto alla chiusura. La situazione del giornalismo italiano comincia a cambiare con la nascita di numerosi fogli clandestini, stampati dai nuclei carbonari e dai movimenti rivoluzionari sotterranei, che porteranno ai moti del 1820-1821. Uno dei giornali più noti di questo periodo è L'Illuminismo, pubblicato nelle Legazioni pontificie nel 1820, ma abbiamo anche La Minerva di Napoli e La Sentinella subalpina di Torino. Nello stesso periodo, anche negli ambienti liberali italiani ci fu un certo attivismo giornalistico. Risalgono a quegli anni infatti Antologia, giornale di scienze, lettere e arti, nato a Firenze nel 1821, i genovesi Corriere mercantile del 1824 e L'Indicatore genovese, cui collaborò anche il giovane Giuseppe Mazzini. Nel 1847 e nel 1848 furono promulgati gli editti di Pio IX e di Carlo Alberto, relativi alla libertà di stampa. La prima legge che introduceva un vero e proprio intervento censorio è quella relativa alle proiezioni cinematografiche e risale al 1913. Con questa legge si impediva la rappresentazione di spettacoli osceni o impressionanti o contrari alla decenza, al decoro, all'ordine pubblico, al prestigio delle istituzioni e delle autorità. Il successivo regolamento, emanato nel 1914, elencava una lunga serie di divieti e trasferiva il potere di intervento dalle autorità locali di pubblica sicurezza al Ministero dell'Interno. Nel 1920 con un Regio Decreto fu istituita una commissione, che fra le altre cose aveva il compito di visionare preventivamente il copione del film prima dell'inizio delle riprese. La censura fascista in Italia, consistente nella forte limitazione della libertà di stampa, radiodiffusione, assemblea e della semplice libertà di espressione in pubblico, durante il ventennio (1922-1944), non fu creata dal regime fascista, e non terminò con la fine di questo.

I principali scopi di questa attività erano:

Controllo sull'immagine pubblica del regime.

Controllo costante dell'opinione pubblica come strumento di misurazione del consenso.

Creazione di archivi nazionali e locali (schedatura) nei quali ogni cittadino veniva catalogato e classificato a seconda delle sue idee, le sue abitudini, le sue relazioni d'amicizia e sessuali, costituendo così di fatto uno stato di polizia.

La censura fascista combatteva ogni contenuto ideologico alieno al fascismo o disfattista dell'immagine nazionale. La censura nel settore dei media veniva posta in atto dal Ministero della Cultura Popolare (Min.Cul.Pop.), che aveva competenza su tutti i contenuti che potessero apparire in giornali, radio, letteratura, teatro, cinema, ed in genere qualsiasi altra forma di comunicazione o arte. Nel 1930 fu proibita la distribuzione di libri con contenuti di ideologia marxista o simili. Questi libri dovevano essere raccolti, presso le biblioteche pubbliche, in sezioni speciali non aperte al vasto pubblico. Per avere accesso a questi testi bisognava ottenere una autorizzazione governativa, che veniva concessa dietro alla manifestazione di validi e chiari propositi scientifici o culturali. Grandi falò di libri si verificarono sin dal 1938: le opere contenenti temi sulla cultura ebraica, la massoneria, l'ideologia comunista, vennero rimosse dagli occulti scaffali di biblioteche e librerie. Per poter evitare i sequestri e le conseguenze delle ispezioni fatte dalla polizia fascista, molti bibliotecari nascosero le opere incriminate, ed in effetti in molti casi queste vennero ritrovate alla fine della guerra. Un episodio recente di censura è stata la cancellazione di una puntata della trasmissione televisiva Le Iene che avrebbe dovuto mandare in onda un test sull'uso della droga all'interno del Parlamento Italiano. Come per tutto il resto dei sistemi di informazione italiani, l'industria della televisione italiana è considerata, sia da fonti interne che esterne al paese, ampiamente politicizzata. Riprendendo un sondaggio effettuato nel dicembre del 2008, solo il 24% degli italiani crede ai programmi informativi televisivi, in netto svantaggio ad esempio con il dato della Gran Bretagna che è al 38%, facendo dell'Italia uno degli unici tre paesi esaminati dove le risorse online informative sono ritenute più affidabili di quelle televisive. Spesso in Italia i cartoni animati e gli anime vengono tagliati o modificati per evitare scene di violenza o di sesso. Uno degli esempi più eclatanti è sicuramente Naruto. L'8 dicembre 2008, la rete televisiva Rai 2 ha diffuso una versione censurata del film I segreti di Brokeback Mountain nella quale due scene sono state tagliate (la scena dove è rievocata la prima relazione sessuale tra i due eroi e la scena dove si abbracciano). La censura ha suscitato le proteste dei telespettatori e delle associazioni omosessuali. Nel 2009 la RAI e Mediaset si sono rifiutate di mandare in onda il trailer promozionale di Videocracy, un'analisi del potere della televisione e di come essa influenzi comportamenti e scelte della popolazione italiana, di come essa sia entrata nella vita quotidiana come principale fonte di informazione per la quasi totalità delle persone, a causa di motivi, rispettivamente per RAI e Mediaset, politici e di opportunità. Nel 2010 in concomitanza con le elezioni regionali, erano stati sospesi i talk show informativi dell'intero panorama televisivo italiano, su ordinanza dell'Agcom, poi abrogata dal TAR del Lazio con sentenza del 12 marzo 2010. In realtà poi rimasero sospesi alcuni talk show RAI, inclusi Porta a Porta, Ballarò e Anno Zero, come precedentemente sancito dal Consiglio di Amministrazione e poi ribadito dalla Commissione Vigilanza della RAI, in ottemperanza al previgente ordinamento Agcom. Nel 2009 la televisione di stato RAI tagliò i fondi per l'assistenza legale al programma televisivo d'inchiesta giornalistica Report (messo in onda da Rai 3). Il programma si è sempre interessato di questioni molto sensibili, esponendo spesso i giornalisti ad azioni legali (esempio fra tutti l'autorizzazione alla costruzione di edifici che non rispondevano a specifiche tecniche di resistenza ai terremoti, casi di eccessiva e mala burocrazia, i lunghi tempi della giustizia italiana, prostituzione, scandali di malasanità, casi di banchieri falliti che segretamente possedevano dipinti e opere d'arte di altissimo valore, cattiva gestione dei rifiuti tossici e di diossina, casi di cancro causati dalle schermature antincendio in amianto (Eternit) e casi di inquinamento ambientale causati da centrali elettriche a carbone (Taranto). Un accumulo di cause pendenti contro i giornalisti in assenza di fondi per la loro gestione potrebbe portare il programma ad una fine. Prima del 2004, nel rapporto dell'organizzazione americana Freedom House sulla libertà di stampa, l'Italia era sempre stata considerata "libera". Nel 2004 fu declassata a “Parzialmente Libera” a causa dei '”'20 anni di fallita amministrazione politica”, la “controversa Legge Gasparri del 2003” e soprattutto per tutte le “possibilità del primo ministro di influenzare la RAI (radiotelevisione italiana di stato), uno dei più lampanti conflitti d'interesse al mondo” (citazione del rapporto). Lo status del resoconto risalì al grado libero dal 2007 al 2008 durante il Governo Prodi II, per tornare subito a parzialmente libero dal 2009 con il Governo Berlusconi IV. La Freedom House ha notato come l'Italia costituisca un “valore erratico regionale” e, più precisamente, che “l'attuale governo ha incrementato i tentativi di interferire con la politica editoriale della televisione di stato, in particolare per quanto riguarda la copertura degli scandali che circondano il presidente Silvio Berlusconi”. Il controllo estensivo di Berlusconi sui media è stato ampiamente criticato sia da analisti che da organizzazioni per la libertà di stampa, che concordano nel considerare i media italiani con una limitata libertà di espressione. La Freedom of the Press 2004 Global Survey, uno studio annuale promosso dall'organizzazione americana Freedom House, per tali motivi ha più volte declassato l'Italia da Libera a Parzialmente Libera esplicitamente a causa dell'influenza di Berlusconi sulla Rai, una valutazione condivisa in tutta l'Europa Occidentale solo dalla Turchia. Reporter Senza Frontiere afferma che nel 2004 Il conflitto d'interessi che coinvolge il primo ministro Silvio Berlusconi e il suo vasto impero mediatico non è stato ancora risolto e continua a minacciare la democrazia informativa. Nell'aprile del 2004, la Federazione Internazionale dei Giornalisti si unì a tali critiche, obiettando al passaggio di una legge respinta da Carlo Azeglio Ciampi nel 2003, che criticanti credono sia disegnata appositamente per proteggere il controllo al 90% del sistema televisivo italiano da parte di Silvio Berlusconi. L'influenza di Berlusconi sulla RAI divenne evidente quando a Sofia, Bulgaria, espresse le sue opinioni sui giornalisti Enzo Biagi e Michele Santoro, e sul comico e attore Daniele Luttazzi. Berlusconi disse che “usano la televisione come un mezzo di comunicazione criminale”. Come risultato i tre persero il loro lavoro. Questa affermazione fu chiamata dai critici "Editto Bulgaro". La trasmissione televisiva di un programma satirico chiamato Raiot fu censurata nel novembre del 2003 dopo che la comica Sabina Guzzanti aveva espressamente criticato l'impero mediatico di Silvio Berlusconi. Nel 2006, all'uscita del film Il caimano di Nanni Moretti, la RAI (che essendo televisione di stato utilizza denaro pubblico) acquisisce il film per un milione e mezzo di euro per 5 passaggi del film sulle reti RAI in altrettanti anni. Il film, che ricalca in molti punti e situazioni la figura di Silvio Berlusconi e soprattutto le questioni riguardanti i media e le sue controversie con la giustizia italiana, non è stato tuttora mai trasmesso. La questione risulta particolarmente calda durante gli scandali che coinvolgono il presidente del consiglio Silvio Berlusconi nel 2010 e 2011, facendo risultare il film di Nanni Moretti particolarmente profetico e accendendo a tal riguardo l'opinione pubblica. La Mediaset, il gruppo televisivo di Silvio Berlusconi, ha affermato che esso utilizza gli stessi criteri della televisione pubblica (RAI) nell'assegnazione di un'appropriata visibilità ai più importanti partiti movimenti politici (la cosiddetta par condicio) – tale affermazione è stata più volte confutata. Nel mese di ottobre del 2009, il segretario generale di Reporter Senza Frontiere Jean-François Julliard dichiarò che Berlusconi è sul limite per essere aggiunto sulla nostra lista dei Predatori della Libertà di Stampa, rendendolo così il primo leader europeo della lista. Aggiunse anche che l'Italia sarebbe probabilmente posizionata all'ultimo posto nell'Unione Europea per quanto riguardava l'imminente edizione della lista annuale dei paesi in base alla libertà di stampa. Attualmente la filtrazione internet in Italia viene applicata a circa 5500 siti sulla base di richieste dell'autorità giudiziaria, della polizia postale e delle comunicazioni (tramite il Centro nazionale per il contrasto alla pedo-pornografia su Internet), dell'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Nell'elenco sono compresi anche siti web che contengono pedopornografia e ad alcuni siti P2P. Dal febbraio del 2009 il sito internet The Pirate Bay e il loro indirizzo IP è stato reso inaccessibile dall'Italia, bloccato direttamente dai Provider e seguendo un verdetto definito dalla Corte di Bergamo, poi confermato dalla Corte Suprema definendo quest'azione utile per la prevenzione dell'infrangimento del copyright. Un filtraggio pervasivo viene applicato ai siti di gioco d'azzardo che non hanno una licenza locale per operare in Italia. Vari strumenti legali vengono però anche utilizzati per monitorare e censurare l'accesso ai contenuti internet. Alcuni esempi sono dati dalle applicazioni della legge Romani, in seguito ai numerosi casi di gruppi Facebook creati contro il primo ministro Silvio Berlusconi. Una legge anti-terrorismo venne promulgata nel 2005 dopo gli attacchi terroristici a Madrid e a Londra, con essa il ministro degli interni Giuseppe Pisanu restrinse l'apertura di nuovi Hotspot (WLAN), sottoponendo così le entità interessate ad una richiesta di permesso da aprire presso la Polizia di Stato di competenza e gli utenti di Internet ad identificazione, presentando un documento d'identità. Ciò inibì l'apertura di hotspots in tutta l'Italia, con un numero di hotspots inferiore di 5 volte rispetto alla Francia e con la sostanziale assenza di network wireless municipali. Nel 2009 solo il 32% degli utenti Internet italiani ha un accesso Wi-Fi. L'Italia ha inoltre posto una restrizione ai bookmaker stranieri su internet, dando mandato ad alcuni ISP di deviare il traffico di alcuni host DNS.

C'era una volta... la censura Rai, scrive Alesandra Comazzi su “La Stampa”. Avevo scritto per La Stampa un pezzo sulla puntata di "Da da da" dedicata alla censura Rai. Poi, sapete come capita nei giornali, il pezzo è saltato, scacciato dalla morte di Amy Winehouse. Allora eccolo qui sul blog, ci sono cose divertenti. E' «Da da da» una trasmissione a basso costo ma ad alto contenuto, concentrato in una mezzora, su Raiuno dopo il Tg. «Da da da» come la vecchia canzone del 1982, gruppo tedesco Trio. Ideatore è Michele Bovi, capostruttura intrattenimento, la firma è di Elisabetta Barduagni, ricercatrice e regista Rai. Ogni puntata, un argomento diverso, qualche sera fa toccava alla censura televisiva Anni '60-'70. Dunque censura Rai, operando a quei tempi la Rai in regime di monopolio. Intorno al tema, si costruisce una narrazione fatta di spezzoni d'epoca, ritagli definiti «tivucinemusicali». Attraverso questi ritagli si racconta la storia del Paese, dove non si stava meglio quando si stava peggio: ma certo, si stava diversamente. Tra i censurati d'epoca, antesignani di Morgan, di Daniele Luttazzi, di Sabina Guzzanti, rivedremo Clem Sacco, Herbert Pagani, i Nomadi, Giorgio Gaber, tutti bloccati a causa di quelle che evidentemente non erano solo canzonette. «Clem Sacco - racconta Michele Bovi - si può considerare il nonno di Elio e le Storie Tese, il suo cavallo di battaglia si intitolava "Baciami la vena varicosa". Figuriamoci se una cosa così poteva passare, in quegli anni». E le altre canzoni proibite? «Solo alcuni esempi: Herbert Pagani non potè cantare "L'albergo a ore", I Nomadi "Dio è morto" e Gaber "Addio Lugano bella", c'erano problemi con la Svizzera». Insomma, in quegli anni di tv educativa, la censura era pesante, sul piano politico, ma anche su quello del «buon costume». Gli zelanti funzionari Rai avevano prepararo un elenco di parole impronunciabili: non si poteva dire «membro» di un partito; restò memorabile il grottesco giro di parole sul quale si dovette inerpicare Ugo Zatterin, che conduceva il telegiornale, per dire che era stata approvata la legge Merlin, e che si chiudevano le case di tolleranza. Ma dagli stessi problemi censori nascevano scene sarcastiche e provocatorie, come quelle di Tognazzi e Vianello in «Un, due, tre». Il loro programma fu sospeso quando si permisero di prendere in giro il presidente della Repubblica Gronchi. Le ballerine dovevano fare il loro mestiere con i mutandoni; le gemelle Kessler, che per prime misero in mostra le gambe, ebbero a ricoprirle con una pesante calzamaglia nera. Ancora adesso ricordano: «Non si doveva vedere la pelle. E quando facevamo la prova generale, c'era sempre un funzionario del Vaticano che vigilava. Se qualche scollatura era troppo profonda, qualche parola troppo spinta, lui segnalava, e gli autori cambiavano». Un funzionario del Vaticano, addirittura: siete sicure? «Siamo sicure». L'americana Abbe Lane, moglie del cubano Xavier Cugat, che dirigeva l'orchestra con il cagnolino in braccio, fu costretta a cucirsi una rosa sul generoso petto, tanto per coprirlo un po': e a ballare praticamente da ferma. D'altronde, e «Da da da» si è aperta proprio con Fanfani, il governo aveva appena approvato la legge sul buon costume, «La dolce vita» era oggetto di attacchi furibondi («come osa Fellini dissacrare la città del Papa?»), in un ristorante Scalfaro aveva schiaffeggiato una signora che si era tolto il giubbino. E poi, in questa tv bacchettona ma nello stesso tempo fervida, ci fu la cacciata di Dario Fo, avvenuta durante la «Canzonissima» 1962. Ettore Bernabei era diventato direttore generale Rai nel 1961, con l'appoggio di Fanfani. Manterrà la carica fino al 1974. Raccontò così il caso Fo: «La mia non fu censura. C'era lo sciopero nazionale degli edili, una manifestazione in piazza SS. Apostoli degenerò in scontri violentissimi con la polizia, che aveva ordini di non infierire, trenta poliziotti finirono all'ospedale. Dario Fo volle cambiare lo sketch previsto con la solita figura del costruttore col panciotto, il palazzinaro romano che, quando gli portano la notizia di un suo operaio che cade da un'impalcatura e muore, se ne infischia e regala un gioiello all'amante. Io bloccai tutto, sì: troppa tensione in piazza». Aggiunge Bovi: «Un uso del repertorio dinamico, non parassitario, ci aiuta a raccontare, ben più della politica, quanto sia cambiato il comune senso del pudore». 

Anche la Rai "censura" Tortora Se questo è servizio pubblico...Dopo l'esclusione del docufilm dal Festival del cinema di Roma un'altra bocciatura. Il Pd attacca viale Mazzini: "Occasione persa", scrive Emanuela Fontana suIl Giornale”. Il film escluso, condiviso, e ora «scippato». Enzo Tortora, una ferita italiana di Ambrogio Crespi è stato proiettato in anteprima nazionale ieri alla Camera dei deputati, ed è questa condivisione, tra parlamentari di partiti diversi, il riscatto per una pellicola esclusa dal Festival del cinema di Roma, ma ancora di più per Tortora e per la «malagiustizia», per dirla con le parole del regista. La polemica, partita proprio dal «no» alla proiezione all'auditorium dei red carpet, è sempre alta. E questa volta investe in pieno i concorrenti Rai e Mediaset. Stralci del film sono stati mostrati a Matrix ieri su Canale 5, e la produzione ha ufficializzato che la prima proiezione integrale è stata ottenuta proprio da Mediaset, a discapito della Rai. Rai che era la casa di Tortora e del suo Portobello. Il Pd ha fatto partire un bombardamento contro i piani alti di viale Mazzini: «Un'occasione persa per la Rai. L'azienda si è fatta scippare da Mediaset il docufilm». A firmare la dichiarazione i deputati Michele Anzaldi e Gero Grassi, con il senatore Federico Fornaro. Alla Rai non sarebbero mancati gli spazi per inserire il docufilm, insistono i parlamentari, «ma appare evidente che l'azienda ha deciso di regalare il ruolo di servizio pubblico a Mediaset, perdendo una nuova occasione per fare della buona informazione». Non si conosce ancora la data della messa in onda del film, ma regista e produzione hanno precisato che l'interesse non è il lucro: «Questo film dovrà essere di tutti, proiettato nelle scuole», la precisazione ieri di Crespi. E a eccezione delle «piccole spese» di produzione, gran parte degli introiti sarà destinato alla fondazione presieduta dalla compagna di Tortora, Francesca Scopelliti. Un grazie per la proiezione in Parlamento «va ai radicali - chiarisce il regista - poco fa mi ha chiamato Pannella in lacrime, dopo aver visto il film. Se ripenso a quanto ha lottato in quegli anni, per me è il miglior premio che potessi ricevere». È normale che ieri ci sia stata qualche garbata reazione al rifiuto della proiezione al festival romano. Tra le motivazioni della direzione: il film è troppo televisivo e «dura solo cinquanta minuti, forse non hanno controllato l'orologio», dice Francesca Scopelliti. In una conferenza stampa che ha preceduto la proiezione, l'ex compagna del conduttore ha poi invitato le forze politiche a pensare a una «legge Tortora»: sono ancora troppi i detenuti nelle carceri in attesa di giudizio, è necessaria una riflessione più approfondita «sulla modifica del codice penale». A 30 anni dall'arresto, 25 dalla morte, questa storia rimane sempre una «ferita» della giustizia. Una storia ora contesa dalla televisione, senza pace ma che parla «anche per coloro che non possono parlare», come ricorda Scopelliti citando una frase di Tortora. Un film che «non è né berlusconiano né antiberlusconiano», chiarisce Crespi. Non è «contro i magistrati», ma contro «la malagiustizia. Muller (il direttore artistico del Festival, ndr) è stato forse un po' miope nell'anima».

Censura Rai, una storia antica, scrive Franca Rame suIl Fatto Quotidiano”. Ci sono nella vita di ogni uomo o donna, o in entrambi, uno o due momenti chiave con picchi a salire e a scendere. Dario e io ne abbiamo vissuti più di uno e tutti di straordinario valore, anche perché non si muovevano solo nell’ambito del nostro particolare interesse, ma coinvolgevano molta altra gente. Quando esplose per esempio lo scandalo Canzonissima, non si trattò solo di un contenzioso fra la televisione e noi, cioè due attori e autori di un programma di sketch e di canzoni che si ribellavano ad un Ente statale a proposito di un contratto, ma tirava in ballo la vita e i diritti degli operai, quella della libertà di informazione oltre che di esprimersi riguardo alla politica: cioè tirava in ballo addirittura la Costituzione.  Inoltre, per la prima volta attraverso un programma di puro intrattenimento popolare, si denunciava l’esistenza di due grandi conflitti, nei quali c’erano morti e feriti ogni giorno. Si trattava delle morti sul lavoro e della guerra di mafia. Di questi atti incivili e spesso criminali non se ne parlava mai in televisione e molto raramente sui quotidiani. Anzi, in televisione nessuno aveva mai trattato di questa realtà. Tutto era mascherato e seppellito. Il fatto poi che il vaso delle nefandezze fosse rovesciato nel programma più seguito non solo in televisione, ma anche attraverso la totalità dei mezzi d’informazione, fu il detonatore massimo della bomba e del relativo scandalo. Il caso volle che, nello stesso momento in cui andava in onda la scena che trattava delle morti bianche, tutti gli operai d’Italia, in primo luogo i muratori, avessero indetto uno sciopero di alcuni giorni per protestare contro la mancanza di protezione sul lavoro, cioè la causa prima dei continui incidenti che causavano ormai una vera e propria strage in tutti settori. Proibire che quell’atto unico satirico e di forte denuncia fosse trasmesso, era come buttare benzina sul fuoco. Bernabei, direttore politico e organizzativo dei programmi Rai, scelse per il fuoco, sperando nei pompieri, quelli politici, soprattutto. Ma la cosa non funzionò e la protesta divampò coinvolgendo anche quei movimenti sindacali che normalmente accettano compromessi come certi pesci s’ingoiano l’esca con l’amo. Sempre in Canzonissima, mi pare la puntata appresso, ecco che va in scena un dialogo fra una “mugliera” sicula e un giornalista inviato dal continente. La donna è intenta ad avvolgere un lungo filo. Forse allude a una delle tre Parche, allegoria della vita e della morte. Ogni tanto si odono degli spari e qualche botto. Il giornalista chiede di che si tratti, e la donna risponde che forse, quello sparo, proviene dal fucile di qualche cacciatore solitario, ma poi si corregge: può darsi che sia anche quello che uccide un infame che si piglia la sentenza. Altro sparo, ed ecco che viene indicato un sindacalista che creava guai; un botto, ed è il salto in aria della casa di qualcuno che non ha pagato il pizzo e così via, fra spari e mitragliate si arriva al punto in cui il giornalista chiede: “Come mai all’istante hanno cessato di far botti?” e la donna risponde: “Sempre prima dell’ultimo sparo c’è un attimo di silenzio”. “E a chi andrà l’ultimo botto?” Chiede il cronista. E la donna risponde: “A chillu cchi fa troppe domande, cioè a te”. Sparo, il cronista cade riverso. Il peso e la forza di quella satira sfuggì ai censori. Era ritenuta troppo enigmatica per preoccuparsene, ma tutti gli spettatori, soprattutto a cominciare da quelli siciliani, capirono immediatamente che si trattava di discorsi sulla mafia e sui crimini che nell’isola si susseguivano a ripetizione (giudici, poliziotti e 70 sindacalisti uccisi in pochi anni). Si scandalizzarono i politici, a cominciare dai ministri del governo. Perfino i liberali con il loro segretario in capo, Malagodi, presero una posizione durissima, insultandoci e ricordandoci che già altri comici avevano sbattuto tempo addietro la faccia sulle tavole del palcoscenico, per aver esagerato nell’ironizzare sul potere; ma chi erano questi comici colpiti con tanta ferocia? Ed ecco che il segretario dei liberali fa il nome di un certo Mattia Perollo, comico di Trieste che si prese una fucilata da un fanatico fascista durante una rappresentazione. Il cardinale arcivescovo di Palermo fece pure un’omelia contro quello sconcio in grottesco; urlò: “La mafia non esiste, o ad ogni modo non si tratta di un’organizzazione criminale che voglia sostituirsi allo Stato, ma di normale delinquenza locale”. Ricevemmo lettere minatorie in gran numero, scritte addirittura col sangue e biglietti sui quali era disegnata una lupara. Le minacce arrivarono anche su nostro figlio Jacopo, che aveva sei anni, al punto che per tutto l’anno scolastico dovemmo vederlo andare a scuola protetto da due poliziotti. Il direttore in capo della Rai, all’unisono con il dottor Bernabei, quando ci rifiutammo, in seguito alle loro censure, di salire sul palcoscenico per recitare il nulla (giacchè ogni sketch di satira ci era stato cancellato) ci avvertì: “Voi rischiate molto, più di quanto non crediate. A parte una denuncia per turbativa dell’ordine pubblico, per la quale rischiate l’arresto immediato, sappiate che per anni e anni non vi capiterà più di poter calcare le scene della televisione…” e fu proprio così. Fummo letteralmente cancellati dallo schermo televisivo per la bellezza di sedici anni, il che significa, nel mondo dello spettacolo, essere messi al bando per una vita. Ci restava solo il teatro, ma le varie piazze gestite da comuni dalla Dc come Bergamo, Vicenza, Padova, Rovigo, eccetera erano per noi assolutamente proibite. Ma il nostro gesto aveva mosso una notevole solidarietà da parte dei nostri colleghi, che avevano capito che bisognava rispondere non a branco, contro la prepotenza dei gestori culturali di Stato, ma era giocoforza organizzarsi con la creazione di un autentico sindacato degli attori e dei tecnici. La sorpresa più straordinaria l’avemmo dal pubblico che, come rimontammo sulla scena con un nuovo spettacolo – si trattava di “/Isabella, tre caravelle e un cacciaballe/” – rispose al nostro apparire con uno slancio ed entusiasmo sconvolgenti. L’Odeon, teatro nel quale avevamo debuttato, era stato letteralmente preso d’assalto. Il botteghino dovette aprire le prenotazioni addirittura con dieci giorni di anticipo. La gente ci fermava per strada e ognuno ci dimostrava affetto e stima. Per di più la notizia della nostra vicenda era giunta anche all’estero, per cui ricevemmo visite da cronisti da tutta Europa, nonché inviti da alcuni teatri di Francia e d’Inghilterra perché debuttassimo da loro. Naturalmente la Rai ci fece causa, ma prevedendo il gesto, riuscimmo a superare in velocità l’ente pubblico e sporgemmo denuncia contro di loro con grande anticipo. Eravamo nei primi anni ’60, e quello era il tempo in cui esplodeva il grande miracolo economico dell’Italia… dappertutto crescevano case e palazzi come funghi, la produzione industriale era in forte rimonta e il grande successo della nostra economia aveva sorpreso tutti gli altri paesi dell’Europa; anche la coscienza civile e politica delle classi subalterne si trovava in forte crescita e ognuno era partecipe del fermento culturale che stava montando in tutti i settori, dal cinema alla letteratura al teatro. Uno degli argomenti di cui maggiormente si discuteva riguardava il ruolo dell’intellettuale nella società. Naturalmente c’era chi parlava di impegno politico, e in particolare se gli uomini di pensiero ed arte dovessero schierarsi per una causa o dovessero rimanere al di fuori d’ogni coinvolgimento, completamente autonomi e indipendenti da ogni gioco di potere. Fra l’altro c’era chi riprendeva l’antico tema dell’arte per l’arte alla ricerca della pura bellezza edonistica. Fu proprio per entrare a piedi giunti nel dibattito che scegliemmo il tema delle grandi scoperte, prima fra tutte quella che culminò con il viaggio di Colombo nelle Americhe. Ci siamo serviti come testo base del saggio del grande storico spagnolo Salvador De Madariaga e ci inserimmo come contrappunto dominante la repressione condotta dal Tribunale dell’Inquisizione in quell’epoca in tutta la penisola iberica. Lo spettacolo si apriva infatti con una processione d’auto da fè, dove si notava subito la presenza d’alcuni condannati per eresia, fra i quali in primo piano appariva un attore capocomico che veniva portato al patibolo poiché ritenuto colpevole d’aver messo in scena un testo satirico che prendeva spunto dalla spedizione di Cristoforo Colombo, con relativa strage di selvaggi rei di credere in divinità estranee alla fede cristiana. Oltretutto nel testo opera presunta di Fernando de Rojas si trattava della grande diaspora di ebrei che venivano spogliati dei propri beni allo scopo di rimpinguare le casse dissanguate dello Stato. Il condannato spera nel sopraggiungere seppur in extremis della grazia concessa dal re. Quasi a mo’ di beffa gli viene ingiunto di recitare insieme alla sua compagnia, che finora lo ha seguito in prossimità del patibolo, l’opera che gli ha causato la condanna, cioè la vita di Cristobal Colon, il tutto direttamente sul palco del supplizio. Pur di prender tempo l’attore accetta: il palco delle esecuzioni si trasformerà in palcoscenico e di volta in volta diventerà nave, con tanto d’alberi e vele, cattedrale e trono sul quale siederanno il re e la regina contornati dai giudici dell’Inquisizione. Con questo espediente è logico che tutta la vicenda riceverà una spinta paradossale straordinaria. Più che di personaggi, quindi, si tratterà di maschere: re, ammiragli e regine appariranno in tutta la loro vis comica deformante. Cristoforo Colombo verrà interpretato dall’attore condannato, quindi le vite dei due personaggi saranno costrette a una sintonia quasi metafisica. E così scopriremo se il grande navigatore è maggiormente interessato alla scienza o agli affari e le cariche di potere; se dimostra pietà per i selvaggi fatti schiavi o piuttosto ha interesse a trarne utile nella tratta; e soprattutto capiremo come mai alla fine dei suoi viaggi, che hanno procurato tanta ricchezza e prestigio alla corte spagnola, viene da questa condannato alle catene e posto in galera. Dicevamo che la turnè con quest’opera ci regalò un notevole successo, applausi ma anche contestazioni da parte di alcuni scalmanati reazionari, che male accettavano si svelassero alcune verità troppo aspre per alcuni palati. Fra l’altro, la commedia satirica era sostenuta da canti carichi di esplicita ironia; un coro, eseguito da otto uomini d’ordine esaltava l’odio razziale e l’intolleranza come aspetti del tutto positivi di una società. La prima strofa diceva: “Ogni tanto fa un certo piacere/ il poter bastonare qualcuno, il poter legalmente sfogare/ il livor di sentirsi nessuno/ su, urliamo, copriam di pernacchie/ Questa razza di bestie in ginocchio/ su pestiamoli senza pietà./ Oh che grande invenzione il nemico/ un nemico che sia disarmato/ ringraziam chi ce l’ha procurato/ umiliato e per giunta marchiato”. Ognuno può ben capire che si tratta di versi, ahimè, di una attualità sconcertante. È facile intuire che questo fosse uno dei momenti dello spettacolo che in qualcuno poteva maggiormente produrre forte indignazione e rabbia, tant’è che una sera, all’uscita del teatro Valle di Roma, fummo aggrediti da una squadra di fascisti che ci tirò addosso ogni lordura. Poi giacchè noi si era reagito, eccoli fuggire come di regola. In quegli anni, una compagnia di Barcellona – mi pare si chiamassero i Comedians – tentò di mettere in scena la satira su Colon. La Spagna era ancora sotto il regime di Franco. La compagnia riuscì anche ad eseguire la prova generale. Alla fine della prova gli attori furono tutti arrestati e portati in carcere, compreso il suggeritore. Chi guarda oggi la televisione italiana probabilmente non crederà che solo fino a una ventina di anni fa le donne vestivano in modo poco vistoso, le ballerine portavano il calzamaglia per non mettere in mostra le gambe nude e il linguaggio doveva essere controllatissimo: parole come amante, parto, vizio, verginità, talamo, alcova, amplesso erano assolutamente vietate. E vietatissime erano espressioni come "membro del parlamento" o "in seno alla commissione". Figuriamoci le parolacce!, Scrive Roberto Tartaglione. Negli ultimi anni le censure collegate al linguaggio, al comportamento, alla morale, al sesso e all'esibizione del nudo sono praticamente scomparse. Resta invece (e forse aumenta pericolosamente) la censura (e l'autocensura) collegata alla politica. Vediamo una rapida carrellata degli episodi censori più famosi dei cinquant'anni di televisione italiana. 

Nel 1954 il varietà "La piazzetta" viene sospeso: la ballerina Alba Arnova porta un calzamaglia così aderente che sembra nuda. Scandalo! Il primo caso di censura "storica" riguarda però la coppia di comici Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi: in una popolare trasmissione dal titolo Un, due, tre, i due prendono in giro il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi che, durante una serata di gala con il Presidente francese Charles de Gaulle, si era seduto male su una sedia e era caduto per terra. L'umorismo sullo scivolone presidenziale non piace al mondo politico di allora e il varietà viene sospeso. Siamo nel 1959.

Nel 1960 viene allontanato dalla televisione il presentatore Enzo Tortora: in una sua trasmissione l'imitatore Alighiero Noschese aveva scherzato su Amintore Fanfani, potente uomo della Democrazia Cristiana. Tortora rientrerà in televisione solo dieci anni dopo. Un clamoroso caso di censura riguarda Dario Fo (premio Nobel per il teatro nel 1997): insieme a Franca Rame, nel 1962, è conduttore e autore dei testi del varietà Canzonissima, probabilmente la più famosa trasmissione della televisione italiana di tutti gli Anni Sessanta. Le sue scenette sulla mafia e sulle fabbriche (in particolare quella che parla di incidenti sul lavoro) non piacciono ai vertici della RAI. I due sono costretti ad abbandonare la trasmissione. Dario Fo ritornerà in video soltanto nel 1977 con il suo famoso spettacolo Mistero Buffo: anche questa volta suscita scandalo e da allora le sue presenze sugli schermi della televisione sono stati pochissime. Ancora oggi, nonostante il Nobel vinto nel 1997, ha qualche difficoltà a portare in giro le sue opere nei teatri italiani.

Nel 1974 in Italia c'è il referendum sul divorzio. Durante lo sceneggiato televisivo David Copperfield viene censurato l'audio di una frase detta da un vecchio signore alla sua giovane moglie. La frase tagliata è: "Se vuoi ti concedo il divorzio, non mi oppongo!" Nel 1980 è Roberto Benigni (premio Oscar per il film La vita è bella del 1998) a incorrere nelle ire dei vertici Rai: durante un Festival di Sanremo dice scherzosamente e affettuosamente Woytilaccio, riferito a Papa Woytila, Giovanni Paolo II. L'espressione, tipicamente toscana e comunque non offensiva, viene però ritenuta assolutamente irrispettosa. 

Nel 1984, durante la trasmissione musicale Blitz, programma della Rai condotto da Stella Pende, a Leopoldo Mastelloni scappa una bestemmia. Condannato per "turpiloquio" viene cacciato dal video e il suo "esilio" dura ancora oggi.Beppe Grillo viene allontanato dalla televisione nel 1986. Durante un programma attacca duramente i socialisti (racconta che quando Craxi era andato in Cina accompagnato da decine di compagni di partito, Claudio Martelli, il suo vice, gli ha domandato: "Ma se sono tutti socialisti, a chi rubano?"). Tutto questo alcuni anni prima che lo scandalo di "Tangentopoli" mettesse fuori gioco l'intero partito socialista che poi sparirà dalla geografia politica italiana. Fatto è che l'attacco di Beppe Grillo provoca la sua espulsione dalla tv e, ancora oggi, il popolare comico si esibisce quasi esclusivamente nei teatri senza poter rientrare negli schermi televisivi.

Nello stesso 1986 uno sketch del trio comico Marchesini-Lopez-Solenghi provoca quasi un incidente diplomatico: i tre prendono in giro addirittura l'Ayatholla Khomeini. L'Iran-air chiude i voli per l'Italia e a Tehran ci sono seri problemi per l'Ambasciata e per l'Istituto Italiano di Cultura, uno dei pochissimi centri culturali stranieri ancora aperti nella capitale persiana. In breve l'incidente si chiude e i tre comici riprenderanno a lavorare per la televisione senza problemi. Il resto è storia contemporanea: le censure politiche negli ultimi due anni sono più numerose di tutte quelle degli anni precedenti.

Nel 2001 il Presidente del Consiglio italiano Berlusconi dichiara pubblicamente che i giornalisti Enzo Biagi e Michele Santoro, insieme con il comico Daniele Luttazzi "fanno una televisione criminale". Immediatamente tutti e tre vengono allontanati dalla tv e le loro trasmissioni sono sospese.

Il programma satirico Blob, nel 2002, prevede quattro trasmissioni speciali sul Presidente del Consiglio: vanno in onda le prime tre puntate e la quarta viene annullata. Nel 2003 - dopo la prima puntata - viene sospesa la trasmissione Raiot, di Sabina Guzzanti: la satira contro il Presidente del Consiglio e il governo di centro-destra è giudicata troppo forte. Nello stesso anno viene impedito al comico Paolo Rossi di presentare in televisione un brano teatrale tratto da un discorso di Pericle. Il pezzo, che è di 2500 anni fa, sembra attaccare troppo direttamente il Presidente del Consiglio italiano. Questo il pericolosissimo testo:"Qui ad Atene noi facciamo così. Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi per questo è detto democrazia. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private. Ma in nessun caso si occupa delle pubbliche faccende per risolvere le sue questioni private. Qui ad Atene noi facciamo così, ci è stato insegnato a rispettare i magistrati e c'è stato insegnato a rispettare le leggi, anche quelle leggi non scritte la cui sanzione risiede soltanto nell'universale sentimento di ciò che è giusto e di buon senso. La nostra città è aperta ed è per questo che noi non cacciamo mai uno straniero. Qui ad Atene noi facciamo così" .

Niente nudi, sangue e fasci Così la censura spegneva i film. La religione, la politica, il sesso e la violenza: ecco tutte le scene vietate nel nostro Paese in cento anni di (assurdi) divieti cinematografici, scrive Cinzia Romani su "Il Giornale”. Finalmente conquistiamo un profilo internazionale con la divulgazione elettronica del nostro pregiato patrimonio cinematografico. Qualcosa che il mondo ci invidia e che giaceva sepolto dall'incuria e la burocrazia. Il film di Totò "Gli onorevoli" (1963) di Corbucci andò nei cinema dopo che le parole "culo" e "rincoglionito" furono sostituite con "popò" e "rimbambito". Arriva Cinecensura. 100 anni di revisione cinematografica italiana (dal 12 disponibile in Rete: cinecensura.com), mostra online della Cineteca Nazionale e del Ministero dei Beni e le attività culturali, progettata dagli studiosi di cinema Pier Luigi Raffaelli e Tatti Sanguineti, che dopo anni di trappismo d'archivio, con la Cineteca di Bologna, l'Archivio Luce, il Museo del cinema di Torino e l'Archivio centrale di Stato, hanno messo su piattaforma digitale, a disposizione di tutti, un'esposizione davvero notevole. Che ha il pregio di appassionare non soltanto i cinefili, ma anche chi voglia conoscere il secolo trascorso, dal punto di vista del costume e dei cambiamenti sociali. Così profondi, sotto la lente dell'intrattenimento pop, che ci s'intenerisce, di fronte alle richieste dei prefetti di provincia, o degli spettatori più bigotti, tra i pruriginosi Quaranta e Cinquanta, lesti a invocare revisioni e controlli di frasi, cosce, allusioni. E giù lettere, carte da bollo di Lire 200, processi e ricorsi, dove Visconti e Pasolini, De Sica e Bertolucci vagano per tribunali, alla mercè di qualche massaia, pronta a scandalizzarsi per un particolare, che oggi fa sorridere. Il materiale a disposizione è sterminato: 300 lungometraggi, 90 cinegiornali o pubblicità, 86 cortometraggi, 28 manifesti censurati, filmati di tagli di 75 film, 15 cinegiornali e videointerviste. Il tutto divido in sale virtuali “a tema”: sesso, politica religione, violenza. Sesso: se nel 1938 il Trio Lescano cantava Ma le gambe, nei Cinquanta repressi gli arti inferiori femminili destano prurigini. Dove sta Zazà (1947) di Giorgio C. Simonelli ottiene il nulla osta, a patto si eliminino alcune scene. Le donne cristiane del Centro italiano femminile di Palermo scrivono al ministero degli Interni, sentendosi insultate dalla pubblicità «ad ogni angolo di strada, raffigurante una ballerina quasi nuda». La dignità morale del popolo pare vilipesa anche ne La famiglia Passaguai (1951) di Aldo Fabrizi, con la procace Rita Dover: foto-busta sotto accusa. Un kafkiano Segretariato della Moralità di Foligno inoltra formale denuncia alla Procura della Repubblica di Perugia, chiedendo l'immediato ritiro del materiale raffigurante «una persona in succintissimo e disgustoso atteggiamento,con una bottiglia in mano e in posizione quanto mai provocante in cabina da bagno». Oggi che si fa sesso per strada, chi pensa alle cabine? Ma è Ultimo tango a Parigi (1972) di Bertolucci il film-simbolo della guerra tra censura e libertà espressiva. Denunciato e condannato “al rogo” per la scena in cui «il protagonista, utilizzando del burro, possiede contro natura la ragazza». Vani i tagli per 9,80 metri di pellicola... Certi fatti hanno perso capacità offensiva, se pensiamo che in Terza liceo (1954) di Luciano Emmer, vietato ai minori di 16 anni, un prof. si stranisce, scoprendo nel libro di un'allieva «Anita nuda con i baffi»: per la versione tv, via la sequenza. Tacendo di Nino Manfredi, una condanna penale per essere apparso «in mutande, con i pantaloni in mano» nel film a episodi Le bambole (1965). Sequestri e denunce aprono la strada al cinema a luci rosse, nei '60 e '70 affollati di pellicole vietate ai minori. «Scopate e fellatio entrano così in modo surrettizio», spiega Sanguineti. Politica. C'è sempre qualcuno che si sente diffamato. Così sparisce Tragica alba a Dongo (1951) di Vittorio Crucillà, redattore di Omnibus, che mai avrà il nulla osta per il film. Frutto della collaborazione tra Comune di Dongo, partigiani e volontari della guerra di Liberazione, il film ritrae Mussolini e Claretta Petacci, visti di spalle, durante la loro fuga, cattura e fucilazione. Materia scottante, che per l'onorevole Andreotti «può ingenerare all'estero errati e dannosi apprezzamenti sul nostro Paese». La diffida della famiglia Mussolini, verso la casa produttrice, metterà una pietra tombale su quei 1040 metri di docufilm, che per Crucillà, «umile regista e soggettista», implorante udienza ad Andreotti, doveva «preparare la rinascita dell'Italia democratica». Ce n'è pure per Togliatti è ritornato (1948) di Lizzani, stoppato per le immagini d'una festa dell'Unità al Foro Italico: potevano «determinare perturbamento dell'ordine pubblico». Peccato che sia una canaglia (1954) di Alessandro Blasetti è bloccato perché un maresciallo «si esprime con espressioni dialettali e grottesche»...Religione. Nei Cinquanta, i preti spopolano al cinema. Anche perché sono 5.900 le sale parrocchiali, dove censura di Stato e revisione cattolica controllano l'orientamento delle masse. Così non si contano i processi intentati da associazioni cattoliche. A finire nel tritafilm, Viridiana (1961) di Buñuel; La dolce vita (1960) di Fellini e Ro.Go.Pa.G (1963), film a episodi, che suscitò accanimento giudiziario nei confronti dell'episodio La ricotta di Pasolini: «È sempre un rischio violare il mistero che circonda ogni uomo», scriveva la Pontificia Università Gregoriana al produttore, Alfredo Bini. Adesso, certi misteri non lo sono più.

Censura cinematografica. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La censura cinematografica è il mezzo attraverso il quale una autorità attua il controllo preventivo di un'opera cinematografica, autorizzando o negando la sua proiezione in pubblico, o limitandone la visione ad un pubblico adulto. Lo Stato si è sempre riservato la possibilità di intervenire sui contenuti di rappresentazioni pubbliche, offensivi alla morale e al buon costume o pericolosi per l'ordine pubblico, ancora prima della nascita del cinematografo. Risale tuttavia al 1913 la prima legge che introduceva un vero e proprio intervento censorio sulle proiezioni, allo scopo di impedire la rappresentazione di spettacoli osceni o impressionanti o contrari alla decenza, al decoro, all'ordine pubblico, al prestigio delle istituzioni e delle autorità. Il successivo regolamento elencava una lunga serie di divieti e trasferiva il potere di intervento dalle autorità locali di pubblica sicurezza al Ministero dell'Interno. Questi, dopo il giudizio espresso da un revisore, rilasciava il nulla osta, eventualmente eliminando alcune parti della pellicola giudicate non idonee alla proiezione. Era prevista comunque la possibilità di un secondo grado di giudizio, al quale poteva essere sottoposta la pellicola se giudicata in primo grado non idonea. Nel 1920 un Regio Decreto istituì una vera e propria commissione, composta anche da soggetti esterni alle istituzioni: ne facevano parte, oltre a due funzionari di pubblica sicurezza, un magistrato, un educatore o un rappresentante di associazioni umanitarie, una madre di famiglia, un esperto di arte o di letteratura e un pubblicista. Con questo decreto si prevedeva anche che il copione del film venisse preventivamente sottoposto alla commissione prima dell'inizio delle riprese. Il regime fascista confermò le disposizioni precedenti, intuendo fin dall'inizio le potenzialità del cinema come mezzo di comunicazione e utilizzandolo spesso a fini di propaganda politica. Il controllo, prima accentrato presso il ministero dell'Interno, venne in seguito affidato al Ministero della Cultura popolare. Venne introdotta la possibilità di sottoporre a revisione ogni fase della realizzazione del film, quindi la possibilità anche di interrompere le riprese, se necessario, e venne istituito un nulla osta anche per le pellicole destinate alla proiezione all'estero, nulla osta che poteva essere negato se il film era ritenuto dannoso per il decoro e il prestigio della nazione o se poteva turbare i rapporti internazionali. Nel 1926 fu anche introdotta la tutela dei minori, con un decreto che consentiva il divieto della visione di alcuni film ai minori di 16 anni. Durante il ventennio, la censura venne "potenziata" sia in senso preventivo, sia per "istruire" le folle ai valori del regime, tanto che nel 1934 venne istituita una apposita Direzione generale per la cinematografia. Con l'avvento della repubblica, contrariamente a quanto si pensa, non vennero introdotte sostanziali modifiche, nonostante l'articolo 21 della Costituzione consentisse la libertà di stampa e di tutte le forme di espressione. Su pressioni soprattutto del mondo cattolico, venne anzi aggiunto il comma che sancisce il divieto degli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. Presso la Presidenza del Consiglio fu istituito un Ufficio centrale per la cinematografia, al quale confluivano i giudizi delle commissioni di primo e secondo grado, che in sostanza erano rimaste quelle del 1923, anche se leggermente variate nella loro composizione. Nel 1949 fu emanata una legge, presentata dall'allora sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti, che doveva sostenere e promuovere la crescita del cinema italiano e al contempo frenare l'avanzata dei film americani ma anche gli imbarazzanti "eccessi" del neorealismo. A seguito di questa norma, prima di poter ricevere finanziamenti pubblici, la sceneggiatura doveva essere approvata da una commissione statale. Inoltre se si riteneva che un film diffamava l'Italia poteva essere negata la licenza di esportazione, insomma era nata una sorta di censura preventiva. Nel 1962 venne approvata una nuova legge sulla Revisione dei film e dei lavori teatrali, tuttora in vigore: pur apportando alcuni cambiamenti, essa confermava il mantenimento di un sistema preventivo di censura e assoggettava al rilascio del nulla osta la proiezione pubblica dei film e la loro esportazione all'estero. In base a tale legge, il parere sul film viene dato da un'apposita Commissione di primo grado (e da una di secondo grado per i ricorsi), mentre il nulla osta è rilasciato dal Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Le Commissioni di censura, definite dalla legge "Commissioni per la revisione cinematografica", sono otto e fanno capo al Dipartimento dello Spettacolo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Ogni commissione è composta da un presidente (di solito un magistrato o un docente di diritto), due esponenti della categoria (produttori e distributori), due genitori in rappresentanza delle associazioni per i diritti dei minori, due esperti di cultura cinematografica, uno psicologo. Ad essi si affianca un esponente delle associazioni animaliste se nel film compaiono anche animali. Ad ognuna di queste otto commissioni sono assegnati dei film da visionare. Le commissioni possono approvare la diffusione del film per tutti o imporre un divieto ai minori. La casa distributrice dell’opera ha a disposizione 20 giorni per presentare appello, o per effettuare tagli e modifiche, di solito suggerite dalla commissione stessa, per rendere la pellicola adatta ad un pubblico di minori. Una volta accolto l’appello, la commissione visiona nuovamente il film e decide se confermare il divieto, abbassarlo dai 18 ai 14 anni oppure revocarlo definitivamente una volta accertata l’eliminazione delle scene suggerite. In caso di ulteriore rifiuto, è possibile il ricorso al TAR. L'autore o il produttore del film può chiedere eventualmente di essere ascoltato dalla commissione, per "difendere" le ragioni del film e per evitare il rifiuto del nulla osta o il divieto della visione del film ai minori. Il rilascio del nulla osta condizionato dal divieto ai minori di anni 14 o 18 si ripercuote anche sullo sfruttamento televisivo del film. Infatti i film ai quali viene negato il nulla osta e quelli vietati ai minori degli anni 18 non possono essere trasmessi in televisione, mentre i film vietati ai minori degli anni 14 possono essere trasmessi solo in determinate fasce orarie, regolate dalla successiva Legge 203 del 1995, per cui la trasmissione di film che contengano immagini di sesso o di violenza tali da poter incidere negativamente sulla sensibilità dei minori, è ammessa (...) solo fra le 23 e le 7. Talvolta i distributori e i produttori anticipano le probabili richieste delle Commissioni, presentando alla revisione pellicole già ridotte nelle parti che condurrebbero ad un divieto per i minori. Oggi, vista la soppressione del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, le sue funzioni sono state delegate, dal 1998, al nuovo Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Sempre nel 1998 veniva abrogato l'art. 11, rimuovendo quindi la censura dalle opere teatrali. A luglio 2007 il disegno di legge Modifiche alla legge 21 aprile 1962, n.161, in tema di revisione cinematografica, è stato approvato dal Consiglio dei ministri. Esso cancella la censura preventiva nei film, ma introduce nuovi paletti per la visione di film e cartoni: i produttori di programmi, film, cartoni dovranno autocertificare se il loro prodotto è per tutti, o deve essere vietato ai minori di 18, 14 o 10 anni (quest'ultimo divieto introdotto appositamente con questa legge), oppure affidarsi ad un'apposita Commissione di classificazione dei film per la tutela dei minori istituita presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali che esprimerà un parere sulla classificazione. Nel caso la classificazione autocertificata non sia poi considerata consona, sono previste sanzioni amministrative fino a 100.000 euro e l'arresto fino a sei mesi. Oltre alla censura totale, dagli anni trenta fino agli anni novanta in Italia è stata in voga un'altra forma di censura, quella dei tagli mirati. In pratica si usava tagliare le parti di pellicola che non si voleva venissero mostrate, permettendo tuttavia di mandare in visione il film così mutilato.

La censura ed il cinema. Una torbida storia di censura, autori seviziati e pellicole passate al tritacarne. Leggi censorie. Si intende di seguito presentare una breve carrellata delle normative che hanno interessato l’industria cinematografica dal 1913 al dopoguerra, per arrivare poi alla normativa vigente ( Legge 161 del 21 aprile 1962).

20 febbraio 1913 Il presidente del Consiglio Giolitti dirama ai prefetti una circolare che colpisce “le rappresentazioni dei famosi atti di sangue, di adulteri, di rapine, di altri delitti” e i film che “rendono odiosi i rappresentanti della pubblica forza e simpatici i rei; gli ignobili eccitamenti al sensualismo (…), ed altri film da cui scaturisce un eccitamento all’odio tra le classi sociali ovvero di offesa al decoro nazionale”.

Legge 25 giugno 1913, n. 785 Il primo provvedimento legislativo registrato in materia di censura autorizza “il governo del Re ad esercitare la vigilanza sulla produzione delle pellicole cinematografiche, prodotte all’interno o importate dall’estero”.

Il regolamento esecutivo della legge (Regio decreto 31 maggio 1914, n. 532) è di grande importanza, perché introduce quella casistica di argomenti suscettibili di rientrare nell’ambito della censura che verrà ripresa fedelmente, adattata e ampliata, non solo nel periodo fascista ma anche in età repubblicana.

Obiettivo della legge è vietare al pubblico la visione di: “spettacoli offensivi della morale, del buon costume, della pubblica decenza e dei privati cittadini; spettacoli contrari alla reputazione e al decoro nazionale o all’ordine pubblico, ovvero che possano turbare i buoni rapporti internazionali; spettacoli offensivi del decoro e del prestigio delle istituzioni e autorità pubbliche, dei funzionari e degli agenti della forza pubblica; scene truci, ripugnanti o di crudeltà, anche se a danno di animali; delitti o suicidi impressionanti e in generale azioni perverse o fatti che possano essere scuola o incentivo al delitto, ovvero turbare gli animi o eccitare al male”. La legge accenna anche alla questione della lingua straniera: “I titoli, i sottotitoli e le scritture (…) debbono essere in corretta lingua italiana. Possono tuttavia essere espressi anche in lingua straniera, purché riprodotti fedelmente e correttamente anche in lingua italiana”. La censura sui film è esercitata dal ministro dell’Interno, cui spetta concedere o negare il nulla osta “in conformità al giudizio del revisore” (ed eventualmente imporre una nuova revisione a film già muniti di nulla osta). Sono previsti due gradi di giudizio per la revisione delle pellicole: in primo grado il revisore è un funzionario della Direzione Generale della Pubblica Sicurezza o un commissario di polizia, in secondo grado una commissione composta dal vice-direttore generale e da due capi divisione della Direzione Generale della P.S.

Il R.d. 9 ottobre 1919, n. 1953 introduce il controllo preventivo sul “copione o scenario”: perché una pellicola possa accedere al procedimento di revisione, prima dell’inizio delle riprese il soggetto deve essere “in massima riconosciuto rappresentabile” dalla censura. Nella pratica, tuttavia, il copione viene sempre presentato alla commissione di primo grado insieme al film finito: il controllo preventivo sarà applicato con rigore solo a partire dal 1935.

R.d. 22 aprile 1920, n. 531 (a firma del ministro dell’Interno F. S. Nitti). Anche la revisione di primo grado è affidata a una commissione, che non ha più una natura solo repressiva ma si allarga ad altri soggetti, seppur sempre di nomina ministeriale: oltre a due funzionari della Pubblica Sicurezza, “un magistrato, una madre di famiglia, un membro da scegliersi fra educatori e rappresentanti di associazioni umanitarie che si propongono la protezione morale del popolo e della gioventù, una persona competente in materia artistica e letteraria e un pubblicista”. Alla casistica censoria si aggiungono l’offesa al “pudore”, l’offesa al “Regio esercito e alla Regia armata”, “l’apologia di un fatto che la legge prevede come reato” e “le operazioni chirurgiche e i fenomeni ipnotici e medianici”.

R.d. 24 settembre 1923, n. 3287. La composizione delle commissioni di revisione viene trasformata in senso rigidamente burocratico. Quella di primo grado si riduce a “singoli funzionari di prima categoria dell’Amministrazione dell’Interno appartenenti alla Direzione Generale della Pubblica Sicurezza”, ma viene ripristinata un anno dopo (R.d. 18 settembre 1924, n. 1682) e conta tre membri: un funzionario di polizia, un magistrato e una madre di famiglia. In quella di secondo grado o di appello, che rimane di sette membri, l’educatore è sostituito con un professore e la “persona competente in materia artistica e letteraria” è prima eliminata e poi reintegrata. L’elenco delle scene da proibire riprende fedelmente quello del 1920 (a sua volta ricalcato su quello del 1914), con l’aggiunta di una sola frase sulle “scene, fatti e soggetti” che “incitino all’odio fra le varie classi sociali”, tuttavia già presente nella circolare del 1913. È stabilita un’apposita revisione per le pellicole destinate all’esportazione: sono da vietare quelle che possano, tra l’altro, “ingenerare, all’estero, errati o dannosi apprezzamenti sul nostro paese”.

Il R.d. 6 novembre 1926, n. 1848 introduce una prima forma specifica di tutela dei minori: è consentito vietare la visione dei film ai minori di anni 16, pur senza alcuna indicazione sui motivi del possibile divieto. Un precedente si ritrova nella l. 10 dicembre 1925n. 2277, art. 22: “La commissione a cui spetta di autorizzare gli spettacoli cinematografici deciderà a quali di essi possano assistere i fanciulli e adolescenti dell’uno e dell’altro sesso”, che verrà applicata con un divieto ai minori di anni 15.

L. 16 giugno 1927, n. 1121 Tra i parametri di valutazione di un’opera in sede di censura rientra anche la qualità artistica: un film può essere vietato quando non presenti “sufficienti requisiti di dignità artistica così nella trama del soggetto, come nella esecuzione tecnica”.

R.d. 9 aprile 1928, L. 24 giugno 1929, L. 18 giugno 1931 Aumenta progressivamente la politicizzazione delle commissioni di revisione. Sia in quelle di primo che di secondo grado, entrano rappresentanti del Partito Nazionale Fascista e dei ministeri dell’Educazione Nazionale, delle Corporazioni, delle Colonie e della Guerra (gli ultimi due competenti solo per copioni e pellicole di carattere “militare o coloniale”). La presenza di rappresentanti dell’Istituto Nazionale LUCE e dell’Ente nazionale per la cinematografia, introdotta nel 1929, dura solo due anni: la legge più restrittiva del ’31 riduce di nuovo il numero dei censori abolendo anche le persone “competenti in materia artistica, letteraria e tecnica cinematografica” nominate dal Ministero dell’Educazione.

Il R.d. 28 settembre 1934, n. 1506 trasferisce la responsabilità amministrativa della censura, non solo cinematografica, dal Ministero dell’Interno al nuovo Sottosegretariato di Stato per la Stampa e la Propaganda (trasformato un anno dopo in Ministero, rinominato nel 1937 Ministero della Cultura Popolare). Come sezione del Sottosegretariato nasce anche la Direzione generale della cinematografia, che riunisce le competenze sul cinema prima suddivise fra i vari ministeri ed è affidata a Luigi Freddi, protagonista indiscusso della politica cinematografica italiana e convinto sostenitore del rafforzamento del ruolo della censura, che d’ora in poi non si limiterà a compiti di mero controllo ma sarà anche attiva, “ispiratrice”, propositiva. Tra le competenze della Direzione generale c’è infatti quella di esaminare e revisionare i soggetti dei film di produzione nazionale: comincia l’applicazione rigorosa del principio della censura preventiva, già formulato nel 1919.

La l. 10 gennaio 1935, n. 65, conversione del decreto precedente,uniforma la composizione delle commissioni di primo grado e di appello fissando per entrambe a cinque il numero di membri: tre in rappresentanza dei ministeri dell’Interno, delle Corporazioni e della Guerra, uno del Partito Nazionale Fascista e uno dei GUF (Gruppi Universitari Fascisti), designato dal segretario del partito. Il processo di assoggettamento al potere politico è completo: gli ultimi ad essere esclusi sono il magistrato e la madre di famiglia. La presidenza spetta per legge a un funzionario del Sottosegretariato per la Stampa e la Propaganda nelle commissioni di primo grado, direttamente al Sottosegretario o per delega al Direttore generale della cinematografia in quelle di appello.

L. 29 maggio 1939, n. 926 A seguito della conquista dell’Etiopia, si aggiunge in entrambe le commissioni di controllo un rappresentante del Ministero dell’Africa Italiana, per stabilire “quali delle pellicole, sia nazionali che estere, possono essere destinate alla proiezione nell’Africa Italiana”.

Il R.d. 30 novembre 1939 ufficializza la censura preventiva: “Chiunque intenda produrre una pellicola cinematografica destinata alla rappresentazione nel Regno o all’esportazione, dovrà ottenere, prima di iniziarne la lavorazione, il nulla osta del Ministero della Cultura Popolare. Sono esenti dal nulla osta (…) le pellicole di attualità e i documenti eseguiti dall’Istituto Nazionale LUCE”.

L. 16 maggio 1947, n. 379 L’Assemblea costituente affida il controllo preventivo sui film al nuovo Ufficio centrale per la cinematografia, costituito presso la Presidenza del Consiglio, previo parere delle Commissioni di primo e secondo grado, nuovamente mutate nella loro composizione. Si elimina l’obbligo della revisione dei copioni, ma per il resto sono confermate tutte le disposizioni contenute nella legge del 1923, compresa la casistica delle scene da proibire.

L’art. 21, comma VI, della Costituzione recita: “Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”.

La l. 29 dicembre 1949, n. 958 non apporta nessuna innovazione in materia. La necessità di un aggiornamento della disciplina si realizzerà solo con la legge 161/1962, che in ogni caso, nonostante le novità, manterrà il sistema della censura preventiva.

(fonti: italiataglia.it  e P. Caretti, Diritto pubblico dell’informazione, Bologna, Il Mulino, 1994).

Andreotti e il cinema, dalla censura di Stato al maligno "Il Divo", scrive “Notizie Tiscali”. Quando la televisione non c'era ancora, e i politici non litigavano per la presidenza della commissione di Vigilanza Rai, un sottosegretario di appena una trentina d'anni vigilava sul cinema italiano, allora ritenuto un potente mezzo di formazione delle coscienze dei cittadini. Tra il luglio del 1951 e il luglio del 1953, Giulio Andreotti, nel settimo e ottavo governo De Gasperi, aveva il delicato compito di occuparsi di tutto il settore dello spettacolo. Luci e ombre caratterizzano l'operato di quel suo primo incarico governativo. L'allora sottosegretario, per dirne una, aveva obbligato le produzioni americane a versare nelle casse dello Stato italiano una percentuale degli utili del botteghino. La tassa su Hollywood serviva per finanziare il cinema tricolore, e qui cominciavano i guai. Per accedere ai contributi, bisognava passare attraverso il giudizio di commissioni e burocrati di nomina governativa: e così succedeva che la saga di Peppone e Don Camillo ricevesse dieci volte di più di un film di Vittorio De Sica. Il fatto è che, al giovane sottosegretario, il neorealismo proprio non piaceva, perché insisteva troppo sugli aspetti tragici dell'Italia del dopoguerra. Secondo la vulgata, Andreotti avrebbe espresso il suo astio nei confronti dei neorealisti con la celebre battuta (sempre smentita) "i panni sporchi si lavano in famiglia". Se l'autenticità della frase è dubbia, viene però dalla penna di Andreotti un articolo per "Il Popolo" contro "Umberto D.", un film di Vittorio De Sica che racconta la storia di un pensionato ridotto alla miseria: "Se nel mondo si sarà indotti, erroneamente, a ritenere che quella di Umberto D. é l'Italia della metà del XX secolo - scriveva Andreotti - De Sica avrà reso un pessimo servigio alla patria, che è la patria di don Bosco, di Forlanini e di una progredita legislazione". Il film di De Sica, come ha denunciato recentemente il figlio Manuel, ancora oggi non può essere trasmesso in Tv in prima serata, perché fu bollato dalla commissione censura (della quale Andreotti faceva parte) come "disfattista". Dietro la posizione di Andreotti c'era l'insofferenza del Vaticano per la lontananza della cinematografia italiana dai valori della tradizione cattolica. "La verità - scrisse Andreotti a monsignor Montini, il futuro Paolo VI - è che la gran parte dei registi, dei produttori e dei soggettisti non proviene dalle nostre file né condivide con noi le essenziali convinzioni religiose". Lo stesso Andreotti, nei suoi diari, racconta che papa Pio XII gli telefonava per protestare contro questa o quella scena scabrosa vista in un film. Una volta Papa Pacelli lo chiamò perché in una copertina della Settimana Incom Illustrata si vedeva un'attrice che, scendendo dalla macchina, mostrava le gambe un po' sopra le ginocchia. Il Vaticano non transigeva e Andreotti non risparmiava energie per raddrizzare le storture. Largamente sua era la normativa contro l'oscenità e "tutto ciò che può turbare l'adolescenza" (ma anche un certo numero di esponenti della sinistra, tra i quali Pietro Ingrao, votarono a favore). Anni dopo, quando la sua stella era all'apogeo, Andreotti accettò di interpretare sé stesso nel film di Alberto Sordi "Il tassinaro". A bordo del taxi di Sordi, tra le strade di una Roma dei primi anni '80, Andreotti chiacchierava con il conducente di calcio e politica, probabilmente convinto che la Dc avrebbe governato l'Italia per altri 50 anni. Passati altri 20 e più anni, con la prescrizione al processo per mafia alle spalle, Andreotti si è ritrovato protagonista di un film che lo presentava come il simbolo del "lato oscuro" della politica italiana. Di fronte a "Il Divo" di Paolo Sorrentino, il flemmatico Andreotti è sbottato: "E' cattivo, é maligno, è una mascalzonata", disse il giorno della prima. Poi però tornò a essere andreottiano: "Ho esagerato, le mascalzonate sono ben altre. Questa la cancello".

BERLINGUERISMO. I MITI DELLA SINISTRA.

Enrico Berlinguer, l'ultimo leader. Enrico Berlinguer nacque a Sassari il 25 maggio del 1922 figlio di Mario Berlinguer, un avvocato repubblicano, antifascista e vicino alla massoneria, come molti intellettuali laici dell'epoca, discendente da una nobile famiglia catalana stabilitasi in Sardegna all'epoca della dominazione aragonese, e di Maria Loriga. La famiglia portava i titoli nobiliari di Cavaliere, Nobile, con trattamento di Don e di Donna per concessione il 29 marzo 1777 a Giovanni e Angelo Ignazio da Vittorio Amedeo III Re di Sardegna. Nel dopoguerra, Mario Berlinguer fu parlamentare socialista. Enrico crebbe quindi in un ambiente culturalmente assai evoluto (il nonno, suo omonimo, era stato il fondatore del giornale La Nuova Sardegna, e aveva avuto contatti con Garibaldi e Mazzini) ed ebbe occasione di profittare di relazioni familiari e politiche che influenzarono notevolmente la sua ideologia e la carriera politica successiva. Era parente di Francesco Cossiga (le rispettive madri erano cugine tra loro) – che fu presidente della Repubblica – ed entrambi erano parenti di Antonio Segni, anch'egli Capo di Stato. Condotti gli studi liceali classici presso il Liceo Azuni di Sassari, nel 1943 Berlinguer si iscrisse al Partito Comunista Italiano e ne organizzò la sezione sassarese, svolgendo un'intensa attività di propaganda. Nel gennaio del 1944 la fame spinse la popolazione a saccheggiare i forni della città e Berlinguer fu accusato di esserne stato uno degli istigatori. Fu quindi arrestato e trattenuto in carcere per tre mesi, dopo i quali fu prosciolto dalle accuse e liberato.

Berlinguerismo: un misto di filosofia da oratorio e di marxismo in caricatura, scrive Ishmael su “Italia Oggi”. 2014. Sono passati trent'anni dalla morte d'Enrico Berlinguer, quasi altrettanti dalla caduta del Muro di Berlino, ma l'ideologia berlingueriana, un misto di filosofia da oratorio e di marxismo in caricatura, continua a pesare sulla sinistra italiana come un incubo: la «diversità», la «questione morale», il «nuovo modello di sviluppo» e soprattutto l'incapacità «di pensare la democrazia nella sua realtà politica, affrancandosi dal mito comunista e togliattiano della democrazia progressiva», come scrive Claudia Mancina — ex comunista, deputata diesse negli anni novanta — nel suo nuovo libro, Berlinguer in questione (Laterza 2014, pp. 136, 12,00 euro, ebook 7,99 euro). Come tutti i leader del comunismo italiano, anche Berlinguer, l'ultimo dei grandi segretari generali, partecipava di due nature: la fedeltà al «campo socialista» e l'istinto politico di conservazione, che gli faceva preferire l'ovest all'est, la Nato all'Armata rossa, la democrazia parlamentare alla democrazia popolare. Ma «agli occhi dei comunisti», scrive sempre Mancina, «la democrazia vera non è quella formale ma quella sostanziale», una democrazia «che consiste nella mobilitazione delle masse, nel potere dei lavoratori nel luogo di lavoro, dei sindacati sulla politica economica, o perfino degli studenti nell'università o dei genitori nella scuola». Berlinguer, ai suoi tempi, stabilì con accenti pasoliniani che «l'Italia non avrebbe seguito le banali strade delle democrazie occidentali, nelle quali c'è alternanza di governo e a volte vince la destra, altre la sinistra. Troppo poco per questo paese così speciale, il paese del più grande partito comunista d'Occidente! A noi toccava invece superare il capitalismo e portare a maturazione piena la democrazia, cioè realizzare la mitica democrazia sostanziale». Caduto il Muro di Berlino, passata Tangentopoli, con Berlusconi sugli altari, «i postcomunisti non hanno fatto che oscillare tra ipotesi di riforma elettorale e costituzionale e difesa acritica della costituzione, fino alla favola della costituzione più bella del mondo». Quanto all'eredità berlingueriana, invece di restare patrimonio dei solo ex e post e vetero comunisti, è diventata patrimonio collettivo, come i mezzi di produzione socializzati della favola marxista. «Per la sua deriva moralistica», l'intervista sulla questione morale di Berlinguer «è oggi un testo sacro per gli antipolitici». È grazie a Berlinguer e al suo marxismo bacchettone che «ancora oggi si pensa che l'intransigenza sia una politica».

Le grandi firme di ieri e di oggi per raccontare il segretario del Pci. "L'Espresso" ha scelto di celebrarlo, a trent'anni dalla morte con un libro impostato su un doppio registro: una riflessione attuale e la riproposizione degli articoli a lui dedicati negli anni della sua segreteria, dal 1972 al 1984, scrive Loredana Bartoletti su “L’Espresso”. Berlinguer come se fosse appena successo. A trent'anni dalla morte, l'ultimo grande leader del Partito comunista è tornato di attualità sulla ribalta politica. Evocato dai palchi dei comizi elettorali per solleticare consensi in suo nome, celebrato con film, documentari, libri e ricordi vari. Certo c'è un anniversario importante - trent'anni appunto da quell'11 giugno 1984 - ma c'è anche l'omaggio, il rispetto e quasi la nostalgia per un politico che appare diverso dal panorama cui ci siamo abituati, quasi un alieno nella sua severità di tratto e di comportamento e in più un contemporaneo per quelle parole d'ordine, come la questione morale, che a decenni di distanza non hanno ancora trovato una risposta. Il ricordo di un politico diventato icona può però tendere a idealizzare, a semplificare, a minimizzare le difficoltà e gli ostacoli che quel leader e il suo progetto hanno dovuto affrontare. Anche per questo "l'Espresso" ha scelto di celebrare Berlinguer con un libro impostato su un doppio registro: una riflessione attuale e la riproposizione degli articoli dedicati al capo di Botteghe Oscure proprio negli anni della sua segreteria, dal 1972 al 1984. Nel volume si alternano così le grandi firme del nostro settimanale, quelle di oggi e quelle di ieri. I bilanci e i giudizi su Berlinguer che la distanza di tempo consente di tracciare con maggiore lucidità e le cronache dirette del suo agire politico, dove emergono i tormenti di Botteghe Oscure, i "processi" che il leader subì da parte dei suoi, il lungo scontro con Bettino Craxi, i colpi inferti dal terrorismo, il tormentato rapporto con l'Urss... Insomma la complessità dell'azione di un grande leader. Ma la lettura di quegli articoli di decenni fa consente anche di riflettere sul modo di fare informazione politica di allora. In parte diversa, più stretta al succedersi degli eventi che non ai retroscena, e in parte anticipatrice di modelli poi ampiamente copiati: curiosa, irriverente, capace di disegnare legami e collegamenti inediti. Molto "Espresso", se è consentito dirlo. Il libro "Berlinguer", che sarà dal 6 giugno nelle edicole, è aperto da un’introduzione del direttore dell’”Espresso”, Bruno Manfellotto che riflette sul "politico perbene", poi una intervista di Denise Pardo a Eugenio Scalfari, in cui il grande giornalista ripercorre la carriere politica di Berlinguer, commenta gli eventi di quegli anni ma racconta anche il rapporto personale che ebbe con il leader di Botteghe Oscure. Questione morale, compromesso storico ed eredità politica: Eugenio Scalfari parla del segretario del Pci. L'intervista di Denise Pardo. Poi Chiara Valentini ricostruisce gli anni giovanili di Berlinguer, dal primo arresto in Sardegna all’incontro con Togliatti fino alla scalata al vertice del partito. Quindi Paolo Franchi analizza la strategia del compromesso storico mentre Marco Damilano firma un intervento sull’eredità politica di Berlinguer. L’ampia sezione centrale del libro è poi dedicata agli articoli di ieri, con una carrellata di grandi pezzi e grandi firme tra cui Livio Zanetti, Nello Ajello, Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Gianni Corbi, Paolo Mieli, Lucio Colletti, Ernesto Galli della Loggia, Giampaolo Pansa. A chiudere una sezione “pop”, con le copertine che il settimanale ha dedicata a Berlinguer e una trentina di straordinarie tavole di Pericoli e Pirella, tutte con il leader politico come protagonista, più un quiz divertito e divertente su Berlinguer, apparso nel 1972 sull’”Espresso colore”.

San Berlinguer martire e apostolo. È in atto la costruzione di un Mito, l'invenzione di un Grande. Serve a nobilitare il comunismo passato. A deprecare il presente renziano, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. San Berlinguer, il Terzo Santo. Dopo i film, i libri, gli inserti, ora un largo Berlinguer al centro di Roma e la canonizzazione proclamata da Napolitano in un libro-intervista, Quando c'era Berlinguer, curato da Veltroni. È in atto la costruzione di un Mito, l'invenzione di un Grande. A cosa serve? A nobilitare il comunismo passato. A deprecare il presente renziano. A rianimare un partito spaesato. A cercare nel vintage un titolo di nobiltà. A rifarsi le labbra col silicone moralista. A lanciare qualcuno per il Quirinale. Berlinguer non aveva la statura di Togliatti e, quanto a svolte, fu più ardito Occhetto, seppur col favore dei muri crollati. Berlinguer era modesto, per lunghi anni allineato anche ai più sordidi eventi, mestamente comunista, non lasciò tracce importanti, si oppose alla socialdemocrazia e la storia gli dette torto, considerò il Partito come l'Assoluto. Fu una persona onesta, per bene, ma basta la sua decorosa mediocrità per farne un santo con relativa agiografia? In realtà, tramite la copiosa apologetica su di lui, si vuol celebrare il popolo di sinistra. Berlinguer è un pretesto narrativo per santificare gli eredi. L'industria del santino che abbina il leader del Pci a Papa Francesco (Scalfari dixit) è all'opera. Rischiamo un pantheon di fuffa, tra finti eroi e finti geni, finti grand'uomini e palloni gonfiati, sfornati dalla Ditta Tarocco che produce falsi d'autore. Il P.C. oggi si traduce con Politically Correct. Finite le sciagurate illusioni, la sinistra passò all'illusionismo.

La beatificazione di Berlinguer sempre fedele a Stalin, scrive Mario Cervi su “Il Giornale”. Un supplemento di 100 pagine dell'Unità, convegni e dibattiti, o fervidi elogi del mondo politico, gli applausi dei grillini: per i trent'anni dalla morte di Enrico Berlinguer il ricordo prende i connotati della venerazione se non della santificazione laica. Omaggi più che meritati se si riferiscono all'uomo. Che fu onesto, intelligente, riservato in un mondo di ciarlatani, gran lavoratore. Per dirlo in sintesi una persona per bene. Il culto per lui di chi ha nostalgia dal Partito (...) (...) comunista italiano e alimenta ancora speranze in fulgide sorti progressive della sinistra è non solo giustificato ma doveroso. Perché riguarda chi fu comunista nell'essenza e in tutte le implicazioni del termine. E lo restò sfidando i fatti e le e delusioni con la tenacia indomabile dei credenti. Gian Carlo Pajetta disse, con il sarcasmo d'obbligo, che «si iscrisse giovanissimo alla direzione del Pci». Lasciando con questo intendere che il ragazzo di buona famiglia borghese fosse stato agevolato nello scalare la Nomenklatura delle Botteghe Oscure. Un raccomandato. In effetti l'ascesa di Berlinguer ai vertici comunisti ebbe l'avallo di Palmiro Togliatti che ai compagni altolocati indirizzò un biglietto così concepito: «Questo è il compagno Berlinguer che viene dalla Sardegna. Utilizzatelo nella vostra organizzazione». In verità, pur con l'iniziale e potente spinta di Ercoli, la successione di Togliatti e di Longo gli spettava di diritto: per le sue qualità e per la sua ortodossia ideologica. Alla valanga di articoli di questi giorni ne aggiungo uno mio. Con l'ambizione di non voler offendere una memoria, ma anche di non aggiungermi ai gloria imperversanti. Il primo incarico di gran rilievo del ragazzo sardo fu la guida della Federazione giovanile comunista italiana. Il che gli dava accesso ai sommi uffici, compreso quello del sommo tra i sommi, il Migliore. Al rispetto delle gerarchie ci teneva molto. Gli era stato assegnato un segretario particolare, Mario Pirani, (ora editorialista di Repubblica), e s'era accorto che Pirani sfogliava prima di lui la mazzetta dei quotidiani. «Dice con piglio da dirigente - cito dalla biografia di Chiara Valentini - che il primo a sfogliarli vuole essere lui». Non era incline all'ironia e nemmeno alle confidenze. Aveva da poco compiuto i 24 anni - attingo di nuovo al saggio citato - quando andò per la prima volta in Unione Sovietica con una delegazione di giovani partigiani. Rimase estasiato. Ripeteva in ogni discorso che «la gioventù sovietica felice canta nelle piazze la sua canzone preferita, Com'è bello vivere nel Paese dei Soviet». Ammirava sconfinatamente Stalin che ebbe la fortuna - almeno lui la ritenne tale - di incontrare. Togliatti era il Maestro: da lui aveva mutuato il vezzo d'indirizzare bigliettini in inchiostro verde ai collaboratori. Alla fine del viaggio russo fece firmare dalla delegazione un documento unitario che esaltava le conquiste e le libertà dello stalinismo. Al ritorno a Roma ci fu chi ebbe l'audacia di chiedergli qualcosa sulle donne russe, su come si vestivano, su come si truccavano. La risposta può essere collocata nella casistica del fanatismo quasi delirante. «Nel Paese del socialismo le donne non hanno bisogno di nessun orpello per attrarre gli uomini. In Urss non ci sono donne. Ci sono compagne sovietiche». Sciocchezze d'un ventenne, si dirà. Invece quel ventenne non era per niente sciocco, era un apparatchik inflessibile che nella sostanza rimase tale fino all'ultimo, quando un malore lo uccise e Sandro Pertini presidente della Repubblica, tanto si agitò da dare l'impressione che protagonista del funerale fosse lui. Ebbe anche nell'abbigliamento e nel linguaggio tratti da asceta. In un suo volumetto Dietro la vetrina a Botteghe oscure, il vecchio militante Fidia Gambetti, messo a dirigere la biblioteca di Rinascita a Roma, così scrisse: «Da Bologna ritorna vincitore Berlinguer, unico e naturale successore di Togliatti e di Longo. Con il suo aspetto sofferente di sempre, più piegato che mai sotto gli sfuggenti colli del soprabito e della giacca. Se dovessi dare un giudizio non potrei che rispondere non lo conosco. Non ha mai messo piede in libreria. Il primo a comparire è il grande sconfitto, Napolitano, sereno e signore come sempre». Ho indugiato su questi aspetti marginali della vita di Berlinguer non per sminuirlo ma per collocarlo sul podio che gli spetta e che a mio avviso è quello d'un conformista preparato e anche illuminato, non quello degli innovatori. Fu preso a rimorchio dai cambiamenti, talvolta rassegnandosi a malincuore. Anche gli strappi che gli sono valsi inni d'ammirazione erano tutto sommato prudenti e inevitabili. Non si rese mai conto del baratro verso il quale il comunismo si stava avviando, o se si rese conto lo tenne per sé. Ha scritto Alfredo Reichlin nell'inserto dell'Unità: «È vero, noi non fummo liberaldemocratici. Non avevamo letto i libri dei politologi americani e a Botteghe Oscure del modello Westminster non si parlava». Concesso. Ma la straordinaria vittoria del capitalismo sul comunismo che già era nell'aria non derivava dalla genialità dei politologi, derivava dal disastro di un'utopia tirannica. Berlinguer non sarebbe stato un tiranno. Probabilmente dei tiranni in cui aveva fiducia sarebbe stato vittima. Dopo averli osannati. A Berlinguer viene accreditato l'aver posto la «questione morale». Credo fosse sincero nel metterla sul tappeto. Credo anche che con la sua condotta privata si sia dimostrato degno della battaglia contro la corruzione. Non lo fu come massimo dirigente del Pci foraggiato e mantenuto dall'Urss. Personalmente accredito a Enrico Berlinguer, senza distinguo, la scelta della fermezza dopo il sequestro di Aldo Moro e la strage della sua scorta. La scelta arrivò dopo un lungo flirtare del Pci con le frange eversive della sinistra. Ma fu una scelta decisa. Molti anche oggi spiegano che il negoziato con i terroristi assassini sarebbe stato la via migliore per salvare la vita del leader democristiano. Io ritengo che una trattativa svolta ignorando il sacrificio di cinque servitori dello Stato sarebbe stata ignobile.

Berlinguer, anatomia di una sconfitta. Il libro di Claudia Mancina analizza la criticamente l'attività del leader di Botteghe Oscure, scrive “Europa Quotidiano”. Claudia Mancina ha vissuto dall’interno i travagli del Pci e cerca in questo veloce ma denso volumetto (Berlinguer in questione, edito da Laterza, 2014) di sviluppare un bilancio critico molto argomentato della leadership di Enrico Berlinguer. Ne esce fuori un ritratto molto simile, quasi identico, a quello delle memorie sull’Italia dell’ex-ambasciatore francese Gilles Martinet, inviato a Roma nel 1981. Berlinguer appare «più umano, più autentico, più comunicativo» di Palmiro Togliatti, al punto che ciò «lo rese accetto anche a chi non avrebbe mai votato comunista», essendo peraltro alla guida di un partito che dopo il dissenso sulla Cecoslovacchia aveva espanso i suoi consensi nei ceti medi urbani, specie giovanili. Eppure, se quelle erano le premesse personali, il bilancio strettamente politico è quello di una sconfitta: al di là delle diverse strategie (dal compromesso storico alla regressione neo-identitaria successiva) Berlinguer elude l’unica possibile opzione, quella della trasformazione esplicita in una moderna forza inserita nel socialismo europeo, ossia dentro l’orizzonte dell’economia di mercato. Volendo mantenere un riferimento rivoluzionario (anche se i contenuti con cui esso si identifica si modificano, dall’ammirazione per l’Urss si passa a una sorta di diversità etica, di ripulsa morale per la società dei consumi lontana dall’apertura modernizzante del marxismo) ma al contempo anche delineare una prospettiva credibile di accesso al governo, la soluzione consiste nell’idea di farsi legittimare da un sistema di alleanze. Come, nonostante le differenze e gli accenti, la elude la prospettiva “comunista e riformista” rivendicata ancora qualche mese fa da Emanuele Macaluso nel suo ultimo libro, in alternativa all’opposta ricostruzione di Enrico Morando. In questo senso è la storia politica del Pci, come sostengono Mancina e Morando, ad essere tramontata come tale nel segno della sconfitta, al di là delle energie che essa ha liberato dopo quella sconfitta. Da qui il rapido declino che si manifesta subito dopo la sua scomparsa, che lascia in eredità il referendum sulla scala mobile, voluto non per ragioni di contenuto ma per difendere il potere di veto del proprio partito. Un’impostazione che si riflette sulle questioni elettorali e istituzionali dove paradossalmente un partito di sinistra, che dovrebbe essere in astratto preoccupato di garantire forza ai governi per riequilibrare le disuguaglianze sociali, finisce per difendere a lungo regole iper-garantistiche varate nel periodo della frattura verticale della Guerra fredda. Anche il Pci, insieme alle forze di maggioranza, contribuisce quindi attivamente all’esito catastrofico del primo sistema di partiti, che nel suo insieme, come nota Pietro Scoppola richiamato da Mancina, non riesce a uscire da quella sorta di grande coalizione anomala che era la solidarietà nazionale per giungere ad una fisiologica democrazia dell’alternanza europea, come avrebbe voluto Aldo Moro. Alla fine Mancina ci propone un paradosso: la personalità politica che più ha insistito per una continuità ideale con alcuni aspetti di Berlinguer, Walter Veltroni, è quella che si è più battuta per una trasformazione post-ideologica, per un nuovo centrosinistra a vocazione maggioritaria che non avesse bisogno di protesi centriste; viceversa la persona più critica con Berlinguer in nome di una visione realistica della politica, D’Alema, rivendicando orgogliosamente la continuità con la storia del Pci ha poi sempre voluto alleati centristi per accedere al governo. Alla fine, però, la mutazione molto netta del centrosinistra è arrivata, dando ragione alla frase di Aldo Moro che Mancina premette: «Perché qualcosa cambi, dobbiamo cambiare anche noi».

QUANDO IL CAPO ERA QUASI SACRO. Nel dicembre del 1977, all'indomani di una grande manifestazione di metalmeccanici, sulla prima pagina di Repubblica Giorgio Forattini disegnò il Segretario, o meglio il Segretario Generale del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer che adagiato in vestaglia su una poltrona sorbiva una tazza di tè incurante delle grida che gli giungevano dalla finestra di casa sua, scrive Filippo Ceccarelli su “Il Corriere della Sera”. Si trattava appunto di una vignetta. Senonché il giorno dopo lo storico ufficiale del Pci Paolo Spriano scrisse a Repubblica una sdegnatissima lettera chiedendo conto ai responsabili del misfatto: «Ma avete idea della vita di sacrificio, di passione rivoluzionaria, di tensione politica e morale di un dirigente comunista come Berlinguer?». Contro la caricatura prese posizione anche Trombadori e persino Fortebraccio, mentre Pajetta decretò che non faceva ridere. Nel rispondere a tutti, Eugenio Scalfari osservò che per i compagni Berlinguer era considerato «poco meno che l'Immacolata Concezione». Il richiamo dogmatico e dottrinario aiuta a comprendere in che modo quella carica fosse allora vissuta nel partito. Nell'immaginario comunista la figura del segretario non solo era per sua natura sottratta alla competizione, ma specialmente e letteralmente incarnava la Razionalità della Storia. Anche per questo un'atmosfera mistico-magico già aleggiava intorno a Togliatti, la cui guardia del corpo Armandino pretendeva che mangiasse ogni giorno un piatto di cervello perché doveva «pensare a tutti noi»; così come il suo medico personale, Spallone, si preoccupava anchea livello organizzativo della vita sessuale del Migliore per evitare «che la tensione affettiva, se contrastata, impedisse alla mente di Togliatti di ragionare con la lucidità che gli era propria e ai suoi nervi di essere meno saldi del consentito». E tuttavia con lo scorrere del tempo quest'aura al tempo stesso corporeae sacrale, venne meno e nel 1986 l'inserto satirico dell' Unità, Tango, raffigurò il povero Natta, allora in carica che ballava nudo al suono della fisarmonica di Craxi. Quest'ultimo ne fu piuttosto impressionato. Nessuno a via del Corso si sarebbe mai spinto a tale dileggio. Rispetto alla separatezza che persino nelle dislocazioni logistiche informava l'intangibile solitudine dei capi alle Botteghe Oscure, il vertice del Psi era da sempre più libero, provvisorio, litigioso e sgangherato. Il "Vecchio", cioè Nenni, era persona amabile e tollerante; e la guerra permanente fra Mancini e De Martino aveva finito per insediare una specie di rispettosa alternanza con tanto di stratificazioni. Craxi al contrario instaurò un cesarismo piuttosto prepotente, forse necessario alla guerra di corsa, ma di certo basato sulla paura e sul conformismo. Rimase segretario anche a Palazzo Chigi, lasciando che nel partito crescessero ambizioni e appetiti, cacicchi e ladroni. Del resto anche La Malfa senjor, Saragat, Malagodi e Almirante ebbero personalità così forti da oscurare sia avversari che re travicelli di Pri, Psdi, Plio Msi. Caso tutto diverso quello dei segretari della Dc. Qui occorrevano indispensabili requisiti, il primo dei quali era il favore delle gerarchie ecclesiastiche; il secondo imponeva una situazione coniugale regolare e il terzo una teorica indisponibilità al comando (« Domine non sum dignus ») temperata da spirito di servizio. Eletto primus inter pares, e tuttavia investito del maggior potere possibile, il segretario dc era in realtà in quel posto come garante del governo, delle alleanze, delle oligarchie, delle corporazioni, dei gruppi collaterali, dei territori, delle correnti, della tribù. Per cui ogni tanto veniva fatto secco ma non per sempre, un po' come succede nel Pd - ma con molta più fantasia e perizia.

SIAMO TUTTI PUTTANE.

Pro porno e pro prostituzione: ecco il femminismo di Annalisa Chirico in "Siamo tutti puttane", scrive “Libero Quotidiano”. "Siamo tutti puttane". Un titolo spiazzante quello che Annalisa Chirico, giornalista e compagna di Chicco Testa, politico di sinistra e dirigente industriale italiano, ha deciso di dare al suo ultimo libro. Ma già se si legge il sotto titolo ci si potrebbe fare un idea del concetto che sta alla base dellla lettura: "Contro la dittatura del politicamente corretto". Un libro che ha come bersaglio i perbenisti di sinistra e le femministe alla "Se non ora quando". La Chirico rivendica il sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come ognuno può e vuole, e quindi, anche diventando una puttana. Un femminismo pro sesso, pro porno e pro prostituzione, sia per le donne sia per i maschi. Un dibattito a suo avviso che "ha diviso il Paese tra un popolo di sinistra moralmente irreprensibile e uno di destra, gaglioffo e sciocco". L'ispirazione dal processo Ruby - In un'intervista a Formiche.net del 7 maggio, la stessa giornalista alla domanda "È Berlusconi ad averla ispirata?", non risponde esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. "Ho seguito da cronista il processo Ruby - afferma Chirico - dove nel tribunale di Milano, non di Riad o della Kabul talebana, trentatré ragazze sono state vivisezionate nella loro vita privata in qualità di semplici testimoni, senza alcun capo di imputazione a loro carico. Quando una democrazia smette di distinguere tra peccato e reato, si getta al macero l'abc della civiltà giuridica". Dunque nulla di male.

Tutto per apparire - Le famose "Olgettine", da Via Olgettina, le ragazze indagate dalla Procura di Milano per il caso Ruby, non hanno, a suo parere, la colpa di aver "conosciuto Silvio Berlusconi, il tycoon d'Italia, il capo di un impero mediatico, il presidente del Consiglio italiano". Un'occasione ghiotta di farsi notare e farsi apprezzare, per entrare nel mondo dell'apparire, della tv e dell'estetica da vendere. "E' stato un pornoprocesso, un rito a elevato tasso moraleggiante, oltre che erotico".

La donna può decidere come utilizzare il proprio corpo - Poi dal porno si passa all'erotico e a quelle foto di Paola Bacchiddu, il capo comunicazione della lista L’Altra Europa con Tsipras, che qualche giorno fa ha pubblicato una foto in bikini suscitando clamore. "Mi è sembrata la trovata goliardica di una ragazza intraprendente. In Italia ne sono nate le solite polemiche perché va di moda l’idea boldriniana che il corpo vada nascosto in un sudario di pietra. Per cui i concorsi di bellezza che si fanno in tutto il mondo da noi andrebbero proibiti. La donna invece è un soggetto che decide come usare il proprio corpo, sono le pseudofemministe a rappresentarla come un oggetto". Poi attacca Barbara Spinelli, candida la paladina delle donne e della guerra contro la mercificazione del loro corpo per Tsipras. "E' un esemplare del livello di oscurantismo che caratterizza il femminismo nel nostro Paese. Sono le donne che strumentalizzano le altre donne. La campagna talebanfemminista 'Se non ora quando' aveva l’unico obiettivo politico di colpire l’allora presidente Berlusconi, ci ha fatto credere che il suo indomito fallo fosse il principale assillo delle donne italiane". Infine la frecciatina a Renzi incalzata dalla giornalista di Formiche.net che gli chiede se la convince "il femminismo alla Renzi": "Non esiste un femminismo alla Renzi - ha risposto la Chirico - ma una strategia comunicativa renziana. il premier ha capito che la sinistra del presunto primato morale era perdente. Perciò si è abilmente smarcato dalla linea dei suoi predecessori. E li ha rottamati".

"Siamo tutti puttane" di Annalisa Chirico è la risposta al fanatismo del "se non ora quando", scrive Dimitri Buffa su “Clandestino Web”. - “Siamo innanzitutto puttane, in senso figurato, perché cerchiamo tutti, ciascuno come può, di districarci nel complicato universo dell’esistente, vogliamo arrabattarci, sgomitiamo per conquistare il nostro posto nel mondo”. La “summa philosphica” dell’Annalisa Chirico pensiero, da brava giornalista, l’interessata la mette nel primissimo capitolo introduttivo del proprio libro “Siamo tutti puttane”, da poco uscito per i Grilli di Marsilio editore anche in e-book. E nelle prime parole articolate in concetto. Non si tratta quindi tanto di una semplice difesa d’ufficio o di fiducia del mestiere più antico del mondo, che la Chirico da buona radicale comunque svolge, quanto di una presa d’atto dell’impazzimento di un intero paese, quello italiano, dove, complice e alibi il contraccolpo di venti anni di berlusconismo nel bene e nel male, la sinistra ha dismesso i panni del progressismo sessuale e si è incartata in una sorta di talebanismo di ritorno. In perfetta malafede intellettuale e ideologica, peraltro. Il libro in questione, ben scritto e ancora meglio documentato, ricorda una per una tutte le conquiste degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, dal divorzio all’aborto passando per il travagliato brevetto della pillola anti concezionale, ed è l’ideale risposta all’isterico e ideologico (e disonesto intellettualmente) movimento coagulatosi intorno alla piazza di quelle mezze esaltate del “se non ora quando”. I riferimenti e le punzecchiature contro le vetero-femministe e le discepole vestali di oggi in seno ai vari movimenti tipo 5 stelle e dintorni, compresi i popoli viola et similaria, fatti da Annalisa Chirico (che cita Plutarco e Marcuse, Madonna e Cleopatra, Pasolini e tutti i mostri sacri dell’immaginario catto-comunista di ieri e di oggi con la stessa nonchalance e la stessa precisione) sono tutti alle conquiste del passato rinnegate nel presente. Secondo la logica del fine che giustifica i mezzi. Il fine era fare fuori mediaticamente e politicamente Berlusconi come adescatore di minorenni e sfruttatore seriale di prostituzione minorile, il mezzo era il neo moralismo para talebano di quelle che negli anni ’60 andavano in piazza a dire che “l’utero è mio e me lo gestisco io”. Ovviamente dietro un fenomeno politico, pensato dai maschi della sinistra estremista e forcaiola e fatto interpretare alle femmine del branco, c’è anche un completo “misunderstanding” dell’afflato libertario della cosiddetta rivoluzione sessuale. Giustamente la Chirico parla di una sorta di classismo verso le veline e le “olgettine” che vengono dipinte come “puttane” e come “dementi” solo perché la danno all’uomo ricco e non al dirigente Rai o al direttore di un grande quotidiano o al filosofo di grido. Entrambe le tipologie, la puttana oca e quella intellettuale o pseudo tale hanno invece pari dignità secondo il Chirico pensiero. Avendo il comune fine di valorizzare il proprio corpo per promuoversi socialmente, cosa che la Chirico ritiene non solo giusta ma anche necessaria. Però le prime non hanno diritto di cittadinanza nei salotti buoni della sinistra e della borghesia e le seconde invece sì. Per non parlare della prostituzione, anche al maschile, del proprio cervello che forse è ben più squallida di quella animale del sesso. Insomma non si sa se è peggio adulare un imbecille o andarci a letto. Il pamphlet di Annalisa Chirico farà sicuramente “incazzare” tante portavoce del nulla che hanno visto esaurire la loro carica propulsiva di utili idiote dopo la condanna di Berlusconi in primo grado per prostituzione minorile. Reato commesso, se mai è stato commesso, con una “ragazzina” che dimostrava molto più dei propri anni cui nessuno in un dato contesto avrebbe chiesto i documenti prima di scoparci. E “ictu oculi” non si poteva considerare una povera creatura corrotta da un orco cattivo. Sarebbe come venire arrestati per avere fatto a botte, prendendocele di santa ragione, allo stadio con un cristo alto uno e novanta, tatuato e violento, tipo Genny ‘a carogna, salvo venire a sapere che, dopo averti fatto a pezzi, ti denuncia per sovrappiù in quanto “minorenne”. Anche questa eccessiva iper protettività verso i minori senza giudicare caso per caso è purtroppo una delle trovate legislativo ideologiche del centro destra che per la legge del contrappasso sono state applicate nella maniera più plateale proprio contro chi si era battuto per trasformare in legge simili obbrobri. Da Cosimo Mele all’episodio che recentemente ha coinvolto il marito di Alessandra Mussolini la storia recente è tutta una grottesca antologia di questa aneddottica da contrappasso dantesco. Ma questo non significa che siano gli intellettuali, e le vetero femministe di cui sopra, autorizzati, oggi, a mettere in mostra la massima disonestà intellettuale possibile nel deprecare le abitudini sessuali e lo stile di vita di un ex cumenda della politica e della tv. Intendiamoci: nel libro della Chirico il caso di Berlusconi è citato al massimo un paio di volte. E sarebbe stato ipocrita da parte sua, giornalista di “Panorama”, se non lo avesse fatto. Ma la citazione, come quelle da Plutarco, da Shakespeare e da Francis Bacon, è finalizzata ad esorcizzare il candore che lei definisce “apollineo” di quelle che in tv si battono il petto contro la mercificazione del corpo femminile dopo essere state in gioventù convinte baldracche. Oltre alle Lidia Ravera e alla presidente della Camera Laura Boldrini, gli esempi negativi di donne di sinistra che trattano le cosiddette olgettine come dementi oltre che come prostitute, il discorso si allarga a quei maschi compagni di partito da considerare i mandanti di questo neo puritanesimo di sinistra. Coloro che adesso utilizzano il moralismo di ritorno, sospetto anche un po’ di acidità da menopausa, delle femministe di ieri per farne un’arma di battaglia politica. Sia come sia, il libro di Annalisa Chirico non va raccontato o recensito, ma semplicemente letto. Perché è esattamente il genere di libro che ognuno di noi avrebbe voluto scrivere e fare materializzare in pochi minuti nelle proprie mani oltre che nella propria mente ogni qual volta ha preso la parola ad “Annozero” negli ultimi quattro anni una come Giulia Innocenzi, cinica interprete e sobillatrice dell’invidia, anche “del pene”, di tante ragazze di sinistra che non sopportavano (o fingevano di non sopportare) la narrazione della vita sessuale dei potenti, specie se di centro destra. Nella fiera dell’ipocrisia che abbiamo dovuto sorbirci negli ultimi tre o quattro anni dal caso Noemi in poi, queste rare perle di saggezza e di analisi storico filosofica sono sempre le benvenute. Dopo avere dovuto sopportare il fatto che l’ex attrice di teatro Veronica Lario fosse eretta a monumento nazionale vivente, insieme alla sua mentore Maria Latella, del politically correct made in piazza Indipendenza (oggi in largo Fochetti) questa soddisfazione ci era proprio dovuta.

“Siamo tutti puttane”, Chirico: nel mio libro smaschero un’Italia ostaggio del moralismo, scrive Monica Gasbarri su “Clandestino Web” – “Siamo tutti puttane”, edito da Marsilio, e nelle librerie dal 7 maggio, è un pamphlet che si scaglia contro l’ipocrisia e contro il perbenismo imperanti nel nostro paese e parte da un assunto che, in tempi di “politically correct”, farà storcere il naso a quanti ancora si aggrappano all’immagine edulcorata della natura umana: l’interesse personale è democratico. Titolo d’effetto, spirito caustico e provocatorio, il libro racchiude al suo interno un’anima politica e una più pop come racconta l’autrice a Data24News. “Non è certo il memoire di una prostituta a fine carriera” ci spiega Annalisa Chirico, giovanissima giornalista di Panorama, “è un libro sul sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come meglio si può, nei limiti del lecito ovviamente. Se non ci trovassimo in un paese perbenista come il nostro non ci sarebbe bisogno del mio libro per ribadire quello che dovrebbe suonare persino scontato: ognuno ha diritto di mettersi in gioco e di valorizzare le doti che ha. Ma l’Italia è afflitta da un moralismo asfissiante”.

Di chi è la colpa?

«Una grossa colpa va imputata, in questi ultimi venti anni, alla sinistra che ha spostato lo scontro dal terreno della politica a quello della morale. Di fronte alla “variabile imprevista”, Berlusconi, la sinistra si e’ illusa di potersi affermare non per quello che faceva ma per quello che pensava di essere: moralmente superiore».

Le responsabilità sono tutte a sinistra?

«La sinistra ci ha raccontato una storia che non si reggeva in piedi, in realtà il primato morale della sinistra non esiste. La destra non ha mai vantato un primato morale. Berlusconi ha anzi esibito e ostentato il suo essere un uomo come tutti gli uomini, entrando così in empatia con l’elettore. Berlusconi non si è mai proposto come Grande Pedagogo, la sinistra sì. Pensi a D’Alema che ci ha raccontato per anni che la sinistra rappresentava “la parte migliore del Paese”. Nel libro intitolo un capitolo al “bunga bunga di Pasolini”, con giovani persino “più minorenni” della minorenne anagrafica Ruby. Mi soffermo sulle sregolatezze sessuali di un’altra icona gauchiste come J F Kennedy. Il fronte cosiddetto progressista è passato dagli slogan sessantottini a favore della liberazione sessuale all’ipocrisia dei giorni nostri, ai bigottismi bindiani e ai diktat boldriniani. Per cui l’ardore e la sfrontatezza di alcune giovani ragazze (che cercano di farsi strada nella vita e che non commettono reati, ma hanno l’unica colpa di frequentare un uomo potente) diventano il perno di una campagna mediatica che è tutta politica. Le donne sono ridotte a strumento, pretesto, vittima sacrificale. Il bersaglio vero è Berlusconi».

Il suo è un saggio rigorosamente politico.

«Io incarno il mio libro che non può non essere politico. Esalto figure come Cleopatra e Madonna, donne fatali che non subiscono ma dominano il desiderio sessuale maschile. Per le femministe americane degli anni ’80 Madonna è una traditrice del genere femminile perché sbaraglia il femminismo mainstream che considera i maschi un nemico».

Ecco introdotto dunque un tema centrale, quello del femminismo. Quanto spazio ha nel suo testo?

«Io sono un’appassionata del genere, anche per motivi accademici. Sono cultrice di studi di genere alla Luiss. Nel libro metto a confronto femminismi diversi, italiani e stranieri. Dalle seguaci di Diotima alle libertarie americane meno conosciute in Italia».

In quale si riconosce di più?

«Nel femminismo della seconda ondata, quello delle grandi battaglie sui diritti civili, per questioni concreti, per guadagnare maggiori spazi di autonomia. Oggi, invece, il femminismo è corporativo, avviluppato su se stesso, tutto concentrato in una battaglia intellettualistica, quasi metafisica. E’ un femminismo antimodernista».

Non condivide, dunque, le idee delle italiane di “Se non ora quando”…

«Il movimento “Se non ora quando” ha delle basi filosofiche assolutamente fragili e ha strumentalizzato la battaglia delle donne per fini politici. Come se l’assillo principale delle donne italiane fosse l’ “indomito fallo del premier”. Invece le battaglie da portare avanti sono ben altre: i tetti di cristallo nel mondo del lavoro, la salute riproduttiva, la fecondazione assistita, l’accesso alla contraccezione, tematiche di cui si parla troppo poco in Italia».

Certo che, con un titolo del genere, il suo libro è destinato a generare polemiche…

«Ben vengano. La polemica è un esercizio retorico ed intellettuale finissimo. Non è da tutti. Nel libro rivendico il diritto di ciascuno a “darla” per interesse e convenienza, ma parlo anche di prostituzione in senso stretto. spiego per esempio come funziona in Austria e in Germania, dove il sesso a pagamento è regolato e i sex worker pagano le tasse come ogni altro lavoratore. In Italia invece le prostitute e i prostituti non possono perché non é riconosciuta loro alcuna dignità professionale».

Da giornalista quanto è difficile rompere questo tabù del politicamente corretto?

«L’Italia è afflitta dal moralismo e dal conformismo imperante. E’ difficile prendere posizioni contrarie a quello che è il pensiero dominante. in questo devo dire che hanno un grande ruolo i mezzi di comunicazione, ma anche la classe dirigente, non solo politica. C’è un completo appiattimento. Io non ho difficoltà a definirmi una puttana, tra le puttane e i puttani d’Italia. Cerco di coltivare le relazioni personali che possono essermi utili: l’interesse personale è democratico e muove il mondo».

Tornando all’attualità, cosa pensa della polemica delle ultime ore sulla Bacchiddu? Una questione che sembra calzare a pennello con i temi del suo libro…

«Si tratta delle solite polemiche italiane sul nulla. Quella della candidata di Tsipras è una trovata efficace sul piano della comunicazione. Il sesso e la seduzione del corpo femminile fanno parte della natura. Il corpo è parte di me non meno delle mie doti intellettuali, e questo vale per tutti. Quindi brava la Bacchiddu, della quale altrimenti non sapremmo nemmeno il nome. Giocare con il proprio corpo non è disdicevole. Evviva chi osa. Siamo in Italia, non a Riad. Teniamolo a mente».

“Siamo tutti puttane”, Chirico: nel mio libro smaschero un’Italia ostaggio del moralismo.  ‘Siamo tutti puttane’ non è un coito interrotto. La Rai è l’alcova del puttanizio, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Se Michele Emiliano è in grado di spiegare il ‘Siamo tutti puttane’ alle femministe imbestialite, vuol dire che di questo libro c’era un gran bisogno. Dovevate vederlo lo scorso sabato a Lecce, il sindaco di Bari, quasi estasiato, spiegava e declinava il messaggio profondo del ‘Siamo tutti puttane’. Ne tesseva l’elogio e l’imponenza, ‘non sono stato abbastanza puttana’, ha ammesso senza celare un filo di rammarico. E va bene che gli economisti austriaci non vanno di moda in Italia, e va bene che il panegirico dello scambio e del compromesso non va di moda in tempi di guerra grillin-guerreggiata. E va bene il ‘negoziare mai’, e va bene che il titolo è un’efficace provocazione, e va bene che ‘puttane’ è una parola che non si confà alle educande ben insediate nel circolo elitario dell’intellighenzia all’amatriciana. Va bene tutto. Ma davvero qualcuno può pensare che il ‘Siamo tutti puttane’ equivalga ad un coito interrotto? In molte hanno replicato con altisonanti ed elaborati ‘Io non l’ho mai data a nessuno. Puttana sarai tu’ o ancora ‘Facci sapere a chi l’hai data ché gliela diamo pure noi’. Fantastico. Mi perdonerete se di costoro non mi occuperò, per il bene loro prima che per il mio. Non compilerò alcuna lista, anche perché sarebbe lunga assai e alle stesse eleganti signore potrebbe appalesarsi una bruciante verità: se nessuno te l’ha mai chiesta, un motivo c’è. Passiamo invece alle critiche da prendere sul serio, quelle che meritano. E’ vero, finora ‘Siamo tutti puttane’ è stato trattato con i guanti dalla stampa di centrodestra, da Panorama (la testata per cui lavoro) al Giornale a Libero, il Foglio ha dedicato un’intera pagina, Alessandra Di Pietro ne ha scritto su La Stampa Top News (come del libro che ‘onora le battaglie femministe negli ultimi due secoli’). Si sono moltiplicate le interviste sui siti d’informazione online, gli inviti a presentarlo di qua e di là (farò del mio meglio). Dagospia lo ha esaltato come solo Dago può. Seguiranno ulteriori recensioni, e mi auguro che le voci dissonanti afferrino la penna più acuminata per sfornare argomenti su argomenti contrari alle mie tesi. Del resto, quando abbiamo programmato il lancio de libro, ho richiesto per prima cosa alla casa editrice Marsilio che una copia venisse spedita a ciascuna delle talebanfemministe citate nel mio libro. Le Concite, le Spinelli, le Comencini, tutte. Per la prima presentazione del libro a Lecce ho invitato la presidente della Camera Laura Boldrini che dopo qualche giorno di meditazione ha declinato l’invito. Dunque l’autrice di ‘Siamo tutti puttane’ non si sottrae al confronto. Lo agogna. Sul blog di IoDonna ho letto il post di Marina Terragni. Lei non è citata nel mio libro. Le critiche sono mosse in via preventiva, ossia pregiudiziale, dacché la stessa ammette candidamente di non aver letto il saggio. Spero che almeno dopo la pubblicazione del post Terragni si sia decisa a leggerlo. Ad ogni modo a lei qualche risposta desidero darla. Io non dico che per riuscire nella vita devi darla a qualcuno. Anche perché sono così brava che per scrivere una simile minchiata mi sarei fatta bastare 3 pagine, non 286. E’ questa una banalizzazione che non fa onore a chi se la intesta. Io dico che, se nel gioco a dadi con la sorte tu scegli di scambiare qualcosa di te con l’altro, hai il sacrosanto diritto di farlo. Avviene ad ogni latitudine, è sempre accaduto e sempe accadrà. Si chiama libertà. E Terragni, che è donna di mondo, lo sa bene. A questo punto si possono muovere due obiezioni. La prima riguarda la prostituzione fisica, che ci infastidisce e ci indigna assai più di quella intellettuale, verso la quale siamo sorprendentemente benevolenti. La seconda, più insinuante, riguarda il merito. Qui la questione è semplice. In ambito privato, se uno assume un incapace, maschio o femmina, solo per meriti extraprofessionali, quel datore di lavoro se ne assume la responsabilità e il costo. Nel pubblico invece esistono meccanismi di selezione basati sul merito e sulla competizione tra le persone. Ma se il sistema scelto consente l’arbitrio della selezione, è inevitabile che si aprirà la gara a chi offre di più, chi con le cosce, chi con le mazzette, chi con la forza. Criminalizzare colui o colei che ‘c’ha provato’ significa guardare il dito e non la luna. Significa cercare il capro espiatorio per non cambiare nulla. Così hanno agito le talebanfemministe quando hanno puntato il dito contro le Minetti di turno, contro le vergini del Drago, contro le sfrontate che accettano inviti galanti, come se il problema fosse un batter di ciglia. Io difendo il batter di ciglia. Piuttosto, basta con questa idea che se sei un po’ gnocca devi essere per forza scema. La gradevolezza fisica si accompagna spesso alle rinomate doti intellettuali. Non esiste una secca alternativa, per fortuna. Pensate ai giornalisti televisivi, di solito non sono dei cessi. Qualche eccezione, a dire il vero, c’è, ma ai piani alti della Rai, che è il luogo del puttanizio per antonomasia. Quando sei in sella da un numero imprecisato di decenni e vai in video a dispetto di ogni legge di gravità, vuol dire che hai puttaneggiato ad arte prima, costruendo relazioni e simmetrie che ti hanno permesso di fare quel che fai. E sai farlo meravigliosamente, sia chiaro, perché anche il merito abbisogna di puttanizio.

LA PALUDE DEGLI SCRITTORI. LE VESTI STRACCIATE E LA LAVATA IN PUBBLICO DEI PANNI SPORCHI DEGLI (A LORO DIRE) INTELLETTUALI.

Mettete in scena una commedia inesistente in cui editori mafiosi manovrano addirittura centinaia di voti popolari, o autori con famiglie numerosissime e stuoli di schiavi o clientes……

Campiello, una cinquina contestata. Un esito che non è piaciuto per niente al figlio Vittorio, che in serata ha sparato ad alzo zero come suo solito: «Sono indignato - ha detto - ma non perché hanno escluso mio padre, ma perché hanno perso l’occasione di far parlare di un premio che di suo è morto, e di fare un omaggio a uno dei fondatori, Gian Antonio Cibotto: cosa c’era di meglio che premiare un esordiente ultranovantenne piuttosto che il solito trentenne (in realtà Valenti di anni ne ha 50, ndr)? E cosa di meglio che fare un omaggio a Cibotto, dando spazio a un suo amico, che parla come lui del Po e della vita che gli scorre intorno? Così rinnegano le loro origini, sono degli incapaci. E tutto per far passare due libri Einaudi, una prova della loro mafiosità».

Campiello, tutti contro Sgarbi per la polemica sul libro del padre, scrive “Il Gazzettino”. Il Campiello riparte il giorno dopo da Vittorio Sgarbi. Dalla sua nuova entrata a gamba tesa sulle scelte di una giuria che ha deciso di lasciare fuori dalla cinquina finale il libro del padre esordiente a 93 anni. Riassumendo il pensiero del critico: il Campiello è un premio morto, ci sono mafiosità, persone incapaci, giurati a cui piacciono cose schifose eccetera. Ovviamente promettendo un bombardamento di strali futuri, già iniziato in tv. I destinatari di tali, simpatiche attenzioni cercano di non scendere in battaglia, limitandosi molto signorilmente a rispedire al mittente le tante illazioni, ribadendo come il Campiello sia un premio vivo, libero e del tutto autonomo nelle scelte, da parte di una giuria, che come quasi tutte le giurie, non ha trovato accordo unanime, ma ha scelto in piena serenità. Insomma: non c’è assolutamente voglia di infuocare la polemica, lasciando il profilo della risposta nella più ordinata ed elegante spiegazione. Riccardo Calimani, componente della Giuria dei letterati, spiega subito le scelte sue e dei compagni d’avventura: «Il libro del papà di Sgarbi è un buon libro, che è stato apprezzato e ben discusso da tutti noi. Quindi le sue reazioni sono assolutamente fuori regola, logica e assolutamente sbagliate e del tutto inaccettabili. La violenza verbale, poi, è deprecabile. Dire poi che il Campiello è morto non ha senso. Il Campiello è un premio vivissimo, assolutamente libero e lo dimostra proprio perché la presidente Monica Guerritore si è dichiarata non contenta dell’esito finale, questo a dimostrazione che non eravamo tutti d’accordo, come capita spesso nelle giurie, ma il verdetto finale ci ha lasciati del tutto sereni». Anche Piero Luxardo, presidente del Comitato di gestione, non accetta la "morte" del Campiello: «Morto? Le polemiche semmai dimostrano esattamente il contrario. Le manifestazioni di Sgarbi sono nelle loro consuete tinte diciamo estroverse, che fanno parte del personaggio. Pazienza, non saprei che altro dire, se non che il Campiello è un premio libero, trasparente, non condizionabile. Essendo la seduta pubblica, durante la quale tutti sanno chi e come ha votato, è chiaro che è impossibile parlare di risultato predeterminato. Ma comunque non voglio commentare certe frasi vivaci, sopra le righe. Noi non abbiamo nessun manuale Cencelli da soddisfare. Anche sulle opere prime abbiamo dibattuto in modo articolato, e siccome il Campiello passa spesso per un premio a tematica industriale, diventa paradossale che la scelta sia caduta su un romanzo che parla di intossicazione per amianto di un operaio». Infine lo scrittore Mauro Corona, uno dei cinque finalisti, che conferma la richiesta di Sgarbi a cedere il posto al padre: «Vittorio mi ha telefonato per questo. Ma le giurie sono come le sentenze dei tribunali: non si discutono. Mi ha chiesto un gesto eclatante, ma al di là di dire di no, non credo sia nemmeno contemplato dal regolamento. E poi non credo che suo padre sarebbe orgoglioso di approdare in questo modo in finale. Posso solo dire che il libro del papà è proprio un gran bel libro. A me non interessa sapere se qualcuno crede che il premio Campiello sia morto. Io ringrazio solo la giuria che ha avuto lungimiranza e coraggio a mettermi nella cinquina».

Passano Mari, Corona, Fontana, la Garavini e Falco. Fuori Sgarbi senior. La Guerritore voleva «un’altra cordata». E la stroncatura di Cordelli su «la Lettura» si fa sentire, scrive Marisa Fumagalli su “Il Corriere della Sera”. Non s’era mai visto al Campiello un presidente di Giuria esprimere con tanta schiettezza la delusione per il risultato della Cinquina che «non è la mia». E neppure era mai accaduto che, nel corso della seduta pubblica per la selezione dei finalisti, lo stesso presidente leggesse nell’aula Magna del Bo un brano di un’opera in gara. Con dizione perfetta, certo. Ed anche con quella dose di teatralità che si addice a un attore. Anzi, a un’attrice. Parliamo di Monica Guerritore, presidente della 52° edizione del Premio fondato dagli industriali del Veneto, che occupa da tempo una solida posizione di prestigio nel panorama letterario italiano. «La nostra cordata non ce l’ha fatta», ha detto chiaro e tondo, la Guerritore, in chiusura di votazione, alludendo evidentemente ad alcuni colleghi della Giuria (composta da 10 membri lei compresa), allineati nelle valutazioni dei libri in concorso. Vero è che, rispetto all’anno passato, la gara per entrare nella rosa dei 5, in marcia verso la vittoria che sarà decisa dalla Giuria Popolare dei 300, è stata piuttosto movimentata. Sei giri di tavolo per trovare la quadra della Cinquina, così definita: Roderick Duddle di Michele Mari (Einaudi, 8 voti), La voce degli uomini freddi di Mauro Corona (Mondadori, 6), Morte di un uomo felice di Giorgio Fontana (Sellerio, 6), entrati nella rosa alla prima votazione. Le vite di monsù Desiderio di Fausta Garavini (Bompiani, 6), alla seconda; La gemella H di Giorgio Falco (Einaudi, 5), alla sesta. Quest’ultimo ha dovuto giocarsela fino all’ultimo con Giuseppe Sgarbi, ultranovantenne, «padre d’arte» di Vittorio ed Elisabetta. «Il riscatto di un uomo delicato, sensibile, elegante, nei confronti di due figli e una moglie ingombranti», chiosava con ironia il giurato Philippe Daverio. Ma Lungo l’argine del tempo (Skira) ha dovuto cedere il passo a La gemella H. Con i voti di Silvio Ramat, Luigi Matt, Nicoletta Maraschio, Paola Italia. Poi, si è aggiunto Riccardo Calimani. Mentre Ermanno Paccagnini, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo e Salvatore Silvano Nigro, agli ultimi giri, sono andati a zig zag. «La rosa ideale spesso comprende più di 5 libri — osserva Paccagnini —. In dirittura d’arrivo si deve stringere, e qualche voto viene dato più per contrastare che per favorire». Nella cinquina caldeggiata dal presidente, infine, avrebbe figurato soltanto uno dei favoriti: Michele Mari. (E neppure al primo posto, al terzo). Ma quanto è oggettivo il valore di un libro? Ad ogni edizione del Campiello, assieme alle tendenze di stagione, ai filoni letterari, affiora nel dibattito anche il tema dei criteri di valutazione delle opere. Quest’anno, si segnala una polemica divampata fuori dal Premio ma che in qualche misura lo riguarda da vicino. Al centro c’è lo scrittore entrato in cinquina Giorgio Falco, indicato tra gli esempi di mediocrità narrativa da Franco Cordelli, in un articolo pubblicato la scorsa domenica su «la Lettura», supplemento culturale del «Corriere della Sera». Il critico stronca l’autore de La gemella H, per poi lanciare un attacco alla «palude» letteraria dove si annidano gruppi che perseguono «la sopravvivenza editoriale». E altro ancora. La riflessione di Cordelli non è passata inosservata. Consensi e dissensi si rincorrono sul web e sulle pagine culturali dei quotidiani. In attesa della sfida finale al Gran Teatro La Fenice di Venezia (13 settembre), il Premio di Confindustria Veneto ha già un vincitore. Si tratta del Campiello Opera Prima 2014, attribuito dalla Giuria a La fabbrica del panico di Stefano Valenti (Feltrinelli). «Racconta una storia familiare che diventa corale di fronte alla malattia e alla morte per amianto», si legge nella motivazione. A narrarla, muovendosi tra i ricordi, è il figlio quarantenne che sente la necessità e il dovere di stringere un rapporto più ravvicinato col padre, sceso a Milano dalla Valtellina per morire in fabbrica. «Per questo riconoscimento, il competitor di Valenti era Giuseppe Sgarbi», rivela Monica Guerritore.

La palude degli scrittori. Che cosa ci lascia la produzione editoriale degli ultimi vent’anni?
Sguardo su autori o «tribù» che si sono formate, forse in modo inconsapevole, scrive Franco Cordelli su “Il Corriere della Sera”. Le «sagome sudate»... Quando sono arrivato a queste due parole ho avuto un moto di rabbia, di sicuro eccessivo. Ma si sa che per un sintagma si può perdere la testa — in un doppio senso. Le «sagome sudate», che per me non vuol dire niente, compare in un romanzo di Giorgio Falco: La gemella H. Compare nella prima pagina. Poi invitando me stesso alla calma ho messo da parte La gemella H e ho preso il libro precedente di Falco, L’ubicazione del bene, che avevo conservato ma non letto. Di questo sono arrivato fino in fondo. «L’aria accucciata».Ne cito due frasi: «Le pale del ventilatore girano lente, sembrano acchiapparsi a vicenda, al prossimo giro, spiate dall’aria accucciata». Sappiamo bene che si possono usare metafore in mille modi, che si possono avere visioni, che si può stravolgere fino a essere considerati veggenti. Ma se si può accettare che le pale sembrino acchiapparsi, chi ha mai visto l’aria accucciata? L’altra frase, ancora da L’ubicazione del bene, dice: «L’aria (sempre l’aria! ma è molte pagine avanti, in un altro racconto) arriva dal basso, noi siamo a disagio nel restare fermi, disabituati a quell’ariosità gratuita, così andiamo verso uno dei cannocchiali che, come molte altre cose, per avere senso ha bisogno dell’energia di una moneta». Come non pensare che per scrivere «l’energia di una moneta» di fantasia bisogna averne molta? Qualunque cosa sia, una simile espressione, metafora o che altro, non è un bello scrivere. Al più (ovvero al meno) è un modo di scrivere che ha il merito di mostrare l’intenzionalità, la volontà d’essere originali, il mettersi in posa. Sfiguramento proprio del conflitto bellico. Alla lettura di Falco ero arrivato sull’onda di una stampa a lui molto favorevole, nell’ambito di una circoscrizione che per comodità diremo d’«avanguardia». Ed ecco poi (dopo l’avvenuta lettura) proprio su La gemella H un articolo di Giorgio Vasta, il cui primo libro non avevo finito di leggere per motivi analoghi a quelli di Falco. Anche dell’articolo di Vasta do due esempi di prosa che a qualcuno è parsa letteratura pura e a me pura farneticazione. Prima frase: «Si ha la sensazione che Falco sia dominato da una duplice ossessione: da un lato dal bisogno di ricomporre per via letteraria una genesi del contemporaneo, vale a dire quella cosa che chiamiamo presente; dall’altro dal desiderio di rendere conto nella lingua (e dove, se no? né posso trattenermi dall’osservare che contemporaneo e presente sono la medesima cosa) — rendere conto nella lingua di ogni microfenomeno umanamente percepibile — gli infrasuoni, l’ultravioletto, le più minuscole increspature dell’esistente». La seconda frase di Vasta dice: «Il transito dalla guerra alla pace permette un’ulteriore consapevolezza: la messa in torsione dell’etica (questo, della frase che qui ripeto, è il picco), il suo sfiguramento proprio del conflitto bellico, non è qualcosa che termina con la fine della guerra ma prosegue in forme più attenuate e diluite, socialmente compatibili». A me sembra incredibile che questi due scrittori possano essere esaltati. Eppure così è. Riconoscimento di una tribù. Li ritroviamo in una tanto ricca quanto tendenziosa antologia di Andrea Cortellessa, La terra della prosa, dedicata agli scrittori che hanno esordito dopo il 1999. Ed è a questo punto che m’è sembrato di uscire da un lungo sonno, quello in cui, e io con essa, è caduta la letteratura italiana contemporanea: non più un campo di forze, una scacchiera su cui sia possibile — come era fino alla soglia degli anni Novanta — scorgere e valutare linee di tendenza, gesti peculiari, prese di posizione esplicitamente e implicitamente teoriche e soprattutto opere di qualità, impugnate con argomenti critici riconoscibili e validi, se non per tutti almeno per i più. Invero la letteratura italiana degli ultimi vent’anni (a cominciare dal declino della critica, impoverita ancor più di romanzo e poesia) non è che una palude, in cui il bello e il brutto sono detti e sostenuti secondo un percorso prestabilito: pubblicazione (ma pubblicano tutti), recensione, premio. Non c’è altro. Oppure c’è, a guardare bene, meno distrattamente, il riconoscimento di una tribù: una adesione prodiga di stilemi iperbolici. Sì, la faccenda è uguale per tutti, o quasi tutti; la plausibilità del valore è minima o nulla; la palude nasconde gruppi che non si riconoscono come tali, che neppure sanno di esserlo, e in cui ognuno per conto proprio persegue lo stesso fine — vale a dire (prima ancora del successo) la sopravvivenza editoriale, o presso l’editore per il quale si pubblica, o dello stesso editore, insidiato a sua volta da sempre nuovi editori — almeno quanto costoro sono insidiati da sempre nuovi scrittori. Non è questione di «buoni» o «cattivi». Questo grafico, il grafico che qui presento, è un tentativo di guardare dentro la palude — più o meno dove non si vede niente, o poco, o in modo confuso. Ovviamente ciò che vedo e trascrivo è frutto della mia percezione, del mio sguardo. Ma non è la mia opinione intorno al buono o al cattivo. Parlo solo di ciò che tra un anno potrebbe essere diversissimo ma che in questo preciso momento balza agli occhi, ossia di ciò che viene valutato criticamente ad un certo livello, di qualità, o appunto di intrinseca necessità perfino personale. Parlo non già d’una totalità, ma d’una parte — appunto la meglio visibile. Voglio chiarire: parlo di ciò che viene percepito (che credo venga percepito in questo momento come culturalmente significativo — almeno un poco); e di come chi viene percepito percepisce se stesso e gli altri, i lontani e i meno lontani, vale a dire gli appartenenti alla stessa tribù. Ne consegue che i cento scrittori non nominati non lo sono per la medesima ragione, perché poco o troppo percepiti. Essi appaiono culturalmente irrilevanti (almeno nell’immediato: la maggior parte dei poeti, che ha rinunciato a dire qualcosa in più, rispetto ai propri versi) o già acquisiti in una sfera di vera o presunta eccellenza o quanto meno dignità (culturale e, naturalmente, artistica). In quanto ai settanta nominati. Il numero è una mera casualità o, se si vuole, una mezza necessità. Le categorie, o caselle, o tribù, o famiglie. Sono qui ridotte allo schema parlamentare perché esso resta, benché a vanvera, eloquente. Eloquente, come? Non posso che semplificare, ridurre, stravolgere. A sinistra (novisti) troviamo un che di simile a una casta di incerta memoria politica, erede di una tradizione di stile e rigore e i cui esponenti, per quanto sempre in prima linea, faticano a ritrovare l’antico vigore; esterna a questa, una sparuta e ideologicamente incoerente raccolta di nomi di irriducibili guardiani dell’hic et nunc (dissidenti); a destra, quanti mostrano un’orgogliosa indifferenza per il tempo che passa e sono spesso riconosciuti in quanto sempre reattivi a ciò che viene di sinistra presunto (conservatori); l’estrema destra, di matrice dannunziano-pasoliniana, si caratterizza per un’aggressività verbale e una vistosa muscolarità (vitalisti); a fare da ago della bilancia, il centro-moderato, una forza ad alta vocazione istituzionale pronta ad assumere sulle proprie spalle il ruolo che la società culturale gli riconosce (moderati); ai margini il gruppo misto — simile al suo analogo parlamentare — composto da minoranze, transfughi e orfani; assisi nel distacco della loro indiscussa celebrità, i senatori a vita guardano con relativa attenzione a quanto gli accade intorno. Da questi settanta nomi ne estraggo due per diminuire i possibili equivoci. Walter Siti compare tra i novisti né in ragione della forma dei suoi romanzi né in ragione dei loro contenuti, ma perché pur essendo egli un uomo fondamentalmente di destra («resistere non serve a niente») fu oggetto di ammirazione presso lettori che si considerano di sinistra, o meglio cultori del nuovo, avanguardisti, sperimentali ecc. Giorgio Ficara — il cui Riviera è considerato un contributo innovativo, nella riconosciuta crisi e insopportazione del romanzo, a questo genere da lui stesso ritenuto obsoleto (ma per me Riviera, comunque eccellente, è un libro di viaggio) — Ficara compare tra i conservatori per ragioni che ritengo del tutto casuali, per avere egli quegli amici, quei sostenitori, le altre dieci persone nominate nel suo schema: che sono quelle a lui più vicine, o dal punto di vista del gusto o nella vita di tutti i giorni.

Cordelli, penna rossa ma distratta. La critica colpisce «giovani avanguardie» dotate di un pensiero solido, eppure assolve scrittori più famosi che usano una lingua desueta e lontana dal presente, replica  Gilda Policastro su “Il Corriere della Sera”. A leggere lo sfogo di Franco Cordelli uscito domenica su «la Lettura», che senza scandalo possiamo definire idiosincratico, vien da chiedergli immediatamente dov’era, negli ultimi (a dir poco) dieci-quindici anni, mentre anche da noi s’inveravano le profezie di Schiffrin e gli allarmi di un’editoria soccombente alla necessità di trarre profitto non solo o non più dal fatturato complessivo ma da ogni singolo titolo stampato, col sacrificio programmatico dell’opera costata al suo autore, diceva Leopardi, «anni di fatica e grandissimo lavoro» e destinata in partenza agli altrimenti famigerati venticinque lettori o ancor meno. Dov’era mentre gli editori diventavano imprenditori e gli editor venivano assunti di preferenza tra ragazzetti non laureati, che dei libri pretendevano innanzitutto una sinossi, aspettandosi (o esigendo) poi che lo stile si adeguasse per contratto alle trame seriali come sceneggiati da prima serata di Raiuno, e normalizzando qualunque violazione (l’iperbato, questo sconosciuto) linguistica, stilistica, strutturale. Dov’era quando l’aggettivo «rastremato» veniva da uno di codesti pischelli espunto da una copertina (di ciò ha esperienza diretta chi scrive) perché «non esiste in italiano», salvo inserirci di suo pugno un errore marchiano di concordatio (un’endiadi in una bandella vorrebbe il verbo al plurale: vaglielo a spiegare); e dov’era quando gli editori si ostinavano a selezionare gli autori e i libri dei rispettivi autori in base alle vendite del libro precedente, quando gli anticipi milionari si riservavano agli autori televisivi e agli altri non restava che elemosinare e ringraziare in ginocchio per il compenso corrisposto a rate e appena appena superiore alla pessimistica previsione di vendita dei librai. Tutto questo, secondo Franco Cordelli, è ininfluente, non riconfigura il perimetro del campo letterario, non lo determina, non lo condiziona, non gli cambia i connotati? Mentre negli ultimi dieci-quindici anni si è distratto per sua stessa ammissione, Cordelli oggidì non trova di meglio, per rientrare nel dibattito sul romanzo contemporaneo, che impugnare la penna rossa e emendare gli aggettivi impropri di Falco e Vasta, i due scrittori più apprezzati della generazione cosiddetta TQ. Quelli che riescono, malgrado la loro raffinatezza stilistica e complessità concettuale, a farsi pubblicare in sedi come Stile Libero (il cui editor sarà uno di quei ragazzetti di cui dicevamo: e infatti non edita, e giù errori, incongruenze, ridondanze) e Laterza, a scrivere su «Repubblica», a farsi recensire e premiare. Se con merito o senza, non lo deciderà l’epiteto «sudato» (leopardiano anch’esso, tra l’altro), con buona pace del Nostro, il quale non ha mai avuto simpatia per le avanguardie, e che oggi, come quelle al tempo, non ha simpatia per il romanzo egemone, specie se generazionale (con qualche sparuta eccezione: lo stilista Bajani, i cui romanzi scorrono piacevolmente e però dopo un giorno o due si dimenticano come una bella bevuta d’acqua fresca dopo una passeggiata in collina). Ma come si fa a liquidare l’opera di un autore stralciandone un sintagma? Si potrebbe ripetere lo stesso esercizio con tutti i libri, classici compresi e nessuno escluso. È come quando vai dal medico con le analisi fatte di fresco e gli sottolinei il valore per te ansiogeno del colesterolo o della glicemia improvvisamente aumentata. Non è serio se si allarma a sua volta, se diagnostica una malattia terminale. È serio se ti chiede di ripetere le analisi, perché è il trend a determinare la patologia, non il caso isolato. E il benessere del corpo non si misura dal singolo organo eventualmente in sofferenza, ma dall’insieme. Giorgio Falco e Giorgio Vasta, con buona pace di Cordelli, sono due tra i migliori scrittori emersi nei famigerati Anni Zero per consapevolezza del mondo (non solo letterario) e padronanza della scrittura, ma soprattutto perché la loro scrittura non è un orpello né un fumogeno bensì l’impalcatura di un pensiero solido (o, piuttosto, è il pensiero a costituire l’impalcatura di una facciata più o meno riuscita a seconda dello specifico libro e della singola pagina), portatore di significati. Appropriandoci del metodo Cordelli, prendiamo ad esempio Antonio Scurati (che nella tabellina annessa al pezzo – o viceversa? - si merita un posto d’onore chissà perché tra i vitalisti, accanto ai consentanei Genna e Di Consoli e ai diametralmente opposti Nove e Moresco): come esordisce sulla pagina la protagonista del suo ultimo romanzo (candidato a tutti i principali premi letterari, anche quelli che hanno nella giuria professoroni e cattedratici)? «Giulia ha erotto in un pianto convulso» (sic!). E poco più avanti scopriamo ammantate di un’«indubbiamente indubbia bellezza» le rivali della medesima Giulia. Ahi: dov’era l’editor quando questi specimina di vitalismo andavano in stampa? E Cordelli e la sua penna rossa, ubi erant. Ma la vera colpa di Scurati non è nemmeno quella sua lingua desueta e improbabile come il patetico rewind di una nonna che si ostini a parlare di Carosello al nipotino che gioca coi Pokemon, è piuttosto l’incapacità di rappresentare un mondo, il mondo come lo vede lui, persino, e di pretendere a ogni nuovo libro di sciorinarci ore rotundo le sue trite consapevolezze sociologiche, incastonate in una qualche letale tramina raffazzonata. Perché Cordelli non si accanisce piuttosto su Scurati? Trova che sia più opportuno che il romanzo contemporaneo si occupi di padri fedifraghi e morbosità cronachistiche assortite che di terrorismo e olocausto? Risponderebbe che non gl’importa di cosa, ma di come. Dunque avevano ragione i deprecati neoavanguardisti, ma anche Nanni Moretti: chi parla male pensa male, le parole sono importanti. E sono tanto più importanti le parole di un critico monumentale come Cordelli, soprattutto quando consacrano o escludono, più che mai in una tabellina che si preoccupa di mappare il contemporaneo seguendo i percorsi canonici dell’appartenenza all’antico o della propensione al nuovo. Giglioli, Mazzoni, Cortellessa, Laura Pugno e Valeria Parrella però qui vanno a braccetto, tutti insieme, scrittori e critici e certi scrittori con certi critici. Ubi sunt (tra i novisti cosiddetti), a dire solo di alcuni (e di alcune: esistono anche le donne-critico, Cordelli!) Cecilia Bello Minciacchi, Daniela Brogi, Clotilde Bertoni, che recensiscono con una competenza e profondità che non ha decisamente nulla da invidiare ai colleghi (maschi) laureati da Cordelli, poesia, romanzo, cinema contemporanei? Perché se nella palude ammette di non orientarsi, non fa allora come in Dante, dove «quei c’ha mala luce» può volgere lo sguardo solo verso ciò che è lontano rinunciando, per dichiarata «vanità d’intelletto», a ciò che «s’appressa?» Riviera. No, dico: Riviera. Ma chi potrebbe parlarne, tra i critici a me coetanei (e non solo: il problema non è di rottamazione ma di ampiezza di sguardo), in una disamina del romanzo contemporaneo da affossare aut salvare? E chi salverebbe, tra i critici del romanzo contemporaneo, i pur volenterosi Andrea Caterini e Stefano Gallerani a scapito di Paolo Giovannetti, Pierluigi Pellini e Gianluigi Simonetti (marchiati forse dall’aborrita provenienza accademica, ma certamente con maggiori e migliori titoli all’attivo dei nominati), chi potrebbe mai dire, avendo letto (e riletto: che il grande romanzo è quello che vuoi e puoi rileggere a distanza di anni) Scuola di nudo e Troppi paradisi, che Siti è un reazionario? Cos’è più reazionario, mirare alla pagina levigata (e nei fatti indolore) o alla sostanza marcia e brutta delle cose, ostentare un italiano da romanzo ottocentesco in traduzione o «sapere bene come scrivere male»? Cordelli, l’Armani di Ponte Milvio, si contamini con altri mondi e altre forme (altro che il vitalismo all’amatriciana tirato in ballo) come ha fatto Siti, e se non ne ha il coraggio (letterario, intendiamo), che almeno si lasci contaminare dalle parole, trascurando, nelle sue faziose, raffinate, elitiste pagelline, le sapienti tessere lessicali, la callida iunctura, l’agudeza. Per quello ci sono i classici di sempre, da Orazio a Marino a D’Annunzio a Landolfi, fino a Manganelli. Che poi l’italiano (letterario) è proprio come la salute: ognuno se ne allestisce una versione e visione conveniente e ci si adatta, anche coi peggiori guasti. Perché sono quelli, insegnano i foucaultiani, a rendere al corpo come meccanismo la sua unicità. A questo bisogna guardare, quando si emette la diagnosi: anche perché i sani sono nella vita normale (che Cordelli si picca di privilegiare stigmatizzando l’aggettivazione incongrua dei deprecati «due Giorgi») molto spesso dei noiosissimi ipocondriaci, non trovate?

In Italia, la vera «palude» risiede nello scarso sostegno alla cultura. Pochi fondi per gli scrittori, mancanza di una politica che vada a nutrire quella «società culturale» che potrebbe risollevare anche l’economia, replica Raffaella Silvestri su “Il Corriere della Sera”. «Che cosa ci lascia la produzione editoriale degli ultimi vent’anni?»: domenica scorsa, leggendo l’articolo di Franco Cordelli su «la Lettura», ho cercato di farmi la stessa domanda, pur partendo da presupposti diversi. Avevo provato per la prima volta a fare il punto della situazione editoriale italiana per un pubblico straniero, sul «New York Times»; così domenica ho cominciato, in un certo senso, una riflessione a ritroso: dal raccontare com’è casa mia a un estraneo, provo ora a osservarla come se la vedessi per la prima volta dall’interno (del resto, da pochissimo tempo la visito dall’interno e ancora non ne distinguo le stanze con chiarezza). Dov’è il sostegno agli esordienti? Mi sembra, intanto, che la produzione editoriale degli ultimi vent’anni sia fortemente e tristemente segnata da due elementi: in primo luogo una mancanza di fondi dedicati ai programmi culturali, agli scrittori esordienti soprattutto. Questo lascia interamente alle case editrici il compito di leggere, scoprire, «allevare» la nuova generazione di scrittori, quelli che segneranno la produzione editoriale dei prossimi vent’anni. In un’industria in contrazione, che perde il 7% di anno in anno, e che di conseguenza dispone risorse più limitate di un tempo, questo mi sembra un compito titanico, che meriterebbe il supporto di istituzioni equivalenti, ad esempio, al francese Centre National du Livre. Dall’altra parte, poi, c’è l’anomalia legata ai pochi riconoscimenti dati alle voci femminili italiane. Voci che esistono, producono narrativa di qualità, eppure vengono citate meno dei loro colleghi uomini, eppure raramente vincono premi veramente prestigiosi (l’ultimo Strega più di dieci anni fa: sintomo forse che, come nella società in generale, anche nella società letteraria la situazione di gender non vede miglioramenti). Se questi due punti poco hanno a che fare con le categorie della palude, molto hanno a che fare invece con la produzione che troviamo in libreria, molto c’entrano, anche, con il numero esiguo di scrittori chiamati, in modo secondo me condivisibile, «moderati»: scrittori di cui ci sarebbe invece un forte bisogno, proprio per la loro caratteristica di «assumere sulle proprie spalle il ruolo che la società culturale gli riconosce». La società culturale. La società culturale è la parte della società che ogni intellettuale dovrebbe provare a estendere, in un’Italia in cui il 57% della popolazione non ha toccato un libro nell’ultimo anno. La società culturale, per come la intendo io, è quella che legge i giornali, compra i libri, sa decifrare un testo complesso (il 70% degli italiani oggi, secondo l’OCSE, non è in grado di farlo). Storicamente, la società culturale italiana rappresenta una piccolissima parte della popolazione. Ci sono varie ragioni per cui questa è la verità oggi: la nascita tardiva di una classe media, la televisione che non ha contribuito a crearla (né, del resto, sarebbe stato suo compito farlo). Ragioni storiche che tendono tutte alla situazione odierna: una polarizzazione della cultura, più che una frammentazione precisa. Da una parte la letteratura cosiddetta alta, dall’altra parte quella cosiddetta di consumo, una distinzione più triste di quella della palude, eppure, forse, più vicina alla percezione del fruitore medio di cultura italiana. Si tratta di una percezione che ha bisogno di essere infranta, cambiata, sostituita con una diversa, più democratica. Perché se, come sosteneva Spinazzola, ogni libro risponde a un bisogno del pubblico, esiste una reale necessità di mediazione non giudicante e non prevenuta fra questo bisogno e l’offerta, così ampia, di letteratura contemporanea.

Giù le mani dalla critica di Cordelli. Il suo è un clamoroso atto di libertà. La polemica nata significa che molti scrittori di oggi hanno una straordinaria opinione di se stessi, e che null’altro si aspettano – dalla critica e dalla vita – che l’applauso, replica Andrea Di Consoli su “Il Corriere della Sera”. Si potrebbe dire — e non insisterò su questo, perché sarebbe una scorciatoia un po’ ribalda – che la debolezza dell’avanguardia letteraria italiana a partire dal Gruppo 63 sia stata la robustezza teorica e la fragilità delle opere letterarie corrispondenti. E non insisterò su quest’aspetto per tanti motivi, anzitutto perché ogni critico onesto dovrebbe sforzarsi di essere anche almeno un po’ uno storico, e perciò un intellettuale rispettoso e magari indulgente, soprattutto nei confronti della commovente fragilità di ciascun scrittore, comunque la pensi o la si pensi. Le accuse al «gruppo sperimentale». Eppure mi rendo conto che facile non è, questa massima tolleranza che mette a dura prova le certezze del nostro io, cioè del nostro gusto, perché forte è la tentazione di agire per impulsi umorali, oppure per settarismi, fanatismi. Dico questo perché molto mi hanno sorpreso le insofferenze, le stizze rancorose e gli anatemi rivolti a Franco Cordelli, reo di aver scritto un articolo su «la Lettura» dello scorso 25 maggio al quale era annesso uno schema di scrittori classificati secondo macro-categorie abbastanza generiche, com’è inevitabile per simili sistemazioni giornalistiche. Al di là degli insulti, figli di una società che molte ambizioni sollecita e troppe frustrazioni procura, il nodo critico rilevante, anche a livello di cronaca letteraria, è il divorzio di Cordelli con la letteratura e critica «novista». In sostanza, Cordelli ha sconfessato in un articolo – che evidentemente, vista l’impetuosità delle reazioni, covava da tempo – autori del «gruppo sperimentale» come Giorgio Falco, del quale Cordelli stigmatizza «la volontà di essere originali, il mettersi in posa». Può una teoria letteraria così reboante accontentarsi? Personalmente non ho letto Falco, e dunque nulla posso dire sulla sua opera, ma è evidente che la dura sortita di Cordelli è figlia di un ripensamento che ha il sapore di un’abiura o, più correttamente, di una ritrovata libertà; oppure, a un livello più malizioso, dell’eterno ritorno della questione che ponevo in apertura di articolo, ovvero se davvero una così reboante teoria letteraria possa poi accontentarsi di partorire opere che sembrerebbero non all’altezza delle premesse teoriche con le quali si presentano. Nulla, ripeto, posso dire su Falco; ma qualcosa posso dire intorno all’equivoco – sul quale pure intervenni in passato in polemica con Cordelli – che si è determinato in sede critica soprattutto a partire dalla pubblicazione del romanzo Il Duca di Mantova (ricordo per inciso che non solo questo romanzo, ma anche Il poeta postumo del 1978, furono opere di cosiddetta autofiction, e davvero non si capisce come altri più attardati si siano visti riconoscere il merito di aver inaugurato questo genere in Italia) che rappresentò dal mio punto di vista il vertice più alto dell’adesione da parte di Cordelli – mi si perdoni la semplificazione – alla «scrittura nova», spesso sollecitata e quasi modulata dal Andrea Cortellessa, notevole critico letterario afflitto, purtroppo, dal morbo del settarismo. Cordelli è stato qualcosa in meno e qualcosa in più di questa prospettiva. Parve, a quell’altezza, che tutta l’opera narrativa e critica di Cordelli fosse nata da una costola un po’ eretica del Gruppo 63. Io sapevo, al contrario, che le cose non stavano in questo modo, anche perché non potevo dimenticare opere romanzesche quali Guerre lontane e Un inchino a terra, che nulla avevano da spartire, pur ribadendo la natura non conciliata della sua idea di romanzo, con chi auspicava e auspica una letteratura resistenziale, sabotatrice, arma primaria per lottare alla radice (linguisticamente) «il sistema», che poi è semplicemente la vita, cioè la realtà. Cordelli è sempre stato qualcosa in meno e qualcosa in più di questa prospettiva. Non mi sfuggì per esempio in anni antecedenti a Il Duca di Mantova la sua adesione a scrittori quali Carlo Levi, Ennio Flaiano, Oreste del Buono, Giancarlo Fusco, Sandro De Feo; scrittori, cioè, di «terza strada», sintesi e dunque avanzamento del conflitto – spesso puramente estetico-retorico – tra Avanguardia e Tradizione. Nessuno quanto Cordelli ha criticato tutte le avanguardie del teatro. E voglio ripeterlo a beneficio di quanti non lo sanno o fingono di dimenticarlo: nessuno come e quanto Cordelli ha raccontato e criticato tutte le avanguardie possibili del teatro d’avanguardia italiano, almeno dalla fine degli anni ’60 in poi – e la stessa cosa, a ben pensarci, vale per la letteratura, non soltanto italiana. Dunque Cordelli è uno scrittore d’avanguardia? La risposta è no, e questo non significa affatto che egli sia scrittore della tradizione, oppure del romanzo conciliato, compiaciuto della propria meccanica armonia. Cordelli è, appunto, in una «terza strada», in un’oscillazione estremamente complessa, spiazzante, nutrita, sempre consapevole della dannosità di «valori» o nevrosi quali il settarismo, l’odio programmatico per la realtà, il sentimento di superiorità di chi pensa di poter dividere il mondo in dannati e salvati o, ancora peggio, in happy few soddisfatti di possedere i segreti della cabala stilistica, che poi spesso si risolve in un banale esibizionismo lessicale (ché il lessico, purtroppo, non è lo stile). Ora io non entrerò nella polemica sulle collocazioni degli scrittori in quella o in quell’altra macro-categoria. Io stesso, che sono stato collocato tra i «vitalisti di destra», avrei molto da ridire, ma non già in chiarezza, ma dal punto di vista del dubbio, perché, a ben pensarci, mi sarei trovato assai bene anche nel «gruppo misto», tra i «conservatori», oppure tra i «dissidenti». Guardiamo con ammirazione a un gesto dolorosamente giocoso. Ma me ne sto con ironia nel casellario dove Cordelli mi ha voluto mettere, e mai mi sognerei d’insultarlo – come ha fatto un giovanotto assai arrogante e presuntuoso, fermo al suo primo libretto – per il solo fatto di non avermi messo altrove (dove poi, tra i «novisti», i «senatori», i «moderati»?). Non scherziamo, per favore. Piuttosto guardiamo con ammirazione a un gesto dolorosamente giocoso che ha fatto arrabbiare tutti, e che ha azzerato in un colpo solo ogni tentativo di assimilare Cordelli a un «gruppo». Perché il suo, di fatto, è stato un clamoroso (e, se si vuole, spavaldo) atto di libertà. Libertà, per esempio, di poter dire che il libro di Alessio Torino è un bel romanzo senza affidargli ruoli palingenetici o resistenziali, visto che troppo subordinata alle logiche della politica peggiore appare il parlar bene di libri magari belli (come quello di Falco) usandoli come clave per liquidare il mondo intero, in maggioranza venduto al capitalismo, linguisticamente corrotto e stilisticamente miserabile. E mi chiedo: è possibile parlar bene di un libro senza usarlo per fini politici, ovvero di potere, di cordata? Giù le mani, perciò, da Cordelli, dalla sua complessità. È possibile evitare la costituzione di gruppi o gruppuscoli, spesso «usati» come scudi umani per portare avanti lotte che null’altro sono se non lotte politico-ideologiche, oppure, perché nasconderlo?, lotte di egemonia personale? Giù le mani, perciò, da Cordelli, dalla sua complessità, dalla sua sofferta sintesi tra Avanguardia e Tradizione, tra sguardo freddo e lirismo; e, soprattutto, rispetto per uno scrittore che è tra i pochi ad avere un posto sicuro nella nostra storia letteraria post-68. Aggiungo infine a beneficio di qualche livoroso in servizio permanente che questo non è un articolo in difesa di Cordelli (troppe volte ho polemizzato con lui per meritarmi questo sospetto). È, molto più semplicemente, un articolo che vorrebbe richiamare, me per primo, al dovere civile della tolleranza rispettosa, dell’autoironia e della leggerezza. Perché gettare fango su uno scrittore che ha deciso di prendere le distanze da un’assimilazione critica non riuscita e che ha voluto esprimere, avendone l’autorevolezza, una schematizzazione della letteratura odierna che gli sembra più viva e presente? E perché non concordare con lui che troppi tra coloro che gettano fango solo perché «esclusi» o «mal collocati» nulla hanno letto non soltanto dello stesso Cordelli ma anche – e faccio dei nomi a caso – di Vassalli, Celati, Montefoschi o La Capria? Perché conta soltanto l’egemonia del e nel presente, ovvero il successo, fosse anche l’anti-successo degli scrittori dell’Avanguardia di oggi – spessi «usati», ripeto, in funzione politico-ideologica? Una società letteraria matura e non frustrata avrebbe accolto l’articolo e lo schema di cui stiamo parlando discutendoli nel merito, oppure accettandoli con un sorriso o uno sfottò. È successo invece il finimondo, in pubblico e in privato. Probabilmente questo significa che molti scrittori di oggi hanno una straordinaria opinione di se stessi, e che null’altro si aspettano – dalla critica e dalla vita – che il monumento, l’applauso, il complimento assoluto, sperticato, superlativo.

La «palude» è letteraria e politica. Ma la cultura ha bisogno di conflitto. Le contrapposizioni estetiche di un tempo hanno lasciato il posto a una sorta di amicizia/inimicizia, una condizione di non belligeranza, in cui tutti puntano ad assicurarsi una dignitosa carriera di scriventi (pubblicazione-recensione-premio), replica Gabriele Pedullà su “Il Corriere della Sera”. Le metafore sono importanti. Lo ha ricordato Andrea Cortellessa, rimproverando a Franco Cordelli di aver associato l’immagine della palude al concetto di mappa: le paludi, proprio perché instabili, non possono essere cartografate. Cortellessa ha rivendicato invece il lavoro di quanti – a cominciare dalla sua antologia La terra della prosa – hanno cercato di mettere un po’ di ordine nelle patrie lettere con i soli strumenti adeguati per un simile compito improbo: leggendo, ragionando, assumendosi la responsabilità di scegliere. Proprio grazie a questo lavoro un primo atlante ora c’è. Come tutti i lettori dell’articolo di Cordelli anche io sono stato colpito da questa immagine, che a molti degli inclusi e degli esclusi è apparsa un insulto gratuito al proprio lavoro. A me l’immagine della palude non dispiace. La palude non allude solo alla instabilità dei confini (in questo caso del canone degli esordienti dal 1999 in poi), ma suggerisce inevitabilmente un luogo sgradevole e ben poco ospitale. Sono anzi sicuro che se Cordelli avesse formulato la medesima idea adoperando una similitudine più gentile, per esempio se avesse parlato di «brodo primordiale» della letteratura del XXI secolo (la soluzione di acqua e molecole carboniose da cui sono nate le prime molecole organiche), nessuno si sarebbe offeso. Salvo, ovviamente, gli assenti. A me invece l’immagine della palude non dispiace affatto. E non per le ragioni di Paolo Sortino, che ha rivendicato la formula di Cordelli per descrivere il corpo a corpo dello scrittore nella melma della lingua e si è paragonato a «una carpa gravida di batteri». Credo, semplicemente, che la metafora di Cordelli non sia geografica (come pensa Cortellessa), né biologica (come ritiene Sortino), ma più verosimilmente politica. Palude come massa informe, interessata a sopravvivere. La Palude, non necessariamente con la lettera maiuscola, è il soprannome che al tempo della Rivoluzione francese avevano ricevuto i membri della Convenzione nazionale non schierati né a sinistra, con la Montagna, né a destra, con i Girondini: i quattrocento parlamentari pronti a fornire indifferentemente il proprio sostegno agli uni e agli altri, appoggiando prima il Terrore giacobino e poi la controrivoluzione del Termidoro. Una massa informe, interessata soprattutto alla propria sopravvivenza politica e composta di cinici gregari, insuperabili nel fiutare il vento con il necessario anticipo per riposizionarsi. Anni fa, sfogliando per una vecchia rivista patinata degli anni Ottanta, mi capitò di imbattermi per caso in un durissimo attacco di Cordelli ai propri coetanei (Daniele Del Giudice, Andrea De Carlo, Antonio Tabucchi, Elisabetta Rasy…), accusati di essersi fatti complici di un grande Termidoro letterario. Evidentemente, a trent’anni di distanza, Cordelli non ha mutato atteggiamento verso il presente, né campo metaforico. Palude è l’Italia (letteraria e non solo) emersa dal tramonto degli ideali degli anni Settanta. «Partito dei flemmatici» era l’altro soprannome della Palude. E proprio perché l’intervento di Cordelli vuole essere eminentemente politico, è inutile rimproverargli – come da tanti è stato fatto in questi giorni – di non aver scritto un articolo di critica letteraria. Che cosa è dunque che Cordelli non ama nella letteratura, anzi nei letterati, d’oggi? Oltre alle similitudini di Falco e alla prosa di Vasta, esattamente la condizione liquida della cultura italiana, dove le contrapposizioni estetiche di un tempo hanno lasciato il posto a una sorta di amicizia/inimicizia, che non è nell’una né l’altra ma piuttosto una condizione di non belligeranza, in cui tutti puntano anzitutto ad assicurarsi una dignitosa carriera di scriventi (pubblicazione-recensione-premio) attenendosi al motto di «non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te». Per tradurre in termini sociologici la diagnosi di Cordelli, i gruppi in lotta per il controllo della società letteraria che hanno caratterizzato il Novecento avrebbero lasciato il campo a una incerta federazione di comunità, interessate a sostenere i propri campioni negoziando di volta in volta con le altre onori e riconoscimenti piuttosto che attraverso un conflitto aperto. «Partito dei flemmatici» era l’altro soprannome della Palude, e Cordelli avrebbe potuto usare anche questa formula. Per un uomo della sua generazione (venticinque anni nel 1968, non dimentichiamolo), il piccolo cabotaggio di oggi è il peccato capitale. Costringere gli scrittori a prendere posizione. E la classificazione affidata alle pagine de «la Lettura» è anche un modo per costringere i diretti interessati a prendere partito (una volta tanto) e a pronunciarsi. Anche se, sino a questo momento, si direbbe che il principale effetto ottenuto dall’articolo di Cordelli sia stato invece quello di compattare i giovani scrittori contro di lui, in un nuovo, paradossale, slancio unanimistico. Come volevasi dimostrare. Non tutto convince nelle famiglie di Cordelli, ma su un punto è impossibile dargli torto: la Palude, la vocazione alla Palude, è la grande tendenza del nostro tempo. Da membro onorario della tribù dei «novisti», i più politicamente battaglieri, non posso evidentemente che essere d’accordo con lui (chi sono i «novisti»? Ecco la descrizione feroce di Cordelli: «una casta di incerta memoria politica, erede di una tradizione di stile e rigore e i cui esponenti, per quanto sempre in prima linea, faticano a ritrovare l’antico vigore»). Invece, la cultura italiana avrebbe disperatamente bisogno di più conflitto – e non sulla base di banali risentimenti personali, ma perché capace di dividersi di nuovo su grandi opzioni letterarie, stilistiche, politiche. Il conflitto può far male. Ma il conflitto è anche l’unico strumento che abbiamo per dare un senso alla nostra attività intellettuale oltre il giustificabile ma assai limitato obiettivo di sbarcare il lunario. Se tutto va altrettanto bene, allora la letteratura nel suo complesso non ha più alcun valore. E se non siamo disposti ad accapigliarci (meglio, certo, se educatamente) per una rima o per una metafora, allora tanto meglio cercarci un altro lavoro. Personalmente, ritengo che la letteratura italiana più recente sia in uno stato di salute assai migliore di quello che suggerisce Cordelli, ma lui stesso, occorre riconoscere, nelle sue recensioni ha spesso dato prova di grande curiosità e apertura. Quello che soffre, e non da ora, è il sistema letterario nel suo complesso, dove tra l’inimicizia personale e l’acquiescenza interessata è scomparso lo spazio per il dissenso e la discussione critica. La smodata, irragionevole passione dei trenta-quarantenni per Pasolini e le sue intemperanze appare da questo punto di vista una sorta di compensazione simbolica per l’eccessiva prudenza degli stessi. Un anno e mezzo fa, con la richiesta di 50 mila euro da parte del senatore PD e giallista Gianrico Carofiglio al poeta Vincenzo Ostuni (che lo aveva definitivo «scribacchino»), un altro confine è stato superato: da questo momento, con un precedente tanto illustre, ogni italico scrivente potrà prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di citare in giudizio il critico o collega che non gli ha riservato gli elogi che riteneva di meritare. Non tutto è ancora compromesso. In quell’occasione, per fortuna, attorno a Ostuni si venne a condensare una ampia rete di solidarietà (Cordelli compreso): e non in nome di una sin troppo scontata e generica libertà di espressione, ma di una idea di cultura sottratta agli avvocati e in cui il conflitto possa farsi ancora lievito delle idee come è stato nel Novecento. Non tutto, dunque, è ancora compromesso. È dello stesso problema, credo, che parla Cordelli nel suo articolo. Perché oggi, al tempo della Grande Palude, il conflitto è visto male (e si paga) anche quando non viene sanzionato in un tribunale della Repubblica. Sarà sufficiente un unico esempio. Il «novista» Cortellessa, autore dell’antologia da cui è sorta la polemica, è il maggiore giovane critico italiano (in un paese nel quale si è giovani critici sino a cinquant’anni e giovani poeti fino a quando non si entra nei «Meridiani», per chi ci entra), non solo perché Cortellessa è un interprete formidabile e un lettore onnivoro; il «novista» Cortellessa è il maggiore giovane critico italiano perché ormai, volenti o nolenti, è alle sue scelte che tutti gli altri devono rifarsi: che sia per prendere posizione a favore o contro. Troppo conflittuale, troppo libero. Basta infatti sfogliare distrattamente Terra della prosa o gli interventi sulla poesia raccolti ne La fisica del senso per rendersi conto come nessuno, nella nostra generazione, abbia prodotto una ricognizione altrettanto approfondita e appassionata sulla letteratura contemporanea: una ricognizione che non può essere ignorata anche da quanti manifestano il proprio disaccordo. Sono in molti, ormai, a riconoscergli questo merito. Eppure che, io sappia, nessun quotidiano di questo paese ospita regolarmente le recensioni di Cortellessa: il quale dopo una deludente collaborazione con «La Stampa» è dovuto emigrare sul web, dove adesso scrive anzitutto su «doppiozero». Troppo conflittuale, troppo libero, in definitiva troppo innamorato della letteratura, questo Cortellessa. Perché Palude e Consenso sono rispettivamente il nome e il cognome della malattia che, emarginando alcune delle voci più libere e offrendo a tutti una bella lezione di conformismo, rischia di uccidere il nostro sistema delle lettere. Torniamo in Montagna? L’invito, con «antico vigore», non è rivolto solo ai «novisti».

Non prendetevela con Cordelli. Fa una proposta, non impone leggi. Lo schema cordelliano è un’istantanea, i cui valori possono quindi cambiare nel tempo. Un’occasione per giocare con l’immaginario delle poetiche. Senza rabbie inutili, replica Alessandro Beretta su “Il Corriere della Sera”. Mi sono piaciuti Giorgio Falco, Giorgio Vasta e, anche per la sua parzialità, l’antologia curata da Andrea Cortellessa – nella sua prima edizione per Ponte Sisto – dedicata ai narratori italiani degli anni Zero: ne ho scritto bene, in diverse sedi, di tutti e tre. Logica vorrebbe che non sia d’accordo con Franco Cordelli. Peccato si stia parlando di gusto e critica, materie ben diverse dalla rigidità di altre discipline. Sulla palude, poco da aggiungere: viviamo in un paese insano. Quindi, mi è piaciuto anche l’articolo di Cordelli, e l’ho letto e riletto fino a viverlo come un racconto da camera dedicato alla letteratura italiana contemporanea. Se non condivido i suoi giudizi sui tre nominati in apertura, ciò non toglie che trovo interessante l’immagine che finisce per dominarlo: un parlamento che sorge in mezzo a una palude. Sulla palude, c’è poco da aggiungere: viviamo in un paese insano– siamo arrivati allo 0,6 del Pil investito in cultura, siamo gli ultimi in Europa – ed è normale che il clima non sia dei più accoglienti, anche nei tentativi di modificarlo. Davanti al Parlamento di Cordelli, invece, la sindrome delle figurine è scattata immediata: chi c’è, chi non c’è, «celo, manca», quello è amico suo, quell’altro non poteva non metterlo… Così via. Lo schema cordelliano è una proposta. Tutti quelli che si occupano di libri ci sono cascati – e lo stesso procedimento, chiaramente, avviene anche con l’aggiornata antologia curata da Andrea Cortellessa La terra della prosa, uscito per i tipi de L’orma, che include 30 autori emersi dopo il 2000. Questo tipo di gioco, inevitabilmente, vale per ogni classificazione – antologica o schematica che sia – e in quasi ogni campo. Mi stupisco, allora, per la violenza di certe reazioni: quel sonno da cui si sveglia Cordelli nel suo articolo, ha generato un po’ di mostri con reazioni di ogni genere online e offline. Lo schema cordelliano è una proposta, non una legge, ed è un’istantanea, i cui valori possono quindi cambiare nel tempo. Lo prendo più come un’occasione per giocare con l’immaginario delle poetiche, che come una gabbia, e ciascuno può chiedersi dove gli piacerebbe sedere in Parlamento - ammesso che vi siano nuove elezioni – o domandarsi perché un autore sta vicino a un altro. Un’anarchia strategica, altro che un parlamento. Andrebbe forse allestita, di fianco, un’altra Camera dove far sedere anche editori, agenti, editor, una bella sauna per gli esordienti e un planetario per i poeti, anche se, chiaramente, costruire in palude non è poi così facile e bonificarla sarebbe un bene per tutti. Allora, guardo la mia libreria di autori italiani e mi chiedo: «Li devo spostare?». Devo ricollocare i libri secondo i settanta suggerimenti di Cordelli? No, li lascio come stanno, divisi un po’ per città – Milano versus Roma – e regioni, talvolta per generazioni, ogni tanto per tema o per collana, qua e là secondo un accenno d’ordine warburghiano. Un’anarchia strategica, altro che un parlamento, e preferisco lasciarla così, con una certa libertà di letture.

La silenziosa «casta» degli scrittori. Dove tutti sponsorizzano gli amici. L’articolo di Cordelli ha fatto venire allo scoperto le conventicole alla base della letteratura italiana di oggi. Ecco perché, nelle risposte, prevale la frustrazione, conclude  Paolo Di Paolo su “Il Corriere della Sera”. Se l’articolo di Franco Cordelli, da cui tutto è partito, era spiazzante e perciò anche divertente, la gran parte delle reazioni non lo sono state: lamentose, lugubri, contorte. O peggio ancora: opache. Viene il sospetto, a leggere certe repliche in rete e alcuni degli interventi ospitati da Corriere.it, che alle categorie istituite da Cordelli ne mancasse ancora una: quella degli «involuti». Nel senso che si ingarbugliano, fanno pasticci con le parole, usano l’italiano senza disinvoltura, forse perché non lo amano fino in fondo, e lui, l’italiano, gli si rivolta giustamente contro. E dove sono, tra i senatori, Arbasino, Maraini o Debenedetti? Partiamo dal presupposto che si tratta di una polemica per «addetti ai lavori», come si diceva un tempo: ebbene, se posso considerarmi tale, io non ho capito oltre metà dei ragionamenti opposti a quello di Cordelli. In fondo, molto in fondo magari, la sostanza era però quella più biliosa e indicibile: la frustrazione. La spinta istintiva e umanissima, da esclusi, a puntare i piedi. Tradotta più o meno in questi termini: «lasciando da parte che Cordelli non mi ha inserito, vorrei sapere perché non ha inserito nemmeno x e y, che peraltro sono amici miei stimatissimi». Ma così il gioco non finisce più. Io stesso avrei obiezioni: perché, al di là del suo valore, c’è Giordano, se Cordelli dice di aver escluso i «troppo percepiti»? E dove sono, tra i senatori, Arbasino, Maraini o Debenedetti? E Mazzucco, vitalista moderata? Celati non dovrebbe passare nel gruppo misto? E il dissidente Maggiani, autore di un pamphlet definivo e violentissimo sulla generazione dei cinquanta-sessantenni? Comunque. Solo un premiuzzo può tirarci un po’ su di morale. Un «ispettore del commercio librario» nella Parigi del 1750 aveva registrato in città, attivi, 359 scrittori, tra cui Diderot e Rousseau. Oggi, anno 2014, sulla sola piattaforma di self-publishing ilmiolibro.it gli scrittori attivi sono oltre 20mila. Il punto è questo: la macro-categoria che include tutte le altre proposte da Cordelli è quella che va sotto l’aggettivo «frustrati». Lo siamo, inclusi o no, praticamente tutti. Frustrati perché siamo troppi, perché il cosiddetto mercato non si allarga ma resta lo stesso o si contrae. Frustrati perché le recensioni non escono e comunque non servono, i libri passano in libreria per un mese e scompaiono. Frustrati perché – ci diciamo – l’editore non si impegna. Frustrati perché lo cambiamo e, nonostante questo, le cose non cambiano. Frustrati perché sentiamo che il nostro romanzetto non riesce a farsi largo, e che solo un premiuzzo può tirarci un po’ su di morale, o l’alleanza di qualche simpatico amico a cui ricambieremo il favore. Nessuno ammetterà che funziona così per tutti (salvo quei cinque o sei baciati dal vero successo commerciale), e proprio perché non lo ammetterà nessuno, è vero. Un autore su ilmiolibro.it sponsorizza un suo compagno. Navighiamo tutti a vista, sempre meno convinti, sempre meno «puri», sempre più affannati e stanchi e in alcuni casi cattivi, risentiti. E tutti, praticamente tutti, caro Cordelli, «poco percepiti». È la tribù a salvarci: qui Cordelli ha ragione. Fino a trent’anni fa c’era l’unica grande tribù della letteratura, riconosciuta da una élite, certo, ma più solida e dai contorni più definiti. E lì convivevano (si fa per dire) i diversi: Calvino e Moravia, Bassani e Morante. Si guardavano a vicenda, dialogavano, si tenevano d’occhio, ma erano soli. Maestosamente soli. Nella palude letteraria in cui siamo condannati a stagnare, ci si tiene d’occhio solo fra amici. Su Facebook se ne ha la triste certezza: ci si sponsorizza a vicenda, ma solo in una ristrettissima cerchia. Un autore pubblicato su ilmiolibro.it sponsorizza un suo compagno di strada pubblicato su ilmiolibro.it, Cortellessa mette nell’antologia i suoi amici, quell’altro posta la recensione appena pubblicata allo straordinario esordio del suo ex compagno di scuola. Siamo patetici, ma meglio far finta che non sia così. E così avanziamo, nell’illusione che il mondo sia quello che vorremmo che fosse, una ghenga composta di zie, di mamme, dei compagni di merende; ci facciamo forza così, salvo poi puntare il dito sulle cricche altrui. Le conventicole contro cui, in un film di Virzì, puntava il dito un Castellitto professore frustratissimo. Siamo patetici, ma meglio far finta che non sia così. Allora se Cordelli ha un merito è che lui – a differenza di tutti i suoi detrattori – prova a leggere quanto più può, a mappare, a capire, è curioso, anche crudelmente curioso come pochi altri, di tutto, di tutti, degli scrittori di Roma, d’Italia, del mondo, e ingaggia una sfida titanica contro il molteplice, l’universale, pur sapendo che è votata al fallimento. Così, ogni tanto, per fare ordine e per provocare anche sé stesso, sul tovagliolo in un bar o su una pagina della Lettura, prova a tirare giù una mappa. Gli altri, il 90%, continuano a leggersi solo tra vicini, tra complici, hanno già deciso da sempre chi leggere e chi no, hanno già deciso da sempre chi è bravo e chi no, e fanno tanta, tanta tenerezza perché sono come quel famoso cavaliere ariostesco. «Il cavalier del colpo non accorto / andava combattendo ed era morto». Esistono un po’ perché e finché hanno accanto la ghenga. Chi si guarda intorno, chi guarda oltre casa sua, magari non supera la frustrazione, magari si sente più solo, ma almeno resta vivo. Paolo Di Paolo.

EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.

Editoria e censura. Sarah Scazzi ed i casi di cronaca nera. Quello che non si deve dire. Quando gli autori scomodi sono censurati ed emarginati. Il caso che ha sconvolto l'Italia e ha cambiato per sempre la cronaca nera in due libri-dossier precisi e dettagliati che fanno la storia, non la cronaca, perché fanno parlare i testimoni del loro tempo.  “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese.” E “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. La Condanna e l’Appello”. Sono i libri che Antonio Giangrande ha scritto in riferimento al caso nazionale. In questi libri l’avetranese Giangrande ripercorre da testimone privilegiato in prima persona tutte le tappe del caso: gli interrogatori, lo studio degli incartamenti, le analisi delle tracce sul luogo del delitto, i ragionamenti per entrare nella dinamica del delitto. Da giurista e da sociologo storico inserisce la vicenda in un sistema giudiziario e mediatico che ha trattato vicende similari e che non lasciano spazio ad alcuna certezza. Di Sarah Scazzi si continuerà a parlare a lungo. La vicenda, tra le più controverse nella cronaca recente del nostro Paese, è stata costantemente seguita, commentata e interpretata, anche a sproposito. Antonio Giangrande in questi libri compie un viaggio meticoloso e preciso all'interno delle prove e delle contraddizioni sia del caso giuridico, che dei suoi controversi protagonisti. Antonio Giangrande è un punto di riferimento, è il destinatario della tua prima telefonata per capire cosa sia successo. Le sue analisi sono sempre schiette, appassionate, cristalline. Mai scontate o banali. Puoi anche non essere d'accordo, ma dal confronto ne esci più sapiente. Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia, per una scelta di libertà si pone al di fuori del circuito editoriale. Questo è un dazio che egli paga in termini di visibilità. Ogni kermesse, manifestazione, mostra o premio a carattere culturale è in mano agli editori. Premi e vincitori li scelgono loro, non il lettore. I giornali e le tv dipendono dagli editori e per forza di cose sono costretti a promuovere gli autori della casa. Il web è uno strumento per far conoscere gli autori sconosciuti. Antonio Giangrande usa proprio il web per raccontarsi. «Sono orgoglioso di essere diverso. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Faccio mia l’aforisma di Bertolt Brecht. “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.” Rappresentare con verità storica, anche scomoda, ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!» Continua Antonio Giangrande «E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. Faccio ancora mia un altro aforisma di Bertolt Brecht “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Si è mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per far sapere quello che non si sa? E questo al di là della convinzione di sapere già tutto dalle proprie fonti? – conclude Giangrande – Si provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Si scoprirà cosa succede veramente in un territorio o in riferimento ad una professione. Cose che nessuno dirà mai. Non si troveranno le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Si troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Si può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non si potrà più dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.» “L’Italia del Trucco, l’Italia che Siamo”. Collana editoriale di decine di saggi autoprodotta da Antonio Giangrande su Amazon, Create Space, Lulu, Google Libri ecc. Libri da leggere anche a costo zero. Se invece volete dargli una mano, regalate un libro di Antonio Giangrande. Scoprirete tutto quello che non si osa dire.

GIORNALISMO: LO SCANDALO DELLA MANCANZA DI LIBERTA' E LA VERGOGNA DEGLI AFFARI SUI DOVERI DEL GIORNALISTA.

L'Ordine dei giornalisti e la libertà, scrive Giorgio Meletti su “Il Fatto Quotidiano”. La scrittrice Michela Murgia denuncia nel suo blog un tentativo di intimidazione dell’Ordine dei Giornalisti di Cagliari, che vorrebbe vietarle un benemerito laboratorio di giornalismo che ha organizzato in Sardegna. Scrive Michela: “L’indicazione ufficiosa che è emersa è chiara: se uno solo di questi ragazzi scrive anche mezza riga di materiale giornalistico in una testata a me riconducibile, parte una denuncia a lui e a me per esercizio abusivo della professione. Se invece il “prodotto” del laboratorio compare in uno spazio che giornalistico non è, per esempio il mio blog, sarò comunque denunciata per stampa clandestina. Entrambe sono cause penali e non sono così sprovveduta da ignorare che con tutta probabilità le perderei”. C’è solo un errore in quello che scrive Michela: non perderebbe un bel niente. In nome della libertà, della democrazia, dell’articolo 21 della Costituzione e della legalità che garantisce le tre cose prima elencate, Michela Murgia e i giovani iscritti al suo laboratorio dovrebbero salutare l’Ordine dei Giornalisti della Sardegna con la stessa graziosa levità usata da La Russa per Fini alla Camera. Consiglierei in aggiunta, tanto per darsi un tono, il gesto dell’ombrello, non esagerato ma energico. Spiego perché. Purtroppo molti giornalisti non conoscono bene l’italiano. Esercizio abusivo della professione significa esercizio abusivo della professione, non dell’attività giornalistica. La professione è, secondo il Devoto Oli, che purtroppo non è allegato alla legge istitutiva dell’Ordine dei Giornalisti (e i risultati si vedono), “attività esercitata in modo continuativo a scopo di guadagno”. Del resto, lo dico per i non giornalisti, siccome per ottenere l’iscrizione all’Ordine uno dei requisiti richiesti è avere svolto attività giornalistica, anche un bambino di quattro anni, e quindi anche un giornalista, capirebbe che l’attività giornalistica per i non iscritti all’Ordine è consentita. Tutto questo è stato per esempio spiegato dall’Ordine dei Giornalisti della Lombardia (non dalla Federazione Anarchica) nella sentenza di condanna di Vittorio Feltri del 19 aprile 2010, dove si legge tra l’altro: “In estrema sintesi, dunque, la legge istitutiva dell’Ordine non osta in alcun modo a che tutti possano collaborare ad un giornale senza essere iscritti. Nega però la possibilità di svolgere tale attività in maniera professionale, ovvero «in maniera stabile, continuativa, sistematica e retribuita»[6]. Nella stessa logica del legame tra professionalità e responsabilità, la legge riserva ai soli iscritti all’albo – siano essi professionisti o pubblicisti – la direzione responsabile di giornali, periodici e agenzie di stampa di carattere nazionale (art. 46 l. 69 del 1963 e Corte cost. n. 98 del 1968). Tale linea di demarcazione tra attività di carattere saltuario e attività continuativa è accolta anche dalla Corte di Cassazione, che nel 1971, in una delle rarissime pronunce in materia di esercizio abusivo della professione giornalistica, sancisce che «poiché la Costituzione garantisce a tutti il diritto di manifestare il proprio pensiero liberamente e con ogni mezzo di diffusione, ogni cittadino può svolgere, episodicamente, l’attività di giornalista. Non commette pertanto il reato di abusivo esercizio della professione di giornalista, di cui agli artt. 348 cod. pen. e 45 legge 3 febbraio 1963, n 69, colui che, senza essere iscritto all’albo dei giornalisti o in quello dei pubblicisti, collabori saltuariamente ad un periodico venendo retribuito volta per volta»”. L’attività giornalistica è un elemento di libertà per tutti, e l’idea che ci sia qualche giornalista burocrate che si arroga il diritto di decidere chi la può svolgere e chi no fa semplicemente sorridere. Che si parli di stampa clandestina nell’era del web fa poi addirittura rotolare in terra dalle risate: l’Ordine dei Giornalisti della Sardegna dovrebbe denunciare anche l’Huffington Post, beccando qualcuno che lo legge da un computer situato a Cagliari o a Oristano. Oppure Michela può appoggiare il suo Laboratorio su un server situato a Lugano, e tanti saluti. Neppure il Partito Comunista Cinese nella sua guerra contro Google era arrivato a tanto. Ricordo per completezza il caso di Pino Maniaci, direttore di Telejato, coraggioso giornalista antimafia non iscritto all’Ordine, che è stato puntualmente denunciato per esercizio abusivo della professione e puntualmente assolto il 26 giugno 2009 dal tribunale di Partinico nonostante svolgesse, lui sì, effettivamente “la professione”. In conclusione vorrei invitare Michela Murgia ad andare avanti nel suo bellissimo laboratorio giornalistico volontario senza cambiare una sola virgola del programma stabilito. L’Ordine dei Giornalisti non può, e non deve, fare niente. E se chiede di essere sfidato la sfida va accolta. (Per maggior tranquillità legalitaria, che piace anche a me, metto comunque fin d’ora a disposizione per qualsiasi cosa vorrà pubblicare il laboratorio la mia firma di giornalista professionista iscritto all’Ordine).

Una replica del presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Sardegna. Dopo aver letto il mio post e i primi commenti, il presidente dell’Ordine della Sardegna Filippo Peretti mi ha scritto per spiegare il suo punto di vista, che potete qui leggere.

1) L’Ordine dei giornalisti della Sardegna, avendo ricevuto alcune segnalazioni, ha assunto informazioni sul corso di giornalismo organizzato da Michela Murgia e ha ritenuto di non avere obiezioni da fare in quanto la scrittrice aveva ben chiarito nel suo blog, ad esempio, che il corso non era finalizzato all’accesso alla professione. E tanto ho comunicato informalmente alla stessa Murgia che aveva chiamato per chiarimenti.

2) Nello stesso incontro con Michela Murgia e due giornalisti coinvolti nel corso c’è stata diversità di vedute su due punti. Il primo è legato al fatto che, avendo parlato la Murgia di una redazione, ho fatto presente che in questi casi occorre seguire le regole, che non sono illiberali, anzi: basta registrare la testata e tutto finisci lì, senza chiedere permesso a nessuno. Il secondo punto di dissenso è sulla pubblicazione immediata degli elaborati dei corsisti: nell’esprimere la mia opinione, ho fatto riferimento, per analogia, ai corsisti e agli stagisti che frequentano le redazioni dei giornali: i loro elaborati non possono essere pubblicati. E io stesso ho suggerito soluzioni alternative e immediatamente praticabili.

3) I riferimenti all’esercizio abusivo della professione e alla stampa clandestina sono stati fatti perché la stessa Murgia ha chiesto di sapere su quali basi normative si fondavano le linee da me espresse. Non ci sono state né minacce né intimidazioni, tanto che la stessa Murgia mi ha ringraziato, anche sul blog, della cortesia da me usata con i suggerimenti alternativi.

4) Rispetto tutti coloro che sono favorevoli all’abolizione dell’Ordine dei giornalisti. Chiedo rispetto per chi è di opinione diversa. Fra questi ci sono anche io, che però, come è documentato nel sito dell’Ordine dei giornalisti della Sardegna, sono favorevole a una riforma radicale: totale libertà di accesso all’Albo, ma più forte vigilanza deontologica mediante un organo di autogoverno aperto a soggetti esterni alla professione, quali Garante Privacy, Agcom, editori e via elencando.

5) Riassumo per la conclusione: non ho mosso obiezioni sul corso, ho suggerito soluzioni per far comunque esercitare i corsisti, ho incoraggiato la registrazione della testata giornalistica per favorire, anche attraverso una forma di controinformazione, la crescita del pluralismo, ho proposto una riforma dell’Ordine all’insegna della massima apertura. Credo quindi che non sia corretto far passare me e l’Ordine che pro tempore rappresento come censori medievali.

Mia breve controreplica. Ringrazio Peretti per la cortesia del suo intervento. Come i lettori possono vedere questa non è una polemica, sono semplicemente punti di vista diversi, e quindi utili a capirsi. Resto dell’idea che l’Ordine o Albo dei Giornalisti è inutile, tanto più se chiunque si può iscrivere (e quindi, immagino, nessuno può essere espulso). Per questo basta riconoscere il diritto di fare informazione e chi sia iscritto alle liste elettorali, mantenendo come unica tutela dell’interesse pubblico la rintracciabilità del responsabile dell’informazione che viene diffusa. Paragonare poi l’attività giornalistica volontaria dei “corsisti” di Michela Murgia a quella degli stagisti nei giornali è a mio parere improprio. I primi esercitano un loro diritto di libertà, i secondi sarebbero costretti a lavorare gratis per un’azienda, e per questo sono inibiti dal “produrre”. L’affare è maledettamente complicato perché il giornalismo è una professione ma anche un diritto di libertà dei cittadini. Per i medici è più facile, non esistendo il diritto costituzionale di praticare al prossimo operazioni chirurgiche. Ma per i giornalisti bisogna andarci piano con le regole. Il rischio di tutele illiberali è sempre in agguato.

Aspiranti giornalisti: l'Ordine non risponde, scrive Rita Guma su “Il Fatto Quotidiano”. Ho inviato quindici giorni fa al presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino la lettera seguente. Temevo una risposta solo politica, ma ad oggi non mi è pervenuta nemmeno quella. Si sarà persa in rete?

Egregio Presidente, ho letto sul sito dell’Ordine l’avviso che mette in guardia gli aspiranti pubblicisti e mi pongo molte domande. Molti direttori di testata – ovviamente iscritti all’Ordine – sfruttano il lavoro di giovani desiderosi di diventare giornalisti essendo ben consapevoli che costoro non saranno retribuiti o che le promesse di iscrizione all’Albo sono false, tanto più che sempre più spesso il direttore è anche – in varie forme – editore del giornale. Tuttavia l’Odg fa ricadere sui giovani aspiranti il peso dell’accertamento dei requisiti per l’iscrizione all’albo dei pubblicisti e continua ad affidare ai direttori di testata (quelli onesti e quelli che approfittano) il potere di certificare l’attività svolta. Personalmente sono favorevole agli Ordini professionali, ma alcune situazioni – come quella citata – sembrano confermare all’opinione pubblica che si tratti di caste, proprio nel momento in cui un altro partito politico (i Radicali, ndr) chiede in parlamento l’abolizione dell’Ordine dei giornalisti. Per meglio illustrare le mie perplessità, riporto di seguito* alcune riflessioni che scrissi a luglio 2010 sulle modalità di iscrizione all’Albo dei pubblicisti, omettendo qui i successivi commenti alla riforma proposta dall’Ordine (che comunque non condividevo). Spero che abbia il tempo di leggerle e confido che non mi dia una risposta politica. Grazie per l’attenzione e cordiali saluti. (…) Ma il vero grave problema sono gli alti importi della retribuzione richiesta da molti Ordini per la validità del periodo di “tirocinio“, il che comporta il fatto che le redazioni tendano a rifiutare la collaborazione a persone che non siano parenti di un Vip. Prova ne sia una ricerca dell’Ordine dei giornalisti del 18 maggio 2010 dal titolo “Smascheriamo gli editori”, che presenta un quadro nero della retribuzione media dei giornalisti sulle grandi e medie testate italiane: le retribuzioni (lorde) dei giornalisti in genere si aggirano sui 2,5-10 euro a notizia oppure ad articolo (eccetto che per alcune testate nazionali, con 30-50 euro), mentre per l’accesso alla professione gli Ordini regionali dei giornalisti impongono una retribuzione minima di 25 euro per la notizia, 60 per l’articolo, cioè quanto stabilito dal tariffario nazionale dei giornalisti già iscritti all’Ordine. Questo significa che i giornali – pur pagando ai giornalisti iscritti agli Albi cifre risibili – dovrebbero essere disponibili a pagare 10 o 20 volte tanto i semplici aspiranti giornalisti. E non per un articolo (che potrebbe essere uno scoop particolare), ma per i 24-90 articoli richiesti in un biennio. Appare evidente che o la norma è fatta per impedire alla quasi totalità dei cittadini di iscriversi agli Ordini, oppure che chi riesce ad iscriversi è amico o parente del direttore, dell’editore o di un politico o altro personaggio importante. Solo in questi casi è pensabile che le redazioni accettino di compensare con 60 euro un lavoro che ad un giornalista professionista pagherebbero mediamente un decimo o un ventesimo di tale cifra. Il problema delle retribuzioni è tanto attuale che qualche giorni fa l’Ordine dei giornalisti rendeva nota l’esistenza di alcune proposte di legge “per promuovere l’equità retributiva nel lavoro giornalistico”, alla Camera e al Senato. Uno dei parlamentari denunciava con scandalo i “dati della vergogna” contenuti nella ricerca fatta dall’Ordine. Ma che i dati siano una vergogna lo diciamo anche qui, con riferimento tuttavia non ai giornalisti già iscritti, ma ai requisiti richiesti dall’Ordine per l’iscrizione agli Albi dei giornalisti. E non è pensabile che gli Ordini non lo sappiano, sia perché sono essi stessi fatti da giornalisti, sia per via della ufficializzazione dei risultati della ricerca di cui sopra.(…)

L'OdG? Scioglietelo, il giornalismo ringrazierà, scrive Giuseppe Lo Bianco su ”Il Fatto Quotidiano”. "Egregio signore/a…’’, mi scrive l’Ordine dei Giornalisti di Palermo sollecitandomi il pagamento di due quote arretrate e ricordandomi, alla fine, che ‘’il pagamento delle quote condiziona l’appartenenza all’Ordine e, quindi, la possibilità di esercitare la professione. Ciò ai sensi delle norme di legge vigenti’’. Ho pagato, naturalmente, ma il senso di estraneità vagamente minaccioso (e del tutto condiviso, senza, ovviamente, alcun sentore di minaccia) mi ha spinto a chiedermi a che (e a chi) serve oggi l’Ordine dei Giornalisti italiano, unico in Europa, insieme al Portogallo, nati, entrambi sotto il fascismo: di Mussolini, nel 1925, con l’art. 7 della legge sull’organizzazione dell’attività giornalistica, di Salazar fino al 1974, quando la corporazione Stampa-Arti Grafiche e Tipografiche si sciolse con la fine del regime dittatoriale per lasciare il posto allo statuto professionale. E’ un caso che Italia e Portogallo sono agli ultimi posti in Europa (insieme alla Grecia) per indice di lettura e copie di quotidiani diffuse?  Mentre i sacerdoti del pensiero liberale spingono Monti a cancellare gli ordini professionali e il Presidente dell’Antitrust pensa alle ‘’agenzie di valutazione’’, dentro i recinti degli organismi di categoria si discute di futuro dell’Ordine solo in funzione della sua sopravvivenza.  Ma nessuno risponde alla domanda: oggi, a chi serve l’Ordine dei giornalisti? Non serve (e non è mai servito) a garantire la qualità del prodotto giornalistico, una soglia minima di decenza al di sotto della quale non si può più parlare di giornalismo. Non serve più, ai pubblicisti, che entro il 13 agosto dovranno essere cancellati dall’albo professionale, come prevede il decreto del governo Monti, sulla base di un principio banale ma sacrosanto: chi non ha superato l’esame di Stato non può essere iscritto all’albo professionale. Non serve ai citizen journalist, ai titolari di blog, alle migliaia di giovani colleghi senza tutela che ogni giorno si sforzano di raccontare questo Paese oltre i recinti corporativi dell’appartenenza professionale e che spesso vengono sanzionati ‘’per esercizio abusivo della professione’’. Non serve più sotto il profilo disciplinare, visto che il decreto Monti lo ha svuotato di questo potere, affidandolo ad un collegio esterno.  Non serve ai giornalisti, quelli veri, che non hanno bisogno di un Ordine arroccato a presidio di un’identità ormai virtuale e che negli anni hanno assistito alla mutazione genetica degli elenchi: oggi l’Ordine ha110.000 iscritti, il 70,7% sono pubblicisti, solo il 19 per cento ha un contratto di lavoro, 84 mila di essi sono sconosciuti all’Inpgi e dei restanti 26 mila, 6 su 10 hanno un reddito inferiore a 5000 euro lorde l’anno. Chi sono questi 84 mila e cosa fanno dentro il nostro ordine professionale? Gli resta, come giustificazione della sua esistenza, la formazione professionale, ma è solo un business, fallimentare sotto l’ aspetto didattico e, oggi, anche economico: a Bologna, dove la scuola esiste da anni, hanno sospeso l’ultimo corso, i candidati non ce l’hanno fatta a superare i test di cultura generale. L’Ordine serve, invece (eccome!) ai suoi dirigenti nazionali, appesi ai compensi, alle poltrone e ai rimborsi spese di un sistema che ha perso per strada tutte le ragioni della propria esistenza alimentando nell’opinione pubblica il tasso di diffidenza verso i giornalisti, concepiti come una corporazione protetta dallo Stato. Oggi l’Ordine è senza idee e naviga a vista, rischia di trasformarsi in un peso morto, inutile (e anzi dannoso) per la promozione e lo sviluppo del giornalismo, una fabbrica di illusioni per un migliaio di giovani l’anno destinati alla disoccupazione e il rifugio di una casta corporativa in difesa dei propri privilegi, composta da 150 consiglieri che nella maggior parte dei casi non hanno nulla a che fare con la professione. Che l’Ordine sia inutile, lo sostenne, senza forse rendersene conto, anche il suo presidente, Enzo Iacopino, quando disse a Pino Maniaci che ‘’per fare il giornalista non occorre il tesserino’’. E’ ora che gli organismi di categoria dei giornalisti comincino ad interrogarsi sul tema per non lasciare ai Belpietro, ai Bechis, a Bordin e Sansonetti il monopolio di un’azione che si rivelerà vincente molto prima di quanto si creda. E per questo ha fatto bene il presidente dell’Unci Guido Columba ad avviare un dibattito all’interno dell’Unione Cronisti diffondendo un intervento che gli ho inviato per mail.  La questione è chiara: l’onda di microfoni, telecamerine, blog e siti dà ragione a Iacopino: ‘’per fare il giornalista non occorre il tesserino’’. E  visto che non siamo stati capaci di riformarlo (il dibattito durato decenni non è approdato a niente), prima che quest’onda di precari spazzerà via un sistema che non serve a nulla se non ad ingrassare chi lo gestisce, scioglietelo. Lo vuole la maggioranza di elettori italiani, (più di otto milioni, il 65,5% dei votanti) che nel 1997 scelsero il “sì” al referendum, che purtroppo non raggiunse il quorum. So perfettamente che lo scioglimento è invocato da tutto il centro destra, Cicchitto in testa, con un’ammucchiata di consensi cui partecipano convinti D’Alema e Fini, giornalisti professionisti, e perfino Beppe Grillo. Ma tra il rischio demagogico che apre inevitabilmente strade nuove e la certezza della paralisi che condurrà la ”casta” a spartirsi le spoglie dell’Ordine in una deriva di autocannibalismo, io scelgo il primo. Alla tutela continuerà a pensare la Fnsi, la fantasia legislativa troverà formule di controllo statale come in Francia, di libero associazionismo come in Norvegia, o di assenza totale di riconoscimento professionale come Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Germania, Grecia, Regno Unito. Oggi i tempi sono più maturi per un appello, rispettoso ma deciso, ai dirigenti dell’Ordine: consegnate gli elenchi al ministero della Giustizia e andate a casa. Il giornalismo ve ne sarà grato.

FORMAZIONE: I DOVERI DEI GIORNALISTI E I TENTATIVI DI FARE AFFARI, scrive Enzo Iacopino presidente dell'Ordine dei Giornalisti. C’è un errore di fondo, nella legge: quello di definire formazione l’obbligo previsto per tutti gli iscritti agli Ordini professionali. Quel termine, inutile negarlo, irrita immediatamente quanti hanno dieci-venti-trenta o più anni di professione alle spalle. Ma quel termine è nella legge che forse avrebbe corrisposto più esattamente alle intenzioni del legislatore, condivise dall’Ordine dei giornalisti, se avesse previsto il dovere dell’aggiornamento professionale. Ci sono Ordini che da anni, molti, considerano un patrimonio da difendere i corsi di aggiornamento. In una professione che, come la nostra, cambia di continuo,tale opportunità dovrebbe essere rivendicata dagli iscritti e non imposta per legge. Ma ora le norme ci sono: dobbiamo rispettarle. La legge prevede che gli Ordini professionali organizzino i corsi. Prevede, altresì, che organismi vari, se hanno i requisiti fissati per gli “enti formatori”, possano chiedere di essere accreditati. L’Ordine dei giornalisti ha il dovere di istruire la pratica e trasmettere al Ministero un parere motivato per l’eventuale diniego. Se, invece, l’ente richiedente ha i requisiti di legge, l’Ordine – riferendosi alla regolarità della documentazione richiesta – scrive al Ministero dicendo che nulla osta al riconoscimento. In molti hanno visto in questo una opportunità di fare business. E’ legale. Chiedono all’Odg di essere accreditati, la pratica viene istruita e mandata al Ministero che fa la verifica e formula il parere vincolante. Lo stesso ente, una volta ottenuto il riconoscimento, propone all’Odg quel tale corso, con quel programma, quei docenti e quel costo. L’Odg, se la materia è inerente la professione e i docenti sono ritenuti adeguati, deve autorizzarlo. Questo è quel che prevede la legge. Dall’inizio dell’anno sono stati complessivamente organizzati 609 corsi dai vari Odg regionali (li trovate sul sito odg.it che nei prossimi giorni riporterà anche quelli che l’esecutivo ratificherà il 18 giugno e sono previsti fino a tutto il 2015). Di questi corsi, 108 sono a pagamento, organizzati in collaborazione con Università e organismi vari. Nessun corso a pagamento è stato proposto dall’Ordine nazionale (quello di Fiuggi, pur riportato in elenco, è un seminario di preparazione agli esami, estraneo agli obblighi di legge. Si svolge, infatti, da ben prima delle norme sulla formazione. E’ su base residenziale – albergo e vitto – ed è riservato ai praticanti i quali versano la stessa cifra da molti anni. La stessa cosa vale per i seminari per i praticanti, organizzati da alcuni Ordini regionali). TUTTE le proposte inoltrate a oggi dagli Odg regionali sono state valutate e definite dal Comitato tecnico scientifico il 4 e 5 giugno. TUTTE. Gli Ordini regionali organizzeranno un numero di corsi a titolo gratuito sufficiente per consentire a tutti i colleghi la possibilità di acquisire i crediti richiesti. E’ un impegno non mio, ma di tutti noi. L’Odg nazionale ha, inoltre, già organizzato un corso di deontologia on line, che vale dieci punti. Ne organizzerà degli altri, facendosi carico dei costi necessari. Tutti saranno a titolo gratuito. TUTTI. Questa è la linea dell’Ordine nazionale. Personalmente non parteciperò mai ad alcun corso di formazione-aggiornamento che richieda un pagamento (ho fatto una relazione al corso dell’Ucsi a Fiuggi, svolto su base residenziale e ai partecipanti era chiesto dalla stessa Ucsi, non dall’Odg, di far fronte ai costi di albergo e vitto). Non già perché, come leggo e so, la situazione per decine di migliaia di colleghi è davvero difficile, ma perché ritengo sia un dovere morale dell’Ordine offrire ai suoi iscritti l’opportunità di rispettare gli obblighi di legge anche senza sborsare un solo euro.

Giornalisti, lo scandalo dei corsi di formazione obbligatori, scrive Davide D'Antoni, Giornalista di Telelombardia su “Il Fatto Quotidiano”. Troppe cose non vanno nella professione più bella del mondo: osservare la realtà e raccontarla con la penna e con le immagini. Tutte le più importanti aziende editoriali italiane sono in crisi economica e di identità e negli abissi portano con loro il giornalismo. Dal punto di vista contrattuale oggi la professione è divisa in tre tipologie di giornalisti:

A) Tutelati, quelli con il contratto Fnsi;

B) Semi-Tutelati, quelli con il contratto Aeranti Corallo e Frt (con stipendio più basso, senza Casagit e con mansioni proprie di un tecnico);

C) Sfruttati, i free lance pagati 3/4 euro a pezzo.

Tutti devono frequentare i corsi di formazione resi obbligatori dalla legge che riforma gli Ordini professionali (DPR 137/2012). Trasformare la formazione in un obbligo di legge è un principio sacrosanto perché permette di restare al passo con le innovazioni tecnologiche e di legge (nonché di ripassare un po’ di etica imbastardita dai tanti ‘compromessi’ necessari sul luogo di lavoro). Tuttavia la riforma fa acqua da tutte le parti e salda interessi corporativi e di amicizia: i pochissimi corsi gratuiti infatti sono (giustamente) tutti esauriti e non resta, per poter assolvere l’obbligo di legge, che iscriversi a quelli a pagamento, pena la cancellazione dall’albo professionale. E’ gratuita solo la formazione deontologica, che prevede 1/4 dei crediti totali richiesti nel triennio. Fatta la legge, ecco l’affare: i 3/4 dei crediti infatti sono quasi tutti a pagamento. Mi chiedo come mai il legislatore non abbia pensato di svincolare l’aggiornamento professionale dall’Ordine, cosicché ciascuna azienda avesse potuto organizzare corsi in autonomia e secondo le proprie esigenze produttive, lasciando così all’Ordine quelli per i free lance e i disoccupati. E invece sfogliando, per esempio, l’elenco dei corsi previsti dall’Ordine dei Giornalisti della Lombardia scopriamo che vengono affidati a enti privati, come l’Università Cattolica o il Consorzio Iulm-Mediaset (il cui costo del seminario organizzato lo scorso mese di maggio è di 671 euro a partecipante!) che con la formazione dunque si arricchiscono. E poi c’è la beffa: affidare un seminario dal titolo “Giornalismo che cambia” a Raffaele Fiengo, storico ex cdr del Corriere della Sera oggi in pensione. A lui sono stati assegnati moltissimi corsi (tutti a pagamento) dal suo ex collega Gabriele Dossena, neo presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia e redattore proprio del Corriere della Sera. A lui chiediamo: con quale criterio vengono scelti i docenti che tengono i corsi? E’ stato fatto un bando di gara? Quanti curriculum di candidati sono stati presi in considerazione? A quanto ammonta il loro compenso? Perché tutti i corsi non sono gratuiti considerato che i giornalisti già pagano la quota annuale all’Ordine? Un Ordine che, in teoria, oggi sarebbe ancor più necessario nella difesa della professione ma che, in pratica, nessuno sa a cosa serva.

IL BERLUSCONI INVISO DA TUTTI.

I GIORNALISTI DI SINISTRA: VOCE DELLA VERITA’? L’ESPRESSO E L’OSSESSIONE PER SILVIO BERLUSCONI.

Così funzionava la macchina del fango. Vittorio Feltri ricostruisce il caso Boffo. Bertone, Sallusti, Santanchè. E Bisignani. Ecco i protagonisti del falso scoop che fece saltare il direttore di “Avvenire”. E che Feltri conferma ai pm di Napoli e a “l’Espresso”. A passare le carte al quotidiano di Berlusconi furono la “pitonessa” e il faccendiere, legati anche in affari, scrive Emiliano Fittipaldi e Nello Trocchia su “L’Espresso”. «Bertone, Bisignani, Santanchè... Fu Alessandro Sallusti a dirmi che la fonte della velina su Dino Boffo era il cardinale Tarcisio Bertone, che l’aveva data a Luigi Bisignani e Daniela Santanchè. Poi era arrivata a Sallusti. È questo quello che ho raccontato ai magistrati. Davanti ai pm si deve dire la verità». Vittorio Feltri non ci pensa un secondo a rispondere alla domanda e in un’intervista esclusiva conferma a “l’Espresso” quello che lui stesso confidò due anni fa a un giudice della procura di Napoli, quando raccontò per la prima volta l’origine del finto scoop che costrinse l’allora direttore di “Avvenire” alle dimissioni. Nessuno prima di oggi sapeva che nel 2012, in effetti, il pm Gianfranco Scarfò in forza alla procura partenopea chiamò Feltri in gran segreto nei suoi uffici sotto il Vesuvio, per interrogarlo come persona informata sui fatti. Il magistrato stava cercando di capire chi era entrato nel casellario giudiziario per cercare informazioni su Boffo, e chiese così al giornalista quale fosse la genesi della notizia infamante pubblicata il 28 agosto 2009 sulla prima pagina de “Il Giornale”, nella quale il direttore del quotidiano cattolico veniva descritto come “noto omosessuale attenzionato dalla polizia”. «Dissi al pm che la catena era Santanchè, Bisignani, Bertone... è quello che mi fu detto da Sallusti, quando lui era condirettore», ricorda Feltri. «Dopo, non so se fosse vero... Io ero il direttore, e mi sono fidato senza pormi tanti problemi. Mi sembrava che fosse assolutamente credibile. Però io non so se posso dirvi queste cose, il magistrato mi chiese di non raccontarle a nessuno... Anche se dopo tanto tempo, forse, si possono dire».

Da Prodi alla Carfagna, tutti i big nel mirino. Accuse inventate, intercettazioni inesistenti, storie infondate, calzini turchesi: le vittime della macchina del fango delle testate di Silvio Berlusconi.

ROMANO PRODI. Nel 2003 l’ex presidente del Consiglio è indicato dal faccendiere Igor Marini come il destinatario, insieme a Lamberto Dini e Piero Fassino, di una tangente da 55 milioni di euro derivanti dall’affare Telekom Serbia. L’accusa è inventata di sana pianta, “il Giornale” ci titolerà 32 volte.

MARA CARFAGNA. Nel 2008 il ministro Carfagna viene attaccata da Paolo Guzzanti e da sua figlia Sabina, che citando alcune intercettazioni dice che l’ex velina ha soddisfatto sessualmente Berlusconi. Le intercettazioni però non esistono: la Guzzanti è stata condannata a pagare danni per 40mila euro.

ILDA BOCCASSINI. Nel 2011 il pm Boccassini finì nel tritacarne de “Il Giornale” per una vecchia storia degli anni Ottanta, quando una sua liaison sentimentale venne inclusa in un procedimento disciplinare del Csm. “La doppia morale della Boccassini”, questo il titolo dell’articolo.

GIANFRANCO FINI. Nel 2010 Maurizio Belpietro su “Libero” scrive che qualcuno starebbe organizzando un falso attentato a Fini, ai tempi in rotta con Berlusconi. Nello stesso articolo si legge che anche Fini avrebbe avuto relazioni con una prostituta, di Modena. Le due storie si riveleranno totalmente infondate.

RAIMONDO MESIANO. Il giudice civile Mesiano nel 2009 fu seguito per ore da un’inviata di Canale 5. Il magistrato aveva appena condannato la Mondadori di Berlusconi a pagare 750 milioni alla Cir di De Benedetti. Mesiano fu attaccato per i suoi comportamenti.

A cinque anni di distanza dalla pubblicazione della velina che distrusse la carriera di Boffo e annichilì quella parte della Chiesa avversa alla morale libertina dell’allora premier Silvio Berlusconi, “l’Espresso” è così in grado di ricostruire la vicenda, indicando per nomi e cognomi presunti mandanti, complici e esecutori materiali dell’assassinio mediatico di Dino Boffo. A fine agosto 2009 "Il Giornale" pubblicò spezzoni di due documenti. Uno, autentico, riguardava una faccenda già raccontata in passato da "Panorama": «il supermoralizzatore Boffo» nel 2004 era stato infatti querelato da una giovane ragazza di Terni per molestie telefoniche, una vicenda che si concluse con una multa da 516 euro e un decreto penale di condanna. Il secondo documento pubblicato da Feltri era invece una velina anonima, mai allegata agli atti del Tribunale di Terni, in cui Boffo viene indicato, appunto, come un omosessuale «attenzionato dalle forze dell’ordine». “Il Giornale” la definisce un’informativa di polizia, e azzarda una tesi: Boffo avrebbe avuto una relazione non con la giovane Anna, ma con il suo fidanzato. La lettera è un falso totale. «C’era una fotocopia dove si raccontavano certi fatti, io ho dato un’occhiata», ammette Feltri a “l’Espresso”. «Quando ho saputo che la fonte era quella ovviamente mi sono fidato. Poi non lo so... visto quello che è successo facevo bene a non fidarmi. È facile dirlo dopo, ma quando il tuo condirettore ti viene a dire una cosa del genere, non è che metti in dubbio la sua parola. Nel pomeriggio mi hanno detto che era tutto tranquillo, tutto normale. Io ho dato il via alle pubblicazioni senza la minima preoccupazione. Ho detto al magistrato che Sallusti mi disse che l’origine di quella velina era Bertone. Non potevo fregarmene di questa roba, mi ha detto che la fonte, la provenienza era quella. Mi sono fidato». Oltre a Bertone, Feltri (che al “Foglio” spiegò che la velina gli era arrivata «da una personalità della Chiesa della quale ci si deve fidare istituzionalmente») ha dichiarato al magistrato che Sallusti gli fece anche i nomi del faccendiere Luigi Bisignani, da poco condannato per associazione a delinquere per l'inchiesta P4, e Daniela Santanchè, che sarebbero stati una sorta di “passacarte” per conto del prelato. Una volta davanti al magistrato l’attuale direttore de “Il Giornale” ha negato in toto la versione del suo vecchio maestro. Il pm Scarfò non ha mai depositato le testimonianze, né quella di Feltri ne quella di Sallusti. L’inchiesta ha finora portato alla sbarra solo un cancelliere del palazzo di giustizia di Santa Maria Capua Vetere, Francesco Izzo, accusato di accesso abusivo al sistema informatico: è lui l’uomo che - secondo il magistrato - a marzo 2009 consultò indebitamente il casellario per estrarre i precedenti penali di Boffo. Dopo due anni, il processo è alle fasi finali, in attesa della requisitoria del pm. Sarà probabilmente l'unico a pagare. A parte Feltri, sospeso dall'Ordine per tre mesi. «Ho pagato io solo come sempre succede» chiude Feltri. «C’è quel cretino del direttore che ci va di mezzo. È normale... Ho sbagliato a fidarmi, evidentemente. Ma talvolta capita, nella vita, di fidarsi».

La macchina del fango investe "il Giornale": Sallusti smentisce Feltri, ma lui conferma. Il direttore de "il Giornale": «Come ho già avuto modo di spiegare ai magistrati della Procura di Napoli, non ha alcun fondamento la ricostruzione fatta da Vittorio sull’origine dello scoop su Dino Boffo». Feltri: «La Santanchè mi disse che Bertone mi avrebbe chiamato per ringraziarmi», scrive “L’Espresso”. Tutti contro tutti a "il Giornale". Alessandro Sallusti, dopo lo scoop de "l'Espresso" sul caso Boffo , si è scagliato contro il suo maestro Vittorio Feltri, reo di aver raccontato al settimanale e ai pm di Napoli da chi arrivò la falsa notizia che costrinse l'ex direttore di "Avvenire" alle dimissioni. «Come ho già avuto modo di spiegare ai magistrati della Procura di Napoli, non ha alcun fondamento la ricostruzione fatta da Vittorio Feltri sull’origine dello scoop della condanna di Dino Boffo per molestie telefoniche a sfondo sessuale», ricorda l'attuale numero uno de "il Giornale". «I nomi citati da Feltri non hanno nulla a che fare con quella vicenda, ne avrei potuto farli, quelli o altri, a Feltri o a chiunque, in quanto avrei violato il dovere alla riservatezza delle fonti che è baluardo inviolabile del nostro mestiere. Durante la mia deposizione a Napoli ho avuto la netta impressione che i magistrati fossero più stupiti e allibiti di me delle parole di Feltri. Prova che non hanno neppure ritenuto di allegare il verbale agli atti del processo in corso sulla fuga di notizie, tanto quella ricostruzione risultava confusa, fantasiosa e senza alcun riscontro». Feltri, però, ha subito replicato confermando quanto scritto da “l'Espresso”: «Chiunque può immaginare che se non avessi avuto ampie rassicurazioni da Alessandro Sallusti circa la attendibilità della fonte (Santanchè , Bisignani e Bertone) delle notizie su Boffo, mai e poi mai ne avrei autorizzato la pubblicazione. Soltanto in seguito la documentazione risultò parzialmente inesatta. Io a causa di ciò venni sospeso dall'Ordine tre mesi e dovetti rinunciare alla direzione del Giornale. Al mio posto guarda caso subentrò Sallusti. Nel frattempo la signora Santanchè mi disse che il cardinale Bertone mi avrebbe invitato in Vaticano per ringraziarmi di aver pubblicato la vicenda Boffo. Invito che non ho mai ricevuto. Nel 2012 sono stato convocato in Procura a Napoli e il Pm mi ha domandato di ricostruire l'accaduto, avvertendo che avrei potuto invocare il segreto professionale. Al quale ho rinunciato perché sarebbe stato assurdo coprire una fonte infedele e imbrogliona. Cosicché raccontai la verità per filo e per segno. Mentre Sallusti, pure interrogato dallo stesso magistrato, ha smentito la mia versione, ma non ha svelato la fonte delle notizie false su Boffo, di fatto proteggendo i falsari che mi avevano danneggiato. Perché?». Anche Daniela Santanchè, tirata in ballo da Feltri insieme al cardinale Tarcisio Bertone e Luigi Bisignani, attacca Feltri a muso duro: «In merito alla anticipazione de "l'Espresso" sul caso Boffo, smentisco categoricamente la fantasiosa ricostruzione che Vittorio Feltri avrebbe fatto davanti ai magistrati della procura di Napoli che mi vorrebbe in qualche modo coinvolta nella diffusione della notizia sulla condanna dell'allora direttore di Avvenire. Quello che leggo - prosegue - è frutto di supposizioni maligne e squallidi pettegolezzi che mi sorprende vengano accreditati da un giornalista autorevole. Non capisco a che titolo io venga chiamata in causa in una vicenda che non conosco e che ho appreso dalla lettura dei giornali. Ovviamente mi riservo di tutelare la mia immagine in ogni sede». Pure Bertone nega di essere stato lui la mano che ha girato la velina a Feltri. «Smentisco categoricamente la ricostruzione falsa e offensiva che è stata fatta». L'ex segretario di Stato afferma che non «ha mai consegnato nessuna velina su Boffo a chicchessia, né tanto meno è stato all'origine di tale fatto. Adirò alle vie legali». Non spiega, però, perché Feltri avrebbe dovuto mentire davanti ai magistrati.

Perchè la macchina del fango della sinistra è più raffinata e sottile di quella della destra, assai più rumorosa e grossolana. Mi verrebbe da dire che se il giornalismo di destra, ti mena con la mazza ferrata, quello di sinistra, ti uccide lentamente con il veleno iniettato a piccole dosi, giorno dopo giorno, cosi che se muori, la colpa è di nessuno. Dobbiamo liberarci al più presto di questi lacchè.

Feltri: in Italia i giornalisti di sinistra hanno diritto al rispetto, gli altri al dileggio, scrive Vittorio Feltri su “Panorama”. Negli anni Settanta i giornalisti non comunisti se la cavavano: bastava che si proclamassero antifascisti e la passavano liscia. Al Corriere della sera, quando si trattava di assumere un giovane cronista, il comitato di redazione (che contava molto di più del direttore, dato che i sindacati lo tenevano in ostaggio e lo ricattavano: o fai come diciamo noi oppure addio pace sociale) pescava perfino all’Avvenire, proprietà vescovile, tanto per gettare un po’ di fumo negli occhi a chi criticava la tendenza a reclutare soltanto compagni. In una circostanza, dal giornale della Cei arrivarono in via Solferino addirittura due ragazzotti sotto i trent’anni con l’etichetta di cattolici osservanti. Di lì a pochi mesi, entrambi si iscrissero al Pci e la loro carriera fu brillante: uno fu subito promosso caposervizio, l’altro, dopo un breve periodo di gavetta, cooptato nel gruppo degli inviati, considerati degni di ogni privilegio, tra cui quello di non avere orari né l’obbligo di frequentare la redazione. Altre assunzioni avvenivano prevalentemente tra i comunisti organici dell’Unità, raramente di altre testate. Io fui ingaggiato dal Corriere per errore. Infatti avevo lavorato alla Notte di Nino Nutrizio, che era di destra, ed ero quindi sospettato di simpatie fasciste. Sennonché un amico corrierista garantì per me: «Feltri è socialista». E nessuno mi ostacolò. Questo dimostra che al tempo la nostra corporazione era abbastanza democratica. Se confessavi di non essere comunista, beh, non eri amato però ti tolleravano; se invece osavi ammettere di essere anticomunista, allora addio, eri destinato all’emarginazione. Oggi che il comunismo è un reperto archeologico, paradossalmente le cose sono peggiorate. Se non sei di sinistra, o non ti comporti come lo fossi, i colleghi progressisti ti guardano con disprezzo e si sentono autorizzati a liquidarti così: incolto, rozzo, servo, venduto, killer, per citare gli epiteti più gradevoli. Il problema è capire che significhi essere di sinistra e non esserlo. La soluzione è semplice. Se non sei berlusconiano, nel senso che non riconosci al Cavaliere legittimità politica, hai diritto alla patente di democratico (ormai sinonimo di progressista); se invece in qualche modo accetti che Silvio Berlusconi possa esercitare funzioni istituzionali, e magari hai votato centrodestra in qualche occasione, ti infliggono il marchio di berlusconiano, un’infamia. E non c’è verso di cancellarlo. A meno che non ti decida pubblicamente ad abiurare. Nel qual caso puoi sperare in una riabilitazione dopo un lungo periodo di quarantena necessario per purificarti. I pentiti d’ogni genere in Italia godono di grandi favori. Quelli che si offrono volontari nei salotti televisivi, per recitare tutte le litanie dell’antiberlusconismo di maniera, sono i più richiesti e applauditi. Così, con relativa facilità, nel giro di qualche mese da buzzurro sei promosso a intellettuale con i requisiti indispensabili per accedere al club dei lib-lab. Se invece ti ostini a pensare che in politica non si debba scegliere il meglio (che non c’è), ma il meno peggio, e che il meno peggio non stia nel centrosinistra bensì nel centrodestra, ti può succedere qualsiasi disgrazia. Intanto, l’Ordine dei giornalisti ti tiene in osservazione e, se gli dai il minimo pretesto, ti frega perché dispone di poteri illimitati, tra cui quello di condannarti alla disoccupazione temporanea o definitiva. Il giornalista «eretico», a differenza di quello progressista ortodosso, non ha protezioni politiche: nel centrodestra, la prevalenza del cretino impedisce ogni iniziativa in appoggio agli scribi più in sintonia col Pdl che col Pd. Strano, ma vero. Risultato, i redattori in conflitto con le bandiere rosse di risulta sono mazziati e cornuti. Basta vedere quanto è successo nelle scorse settimane. Panorama, Libero e Il Giornale si sono dedicati con scrupolo all’appartamento monegasco ereditato da An grazie a una nobildonna (la cui volontà era che servisse a finanziare una buona causa nel partito), svenduto da Gianfranco Fini e attualmente abitato dal cognato di questi, Giancarlo Tulliani. Una vicenda oscura; forse non è stato commesso un reato, ma una scorrettezza sì. Ebbene, mentre le tre testate citate si davano da fare per completare le loro inchieste, i giornaloni tipo Repubblica e Corriere della sera (e non contiamo le emittenti televisive), dei quali è nota la pendenza a sinistra, si spremono onde minimizzare il lavoro dei concorrenti di segno politico opposto, arrivando a deriderli: tanto chiasso per poi un affaruccio immobiliare. Parecchi si sono domandati come mai Gianfranco Fini fosse difeso dalla stampa che fino a un anno prima lo riteneva un abusivo del Parlamento, un ex fascista da scansare. La risposta è ovvia: da quando il presidente della Camera si è trasformato da conservatore bigotto («Dio, patria e famiglia») in fiero oppositore di Berlusconi è stato iscritto d’ufficio al circolo degli eletti. Fosse rimasto ciò che era, una camicia nera stinta, l’avrebbero massacrato. Invece hanno massacrato gli inchiestisti che hanno svelato le sue «disattenzioni». E che dire di Maurizio Belpietro, sfuggito a un attentato terroristico in casa? Pur di banalizzare il fatto, l’apparato mediatico insinua che il caposcorta del direttore di Libero si sia inventato l’agguato e abbia sparato a un fantomatico aggressore così, per sport, per fare un po’ di casino. Questa è la situazione. Cambierà? Sì. In peggio, naturalmente.

Sempre e comunque con la lingua penzoloni rispetto ai magistrati. Come non raccontare quello che è successo a "Latina Oggi".  Latina Oggi, il quotidiano antimafia ucciso dal copia-incolla. Un esposto del senatore Fazzone contro Ciarrapico provoca il fallimento del giornale che denunciava i clan di Fondi e del Lazio. Ma la sentenza è copiata: riguarda un cantiere navale. E in tribunale scoppia il giallo di un maxi-sequestro di quote poi annullato, scrive di Andrea Palladino su “L’Espresso”. La redazione di Latina Oggi Hanno fatto un salto sulla sedia i giornalisti del quotidiano Latina oggi quando, un paio di mesi fa, hanno letto la sentenza di fallimento del loro editore: «Non sapevamo di far parte di un consorzio di Gaeta - raccontano con una certa ironia - né di occuparci di costruzione di barche». Circostanze che hanno scoperto, con non poca sorpresa, tra le 70 pagine del decreto firmato dal Tribunale di Latina lo scorso 26 febbraio. Un provvedimento che rischia di condannare a morte la testata in prima fila nel raccontare le mafie del sud pontino, con decine di giornalisti e poligrafici a rischio disoccupazione. In realtà la società editrice “Nuova editoriale oggi srl” con le barche non ha mai avuto nulla a che fare. Quelle frasi riportate nella sentenza sono solo un piccolo pezzo di uno sconcertante caso di copia e incolla giudiziario: almeno una ventina di pagine praticamente identiche al decreto di fallimento della società Italcraft - che per l’appunto costruiva natanti - datata 2012. Un mero errore materiale, sostiene la sezione di Latina dell’Anm, in un comunicato stampa scritto a difesa della sezione fallimentare del tribunale. Il fallimento copy&paste è solo l’atto finale di una vicenda giudiziaria complessa, partita anni fa con un esposto del senatore Pdl di Fondi Claudio Fazzone. L’editore di Latina Oggi all’epoca era Giuseppe Ciarrapico, il re delle cliniche ciociaro, anche lui senatore del Pdl fino all’anno scorso, politico che riuniva la fede democristiana - strettamente andreottiana - con un credo fascista mai rinnegato. Dopo l’esposto di Fazzone, la procura di Roma accusa Ciarrapico di aver truffato per anni il dipartimento dell’editoria, incassando diversi milioni di euro di contributi in realtà non dovuti. L’inchiesta rischia di far saltare il suo impero editoriale. La direzione del principale giornale di Latina e la redazione iniziano una battaglia difficile, alla ricerca di un nuovo - e più presentabile - editore, in grado di salvare il giornale. Nell’ottobre del 2012 l’intero pacchetto posseduto da Ciarrapico passa nelle mani del costruttore pontino Armando Palombo, che riesce a garantire l’uscita del quotidiano. Tutto bene, dunque, almeno apparentemente. Quando il nuovo editore entra in possesso della contabilità - che era stata sequestrata dalla Procura di Roma - si rende conto che molte cose non corrispondevano a quanto descritto nei bilanci. L’amministrazione scopre, ad esempio, l’esistenza di conti esteri in Lussemburgo mai dichiarati. Vengono poi alla luce incroci societari tra fornitori e il gruppo Ciarrapico che pesavano come macigni sui conti dei giornali. Il 12 dicembre del 2012 l’allora amministratore della nuova società presenta un esposto dettagliato alla Guardia di finanza di Colleferro che dà vita ad un nuovo filone d’inchiesta, affidato al pubblico ministero romano Michele Nardi. Nel contempo la società si prepara ad affrontare il concordato preventivo, l’unico strumento che avrebbe potuto salvare i conti, i giornali del gruppo e il posto dei dipendenti. La procura di Roma lo scorso marzo decide di agire, chiedendo il sequestro d’urgenza - quindi senza attendere il pronunciamento di un giudice - delle quote del colosso della sanità romana riconducibile alla famiglia di Giuseppe Ciarrapico, il gruppo Eurosanità, proprietaria di quattro strutture ospedaliere ben note. Ma qualcosa non funziona: dopo poco più di una settimana il Gip dissequestra il tutto (come risulta dalle visure in Camera di commercio), ritenendo insussistenti gli elementi in mano al pm Nardi. Nel frattempo Latina oggi si trova sulla testa la spada di Damocle del fallimento, con la possibilità di perdere per sempre l’uso della testata. La scorsa settimana l’editore Armando Palombo ha deciso di abbandonare la società, cedendo le quote all’attuale direttore di Latina oggi Alessandro Panigutti e a un imprenditore pontino. Per ora il giornale continua ad uscire con la testata “Oggi Latina” in attesa delle decisioni del curatore fallimentare, puntando a riacquistare il nome storico della testata. I cronisti hanno deciso di non mollare, continuando a raccontare le infiltrazioni delle mafie nel sud del Lazio, i traffici di rifiuti, la devastazione del territorio attraverso un’espansione edilizia alimentata da fondi spesso sospetti. Da soli hanno affrontato per anni il caso Fondi, l’amministrazione comunale che nel 2009 l’ex ministro degli Interni Roberto Maroni voleva sciogliere per mafia, poi salvata in extremis dal consiglio dei ministri presieduto da Silvio Berlusconi. Per primi hanno raccontato delle lettere di raccomandazione inviate su carta intestata della Regione Lazio proprio da Fazzone, allora presidente del consiglio regionale, vero dominus del centrodestra nel sud pontino, recordman delle preferenze fin dal 2000. Un patrimonio di conoscenza del territorio che oggi rischia di svanire, grazie a una sentenza fallimentare forse un po’ frettolosa.

I giornalisti di sinistra: voce della verità? L’Espresso e l’ossessione per Silvio Berlusconi.

«Quando la disinformazione è l’oppio dei popoli, che li rincoglionisce. I giornalisti corrotti ed incapaci ti riempiono la mente di merda. Anziché essere testimoni veritieri del loro tempo, si concentrano ad influenzare l’elettorato manovrati dal potere giudiziario, astio  ad ogni riforma che li possa coinvolgere e che obbliga i pennivendoli a tacere le malefatte delle toghe, non solo politicizzate», così opina Antonio Giangrande, sociologo storico ed autore di tantissimi saggi, tra cui “Governopoli”, “Mediopoli” ed “Impunitopoli”.

Il declino di un’era. 20 anni di niente. Silvio Berlusconi: ossessione dei giornalisti di destra, nel difenderlo, e di sinistra, nell’attaccarlo.

1977: quell'articolo premonitore di Camilla Cederna su Silvio Berlusconi. Uno splendido pezzo di una grande firma de "L'Espresso". Che aveva già capito tutto dell'ex Cavaliere, agli albori della sua ascesa.

1977: Berlusconi e la pistola. Il fotografo Alberto Roveri decide di trasferire il suo archivio in formato digitale. E riscopre così i ritratti del primo servizio sul Cavaliere. Immagini inedite che raccontano l'anno in cui è nato il suo progetto mediatico. Con al fianco Dell'Utri. E un revolver sul tavolo per difendersi dai rapimenti, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”.

Il Caimano in prima pagina: vent'anni di copertine dell'Espresso. Sono 88. La prima, il 5 ottobre del 1993. L'ultima, ma non ultima, il 25 novembre 2013. Ecco come l'Espresso ha sbattuto il Cavaliere in prima pagina.

5 ottobre 1993. Berlusconi a destra. Nuove Rivelazioni: QUI MI FANNO NERO! Dietro la svolta: Le ossessioni, la megalomania, la crisi Fininvest….

17 ottobre 1993. Esclusivo. I piani Fininvest per evitare il crac. A ME I SOLDI! Rischio Berlusconi. Rivelazioni. Il debutto in politica e l’accordo con segni. A ME I VOTI!

21 novembre 1993. Elezioni. Esclusivo: tutti gli uomini del partito di Berlusconi. L’ACCHIAPPAVOTI.

7 gennaio 1994. BERLUSCONI: LE VERITA’ CHE NESSUNO DICE. Perché entra in politica? Forse per risolvere i guai delle sue aziende? Che senso ha definirlo imprenditore di successo? Quali sono i suoi rapporti oggi con Craxi? Cosa combina se si impadronisse del Governo? Quali banchieri lo vedono già a Palazzo Chigi? Esistono cosi occulti nella Fininvest? Chi sono? Insomma: questo partito-azienda è una barzelletta o una cosa seria?

4 marzo 1994. Speciale elezioni. CENTO NOMI DA NON VOTARE. Dossier su: buoni a nulla, dinosauri, inquisiti, riciclati, voltagabbana.

11 marzo 1994. DIECI BUONE RAGIONI PER NON FIDARSI DI BERLUSCONI. Documenti esclusivi da: commissione P2, magistratura milanese, Corte costituzionale.

29 luglio 1994. Troppe guerre inutili. Troppi giochetti d’azzardo. Troppe promesse a vuoto. Troppo disprezzo degli altri. Troppe docce fredde per lira e borsa….LA FANTASTICA CANTONATA DEGLI ITALIANI CHE SI SONO FIDATI DI BERLUSCONI.

26 agosto 1994. Tema del giorno. Atroce dubbio su Berlusconi: ci sa fare o è un…ASINO?

18 novembre 1994. Dossier Arcore: LA REGGIA. Storia di un Cavaliere furbo, di un avvocato, di un’ereditiera. Dossier alluvione. LA PALUDE. Storia di un governo ottimista e di una catastrofe.

14 aprile 1995. L’incubo di pasqua. Ma davvero la destra vince? VENDETTA!

9 giugno 1995. L’AFFARE PUBBLITALIA. Tre documenti eccezionali. 1. Dell’Utri. Viaggio tra i fondi neri. Della società che voleva conquistare un paese. 2. Berlusconi. Le prove in mano ai giudici: dal caso Berruti alla pista estera. 3. Letta. I verbali dei summit di Arcore. Con i big di giornali e televisioni Fininvest.

10 settembre 1995. Case d’oro/ esclusivo. L’ALTRA FACCIA DELLO SCANDALO. Rapporto sui raccomandati di sinistra. Rivelazioni: manovre ed imbrogli della destra.

17 settembre 1995. L’ALTRA FACCIA DI AFFITTOPOLI/NUOVE RIVELAZIONI. 745.888.800.000! Come, dove e quanto hanno incassato i fratelli Berlusconi rifilando palazzi e capannoni agli enti previdenziali.

25 ottobre 1995. SHOWMAN. Berlusconi ultimo grido. L’attacco a Dini e Scalfaro: astuzie, bugie, sceneggiate.

2 febbraio 1996. L’uomo dell’inciucio. Segreti, imbrogli, stramberie, pericoli…. SAN SILVIO VERGINE.

5 aprile 1996. Dall’album di Stefania Ariosto: festa con il cavaliere. C’ERAVAMO TANTO AMATI. Nuove strepitose foto/La dolce vita di Berlusconi & C. Caso Squillante/Tutto sui pedinamenti. E sui gioielli Fininvest. Se vince il Polo delle Vanità/Poveri soldi nostri…

24 ottobre 1996. D’Alema e Berlusconi: il nuovo compromesso. Origini, retroscena, pericoli. DALEMONI.

18 dicembre 1996. FORZA BUFALE. Rivelazioni. Chi e come alimenta la campagna contro Di Pietro. Qual è la fabbrica delle false notizie agghiaccianti sul Pool Mani Pulite. Che cosa fa acqua nei rapporti della Guardia di Finanza. I segreti dell’agenda di Pacini Battaglia. Le grandi manovre per l’impunità. E il ritorno di fiamma dell’amnistia….C’è in Italia un partito antigiudici. Ha capi, quadri, ha compagni di strada. Per vincere deve spararle sempre più grosse. Inchiesta su un malessere che non passa. E che nessuna riforma risolve.

3 maggio 1996. THE END.

10 aprile 1997. ALBANIA SHOW. Speciale/tragedie e polemiche, sceneggiate e pericoli.

3 agosto 2000. Esclusivo. Un rapporto dei tecnici della Banca d’Italia. COSI’ HA FATTO I SOLDI BERLUSCONI.

22 marzo 2001. LA CARICA DEI 121. Fedelissimi, folgorati e riciclati. Con loro Berlusconi vorrebbe governare l’Italia.

16 maggio 2001. L’AFFONDO. Berlusconi si gioca il tutto per tutto. Ma la partita è ancora aperta. Le urne diranno se sarà alba o tramonto.

24 magio 2001. E ORA MI CONSENTA. L’Italia alle prese con il Cavaliere pigliatutto.

19 dicembre 2001. GIUSTIZIA FAI DA ME. Sondaggio choc: i giudici, gli italiani e Berlusconi.

7 febbraio 2002. L’importante è separare la carriera degli imputati da quella dei giudici. L’ILLUSIONE DI MANI PULITE.

15 maggio 2003. COMPARI. Negli affari, nella politica, nei processi. Berlusconi e Previti pronti a tutto. A riscrivere le leggi e a sconvolgere le istituzioni.

11 settembre 2003. Esclusivo. GLI ZAR DELLA COSTA SMERALDA. Le foto segrete dell’incontro Berlusconi-Putin.

29 gennaio 2004. RISILVIO. Vuole rifare il governo, rifondare Forza Italia, riformare lo Stato. E per cominciare si è rifatto.

13 maggio 2004. LE 1000 BUGIE DI BERLUSCONI. Il suo governo ha stabilito il record di durata. E anche quello delle promesse non mantenute. Ecco il bilancio.

24 giugno 2004. – 4.000.000. Ha perso voti e credibilità. Ora gli alleati gli presentano il conto. L’estate torrida del cavalier Silvio Berlusconi.

3 marzo 2005. AFFARI SUOI. Società e fiduciarie nei paradisi fiscali. Falsi in bilancio. Così Silvio Berlusconi dirottava i proventi del gruppo Mediaset sui diritti Tv.

7 aprile 2005. RISCHIATUTTO. Il voto delle regionali segnerà il destino dei duellanti. Romano Prodi e Silvio Berlusconi? Ecco che cosa ci aspetta dopo il verdetto delle urne.

21 aprile 2005. FARE A MENO DI BERLUSCONI. L’ennesima sconfitta ha chiuso un ciclo. Gli alleati del Cavaliere pensano al dopo. E a chi potrà prendere il suo posto.

2 febbraio 2006. PSYCHO SILVIO. Impaurito dai sondaggi tenta di rinviare la campagna elettorale. Occupa radio e tv. Promuove gli amici nei ministeri. Distribuisce una pioggia di finanziamenti clientelari. Così Berlusconi le prova tutte per evitare la sconfitta.

6 aprile 2006. DECIDONO GLI INDECISI. Identikit degli italiani che ancora non hanno scelto. Ma che determineranno l’esito del voto del 9 aprile.

9 novembre 2006. LA CASA DEI DOSSIER. Da Telecom-Serbia alle incursioni informatiche. Ecco il filo che lega le trame degli ultimi anni. Con un obbiettivo: delegittimare Prodi e la sinistra.

29 novembre 2007. Retroscena. VOLPE SILVIO. Il piano segreto di Berlusconi per far cadere Prodi e tornare al Governo. Fini e Casini azzerati. L’Unione sorpresa. Ma Veltroni è tranquillo. Non mi fanno paura.

24 aprile 2008. Elezioni. L’ITALIA DI B&B. Il ciclone Berlusconi. Il trionfo di Bossi. Lo scacco a Veltroni. E l’apocalisse della sinistra radicale rimasta fuori dal Parlamento.

15 maggio 2008. Inchiesta. LA MARCIA SU NAPOLI. Silvio Berlusconi arriva in città con il nuovo governo. Per liberarla dai rifiuti ma anche per spazzare via la sinistra da Comune e Regione.

25 giugno 2008. DOPPIO GIOCO. Si propone come statista. Aperto al dialogo. Ma poi Berlusconi vuole fermare i suoi processi. Ricusa i giudici. Vieta le intercettazioni. Manda l’esercito nelle città. Ed è solo l’inizio.

3 luglio 2008. Esclusivo. PRONTO RAI. Raccomandazioni. Pressioni politiche. Affari. Le telefonate di Berlusconi, Saccà, Confalonieri, Moratti, Letta, Landolfi, Urbani, Minoli, Bordon, Barbareschi, Costanzo….

19 febbraio 2009. Berlusconi. L’ORGIA DEL POTERE. L’attacco al Quirinale e alla Costituzione. Il caso Englaro. La giustizia. Gli immigrati. L’offensiva a tutto campo del premier.

19 marzo 2009. Inchiesta. PIER6SILVIO SPOT. Le reti Mediaset perdono ascolto. Ma fanno il pieno di pubblicità a scapito della Rai. Da quando Berlusconi è tornato al governo, i grandi inserzionisti hanno aumentato gli investimenti sulle tivù del cavaliere.

14 maggio 2009. SCACCO AL RE. Il divorzio chiesto da Veronica Lario a Berlusconi. Tutte le donne e gli amori del Cavaliere. La contesa sull’eredità. Le possibili conseguenze sulla politica.

11 giugno 2009. SILVIO CIRCUS. Per l’Italia la fiction: tra promesse fasulle e clamorose assenze come nel caso Fiat-Opel. Per sé il reality: le feste in villa e i voli di Stato per gli amici.

17 giugno 2009. Governo. ORA GUIDO IO. Umberto Bossi è il vero vincitore delle elezioni. E già mette sotto ricatto Berlusconi e la maggioranza. Nell’opposizione Di Pietro si prepara a contendere la leadership al PD, reduce da una pesante sconfitta.

25 giugno 2009. ESTATE DA PAPI. Esclusivo. Le foto di un gruppo di ragazze all’arrivo a Villa Certosa. Agosto 2008.

9 luglio 2009. Il vertice dell’Aquila. G7 E MEZZO. Berlusconi screditato dalle inchieste e dagli scandali cerca di rifarsi l’immagine. Con la passerella dei leader della terra sulle macerie. L’attesa per un summit che conferma la sua inutilità.

16 luglio 2009. SILVIO SI STAMPI. Tenta di intimidire e limitare la libertà dei giornalisti. Ma Napolitano stoppa la legge bavaglio. E i giornali stranieri non gli danno tregua. Umberto eco: “E’ a rischio la democrazia”.

23 luglio 2009. TELESFIDA. Tra Berlusconi e Murdoch è il corso una contesa senza esclusione di colpi. Per il predominio nella Tv del futuro. Ecco cosa succederà e chi vincerà.

30 luglio 2009. Esclusivo. SEX AND THE SILVIO. Tutte le bugie di Berlusconi smascherate dai nastri di Patrizia D’Addario. Notti insonni, giochi erotici, promesse mancate, E ora la politica si interroga: può ancora governare il paese?

12 agosto 2009. Governo. SILVIO: BOCCIATO. Bugie ed escort. Conflitti con il Quirinale. Assalti al CSM. Debito Pubblico. Decreti di urgenza. Soldi al Sud. Clandestini e badanti. Bilancio del premier Berlusconi. E, ministro per ministro, a ciascuno la sua pagella.

3 settembre 2009. DOPPIO GIOCO. Montagne di armi per le guerre africane. Vendute da trafficanti italiani a suon di tangenti. Ecco la Libia di Gheddafi cui Berlusconi renderà omaggio. Mentre l’Europa chiede di conoscere il patto anti immigrati.

10 settembre 2009. SE QUESTO E’ UN PREMIER. Si scontra con la chiesa. Litiga con l’Europa. Denuncia i giornali italiani e stranieri non allineati. E, non contento, vuol metter le mani su Rai 3 e La7.

1 ottobre 2009. GHEDINI MI ROVINI. Oggi è il consigliere più ascoltato del premier. Autore di leggi ad personam e di gaffe memorabili. Storia dell’onorevole-avvocato, dai camerati al lodo Alfano.

8 ottobre 2009. SUA LIBERTA’ DI STAMPA. Attacchi ai giornali. Querele. Bavaglio alle trasmissioni scomode della tv. Così Berlusconi vuole il controllo totale dell’informazione.

15 ottobre 2009. KO LODO. La Consulta boccia l’immunità, Berlusconi torna imputato. E rischia un’ondata di nuove accuse. Ma la sua maggioranza si rivolge alla piazza. E apre una fase di grande tensione istituzionale.

19 novembre 2009. LA LEGGE DI SILVIO. Impunità: è l’obbiettivo di Berlusconi. Con misure che annullano migliaia di processi. E con il ripristino dell’immunità parlamentare. Mentre Cosentino resta al governo dopo la richiesta di arresto.

16 dicembre 2009. SCADUTO. I rapporti con i clan mafiosi. Lo scontro con Fini. I guai con la moglie Veronica e con le escort. L’impero conteso con i figli. L’anno orribile di Silvio Berlusconi.

21 gennaio 2010. Palazzo Chigi. SILVIO QUANTO CI COSTI. 4.500 dipendenti. Spese fuori controllo per oltre 4 miliardi di euro l’anno. Sono i conti della Presidenza del Consiglio. Tra sprechi, consulenze ed eventi mediatici.

4 marzo 2010. UN G8 DA 500 MILIONI DI EURO. Quanto ci è costato il vertice tra la Maddalena e l’Aquila. Ecco il rendiconto voce per voce, tra sprechi e raccomandazioni: dal buffet d’oro ai posacenere, dalle bandierine ai cd celebrativi.

18 marzo 2010. SENZA REGOLE. Disprezzo della legalità. Conflitti con il Quirinale. Attacchi ai magistrati e all’opposizione. Scandali. E ora per la sfida elettorale Berlusconi mobilita la piazza. Con il risultato di portare il paese nel caos.

31 marzo 2010. STOP A SILVIO. Le elezioni regionali possono fermare la deriva populista di Berlusconi. Bersani: “Pronti al dialogo con chi, anche a destra, vuole cambiare”.

13 maggio 2010. IL CASINO DELLE LIBERTA’. Le inchieste giudiziarie. Gli scontri interni al partito. La paralisi del Governo. Dopo le dimissioni di Scajola, Berlusconi nella bufera.

27 maggio 2010. STANGATA DOPPIA. Prima il blocco degli stipendi degli statali, i tagli sulla sanità, la caccia agli evasori e un nuovo condono. Poi la scure sulle pensioni e un ritorno alla tassa sulla casa.

8 luglio 2010. I DOLORI DEL VECCHIO SILVIO. La condanna di Dell’Utri per mafia e il caso Brancher. La rivolta delle Regioni contro i tagli e l’immobilismo del governo. Le faide nel Pdl e i sospetti della Lega. Il Cavaliere alla deriva.

15 luglio 2010. SENZA PAROLE.

11 novembre 2010. BASTA CON ‘STO BUNGA BUNGA. BASTA LO DICO IO.

18 novembre 2010. QUI CROLLA TUTTO. Le macerie di Pompei. L’alluvione annunciata in Veneto. L’agonia della maggioranza. L’economia in panne. Per non dire di escort e bunga bunga. Fotografia di un paese da ricostruire.

16 dicembre 2010. La resa dei conti tra Berlusconi e Fini è all’atto finale. Chi perde rischia di uscire di scena. FUORI UNO.

22 dicembre 2010. FINALE DI PARTITA. Voti comprati. Tradimenti. Regalie…Berlusconi evita a stento la sfiducia, ma ora è senza maggioranza e deve ricominciare daccapo. Anche se resisterà, una stagione s’è chiusa. Eccola, in 40 pagine, di foto e ricordi d’autore.

27 gennaio 2011. ARCORE BY NIGHT. Un harem di giovanissime ragazze pronte a tutto. Festini, orge, esibizioni erotiche, sesso. L’incredibile spaccato delle serate di Berlusconi nelle sue ville. Tra ricatti e relazioni pericolose.

10 febbraio 2011. PRETTY MINETTI. Vita di Nicole, ragazza chiave dello scandalo Ruby. Intima di Berlusconi, sa tutto sul suo harem. Se ora parlasse.

26 maggio 2011. MADUNINA CHE BOTTA! Milano gli volta le spalle, Bossi è una mina vagante, il PDL spaccato già pensa al dopo. Stavolta Berlusconi ha perso davvero. Analisi di una disfatta. Che, Moratti o non Moratti, peserà anche sul governo.

21 giugno 2011. Esclusivo. VOI QUORUM IO PAPI. Domenica 12 giugno l’Italia cambia, lui no. Domenica 12 giugno l’Italia corre a votare, lui a villa Certosa a occuparsi d’altro. In queste foto, la wonderland del cavaliere. Lontana anni luce dal paese reale.

7 luglio 2011. Sprechi di Stato. IO VOLO BLU MA PAGHI TU. Il governo brucia centinaia di milioni per i suoi viaggi. E Berlusconi si regala due super elicotteri. A spese nostre.

21 luglio 2011. MISTER CRACK. La tempesta economica. La borsa in bilico. La paura del default. E un premier sempre isolato. Il varo della manovra è solo una tregua. Prima della resa dei conti. E spunta l’ipotesi di un governo guidato da Mario Monti.

25 agosto 2011. LACRIME E SANGUE. Diceva: meno tasse per tutti. Ma la pressione fiscale non è mai stata così alta. Chiamava Dracula gli altri. Ma ora è lui a mordere i soliti. Processo all’iniqua manovra d’agosto. Che ci cambia la vita e non tocca gli evasori.

15 settembre 2011. E SILVIO SI TAGLIO’ 300 MILIONI DI TASSE. Il Premier impone il rigore agli italiani. Ma gli atti sulla P3 svelano le trame per evitare la causa fiscale sulla Mondadori. Dal presidente della Cassazione al sottosegretario Caliendo, ecco chi si è mosso per salvarlo dalla maximulta.

29 settembre 2011. SERIE B.

13 ottobre 2011. SQUALIFICATO. Condannato dalla Chiesa, mollato dagli imprenditori, bocciato dalle agenzie di rating. E’ l’agonia di un leader né serio né credibile che non si decide a lasciare. Denuncia Romano Prodi a “L’Espresso”: Qualsiasi governo sarebbe meglio del suo.

17 novembre 2011. THE END. Berlusconi tenterà di sopravvivere, ma ha dovuto prendere atto della fine del suo governo. Intanto la crisi economica si fa sempre più drammatica e la credibilità dell’Italia è ridotta a zero. Non c’è più tempo da perdere.

19 gennaio 2012. I GATTOPARDI. Crescita, liberalizzazioni, lotta all’evasione e alla casta…Monti è atteso alla prova più dura. Ma i partiti frenano. Come se avessero voluto cambiare tutto per non cambiare niente.

5 luglio 2012. RIECCOLO. Attacco euro e Merkel. Destabilizza il governo Monti. Blocca la Rai. E rivendica la leadership del suo partito. Così Berlusconi prova ancora una volta a farsi largo.

14 febbraio 2013. VI AFFONDO IO. Pur di risalire al china Silvio Berlusconi sfascia tutto accende la campagna elettorale con promesse da marinaio e terrorizza i mercati. Davvero può farcela? Chi lo fermerà? E come dovrebbe reagire il PD? L’Espresso lo ha chiesto a due guru.

19 settembre 2013. BOIA CHI MOLLA. Accettare il silenzio la decadenza o l’interdizione. O fare un passo indietro prima del voto. Berlusconi ha pronta una via d’uscita. Per restare il capo della destra.

29 novembre 2013. EXTRA PARLAMENTARE. Per Berlusconi si chiude un ventennio e comincia lo scontro finale: fuori dal Senato e in piazza, dalle larghe intese all’opposizione dura. Contro il governo, contro Napolitano, contro l’Europa…..

1977: quell'articolo premonitore di Camilla Cederna su Silvio Berlusconi. Uno splendido pezzo di una grande firma de "L'Espresso". Che aveva già capito tutto dell'ex Cavaliere, agli albori della sua ascesa. Il 9 maggio 2014 Silvio Berlusconi ha cominciato a scontare la pena per frode fiscale con il “servizio sociale” per gli anziani della Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Ma continua a dominare le tribune elettorali, convinto di un destino da «padre della patria» e dei risultati di Forza Italia. Inarrestabile, come è sempre stato. Ecco gli albori della sua ascesa descritti da Camilla Cederna sul numero de “l’Espresso” del 10 aprile 1977: un articolo in cui del personaggio si capiva già tutto e pubblicato proprio dal “L’Espresso” il 12 maggio 2014. In un ambiente di lusso, saloni uno via l’altro, prati di moquette, sculture che si muovono, pelle, mogano e palissandro, continua a parlare un uomo non tanto alto, con un faccino tondo da bambino coi baffi, nemmeno una ruga, e un nasetto da bambola. Completo da grande sarto, leggero profumo maschio al limone. Mentre il suo aspetto curato, i suoi modini gentili, la sua continua esplosione di idee piacerebbero a un organizzatore di festini e congressi, il suo nome sarebbe piaciuto molto a C.E. Gadda. Si chiama infatti Silvio Berlusconi. Un milanese che vale miliardi, costruttore di smisurati centri residenziali, ora proprietario della stupenda villa di Arcore dove vissero Gabrio Casati e Teresa Confalonieri (con collezione di pittori lombardi del ’500, e mai nessun nudo per non offendere la moglie, religiosissima), quindi della villa ex Borletti ai margini del parco di Milano. Allergico alle fotografie («magari anche per via dei rapimenti», spiega con un sorriso ironico solo a metà) è soddisfattissimo che nessuno lo riconosca né a Milano né in quella sua gemma che considera Milano 2. Siccome è la sua prima intervista, è felice di raccontarmi la sua vita felice. Media borghesia, il papà direttore di banca che, a liceo finito, non gli dà più la mancia settimanale; ma lui non si dispera, perché, mentre studia legge, lavora in vari modi: suonando Gershwin o cantando le canzoni francesi alle feste studentesche. Non solo, ma fra un trenta e lode e l’altro, fa il venditore di elettrodomestici, e la sua strada è in salita: da venditore a venditore capo a direttore commerciale. Dopo la sua tesi di laurea sulla pubblicità (il massimo dei voti) inizia la sua vera attività entrando successivamente in due importanti imprese di costruzione. A venticinque anni crea un complesso di case intorno a piazza Piemonte, ecco quindi la fortunatissima operazione di Brugherio, una lottizzazione destinata al ceto medio basso, mille appartamenti che van via subito; e preso dal piacere di raccontare, ogni tanto va nel difficile, dice “congesto”, macrourbanistica, architettura corale, la connotazione del mio carattere è la positività, “natura non facit saltus”. Il suo sogno sarebbe esser ricercato in tutto il mondo per fare città, e “chiamiamo il Berlusconi” dovrebbe essere l’invocazione di terre desiderose di espandersi. Di Milano 2, l’enorme quartiere residenziale nel Comune di Segrate, parla come di una donna che ama, completa com’è di ogni bellezza e comfort, e centomila abitanti, che a dir che sono soddisfatti è dir poco. Lui legge tutte le novità di architettura e urbanistica, qualche best-seller ogni tanto, rilegge spesso “L’utopia” di Tommaso Moro, sul quale vorrebbe scrivere un saggio. Si ritiene l’antitesi del palazzinaro, si ritiene un progressista, è cattolico e praticante, ha votato Dc; e «se l’urbanistica è quella che si contratta fra costruttori e potere politico, la mia allora non è urbanistica». Grazie, e vediamo cosa dicono gli altri di lui. Lo considerano uno dei maggiori speculatori edilizi del nostro tempo che, valendosi di grosse protezioni vaticane e bancarie, vende le case e prende i soldi prima ancora di costruirle, lucrando in proprio miliardi di interessi. Si lega prima con la base dc (Marcora e Bassetti), poi col centro, così che il segretario provinciale Mazzotta è il suo uomo. Altro suo punto di riferimento è il Psi, cioè Craxi, che vuoi dire Tognoli, cioè il sindaco. E qui viene contraddetta la sua avversione verso l’urbanistica come compromesso tra politici e costruttori. La società di Berlusconi è la Edilnord, fondata nel ’63 da lui e da Renzo Rezzonico, direttore di una società finanziaria con base a Lugano, liquidata nel ’71 per segrete ragioni. Viene fondata allora la Edilnord centri residenziali con le stesse condizioni della compagnia di prima: lo stesso capitale sociale (circa 10 mila dollari), la stessa banca svizzera che fa i prestiti (la International Bank di Zurigo), ed ecco Berlusconi procuratore generale per l’Italia. Nel ’71 il consiglio dei Lavori Pubblici dichiara ufficialmente residenziale la terra di Berlusconi (comprata per 500 lire al metro quadralo nel ’63 e venduta all’Edilnord per 4.250). Da Segrate (amministrazione di sinistra prima, poi socialista e dc) vengono concesse all’Edilnord licenze edilizie in cambio di sostanziose somme di danaro. Umberto Dragone, allora capo del gruppo socialista nel consiglio di Milano, pensa che l’Edilnord abbia pagato ai partiti coinvolti il 5-10 per cento dei profitti (18-19 miliardi) che si aspettava da Milano 2. (Qualche appartamento arredato pare sia stato dato gratis ad assessori e tecnici dc e socialisti. Certo è che questo regalo lo ha avuto un tecnico socialista che vive lì con una fotomodella). «II silenzio non ha prezzo, ecco il paradiso del silenzio », era scritto sulla pubblicità di questa residenza per alta e media borghesia. Ma il silenzio da principio non c’era. L’aeroporto di Linate è lì a un passo, ogni 90 secondi decollava un aereo, intollerabili le onde sonore, superiori a 100 decibel. Così l’Edilnord si muove a Roma, manovrando i ministeri, per ottenere il cambio delle rotte degli aerei. Approfittando della vicinanza di un ospedale, il San Raffaele, diretto da un prete trafficone e sospeso a divinis, don Luigi Maria Verzé, manda ai vari ministeri una piantina in cui la sua Milano 2 risulta zona ospedaliera e la cartina falsa verrà distribuita ai piloti (con su la croce, simbolo internazionale della zona di rispetto), così le rotte vengono cambiate spostando l’odioso inquinamento da rumore da Milano 2 alla sezione nord-est di Segrate che per anni protesterà invano: e il prezzo degli appartamenti viene subito triplicato. Altre notizie. Berlusconi sta mettendo in cantiere la sua nuova Milano 3 nel Comune di Basiglio a sud della città, con appartamenti di tipo “flessibile”, cioè con pareti che si spostano secondo le esigenze familiari. In settembre comincerà a trasmettere dal grattacielo Pirelli la sua Telemilano, una televisione locale con dibattiti sui problemi della città, un’ora al giorno offerta ai giornali (egli possiede il 15 per cento del “Giornale” di Montanelli). «Troppi sono oggi i fattori ansiogeni», dice, «la mia sarà una tv ottimista». Staff di otto redattori, più tecnici e cameramen, quaranta persone in tutto. E pare che in questo suo progetto sia stato aiutato dall’amico Vittorino Colombo, ministro delle Poste e della Tv. Berlusconi aveva anche pensato di fondare un circolo di cultura diretto da Roberto Gervaso; la sua idea preferita però era quella di creare un movimento interpartitico puntato sui giovani emergenti, ma per adesso vi ha soprasseduto. Gli sarebbe piaciuto anche diventare presidente del Milan, ma la paura della pubblicità lo ha trattenuto. Massima sua aspirazione sarebbe infine quella di candidarsi al Parlamento europeo. Ci tiene anche a coltivare al meglio la sua figura di padre, cercando di avere frequenti contatti coi suoi figlioletti. Quel che deplora è che dalle elementari di adesso sia stato esiliato il nozionismo: a lui le nozioni, in qualsiasi campo, hanno giovato moltissimo. Camilla Cederna.

1977: Berlusconi e la pistola. Il fotografo Alberto Roveri decide di trasferire il suo archivio in formato digitale. E riscopre così i ritratti del primo servizio sul Cavaliere. Immagini inedite che raccontano l'anno in cui è nato il suo progetto mediatico. Con al fianco Dell'Utri. E un revolver sul tavolo per difendersi dai rapimenti, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Formidabile quell'anno. È il 1977 quando il Dottore, come l'hanno continuato a chiamare i suoi collaboratori più intimi, diventa per tutti gli italiani il Cavaliere: il cavaliere del Lavoro Silvio Berlusconi. L'onorificenza viene concessa dal presidente Giovanni Leone all'imprenditore quarantenne che ha tirato su una città satellite, sta comprando la maggioranza del "Giornale" di Indro Montanelli e promette di rompere il monopolio della tv di Stato. È l'anno in cui il neocavaliere stabilisce rapporti fin troppo cordiali con il vertice del "Corriere della Sera" e in un'intervista a Mario Pirani di "Repubblica" annuncia di volere schierare la sua televisione al fianco dei politici anticomunisti. Fino ad allora lo conoscevano in pochi e soltanto in Lombardia: era il costruttore che aveva inventato Milano Due, la prima new town che magnificava lusso, verde e protezione a prova di criminalità. Il segno di quanto in quella stagione di terrorismo e rapine, ma soprattutto di sequestri di persona, la sicurezza fosse il bene più prezioso. E lui, nella prima di queste foto riscoperte dopo trentatre anni, si mostra come un uomo d'affari che sa difendersi: in evidenza sulla scrivania c'è un revolver. Un'immagine che riporta a film popolari in quel periodo di piombo, dai polizieschi all'italiana sui cittadini che si fanno giustizia da soli agli esordi pistoleri di Clint Eastwood. "Con una Magnum ci si sente felici", garantiva l'ispettore Callaghan e anche il Cavaliere si era adeguato, infilando nella fondina una piccola e potente 357 Magnum. È stato proprio quel revolver a colpire oggi il fotografo Alberto Roveri mentre trasferiva la sua collezione di pellicole in un archivio digitale: "Le stavo ingrandendo per ripulirle dalle imperfezioni quando è spuntata quell'arma che avevo dimenticato". Come in "Blow Up" di Antonioni, a forza di ingrandire il negativo appare la pistola: "All'epoca quello scatto preso da lontano non mi era piaciuto e l'avevo scartato". Roveri era un fotoreporter di strada, che nel 1983 venne assunto dalla Mondadori e negli anni Settanta lavorava anche per "Prima Comunicazione", la rivista specializzata sul mondo dei media: "Quando nel 1977 il direttore mi disse che dovevo fare un servizio su Berlusconi, replicai: "E chi è?". Lui rispose: "Sta per comprare il "Giornale" e aprire una tv. Vedrai che se ne parlerà a lungo"". Quella che Roveri realizza è forse la prima serie di ritratti ufficiali, a cui il giovane costruttore volle affidare la sua immagine di vincente. L'incontro avvenne negli uffici Edilnord: "Fu di una cordialità unica, ordinò di non disturbarlo e si mise in posa. Con mio stupore, rifiutò persino una telefonata del sindaco Tognoli". Il solo a cui permise di interromperlo fu Marcello Dell'Utri, immortalato in un altro scatto inedito che evidenzia il look comune: colletti inamidati e bianchi, gemelli ai polsini, pettinature simili. Sono una coppia in sintonia, insieme hanno creato una città dal nulla, con un intreccio di fondi che alimentano sospetti e inchieste. Una coppia che solo pochi mesi dopo si dividerà, perché Dell'Utri seguirà un magnate molto meno fortunato: Filippo Alberto Rapisarda, in familiarità con Vito Ciancimino. Tornerà indietro nel 1982, organizzando prima il colosso degli spot, Publitalia, e poi quello della politica, Forza Italia. La loro storia era cominciata nel 1974, trasformandosi da rapporto professionale in amicizia. Dell'Utri è anche l'amministratore di Villa San Martino, la residenza di Arcore. E dopo pochi mesi vi accoglie uno stalliere conosciuto a Palermo che fa ancora discutere: Vittorio Mangano, poi arrestato come assassino di Cosa nostra. Una presenza inquietante, che per la Procura di Palermo suggella le intese economiche con la mafia in cambio di tutela contro i sequestri. Nel 1977 però Mangano è già tornato in Sicilia. E Berlusconi tanto sereno non doveva sentirsi, come testimonia il revolver nella fondina. Ricorda il fotografo Roveri: "Dopo più di due ore di scatti mi invitò a pranzo ma prima di uscire tirò fuori da un cassetto due pistole, una per sé e una per l'autista. Di fronte alla mia sorpresa, si giustificò: "Ha idea di quanti industriali vengono rapiti?". Poi siamo saliti su una Mercedes che lui definì "blindatissima" per raggiungere un ristorante a soli 200 metri da lì". Sì, quelli in Lombardia erano anni cupi, prima che, grazie anche a Canale 5, alla nebbia di paura si sostituisse il mito luccicante della Milano da bere. Dall'archivio di Roveri ricompare il momento della svolta, quando si cominciano a materializzare i pilastri dell'impero del Biscione tra partiti, media e relazioni molto particolari. È la festa del 1978 che trasforma il Cavaliere in Sua Emittenza, con l'esordio di Telemilano nelle trasmissioni via etere. La politica ha il volto di Carlo Tognoli, sindaco socialista che per un decennio guida la metropoli mentre passa dagli scontri di piazza al jet set danzante della moda. Un personaggio defilato rispetto alla statura del grande sponsor di Berlusconi, quel Bettino Craxi che ne ha sorretto la crescita con decreti su misura, ricevendo in cambio spot e finanziamenti. Li univa la stessa cultura del fare che dà scarso peso alle regole, la stessa visione di una politica sempre più spettacolo, fino a plasmare la società italiana di oggi. In questa metamorfosi tutta televisiva la carta stampata ha avuto un ruolo secondario. All'epoca però l'attenzione era ancora concentrata sul "Corriere della Sera", la voce della borghesia lombarda. In questi scatti il direttore Franco Di Bella ammira soddisfatto il giovane Silvio. Rapporti letti in un'ottica molto più ambigua dopo la scoperta della P2: negli elenchi di Licio Gelli c'erano Di Bella, il direttore generale della Rizzoli Bruno Tassan Din e l'editore Angelo Rizzoli. E c'era pure il nome di Berlusconi, data di affiliazione gennaio 1978, anche se lui ha sempre negato l'iscrizione alla loggia delle trame. Sin da allora le smentite a qualunque costo sono un vizio del Cavaliere a cui gli italiani si sono abituati. Come i divorzi, che segnano la sua carriera professionale, quella politica e la vita privata. Nelle foto del party al fianco di Silvio c'è Mike Bongiorno, il testimonial della sua ascesa mediatica. Resteranno insieme tra alti e bassi fino al 2009: un altro legame chiuso con una rottura burrascosa. E c'è anche Carla Dall'Oglio che si offre ai flash sorridente, afferrando per il braccio un marito dall'aria distaccata. Lei ha 37 anni e da dodici è la signora Berlusconi: poco dopo, nel 1980, quella scena di ostentata felicità sarà spazzata via dal colpo di fulmine per Veronica Lario. Il divorzio è arrivato nel 1985, consolidato da una manciata di miliardi e da una decina di immobili: da allora Carla Dall'Oglio è scomparsa dalla ribalta, dove però sono sempre più protagonisti i suoi figli Marina e Piersilvio, i nuovi Berlusconi.

Contro Berlusconi la sinistra contrappone i suoi miti.

San Berlinguer martire e apostolo. È in atto la costruzione di un Mito, l'invenzione di un Grande. Serve a nobilitare il comunismo passato. A deprecare il presente renziano, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. San Berlinguer, il Terzo Santo. Dopo i film, i libri, gli inserti, ora un largo Berlinguer al centro di Roma e la canonizzazione proclamata da Napolitano in un libro-intervista, Quando c'era Berlinguer, curato da Veltroni. È in atto la costruzione di un Mito, l'invenzione di un Grande. A cosa serve? A nobilitare il comunismo passato. A deprecare il presente renziano. A rianimare un partito spaesato. A cercare nel vintage un titolo di nobiltà. A rifarsi le labbra col silicone moralista. A lanciare qualcuno per il Quirinale. Berlinguer non aveva la statura di Togliatti e, quanto a svolte, fu più ardito Occhetto, seppur col favore dei muri crollati. Berlinguer era modesto, per lunghi anni allineato anche ai più sordidi eventi, mestamente comunista, non lasciò tracce importanti, si oppose alla socialdemocrazia e la storia gli dette torto, considerò il Partito come l'Assoluto. Fu una persona onesta, per bene, ma basta la sua decorosa mediocrità per farne un santo con relativa agiografia? In realtà, tramite la copiosa apologetica su di lui, si vuol celebrare il popolo di sinistra. Berlinguer è un pretesto narrativo per santificare gli eredi. L'industria del santino che abbina il leader del Pci a Papa Francesco (Scalfari dixit) è all'opera. Rischiamo un pantheon di fuffa, tra finti eroi e finti geni, finti grand'uomini e palloni gonfiati, sfornati dalla Ditta Tarocco che produce falsi d'autore. Il P.C. oggi si traduce con Politically Correct. Finite le sciagurate illusioni, la sinistra passò all'illusionismo.

Perché Berlinguer sì e Togliatti no!

Lo stalinista Togliatti che non disse mai: "Compagni, ci siamo sbagliati". Il segretario del Pci appoggiò l’eliminazione politica e fisica di molti comunisti dissidenti. Non per paura di Mosca ma per "coerenza" ideologica, scrive Piero Ostellino su “Il Giornale”. Molti anni fa, in un libro diventato famoso (Togliatti 1937, Rizzoli 1964) Renato Mieli si chiedeva perché anche i comunisti italiani - dopo le rivelazioni di Kruscev sui crimini di Stalin - non sentissero la necessità di «stabilire la verità sulla fine di quei dirigenti comunisti europei che scomparvero nell'Unione Sovietica durante quel periodo». Commentava Mieli: «Il silenzio dei comunisti europei su questo doloroso passato è veramente sconcertante». Ma, scomparso Togliatti, l'ultimo dei grandi superstiti del Comintern e anche l'unico che avrebbe potuto parlare e rifiutò di farlo, la verità resta sepolta sotto la pesante coltre delle complicità e dell'omertà. «Il tempo - scriveva allora Mieli - cancellerà le tracce e gli uomini dimenticheranno ciò che è stato. È questo che si vuole? Un delitto perfetto insomma». Palmiro Togliatti era, nel 1937, col bulgaro Dimitrov, il finlandese Kuusinen e il sovietico Manuilski, uno dei membri della segreteria del Comintern. Furono loro ad avallare lo sterminio di tutti i dirigenti del partito comunista polacco (con l'eccezione di Gomulka) a opera della polizia staliniana con una sentenza di condanna politica. Quali fossero le ragioni che potevano aver indotto Stalin a liberarsi del partito comunista polacco appare evidente dal particolare momento in cui si svolsero quegli avvenimenti. Mosca stava per accordarsi con Hitler attraverso il Patto del 1939 che avrebbe portato alla spartizione della Polonia e allo scoppio della guerra. Il Pc polacco rappresentava un ostacolo a tale spartizione e perciò Stalin lo eliminò per spianarsi la strada all'eliminazione della stessa Polonia come Stato indipendente. A spiegare l'atteggiamento dei dirigenti del Comintern c'è invece una sola ragione, e cioè, come scrive Mieli, «la loro fedeltà al comunismo e quindi la loro totale sottomissione al tiranno e la conseguente loro impotenza ad opporsi». Ma avrebbero potuto Togliatti e i suoi compagni opporsi a Stalin? Lo stesso Mieli riconosce che «c'era poco da scegliere in quelle condizioni: o si collaborava con il regime o si finiva in galera. Togliatti, come tanti altri, è riuscito a sopravvivere appunto perché non ha scelto la galera». Il clima di terrore instaurato da Stalin in Urss e all'interno del movimento comunista internazionale non è sufficiente, però, a giustificare la remissività e persino la complicità di cui si resero responsabili gli uomini come il segretario del Pci. Alle radici più profonde dei loro comportamenti c'era una ragione sostanziale: che essi erano intimamente stalinisti e che in quel momento essere comunisti e militare nella Terza internazionale equivaleva a essere dalla parte di Stalin e condividerne i metodi. Togliatti non solo approvò ed esaltò, a titolo personale e a nome del suo stesso partito, gli eccidi di Zinoviev e di Kamenev, di Bukharin e di Rykov, del maresciallo Tukacevski e degli altri ufficiali dell'Armata rossa, ma adottò del sanguinario dittatore al servizio del quale si era messo e aveva messo il suo partito anche e soprattutto l'ideologia. Mieli ce ne fornisce intelligentemente un esempio, riferendo dell'atteggiamento tenuto dal segretario del Pci sulla questione polacca anche dopo le rivelazioni di Kruscev al XX congresso del Pcus. Togliatti, da quel momento, non sostenne più, come in precedenza, che la lotta di frazione all'interno del Pc polacco fosse una prova sufficiente a dimostrare che il partito era stato infiltrato dalla polizia di Pilsudski. Ma non smise, solo per questo, di affermare che all'epoca in cui si erano svolti i fatti ciò poteva essere ritenuto verosimile, cioè che il frazionismo bastava da solo a rendere responsabili i dirigenti di quel partito delle colpe di cui li si accusava ingiustamente. «Questo - concludeva Mieli - è esattamente il pensiero di Stalin che fu all'origine del periodo del terrore». In altre parole il segretario del Pci, pur riconoscendo di essere stato indotto in errore dalla falsa teoria staliniana sull'inasprimento della lotta di classe e dalle prove fornite dalla polizia sovietica, non ammise mai di essere stato egli stesso uno degli artefici della condanna politica del Pc polacco che giustificò l'annientamento fisico dei suoi dirigenti. E soprattutto non riconobbe mai di non aver neppure cercato di appurare se le accuse a loro carico fossero false, in base all'assunzione che le motivazioni di Stalin erano «in sé» sufficienti a giustificare il comportamento di un buon comunista in quella circostanza. «Che questa scelta fosse coerente con l'ideologia originaria - scriveva Mieli - è ovvio. Ma come si coniuga al presente, tenendo conto della pretesa del Pci di essere considerato come democratico? Come può un partito sedicente democratico riconoscersi in un passato che è una negazione brutale della democrazia?» Scriveva Mieli che, per i comunisti, «non si tratta di processare questo o quel dirigente di altri tempi, bensì di condannare il sistema che essi tentarono di instaurare, in ossequio a una ideologia totalitaria, che non sembra del tutto scomparsa nelle loro file». In altre parole, il Pci avrebbe dovuto riprendere il grido disperato a suo tempo inascoltato di una delle vittime italiane del terrore staliniano, Emilio Guarnaschelli: «Compagni, ci siamo sbagliati». Ma poteva un'organizzazione di massa, un grande partito come il partito comunista proclamare formalmente il fallimento degli ideali per i quali è nato e si è battuto nel corso di tutta la sua esistenza? Personalmente ne dubito. Del resto, è proprio questa la ragione per la quale le generose sollecitazioni di Mieli al Pci affinché facesse luce sul proprio passato sono cadute nel vuoto: perché ciò che per lui era un imperativo morale, per il Pci era un impedimento politico. I comunisti italiani sono sempre stati inchiodati alla loro storia come a una croce, perché è la parola stessa «comunismo» che la storia ha condannato senza appello. Il fatto poi che molti di loro, presi individualmente, lo sapessero non significa che tale consapevolezza dovesse tradursi in comportamenti politici concreti a livello di coscienza collettiva, cioè di partito. È a quest'ultimo che ieri furono immolate tante vittime innocenti e oggi è sacrificata la ricerca della verità sulla loro tragica sorte. Come membro autorevole del Comintern, Togliatti ne divenne uno dei massimi dirigenti, contribuendo all'eliminazione, politica ma anche fisica, di molti comunisti la cui sola colpa era di non condividere, nei confronti dei propri Paesi, i brutali metodi di Stalin. Ciò non di meno fu, in questo caso, ortodossamente machiavelliano, un grande realista sia escludendo, con la «svolta di Salerno» e l'adesione alla democrazia parlamentare e monarchica ormai nell'orbita degli Usa - che sarebbero intervenuti militarmente in caso di pericolo rivoluzionario - sia in occasione dell'attentato subito, quando raccomandò ai compagni di «non perdere la testa» e di non abbandonarsi a tentativi rivoluzionari, un'avventura impraticabile che avrebbe portato il Partito comunista, del quale era segretario pur non essendo mai stato eletto da un Congresso, alla rovina.

Peccato però che davanti ai soldi, così come al pelo, tutti si arrendono alle tentazioni.

Ci sono giornalisti che forse Tangentopoli la rimpiangono, del resto segnò la loro giovinezza, la travolgente eccitazione di un periodo rivoluzionario, fatto di personaggi straordinari, copie alle stelle, carriere in decollo: vien da pensarlo, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Facciamo due esempi: 1) Il pm di Reggio Calabria voleva contestare a Scajola e agli altri arrestati anche l’aggravante mafiosa, ma il gip l’ha negata perché mancavano prove e anche solo indizi. L’ha confermato lo stesso pm su Libero di sabato, dunque era noto. Bene, ecco l’apertura di prima pagina del Corriere di domenica: «Scajola indagato per mafia»; testo di prima pagina: «La stessa ipotesi di reato sarà contestata a tutte le persone sospettate di aver favorito la latitanza di Amedeo Matacena». Un falso. Una notizia manipolata, nella migliore delle ipotesi. 2) Secondo esempio. Questa è l’apertura di prima pagina del Messaggero di domenica: «Appalto Expo, c’è la ’ndrangheta»; sottotitolo: «I pm di Milano: legami tra gli arrestati e le cosche"; testo di prima pagina: «La cupola di Frigerio, Greganti e Grillo avrebbe avuto legami anche con la ’ndrangheta». Ah sì? E allora perché l’aggravante non è stata neppure contestata? Risposta: perché non importa, l’aggravante mafiosa ormai è come una spezia per insaporire inchieste e resoconti. E poi scrivere, una tantum: uh, torna tangentopoli, magari.

Montanelli stronca Travaglio. In materia di giustizia Montanelli smentisce il capofila dei giornalisti forcaioli anche dall'oltretomba, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Il tintinnio di manette riaccende gli entusiasmi di Marco Travaglio, capofila dei giornalisti forcaioli tanto cari alle procure. Si è autonominato erede unico del pensiero di Indro Montanelli, del quale millanta (sapendo di non poter essere smentito) l'amicizia e la stima. Sarà, ma il vecchio Indro, che non ha mai amato presunti portavoce, lo smentisce anche dall'oltretomba. E che smentita. È contenuta in un articolo scritto su Il Giornale il 13 luglio dell'81. Il giorno prima Spadolini aveva ottenuto la fiducia del suo primo governo ma il Pci annunciava sfaceli perché il neopremier aveva posto con forza la questione della riforma di una giustizia già malata allora. Ecco come commentava l'accaduto Montanelli: «Riduciamo i termini all'osso. Ci sono state, per eccesso di garantismo istruttorie svogliatamente durate anni e concluse con assoluzioni poco meno che scandalose; mentre ci sono le manette per reati che non le comportano obbligatoriamente, seguiti da procedimenti penali che, anche quando si concludono col proscioglimento da ogni accusa, segnano la rovina materiale e morale di chi ne è stato bersaglio». E ancora: «Non è possibile andare avanti con queste invasioni di campo della magistratura che sono arrivate a tal punto da rendere plausibile il sospetto che certi magistrati le pratichino non per ristabilire l'ordine ma per sovvertirlo, scatenando caccia alle streghe e colpendo all'impazzata». Aggiungeva Montanelli: «Questi magistrati sono inamovibili, impunibili, promossi automaticamente, pagati meglio di qualsiasi altro dipendente pubblico, incensati dai giornali di sinistra (cioè dalla maggioranza) e molto spesso malati di protagonismo». E ancora: «I comunisti non possono rinunciare alla magistratura com'è. Essa costituisce la più potente arma di scardinamento e di sfascio di cui il Pci dispone». E chiudeva: «Questa non è la magistratura, è solo il cancro della magistratura. Ma che è già arrivato allo stadio di metastasi». Trent'anni dopo siamo ancora lì. I giornali di sinistra (più Travaglio) a fare da addetti stampa a magistrati eversivi ed esibizionisti, noi de Il Giornale a puntare il dito sul «cancro della magistratura» che sta distruggendo il Paese. E siamo fermi anche nel puntare il dito contro ladri e mascalzoni. Ma contro tutti i mascalzoni (anche se di sinistra, anche se magistrati) e soprattutto se davvero ladri oltre ogni ragionevole dubbio.

Chissà qual è la verità tra tutte quelle propinate dai pennivendoli.

Le strane relazioni del giudice che ha condannato Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. C'è una famiglia di imprenditori di Cassino, in provincia di Frosinone, in guerra con la magistratura da trent'anni. Loro, come spiega Giacomo Amadori su Libero in edicola oggi, sono Vincenzo Gabriele Terenzio, 62 anni, e il figlio Luigi, 41 anni. Sono stati arrestati e processati diverse volte. Tra prescrizioni ed assoluzioni hanno sempre evitato la galera. "Sono vicini alla camorra", dicono i magistrati. I reati? Truffa, evasione fiscale, bancarotta. Ma soprattutto l'accusa di rapporti con la criminalità organizzata. Nel luglio 2013, la Corte d'Appello di Roma ha confermato la confisca dei beni del 2009 e del 2011: un tesoro da circa 150 milioni di euro. Ora si attende la conferma del sequestro da parte della Suprema Corte. Tra i beni confiscati diversi immobili, terreni, imbarcazioni, auto e rapporti bancari. Secondo la Dia, i Terenzio, nel corso degli anni hanno movimentato la bellezza di "76 milioni di euro a fronte di redditi minimi". Il figlio Luigi, il membro più facoltoso, risulta dipendente della società svizzera Az Fashion: stipendio di 10mila euro lordi. Insomma, la storia dei Terenzio è costellata da guai giudiziari, e sulla stessa storia si allunga l'ombra lunga della criminalità organizzata. La famiglia, oggi, si è stabilita sulle rive del lago di Lugano. La Svizzera, dunque, da cui comunque continuano ad intessere la loro rete di rapporti. Ed è proprio spulciando tra le relazioni dei Terenzio che spunta il nome di Claudio D'Isa, 65 anni, di Piano di Sorrento: nel 2013 fece parte della sezione feriale che condannò Silvio Berlusconi nel processo Mediaset (per inciso, D'Isa fu più volte corteggiato dal Pd per candidarsi a sindaco di Sorrento). Claudio D'Isa avrebbe conosciuto i Terenzio tramite il figlio Dario, avvocato e imprenditore. Da quella che era una vicenda giudiziaria nacque un'amicizia, tanto che Luigi Terenzio e Dario D'Isa, dopo la sentenza Mediaset, trascorsero insieme le vacanze estive. Un legame scivoloso, insomma, quello tra la famiglia del giudice D'Isa e una famiglia di pluriinquisiti e arrestati, sospettati di rapporti con la criminalità organizzata. Un rapporto che Claudio D'Isa - intervistato da Libero in edicola oggi - cerca di ridimensionare. Eppure sul nostro quotidiano riportiamo testimonianze che raccontano di un quadro ben differente. Un rapporto difficile da giustificare, per D'Isa, sempre in prima linea contro la criminalità organizzata, tra presentazioni dei libri di Antonio Ingroia a e lezioni nei licei sorrentini. A una di quelle lezioni, nel 2013, attaccò Berlusconi poiché aveva criticato Roberto Saviano. Durante quella lezione, al fianco di Claudio D'Isa, era seduto Antonio Esposito, il presidente di quella sezione feriale di Cassazione che pochi giorni prima aveva condannato Berlusconi. Proprio quell'Esposito finito al centro delle polemiche per aver anticipato le motivazioni della condanna al quotidiano Il Mattino.

Esposito, da Antonio a Vitaliano: una famiglia di toghe tra gaffe e scivoloni, scrive “Libero Quotidiano”. Una famiglia spesso in prima pagina, e non sempre in buona luce. Quella degli Esposito è una storia fatta di toghe, giustizia, scivoloni e gossip. Il più famoso è ormai Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione (nonché alla guida dell'Ispi) che lo scorso agosto condannò Silvio Berlusconi al processo sui diritti tv Mediaset e che, pochi giorni dopo, anticipò le motivazioni di quella sentenza in una improvvida conversazione con un abile cronista del Mattino. Inevitabili il polverone delle polemiche e le accuse di parzialità del collegio giudicante, anche perché un testimone riferì di presunti commenti contro Berlusconi rilasciati in libertà dal giudice durante una cena. Pare probabile che il Csm voglia archiviare il caso senza procedere a sanzioni disciplinari. La figuraccia, in ogni caso, resta, con tanto di richiamo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in quelle caldissime settimane di fine estate 2013, alla "continenza" per chi di mestiere fa il giudice. Le bucce di banana per la Esposito family non finiscono qui: l'ultimo a inciamparci è il figlio di Antonio, Ferdinando Esposito. Pubblico ministero a Milano, risulta indagato a Brescia e a Milano in seguito alle accuse di un suo amico avvocato, che sostiene di avergli prestato soldi e di essere stato "pressato" per pagargli l'affitto di casa. Prima ancora, era finito al centro del gossip per un incontro con Nicole Minetti (sotto processo per il Rubygate) avvenuto in un prestigioso ristorante milanese nel 2012. L'altro ramo della famiglia è altrettanto prestigioso: Vitaliano Esposito, fratello di Antonio, è stato Procuratore generale della Cassazione. Sempre sul finire dello scorso agosto è stato "paparazzato" in spiaggia nel suo stabilimento abituale ad Agropoli, nel Cilento. Piccolo particolare: lo stabilimento era abusivo. Foto imbarazzante, invece, per sua figlia Andreana Esposito, giudice alla Corte europea dei diritti dell'Uomo. Un po' di clamore aveva suscitato lo scatto da lei pubblicato sui social network (e poi cancellato in fretta e furia) in cui esibiva una maglietta decisamente inappropriata per una toga: "Beato chi crede nella giustizia perché verrà... giustiziato", slogan che aveva messo in allarme lo stesso Cavaliere, che di lì a qualche mese si sarebbe rivolto proprio alla Corte europea per vedere ribaltata la sentenza stabilita dallo zio di Andreana. Un corto circuito da barzelletta.

Quando gli attacchi al governo italiano vengono da fuori.

Caso Geithner, ira Berlusconi: “Fu un complotto contro di me”. La ricostruzione dell’ex segretario Usa del Tesoro anticipata da La Stampa: “Funzionari dell’Ue chiesero a Obama di far cadere Silvio”. Brunetta: s’indaghi. Bruxelles: erano gli americani a volere l’Italia sotto tutela. Kerry: io non so nulla, scrive “La Stampa”. La ricostruzione di Timothy Geithner in merito alla caduta di Silvio Berlusconi irrompe nella campagna elettorale. Il leader di Forza Italia è furioso: «Questa è la mia rivincita. La conferma che nel 2011 c’è stato un Colpo di Stato», dice. Mentre i suoi parlamentari chiedono un’inchiesta per fare luce sull’accaduto. Nell’autunno del 2011, quando la drammatica crisi economica aveva portato l’euro ad un passo dal baratro, alcuni funzionari europei avvicinarono il ministro Geithner, proponendo un piano per far cadere il premier italiano Berlusconi. Lui lo rifiutò, come scrive nel suo libro di memorie appena pubblicato “Stress Test”.  La ricostruzione di Geithner, anticipata da La Stampa, fa discutere. Berlusconi si butta in un nuovo tour mediatico (intervista al Corriere.it, al Tg5, e poi al quotidiano il Foglio). È incontenibile: sono stato vittima di un «complotto» e con me «è stata messa in discussione anche la sovranità dell’Italia». Berlusconi non fa trasparire in pubblico tutta la rabbia che ha dentro per quanto trapelato dagli Stati Uniti. Anzi, si affretta a ribadire più e più volte di «non essere per nulla sorpreso » da quanto detto dall’ex ministro dell’economia americano: «Già nel giugno del 2011, quando ancora non era scoppiato l’imbroglio degli spread, il Presidente della Repubblica Napolitano riceveva Monti e Passera, come è stato scritto, per scegliere i tecnici di un nuovo governo tecnico». In privato però la reazione è bene diversa. L’ex premier con i suoi si dice consapevole che questa storia non sposterà un voto, ma chiede comunque ai vertice azzurro di alzare il polverone. Da Forza Italia parte il fuoco di fila con la richiesta di una commissione d’inchiesta parlamentare sui fatti del 2011 ed un chiarimento da parte del governo: «Renzi venga a riferire in Parlamento», dice Renato Brunetta pronto a chiamare in causa anche Giorgio Napolitano: «Gli ho scritto una lettera - fa sapere - proprio per sapere cosa intenda fare». Già perché è proprio il Capo dello Stato che l’ex capo del governo ha sempre chiamato in causa bollandolo come «regista» dell’operazione che portò alle sue dimissioni. Dal Quirinale non trapela nessuna replica, così come dalla Casa Bianca: no comment, è il massimo che fanno sapere dallo staff del presidente americano. Sulle barricate è invece Bruxelles che non ci sta a passare come parte in causa di un complotto: «Erano gli americani a volere l’Italia sotto tutela», è la replica delle fonti europee alle rivelazioni di Geithner. A parlare ufficialmente è il presidente della Commissione Barroso sostenendo che ai tempi del G20 del 2011 «l’Italia era vicinissima all’abisso e alcuni tentarono di metterla sotto la supervisione del Fmi, mente noi siamo stati quasi soli a dire che questo non doveva succedere». Anche la linea del governo italiano è quella di non intervenire sulla questione: «Abbiamo voltato pagina, non è utile tornare su questi eventi», si limita a dire il ministro degli Esteri Federica Mogherini. A palazzo Grazioli però la pensano diversamente, tanto che il Cavaliere coglie ogni occasione per ricordare come sono andati i fatti: «I magistrati che mi hanno perseguitato una vita senza prove li chiamerebbero “riscontri” del colpo di Stato». L’idea però che la vicenda possa avere dei riscontri positivi sui sondaggi non sembra convincere Berlusconi, pronto però a «sfruttare» in termini di voti a Forza Italia la «delusione degli elettori verso Matteo Renzi». L’ex capo del governo non nasconde lo scetticismo per il governo guidato dal leader del Pd tanto, raccontano da Forza Italia, da averne parlato nei giorni scorsi con il Colle. Il leader di Fi è sempre più convinto che le elezioni politiche si avvicinano perché il presidente del Consiglio è sempre più impantanato, anche sul fronte del rilancio dell’economia: Le persone iniziano ad essere stanche degli annunci - è stato il ragionamento fatto a via del Plebiscito - e le riforme non sono certo un tema che Matteo può giocarsi per coprire l’aumento delle tasse. Dagli Usa, invece, il segretario di Stato Usa John Kerry dice (in italiano): «Io non so niente». «Assolutamente è la prima volta che ne sento parlare», ha aggiunto Kerry che aveva accanto a se il ministro degli Esteri Federica Mogherini al termine dell’incontro al dipartimento di Stato a a Washington. Rispondendo alla domanda se avesse letto il libro ha detto: «No , non l’ho letto».  

L’ex ministro Usa: funzionari europei ci proposero di far cadere Silvio. Geithner: ovviamente dissi a Obama che non potevamo starci, scrive Paolo Mastrolilli su “La Stampa”. Nell’autunno del 2011, quando la drammatica crisi economica aveva portato l’euro ad un passo dal baratro, alcuni funzionari europei avvicinarono il ministro del Tesoro americano Geithner, proponendo un piano per far cadere il premier italiano Berlusconi. Lui lo rifiutò, come scrive nel suo libro di memorie appena pubblicato, e puntò invece sull’asse col presidente della Bce Draghi per salvare l’Unione e l’economia globale. «Ad un certo punto, in quell’autunno, alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere; volevano che noi rifiutassimo di sostenere i presti dell’Fmi all’Italia, fino a quando non se ne fosse andato». Geithner, allora segretario al Tesoro Usa, rivela il complotto nel suo saggio «Stress Test», uscito ieri. Una testimonianza diretta dei mesi in cui l’euro rischiò di saltare, ma fu salvato dall’impegno del presidente della Bce Mario Draghi a fare «tutto il necessario», dopo diverse conversazioni riservate con lo stesso Geithner. I ricordi più drammatici cominciano con l’estate del 2010, quando «i mercati stavano scappando dall’Italia e la Spagna, settima e nona economia più grande al mondo». L’ex segretario scrive che aveva consigliato ai colleghi europei di essere prudenti: «Se volevano tenere gli stivali sul collo della Grecia, dovevano anche assicurare i mercati che non avrebbero permesso il default dei paesi e dell’intero sistema bancario». Ma all’epoca Germania e Francia «rimproveravano ancora al nostro West selvaggio la crisi del 2008», e non accettavano i consigli americani di mobilitare più risorse per prevenire il crollo europeo. Nell’estate del 2011 la situazione era peggiorata, però «la cancelliera Merkel insisteva sul fatto che il libretto degli assegni della Germania era chiuso», anche perché «non le piaceva come i ricettori dell’assistenza europea - Spagna, Italia e Grecia - stavano facendo marcia indietro sulle riforme promesse». A settembre Geithner fu invitato all’Ecofin in Polonia, e suggerì l’adozione di un piano come il Talf americano, cioè un muro di protezione finanziato dal governo e soprattutto dalla banca centrale, per impedire insieme il default dei paesi e delle banche. Fu quasi insultato. Gli americani, però, ricevevano spesso richieste per «fare pressioni sulla Merkel affinché fosse meno tirchia, o sugli italiani e spagnoli affinché fossero più responsabili». Così arrivò anche la proposta del piano per far cadere Berlusconi: «Parlammo al presidente Obama di questo invito sorprendente, ma per quanto sarebbe stato utile avere una leadership migliore in Europa, non potevamo coinvolgerci in un complotto come quello. “Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani”, io dissi». A novembre si tenne il G20 a Cannes, dove secondo il Financial Times l’Fmi aveva proposto all’Italia un piano di salvataggio da 80 miliardi, che però fu rifiutato. «Non facemmo progressi sul firewall europeo o le riforme della periferia, ma ebbi colloqui promettenti con Draghi sull’uso di una forza schiacciante». Poco dopo cadde il premier greco Papandreu, Berlusconi fu sostituito da Monti, «un economista che proiettava competenza tecnocratica», e la Spagna elesse Rajoy. A dicembre Draghi annunciò un massiccio programma di finanziamento per le banche, e gli europei iniziarono a dichiarare che la crisi era finita: «Io non la pensavo così». Infatti nel giugno del 2012 il continente era di nuovo in fiamme, perché i suoi leader non erano riusciti a convincere i mercati. «Io avevo una lunga storia di un buon rapporto con Draghi, e continuavo ad incoraggiarlo ad usare il potere della Bce per alleggerire i rischi. “Temo che l’Europa e il mondo guarderanno ancora a te per un’altra dose di forza bancaria intelligente e creativa”, gli scrissi a giugno. Draghi sapeva che doveva fare di più, ma aveva bisogno del supporto dei tedeschi, e i rappresentanti della Bundesbank lo combattevano. Quel luglio, io e lui avemmo molte conversazioni. Gli dissi che non esisteva un piano capace di funzionare, che potesse ricevere il supporto della Bundesbank. Doveva decidere se era disponibile a consentire il collasso del’Europa. “Li devi mollare”, gli dissi». Così, il 26 luglio, arrivò l’impegno di Draghi a fare «whatever it takes» per salvare l’euro. «Lui non aveva pianificato di dirlo», non aveva un piano pronto e non aveva consultato la Merkel. A settembre, però, Angela appoggiò il «Draghi Put», cioè il programma per sostenere i bond europei, che evitò il collasso. 

Usa, l'ex ministro del Tesoro: "Nel 2011 complotto contro il Cav". Le rivelazioni choc di Geithner, ex ministro del Tesoro Usa, nel saggio Stress test: "Alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per costringere Berlusconi a cedere il potere". Ma a Obama disse: "Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani", scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. Al G20 del 2011 funzionari europei chiesero agli Stati Uniti di aderire a un "complotto" per far cadere l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Nel memoir Stress test, anticipato oggi dalla Stampa e dal Daily Beast, Timothy Geithner, ex ministro del Tesoro americano, aggiunge nuovi, inquietanti tasselli al golpe ordito contro il Cavaliere per cacciarlo da Palazzo Chigi e mettere al suo posto Mario Monti, un tecnico scelto ad hoc per far passare le misure lacrime e sangue imposte da Bruxelles e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. "Ma a Obama dissi: 'Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani'", racconta ancora Geithner nel volume che ripercorre la disastrosa situazione finanziaria che spinse quei funzionari a progettare il "complotto". Le prime indiscrezioni su un golpe ai danni di Berlusconi sono state appena sussurrate. E, inevitabilmente, i media progressisti hanno fatto a gara per distruggerle. Oggi, invece, Geithner spazza via qualunque dubbio sul drammatico piano che il 12 novembre del 2011, con lo spread tra i Btp decennali e i Bund tedeschi artificiosamente pompato sopra i 470 punti, Berlusconi si dimise dopo l'approvazione della legge della stabilità alla Camera. Ebbene, dietro a quelle dimissioni c'è un vero e proprio piano ordito a Bruxelles per far cadere un governo eletto democraticamente e piazzarne uno tecnico e asservito ai diktat dell'Unione europea. "Ad un certo punto, in quell'autunno, alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere - svela oggi Geithner - volevano che noi rifiutassimo di sostenere i prestiti dell’Fmi all’Italia, fino a quando non se ne fosse andato". Dal 26 gennaio 2009 al 28 febbraio 2013 Timothy Geithner ricopre, infatti, l'incarico di segretario al Tesoro degli Stati Uniti durante il primo governo presieduto da Barack Obama. L'obiettivo degli innominati "funzionari europei" è quello di accerchiare Berlusconi, anche attraverso i ricatti del Fondo monetario internazionale, pur di farlo uscire di scena. Il golpe non viene organizzato su due piedi, ma iniziò a essere tessuto nell'estate del 2010, quando "i mercati stavano scappando dall'Italia e la Spagna, settima e nona economia più grande al mondo". Nel saggio Stress test Geithner scrive di aver consigliato più volte ai colleghi europei di essere prudenti: "Se volevano tenere gli stivali sul collo della Grecia, dovevano anche assicurare i mercati che non avrebbero permesso il default dei paesi e dell’intero sistema bancario". Ma all’epoca Germania e Francia "rimproveravano ancora al nostro West selvaggio la crisi del 2008" e rifiutavano i consigli del Tesoro statunitense che chiedeva di mobilitare più risorse per prevenire il crollo economico del Vecchio Continente. Nell’estate del 2011 la situazione precipita. "La cancelliera Angela Merkel insisteva sul fatto che il libretto degli assegni della Germania era chiuso - racconta l'ex segretario del Tesoro - non le piaceva come i paesi che ricevevano assistenza europea (Spagna, Italia e Grecia) stavano facendo marcia indietro sulle riforme promesse". Quando a settembre Geithner arriva in Polonia per partecipare all'Ecofin, propone ai Paesi dell'Eurozona di adottare un piano simile al Term asset-backed securities loan facility (Talf), il muro di protezione creato dalla Federal reserve e finanziato dal governo e soprattutto dalla banca centrale per impedire insieme il default dei Paesi e delle banche. Viene quasi insultato. "Gli americani, però - continua Geithner - ricevevano spesso richieste per fare pressioni sulla Merkel affinchè fosse meno tirchia, o sugli italiani e spagnoli affinchè fossero più responsabili". È proprio in questo quadro inquietante di supponenza tedesca e incompetenza europea che arrivano le prime pressioni per cambiare il governo italiano. A G20 di Cannes lo stesso governatore della Bce, Mario Draghi, gli promette "l'uso di una forza schiacciante". "Parlammo al presidente Obama di questo invito sorprendente - racconta Geithner - ma per quanto sarebbe stato utile avere una leadership migliore in Europa, non potevamo coinvolgerci in un complotto come quello". Nonostante il niet degli Stati Uniti, i "funzionari europei" riescono nell'intento: nel giro di poche settimane si dimette il premier greco George Papandreou, Berlusconi viene sostituito con Monti ("un economista che proiettava competenza tecnocratica") e in Spagna viene eletto Mariano Rajoy. A dicembre la Bce approva il piano per finanziare per le banche. Piano che viene accolto con euforia da Bruxelles che si fionda a dichiarare che l'Europa è uscita dal tunnel della crisi. "Io non la pensavo così", sottolinea l'ex segretario del Tesoro. E, infatti, nel giugno del 2012 la minaccia del default tornerà a mettere in ginocchio i mercati del Vecchio Continente.

Gli Stati Uniti: "Funzionari Ue ci chiesero di far cadere Silvio Berlusconi", scrive “Libero Quotidiano”. Non solo Monti. Non solo Napolitano. Non solo Prodi. Anche a Barack Obama fu chiesto da alcuni funzionari europei di prendere al complotto per far cadere Silvio Berlusconi. A fare pressioni sul presidente Usa furono alcuni funzionari europei, che proposero ad Obama un piano per far crollare l'esecutivo, nell'infuocato 2011. Gli Stati Uniti, però, si sottrassero al complotto: "Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani". La fonte di tali rivelazioni? Niente meno che l'ex ministro del Tesoro, Timothy Geithner, che spiega quanto accaduto in un libro di memorie uscito lunedì, Stress Test, e anticipata dalla stampa. Dopo il il libro-rivelazione di Alan Friedman, Ammazziamo il gattopardo, che svelava le indebite e (troppo) preventive pressioni di Giorgio Napolitano su Mario Monti, ecco un nuovo pamphlet destinato a fare molto rumore politico. Geithner, uno degli uomini più potenti degli States, scrive: "Ad un certo punto in quell'autunno, alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere; volevano che noi rifiutassimo di sostenere i prestiti del Fmi all'Italia, fino a quando non se ne fosse andato". L'ennesima prova al fatto che l'Europa berlinocentrica voleva far fuori lo Stivale e il suo presidente del Consiglio. Geithener si riferisce ai mesi più difficili per l'Italia, alle prese con le bizze dello spread, nell'autunno 2011. In particolare le richieste agli Stati Uniti furono avanzate già a settembre 2011, prima che lo spread raggiungesse i massimi, quando in Polonia all'Ecofin ricevette richieste per "fare pressioni sulla Merkel affinché fosse meno tirchia, o sugli italiani e gli spagnoli affinché fossero più responsabili". Contestualmente, come detto, arriva anche la proposta di far cadere Berlusconi. Ma Geighner precisa che, per quanto gli Usa avrebbero preferito un altro leader, gli Stati Uniti preferirono evitare il complotto.

Angela Merkel pianse con Barack Obama: "Obbedisco alla Bundesbank", scrive Martino Cervo su “Libero Quotidiano”. Sul Financial Times è apparso uno degli articoli di giornale più appassionanti degli ultimi anni. L’intero testo si trova all’indirizzo goo.gl/p11UOo (necessaria una registrazione gratuita). È un lunghissimo retroscena sulla notte dell’euro, a firma Peter Spiegel, che della testata è corrispondente da Bruxelles. Un romanzo breve (5 mila parole), primo di una serie che il quotidiano dedica alla ricostruzione delle giornate che cambiarono per sempre l’Europa. L’interesse per il lettore italiano è doppio: il nostro Paese è, nel novembre 2011, lo spartiacque per la sopravvivenza dell’euro, e manca una ricostruzione non strumentale di cosa accadde in ore che costarono la caduta di due governi (Papandreou e Berlusconi), sotto il rischio concreto di una catastrofe finanziaria. Il racconto si apre con una scena difficile da immaginare: Angela Merkel è in una stanza di hotel con Obama, Barroso, Sarkozy, e piange. «Non è giusto», stritola tra i denti con le lacrime agli occhi, «Io non mi posso suicidare». Perché la signora d’Europa è ridotta così? Libero riassume l’articolo di Spiegel per i suoi lettori. Siamo, come detto, a inizio novembre 2011. L’estate si è conclusa avvolta dalle fiamme dello spread. La Grecia è sul filo della permanenza nell’euro. L’Italia è la prossima preda di chi scommette sull’implosione della moneta unica, lo spread vola a quota 500, il governo traballa sulle pencolanti stampelle dei «responsabili», Merkel e Sarko hanno appena sghignazzato in mondovisione alla domanda sull’affidabilità di Berlusconi. Il G20 di Cannes del 3-4 novembre diventa un appuntamento carico di tensione. Il premier greco Papandreou ha annunciato un referendum sull’uscita dall’euro. L’eventualità manda letteralmente nel panico soprattutto i paesi creditori. A 48 ore dall’inizio del vertice Sarkozy raduna tutti i protagonisti del redde rationem: il premier greco, la Merkel, il capo dell’eurogruppo Juncker (oggi candidato del Ppe alla guida della Commissione Ue), il capo del Fondo monetario Christine Lagarde, i capi dell’Unione José Barroso e Herman van Rompuy. Il dramma greco è affiancato a quello italiano. Roma, rispetto ad Atene, è «too big to bail». La Lagarde è durissima: «L’Italia non ha credibilità». Quel che si fa con la Grecia avrà una ricaduta immediata, ed esponenziale, sul nostro Paese. Con Papandreou c’è Venizelos, ministro delle Finanze. Sarkozy mette spalle al muro il premier ateniese, per evitare il referendum e costringerlo a prendere una decisione lì, sul posto: dentro o fuori. Qui si apre un retroscena nel retroscena: il Ft racconta che Barroso poche ora prima, all’insaputa di Merkel e Sarko (padrone di casa del G20), incontra il capo dell’opposizione greca Samaras, offrendogli sostegno istituzionale a un governo di unità nazionale a patto di abbattere il referendum. Poi inizia il vertice «vero». Senza che i premier sappiano dell’accordo Barroso-Samaras, il capo della Commissione Ue fa il nome di Lucas Papademos, vicepresidente della Bce, come possibile guida di un esecutivo di larghe intese ad Atene. «Dobbiamo ammazzare questo referendum», dice Barroso. Venizelos soppianta il suo premier e cancella il referendum con una dichiarazione ufficiale. Papademos diventerà premier sette giorni più tardi. La Grecia è «sistemata». A questo punto bisogna sollevare una barriera contro l’assedio dei mercati all’euro. La trincea si chiama Italia. Molti delegati sono sconcertati dalla presenza al tavolo di Obama, che in teoria non ha titoli per sedersi a una riunione informale sull’eurozona. Segno di debolezza delle istituzioni comunitarie? Della gravità globale di un possibile tracollo che rischia di far saltare un mercato decisivo per i prodotti Usa? Il nodo cruciale è il ruolo del Fondo monetario. Come più volte raccontato da Giulio Tremonti, l’Italia declina l’offerta di una linea di credito da 80 miliardi di dollari, accettando solo il monitoraggio del Fmi. «I think Silvio is right», dice Obama, buttando sul tavolo una carta nuova, che assegna a Berlino una posizione cruciale. Per aggirare i veti dei trattati che impediscono alla Bce di finanziare direttamente gli Stati, il presidente Usa - in accordo coi francesi, alla faccia del tanto sbandierato asse Merkozy raccontato in quei giorni - propone l’utilizzo del «bazooka» con un’ennesima sigla: SDR. Che sta per «special drawing rights» (diritti speciali di prelievo), un particolare tipo di valuta che il Fmi stesso usa come unità di conto della partecipazione finanziaria dei singoli Stati. Una strategia simile (usare la potenza di fuoco degli SDR contro la crisi) era stata usato nel post-Lehman. Qui si tratterebbe di riversare quelle risorse nel fondo salvaStati europeo in via di formazione. Quel che segue è il miglior esempio possibile per raffigurare il nodo della democrazia ai tempi della crisi, e investe in pieno il tema della famosa «indipendenza» delle Banche centrali. La gestione degli SDR è infatti in capo a queste ultime. E il capo della Bundesbank è Jens Weidmann, custode dell’ortodossia dell’austerity tedesca. Appena si diffonde il piano Obama-Sarko, il «falco» apre le ali e dice «nein» al telefono con i delegati tedeschi: la Germania non paga. La Merkel scoppia in pianto e pronuncia il suo: «Non è giusto, non posso suicidarmi. Non posso decidere io al posto della Bundesbank». Il dramma dell’euro è qui: quattro tra i più potenti governi democraticamente eletti del mondo si fermano davanti al veto (legittimo) di un banchiere. Obama vuole che la Germania alzi la quota degli SDR. La Merkel apre, purché l’Italia accetti di farsi commissariare dal Fondo. Tremonti e Berlusconi non mollano, Angela neppure, a causa di Weidmann. La tensione è totale. La riunione si scioglie con un nulla di fatto, salvo la richiesta al governo di Berlino di provare a smussare la Buba . «Non mi prendo un rischio simile se non ottengo in cambio nulla dall’Italia». Alla conferenza stampa dopo il G8 Berlusconi rivela l’offerta del Fmi e il «no» italiano. Pochi giorni dopo, il governo cade. Al supervertice non è successo nulla. Toccherà a Draghi tenere in piedi l’euro, e (anche) a noi pagare per il fondo salvastati.

Gli attacchi vengono anche dal'interno. L'accordo tra Fini e Napolitano per "eliminare" Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. "Il golpe contro Silvio Berlusconi non è cominciato nell’estate del 2011 come scrive Friedman. Ma molto prima, nel 2009. E a muovere i fili furono il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e quello della Camera Gianfranco Fini". A tirare in ballo altri protagonisti del complotto anti Cav è Amedeo Labboccetta. In una intervista al Tempo, l'allora braccio destro di Fini, racconta le ambizioni dell'ex presidente della Camera che ha giocato di sponda con il Quirinale per fare le scarpe al leader azzurro con l'obiettivo di prendere il suo posto a Palazzo Chigi. "Fini me lo disse in più circostanze. 'Ma tu credi che io porterei avanti un’operazione del genere se non avessi un accordo forte con Napolitano?!", rivela Labboccetta a Carlantonio Solimene che racconta anche di come nacqua il feeling tra Fini e il Colle: "Quando nel 2008 Berlusconi diventa premier e il leader di An va alla presidenza della Camera, i rapporti con Napolitano diventano strettissimi. Si sentono al telefono praticamente ogni giorno". E lui, dice, di essere testimone di quelle chiamate essendo in quel periodo in una posizione privilegiata. All'inizio, prosegue l'ex deputato del Pdl, Fini giustificò il suo controcanto al Cavaliere come normali reazioni agli attacchi de Il Giornale. Lui e Dell'Utri tentarono più volte di fargli cambiare idea. Berlusconi, secondo il racconto di Labboccetta, arrivò perfino ad offrirgli la segreteria del partito. Ma niente, Fini, non smetteva e alzava la posta chiedendo la testa dei ministri La Russa e Matteoli e del capogruppo al Senato Gasparri. "Mi disse che non avrebbe mai lasciato la terza carica dello Stato perché da lì poteva tenere per le palle Berlusconi', continua Laboccetta secondo il quale l'obiettivo di Fini era di "eliminare politicamente Berlusconi". "Quando lo costrinsi a spiegarmi con quali numeri e appoggi voleva farlo", rivela, "mi confessò che Napolitano era della partita. Usò proprio queste parole. Aggiunse che presto si sarebbero create le condizioni per un ribaltone e che aveva notizie certe che la magistratura avrebbe massacrato il Cavaliere. "Varie procure sono al lavoro", mi svelò, "Berlusconi è finito, te ne devi fare una ragione". E aggiunse che come premio per il killeraggio del premier sarebbe nato un governo di "salvezza nazionale" da lui presieduto con la benedizione del Colle. Quando parlava di Silvio, Gianfranco era accecato dall’odio, sembrava un invasato. Una volta mi disse: "Non avrò pace fino a quando non vedrò ruzzolare la testa di Berlusconi ai miei piedi"». Labboccetta non raccontò mai a Berlusconi quello che Fini stava ordendo alle sue spalle, ma si giustifica sostenendo che si diede da fare perché quel piano saltasse: "Cercai di fargli capire che Fini era solo l’esecutore, ma i disegnatori erano altri. Magari con una regia extranazionale". "Me lo fece capire lo stesso Gianfranco, parlando tra le righe. Non va dimenticato che in passato era stato ministro degli Esteri, ed era stato bravo a tessere le giuste relazioni". Alla domanda di Solimente: "Ma perché dice queste cose solo oggi?" Labboccetta risponde: "All’epoca ho fatto di tutto per favorire una ricomposizione. In seguito, ho ritenuto che era meglio lasciare queste cose alle miserie umane. Ma adesso che la verità sta venendo a galla, è giusto che si sappia tutto di quegli anni".

Sallusti: "Dietro al complotto per far fuori Berlusconi c'è Clio Napolitano", scrive “Libero Quotidiano”. “Dietro al golpe del 2011 c'è Clio Napolitano". Alessandro Sallusti ai microfoni de La Zanzara su Radio 24 aggiunge nuove elementi alle rivelazioni di Alan Friedman che parlano di una strategia chiara da parte del Colle per destabilizzare il governo Berlusconi nel 2011 e sostituire il Cav a palazzo Chigi con Mario Monti. Il direttore de Il Giornale punta il dito contro la moglie del Capo dello Stato e afferma: "Mi dicono che la moglie di Napolitano, la comunista Clio, odia Silvio, e ha molto peso sulle scelte del Quirinale. Dietro al complotto politico finanziario che ha fatto cadere Berlusconi, c'è Clio Napolitano". Insomma secondo Sallusti la mano occulta che guidò la caduta di Berlusconi nel 2011 appartiene a Clio Napolitano. Il direttore de Il Giornale però non risparmia critiche nemmeno agli ex alleati del Cav: "Sia Fini che Alfano sono stati cooptati da Napolitano per uccidere Berlusconi". Sallusti parla anche dello spread: "Fu creato ad arte ed il complotto contro Berlusconi ci fu". Infine l'annuncio poi confermato nel suo editoriale di oggi su il Giornale: "Se siamo in un Paese libero, mettiamo in stato d'accusa Napolitano".

Berlusconi: «Complotto contro di me? Obama si comportò bene». «Non mi sorprende che l’uomo del presidente Usa abbia confermato le manovre nei miei confronti… Ma lui si comportò bene durante tutto il G20 e mi diede ragione», scrive Alan Friedman su “Il Corriere della Sera”. Seduto nel giardino di Villa San Martino a Arcore, Silvio Berlusconi è più che soddisfatto. Le anticipazioni del libro di memorie di Timothy Geithner (Stress Test) confermano quello che il Cavaliere dice di sapere da tempo, e cioè, che la Casa Bianca bocciò una richiesta da parte di alcuni europei di far cadere il suo governo nell’autunno del 2011. «Non sono sorpreso. Ho sempre dichiarato che nel 2011 nei confronti del mio governo, ma anche nei confronti del mio Paese, c’è stato tutto un movimento che era partito dal nostro interno ma poi si è esteso anche all’esterno per tentare di sostituire il mio governo, eletto dai cittadini, con un altro governo», dice Berlusconi. «Già nel giugno del 2011, quando ancora non era scoppiato l’imbroglio degli spread, il Presidente della Repubblica Napolitano riceveva Monti e Passera, come è stato scritto, per scegliere i tecnici di un nuovo governo tecnico e addirittura per stilare il documento programmatico. E poi abbiamo saputo anche che ci sono state quattro successive tappe di scrittura, con l’ultima addirittura di 196 pagine». Berlusconi è in grande forma e viene fuori un ricordo preciso. «Io avevo la contezza che stesse accadendo qualcosa e avevo anche ad un certo punto ritenuto che ci fosse una precisa regia. Al G-20 di Cannes, addirittura, amici e colleghi di altri paesi mi dissero: "Ma hai deciso di dare le dimissioni? Perché sappiamo che tra una settimana ci sarà il governo Monti…". E l’ha rivelato per esempio Zapatero in un suo libro che riguardava quel periodo». Non è sorpreso che queste nuove rivelazioni vengano da un uomo di Obama. «Io devo dire che Obama si comportò bene durante tutto il G20. Noi fummo chiamati dalla Merkel e Sarkozy a due riunioni in due giorni consecutivi e in queste riunioni si tentò di farmi accettare un intervento dal Fondo Monetario Internazionale. Io garantii che i nostri conti erano in ordine e non avevamo nessun bisogno di aiuti dall’esterno e rifiutai di accedere a questa offerta, che avrebbe significato colonizzare l’Italia come è stata colonizzata la Grecia, con la Troika».

Eppure son tutti uguali.

Expo, appalti e tangenti: la sinistra spunta ovunque. Nelle carte ci sono dozzine di nomi dell'area Pd tirati in ballo dagli arrestati. Da Bersani fino al sottosegretario Delrio e al portavoce del partito Guerini, scrive Enrico Lagattolla su “Il Giornale”. Lo dicevano spesso, quelli della cupola. «Copriamoci a sinistra». Nel Paese degli appalti truccati servono santi bipartisan. Di qua e di là. Ma di là - a sinistra - ce n'erano davvero parecchi. Realtà o millanterie, sta di fatto che nelle carte dell'inchiesta milanese su Expo e non solo ci sono dozzine di nomi dell'area Pd. Non è un caso, secondo una teoria dell'ex senatore Luigi Grillo. «L'ho visto anche ieri Pier Luigi (Bersani, che ha già smentito, ndr), io tengo sempre i rapporti - dice a Giuseppe Nucci, ex ad della Sogin - lo informo degli sviluppi. Sai, loro, i post-comunisti non sono diversi dai comunisti, cioè il dialogo lo accettano, sono anche garbati e sono simpatici. Poi quando c'è da stringere per questioni di potere preferiscono sempre il cerchio stretto». Ecco, gli affari sono affari. E per ogni torta sul grande tavolo degli appalti pubblici, sostengono i pm, una fetta doveva andare a sinistra. Attraverso le cooperative, che si aggiudicano i lavori. Attraverso Primo Greganti, che avrebbe fatto da tramite tra il partito, le coop e i manager di Stato, e che ieri è stato sospeso in via cautelare dalla sezione del Pd di Torino a cui era iscritto («Ma qui non l'abbiamo mai visto», racconta il segretario della sezione). E attraverso i mille canali - più o meno reali - che ciascuno degli interessati sostiene di poter smuovere per passare all'incasso. Greganti, per rendersi credibile, si «vende» anche il nome di Gianni Pittella, vicepresidente del Parlamento europeo ed ex candidato alle primarie del Pd, il quale ha smentito un suo interessamento su Expo. «Io sono andato giù a Roma - dice Greganti il 6 marzo - ho incontrato anche Gianni Pittella... è il presidente del Consiglio europeo (Greganti si sbaglia, ndr)... grande... potere enorme... al posto di parlamentare europeo... nel Pd è considerato potente ecco...». Poi qualcuno bussa anche al ministero. Così, proprio Nucci racconta di aver incontrato Claudio De Vincenti, viceministro allo Sviluppo economico nel Governo Renzi. «Mi ha detto - racconta Nucci a Grillo - “io sono a disposizione per tutte le cose che voi c'avete da fare”, e dico “io voglio lavorare per il mio Paese”, lui ha detto “Ne parlerò col Gabinetto, col ministro, questa cosa mi piace molto”». Ma a lambire il governo Renzi c'è anche un riferimento - assai fumoso - a Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. A parlare è l'ex Dc Gianstefano Frigerio. «Però Guerini è un buon... adesso non so se lo porta al governo ... forse lo lascia ... al partito i suoi giri ... uno è Delrio e l'altro Guerini». Decisamente più significativi altri passaggi che riguardano proprio Lorenzo Guerini, portavoce del Pd. Ancora Frigerio al telefono, parla con Sergio Cattozzo della Città della salute e degli appalti Sogin. «Devo parlarne a Guerini... a Lorenzo, devo parlarne... ». «Bisogno organizzare un incontro - suggerisce Cattozzo - io te e Guerini, così lo tiriamo dentro il Guerini. Stiamo parlando di sette miliardi di lavoro, ragazzi!». Tanti, tantissimi soldi. E gli appalti Sogin portano la cupola a cercare più sponde possibili. È in questo contesto che spuntano i nomi di Giovanni Battista Raggi, tesoriere del Pd in Liguria, e di Claudio Burlando, già ministro dei Trasporti e ora governatore ligure. Greganti avrebbe dovuto avvicinare Raggi e attraverso questi Burlando, per ottenere - si legge in un sms di Cattozzo del settembre scorso - «un po' di sponsorizzazione forte nazionale». Ma la cupola, secondo la Procura di Milano, era «glocal». Oltre alle coperture nazionali, infatti, cercava appoggi sul territorio. Ovunque c'era una gara milionaria, c'era da muoversi. Ed è così che si arriva in Sicilia, dove la cricca sta seguendo i lavori per l'ospedale di Siracusa. Frigerio, al telefono con Cattozzo, ragiona. «Sei amico di Enrico Maltauro (uno degli imprenditori arrestati, ndr) tieni conto che stiamo seguendo per lui un ospedale a Siracusa che dobbiamo parlare con Crocetta (Rosario Crocetta, governatore siciliano, ndr) per l'autorizzazione compagnia bella ma tu sei d'accordo... mah aspetta adesso ne parlo al mio consulente poi vediamo venerdì quando viene da me glielo dirà a Enrico, mi ha chiamato Foti (Luigi Foti ex parlamentare della Dc ora ritenuto vicino al Pd, ndr) vuole la mia copertura sulla Sicilia per l'ospedale di Siracusa». Ma alla fine, erano ganci reali o solo chiacchiere? Altro che balle, a sentire Stefano Boeri. Per l'ex assessore comunale Pd di Milano, era tutto vero. «Sono stato fatto fuori dalla partita Expo dalle lobby economiche, compresa la Lega delle Cooperative. Io costituivo un ostacolo», ha spiegato in un'intervista. A Boeri ha replicato l'assessore milanese Pierfrancesco Majorino. «Di Boeri si può pensare tutto e il suo contrario, ma il nesso è totalmente inventato». Al netto delle faide interne al partito, il dubbio resta.

Quelle larghe intese Cl-Coop per spartirsi affari e poltrone. Nelle carte della Procura le prove dell'asse tra cooperative rosse e aziende cielline. L'indagato Frigerio: "Anche Lupi è amico loro", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Altro che Peppone e don Camillo. Oggi i vecchi nemici fanno affari insieme. Nascosta nelle carte dell'indagine sugli appalti dell'Expo 2015 c'è una traccia che costringe a rivedere antiche certezze. E a prendere atto che quando oggi si parla dei colossi delle coop, lanciati alla conquista di fette sempre più grosse degli appalti pubblici, si parla di qualcosa di assai diverso dalle vecchie cooperative emiliane, tutte business e ideologia, che fanno parte della storia del Novecento italiano. Il grosso delle aziende aderenti alla Lega nazionale cooperative e mutue continua, ovviamente, a stare nell'orbita del Pd. Ma dentro la Legacoop cresce un nuovo partito di tutt'altra estrazione: uomini e aziende che vengono dalla storia di Comunione e liberazione, e dal suo braccio nell'imprenditoria, la Compagnia delle opere. Ex comunisti e ciellini convivono e collaborano. E si ritrovano, nelle carte dell'indagine, a godere di protezioni bipartisan. A spiegarlo chiaramente, tranquillizzando un interlocutore è Gianstefano Frigerio, l'ex parlamentare della Dc e di Forza Italia, arrestato mercoledì. Scrive la Guardia di finanza: «Frigerio dice che quelli che gli presenterà della Manutencoop (alti dirigenti) non sono di sinistra ma sono dei loro». Non è chiaro a chi si riferisca Frigerio. Ma il vecchio democristiano torna sul tema in un'altra conversazione: «Ieri ho parlato con Pellissero e gli ho raccomandato, guarda che la cosa migliore è Manutencoop e anche qualche sua azienda... “sì sì lo so anche se hanno fatto un po' di alleanze eccessive con i ciellini”». Un asse che può apparire singolare, quello tra i due mondi: ma che si basa su due pilastri comuni, la vocazione sociale e il pragmatismo imprenditoriale. Di fatto, Cdo e Legacoop si ritrovano da tempo alleate in un'opera di lobbismo comune e trasversale per ottenere leggi che tutelino l'imprenditoria sociale. Questo ha generato contiguità e alleanze. E anche intrecci di poltrone: il caso più noto è quello di Massimo Ferlini, ex assessore comunista a Milano, che oggi è uno dei principali esponenti della Compagnia delle opere ma siede anche nel consiglio di amministrazione di Manutencoop. Così, in nome di un comune sentire, si saldano intese un tempo impensabili. Ancora Frigerio: «Anche Maurizio Lupi (ministro delle Infrastrutture, ciellino doc) è amico di quelli di Manutencoop». Scrive la Finanza: «Frigerio sostiene di conoscere bene i legami che ci sono tra Manutencoop e i ciellini tanto che negli ultimi anni, con Formigoni, sempre a dire dell'indagato Manutencoop avrebbe già ottenuto importanti lavori». E d'altronde in Lombardia non è un mistero che dopo la caduta di Formigoni le aziende della Cdo, rimaste orfane di protezione politica, si stiano ulteriormente avvicinando alle coop rosse. «Parlando con Levorato lui è un vecchio comunista, io un vecchio democristiano, quindi sappiamo come si parla tra noi», dice Frigerio di Claudio Levorato, il manager di Manutencoop per cui la Procura aveva chiesto l'arresto: e in questa frase c'è dentro un bel ritratto di storie simili cresciute su sponde diverse. D'altronde, dice sempre Frigerio, «ti manderò il capo delle coop (...) copriamoci perché sono le coop rosse e corrono meno incidenti. Prendeteveli perché sono rossi» . E fin qui potrebbe sembrare un semplice calcolo di opportunità o un preaccordo di spartizione. Ma quello che raccontano le carte è qualcosa di più, una sorta si compenetrazione tra mondi solo apparentemente distanti. C'è una matrice forse cattocomunista: basta guardare il profilo Linkedin di Fernando Turri, altro manager coop che compare nell'inchiesta, a capo della Viridia: studi dai salesiani, ma alle spalle il Quarto Stato di Pellizza. E c'è soprattutto una consapevolezza che i tempi sono duri, la spending review ha tagliato gli appalti, e così se si vuole sopravvivere bisogna abbattere vecchi steccati. Frigerio: «Manutencoop, aldilà di quello che pensa Rognoni, è “così” con Cl».

LA DEMOCRAZIA SOTTO TUTELA: ELEZIONI CON ARRESTO.

Politica e criminalità organizzata. L’arresto di Scajola e lo scoperchiamento del potere italiano, scrive Gad Lerner. Tra Scilla e Cariddi, fra le due rive dello Stretto: da una parte Amadeo Matacena (finito per caso a destra in Forza Italia) e dall’altra Francantonio Genovese (finito per caso a sinistra nel Pd). In comune il business dei traghetti con la società Caronte, ma non solo. Sono capoclan locali che con la loro dote di preferenze ottengono facilmente candidature al parlamento nazionale, usano i partiti come strumenti intercambiabili, entrano in relazione con i vertici dello Stato, ne ottengono protezioni e complicità. E’ in questo meccanismo che rimane impigliato oggi Claudio Scajola, a suo tempo ministro degli Interni e massimo dirigente organizzativo di Forza Italia. Un politico di razza, vecchio navigatore democristiano, a sua volta radicato su un territorio come il Ponente Ligure dove la ‘ndrangheta calabrese ha messo radici da parecchio tempo. Non è un caso che la magistratura abbia intercettato le manovre di Scajola per favorire la latitanza di Matacena nel corso di altre indagini sui rapporti fra il tesoriere della Lega Nord, Francesco Belsito, e alcune famiglie della malavita calabrese. Stiamo assistendo allo scoperchiamento di una parte rilevante del potere italiano, costituito dall’intreccio fra politica in cerca di consenso e interessi malavitosi bisognosi di protezione e riciclaggio. Sotto l’ombrello del berlusconismo (ma non solo, e non solo a destra) episodi come quello che ha portato all’arresto di Scajola sono numerosi. Guarda caso anche Matacena voleva scappare in Libano, come Dell’Utri. E Berlusconi che subito dichiara “non ne sapevo niente, povero Claudio”, non vi ricorda il proverbio secondo cui la prima gallina che canta ha fatto l’uovo?

In realtà sono rimasti identici solo i metodi dei magistrati e dei giornalisti, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Forse non vi siete accorti che nell'inchiesta Expo i politici e i partiti praticamente non ci sono: sono sullo sfondo assieme a fisiologici referenti (tanti) che vengono consultati da un gruppetto di affaristi che intascava mazzette e pilotava appalti. È come se dei mazzettari professionisti avessero lasciato l'azienda e si fossero messi in proprio, col dettaglio che frattanto le aziende abbandonate sono fallite tutte: come i vecchi partiti, come quella politica che manca non perché sia virtuosa, ma perché non conta più nulla. Primo Greganti, ventun anni fa, disse che rubava per sé e non per il partito, e non era vero: ora invece lo è, perché la «cupola» non alimentava il finanziamento illegale della politica, alimentava le proprie tasche; e i politici ne escono perlopiù gabbati, usati per promuovere carriere. Lo scandalo è sufficientemente grave da essere analizzato nel suo specifico, non servono riflessi tipo «Come prima, più di prima» (Corriere) o «Ora e sempre tangentopoli» (Repubblica) con ridicole interviste al vecchio pool di Milano. Servirebbe chiedersi se le manette fossero tutte necessarie (quisquilie da garantisti) ma soprattutto chiedersi che accidenti c'entrino certe intercettazioni, quelle in cui vengono sputtanate persone che non c'entrano niente su questioni che non c'entrano niente. Ma pare che, tra gli appalti pilotati, ci sia anche quello della libera stampa a Beppe Grillo.

Manette a gogò. Magistrati scatenati alla vigilia del voto. Arrestati in 20 tra cui Greganti e Scajola Sospetti di corruzione per l'Expo. L'ex ministro accusato di aver aiutato un latitante, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Tecnicamente parlando si tratta di una manovra diversiva. Come arginare la verità fangosa che sta emergendo sulle porcate commesse dai magistrati, prima fra tutte quella sulle illegalità della Procura di Milano nell'inchiesta Ruby? Semplice, una bella retata all'alba. Anzi due, perché - come diceva Totò - meglio abbondare. Così in poche ore finiscono dentro in tanti, nomi eccellenti ovviamente, altrimenti addio titoloni. Da ieri mattina sono in carcere, tra gli altri, a Roma l'ex ministro degli Interni Claudio Scajola (accusato di intrattenere rapporti con la famiglia dell'ex deputato, oggi latitante, Matacena), a Milano, per tangenti, due ex politici (Stefano Frigerio e Primo Greganti, già coinvolti in Tangentopoli) e uno dei capi di Expo 2015. Pareva strano che il partito dei giudici si astenesse dal partecipare a questa campagna elettorale. E, infatti, eccoli, più decisi che mai: un colpo al Pd (Greganti), uno a Forza Italia (Scajola), insomma una secchiata di merda sui due partiti che stanno cercando di riformare il Paese. Grillo ringrazia e guadagna ancora qualche punto. Lui ai magistrati non fa paura, anzi, è lo strumento ideale per fermare l'asse Renzi-Berlusconi che ha già annunciato la riduzione degli stipendi d'oro dei magistrati e la riforma della giustizia. Le procure mandano a Renzi un segnale chiaro, in stile onorevole Antonio Razzi versione Crozza: «Amico, attento, te lo dico un'ultima volta: fatti li cazzi tuoi». Può essere, lo vedremo, che tra gli arrestati ci siano ladri e malfattori. Però mi fa strano il tempismo e il clamore, perché la verità sarà accertata solo a urne chiuse. E viste le tante inchieste spettacolo finite nel nulla, la cosa preoccupa perché falsa le regole del gioco democratico. Dicono che Bruti Liberati, capo della Procura di Milano, abbia le ore contate e sia al centro di una guerra tra le fazioni di pm che si contendono potere e successione a suon di accuse e controaccuse. Ieri un suo vice, Robledo, si è rifiutato di firmare gli ordini di arresto e non ha partecipato alla conferenza stampa. C'è il terribile sospetto che la resa di conti finale tra magistrati stia avvenendo sulla pelle di veri, presunti o falsi delinquenti. In un Paese normale, una procura così messa, delegittimata, divisa e incarognita, sarebbe già stata commissariata. Questi sono un pericolo vero, più pericolosi del più pericoloso tangentista.

La settimana terribile dell'Italia. Prima settimana di maggio 2014. Bacchiddu, Scajola, Expo, Nuova Tangentopoli, Genny 'a carogna. Il paese sprofonda inesorabilmente, senza la forza di cambiare davvero. Anche per colpa nostra, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Una settimana da dimenticare sta finendo, specchio di una vecchia Italia. Un’Italia che non cambia. Che va in retromarcia. Che guarda indietro. Non è più questione di ricambio generazionale (quello finalmente un po’ c’è, anche se a ben vedere l’arroganza di certi giovani non è inferiore a quella di certi anziani). Il problema è nazionale. Siamo noi italiani, forse, che abbiamo qualche problema con la storia e con noi stessi. Non riusciamo a esser seri, a concentrarci sulle cose da fare, a renderci conto della gravità dell’emergenza che stiamo attraversando, a prendere coscienza del declino che ci sta portando verso il baratro, del grado di inciviltà che viviamo nelle nostre città. C’è qualche tarlo che ci corrode, qualche virus che non vuol saperne di abbandonare la presa. Come si spiega altrimenti l’escalation di notizie da paura degli ultimi giorni? Siamo alla terzultima settimana prima del voto del 25 maggio che servirà a  ridisegnare il Parlamento europeo, tornata importante anche per la politica nazionale. Forse, ci si poteva aspettare che prendessero il sopravvento temi concreti e veri. Non so: l’economia, l’istruzione, l’Europa. Invece ci siamo dibattuti e abbiamo dibattuto sul “caso Bacchiddu”, sulle spacconate di Genny ‘a Carogna, su Greganti 2 la vendetta, la corruzione dietro l’Expo 2015 e le lotte fratricide tra i magistrati di Milano, per finire coi fischi di Grillo all’Inno di Mameli. Tutte robe che non ci cambiano la vita, che ci distraggono dai veri problemi, che peggiorano terribilmente l’immagine dell’Italia e di noi italiani in Europa. Che scoraggiano irrimediabilmente le persone per bene ed esasperano chi già non ne può più. La Lista Tsipras riesce a far parlare di sé solo perché il meccanismo dei media e della politica si tuffa sulla foto accattivante di una bella ragazza e una brava giornalista, Paola Bacchiddu, che in un clic di (auto)ironia posta su facebook una propria istantanea balneare con la motivazione scherzosa di voler usare ogni mezzo, ora che il giorno cruciale del voto si avvicina, e quindi invita a barrare la lista “L’Altra Europa con Tsipras”. Apriti cielo. Si scatena la polemica su “chiappetta rossa”, la gogna del web, l’assalto del branco (a sinistra, a destra), il groviglio di considerazioni femministe e/o machiste… 

Ed a proposito di questo..."Siamo tutti puttane". Un titolo spiazzante quello che Annalisa Chirico, giornalista e compagna di Chicco Testa, politico di sinistra e dirigente industriale italiano, ha deciso di dare al suo ultimo libro, scrive “Libero Quotidiano”. Ma già se si legge il sotto titolo ci si potrebbe fare un idea del concetto che sta alla base della lettura: "Contro la dittatura del politicamente corretto". Un libro che ha come bersaglio i perbenisti di sinistra e le femministe alla "Se non ora quando". La Chirico rivendica il sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come ognuno può e vuole, e quindi, anche diventando una puttana. Un femminismo pro sesso, pro porno e pro prostituzione, sia per le donne sia per i maschi. Un dibattito a suo avviso che "ha diviso il Paese tra un popolo di sinistra moralmente irreprensibile e uno di destra, gaglioffo e sciocco". In un'intervista a Formiche.net del 7 maggio, la stessa giornalista alla domanda "È Berlusconi ad averla ispirata?", non risponde esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. "Ho seguito da cronista il processo Ruby - afferma Chirico - dove nel tribunale di Milano, non di Riad o della Kabul talebana, trentatré ragazze sono state vivisezionate nella loro vita privata in qualità di semplici testimoni, senza alcun capo di imputazione a loro carico. Quando una democrazia smette di distinguere tra peccato e reato, si getta al macero l'abc della civiltà giuridica". Dunque nulla di male. Le famose "Olgettine", da Via Olgettina, le ragazze indagate dalla Procura di Milano per il caso Ruby, non hanno, a suo parere, la colpa di aver "conosciuto Silvio Berlusconi, il tycoon d'Italia, il capo di un impero mediatico, il presidente del Consiglio italiano". Un'occasione ghiotta di farsi notare e farsi apprezzare, per entrare nel mondo dell'apparire, della tv e dell'estetica da vendere. "E' stato un pornoprocesso, un rito a elevato tasso moraleggiante, oltre che erotico". Poi dal porno si passa all'erotico e a quelle foto di Paola Bacchiddu, il capo comunicazione della lista L’Altra Europa con Tsipras, che qualche giorno fa ha pubblicato una foto in bikini suscitando clamore. "Mi è sembrata la trovata goliardica di una ragazza intraprendente. In Italia ne sono nate le solite polemiche perché va di moda l’idea boldriniana che il corpo vada nascosto in un sudario di pietra. Per cui i concorsi di bellezza che si fanno in tutto il mondo da noi andrebbero proibiti. La donna invece è un soggetto che decide come usare il proprio corpo, sono le pseudofemministe a rappresentarla come un oggetto". Poi attacca Barbara Spinelli, candida la paladina delle donne e della guerra contro la mercificazione del loro corpo per Tsipras. "E' un esemplare del livello di oscurantismo che caratterizza il femminismo nel nostro Paese. Sono le donne che strumentalizzano le altre donne. La campagna talebanfemminista Se non ora quando aveva l’unico obiettivo politico di colpire l’allora presidente Berlusconi, ci ha fatto credere che il suo indomito fallo fosse il principale assillo delle donne italiane". Infine la frecciatina a Renzi incalzata dalla giornalista di Formiche.net che gli chiede se la convince "il femminismo alla Renzi": "Non esiste un femminismo alla Renzi - ha risposto la Chirico - ma una strategia comunicativa renziana. il premier ha capito che la sinistra del presunto primato morale era perdente. Perciò si è abilmente smarcato dalla linea dei suoi predecessori. E li ha rottamati".

Tornando alla riflessione di Ventura...Poi, sabato, lo spettacolo immondo e barbarico di una sparatoria in piena Roma, con tifosi che si confrontano in un delirio di violenza finché dentro lo stadio un energumeno tatuato con maglietta che chiede la liberazione dell’omicida di un poliziotto alza il pollice fischiando di fatto l’inizio di una tristemente memorabile finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, sotto gli occhi e le bocche aperte, mute, delle più alte cariche di uno Stato ridicolizzato e impotente. Genny ‘a Carogna, imparentato con camorristi, detta legge. Le famigliole tremano. Renzi neanche s’accorge del tenore di quella maglietta insultante. E per finire, ecco l’ordalia giudiziaria come da copione: la raffica di arresti per presunte tangenti relative all’Expo 2015 di Milano accende i riflettori su un passato per nulla esaurito. Con l’aggiunta piccante di uno scontro interno alla magistratura per irregolarità additate dal procuratore aggiunto Robledo nell’assegnazione delle inchieste a chi non ne avrebbe avuto titolo. Come non bastasse, finisce in manette un ex ministro dell’Interno, Claudio Scajola. E Grillo si tuffa sugli arresti con la goduria del capobranco che assapora un punto in più il 25 maggio, perché la rovina dell’Italia significa la sua apoteosi. Un Grillo che si mette fra gli ultrà dello stadio dicendo che anche lui avrebbe fischiato l’Inno d’Italia e che mette in campo tutta la sua finezza di analisi affibbiando le solite trito-comiche etichette agli avversari, dal “pregiudicato Berlusconi” (dimentico d’esser lui stesso condannato in via definitiva per omicidio colposo, senza neppure esser vittima di chissà quale persecuzione giudiziaria) a “Renzi ‘a Menzogna” che evoca “Genny ‘a Carogna”. Questo, dopo avere ravvivato malamente la campagna elettorale con parabole che hanno per protagonisti gli ebrei della Shoah e i lager (riferimenti privi di qualsiasi pietà umana). Mamma mia, che Italia è questa. Che paura. Che futuro ci aspetta.

Dell'Utri. Sette anni di reclusione. Condanna confermata, scrive “Il Corriere della Sera”. Il verdetto della Cassazione per l’ex senatore Marcello Dell’Utri era atteso in serata del 9 maggio 2014. I giudici della Prima sezione penale si sono ritirati in Camera di consiglio per decidere se confermare o no il verdetto d’appello: 7 anni di reclusione, per concorso esterno in associazione mafiosa. Il Sostituto Procuratore Generale di Palermo Luigi Patronaggio ha già emesso un ordine di carcerazione per Dell’Utri. Il provvedimento verrà trasmesso al ministero della Giustizia che lo allegherà alla richiesta di estradizione alle autorità libanesi. Il caso giudiziario di Marcello dell’Utri dura da 20 anni. Era infatti il 1994 quando la Procura di Palermo avviò le indagini per mafia sull’ex senatore, che fu rinviato a giudizio nell’ottobre del 1996. Il primo processo, aperto il 5 novembre del 1997 davanti al Tribunale di Palermo, presieduto da Leonardo Guarnotta, era durato sette anni e si era concluso l’11 dicembre del 2004 con la condanna dell’imputato a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, più due anni di libertà vigilata, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e il risarcimento per le parti civili, il Comune e la Provincia di Palermo. «Vi è la prova», aveva scritto il collegio nella motivazione, «che Dell’Utri aveva promesso alla mafia precisi vantaggi in campo politico e, di contro, vi è la prova che la mafia, in esecuzione di quella promessa, si era vieppiù orientata a votare per Forza Italia nella prima competizione elettorale utile e, ancora dopo, si era impegnata a sostenere elettoralmente l’imputato in occasione della sua candidatura al Parlamento europeo nelle file dello stesso partito, mentre aveva grossi problemi da risolvere con la giustizia perché era in corso il dibattimento di questo processo penale». Quel verdetto era stato parzialmente corretto in secondo grado, in un processo assai più rapido del primo, iniziato il 16 aprile del 2010 e conclusosi il 29 giugno dello stesso anno quando la Corte di Appello, presieduta da Claudio Dall’Acqua, aveva ridotto a sette anni la pena per Dell’Utri, a fronte di una richiesta di 11 anni formulata dal procuratore generale Antonio Gatto. I giudici avevano ritenuto provati i rapporti tra Dell’Utri e la mafia fino al 1992 mentre lo avevano assolto «perché il fatto non sussiste» per i fatti successivi. Aveva però retto l’impianto accusatorio, ribadito anche oggi dal Pg della Cassazione, secondo cui Dell’Utri avrebbe fatto da mediatore tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi, e lo avrebbe tra l’altro convinto ad assumere come stalliere ad Arcore il boss Vittorio Magano, morto di cancro in carcere.

E poi.....Scajola: io non so se ci rendiamo conto. Rischio di essere ripetitivo ma il rischio vale la candela, scrive Giulio Cavalli su “L’Espresso”. Ogni volta che scriviamo, discutiamo e parliamo di criminalità organizzata, di programmi di protezione, di “utilizzo” di testimoni di giustizia e collaboratori di giustizia o di un’appropriata legislazione antimafia non possiamo non tenere conto che Claudio Scajola (ma anche con ruoli comunque apicali  Cosentino, Dell’Utri, la lista è lunga e folta) sia stato non un politico qualsiasi ma un Ministro dell’Interno di questa Repubblica. Quindi sarebbe veramente ora che si trovi una narrazione che funzioni, un vocabolario leggibile per raccontare le mafia fuori da Corleone, Platì o Scampia e  che arriva sempre ai punti più alti dello Stato. Perché Scajola (quello che aiuta un latitante a trasferirsi in Libano) e i suoi sodali sono gli stessi che decidono se e come vanno presi in considerazione e protetti coloro che denunciano e quindi mi pare normale che chiunque provi ad “raccontare” il terzo livello (come lo chiamava Giovanni Falcone) non possa sentirsi sicuro in questo Paese. E dovremmo trovare il coraggio di insegnarlo nelle scuole, farne memoria tutti i santi giorni in tutti i santi posti che frequentiamo bucando questa coltre di presunto “allarmismo” che ci rovesciano addosso ogni volta che si alza il tiro contro la politica. Penso, oggi, a chi si ritrova in pericolo per avere denunciato il malaffare e legge l’arresto di un ex responsabile della propria incolumità. Non lo so, mi viene da pensare questa cosa qui, oggi, prima di tutte le valutazioni politiche. Questa ferita qui che sta più profonda di tutti gli editoriali di stamattina.

8 maggio 2014. Arrestato l'ex ministro Scajola. Avrebbe favorito la latitanza dell'ex parlamentare Amedeo Matacena, condannato a 5 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale”. L’ex ministro Claudio Scajola è stato arrestato dalla Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria. Tra le otto persone finite in manette figurano anche alcune persone legate al noto imprenditore reggino ed ex parlamentare Amedeo Matacena, colpito da provvedimento restrittivo insieme alla moglie Chiara Rizzo e alla madre Raffaella De Carolis. A seguito della condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa (giugno 2013) Matacena si è reso latitante. Perquisizioni effettuate in Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, Lazio, Calabria e Sicilia, oltre a sequestri di società commerciali italiane, collegate a società estere, per un valore di circa 50 milioni di euro. L'arresto di Scajola è avvenuto in un noto albergo della Capitale. Appresa la notizia Silvio Berlusconi, ai microfoni di Radio Capital, ha manifestato il proprio dolore: "Non so per quali motivi sia stato arrestato, me ne spiaccio e ne sono addolorato". Il Cavaliere ha tenuto a precisare che non aveva avuto alcun sentore dell'inchiesta, tale da giustificare la mancata candidatura alle Europee del politico ligure nelle liste di Forza Italia. "Avevamo commissionato un sondaggio su di lui che ci diceva che avremmo perso globalmente voti se lo avessimo candidato, ma abbiamo capito che la sua candidatura ci avrebbe fatto perdere punti". In serata, intervistato dal Tg1, ha detto di non credere che la vicenda avrà ripercussioni sui risultati di Forza Italia. Perché è stato arrestato? Come ha rivelato il procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, l’ex ministro avrebbe aiutato l’ex parlamentare Matacena a sottrarsi alla cattura per l’esecuzione della pena. L’inchiesta è nata nell’ambito di una indagine su tutt’altro argomento, i presunti fondi neri della Lega Nord, in cui la figura chiave sarebbe il faccendiere Bruno Mafrici. Grazie a un’intercettazione gli inquirenti sono venuti a conoscenza di rapporti fra l’ex ministro e la moglie di Matacena, Chiara Rizzo. La donna, secondo quanto emerso, si sarebbe adoperata per ottenere l’aiuto dell’esponente politico ai fini del trasferimento del marito, in Libano. Dalle indagini sarebbe emerso il ruolo di un’altra persona che avrebbe lavorato al trasferimento di Matacena nel paese dei cedri. Si tratterebbe dello stesso personaggio che avrebbe avuto contatti con Marcello Dell’Utri ai fini di una sua fuga nel paese mediorientale. "Amedeo Matacena - ha detto il procuratore De Raho - godeva e gode tuttora di una rete di complicità ad alti livelli grazie alla quale è riuscito a sottrarsi all’arresto". Scajola, secondo l’accusa, avrebbe aiutato Matacena a sottrarsi alla cattura in virtù dei rapporti che ha con la sua famiglia. Matacena è un noto imprenditore, figlio dell’omonimo armatore, noto per avere dato inizio al traghettamento nello Stretto di Messina e morto nell’agosto 2003. La frase incriminata. Lo spostiamo in "un posto più sicuro e molto migliore, ma più vicino anche". È questa una delle frasi pronunciate da Scajola in una conversazione telefonica con Chiara Rizzo, moglie di Matacena. La telefonata risale al 12 dicembre del 2013 alle ore 12.12. Nella conversazione, sostiene il giudice per le indagini preliminari di Reggio Calabria, emerge che "alcuni soggetti si stanno attivando per spostare Matacena da Dubai verso altro Stato". Dialoghi cifrati. "Poi ti racconto un po' di cose anch’io perché Daniele è andato a fare un viaggio sulle isole e ci sta fino al 28, è andato in giro, capito?". Così Scajola avrebbe informato la moglie di Matacena sugli spostamenti del marito, latitante dopo la condanna definitiva a cinque anni e quattro mesi. Il riferimento era, secondo gli investigatori, allo spostamento programmato per il 28 agosto dello scorso anno, data in cui Matacena è stato fermato a Dubai. Questa conversazione dimostrerebbe "la piena consapevolezza dello Scajola in merito agli spostamenti del latitante". In quegli stessi giorni si parlava ancora della vacanza di Daniele. La Rizzo chiedeva all’ex ministro "ma lì?", e lui rispondeva "per dieci giorni" "Daniele il mio amico, sai chi è Daniele?". E ancora: "E' andato in vacanza con Adele per dieci giorni a fare i bagni su.... Secondo il gip "si intuisce che è in difficoltà a parlare in quanto non vuole rivelare la località". A questo punto Chiara Rizzo esclamava "aaa ho capito! E tu glielo hai detto?". Scajola quindi rispondeva: "Nooo, no! Cercavo di dirlo a te in modo che tu lo sai che se dovesse mai farti venire qualche idea me lo dici, hai capito bene?". "Dite alla mia famiglia che sto bene, che sono tranquillo, la verità emergerà". Lo ha detto SCajola ai propri difensori, Giorgio Perroni ed Elisabetta Busuito. Gli inquirenti hanno perquisito a Imperia l’ufficio dell’ex ministro in viale Matteotti e la sua villa in via Diano Calderina. Si sarebbe interessata a Matacena anche la figlia di Amintore Fanfani, Cecilia. È quanto emerge dalle intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura di Reggio Calabria. Il nome di Cecilia Fanfani era sulla lista dei passeggeri del volo proveniente da Dubai e diretto a Nizza il primo agosto dello scorso anno. Nei suoi confronti, e anche a carico del fratello Giorgio Fanfani, è stata disposta una perquisizione. Proprio a Dubai il 28 agosto scorso è stato fermato Matacena. Il rampollo della famiglia di armatori era appena giunto negli Emirati Arabi dalle Seychelles. Lì, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, si era recato per incontrarsi con alcuni legali del posto "i quali - si legge nell’ordinanza di custodia cautelare - interessando i competenti uffici amministrativi, lo avrebbero assistito nelle operazioni di rinnovo del visto necessario al prolungamento della sua permanenza alle Seychelles". Di questa strategia sarebbero stati informati anche Carlo Biondi, figlio del politico Alfredo Biondi, ed Elvira Tinelli. A Cecilia Fanfani viene attribuita la scelta e la possibilità di usufruire dell’appoggio di uno studio legale per risolvere "il problema". Il fratello Giorgio Fanfani avrebbe presentato a Chiara Rizzo, moglie di Matacena, un avvocato.  I figli di Fanfani  non sono indagati e vengono definiti, nel provvedimento della Dda, "soggetti di interesse investigativo risultati in contatto e in rapporti anche di affari con gli indagati", insieme ad altre sette persone pure perquisite senza essere indagate.

Il patto Scajola-Matacena così la ’ndrangheta fece crescere Forza Italia. “L’ex ministro dell’Interno favorì gli interessi dei boss”. Ecco perché i pm volevano arrestarlo anche per mafia, scrive Attilio Bolzoni su “La Repubblica”. Perché i magistrati della procura della repubblica di Reggio Calabria volevano arrestare anche per favoreggiamento mafioso Scajola Claudio, nato ad Imperia il 15/01/1948, ivi residente, ex ministro dell’Interno? «Perché dopo la sentenza di condanna per concorso esterno di Amedeo Matacena lui è diventato la proiezione politico-istituzionale- imprenditoriale del primo che consapevolmente agevolava gli interessi della ‘ndrangheta nella sua composizione unitaria». Così scrivono i pm calabresi nella loro richiesta di custodia cautelare contro Scajola, erede in qualche modo — secondo loro — del potere economico e criminale del latitante eccellente riparato negli Emirati Arabi e in fuga verso il Libano. Una coppia al servizio di consorterie e cosche, logge, circoli segreti. Prima sicuramente uno, poi probabilmente anche l’altro. La proposta dei pubblici ministeri è stata respinta dal giudice delle indagini preliminari «per mancanza di un supporto indiziario idoneo», ma nelle carte che hanno depositato ricostruiscono contro Scajola — oltre alle accuse di aver tentato di occultare il patrimonio di Matacena, di averlo soccorso nella sua dorata irreperibilità, di avere pianificato il suo spostamento da Dubai a Beirut — il “profilo” di Matacena, tutti i suoi affari e i suoi legami con l’ex ministro degli Interni e soprattutto una lontana vicenda che riporta alla nascita di Forza Italia. È nelle prime pagine del documento dei magistrati della procura firmato dal capo Federico Cafiero De Raho e dai sostituti Giuseppe Lombardo e Francesco Curcio, una mezza dozzina di fogli ripescati da un’indagine palermitana (la numero 2566/98 contro Licio Gelli + 13) finita nell’inchiesta sulla famigerata trattativa Stato-mafia e poi girata a Reggio. È il racconto di un pentito che ricorda un summit al santuario della Madonna dei Polsi — luogo sacro per la ‘ndrangheta, tutti i suoi capi ogni anno si riuniscono lì a settembre per stringere alleanze, dichiarare guerre, decidere strategie criminali — avvenuta qualche mese prima della fondazione di un nuovo partito. Siamo alla fine dell’estate del 1991, il pentito si chiama Pasquale Nucera, uno della ‘ndrina dei Iamonte di Melito Porto Salvo. Confessa Nucera: «C’è stata una riunione al santuario di Polsi nel comune di San Luca, nel corso del quale si parlò di un progetto politico...». C’erano tutti i capi più importanti della mafia calabrese. C’era Anche Amedeo Matacena, l’amico dell’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola. C’era anche un misterioso personaggio «che parlava italiano con un accento inglese o forse americano». È stato identificato come Giovanni Di Stefano, un affarista che negli anni passati ha provato a comprarsi gli studios della Metro Goldwyn Mayer, un sedicente avvocato (è stato denunciato poi anche per esercizio abusivo della professione) che comunque è riuscito a difendere in aula gente come Saddam Hussein, il suo braccio destro Tariq Aziz, Slobodan Milosevic, il leader paramilitare serbo Zeliko Raznatovic meglio conosciuto come la “Tigre Arkan”. Questo personaggio, finito nelle pieghe delle indagini siciliane sulle stragi, era presente al santuario di Polsi e fu lui a parlare per primo di «un “partito degli uomini” che doveva sostituire la Democrazia Cristiana in quanto questo partito non garantiva più gli appoggi e le protezioni del passato». Parole testuali del pentito Pasquale Nucera, che in un secondo momento si dichiarerà anche agente del Sisde, il servizio segreto civile italiano. In due interrogatori, ricorda uno per uno tutti i presenti al summit: «Seppure defilato, c’era anche Matacena, “il pelato”, appartato con Antonino Mammoliti di Castellace. Poi c’erano anche tutti i vari esponenti dei “locali” della ‘ndrangheta calabrese». Fa l’elenco: «Pasquale e Giovanni Tegano, Santo Araniti, uno dei Mazzaferro di Taurianova e uno dei Mazzaferro di Gioiosa Ionica, che abitava vicino al cimitero, Marcello Pesce, uno dei Versace di Africo, parente di un certo Giulio Versace, Antonino Molè, due dei Piromalli, Antonino Mammoliti ed altri…». I pm riassumono in una trentina di pagine le attività oscure di Matacena e i suoi rapporti con la ‘ndrangheta. Poi scrivono: «Emerge con univoca chiarezza dalle complessive acquisizioni, invero, che di tale rete di relazioni è membro di rilievo lo stesso Claudio Scajola, unitamente alle altre persone sottoposte ad indagine, il quale diviene funzionale nel complessivo panorama criminale oggetto di ricostruzione proprio in quanto interlocutore istituzionale proiettato verso una candidatura di rilievo alle prossime elezioni europee…». E riferendosi agli uomini e alle donne — compreso l’ex ministro degli Interni — che hanno protetto l’ex deputato latitante: «Nel caso in specie si comprende, quale dato di dirompente rilevanza, che l’attività di protezione svolta a favore del Matacena, finalizzata a preservarne la piena operatività, non è più rivolta a suo esclusivo vantaggio ma diviene il passaggio necessario a proteggere lo strumento indispensabile di agevolazione delle capacità economico-imprenditoriali del complessivo sistema criminale nella sua componente riferibile alla ‘ndrangheta reggina, di cui il politico/imprenditore (Matacena, ndr) è ormai componente essenziale e non sostituibile». Hanno favorito Amedeo Matacena e favorendo lui e il suo “sistema” hanno favorito tutta la ‘ndrangheta. Anche Claudio Scajola. Ecco perché i magistrati della procura della repubblica di Reggio Calabria volevano il suo arresto con l’aggravante dell’articolo 7. Dopo la decisione negativa del giudice, il procuratore capo Cafiero De Raho ha già annunciato appello.

Arrestato l'ex ministro Claudio Scajola: ha favorito la latitanza dell'ex deputato Pdl Amedeo Matacena. Dalle perquisizioni della Dda di Reggio Calabria emerge una potente associazione segreta internazionale di stampo massonico animata da figure come Amin Gemayel, capo dei falangisti libanesi e candidato alle presidenziali tenute a fine aprile. Nelle intercettazioni liti furiose con Giovanni Toti, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Poco più di tre mesi dopo l'assoluzione per la casa romana comprata “a sua insaputa”, l'ex ministro Claudio Scajola finisce in carcere come regista della latitanza di Amedeo Matacena junior, amico e compagno di partito. Ordine di arresto anche per la seconda moglie di Matacena, l'ex modella Chiara Rizzo, e la madre Raffaella De Carolis. Dalle perquisizioni della Dda di Reggio Calabria emerge una potente associazione segreta internazionale di stampo massonico animata da figure come Amin Gemayel, capo dei falangisti libanesi e candidato alle presidenziali tenute a fine aprile. Fra i perquisiti ci sono Emo Danesi, storico piduista mai uscito di scena, due figli dello statista democristiano Amintore Fanfani, Giorgio e Cecilia, e l'imprenditore calabrese Vincenzo Speziali, 39 anni, nipote dell'omonimo senatore di Forza Italia, che, grazie al suo matrimonio con una nipote di Gemayel, fa la spola fra Roma e Beirut. Le indagini, in parte ancora secretate, evidenziano anche gli incontri tra i supporter di Matacena e l'eterno Luigi Bisignani, vero erede del suo maestro di loggia Licio Gelli. Secondo gli investigatori, il ruolo del protagonista spetta a Scajola. Tenuto sotto intercettazione per mesi, l'ex ministro dello Sviluppo economico si è prodigato per Matacena, arrivando a coordinare gli aspetti logistici e finanziari di una latitanza lussuosa e dispendiosa, che ha richiesto un impiego di fondi ingenti mossi dai conti bancari di Montecarlo, dove risiedeva Matacena, figlio omonimo dell'armatore napoletano che ha inventato i traghetti privati sullo Stretto di Messina e che ha avuto un ruolo importante nei moti per Reggio capoluogo del 1970-1971. Amedeo Matacena junior, deputato per due legislature ed ex coordinatore regionale di Forza Italia su indicazione proprio di Scajola, è in fuga dal giugno 2013, dopo che la Cassazione aveva confermato la sua condanna a cinque anni e quattro mesi per concorso esterno in associazione mafiosa con la famiglia Rosmini, una cosca fra le più potenti della 'ndrangheta reggina. In aggiunta, il cinquantenne Matacena ha anche una condanna in primo grado a quattro anni per corruzione. Scappato alle Seychelles, poi negli Emirati dove è stato arrestato in agosto e poco dopo rilasciato, Matacena stava per abbandonare Dubai. La metropoli araba era ormai insicura e i giudici sembravano orientati a concedere l'estradizione. La nuova meta di Matacena era Beirut, il porto franco dei latitanti mafiosi. La Direzione investigativa antimafia, coordinata dal sostituto procuratore di Reggio Giuseppe Lombardo e dal procuratore capo Federico Cafiero de Raho, è intervenuta prima che Matacena andasse a raggiungere il padre fondatore di Forza Italia, Marcello Dell'Utri, che da Beirut attende la pronuncia della Cassazione sulla sua condanna associazione mafiosa il 9 maggio. Il senatore palermitano è stato arrestato il 12 aprile in un albergo di Beirut, in piena campagna elettorale per le presidenziali che ancora non hanno indicato un vincitore. Ma il nuovo presidente potrebbe negare l'estradizione di Dell'Utri per motivi politici. Gemayel, uno dei candidati, ha già occupato la poltrona presidenziale del paese dei cedri in uno dei periodi più drammatici della storia del Libano (1982-1988), succedendo al fratello Bashir e governando la fase della guerra civile. I legami di Amin Gemayel con l'Italia sono di antica data. Il capo dei cristiano maroniti è stato fra i primi a rendere omaggio, l'anno scorso, alla tomba di Giulio Andreotti, sepolto al cimitero del Verano. Due anni fa, i giornali locali hanno dato rilievo alla sua visita privata in Calabria, dove è stato ospite dell'allora senatore Speziali, uno dei maggiori imprenditori calabresi con interessi in varie regioni italiane. Più di recente Gemayel, che è vicepresidente dell'Internazionale democristiana ed è molto legato anche al segretario Udc Lorenzo Cesa, è stato in Italia per incontrare Silvio Berlusconi. L'appuntamento, preso a Roma, è stato spostato a Milano all'ultimo momento suscitando le ire del politico falangista, il suo rientro in Libano e una sua piccata smentita quando Berlusconi ha dichiarato che Dell'Utri si era recato a Beirut per assistere Gemayel nella sua campagna elettorale. Le intercettazioni dell'inchiesta reggina rivelano retroscena di feroce contrapposizione politica tra i vecchi padri costituenti del berlusconismo e i rampanti della nuova Forza Italia. In particolare, ci sarebbero agli atti una serie di liti telefoniche furiose tra Scajola e l'astro nascente del forzismo, Giovanni Toti, alleato con le donne di Silvio nel bloccare o limitare gli accessi dell'ex ministro ligure e di Denis Verdini a palazzo Grazioli. Ma i vecchi avevano ancora molte carte da giocare, grazie alla solidità dei rapporti internazionali garantiti dalla rete massonica. Il collante dell'operazione “Matacena libero” è sempre quello della fratellanza fra liberi muratori. E qui è ancora da sviluppare appieno il ruolo di Emo Danesi, livornese di 79 anni, ex segretario del boss democristiano del Veneto Toni Bisaglia e sottosegretario alla Marina mercantile, espulso dalla Dc di Ciriaco De Mita e dal Grande oriente d'Italia in quanto iscritto alla loggia P2 (tessera 752). Dagli anni Ottanta, Danesi ha preferito il ruolo del burattinaio invisibile – Gelli docet – ed è emerso soltanto a tratti. Una prima volta nel 1996, in occasione della seconda Tangentopoli, come punto di riferimento del banchiere toscano-svizzero Chicchi Pacini Battaglia. Una seconda volta nel giugno del 2007, quando l'allora sostituto della procura di Potenza Henry John Woodcock ha tentato invano di incastrarlo per associazione segreta ex lege Anselmi insieme ad altri esponenti dell'Udc. Il prosieguo dell'inchiesta dirà se Danesi può essere considerato uno degli “invisibili”, un gruppetto ristretto che detta legge e i termini della politica internazionale usando clan mafiosi, servizi segreti e logge deviate. Su questa oligarchia potente e ristrettissima lavora da anni il pm reggino Lombardo. Di sicuro, Matacena a Beirut avrebbe ritrovato qualcosa di più di un compagno di partito. In una sua dichiarazione alla stampa in cui rivelava la delusione per essere stato estromesso dalle liste berlusconiane, il figlio dell'armatore affermava: “Ritengo di essermi comportato da amico con il presidente Berlusconi. Sono andato a Palermo a testimoniare al processo di Dell'Utri contro Filippo Alberto Rapisarda. Mi sono trascinato dietro altri testimoni che avevano perplessità a raccontare i fatti per come erano avvenuti. Ritengo che questa testimonianza sia stata fondamentale per smontare il teste Rapisarda. Poi su richiesta di Berlusconi sono andato a testimoniare a Caltanissetta contro la procura di Palermo”. Lo stesso favore gli è stato reso da Scajola che si è prodigato in testimonianze a favore dell'imputato Matacena durante il processo Olimpia. Oggi, fra Scajola, Dell'Utri e Matacena, l'unico a piede libero è proprio Matacena. Forse non per molto.

Da Scajola agli amici in Medioriente. Tutti i nomi dietro il "Circolo Matacena". Il decreto di perquisizione della Dda di Reggio Calabria mette in luce un doppio binario diplomatico-finanziario per garantire la fuga dell'ex deputato Amedeo Matacena. Con personalità che vanno dalla massoneria alla politica. E l'arresto del già titolare dell'Interno è solo la punta dell'iceberg, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. La rete di Amedeo Matacena è impressionante. L'ex ministro Claudio Scajola è soltanto l'uomo più in vista di un network che spaziava fra l'Italia, il principato di Monaco e il Medioriente. Nel decreto di perquisizione della Dda di Reggio Calabria emerge un doppio binario diplomatico-finanziario per mettere in sicurezza l'ex deputato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Ecco come la Procura di Reggio Calabria riassume la situazione: “Nel corso delle indagini sono emersi continui contatti e collegamenti fra i soggetti investigati e appartenenti a ambienti politici, istituzionali e imprenditoriali... La gestione di tali operazioni politiche, istituzionali ed economiche ha consentito alle persone sottoposte a indagini di diventare il terminale di un complesso sistema criminale, la gran parte di natura occulta e operante anche in territorio estero, destinato anche ad acquisire e gestire informazioni riservate fornite da numerosi soggetti in corso di individuazione”.Poco dopo le 11 l'ex ministro Claudio Scajola ha lasciato la sede della Dia di Roma per essere portato in carcere a Regina Coeli, dove è in arresto per aver favorito la latitanza dell'ex deputato Amedeo Matacena. All'uscita dell'edificio Scajola ha mostrato un momento di evidente sorpresa per la presenza delle telecamere e fotografi che lo attendevano nel breve tragitto verso l'auto delle forze dell'ordine. Insomma l'operazione conclusa all'alba dell'8 maggio con l'arresto di Scajola, della sua segretaria Roberta Sacco, della moglie di Matacena, Chiara Rizzo, e di altri cinque indagati è soltanto l'inizio. Indagato ma non arrestato risulta il trentanovenne Vincenzo Speziali junior, che in un colloquio con Scajola dice di sé: “io sono programmato per non sbagliare”. Speziali ha sposato la libanese Joumana Rizk, che risulta essere nipote di Amin Gemayel, ed è omonimo dello zio senatore ed ex presidente di Confindustria Calabria, oltre che presidente dell'aeroporto di Lamezia Terme su nomina di Giuseppe Scopelliti, governatore dimissionario e candidato Ncd alle Europee. Speziali senior è anche indagato per concussione all'Asp di Crotone. Molti degli amici del “circolo Matacena” sono semplicemente citati nei documenti della Dda reggina. Molti hanno cognomi storici o vicende giudiziarie alle spalle. Appena Matacena viene arrestato a Dubai, dove si è recato per rinnovare il visto di permanenza alle Seychelles nello scorso agosto, è Giorgio Fanfani, figlio di Amintore, ad attivarsi per trovare un legale italiano negli Emirati: Ottavia Molinari. La sorella Cecilia Fanfani è definita “buona amica” da Chiara Matacena. Al consulto legale partecipa anche Carlo Biondi, figlio dell'ex Guardasigilli e avvocato Alfredo. C'è poi Marzia Mittiga, moglie dell'armatore Manfredi Lefebvre d'Ovidio, anch'egli residente a Montecarlo come l'armatore Matacena. Marzia Lefebvre, secondo gli investigatori, ha prestato la sua mail per alcuni messaggi che Chiara doveva mandare al marito negli Emirati. Speziali junior è l'ufficiale di collegamento che organizza, l'11 febbraio 2014, l'incontro romano tra Chiara Matacena e Luigi Bisignani. Lo stesso giorno, Speziali pranza con un altro piduista, il livornese Emo Danesi, vicino all'Udc. Durante il pranzo, Speziali telefona a Scajola mentre l'ex ministro si trova al ristorante romano Le tamerici con Daniele Santucci e Giovanni Morzenti. Santucci, presidente dell'Agenzia italiana per pubbliche amministrazioni e socio di Pier Carlo Scajola, figlio di Claudio, sarà arrestato il 14 marzo 2014 con l'accusa di peculato per 7 milioni di euro. Bisignani finirà agli arresti il 14 febbraio, tre giorni dopo l'incontro per l'affaire Matacena, per gli appalti di Palazzo Chigi. Morzenti, ex presidente della Federazione italiana sport invernali (Fisi), è stato condannato in via definitiva per concussione nel febbraio 2013. Alla comitiva dell'11 febbraio di unisce a un certo punto anche l'ex deputata crotonese del Pd Marilina Intrieri. Ma l'aiuto più importante a Chiara Rizzo arriva sicuramente da Scajola. È lui che la moglie di Matacena chiama in lacrime alle 9 di mattina appena dopo l'arresto del marito a Dubai, il 28 agosto 2013, chiedendogli subito un incontro a Montecarlo. L'ex ministro glielo concede. Da lì in avanti le intercettazioni fra i due sono spesso criptiche, con il latitante che viene a volte indicato come “la mamma” oppure con il nome del figlio Athos. Quando poi, dopo una serie di incontri a Beirut e all'ambasciata romana del Libano, il circolo Matacena deciderà di tentare la carta dell'asilo politico sotto l'ombrello protettore di Amin Gemayel, Scajola parlerà al telefono di “scuola”. Peraltro, senza subito essere compreso da Chiara Matacena. Più complessa è l'articolazione del salvataggio economico. In previsione della fuga, Matacena organizza un reverse merger delle sue società (Amadeus con le sue tre motonavi, la finanziaria Solemar, la lussemburghese Xilo, la Mediterranea shipping, più le due liberiane Amshu e Athoschia) per evitare di essere coinvolto nel blocco dei beni. Anche la moglie subisce il blocco del suo conto al Monte dei Paschi di Siena per decisione della direzione a settembre del 2013. Il flusso di soldi, però, è proseguito.

BARONATO. EXPO LA NUOVA TANGENTOPOLI. E LA GUERRA TRA TOGHE.

Università, concorsi truccati. Indagati sessanta professori. A Milano parte l'inchiesta per le selezioni. Già coinvolto nella vicenda il docente barese Loiodice, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La maxi inchiesta sui presunti concorsi universitari truccati si allarga e un filone investigativo finisce a Milano per competenza territoriale. Sono 35 i professori indagati nello stralcio inviato alla Procura lombarda dai pm baresi Renato Nitti e Francesca Romana Pirrelli, tra questi c’è anche il docente barese Aldo Loiodice. L’indagine trasmessa a Milano riguarda solamente le selezioni svolte in tutta Italia, tra il 2008 e il 2010, per posti da professori di prima e seconda fascia in diritto pubblico comparato. A Bari, invece, restano altre due indagini che si concentrano sui concorsi di diritto ecclesiastico e costituzionale svolti nello stesso periodo. Complessivamente, nella maxi inchiesta sono coinvolti una sessantina di docenti mentre sono nove le selezioni finite nel mirino della guardia di finanza. Il troncone dell’inchiesta che è rimasto Puglia è in fase di chiusura, i pm inquirenti a breve notificheranno gli avvisi di conclusione delle indagini. La Procura barese ipotizza i reati di associazione per delinquere finalizzata a corruzione, abuso d’ufficio e falso ideologico. Le carte che riguardano il concorso di diritto pubblico comparato sono state inviata a Milano perché, secondo i pm Nitti e Pirrelli, la presunta associazione per delinquere contestata agli indagati sarebbe stata costituita nel capoluogo lombardo. Tra i 35 nomi stralciati non figurano quelli dei cinque «saggi» incaricati nei mesi scorsi di supportare il governo Letta nella definizione delle riforme costituzionali. Il loro coinvolgimento nell'inchiesta emergerebbe dal contenuto di alcune intercettazioni telefoniche riportate nell'informativa conclusiva della guardia di finanza e depositata circa un anno fa. Secondo gli inquirenti, in una sorta di circoli privati si sarebbe deciso il destino degli aspiranti docenti attraverso accordi, scambi di favore, sodalizi e patti di fedeltà. Nell’ambito di questa inchiesta, nel marzo 2011, furono eseguite perquisizioni in 11 Atenei diversi: Milano, Bari, Roma, Napoli, Bologna, Firenze, Piacenza, Macerata, Messina, Reggio Calabria e Teramo, e 22 docenti furono iscritti nel registro degli indagati. Nel corso delle verifiche il numero dei professori è salito, i 35 indagati nello stralcio finito a Milano rappresentano solamente un terzo del numero complessivo di docenti sotto indagine. L’inchiesta è partita nel 2008 grazie ad un esposto anonimo - finito nella mani della Pirrelli - nel quale veniva segnalato che quattro bandi da ricercatore all’università telematica Giustino Fortunato di Benevento avevano già i loro vincitori, ancora prima che venissero eseguite le prove. L’indagine ha così mosso i primi passi, ma poi scavando tra i documenti sequestrati, indagando e intercettando, gli inquirenti baresi hanno intrapreso altre strade fino a ricostruire la presunta rete non lecita di favori tra i docenti italiani. Secondo i pubblici ministeri, come le tessere di un grande puzzle, i vincitori dei concorsi universitari banditi in tutta Italia tra il 2008 e il 2010 si sarebbero andati ad incastrare a seconda dei desideri dei docenti. Le selezioni per posti di prima e seconda fascia, per ordinari e associati, all’interno dei dipartimenti di diritto costituzionale, canonico e pubblico applicato, sarebbero state decise a tavolino dagli stessi baroni ancora prima che venissero eseguite le prove. Come? Secondo la Procura attraverso uno «scambio di favori». I docenti avrebbero manipolato «l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche bandite» attraverso «accordi, scambi di favore, sodalizi e anche patti di fedeltà». Secondo la magistratura inquirente pugliese, alcuni docenti provarono anche a fare pressioni sull’ex ministro Gelmini per bloccare alcune riforme.

Non solo Expo 2015, scrivono Emilio Randacio ed Attilio Bolzoni su “La Repubblica. Primo Greganti, Gianstefano Frigerio, Angelo Paris e gli altri arrestati e indagati nell’inchiesta milanese gestivano appalti anche nella Sanità lombarda. Intanto emergono nuovi particolari nell’indagine che ha portato all’arresto dell’ex ministro di Forza Italia Claudio Scajola. E da Dubai, dove si trova da latitante, Amedeo Matacena dice a Repubblica: faccio il maître, non tornerò in Italia. Ieri sera la Cassazione ha confermato la condanna a 7 anni di reclusione per Marcello Dell’Utri. La «cupola» o la «cordata»: così nelle carte della procura viene indicato il gruppo di sette persone finite in carcere a Milano per associazione a delinquere all’alba di giovedì. Un «circuito deflagrante e perverso», scrive sempre la procura, pilotato dagli gli ex parlamentari Luigi Grillo e Gian Stefano Frigerio insieme al «compagno G» Primo Greganti. Quest’ultimo, alla vista dei militari che gli notificavano l’ordinanza diciannove anni dopo quella che lo portò in cella durante Tangentopoli, è scoppiato in lacrime. Insieme al direttore generale degli acquisti Expo Angelo Paris, all’ex segretario Udc ligure Sergio Mattozzo (al quale i militari hanno trovato in casa 12.500 in contanti nascosti), puntavano a mettere le mani su appalti per mezzo miliardo. La fetta più corposa erano gli oltre 300 milioni che vale il progetto della “Città della salute”, le cui buste con le offerte dovevano essere segrete e sono invece state rinvenute e sequestrate durante gli arresti.

Expo e sanità, il sistema spiegato da un factotum dell’ex dc Frigerio. L’accordo con Greganti. «Ragazzi, adesso c’è la Città della Salute», scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. Il manuale d’istruzioni della catena di montaggio degli appalti truccati, l’autopsia in diretta dei «delitti» compiuti nei lavori della sanità o delle opere pubbliche come Expo: il Virgilio che guida in questo girone infernale è, in una impagabile intercettazione ambientale nel circolo culturale milanese «Tommaso Moro» dell’arrestato ex dc ed ex parlamentare berlusconiano Gianstefano Frigerio, il suo factotum di fiducia: l’indagato Giovanni Rodighiero, orgoglioso il 31 luglio 2012 di magnificare il sistema a un non identificato dirigente sanitario tanto desideroso di esservi ammesso. «I primari, i medici che gareggiano, vengono e vanno dai politici perché la Sanità è gestita dai politici - esordisce Rodighiero - . Allora se tu hai il santo protettore», che nel contesto sarebbe Frigerio, «il santo protettore ne prende atto (delle tue esigenze ndr ), ti chiede il curriculum e poi va a parlare con chi di dovere... Se gli garantisce il direttore generale che lo porta quello là, questo si afferma... fa la gara e vince lui...». Il risultato è che «lui è riconoscente a Gianstefano» e «Gianstefano è riconoscente al direttore generale». E «dato che soldi non ce ne sono sempre», o «si rompe le scatole al direttore generale di dargli un po’ di soldi o di mettere questo cavolo di macchinario che serve... capito?». Si può così passare alla fase due: la gara d’appalto per il tipo di fornitura in questione, e cioè - riassume il gip Fabio Antezza - «i meccanismi tramite i quali si riesce a predeterminare l’aggiudicazione a favore delle imprese per cui opera l’associazione, in primo luogo con il confezionamento ad hoc di bandi di gara e capitolati». Anche qui lo spiega Rodighiero, che fa l’esempio di una gara da 40 milioni di euro nella ristorazione in ambito ospedaliero: «C’è il provveditore e c’è l’ingegnere che stanno preparando il tutto, l’ingegnere l’ho fatto conoscere all’azienda. Come è pronto il documento (lo schema del bando ndr ), viene dato a una persona fidata, va in azienda, glielo dà, lo guardano... “questo non va bene e questo va bene... c’è da aggiungere questo questo e questo... farla su misura a me”... Viene ridato, l’ingegnere mette dentro e toglie (quello che l’impresa aveva chiesto di aggiungere e levare ndr ), il provveditore e l’ingegnere sono in sintonia. E quando è pronto il capitolato, è stato fatto su misura a te e non ad altri». Terzo tempo: adesso c’è da concordare il prezzo per la corruzione. «Se hai vinto, c’è un accordo a monte, che tu devi riconoscere ics...». Anche con rateizzazioni della mazzetta: l’appalto «viene dato a te, perché si chiude con l’accordo a te e tu sei l’uomo che deve andare dal direttore generale a dargli i soldi, ogni anno... Subito tutti non li hai... hai un anticipo annuale alla firma. Quando hai vinto l’appalto, un ics... ti tieni la tua parte e il resto gliela dai a quello là... l’anno prossimo quando fanno i pagamenti gli dai la rata... per nove anni». Quarta e ultima fase: il mantenimento degli accordi. E qui, per quanto buffo possa sembrare nel contesto tangentizio, la credibilità è tutto. L’importante è che l’accordo sia osservato qualunque cosa succeda, perfino se quel determinato manager statale corrotto dovesse cambiare posto: «Lui va via? Vai avanti a dargliela, eh?... è sempre stato così». Perciò i componenti dell’associazione a delinquere temono come la peste quegli imprenditori che non siano puntuali nel rispettare la tabella dei pagamenti programmati. Lo si ascolta, in un’altra intercettazione, quando il 15 marzo 2013 uno dei mediatori che collaborano con Frigerio, Walter Iacaccia, gli esprime l’irritazione per un imprenditore che non sta onorando una rata di 50.000 euro, che Frigerio a sua volta attende di dover poi consegnare a un pubblico ufficiale: «Io gli ho semplicemente detto (all’imprenditore inadempiente ndr ): non devi farmi fare figure di cacca... perché se tu fai così, non sai cosa ti precludi... ma soprattutto non puoi più chiedere favori... Ma che persona sei? Io ci metto la faccia sempre... ma porca miseria, ma tu pensi veramente di poter lavorare senza di noi?». Ieri, intanto, dai politici evocati «de relato» nelle intercettazioni sono arrivate altre smentite. Dopo aver letto che Frigerio asseriva «devo mandare un biglietto a Maurizio Lupi con il nome di Antonio Rognoni (allora direttore generale uscente di Infrastrutture Lombarde ndr ) per suggerirlo come presidente Anas», l’alfaniano ministro delle Infrastrutture ieri ha dichiarato «con assoluta certezza di non aver mai ricevuto quel biglietto né alcun altro tipo di comunicazione». Di «illazioni o millanterie» aveva già parlato anche l’ex segretario pd Pierluigi Bersani, citato il 7 settembre 2012 da Frigerio che aggiornava Rognoni sul progetto della Città della Salute a Sesto San Giovanni, del valore di 323 milioni e con stazione appaltante proprio Infrastrutture Lombarde: «Ho sentito un po’ a Roma Bersani e poi gli altri sulla Città della Salute, tu devi cominciare a fare delle riflessioni, poi, senza responsabilità tue, mi dici come far partire un colosso macello perché è una cosa grossa... Poi Bersani mi ha detto “a sinistra cosa fate?”, bisogna che senta, se Rognoni mi dice Manutencoop per me va bene». Ma per Bersani questo discorso non c’è mai stato. Le buste sigillate con le offerte relative alla gara ancora da aggiudicare per la realizzazione della Città della Salute sono fra le carte che l’altro ieri gli inquirenti hanno sequestrato a margine dei 7 arresti: a detta del gip, per l’associazione capeggiata da Frigerio era «necessario coinvolgere da subito un grande pool di imprese», procedendo «in accordo con Primo Greganti» e spingendo sulla «Cooperativa Manutencoop» (il cui indagato amministratore Claudio Levorato è una delle 12 persone per cui il gip ha respinto l’arresto per carenza di esigenze cautelari) «in quanto la coop ha i necessari collegamenti» a sinistra, là dove Frigerio si ritiene «coperto» appunto da Greganti, il «compagno G» già arrestato in Mani pulite vent’anni fa. Sin dal settembre 2012, ritiene quindi il gip, «il sodalizio imposta la consueta strategia di individuazione delle opzioni anche politiche in grado di assicurare un intervento efficace, e degli imprenditori da favorire con avvicinamento e corteggiamento». Che le intercettazioni possano sempre avere più spunti di lettura, del resto, affiora persino nel caso di Rognoni, sul cui conto l’arrestato Sergio Cattozzo (ex segretario dell’Udc ligure e collaboratore di Frigerio) il 20 gennaio di quest’anno esprimeva delusione dopo un iniziale periodo di abboccamenti reciproci, concordando con Frigerio su quanto fosse invece il caso di investire meno su Rognoni e più sul successore Angelo Paris, general manager di Expo 2015 pure arrestato giovedì: «...perché fra poco c’è la Città della Salute, ragazzi!... E siccome Rognoni a noi non ha dato niente, non abbiamo nemmeno debiti nei suoi confronti». Greganti, per parte sua, appare molto interessato a ritagliarsi un ruolo nella realizzazione del padiglione della Cina (con la quale ha noti legami d’affari) all’Expo 2015. Il 21 marzo scorso, al telefono con il liquidatore di Tempi Moderni S.r.l., Greganti - annota il gip - «sottolinea che la Cina ha intenzione di predisporre l’intero padiglione in modalità self-built», cioè costruendoselo da sola, «tuttavia Greganti riferisce di aver comunque rappresentato l’importanza della sua mediazione», per la quale sembrerebbe tenere rapporti con l’ambasciata di Pechino e mandare una memoria in Cina. Intanto le comiche, come talvolta accade, fanno capolino al confine di cose serie. E così giovedì, durante le perquisizioni Gdf contemporanee all’arresto delle 7 persone, Cattozzo è quasi riuscito a far sparire davanti ai militari, strappandoli da una agenda e nascondendoli nelle mutande, alcuni post-it. I foglietti, una volta recuperati dall’imbarazzante nascondiglio, si sono rivelati annotazioni di cifre e percentuali e nomi: forse proprio la medesima contabilità delle tangenti su una gara di Expo 2015 che i pm Antonio D’Alessio e Claudio Gittardi avevano ascoltato in una intercettazione.

Caso Expo, Greganti e la pista cinese. Come per Mani pulite la Cina è il cuore del business dell'ex tesoriere Pci: il suo braccio operativo è la società Seinco, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Sindrome cinese: scavi nell'Expo di Milano e sbuchi in Cina. Negli affari di Primo Greganti, il «compagno G» tornato in cella a ventun anni da Tangentopoli, riaffiora prepotentemente la potenza asiatica. Di Cina l'ex tesoriere del partito comunista torinese aveva già parlato nel 1993, quando aveva cercato di convincere i pm milanesi che i 621 milioni incassati da Panzavolta non erano destinati a Botteghe Oscure ma a cercare appalti nella Repubblica Popolare. E di Cina si torna a parlare nelle carte della retata che l'altro ieri rispedisce in carcere Greganti insieme al suo coevo dell'altra sponda, l'ex dc Gianstefano Frigerio.A stimolare l'interesse di Greganti è il padiglione che il governo di Pechino deve realizzare per l'esposizione universale milanese del 2015. Business di «grande interesse», secondo l'ordine di custodia, per il «compagno G», che tiene rapporti con l'Ambasciata cinese in Italia e manda memorie in Cina. «Beh i cinesi li abbiamo incontrati, li ho incontrati a Milano», dice Greganti in una intercettazione, «fanno fare tutto giù in Cina, qui c'è solo un problema di montaggio (...) Perché c'è un rapporto con le Istituzioni, con l'Amministrazione, un rapporto con le altre imprese che lavorano lì». «Comunque - aggiunge - in ogni caso, gli abbiamo detto noi siamo qua (...) che se avete bisogno noi ci siamo, insomma, vi assistiamo in tutto, voi state tranquilli, definiamo prima quali sono i costi, voi sicuramente risparmiate, accelerate i tempi e noi vi diamo una mano». D'altronde «la Cmc già c'ha un ufficio in Cina a Shangai». L'ultima affermazione è interessante, perché riporta a uno degli assi conduttori dell'inchiesta su Expo: il rapporto tra Greganti e le cooperative rosse, il ruolo del «compagno G» nell'assicurare alle coop fette rilevanti della torta milanese. Secondo la Procura, il braccio operativo di Greganti è una società torinese che si chiama Seinco. È a nome della Seinco, per esempio, che l'11 dicembre scorso Greganti telefona a Riccardo Casale, amministratore delegato di Sogin, il colosso pubblico dello smaltimento nucleare: «Sono della società Seinco, gli dica Primo Greganti, lui si ricorderà probabilmente». Oggi, negli uffici della Seinco i telefoni suonano a vuoto, la mail è irraggiungibile. Ma fino a pochi mesi fa la Seinco era pienamente operativa, il sito vanta appalti in Cina, a Cuba, lavori per le cooperative e per il gruppo Ferruzzi (sarà ancora la consulenza dei 621 milioni?). Per il giudice preliminare Fabio Antezza la Seinco è lo scherma dietro cui viaggiano le tangenti: «Il documento in oggetto - scrive il gip commentando uno scambio di mail tra Greganti e un dirigente della cooperativa Cmc - conferma il sovente (sic) utilizzo da parte degli associati di fittizi contratti di consulenza come mezzo attraverso cui giustificare la percezione delle indebite dazioni di denaro». Il confine tra consulenza e tangente può risultare esile: e proprio su questa linea è facile prevedere che si attesterà Greganti, quando dopodomani si troverà faccia a faccia col giudice che lo ha arrestato. Anche a lui, come vent'anni fa a Di Pietro, il tarchiato ex cassiere del Pci spiegherà di non essere un collettore di mazzette ma un semplice, scrupoloso cucitore di rapporti commerciali. D'altronde, anche a leggerle una per una, è impossibile trovare nelle intercettazioni una sola frase in cui Greganti si sbilanci. Mentre Frigerio ne dice di cotte e di crude, Greganti è sempre lui: attento, preciso, taciturno. È innocente, o ha semplicemente imparato la lezione?

C'è il compagno G, D'Alema si scopre garantista. L'ex premier freddo sull'inchiesta. E Lupi si difende sul pizzino di Frigerio: mai ricevuto, scrive Giannino della Frattina su“Il Giornale”. Dopo i sette arresti dell'alba di giovedì e le 80 perquisizioni in 15 città che hanno decapitato i vertici dell'Expo con il general manager Angelo Paris finito a San Vittore, Massimo D'Alema si riscopre garantista. Sarà perché questa volta alle patrie galere sono state associate anche due vecchie conoscenze di Mani pulite come l'allora segretario della Dc Gianstefano Frigerio e il cassiere del Pci Primo Greganti e quello erano tempi in cui «Baffino» era giovane e sognava per sé un futuro ben più radioso di quanto sia poi stato. O forse perché quando l'inchiesta cominciò a occuparsi delle tangenti rosse al Pci-Pds, fu proprio D'Alema a definire con disprezzo il pool «soviet di Milano». In realtà un soviet che si occupò di tutti fuorché dei comunisti, spianando loro la strada verso un potere che mai avrebbero conquistato. Son passati gli anni ed ecco D'Alema a difendere (forse per gratitudine) il «compagno G», quel «militante di scarsa fama, ma di sicura fede» che, arrestato nel '93, tenne testa ai magistrati negando che una tangente da 1,2 miliardi di lire fosse destinata al suo partito. Risparmiando così qualche guaio ai «rossi», ma arrecandone parecchi al nostro sventurato Paese. «Sono molto prudente a parlare di vicende giudiziarie che non conosco», ha detto ieri D'Alema presentando il suo Non solo euro al Salone del libro di Torino con il direttore del Tg3 Bianca Berlinguer. Tanto per non andare troppo lontano. «Ho imparato - ha assicurato iper garantista - che il 40-45 per cento delle persone accusate vengono prosciolte». Dicendosi perciò scettico sulla «smania di pronunciare sentenze su istruttorie parziali». E assicurando che «oggi sono finiti i partiti ma non la corruzione che è un fattore endemico nella società italiana». A Roma, intanto, un «biglietto» galeotto fa tremare il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi che nella sfida dell'Expo si è buttato a capofitto. Perché molti lavori e finanziamenti sono di sua competenza, ma anche perché sogna di correre tra due anni per diventare sindaco di Milano dove fu assessore nella giunta Albertini. Allora formigoniano di ferro, oggi in rampa di lancio per prendere il suo posto al vertice di quella galassia ciellina da cui sta cercando di estromettere il Celeste, ormai troppo invischiato nelle vicende giudiziarie per essere un buon testimonial del nuovo corso dell'Ncd alfaniano. «Leggo che nell'ordinanza per gli arresti dell'indagine sugli appalti di Expo - si legge in una nota di Lupi - vengo citato da Gianstefano Frigerio. Il quale, il 29 aprile dell'anno scorso, affermava: Devo mandare un biglietto a Maurizio Lupi con il nome di Antonio per suggerirlo come presidente Anas. Posso dire con assoluta certezza di non aver mai ricevuto quel biglietto né alcun altro tipo di comunicazione». A parlare del biglietto è il gip di Milano Fabio Antezza nell'ordinanza di custodia cautelare, mentre l'Antonio di cui si parla è quel Rognoni arrestato un mese fa nell'inchiesta su Infrastrutture Lombarde. A Milano, intanto, il giorno dopo le manette il sindaco Giuliano Pisapia e il governatore Maroni spingono per accelerare al massimo la nomina del sostituto di Paris. «Purtroppo - dice Maroni - Paris faceva tutto e deve essere sostituito immediatamente con una persona che abbia due requisiti: grande competenza e professionalità e, visto questo rigurgito di Tangentopoli, magari se viene da fuori e non ha avuto rapporti con questi ambienti è meglio». Fretta e condizioni che sembra non siano piaciute al commissario Expo Giuseppe Sala a cui spetta la decisione. E martedì a Milano arriva il premier Matteo Renzi.

Come prima, più di prima, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Per piacere: evitateci lo stupore scandalizzato, «chi se lo immaginava?», «non l’avrei mai detto...». Tutto sono, gli arresti di ieri per l’Expo 2015, tranne che una clamorosa sorpresa. Perché, ferma restando l’innocenza di tutti fino alle sentenze, le cose stavano procedendo esattamente come era andata troppe altre volte. Il solito copione. Recitato per i Mondiali di nuoto, le Universiadi, la World Cup di calcio, l’Anno Santo... Anni perduti nei preliminari, discussioni infinite sui progetti, liti e ripicche sulla gestione e poi, di colpo, l’allarme: oddio, non ce la faremo mai! Ed ecco l’affannosa accelerazione, le deroghe, il commissariamento, le scorciatoie per aggirare lacci e lacciuoli, le commesse strapagate, i costosissimi cantieri notturni non stop. Sono sei anni, dal 31 marzo 2008, che sappiamo di dovere organizzare l’Expo 2015. E anni che sappiamo, dopo i trionfi di Shanghai 2010 dove il nostro padiglione fece un figurone, che l’impresa è difficile se non temeraria. Eppure solo Napolitano, all’ultimo istante, si precipitò alla grandiosa esposizione cinese per ricevere il passaggio del testimone e mettere una toppa sulle vistose assenze del nostro governo. Dopo di allora, tanti proclami, annunci, rassicurazioni... Mentre cresceva, nonostante l’impegno generoso di tanti, la paura di non farcela. È una maledizione, la fretta. E ci caschiamo sempre. O forse è peggio ancora: c’è anche chi scommette sui ritardi e sulla accelerazione febbrile col cuore in gola. Quando il rischio che salti tutto fa saltare le regole che erano state fissate e i prezzi schizzano sempre più su, più su, più su. Proprio come previde nel 2010 la presidente degli architetti milanesi denunciando «perplessità in merito al rispetto delle scadenze per il completamento dei lavori, alla trasparenza delle procedure e alle modalità che saranno utilizzate per affidare gli appalti». Già la prima di quelle gare, del resto, fu un’avvisaglia: vinse un’impresa con un ribasso enorme da 90 a 58 milioni ma l’anno dopo già batteva cassa per averne 88. Per non dire delle infiltrazioni nei subappalti di imprese in odore di mafia: il capo della polizia Pansa, mesi fa, comunicò che 23 aziende erano state escluse. Lo stesso sindaco Pisapia, però, spiegò d’essere sulle spine: troppi, sei mesi di analisi burocratiche, per verificare la serietà di una ditta. Tanto più se la fretta si fa angosciosa. L’unica sorpresa, nella retata di ieri che segue il fermo un mese fa del direttore generale di Infrastrutture Lombarde Giulio Rognoni, sono i nomi di alcuni degli arrestati. Già tirati in ballo vent’anni fa, nella stagione di Mani pulite, come se non fosse cambiato niente. Dal costruttore Enrico Maltauro all’ex pci Primo Greganti fino all’ex dicì Gianstefano Frigerio, poi candidato da Forza Italia (lifting anagrafico...) col nome d’arte di Carlo. Ma come, direte: ancora? Ancora, accusano i magistrati. E parlano d’«una cupola» che «condizionava gli appalti» in favore di «imprese riconducibili a tutti i partiti». Cosa significa «tutti»? Mancano solo un paio di settimane alle elezioni europee. E un anno all’apertura dell’Expo: i dubbi su quello che è oggi il più grande investimento nazionale e rischia di trasformarsi da vetrina della speranza e del rilancio in una vetrina infangata devono essere spazzati via in fretta.

Romanzo criminale bipartisan, scrive Marco Lillo su “Il Fatto Quotidiano”. Gli arresti di Reggio Calabria nei confronti di Claudio Scajola (per aver favorito nella latitanza l’ex deputato di Forza Italia Amedeo Matacena) e quelli nei confronti di due ex democristiani passati a Forza Italia, Gianstefano Frigerio e Luigi Grillo, per gli appalti dell’Expo di Milano, insieme al compagno Primo Greganti, fotografano due momenti di un unica storia iniziata venti anni fa. Se le accuse saranno confermate non sarà poi tanto esagerato parlare di un ‘romanzo criminale’ che affianca e spesso si intreccia con la storia ufficiale del partito fondato e tuttora guidato nei fatti da Silvio Berlusconi. Claudio Scajola è stato arrestato, con l’accusa di avere favorito l’ex parlamentare calabrese di Forza Italia Amedeo Matacena nella sua latitanza. L’ex parlamentare calabrese che ha avuto un momento di gloria quando testimoniò in favore di Marcello Dell’Utri al suo processo, è stato condannato a 5 anni per i suoi rapporti con le cosche di Reggio. Voleva andare in Libano da Dubai dove era stato localizzato ed era in attesa di estradizione.    Nella sua ordinanza, il gip scrive che le investigazioni “vedono Scajola in pole position nell’impegno volto all’individuazione di uno Stato estero che evitasse per quanto possibile l’estradizione di Matacena o la rendesse quantomeno molto difficile e laboriosa. Tale Stato Scajola lo individuava nel Libano, impegnandosi con personaggi esteri di rango istituzionale per ottenere tale appoggio per tramite di importanti amicizie”. La storia è intrigante perché c’è un punto di connessione tra la fuga di Dell’Utri e quella del suo vecchio amico degli inizi di Forza Italia. Secondo il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho: “C’è qualche identità personale in relazione alle due indagini. Si tratta di un personaggio destinatario di perquisizione che ci risulta protagonista nella vicenda Dell’Utri, Speziali”, cioé Vincenzo Speziali, nipote e omonimo dell’ex senatore del Pdl, sarebbe lui l’uomo che aveva un gancio con l’ex presidente del Libano Gemayel, candidato alle prossime elezioni e in buoni rapporti con Silvio Berlusconi. L’indagine della Dia di Reggio Calabria racconta quindi che un ex ministro dell’interno nonché ex coordinatore del partito di Silvio Berlusconi, avrebbe favorito un condannato definitivo per concorso esterno con la ’ndrangheta nella sua fuga. Non solo. Ci racconta che la destinazione finale e il gancio della fuga di Matacena a Beirut sarebbero comuni con quella appena avvenuta del fondatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri. L’immagine di Scajola, ministro dell’Interno che guidò il Viminale nel triste momento del G8 di Genova nel 2001, che viene portato negli uffici della Dia di Roma e poi nel carcere di Regina Coeli è certamente inquietante ma almeno appartiene ormai al passato dell’Italia berlusconiana. Come anche l’immagine di Marcello Dell’Utri trattenuto in ospedale a Beirut o quella di Matacena, per ora libero di circolare a Dubai. L'altra indagine, quella di Milano sugli appalti delll’Expo, invece è molto più inquietante perché riguarda l’oggi. Non solo nel campo del centrodestra ma anche in quello del centrosinistra. L’ordinanza di arresto di Milano ha colpito quella che sembra, secondo la ricostruzione dell’accusa, una sorta di cupola bipartisan degli appalti. Sono stati infatti arrestati Primo Greganti, il compagno G simbolo del coinvolgimento del Pci nell’indagine Mani Pulite nel 1992 da un lato e Gianstefano Frigerio, simbolo della continuità tra le mazzette della prima repubblica e la politica della seconda repubblica, dall’altro lato. Frigerio infatti, nato nel 1939 a Cernusco sul Naviglio, è stato condannato definitivamente a tre anni e nove mesi per le mazzette sulle discariche lombarde (corruzione) e a due anni e undici mesi in altri due processi della Tangentopoli milanese. Era il capo della Dc a Milano ed è diventato deputato di Forza Italia grazie a Berlusconi nel 2001.    Primo Greganti, classe 1944, divenne famoso per il suo silenzio con i magistrati ai tempi di Tangentopoli. Il primo marzo 1993 venne arrestato su richiesta del pm Antonio Di Pietro, con l’accusa di corruzione, per aver ricevuto in Svizzera, tra il 1990 e il 1992, 621 milioni dal gruppo Ferruzzi per appalti Enel. Denaro che, secondo la magistratura, rappresentava la prima delle due quote riservate al Pci-Pds delle tangenti concordate con il sistema dei partiti (l’1,6 per cento sul valore delle commesse). Il compagno G. negò sempre ogni addebito e continuò a ripetere che si trattava di consulenze personali. Alla fine Greganti patteggiò solo una pena di 3 anni poi ridotta di sei mesi. Tra gli arrestati di ieri c’è anche un vecchio democristiano ligure, Luigi Grillo, poi passato a Forza Italia e decisivo nella nascita del primo Governo Berlusconi nel 1994. Grillo parlava al telefono con l’ex ministro della difesa del primo Governo Berlusconi. Non dei bei tempi del 1994 ma della nomina di un manager pubblico, Giuseppe Nucci, che aspirava a una nomina a Terna. Previti parla con Grillo dell’argomento Nucci e quest’ultimo parla con Greganti. Insomma, se Frigerio, Greganti e Grillo sono personaggi del passato. Gli affari di cui si occupavano sono quelli di oggi, dell’expo di Milano. In carcere è finito infatti anche il direttore dell’ufficio contratti dell’Esposizione di Milano, Angelo Paris. I pm contestano un’associazione a delinquere per pilotare bandi. In carcere è finito anche il genovese Sergio Catozzo, ex Cisl, ex Udc infine berlusconiano. Ai domiciliari Antonio Rognoni, direttore generale di Infrastrutture Lombarde, già arrestato due mesi fa per presunte irregolarità negli appalti delle opere pubbliche. E’ indagato anche il ras della Manutencoop Claudio Levorato. Al presidente della cooperativa bolognese rossa, come si diceva una volta, i magistrati contestano l’associazione a delinquere finalizzata alla turbativa d’asta e al traffico di influenze. L’uomo della Manutencoop Levorato e l’amico di Berlusconi, Gianstefano Frigerio, sono stati intercettati il 7 novembre 2013 mentre parlavano dell’appalto della Città della Salute. Frigerio propone, mentre una cimice della Dia registra le sue parole, a Levorato di usare i suoi appoggi politici nel Governo di centrosinistra (allora guidato da Letta) per favorire la nomina di Antonio Rognoni, allora presidente della società Infrastrutture Lombarde che si occupa degli appalti dell’Expo, alla guida dell’Anas. Frigerio dice: “io gli ho detto che una mano gliela do, per quello che posso fare io , della parte di Governo con cui ho rapporti io. Questa è una carta che può servire anche a lei perché un pezzo di Govemo ce l’ha anche lei … forse anche di più”. Frigerio suggerisce di piazzarlo al posto di direttore dell’Anas e Levorato non si scandalizza. In una conversazione intercettata c’è anche una telefonata del febbraio scorso in cui Frigerio sostiene di volersi mettere in contatto con Lorenzo Guerini, il nuovo portavoce della segreteria, il volto nuovo del Pd di Matteo Renzi. Il 24 febbraio scorso Frigerio dice all’amico Cattozzo “devo parlarne con Guerini” e Cattozzo replica: “devo organizzare un incontro con te e Guerini così lo tiriamo dentro, stiamo parlando di sette miliardi di lavoro”. Ma Lorenzo Guerini dice al Fatto: “Non li ho mai visti né sentiti. Non so chi sia questo Cattozzo”. Anche Pierluigi Bersani è tirato in ballo da Frigerio. L’ex parlamentare berlusconiano racconta di avere parlato con lui degli appalti dell’expo. Bersani al Fatto dice: “Pura millanteria non ho mai incontrato questa persona. Non mi sono mai occupato di queste questioni”.

La giustizia è e rimane la vera questione politica in Italia, scrive Fabio Camilleri su “La voce di New York”. Gli ultimi “clamorosi arresti” quali monotone variazioni sul tema. E mettere la testa sotto la sabbia non serve, a meno di non volerla perdere. A Milano arrestano l’Expo, a Reggio Calabria arrestano l’ex ministro Claudio Scajola e, per non restare indietro con la campagna elettorale, arresta pure la Camera dei Deputati, autorizzando i ceppi per Francantonio Genovese, deputato del partito Democratico, già sindaco di Messina. Per una volta, provo a ritenere che siano stati raccolti sufficienti indizi di colpevolezza in ciascuno di questi casi. Solo che rinchiudere in prigione prima del processo, lo sanno ormai anche i muri, dopo ventidue anni di ManiPulite Continua, è possibile se ricorrono uno o più dei “pericoli” per il processo medesimo: e cioè che l’inquisito si dia alla macchia, oppure che ricada nel peccato, o, infine, che provi a strappare le carte del Pubblico Ministero. Gli stessi muri di prima sanno che queste ultime generalmente sono tutte previsioni (di legge) che si autoavverano. In concreto, il pericolo c’è se chi accusa lo afferma. Perciò non ci resta che giurare in verba magistri: se li hanno arrestati, evidentemente un motivo c’era. Così va in Italia e così, per una volta, vorrei provare a ritenere anch’io. Solo che la mia buona volontà Legge e Ordine viene subito messa alla berlina. Già Scajola ristretto (in via cautelare) perché avrebbe aiutato un condannato per un reato di dubbia oggettività (“vicinanza”, “sostegno intermittente”, “contatti” “conoscenze” e via enumerando da una secolare coscienza, si dice per dire, inquisitoria) a fuggire, da uno stato in cui era legittimamente libero (gli Emirati Arabi Uniti, che avevano rigettato le richieste italiane) ad uno (il Libano) in cui è invece possibile l’arresto (come per Dell’Utri), qualche scossone alle mie buone intenzioni lo dà subito. Ma il vero tormento viene da Milano. Perché il Procuratore Aggiunto Robledo ha formalmente espresso il suo dissenso sull’indagine Expo, e non ha controfirmato, come gli altri, l’ordinanza di custodia cautelare? Perché il Procuratore Capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati ha ribadito che “Robledo non ha condiviso l’impostazione dell’inchiesta e non ha vistato gli atti”? Prima, possibile, risposta. Sono cosucce, miserie burocratiche; allora la conferenza stampa risulterebbe una tribuna vistosamente sproporzionata per una bega interna. Seconda, possibile, risposta. No, in effetti non sono proprio cosucce, tanto è vero che si è aperto un conflitto pure innanzi il Consiglio Superiore della Magistratura; allora non è chiaro in che cosa consista “l’impostazione dell’inchiesta”. Se le manette hanno fondamento, allora è grave che un alto magistrato, con funzioni direttive, faccia mancare la sua approvazione in un momento così delicato, qual è la presentazione al pubblico, sia pure al pubblico-bue dei risultati di un’indagine preliminare così significativa. Se è fondata l’opposizione, allora è grave che un altro alto magistrato con funzioni direttive abbia chiesto la custodia cautelare, nonostante un così incisivo dissenso sui contenuti dell’indagine. C’è una terza ipotesi, però. Che il contrasto non sorga realmente dai contenuti dell’indagine, ma che riduca questi ad un semplice sfondo spendibile sul piano formale, su cui possano ergersi maestose le supreme ragioni del “riparto dei fascicoli”. Sarebbe l’ipotesi peggiore, se possibile. Significherebbe la manifesta e totale strumentalità delle indagini rispetto a vicende di rango, se così si può dire, eminentemente personale. E le persone in galera? E noi che osserviamo? Insisto: se gli arresti per la vicenda Expo sono fondati, cioè vi sono elementi sufficienti di colpevolezza e così via, non si può discettare di “impostazione dell’inchiesta” e inscenare un improbabile aventino procuratorio; se, invece, “l’impostazione dell’inchiesta” non è questione di “incompetenza per scrivania”, ma è locuzione che tradisce verità contenutistiche, rimaniamo col dubbio che la libertà personale di un certo numero di persone sia stata impropriamente mutilata, senza però, che ci si spinga oltre una sorta di arbitrato interno, eretto, con regale indifferenza, su carne viva. E sorvolo sul timing. Questa ulteriore espressione di eccellenza istituzionale e civile dovrebbe interessare anche il Governo in carica. Invece, la custodia permessa nei confronti dell’On. Genovese, quanto al Partito Democratico, olezza di viltà preelettorale. L’indagine che lo riguarda è aperta da anni; ha già attinto alla moglie, amici, collaboratori e vari altri soggetti; aveva ripetutamente espresso l’autodafè contemporaneo (“dichiaro la mia piena fiducia nell’operato della magistratura”, o formula equivalente), gli indizi sono acquisiti e stanno ormai macerando come neanche i mosti d’annata; dunque, l’arresto preventivo serve per “comunicare”. Ignorare le implicazioni allusive delle “indagini sensibili” non serve, caro Renzi. Significherebbe riconoscere di essere sotto tutela. Se vuole fare qualcosa di nuovo, di veramente politico e nobile, il Presidente del Consiglio deve intestarsi la questione giustizia e calarvi con la scure di Gordio: carriere, CSM, responsabilità civile, nuovi codici, soprattutto, nuovo Ordinamento Giudiziario, non a carriera “automatizzata”: altrimenti, può già preparare il collo; e la testa non la salva nemmeno se la ficca cinque metri sotto la sabbia dell’ignavia. L’annunciato trionfo elettorale, se non agisce in questa direzione, servirà solo ad amplificare il tonfo della caduta. 

Ancora manette in favore di tv. L'arresto di Scajola e l'agghiacciante parabola di questi 20 anni. Da Renzi ci si aspetta il segno di una riforma intellettuale e morale, Fabrizio Rondolino su “Europa Quotidiano”. Il nostro codice di procedura penale, all’articolo 274, è molto chiaro: le «esigenze cautelari», cioè l’obbligo di arresto, necessitano di tre requisiti essenziali: il rischio di inquinamento delle prove («purché si tratti di pericolo concreto e attuale»), il rischio di fuga dell’imputato, il rischio di reiterazione del reato. È molto difficile ravvisare nell’arresto di Claudio Scajola la presenza anche di un solo requisito richiesto dal codice. Scajola non stava fuggendo (e, nel caso, sarebbe bastato ritiragli il passaporto come per esempio è accaduto con Berlusconi), non inquinava nessuna prova perché al momento prove contro di lui non ce ne sono, né tantomeno era in procinto di reiterare il reato. Già, il reato. Di che cosa è accusato l’ex ministro? Secondo la Dia di Reggio Calabria, Scajola avrebbe intrattenuto rapporti “sospetti” con Chiara Rizzo, la moglie dell’ex parlamentare del Pdl Amedeo Matacena, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa (un reato a sua volta di assai incerta definizione), e avrebbe “interessato” un faccendiere italiano con interessi in Libano – lo stesso implicato nella fuga di Dell’Utri – per favorirne la latitanza. La parabola di questi vent’anni è agghiacciante. Nel fuoco di Tangentopoli un isolato deputato missino agitò le manette nell’aula di Montecitorio e fu, giustamente, subissato di critiche. E molti, se non tutti, si scandalizzarono alle immagini di Enzo Carra, allora portavoce di Forlani, ammanettato come un assassino colto in flagrante. Oggi la galera ha sostituito l’avviso di garanzia, fra gli applausi della plebe urlante (che spesso e volentieri magari passa col rosso, non paga le tasse e devasta gli stadi) e di mezzo sistema politico. Non era necessario arrestare Scajola, e tanto meno era necessario allestire una gogna pubblica, chiamando giornalisti, fotografi e telecamere come se si trattasse di una conferenza stampa o di un reality show. E non era neppure necessario richiedere l’arresto di Francantonio Genovese, il deputato del Pd coinvolto nell’inchiesta della procura di Messina sui finanziamenti alla formazione professionale: eppure la Giunta per le autorizzazioni, con il voto decisivo di un Pd evidentemente spaventato dalla campagna elettorale, ha concesso senza batter ciglio ciò che i pm chiedevano. Lasciamo da parte, per favore, la solita stucchevole retorica sulla presunzione d’innocenza e sulla piena fiducia nell’operato dei giudici. In Italia da molti anni non è così, le sentenze si emettono prima dei processi (mentre spesso i processi si concludono con un nulla di fatto) e vale invece, sempre, la presunzione di colpevolezza, tanto più se sei un politico. I politici, come per esempio sostengono ormai apertamente Travaglio o Grillo, si dividono in inquisiti e non ancora inquisiti. Ai primi le manette in favore di telecamera, ai secondi il sospetto incancellabile. Può andare avanti un paese così? No, non può. Non si cura la rabbia con la vendetta, non si placa l’indignazione (spesso giustificata) con l’esemplarità del gesto inquisitorio. Succede invece l’esatto contrario, in una spirale di rancore e di rivalsa dalla quale, alla fine, nessuno può sperare di salvarsi. Soprattutto, nessuno può sperare che così si ricostituisca una civiltà giuridica ormai dispersa e si gettino le basi di una nuova, indispensabile etica pubblica. Da Matteo Renzi, che alla sua ultima Leopolda prima di diventare segretario del Pd e presidente del consiglio aveva pronunciato parole importanti e impegnative sulla giustizia, ci si aspetta non una battuta più o meno polemica né tantomeno una guerra ideologica e personalissima “a la Berlusconi”, ma il segno di un cambiamento culturale, psicologico, emotivo – di una riforma intellettuale e morale.

La bufala della "giustizia a orologeria": nel 2014 almeno 27 fra condanne, arresti, indagini e prescrizioni, scrive Claudio Forleo su “International Business Times”. Ecco, puntuali come un orologio rotto che segna l'ora giusta solo due volte al giorno, arrivare i commenti dei soliti fenomeni che vedono negli arresti di oggi non una classe politica marcia fino al midollo, ma il solito complotto ordito dalle toghe politicizzate. E' la colossale balla della "giustizia ad orologeria", quella che si farebbe viva solo prima delle Elezioni, allo scopo di condizionare il voto.  Lo sostiene Elisabetta Gardini, candidata alle Europee nel partito di Berlusconi: "Avvenimenti come l'arresto di Scajola impediscono di parlare di ciò che preme alla gente".  Le fa eco su Twitter Bruno Vespa, uno che ama solo i processi 'alla Cogne', non quelli ai politici. "Arresti eccellenti in campagna elettorale. Giusto per rendere il clima più sereno e trasparente". Chiaro, no? Se un ex ministro dell'Interno, fino all'altro ieri in corsa per un posto alle Europee, viene accusato di aver aiutato la latitanza di un condannato per mafia, chi se ne frega! Se si vota ogni anno (Politiche, Europee, Comunali, Regionali) e se la classe dirigente si fa arrestare, condannare o indagare almeno una volta al mese, è ovviamente colpa dei magistrati che fanno politica e che avvelenano il clima. Teoria riciclata anche quando le elezioni non sono alle porte. Qualsiasi arresto, sentenza o apertura di indagine è sempre 'a orologeria', che sia Ferragosto o Natale una 'spiegazione' si trova sempre. Purtroppo per questi teorici del complotto di serie Z notizie del genere sono le più frequenti quando si parla di politica in Italia, voto o non voto. Da gennaio ad oggi contiamo almeno 3 condanne, 6 rinvii a giudizio, 6 arresti o richieste di arresto (compresi i casi Scajola, Greganti e Frigerio) 10 aperture di indagini e 2 prescrizioni.

Parlamentari, ministri, candidati, consiglieri regionali, membri di spicco dei partiti (presenti e passati). Ecco il dettaglio:

2 maggioLuigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, poi senatore del PD, condannato a otto anni di carcere per appropriazione indebita. Avrebbe intascato 25 milioni di euro. 

16 aprileMaurizio Gasparri, ex ministro e vicepresidente del Senato, rinviato a giudizio per peculato. Si sarebbe appropriato di una somma pari a 600mila euro dell'allora gruppo PDL per intestarsi una polizza sulla vita.

11 aprile: richiesta d'arresto per Marcello Dell'Utri. Il braccio destro di Silvio Berlusconi che, pur non facendo più politica attiva, resta il padrino di Forza Italia che riscrive la Costituzione con Renzi. Ma la "persona perbenissimo" (copyright dell'ex premier) fugge a Beirut. La richiesta di estradizione è di 48 ore fa.

3 aprile: nuovo arresto per Nicola Cosentino, già reduce da svariati mesi a Secondigliano (solo dopo aver perso il seggio da parlamentare), poi tornato a fare politica attiva con Forza Campania e ad incontrarsi con Denis Verdini nei giorni che precedono la nascita del governo Renzi. L'accusa è di concorrenza sleale ed estorsione con metodo mafioso.

1° aprile: chiusa indagine sulle spese pazze nella Regione Campania e notifica dell'atto, che in genere precede la richiesta di rinvio a giudizio, per Umberto Del Basso De Caro (PD, sottosegretario alla Sanità), Domenico De Siano ed Eva Longo (senatori di Forza Italia). Per tutti l'accusa è di peculato.

31 marzoSilvio Berlusconi incassa l'ennesima prescrizione, la settima della sua 'carriera', nell'ambito del procedimento Fassino-Consorte. Dopo la condanna in primo grado ad un anno per rivelazione di segreti d'ufficio, la Corte d'Appello di Milano dichiara il reato estinto.

27 marzo: il governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti, da poco passato con il NCD di Alfano, viene condannato a sei anni di reclusione e all'interdizione dai pubblici uffici per aver firmato falsi bilanci all'epoca in cui era sindaco di Reggio Calabria, Comune poi sciolto per infiltrazioni mafiose, il primo capoluogo di provincia nella storia d'Italia a subire questo provvedimento. Scopelliti, che avrebbe comunque dovuto lasciare la carica per effetto della legge Severino, non fa una piega, come il ministro degli Interni e leader del suo partito: candidato alle Europee.

27 marzo: l'ex tesoriere dell'UDC Giuseppe Naro è condannato ad un anno di reclusione per concorso in finanziamento illecito ai partiti: avrebbe intascato dall'imprenditore Di Lernia una tangente da 200mila euro. 

26 marzo: Lorenzo Cesa, segretario dell'UDC e candidato alle Europee, è indagato per finanziamento illecito nell'inchiesta su tangenti e fondi neri che coinvolge Finmeccanica e il SISTRI, il sistema di tracciabilità dei rifiuti mai entrato in funzione. 

19 marzo: richiesta d'arresto per il deputato del Partito Democratico Francantonio Genovese, re delle preferenze alle parlamentarie PD, ras di Messina e dintorni. portatore di conflitti di interesse e soprattutto re della formazione professionale in Sicilia. Lui si 'autosospende' dal partito, in compenso i colleghi della Giunta per le Autorizzazioni di Montecitorio se la prendono comoda: Genovese resterà al suo posto almeno fino a dopo le Europee. Ma guai a parlare di 'ritardi ad orologeria', sono solo molto scrupolosi.

3 marzo: l'ex presidente della Regione Lombardia, oggi presidente della Commissione Agricoltura nonchè 'diversamente berlusconiano', il Celeste Roberto Formigoni, viene rinviato a giudizio. per associazione a delinquere e corruzione nell'ambito dell'inchiesta sulla Sanità: la sua Giunta, nel corso degli anni, avrebbe adottato provvedimenti favorevoli ad aziende private, in cambio di viaggi e regali di varia natura. 

Marzo: al sottosegretario alla Cultura Francesca Barraciu, già indagata per peculato in Sardegna, vengono contestati altri 40mila euro di rimborsi non giusitificati ottenuti all'epoca in cui era consigliere regionale. La posizione della Barraciu si aggrava nonostante le rassicurazioni arrivate dal PD sul chiarimento che il sottosegretario avrebbe offerto ai magistrati. 

28 febbraio: il ministro per le Infrastrutture Maurizio Lupi è indagato per concorso in abuso di atti d'ufficio per la nomina all'Authority di Olbia di un ex deputato del PDL, Fedele Sanciu, il quale non avrebbe i titoli per ricoprire tale incarico.

27 febbraioFilippo Penati, accusato di concussione a Monza nell'inchiesto sulle tangenti del cosiddetto 'sistema Sesto' incassa la prescrizione nonostante avesse più volte dichiarato di volerci rinunciare.

21 febbraio: l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno e l'ex presidente della Regione Lazio Renata Polverini sono indagati per finanziamento illecito relativamente ad una provvista di denaro di 25mila euro, che sarebbe stata "realizzata con false fatture di Accenture e destinata ad un falso sondaggio sulla qualità dei servizi scolastici".

28 gennaio: Nunzia De Girolamo, ex ministro delle Politiche Agricole, viene iscritta nel registro degli indagati nell'ambito dell'inchiesta condotta sulle nomine all'ASL di Benevento.

23 gennaio: Silvio Berlusconi è iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Milano nel terzo filone di inchiesta sul caso Ruby (per cui ha già ricevuto una condanna in primo grado a sette anni). Per lui e gli avvocati-parlamentari Longo e Ghedini l'accusa è di corruzione in atti giudiziari. 

16 gennaio: richiesta di rinvio a giudizio per l'ex presidente della Regione Piemonte Roberto Cota e per altri 39 consiglieri regionali. L'inchiesta è ancora sul grande scandalo delle spese pazze. 

14 gennaio: Davide Faraone, membro della segreteria PD, è indagato nell'ambito dell'inchiesta sulle spese pazze nella Regione Sicilia.

Una lista infinita, e abbiamo considerato solo l'anno in corso. Ma condanne, imputazioni o indagini a carico non limitano la carriera dei politici o dei manager che orbitano nella stessa galassia. Nonostante il rinvio a giudizio per la strage di Viareggio (disastro colposo plurimo), Mauro Moretti è stato scelto dal governo Renzi come AD di Finmeccanica. Paolo Scaroni ha guidato l'ENI per un decennio nonostante una condanna ricevuta durante Mani Pulite e altre indagini a carico. Come dimenticare le liste dei partiti per le prossime Europee, piene di impresentabili, come abbiamo riassunto nell'articolo dello scorso 17 aprile. Quella della giustizia ad orologeria è una bufala, mentre una bella indagine a carico, meglio ancora una condanna, fa curriculum.

Da Ruby a Tangentopoli bis: a Milano inchieste col trucco. Dalle carte del Csm sullo scontro tra Bruti e il suo vice Robledo spuntano anomalie anche per assegnare il caso Expo. Le nuove accuse del pg Minale. E il procuratore capo attacca i pm. Scomparsa gli indagati per mafia dal fascicolo sull'esposizione 2015, scrivono Michelangelo Bonessa e Luca Fazzo su “Il Giornale”. Che fine hanno fatto le accuse di associazione mafiosa che Ilda Boccassini ha utilizzato per conquistare la gestione dell'inchiesta sugli appalti dell'Expo? Di queste accuse, nell'ordine di custodia eseguito l'altro ieri mattina, quello che ha portato in carcere tra gli altri Primo Greganti e Gianstefano Frigerio, non c'è più traccia. E così anche di questo dovrà occuparsi il Consiglio superiore della magistratura, che la prossima settimana interrogherà tra gli altri proprio la Boccassini: e dovrà capire se lo scontro in corso a Milano sia figlio di protagonismi personali e di «populismo giudiziario», come sostiene ieri il procuratore Bruti Liberati. O se invece, come afferma il principale accusatore di Bruti, il procuratore aggiunto Alfredo Robledo, a Milano una ristretta cerchia di magistrati, tutti più o meno legati a Magistratura Democratica, si impadronisca di tutti i fascicoli più delicati in violazione delle regole della stessa Procura. Nelle carte già in mano al Csm ci sono già alcuni dati di fatto da cui sarà impossibile distaccarsi. Sono i punti fermi che ha messo Manlio Minale, l'anziano procuratore generale, spiegando al Csm che in almeno due casi non è stata attivata la «necessaria interlocuzione» con Robledo, modo ostico per dire che il procuratore aggiunto è stato scavalcato, e che nell'inchiesta sulla Serravalle, che lambiva il Comune di Milano, il ritardo di Bruti nell'avviarla «ha pregiudicato le indagini». Ma davanti al Csm, Minale ha parlato anche di Expo, e qui le cose si fanno ancora più interessanti. Al Csm, Robledo aveva denunciato come una plateale anomalia il fatto che una inchiesta per reati di corruzione non fosse coordinata da lui, competente per questi reati, ma da Ilda Boccassini, ovvero dal pool antimafia. Ed ecco quanto dichiara Minale: «Robledo era portatore di un convincimento assoluto, che in quel procedimento ci fossero solo reati contro la pubblica amministrazione» e che dunque lui «fosse stato ingannato e messo da parte (...) tant'è che anche ultimamente ho detto: Guarda che io voglio essere tranquillo, mi sono fatto dare le iscrizioni e risultano iscritti alcuni indagati per 416 bis», cioè per associazione mafiosa. Così, con la presenza anche di un filone mafioso dell'indagine su Expo, si giustificherebbe la presenza della Boccassini nell'inchiesta. Ma l'altro ieri vengono eseguiti gli arresti, e nell'ordine di cattura non c'è traccia di accuse di mafia. Nella retata dell'Expo si parla di appalti, di tangenti, di politica, ma non di Cosa Nostra né di 'ndrangheta. E allora, che fascicolo venne fatto vedere a Minale, con le accuse di associazione mafiosa? Forse i vecchi fascicoli sulla penetrazione 'ndranghetista in Lombardia, da cui ufficialmente scaturisce l'inchiesta Expo. Ma è una parentela assai remota, passata per mille passaggi successivi. Non era certo di quei filoni, che Robledo si sentiva spodestato per scarsa affidabilità politica. Proprio ieri, per andare al contrattacco Bruti Liberati sceglie un convegno all'università Statale. E lì afferma esplicitamente che il «populismo giudiziario è un virus endemico nei corridoi delle Procure della Repubblica, ma da noi a Milano ha potenti antidoti». La frase di Bruti parte da una citazione di un libro di Luigi Ferrajoli, padre fondatore di Magistratura Democratica, che si riferiva soprattutto a Antonio Ingroia, capofila di quei pm che «cercano di costruire un consenso popolare non solo alle proprie indagini ma anche per la propria persona». Ma questo, per Bruti, è anche il caso di Alfredo Robledo. E quei «potenti antidoti» di cui parla ieri Bruti sembrano voler dire che il procuratore è convinto di uscire vincente dallo scontro, in cui si sente attaccato non in nome della trasparenza ma del «populismo» e dell'ambizione personale.

Stefania Craxi: "Ora l'Italia chieda scusa a mio padre". La figlia dello statista socialista accusa i metodi da «Mani pulite»: "Una vergogna le modalità dell'arresto di Scajola e i processi aperti sulla stampa per Expo 2015", scrive Paola Sacchi su “Panorama”. «In questo paese sarebbe venuta l’ora di chiedere scusa a Bettino Craxi….». Dopo l’ondata di arresti di giovedì 8 maggio 2014, che hanno resuscitato stili e metodi spettacolari da «Mani pulite» e che hanno fatto parlare di «una nuova Tangentopoli», Stefania Craxi in questa intervista a Panorama.it invita ad andare a rileggersi il celebre e inascoltato intervento dello statista socialista alla Camera nel luglio 1992.

Ora quelle parole cadute nel vuoto perché tornano secondo lei più che mai attuali?

"In un coraggiosissimo discorso di fronte al parlamento e alla nazione Craxi denunciò la degenerazione alla quale era arrivata la società italiana e chiamò la politica del tempo a porvi un rimedio. Ma seguì un vile silenzio. In questi vent’anni hanno fatto come le scimmiette: non vedo, non parlo, non sento.  Il degrado è andato avanti di pari passo con una Giustizia che utilizza spesso due pesi e due misure. Due fenomeni che sono andati a braccetto.  Certi magistrati dalla tentazione golpista, favoriti anche da una politica imbelle, hanno fatto avanzare la corruzione. Se prima c’era qualche corrotto, ma la politica era forte, ora non conta  più la politica, contano solo le lobby e gli affari.  L’Italia somiglia sempre più a un paese del Sudamerica che non  a un paese moderno e occidentale".

Che effetto le ha fatto rivedere le stesse scene di vent’anni fa e le paginate dei giornali che ricalcano gli stessi schemi del processo mediatico? Da una lato, l’ex ministro Claudio Scajola, arrestato di fronte a una marea di telecamere e fotografi, si dice avvisati per tempo, dall’altro ondate di verbali di intercettazioni riversate sulla stampa, da Scajola all’inchiesta Expo 2015…

"Il metodo dell’arresto di Scajola è una vera vergogna. E la vergogna  di processi che avvengono prima sulla stampa che nell’aula di tribunale continua. Anche un colpevole ha diritto a non avere la gogna. E poi i contorni dell’inchiesta Expo sono pochi chiari perché tutto avviene all’interno di uno scontro di potere dentro la mitica  Procura di Milano".

Che opinione si è fatta?

"I tempi e i modi di questi nuovi arresti non sono estranei a  questo scontro dove c’entrano protezioni, coni d’ombra. Tutto si consuma in una contrapposizione dove è emersa con molta chiarezza la voglia da parte di certi magistrati di protagonismo e di avere assegnate le inchieste di grido. Questa è la novità".

Gli arresti dell’8 maggio avvengono a meno di due settimane dal voto europeo. La tempistica fa sempre riflettere?

"Avvengono come al solito a pochi giorni dalla elezioni. C’è un uso improprio della custodia cautelare, che è anche un costo sociale abnorme per le nostre carceri e i cittadini.  A leggere i giornali italiani sembra la sceneggiatura della stessa telenovela,  con le medesime formule giornalistiche, tipo la cupola, la cupola massonica internazionale…Ma dove è?".

Che impatto politico avranno questi nuovi arresti?

"Questo spettacolo indecente è chiaro che favorirà Beppe Grillo che è un sintomo anche grave di un sistema malato.  La sinistra ha sparso il morbo giustizialista che è entrato nelle vene dell’elettorato italiano mischiandosi a un impasto di invidia sociale e odio verso i potenti, aggravato da una politica che non ha saputo dare risposte. Nella Prima Repubblica i difetti c’erano, non a caso mio padre parlò di Grande Riforma già nel 1979, ma c’erano anche le regole, a cominciare dall’articolo 68 della Costituzione sull’immunità parlamentare,  ora invece sono rimasti i difetti ma sono saltate le regole".

È un fatto che la giornata degli arresti avviene dopo che Silvio Berlusconi è tornato centrale per fare le riforme, non a caso è stata Forza Italia a salvare Matteo Renzi al Senato. Che ne pensa?

"Da un lato c’è un giustizialismo che ha offuscato le menti e generato mostri, e poi c’è sempre una regia da parte di poteri neppure tanto dichiarati. Quelle di Renzi sono riformicchie, riforme fatte un tanto al chilo, ma è chiaro che quello che è successo è volto a far saltare il banco. Questo premier che sembra uscito dalla penna di Collodi elude la riforma della Giustizia. E intanto il Pd l’altro giorno in commissione ha votato contro la responsabilità civile dei magistrati".

Expo all’italiana: tangenti, pizzini e liti in procura. Scrive Tommaso Caldarelli su “Giornalettismo”. Caos totale a Milano: spuntano nuovi appalti truccati. E in Tribunale i pm litigano. Expo Milano 2015, il lavoro per i magistrati sembra non avere fine: spuntano nuovi guai giudiziari, nuovi appalti truccati e nuove tangenti. Come se non bastasse, davanti al Consiglio superiore della Magistratura è compiutamente uscita fuori la frattura all’interno della Procura di Milano, con il Procuratore Generale Edmondo Bruti Liberati che replica alle accuse del suo vice Alfredo Robledo, sostenendo che egli abbia intralciato il corso delle indagini. Insomma, veleni in procura: ne abbiamo parlato ieri raccontando della guerra di note inviate al Csm che in qualche modo dovrà dirimere la patata bollente. Lo scontro fra i due cavalli di razza, Bruti Liberati e Robledo, con il primo che accusa il secondo di intralcio alle indagini (ricorda Paolo Colonnello sulla Stampa: “Robledo pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un’attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati, ha disposto analogo servizio delegando ad altra struttura della Guardia di Finanza” con il rischio che il pedinato scoprisse di esserlo. Solo l’abilità del personale operativo ha scongiurato questo rischio) e il secondo che accusa il primo di tenerlo fuori dall’indagine, attraverso un esposto al Csm che ha fatto finire, però, tutte le carte dell’inchiesta Expo sui giornali e sui settimanali come Panorama ben prima che fosse opportuno. Intanto i pubblici ministeri scoprono nuovi appalti truccati. Ancora il giornalista della Stampa racconta che l’imprenditore Enrico Maltauro da Vicenza, il principe delle tangenti della vicenda Expo Milano avrebbe versato a Giuseppe Cattozzo, esponente dell’UdC ligure, qualcosa come un milione di euro complessivamente, in più forme: contanti, fatture false, una bella Audi da 60mila euro. La domanda è: “Se Maltauro per un paio di appalti aveva versato quasi un milione e promessi altri 600mila euro, gli altri imprenditori per gli appalti sulal Sanità lombarda che rappresentano oltre il 90% di questa inchiesta, quanto hanno pagato?”. Sembra, moltissimi soldi, ed è per questo che una rogatoria con la Svizzera è già stata avviata. E con ogni probabilità si aprirà anche una “fase due dell’inchiesta”, con “file di imprenditori schierate in procura per confessare corruzioni e tangenti”. Secondo il sondaggio della Stampa “si è aperta una nuova tangentopoli”; ma non è tutto. Dall’ordine di arresto del manager Expo Angelo Paris risulta che la cupola degli appalti (i magnifici tre: Frigerio, Grillo, Greganti) aveva accesso libero ad Arcore, da Silvio Berlusconi, e buoni agganci a Palazzo Lombardia da Roberto Maroni: con sempre nelle mani i famosi “pizzini” sui quali sono annotati gli uomini delle tangenti e le percentuali da esigere. L’uomo del contatto è Gianni Rodighiero, collaboratore di Sergio Frigerio, che in più occasioni è ricevuto ad Arcore – e in un caso, lo stesso Frigerio è con lui: principalmente “di lunedì e di venerdì”, dicono i protagonisti dell’inchiesta; solo che, in tempi più recenti, bisogna stare più attenti, si dicono al telefono, per scansare “il cerchio magico di Silvio Berlusconi”. Per quanto riguarda Roberto Maroni e la regione, le carte riportate da Pietro Colaprico ed Emilio Randacio su Repubblica sembrano dimostrare che Roberto Maroni è stato agganciato una volta “per caso” e sarebbe stato proprio il presidente a sollecitare Frigerio “per il lavoro sulle vie d’Acqua”, aggancio che poi lo stesso Frigerio si rivendica, al telefono. Il figlio, Frigerio Gianluigi, “risulta essere un funzionario di Regione Lombardia”: insomma, Frigerio, in regione, possiede “maniglie solide” di cui non esita a vantarsi ogni volta che è possibile.

Una nuova tangentopoli su Expo 2015. Il blitz, scattato alle prime luci dell'alba del 8 maggio 2014, ha portato all'arresto di sette persone, tra cui il top manager Paris e l'ex parlamentare Grillo ma anche vecchie conoscenze come Greganti e l'ex dc Frigerio. L'accusa è di aver pilotato e gonfiato gli appalti dell'Esposizione universale, scrive “Panorama”. Primo Greganti, Gianstefano Frigerio, nomi che riportano indietro di oltre vent'anni le lancette dell'orologio della cronaca giudiziaria e, in parte anche di quello del Paese. C'è poi quello di Luigi Grillo, ex parlamentare ligure che i suoi guai giudiziari (per poi essere assolto in appello) li ebbe in tempi più recenti, con la scalata della Banca popolare italiana ad Antonveneta nel 2005, quella dei "furbetti del quartierino".  Greganti, Frigerio e Grillo ora sono in carcere per una complicata vicenda di appalti, legata anche ad Expo: Frigerio quale "capo, promotore ed organizzatore dell'associazione, con funzioni direttive e di coordinamento degli altri associati". Greganti e Grillo quali "organizzatori incaricati dell'attività di raccordo con il mondo politico, sia con finalità di copertura e protezione in favore dell'imprese di riferimento, sia con finalità di appoggio ai pubblici ufficiali coinvolti nelle procedure di appalto allo scopo di assicurare agli stessi sviluppi di carriera nell'ambito degli enti e delle società pubbliche quale corrispettivo del trattamento preferenziale riservato alle imprese". Tradotto: associazione a delinquere, turbativa d'asta, corruzione. Il blitz, imponente, che ha coinvolto oltre 200 finanzieri,  è scattato a Milano, alle prime luci dell'alba. Gli ordini di cattura sono sette. L'accusa, sostanziata anche da alcune intercettazioni definite clamorose dai pm milanesi, è quella di turbativa d'asta e associazione per delinquere per pilotare e gonfiare i prezzi degli appalti pubblici, tra cui quelli di Expo 2015. Tra coloro che sono stati raggiunti dall'ordine di custodia cautelare ci sono nomi pesantissimi. C'è Angelo Paris, 48 anni, il top manager di Expo. C'è l'ex dc ed ex parlamentare di Forza Italia, Luigi Grillo, passato armi e bagagli nelle fila dell'Ncd di Angelino Alfano.  Ci sono  vecchie conoscenze di Mani Pulite che avevamo dimenticato, come Primo Greganti,  il compagno G, l'ex cassiere del Pci che rifiutò ogni collaborazione con i magistrati nei primi anni 90. O Gianstefano Frigerio, l'ex segretario regionale della Democrazia cristiana, finito già allora in carcere con un passato anche come parlamentare di Forza Italia, arrestato insieme al suo collaboratore Sergio Cattozzo, ex segretario Udc Liguria. E ancora, il costruttore di riferimento del gruppo, il vicentino Enrico Maltauro (che versava secondo i pm «30-40mila euro al mese» in contanti o come fatturazione di consulenze alla «cupola degli appalti»);  Antonio Rognoni, di Infrastrutture Lombarde, la stazione appaltante voluta da Roberto Formigoni, già accusato - nell'ambito della stessa inchiesta - di aver pilotato appalti a favore di aziende amiche e gonfiato di almeno due milioni di euro di spese ingiustificate (mascherate come consulenze) i lavori di ristrutturazione dell'ospedale San Gerardo di Monza. Un gruppo di immobiliaristi, politici e faccendieri, secondo la ricostruzione dei pm  Claudio Gittardi (pool antimafia) e Antonio D’Alessio (anticorruzione), che - muovendosi per tempo sulla base delle informazioni riservate cui non avevano accesso i concorrenti - si intascavano percentuali di tangenti, si aggiudicavano grazie alle loro amicizie appalti pubblici chiave (come quello di Expo per l'assegnazione delle case per le delegazioni straniere o il progetto definito 'Le vie d’acqua') gonfiandone i prezzi e azzerando la concorrenza pulita. Avevano anche una sede, il circolo culturale «Tommaso Moro», che per dirla con Bruti Liberati «nemmeno la più fervida immaginazione avrebbe immaginato». L'inchiesta (un faldone di 600 pagine in cui compaiono anche i nomi, ma non sono indagati, di Maurizio Lupi, Silvio Berlusconi, Pierluigi Bersani e Cesare Previti) su cui i pm lavoravano da mesi ha subito un'accelerazione dopo che sono state registrate alcune intercettazioni compromettenti che sarebbero giunte fino ai primi mesi del 2014. "Io vi do tutti gli appalti che volete se favorite la mia carriera" avrebbe detto Angelo Paris, il direttore pianificazione e acquisti di Expo 2015 parlando con alcuni componenti dell’associazione per delinquere finiti agli arresti. Ne emerge, dagli incartamenti, una «cupola degli appalti» in Lombardia, con un meccanismo operativo definito dai pm molto semplice che puntava a intascarsi percentuali di guadagno sugli appalti pubblici chiave non solo di Expo ma anche di altri grandi lavori pubblici: quando c’era una gara d’appalto giudicata interessante, l’associazione diretta da Frigerio avvicinava il pubblico ufficiale competente, utilizzando gli appoggi e le amicizie politiche che poteva vantare. Al sodalizio criminale venivano comunicati in anticipo i bandi di gara interessanti, con le caratteristiche utili da presentare per poterseli aggiudicare rispetto a eventuali concorrenti. La squadra operava insomma «in modo coordinato», coinvolgendo aziende legate a diversi partiti politici nei quali trovavano protezione. La promessa di carriera e promozione  - secondo i pm - diventava la leva fondamentale per coinvolgere i nuovi adepti. Tra i lavori pubblici su cui il gruppo aveva rivolto le sue mire ci sono anche  (per un valore di bandi di gara di 323 milioni) i lavori della Città della Salute di Sesto San Giovanni, gli appalti e le presunte finte consulenze gonfiate per i lavori di ristrutturazione dell'ospedale San Gerardo di Monza, la Pedemontana  e la gestione dei servizi di supporto non sanitari rivolti alle due Fondazioni IRCCS Carlo Besta e Istituto Nazionale dei Tumori. «La politica non metta becco sulle indagini»  ha dichiarato Matteo Renzi a Genova, nell'ambito di un'iniziativa di Ansaldo Energia. 

La confessione di mister Expo. «Appalti in cambio di protezioni». Prime ammissioni di Paris, il manager chiave dell'inchiesta: «E' vero, ho favorito Frigerio e Greganti, perché ero isolato e mi servivano appoggi politici per la carriera. Ho sbagliato, ora mi dimetto». Oggi due interrogatori paralleli per l'industriale Maltauro e il politico Udc Cattozzo, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Prima svolta nell'inchiesta sugli appalti dell'Expo. Angelo Paris, il direttore tecnico arrestato per associazione per delinquere, ha confessato già nel primo interrogatorio i fatti fondamentali che gli vengono contestati dai pm milanesi: ha ammesso di aver fornito informazioni riservate sugli appalti dell'Expo alla cosiddetta “cupola” politica guidata dall'ex democristiano poi berlusconiano Gianstefano Frigerio e dall'ex comunista poi democratico Primo Greganti, entrambi ora in carcere. Paris ha anche confermato di aver chiesto, in cambio, l'appoggio dei due faccendieri politici per la sua futura carriera di manager pubblico, candidato in particolare a guidare la società regionale Infrastrutture Lombarde dopo il duplice arresto dell'ex numero uno ciellino Antonio Rognoni. In questo primo interrogatorio, molto sofferto, Paris ha ammesso di aver fatto questi «errori» e di volersene assumere la «responsabilità» presentando subito le dimissioni. L'ex manager, inoltre, ha cominciato anche a spiegare a grandi linee le ragioni che lo avevano spinto a mettersi a disposizione dei faccendieri della “cupola degli appalti”: Paris ha detto che si sentiva sempre più «isolato» nella struttura dell'Expo e di aver concluso che proprio personaggi come Frigerio e Greganti potevano garantirgli quelle «protezioni politiche» che gli sembravano necessarie. Dopo queste prime ammissioni, Paris verrà nuovamente interrogato lunedì prossimo, questa volta dai magistrati dell'accusa, per chiarire e approfondire tutti i fatti e spiegare meglio i motivi per cui un tecnico dell'Expo possa pensare di dover chiedere «protezione politica» a due noti pregiudicati per corruzione, concussione e finanziamenti illeciti come Frigerio e Greganti, entrambi condannati con sentenza definitiva come tesorieri delle mazzette nella storica Tangentopoli esplosa nel 1992-1994. Le ammissioni di Paris, che occupava il ruolo chiave di responsabile del settore costruzioni e dell'ufficio contratti, rappresentano un'importante conferma della solidità dell'inchiesta coordinata dai pm Ilda Boccassini, Claudio Gittardi e Antonio D'Alessio. Una svolta, arrivata già nel primo interrogatorio di garanzia davanti al gip Fabio Antezza, che contraddice i dubbi sollevati invece dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo, che nel suo durissimo scontro con il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati aveva segnalato al Csm di non aver condiviso né firmato proprio le accuse rivolte a Paris. Per oggi sono fissati altri due nuovi interrogatori importanti: i pm, divisi in due squadre, sentiranno contemporaneamente Enrico Maltauro, l'industriale vicentino che ha già ammesso le prime tangenti, e Vito Cattozzo, il politico dell'Udc ligure che faceva da tramite tra Frigerio e l'ex parlamentare di Forza Italia Luigi Grillo, curando i rapporti con il centrodestra e con le banche. Gli interrogatori contemporanei serviranno ad impedire ai due arrestati di poter concordare versioni di comodo, mentre i pm potranno contestare subito all'uno le eventuali ammissioni dell'altro, favorendo così dichiarazioni meno reticenti. Maltauro è il re degli appalti che è stato videoregistrato dagli investigatori della Dia mentre concordava e pagava tangenti, fino a consegnare di persona l'ultima bustarella con 15 mila euro pochissimi giorni prima degli arresti.

Expo, Bruti Liberati: "Robledo è stato d'intralcio alle indagini", scrive “Libero Quotidiano”. Nuovo atto nella violenta guerra tra toghe che sta sconvolgendo il pool di Milano. A riferire davanti al Consiglio superiore della Magistratura tocca a Edmondo Bruti Liberati, procuratore capo della procura meneghina, il "grande accusato" dal collega Alfredo Robledo. Bruti Liberati, in riferimento alla vicenda Expo, ha affermato che "le iniziative del procuratore aggiunto Robledo hanno determinato un reiterato intralcio alle indagini". La vicenda affonda le sue radici allo scorso marzo, quando Robledo aveva denunciato al Csm "fatti e comportamenti in essere dal procuratore della Repubblica, Edmondo Brunti Liberati, che non ritengo possano essere più valutati come episodici e che, in considerazione del loro ripetersi, hanno turbato e turbano il regolare svolgimento della funzione nell'Ufficio e la sua normale conduzione". Le ragioni - In soldoni si tratta di un caso clamoroso che sta turbando la presunta armonia del pool di Milano: il magistrato (Robledo) denuncia il suo capo (Bruti Liberati). Perché? Perché Robledo si sente scavalcato a causa del fatto che, afferma, il capo assegnerebbe i fascicoli che riguardano reati contro la pubblica amministrazione (di cui sarebbe competente il suo ufficio) al pool reati finanziari, guidato dall'altro procuratore aggiunto, Francesco Greco, vecchia conoscenza di Mani Pulite. Oppure a Ilda Boccassini, la pm anti-Cav per eccellenza (la Boccassini è stata accusata dal pg di Milano, Manlio Minale, di non avere la titolarità dell'inchiesta Ruby; l'accusa è piovuta sempre nell'ambito dell'inchiesta avviata dopo l'esposto di Robledo). La battaglia - Lo scontro, in atto da mesi, è deflagrato nuovamente lo scorso giovedì, in parallelo all'esplosione dello scandalo Expo. Si è scoperto che Robledo non aveva firmato gli atti dell'inchiesta. Bruti Liberati, in una conferenza stampa in cui si era notata proprio l'assenza di Robledo, aveva spiegato che il collega "non ne condivide l'impostazione" e dunque "non ha vistato" gli atti dell'inchiesta Expo che non ha portato all'arresto di sette nomi di rilievo, e all'iscrizione nel registro degli indagati di altre dodici persone, nonché a perquisizioni a Milano, Roma, Torino, Vercelli, Alessandria, Pavia, Lecco, Vicenza e Bologna. Ultimo atto - Ora, dunque, l'ultimo atto di questa vera e propria battaglia che tiene banco tra i corridoi dei tribunali di Milano, ossia l'accusa del capo (Bruti Liberati) al suo magistrato (Robledo) di aver "ostacolato" l'inchiesta Expo che sta mettendo a repentaglio l'organizzazione dell'evento e sta facendo tremare la politica italiana. Un'accusa pesantissima, e che non farà altro che dilatare il conflitto. Bruti Liberati e Ilda Boccassini da un lato, Alfredo Robledo dall'altro.

Bruti Liberati, Robledo e il doppio pedinamento. La querelle tra magistrati al vertice della Procura di Milano finisce in guerra. Ma un po' anche in farsa: perché è stato chiesto un pedinamento che era già stato disposto, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Lo scontro al vertice della Procura di Milano si alza improvvisamente di livello e diventa guerra guerreggiata. Il procuratore Edmondo Bruti Liberati, in una nota destinata al Consiglio superiore della magistratura che da oltre un mese sta affrontando la querelle aperta dal suo procuratore aggiunto Alfredo Robledo, ha scritto che le  iniziative di quest'ultimo "hanno determinato un reiterato intralcio alle indagini" sugli appalti dell'Expo, appena scoppiate con la retata dei mercoledì 7 maggio. Nella nota Bruti aggiunge che l'invio da parte di Robledo al Csm di copie di atti del procedimento ha anche "posto a grave rischio il segreto delle indagini". Ma qui, purtroppo, lo scontro scade in farsa. Perché Bruti cita un "doppio pedinamento" che avrebbe potuto compromettere l'inchiesta. Ecco che cosa annota il procuratore: "Robledo, pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un'attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati, svolta da personale della polizia giudiziaria, ha disposto, analogo servizio delegando ad altra struttura della stessa Guardia di finanza". Il procuratore aggiunge che "solo la reciproca conoscenza del personale Gdf che si è incontrato sul terreno ha consentito di evitare gravi danni alle indagini". Si attendono ora altri "capitoli" dello scontro tra Bruti Liberati e Robledo, e forse qualche conseguenza di tipo direttamente giudiziario. Robledo, qualche giorno fa, aveva spiegato al Csm le ragioni del suo mancato "visto" alle misure cautelari richieste per l’inchiesta sull'Expo: il numero 2 della procura aveva lamentato di non essere stato messo in condizioni dal procuratore Bruti Liberati, «in violazione della normativa», di fare una valutazione sulla posizione di uno degli indagati. In precedenza, Robledo aveva accusato il capo dell’ufficio Bruti Liberati di una serie di presunte irregolarità. Come il ritardo «di un anno» con cui era stato indagato Roberto Formigoni nell’inchiesta San Raffaele-Fondazione Maugeri e l'affidamento dell’inchiesta sul cosiddetto Rubygate, segnato a suo dire da gravi violazioni delle regole: l’assegnazione indebito del procedimento a Ilda Boccassini, procuratore aggiunto dell’antimafia di Milano, che secondo Robledo non avrebbe avuto la competenza per occuparsi di quel procedimento. Bruti Liberati si è difeso davanti al Csm sostenendo che tutte le accuse erano prive di fondamento.

Expo, ecco tutte le beghe fra Boccassini, Robledo e Bruti Liberati, scrive Edoardo Petti su “Formiche”. La ricostruzione dei dissidi fra i magistrati milanesi secondo i cronisti giudiziari dei principali quotidiani. Una lettura non troppo commendevole, come d'altronde quella sulle intercettazioni...Il terremoto giudiziario che si è abbattuto su Expo 2015 con la scoperta di una “cupola” trasversale finalizzata ad assegnare gli appalti in cambio di tangenti ha portato alla luce una ragnatela capillare di protezioni e intrecci affaristici tra manager, pubblici funzionari, politici e imprenditori, secondo le accuse dei pm. Ma ha fatto affiorare al contempo un conflitto radicale e reiterato fra le mura del Palazzo di Giustizia di Milano. A partire dallo scontro fra il capo della Procura Edmondo Bruti Liberati e il procuratore aggiunto Alfredo Robledo, che ha vissuto un crescendo di accuse incrociate risalenti all’attribuzione a Ilda Boccassini del fascicolo investigativo e processuale sul Rubygate. E dall’accusa, rivolta al massimo responsabile dell’ufficio giudiziario milanese, di aver rinviato di un anno gli accertamenti per i presunti pagamenti di mazzette dei vertici dell’ospedale San Raffaele a favore dell’ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni. Tensione che ha assunto una rappresentazione plastica nella conferenza stampa sui fenomeni di corruzione legati a Expo. E che non è rimasta inosservata da parte dei giornali più attenti alle dinamiche della magistratura ambrosiana. È il Corriere della Sera a mettere in rilievo una frase emblematica pronunciata da Bruti Liberati nella giornata di ieri. Ai cronisti giudiziari che gli ricordavano come l’inchiesta sulle illegalità relative agli appalti per Expo 2015 fosse uno dei filoni investigativi citati dal procuratore aggiunto Robledo nell’esposto presentato contro di lui al Consiglio superiore della magistratura per irregolarità nella gestione e assegnazione dei fascicoli di indagine, il capo dei pm milanesi ha così risposto: “Robledo non ha condiviso l’impostazione dell’inchiesta e non ha vistato gli atti. Ma prima vi erano state numerose riunioni”. Argomentazioni che hanno provocato una risposta repentina e sdegnata da parte del numero due della Procura. Il quale ha spiegato come il dissenso riguardasse la posizione di un indagato, su cui non vi erano a suo avviso gli elementi per una misura cautelare rispetto ai reati di corruzione e turbativa d’asta. Ragionamento di cui “mise a conoscenza Bruti Liberati e Ilda Boccassini, senza ricevere risposta”. A tutto ciò Robledo ha fatto riferimento nell’esposto trasmesso a Palazzo dei Marescialli. Un documento nel quale ha puntato il dito contro il comportamento centralizzatore del procuratore capo, “che frena ogni autonoma iniziativa di inchiesta, intercettazione e pedinamento”. Ma l’accusa va ben oltre. Bruti avrebbe gestito i dossier giudiziari penalizzando il suo ufficio specializzato nei reati contro la pubblica amministrazione, a vantaggio della Direzione distrettuale anti-mafia guidata da Boccassini. Le cui competenze, osserva il magistrato, non rientrano nelle indagini sulle tangenti correlate a Expo. La risposta della pm già appartenente al pool Mani Pulite giunge sulle pagine di Repubblica. L’inchiesta, rileva Boccassini, rappresenta “una delle numerose costole” di un filone investigativo risalente al luglio 2010 e concernente le relazioni nel territorio lombardo tra cosche della ‘ndrangheta, personaggi politici e manager di ospedali. Fattispecie criminose che spetta ai magistrati anti-mafia appurare. Soltanto più tardi, precisa la pm, vennero alla luce ipotesi di reati contro la pubblica amministrazione: “Elementi che segnalai a Bruti per una sinergia con il dipartimento coordinato da Robledo”. A fornire una spiegazione sulle ragioni profonde della spaccatura nel Palazzo di Giustizia è un articolo apparso sul Giornale a firma Luca Fazzo. L’assenza fisica del procuratore aggiunto nella conferenza stampa dei magistrati milanesi, scrive il cronista, è legata agli orientamenti politico-ideologici dell’universo togato. Robledo, in breve, è estraneo all’entourage dei pm progressisti di Magistratura Democratica legati al capo della Procura. Figure tra le quali spicca la principale responsabile del pool anti-mafia, “capace di assumere la guida dell’indagine su Expo 2015 esattamente come fece nella vicenda Ruby. Un’inchiesta di cui non aveva la titolarità e che riguardava reati commessi da pubblici funzionari”. Ma vi è un dissenso più remoto, connesso al metodo di lavoro adottato dai capi dei due dipartimenti giudiziari: la scelta dell’organo di polizia giudiziaria cui affidare le indagini. L’ex pm del pool Mani Pulite, evidenzia Il Giornale, ha sempre  utilizzato una squadra assai ristretta di militari della Guardia di finanza in servizio alla Procura. Nell’inchiesta in corso la pm vuole in tutti i modi ricorrere a questo gruppo di propria fiducia. L’obiezione avanzata da Robledo riguarda il numero esiguo del personale investigativo. Poiché il materiale giudiziario è sterminato, i magistrati inquirenti rischiano di perdere il controllo su tutti gli spunti dell’inchiesta: “E sarebbero gli uomini delle Fiamme Gialle a stabilire con ampio margine di discrezionalità le intercettazioni da trascrivere”. 

GOGNA MEDIATICA E PROCESSI IN TV. QUANDO LA DEONTOLOGIA E LA LEGALITA’ VANNO A FARSI FOTTERE.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione.

Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

La stampa di Taranto e i corrispondenti locali di testate nazionali, salvo qualche rara eccezione in provincia, sono stati il megafono della procura di Taranto, sposandone in toto la strategia giudiziaria. Sono stati i primi a denigrare Avetrana; i primi a condannare senza processo i protagonisti della vicenda, iniziando proprio dalla vittima: da Sarah Scazzi. Mai una critica ai magistrati su come sono state svolte ricerche ed indagini. Critiche devolute addirittura dal supremo organo di giustizia. Poco spazio alle difese, salvo che non fossero quelle dedicate “alla ricerca della verità” (attività, questa, però, propria della magistratura). Sin dall’inizio vi sono state indiscrezioni a danno degli indagati, frutto di fughe di notizie. Nessuno come i giornalisti tarantini hanno violato la deontologia. Si impari da Maria Corbi de “La Stampa” come si redigono i servizi asettici e cos’è la coerenza. Ella non usa e getta. La vicenda di Sarah Scazzi culmina con la gogna mediatica dell’arresto di Cosima Serrano, con claque a seguito, in concomitanza con la chiusura dei salotti in tv. L’arresto preannunciato per dare tempo alle troupe televisive di ritornare ad Avetrana e stazionare in via Deledda per riprendere in diretta Cosima in manette. Evento atteso da mesi. Anche i mostri, quando sono tali, meritano il dovuto rispetto. Avetrana non è quella latrante contro Cosima. Avetrana è quella che pretende giusta pena in giusto processo, senza gogna mediatica, né tintinnar di manette.

L´intervista di “Positano News” a l´associazione Scienza per Amore perseguitata perchè impegnata in un progetto umanitario? Il“Bits of Future: Food for All”, promosso dall'associazione Scienza per Amore, hanno già aderito sette Paesi Africani, ha ricevuto il plauso e l'interesse della Presidenza della Repubblica Italiana e di importanti istituzioni e organizzazioni estere (FAO, IFAD, Banca Mondiale e Banca Africana di Sviluppo), il fine del Progetto è la concessione in comodato d'uso gratuito delle installazioni Hyst ai Paesi africani". Patrizia Vitale, dell'associazione Scienza per Amore, è entusiasta di Bits of Future.

Cos'è la tecnologia Hyst…

«La tecnologia Hyst produce, attraverso il trattamento di biomasse di scarto e residui agricoli, diversi prodotti
da destinare all'alimentazione umana, zootecnica e alla produzione di biocarburanti. I risultati delle applicazioni della Hyst sono stati analizzati dall'Università di Milano e riconosciuti dai Ministeri preposti (Ministero della Salute, Ministero delle Politiche Agricole) e da altre Università italiane tra cui La Sapienza di Roma».

Sembra tutto molto interessante, purtroppo...

«Questo progetto sta subendo da oltre 4 anni una continua persecuzione attraverso parole di fango che cercano di contrastare la realtà dei fatti che è comprovata da certezze scientifiche. L'associazione e tutti noi, quasi duecento membri. Siamo stati oggetto di una pesante gogna mediatica. Una situazione che ha causato danni materiali e morali, non solo a noi, ma a tutti coloro che hanno aderito al Progetto, a partire dai Paesi Africani che, con l'uso della Hyst, in questi 4 anni avrebbero potuto far fronte ai gravi problemi di carenza alimentare ed energetica che li affliggono».

Cosa è successo?

«Accuse  partite nel mese di luglio del 2009, inizialmente a carico del primo promotore del progetto (ed allora presidente della ex-associazione R.E. Maya), poi anche verso alcuni soci che si sono adoperati per il progetto, a Danilo Speranza sono stati attribuiti reati di riduzione in schiavitù dei soci della ex- R.E. Maya, che è stata definita una “setta” con a capo un “guru”, Danilo Speranza, secondo i denuncianti, aveva inventato l'esistenza di uno scienziato, di una tecnologia e di un progetto umanitario con il fine di arricchirsi tramite i contributi volontari estorti agli associati».

E che altro?

«A suo carico sono giunte simultaneamente anche accuse di violenza sessuale da parte di due ragazze minorenni, figlie di due associate, tutte le prove scientifiche lo scagionano completamente da queste accuse. Le varie denunce sono state depositate stranamente il giorno prima della firma che sanciva l’acquisizione della tecnologia da parte dell'Associazione. Sarebbe dovuto essere un momento storico per tutta l'Associazione, ma così non è stato. Dopo più di tre anni di indagini, le accuse non sono state supportate da alcun riscontro scientifico né da alcuna prova concreta, ma hanno solo rallentato l'avvio del progetto umanitario, forse nella speranza di una rinuncia da parte dell'Associazione a far valere i propri diritti. Sono stati aperti quindi due procedimenti: uno a Tivoli per abusi e uno a Roma per truffa. Gli stessi inquirenti hanno collegato tali procedimenti consegnando ai due tribunali la stessa documentazione. Le accuse, che si basano su “tesi mutanti”, inizialmente mettevano in dubbio l'esistenza stessa della tecnologia. Quando invece è stata dimostrata l'esistenza degli impianti e quindi della Hyst, le accuse, depositate a più riprese, sono modificate dichiarando che “la tecnologia produce veleni”. Ovviamente menzogne. Inoltre, la consulenza tecnica della ASL disposta dal P.M. non ha trovato traccia di alcun veleno; e la stessa ha anche confermato i risultati positivi relativi ai prodotti Hyst così come già rilevato dall'Università di Milano. La consulenza disposta dal P.M. è stata gravemente manipolata. Le indagini relative al caso da qualche mese sono state affidate a un altro procuratore poiché il precedente PM è stato arrestato. Ora la chiusura delle indagini - "Notificata la chiusura delle indagini", con art. 415 bis cpp, nella quale compaiono 17 indagati: persone che, come me, hanno dedicato parte della loro vita ad un Progetto Umanitario. La chiusura delle indagini del procedimento a Roma ha dato il via ad una nuova gogna mediatica, da parte di alcuni giornalisti, disonesti intellettualmente, incapaci di condurre un'inchiesta seria. Noi siamo tutti in attesa che qualcuno ci ascolti e che la magistratura esamini le certificazioni e le prove scientifiche. La nostra speranza è quella di vedere il prima possibile un impianto Hyst in funzione in uno di quei Paesi africani in cui sarebbe così utile. I Paesi in Via di Sviluppo hanno compreso la vitale importanza della Hyst e ce la stanno chiedendo a gran voce».

Siete molto preoccupati?

«Saremmo dei marziani se non fosse così».

Le baby squillo dei Parioli e l'ultima gogna giudiziaria. Per una settimana un dirigente della banca d'Italia è stato indicato come uno dei clienti pedofili. Tutto falso, era un errore. Ma non è ora di finirla? Si chiede Maurizio Tortorella su “Panorama”. La gogna mediatico-giudiziaria, crudele istituzione italiana, torna a fare danni irreparabili. Per oltre una settimana il vicecapo del Dipartimento d'informatica della Banca d'Italia, Andrea Cividini, 58 anni, è stato descritto dalle cronache nazionali come uno dei clienti delle due ragazzine «parioline» di 14 e 15 anni, che si prostituivano a Roma. I giornali, evidentemente attingendo a informazioni in mano agli inquirenti romani, hanno scritto e ri-scritto che il telefono di Cividini era tra i 40/50 che si collegavano con maggiore assiduità a quello delle due squillo minorenni. Le cronache sono state severe, indignate; e i commenti anche peggio: Gad Lerner è stato tra i più duri. Ecco che cosa ha scritto venerdì 14 marzo: «Escono con il contagocce, sempre per via delle speciali reticenze loro concesse dal nostro turbamento, i nomi dei clienti delle baby-prostitute dei Parioli. Definirli pedofili? Macché, il marchio non si applica se la “merce-corpo” desiderata e comprata ha apparenze maggiorenni: credevo avesse 19 anni come scriveva nella sua vetrina sul web… Dopo Mauro Floriani, il fascista-maiale marito della fascista col nome famoso, che ha infine ammesso ciò che prima tentò di negare, da oggi conosciamo anche il nome di un dirigente della Banca d’Italia: è Andrea Cividini, 58 anni...». Vicenda davvero paradossale: perché nel suo scritto Lerner critica quasi come una indebita, vergognosa autocensura la «reticenza» dei giornali sui nomi dei futuri, potenziali indagati. È invece bastato aspettare sei giorni e si è scoperto che Cividini non c'entrava nulla. Perché il cellulare «incriminato» non era suo, ma apparteneva alla Banca d'Italia, e l'ente non lo aveva dato in uso a lui, bensì a un collega (il cui nome per fortuna viene ora un po' più accortamente coperto dal segreto, forse per paura di nuovi, possibili, disastrosi errori di persona...). Il punto è che, mentre in prima battuta il nome di Cividini veniva scritto nei sommari degli articoli ed esposto nemmeno fosse una preda, nel momento in cui s'è capito che era stato accusato ingiustamente tutto è stato nascosto nel corpo degli articoli. Uno si domanda come debba sentirsi il malcapitato, o che cosa debba avere patito lui, la sua famiglia. Viene da domandarsi anche se Cividini abbia figli, e che cosa sia accaduto loro a scuola... Ma sono problemi che evidentemente non sfiorano quanti sono convinti che garanzie e tutele degli indagati, ma un po' anche la prudenza, siano soltanto una «speciale reticenza». Purtroppo sono in tanti. 

La gogna di Maurizio Tortorella. Casa editrice:  Boroli. Data pubblicazione:  luglio 2011. Come i processi mediatici e di piazza hanno ucciso il garantismo in Italia. Quando i processi si trasferiscono dalle aule di giustizia ai mezzi d'informazione, con pressanti campagne di stampa, vi è il rischio che risulti compromesso il principio costituzionale della presunzione d'innocenza, e che i “processi mediatici” si trasformino in un anticipo di condanna, senza possibilità di appello. Calogero Mannino, il ministro "mafioso", e il suo calvario durato quasi due decenni. Guido Bertolaso, condannato sui giornali ancora prima che il processo abbia avuto inizio. Silvio Scaglia, l'imprenditore sbattuto in cella e distrutto per una maxifrode fiscale da 2 miliardi di euro che, di fatto, non esiste. Giuseppe Roteili, il "re delle cliniche private" accusato per quattro anni di un'odiosa truffa sanitaria, ma poi assolto quasi in silenzio. Ottaviano Del Turco, il governatore abruzzese azzoppato per una tangente di cui ancora non c'è traccia. Antonio Saladino e le folli follie dell'inchiesta Why Not. Alfredo Romeo, gli assessori e la mezza bolla di sapone del caso "Magnanapoli". Sette recenti casi giudiziari, sette storie di grande attualità raccontate attraverso le carte processuali e le relative cronache giornalistiche trasformate in condanne preventive. Calogero Mannino, il ministro «mafioso», e il suo calvario durato 18 anni. Guido Bertolaso, condannato sui gior­nali ancora prima che il processo avesse inizio. Silvio Scaglia, l’imprenditore sbattuto in cella e distrutto per una maxi-frode fiscale da 2 miliardi di euro che, di fatto, non esiste. Giuseppe Rotelli, il «re delle cliniche private» accusato per quat­tro anni di un’odiosa truffa sanitaria, ma poi assolto in totale silenzio. Ottaviano Del Turco, il governatore abruzzese az­zoppato per una tangente di cui ancora non c’è traccia. Antonio Saladino e le folli follie dell’inchiesta Why Not dell’ex pm Luigi De Magistris. Alfredo Romeo, gli assessori e la mezza bol­la di sapone del caso Magnanapoli. Racconta le loro vicende «La Gogna» (Boroli editore, 160 pagine, 14 euro), il libro scritto dal vicedirettore del settimanale «Panorama», Maurizio Tortorella.  Sette recenti casi giudiziari, sette storie esemplari che raccontano i perché della morte del garantismo in Italia. In realtà, è dai tempi di Mani pulite, quando parte dei tribunali e delle redazioni cominciarono a piegarsi alla strumentalizzazione politica, che la gogna non ha mai smesso di funzionare: da allora, reclama sempre nuove vittime. E anche con la pubblicazione di migliaia d’intercettazioni la cro­naca giudiziaria, che dovrebbe esercitare anche un qualche controllo sull’attività in­quisitoria, si è trasformata in strumento, se non in megafono, delle procure.  Ogni inchiesta, quando se ne appropriano i mass media, si trasforma in un massacro senza salvezza, anche per il più saldo degli indagati. Vincono sempre le illazioni, i sospetti, i teore­mi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il mostro che si nasconde nell’espressione «opinione pubblica», portato al guinzaglio da chi ne sa condizionare le pulsioni, reagisce sempre allo stesso modo di fronte all’apertura di un’inda­gine: ogni volta prevale una presunzione di colpevolezza che è l’esatto contrario del precetto costituzionale. Per questo «La Gogna» è un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura e pezzi dell’informazione. Tortorella, come inviato speciale di «Panorama», dai primi anni Novanta, ha se­guito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i processi che ne sono derivati. È coautore di «L’ultimo dei Gucci» (1995, MarcoTropea Editore e 2002, Mondadori) e di «Rapita dalla giustizia» (2009, Rizzoli).

Scrive Giulia De Matteo per "Il Foglio”. La perp walk italiana comincia con un avviso di garanzia e interminabili chilometri di carta in cui ci si sbizzarrisce a interpretare ogni parola strappata alle intercettazioni, in cui si costruiscono teoremi fatti di parole d'ordine ("cricca", "la rete di relazioni", "appaltopoli", "l'affare") da cui si ricavano accuse vaghe ma efficaci a relegare l'indagato nell'angolo dei cattivi. Il cammino è destinato a concludersi nella dimenticanza generale, a luci spente, tra l'indifferenza dei quotidiani e delle televisioni, animatori inferociti alla partenza. Maurizio Tortorella ha raccolto le storie più eclatanti di questa dinamica nel libro "La Gogna" (Boroli Editori), in cui smonta fase per fase la catena di montaggio della diffamazione che prelude i processi ai personaggi pubblici, attraverso un'analisi a freddo delle storie su cui ormai si sono spenti i bollori mediatici e si è fatta strada la verità processuale. C'è per esempio la vicenda di Guido Bertolaso, ex capo della Protezione civile, raggiunto dall'accusa di corruzione negli appalti sui lavori straordinari per il G8 sull'isola della Maddalena (poi spostato a L'Aquila) il 10 febbraio 2010. Tortorella racconta i giorni seguenti l'apertura delle indagini attraverso i titoli dei giornali e le ricostruzioni della vicenda. Così tra le intercettazioni pubblicate sui giornali quella in cui Bertolaso racconta il piacere suscitato da un certo massaggio fattogli da una tal Francesca diventa l'indizio che alimenta il sospetto del coinvolgimento di Bertolaso in un giro di escort usate a mo' di tangente nel giro di favori fra i potenti dei grandi appalti. Quando si scopre che Francesca è una fisioterapista professionista di quarantadue anni è troppo tardi. Soprattutto non interessa più: gli untori degli scandali hanno già impresso il loro sigillo (quello che conta per l'opinione pubblica). Il 5 aprile 2010 si è aperto il procedimento che tratta degli abusi edilizi e da allora non una riga è stata più scritta. Difficile dire quando questo selvaggio rito giudiziario sia iniziato in Italia, sicuramente la sua massima celebrazione è stata Tangentopoli: l'età della presunzione di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Dalla caduta della Prima Repubblica, è sorta la Seconda e i nuovi decisori, scampati al tritacarne giustizialista, hanno riscritto l'articolo 111 della Costituzione, ispirandosi ai principi di tutela dell'indagato e dell'imputato delle carte europee, adeguato il codice penale ai principi del giusto processo e adottato il modello accusatorio. Ma poco di questa mano di vernice garantista è riuscita a incidere sulla mentalità comune. Soprattutto non ha impregnato il sistema mediatico che ha continuato a riversare, con il sostegno dei gestori dei processi, il solito appannaggio culturale collaudato durante Mani pulite. L'apertura di un'indagine, a cui segue in automatico la carcerazione preventiva, giustificata da un uso pervertito dell'articolo 56 del codice di procedure penale, è il vero fulcro della vicenda processuale. I dati citati da Tortorella parlano di 37.591 condannati definitivi su un totale di 67.000 detenuti in carcere: 43 detenuti su 100 sono in cella senza che sia stata ancora pronunciata una sentenza di condanna definitiva. E' questa fase che dà il via a fiumi di inchiostro, ad approfondimenti televisivi in cui si alimenta lo scandalo con gli indizi raccolti nella indagini. La ricerca della verità è secondaria rispetto alla foga di emettere un verdetto di popolo. Tutto questo dura fino al rinvio a giudizio. Poi i riflettori si spengono e la farraginosa, lenta e poco accessibile ai non addetti ai lavori macchina processuale comincia. "La Gogna" come un occhio di bue ha seguito alcuni figuranti del circuito mediatico-giudiziario prima e dopo il rinvio a giudizio, ricostruendo le vicende giudiziarie di Alfredo Romeo, Ottaviano Del Turco, Calogero Mannino, Silvio Scaglia, Antonio Saladino (al centro dell'operazione "Why Not"). Leggete le loro storie e capirete meglio in che senso Tortorella usa la parola gogna.

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Come nell’affaire Formigoni?

«Sì. Fa parte dello stesso gioco».

Tutto questo nonostante il potere mediatico si sia dato una parvenza di legalità. Naturalmente intervento inattuato!!

Codice Tv e Giustizia. Agcom: stop ai processi show in tv. I diritti inviolabili della persona pietra angolare del lavoro giornalistico. Così scrive Franco Abruzzo. Ordine dei giornalisti, Fnsi, Rai, Mediaset ed emittenti radio tv hanno firmato il CODICE DI AUTOREGOLAMENTAZIONE in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive. Il Codice trova fondamento nei diritti - garantiti dalla Costituzione - di libertà di espressione del pensiero da un lato e di rispetto dei diritti della persona dall’altro, riconoscendo la necessità di piena esplicazione del diritto di cronaca degli operatori dell’informazione e, nello stesso tempo, l’inderogabile dovere di rispettare nell’esercizio di tale funzione informativa, i diritti alla dignità, all’onorabilità e alla riservatezza delle persone. L'informazione sulle vicende giudiziarie in corso dovrà rispettare i diritti inviolabili della persona, rendere chiare le differenze fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra accusa e difesa, e adottare modalità che consentano un'adeguata comprensione. Sarà l'Authority a irrogare le sanzioni nei confronti delle emittenti radiotelevisive, che a loro volta potranno rivalersi sui presunti responsabili (registi, programmisti registi, autori testi, presentatori, conduttori, showman, ecc.) che fino ad oggi la passavano franca. In caso di trasgressione da parte dei giornalisti le eventuali sanzioni resteranno, invece, affidate esclusivamente al giudizio dell'Ordine regionale territorialmente competente.

Roma, 21 maggio 2009. Stop a i processi scimmiottati in tv o trasferiti impropriamente dalle aule di giustizia al piccolo schermo: l'informazione sulle vicende giudiziarie in corso dovrà rispettare i diritti inviolabili della persona, rendere chiare le differenze fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra accusa e difesa, e adottare modalità che consentano un'adeguata comprensione. E' stato siglato ieri pomeriggio a Roma, nella sede dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, il Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive. A sottoscrivere l'intesa sono state le principali emittenti nazionali (Rai, Mediaset, T.I. Media), la Federazione Radio Televisioni, l'Aeranti-Corallo, l'Ordine nazionale dei giornalisti, la Federazione nazionale della Stampa e l'Agcom. Il Codice, che esegue un atto di indirizzo dell’Agcom del gennaio 2008 e che è frutto di 18 mesi di paziente lavoro intorno ad un tavolo comune cui hanno partecipato tra gli altri i Presidenti emeriti della Corte Costituzionale Riccardo Chieppa e Cesare Ruperto, autorevoli giuristi e rappresentanti del Csm, entrerà in vigore entro il 30 giugno 2009 dopo la costituzione di Comitato di controllo cui spetterà il compito di accertare eventuali violazioni e proporre le misure del caso. Sarà poi l'Authority a irrogare le sanzioni nei confronti delle emittenti radiotelevisive, che a loro volta potranno rivalersi sui presunti responsabili (registi, programmisti registi, autori testi, presentatori, conduttori, showman, ecc.) che fino ad oggi la passavano franca. In caso di trasgressione da parte dei giornalisti le eventuali sanzioni resteranno, invece, affidate esclusivamente al giudizio dell'Ordine regionale territorialmente competente. E’ stato così finalmente attuato quanto più volte sollecitato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano “contro il rischio di un sovrapporsi della televisione alla funzione della giustizia attraverso la tecnica della spettacolarizzazione dei processi e la suggestione di teoremi giudiziari alternativi".  Oltre al Presidente Agcom, Corrado Calabrò, erano presenti il Presidente della Rai Paolo Garimberti, il Presidente Mediaset Fedele Confalonieri, il Vice Presidente RTI Gina Nieri, l’Amministratore delegato di Telecom Italia Media Mauro Nanni, il Presidente FRT-Federazione Radio Televisioni Filippo Rebecchini, il Presidente Aeranti-Corallo Marco Rossignoli, il Presidente della Federazione Nazionale della Stampa, Roberto Natale e il consigliere Pierluigi Roesler Franz per l’Ordine nazionale dei giornalisti. «E' una svolta nella comunicazione – ha detto il Presidente dell'Agcom, Corrado Calabrò, presente alla firma in veste di "notaio" - Non si vuole assolutamente limitare la libertà d'informazione, ma bisogna rispettare i diritti fondamentali della persona, evitando rappresentazioni dei processi che possono distorcere, come è accaduto più di una volta, la reale comprensione dei fatti. Vedere che tutte le emittenti hanno aderito, anche a costo di rinunciare a qualche punto di share, è positivo per tutta la società civile». Garimberti ha parlato di «opera meritoria», Confalonieri e Nanni hanno evidenziato il «valore dell'autoregolamentazione». Natale ha detto: «Oggi firmiamo e insieme traiamo nuovo impulso nella determinazione ad opporci a norme che tendono a limitare il diritto di cronaca, come il ddl intercettazioni».  Il Codice trova fondamento nei diritti - garantiti dalla Costituzione - di libertà di espressione del pensiero da un lato e di rispetto dei diritti della persona dall’altro, riconoscendo la necessità di piena esplicazione del diritto di cronaca degli operatori dell’informazione e, nello stesso tempo, l’inderogabile dovere di rispettare nell’esercizio di tale funzione informativa, i diritti alla dignità, all’onorabilità e alla riservatezza delle persone. Con tale atto le parti s’impegnano ad osservare le seguenti regole nelle trasmissioni televisive che abbiano ad oggetto la rappresentazione di vicende giudiziarie in corso:

a) curare che risultino chiare le differenze fra documentazione e rappresentazione, fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra pubblico ministero e giudice, fra accusa e difesa, fra carattere non definitivo e definitivo dei provvedimenti e delle decisioni nell’evoluzione delle fasi e dei gradi dei procedimenti e dei giudizi;

b) diffondere un’informazione che, attenendosi alla presunzione di non colpevolezza dell’indagato e dell’imputato, soddisfi comunque l’interesse pubblico alla conoscenza immediata di fatti di grande rilievo sociale quali la perpetrazione di gravi reati;

c) adottare modalità espressive e tecniche comunicative che consentano al telespettatore un’adeguata comprensione della vicenda, attraverso la rappresentazione e la illustrazione delle diverse posizioni delle parti in contesa, tenendo ponderatamente conto dell’effetto divulgativo ed esplicativo del mezzo televisivo che, pur ampliando la dialettica fra i soggetti processuali, può indurre il rischio di alterare la percezione dei fatti;

d) rispettare complessivamente il principio del contraddittorio delle tesi, assicurando la presenza e la pari opportunità nel confronto dialettico tra i soggetti che le sostengono – comunque diversi dalle parti che si confrontano nel processo - e rispettando il principio di buona fede e continenza nella corretta ricostruzione degli avvenimenti;

e) controllare, nell’esercizio del diritto di cronaca, la verità dei fatti narrati mediante accurata verifica delle fonti, avvertendo o comunque rendendo chiaro che le persone indagate o accusate si presumono non colpevoli fino alla sentenza irrevocabile di condanna e che pertanto la veridicità delle notizie concernenti ipotesi investigative o accusatorie attiene al fatto che le ipotesi sono state formulate come tali dagli organi competenti nel corso delle indagini e del processo e non anche alla sussistenza della responsabilità degli indagati o degli imputati;

f) non rivelare dati sensibili, o che ledano la riservatezza, la dignità e il decoro altrui, ed in special modo della vittima o di altri soggetti non indagati, la cui diffusione sia inidonea a soddisfare alcuno specifico interesse pubblico.

ALLEGATO A

CODICE DI AUTOREGOLAMENTAZIONE IN MATERIA DI RAPPRESENTAZIONE DI VICENDE GIUDIZIARIE  NELLE TRASMISSIONI RADIOTELEVISIVE

Le emittenti radiotelevisive pubblica e private, nazionali e locali e i fornitori di contenuti radiotelevisivi firmatari o aderenti alle associazioni firmatarie, l’Ordine nazionale dei giornalisti, la Federazione nazionale della stampa italiana, d’ora in avanti indicate come parti

VISTI gli articoli 2, 3, 10, 11, 15, 21, 24, 25, 27, 101, 102 e 111 della Costituzione italiana e gli articoli 1, 7, 11, 47, 48 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea;

VISTO l’articolo 3 del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, recante “Testo unico della radiotelevisione”, secondo il quale sono principi fondamentali del sistema radiotelevisivo la garanzia della libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione radiotelevisiva, la tutela della libertà di espressione di ogni individuo, inclusa la libertà di opinione e quella di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza limiti di frontiere, l’obiettività, la completezza, la lealtà e l’imparzialità dell’informazione, l’apertura alle diverse opinioni e tendenze politiche, sociali, culturali e religiose e la salvaguardia delle diversità etniche e culturali, nel rispetto delle libertà e dei diritti fondamentali della persona, in particolare della dignità della persona e dell’armonico sviluppo fisico, psichico e morale del minore, garantiti dalla Costituzione, dal diritto comunitario, dalle norme internazionali e dalle leggi statali e regionali;

CONSIDERATO che ai sensi dell’articolo 2 della legge 3 febbraio 1963, n. 69, istitutiva dell’Ordine dei giornalisti “E’ diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede”;

CONSIDERATO che ai sensi dell’art. 471, comma 1, del codice di procedura penale “l’udienza è pubblica a pena di nullità”, e che l’art. 147 del decreto legislativo 28 luglio 1989 n. 271, nel consentire la ripresa e la diffusione dei dibattimenti processuali, ne esplicita ed accentua la naturale destinazione alla pubblica conoscenza;

VISTA la Raccomandazione approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 10 luglio 2003 (R(2003)13) relativa all’informazione fornita dai media rispetto a procedimenti penali, la quale, nel ricordare i principi fondamentali in materia quali il diritto alla libera manifestazione del pensiero, il diritto di rettifica o di replica, il diritto al giusto processo, la tutela della dignità della persona e della vita privata e familiare, elenca i principi ispiratori dell’attività giornalistica in rapporto ai procedimenti penali e invita gli Stati membri a promuovere, anche attraverso gli organi di autodisciplina, il rispetto da parte dei media dei citati principi; nonché il Protocollo n. 11 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle Liberta fondamentali;

VISTA la Carta dei Doveri dei Giornalisti sottoscritta da CNOG e FNSI l’8 luglio 1993, la Carta di Treviso del 5 ottobre 1990, il Vademecum Carta di Treviso del 25 novembre 1995, la Carta dell’informazione e della programmazione a garanzia degli operatori del Servizio Pubblico Televisivo, il Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, il Codice di autoregolamentazione Tv e Minori approvato il 29 gennaio 2002 e il Codice Etico approvato dal Consiglio di Amministrazione della Rai;

VISTO l’“Atto di indirizzo sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive” approvato dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni con delibera n. 13/08/CSP, il quale, nel declinare i principi e i criteri relativi alle trasmissioni che hanno ad oggetto la rappresentazione di vicende e fatti costituenti materia di procedimenti giudiziari in corso, invita i soggetti interessati a redigere un codice di autoregolamentazione al fine di individuare regole di autodisciplina idonee a dare concreta attuazione ai predetti principi e criteri;

CONSIDERATO che il principio costituzionale secondo cui la giustizia è amministrata in nome del popolo titolare della sovranità, che può anche direttamente parteciparvi, esige che la collettività in cui il popolo consiste sia informata nel modo più ampio possibile dei fatti attinenti a vicende giudiziarie nonché dell’andamento delle medesime e dei modi in cui in relazione ad esse la giustizia sia in concreto amministrata in suo nome;

CONSIDERATO altresì che l’esigenza informativa è assolta primariamente dai mezzi di comunicazione di massa che, a norma dell’art. 21 della Costituzione come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, concorrono a fornire alla pubblica opinione un’informazione completa, obiettiva, imparziale e pluralistica;

RILEVATO che l’attività professionale dei giornalisti e in genere degli operatori dell’informazione, in quanto comporta la necessità di raccogliere e valutare fatti ed indizi, vagliarne l’attendibilità, organizzarli secondo logica e assumerli o rifiutarli come elementi di convincimento per l’espressione del proprio pensiero in forma assimilabile al giudizio, il quale ultimo però si svolge secondo puntuali regole procedurali e trova parametri valutativi prefissati in precise norme, che tuttavia sono suscettibili di interpretazione al pari dei fatti ai quali esse vanno applicate, lasciando dunque inevitabili margini di opinabilità che comportano una relazione solo presuntiva di corrispondenza tra il giudicato e la verità dei fatti stessi.

RILEVATO, ancora, che l’attività informativa in forma di cronaca e critica giudiziaria su fatti oggetto di accertamento giurisdizionale si svolge inevitabilmente in stretto parallelismo con questo, solo così potendo assicurare il raggiungimento dello scopo suo proprio, che è quello di rendere edotta la comunità mediante la formazione della pubblica opinione sugli eventi e sulle persone nei cui confronti, in suo nome, la giustizia è amministrata;

CONSIDERATO che tale andamento parallelo determina le condizioni di un circuito virtuoso potendo, in particolare, dare impulso ad iniziative processuali della difesa e degli stessi organi giudicanti nella prospettiva dell’espansione degli spazi di garanzia degli indagati e degli imputati, della completezza delle indagini e della maturazione del libero convincimento dei giudici;

CONSIDERATO che l’essenziale funzione di informazione accompagna ma non sostituisce la funzione giurisdizionale, rispettando l’esigenza di evitare la celebrazione in sede impropria, in forma libera e a fini anticipatori i processi in corso;

CONSIDERATA la necessità costituzionale di preservare la libertà di manifestazione del pensiero degli operatori dell’informazione e dei mezzi di comunicazione di massa da ogni forma di pressione o censura, anche a garanzia del diritto dei consociati a ricevere informazioni complete, veritiere e pluralistiche;

CONSIDERATO altresì l’inderogabile dovere di rispettare, nell’esercizio di tale libertà, i diritti inviolabili alla dignità, alla onorabilità e alla riservatezza, specificamente tutelati dalla presunzione di non colpevolezza sancita dall’art. 27 Cost., delle persone, specie se soggetti deboli in ragione dell’età minore o per altre cause, a qualunque titolo aventi parte in vicende giudiziarie o che, pur a queste estranee, possano in qualsiasi modo con esse trovarsi in occasionale rapporto di connessione; dovere da valutare, quanto alla esigibilità del suo corretto adempimento, in connessione con l’interesse pubblico alla conoscenza immediata di fatti di grande rilievo sociale quali la perpetrazione di gravi reati;

PRESO ATTO che la peculiarità del mezzo radiotelevisivo, destinato alla narrazione per immagini in movimento, implica la modalità espressiva della rappresentazione scenica – comune peraltro agli aspetti “liturgici” della celebrazione processuale - la quale, se non contenuta in ragionevoli limiti di proporzionalità, può trascendere in forme espressive suscettibili di alterare la reale figura dell’indagato o imputato e di altri soggetti processuali o estranei al processo;

CONDIVIDENDO l’esigenza segnalata nella delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni n. 13/08/CSP di disciplinare le modalità di rappresentazione televisiva delle vicende giudiziarie in corso, attraverso una scelta di autoregolamentazione da parte dei soggetti titolari del diritto costituzionale di liberamente manifestare il pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, anche a garanzia della formazione di una libera e consapevole opinione pubblica quale fondamento del sistema democratico;

IN CONTINUITÀ con un’autonoma tradizione di autodisciplina, ispirata al comune intendimento di assicurare il massimo grado possibile di effettività ai valori costituzionali sopra richiamati che, a partire dalla Carta di Treviso e dalla Carta dei doveri del giornalista, ha consolidato nel tempo l’acquisizione e l’attuazione dei criteri di un ponderato bilanciamento tra diritto-dovere dell’informazione, i diritti alla dignità, all’onore, alla reputazione e alla riservatezza della persona umana e i principi del giusto processo;

dopo ampio confronto in sede di “tavolo tecnico” istituito con la citata delibera AGCOM e ricevuta dalla Autorità per le garanzie nelle comunicazioni l’attestazione che il testo elaborato risponde compiutamente ed in modo satisfattivo alle indicazioni da essa ivi formulate, che ne rimangono pertanto attuate

ADOTTANO

il presente Codice di autoregolamentazione di seguito denominato “Codice in materia di rappresentazione delle vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive”.

Articolo 1

1. Le parti, ferma la salvaguardia della libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione in sé e a garanzia del diritto dei cittadini ad essere tempestivamente e compiutamente informati, e ferma altresì la tutela della libertà individuale di manifestazione del pensiero, che implica quella di ricercare, acquisire, ricevere, comunicare e diffondere informazioni e si esprime segnatamente nelle forme della cronaca, dell’opinione e della critica anche in riferimento all’organizzazione, al funzionamento e agli atti dei pubblici poteri incluso l’Ordine giurisdizionale, si impegnano ad adottare nelle trasmissioni televisive che abbiano ad oggetto la rappresentazione di vicende giudiziarie in corso le misure atte ad assicurare l’osservanza dei principi di obiettività, completezza, e imparzialità, rapportati ai fatti e agli atti risultanti dallo stato in cui si trova il procedimento nel momento in cui ha luogo la trasmissione, e a rispettare i diritti alla dignità, all’onore, alla reputazione e alla riservatezza costituzionalmente garantiti alle persone direttamente, indirettamente od occasionalmente coinvolte nelle indagini e nel processo.

2. Ai fini di cui al comma 1, nelle trasmissioni radiotelevisive che abbiano ad oggetto la rappresentazione di vicende giudiziarie, le parti si impegnano a:

a) curare che risultino chiare le differenze fra documentazione e rappresentazione, fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra pubblico ministero e giudice, fra accusa e difesa, fra carattere non definitivo e definitivo dei provvedimenti e delle decisioni nell’evoluzione delle fasi e dei gradi dei procedimenti e dei giudizi;

b) diffondere un’informazione che, attenendosi alla presunzione di non colpevolezza dell’indagato e dell’imputato, soddisfi comunque l’interesse pubblico alla conoscenza immediata di fatti di grande rilievo sociale quali la perpetrazione di gravi reati;

c) adottare modalità espressive e tecniche comunicative che consentano al telespettatore una adeguata comprensione della vicenda, attraverso la rappresentazione e la illustrazione delle diverse posizioni delle parti in contesa, tenendo ponderatamente conto dell’effetto divulgativo ed esplicativo del mezzo televisivo che, pur ampliando la dialettica fra i soggetti processuali, può indurre il rischio di alterare la percezione dei fatti;

d) rispettare complessivamente il principio del contraddittorio delle tesi, assicurando la presenza e la pari opportunità nel confronto dialettico tra i soggetti che le sostengono – comunque diversi dalle parti che si confrontano nel processo - e rispettando il principio di buona fede e continenza nella corretta ricostruzione degli avvenimenti;

e) controllare, nell’esercizio del diritto di cronaca, la verità dei fatti narrati mediante accurata verifica delle fonti, avvertendo o comunque rendendo chiaro che le persone indagate o accusate si presumono non colpevoli fino alla sentenza irrevocabile di condanna e che pertanto la veridicità delle notizie concernenti ipotesi investigative o accusatorie attiene al fatto che le ipotesi sono state formulate come tali dagli organi competenti nel corso delle indagini e del processo e non anche alla sussistenza della responsabilità degli indagati o degli imputati;

f) non rivelare dati sensibili o che ledano la riservatezza, la dignità e il decoro altrui, ed in special modo della vittima o di altri soggetti non indagati, la cui diffusione sia inidonea a soddisfare alcuno specifico interesse pubblico.

Articolo 2

1. L’accertamento delle violazioni del presente Codice, comprensivo delle indicazioni formulate con la citata delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni , alle quali esso compiutamente risponde, e l’adozione delle eventuali misure correttive sono riservati alla competenza di un apposito Comitato che le parti sottoscrittrici ed aderenti si impegnano a costituire entro il 30 giugno 2009.

2. In ogni caso per i giornalisti eventualmente coinvolti la competenza resta riservata all’Ordine professionale.

Articolo 3

1. Il presente Codice è aperto all'adesione da parte di altri soggetti iscritti al ROC presso l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e a loro associazioni e consorzi.

2. L’adesione comporta la piena accettazione del presente Codice.

Articolo 4

Il presente Codice entra in vigore all’atto di costituzione del Comitato di cui all’art. 2.

Roma, 21 maggio 2009

Per Rai – Radiotelevisione Italiana Spa: Dott. Paolo Garimberti, Presidente; Prof. Mauro Masi, Direttore Generale

Per RTI – Reti Televisive Italiane Spa: Dott. Fedele Confalonieri, Presidente Mediaset; D.ssa Gina Nieri, Vice Presidente R.T.I.

Per Telecom Italia Media Spa: Dott. Mauro Nanni, Amministratore Delegato

Per l’Associazione Aeranti – Corallo: Avv. Marco Rossignoli, Presidente e Coordinatore Aeranti – Corallo

Per l’Associazione FRT – Federazione Radio e Televisioni: Dott. Filippo Rebecchini, Presidente

Per l’Ordine Nazionale dei Giornalisti: Dott. Pierluigi Roesler Franz, Consigliere Nazionale

Per la Federazione Nazionale della Stampa: Dott. Roberto Natale, Presidente

ALLEGATO B

Gazzetta Ufficiale N. 39 del 15 Febbraio 2008 AUTORITA' PER LE GARANZIE NELLE COMUNICAZIONI  DELIBERAZIONE 31 gennaio 2008. Atto di indirizzo sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive. (Deliberazione n. 13/08/CSP).

L'AUTORITA'

Nella riunione della Commissione per i servizi ed i prodotti del 31 gennaio 2008;

Visti gli articoli 2, 3, 21, 24, 25, 27, 101 e 111 della Costituzione italiana;

Visti gli articoli 1, 7, 11, 47, 48 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea;

Vista la legge 31 luglio 1997, n. 249, pubblicata nel supplemento ordinario n. 154/L alla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 177 del 31 luglio 1997, ed in particolare l'art. 1, comma 6, lettera b), n. 6;

Visto il decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, recante «Testo unico della radiotelevisione», pubblicato nel Supplemento Ordinario n. 150/L alla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 208 del 7 settembre 2006, ed in particolare i suoi articoli 3, 4 e 34, che delineano quali fondamentali principi dell'informazione, tra gli altri, quelli della lealtà ed imparzialità, della salvaguardia dei diritti fondamentali e della dignità della persona, della tutela dei minori;

Visto l'Atto di indirizzo sulle garanzie del pluralismo nel servizio pubblico radiotelevisivo approvato dalla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi nella seduta dell'11 marzo 2003, secondo il quale, in particolare:

«1. Tutte le trasmissioni di informazione - dai telegiornali ai programmi di approfondimento - devono rispettare rigorosamente, con la completezza dell'informazione, la pluralità dei punti di vista e la necessità del contraddittorio; ai direttori, ai conduttori, a tutti i giornalisti che operano nell'azienda concessionaria del servizio pubblico, si chiede di orientare la loro attività al rispetto dell'imparzialità, avendo come unico criterio quello di fornire ai cittadini utenti il massimo di informazioni, verificate e fondate, con il massimo della chiarezza... .... omissis.... 4. Considerato che la legge garantisce agli imputati e alla loro difesa di tacere quando loro può nuocere; considerati altresì i vincoli ai quali la legge obbliga i magistrati, sia requirenti che giudicanti nel rapporto con i mezzi di informazione, in tutte le fasi del giudizio; nei programmi della concessionaria del servizio pubblico aventi ad oggetto procedimenti giudiziari in corso, l'esercizio del diritto di cronaca, come l'obbligatorio confronto tra le diverse tesi dovrà essere garantito da soggetti diversi dalle parti che sono coinvolte e si confrontano nel processo. La scelta di questi soggetti - la cui delicatezza è evidente – appartiene esclusivamente alle decisioni dei responsabili dei programmi»;

Visti i codici di autoregolamentazione applicabili alla comunicazione radiotelevisiva, e, in particolare, la «Carta di Treviso sul rapporto Informazione-Minori» del 5 ottobre 1990 e il suo addendum del 25 novembre 1995, la «Carta dei doveri del giornalista «sottoscritta dal Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti e dalla Federazione nazionale della Stampa italiana in data 8 luglio 1993, la «Carta dell'informazione e della programmazione a garanzia degli utenti e degli operatori del servizio pubblico - RAI» del dicembre 1995, il «Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attivita' giornalistica» (allegato A1 del codice in materia di protezione dei dati personali approvato con decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196);

Considerato quanto segue:

1. Alcuni programmi televisivi mostrano la tendenza a trasmettere in forma spettacolare vere e proprie ricostruzioni di vicende giudiziarie in corso, impossessandosi di schemi, riti e tesi tipicamente processuali che vengono riprodotti, peraltro, con i tempi, le modalità e il linguaggio propri del mezzo televisivo, i quali si sostituiscono a quelli, ben diversi, del procedimento giurisdizionale. Si crea cosi' un foro «mediatico» alternativo alla sede naturale del processo, dove non si svolge semplicemente un dibattito equilibrato tra le opposte tesi, ma si assiste a una sorta di rappresentazione paraprocessuale, che giunge a volte perfino all'esame analitico e ricapitolativo del materiale probatorio, cosi' da pervenire, con l'immediatezza propria della comunicazione televisiva, ad una sorta di convincimento pubblico, in apparenza degno di fede, sulla fondatezza o meno di una certa ipotesi accusatoria. Tanto più accreditato risulta tale convincimento quanto più, nella percezione di massa, la comunicazione televisiva svolge una sorta di funzione di validazione della realtà. In tal modo la televisione rischia seriamente di sovrapporsi alla funzione della giustizia: e può accadere che effetti «coloriti» o «teoremi giudiziari alternativi» o rappresentazioni suggestive (a volte persino con l'utilizzazione di figuranti) prevalgano sull'obiettiva e comprovata informazione, con il concreto rischio di precostituire presso l'opinione pubblica un preciso giudizio sul caso concreto, basato su una «verità virtuale» che può influire, se non prevalere, sulla «verità processuale», destinata per sua natura ad emergere solo da una laboriosa verifica che richiede tempi più lunghi, portando addirittura, in casi deteriori, a un giustizialismo emotivo e sbrigativo, talora non alieno da tratti morbosi.

2. La tecnica della spettacolarizzazione dei processi, che le trasmissioni televisive utilizzano a fini di audience, amplifica a dismisura la risonanza di iniziative giudiziarie che, per il loro carattere spesso semplicemente prodromico e cautelare, potrebbero nel prosieguo del processo anche rivelarsi infondate e risultare quindi superate, con il rischio della degenerazione della trasmissione in una sorta di «gogna mediatica» a scapito della presunzione di non colpevolezza dell'imputato e, in ultima analisi, della tutela della dignità  umana e del diritto al «giusto processo», garantiti dalla nostra Costituzione e dai principi comunitari. E la «gogna mediatica» può  diventare già  essa stessa una condanna preventiva, inappellabile e indelebile.

3. Il livello di civiltà di uno Stato si misura innanzitutto dal rispetto per la giustizia. E da un sistema giudiziario indipendente ed efficiente. Tuttavia, non si può supplire ai tempi troppo lunghi della giustizia trasferendo il giudizio dalle aule giudiziarie alla televisione, in violazione del canone della centralità del processo, quello vero, quale unica sede deputata dall'ordinamento alla ricerca e all'accertamento della «verità». La cronaca può indubbiamente riferire del processo, ma non può spingersi a crearne un surrogato che, nella pretesa di ricostruire la vicenda delittuosa, ne amplifichi a dismisura e - in un certo senso - ne rinnovi e incrudisca gli effetti lesivi. Il processo deve essere svolto dal giudice competente, l'accusa va sostenuta dal pubblico ministero, la difesa va fatta da avvocati che conoscano il diritto e gli incartamenti processuali: il tutto secondo regole che garantiscano il regolare e appropriato svolgimento del processo e i diritti fondamentali della persona. Non e' pertanto ammissibile - e contrasta con gli indirizzi dettati dalla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi sul pluralismo informativo - che il ruolo di giudici, accusatori e difensori sia svolto da giornalisti o conduttori televisivi o, comunque, da soggetti estranei, senza quelle garanzie che nella cultura giuridica del Paese rappresentano un caposaldo dello Stato di diritto.

4. L'attenzione distorta, insistente e talora parossistica dedicata a taluni pur gravi fatti delittuosi comporta notevoli rischi di alterazione, anche perché l'estremizzazione mediatica dell'indagine nel suo farsi processo da un lato inevitabilmente amplifica le sofferenze della vittima e dei suoi congiunti (trasformando il dolore della persona in spettacolo pubblico, in contrasto con elementari istanze di tutela della persona), e dall'altro enfatizza, spettacolarizzandolo, il ruolo dell'imputato, che esce dall'anonimato per venire oggettivamente proposto come un vero e proprio protagonista della vita sociale «mediatica», con risultati abnormi e talora aberranti, vuoi sul versante della deturpazione dell'immagine vuoi sul versante di un'enfatizzata notorietà che regala a protagonisti negativi una celebrità distorsiva dei valori di una società civile.

5. Né è da escludere o da sottovalutare il pericolo che una siffatta rappresentazione «mediatica» del processo - ispirata più dall'amore per l'audience che dall'amore per la verità in programmi delle principali emittenti televisive che occupano con grande ascolto la prima e la seconda serata - possa influenzare indebitamente il regolare e sereno esercizio della funzione di giustizia. Esiste, in particolare, il pericolo dell'identificazione dell'organo giurisdizionale con la «platea dei telespettatori» che rischia di mettere a repentaglio l'indipendenza psicologica del giudicante (anch'essa valore costituzionalmente rilevante), facendo risentire la pressione di un processo di piazza dei nostri tempi sul processo nella sede giudiziaria. Con la conseguenza che, quando il processo reale approderà al suo esito giudiziario, la sentenza, se conforme all'esito della rappresentazione televisiva, appaia nient'altro che la tardiva rimasticatura di quell'esito tempestivamente raggiunto e, se difforme, venga contaminata dal sospetto di una distorsione dal giusto esito che, per frange non trascurabili del pubblico, rimane quello del processo celebrato in TV, impressosi ormai nella memoria dei telespettatori. Per altro verso, un'attenzione sproporzionata a un certo «caso» può determinare una «personalizzazione» delle indagini che competono al giudice, esponendo così il singolo magistrato a tentazioni di protagonismo mediatico (oltre che a rischi personali) e sottoponendolo ad una sovra-pressione che può mettere a repentaglio la correttezza delle dinamiche di funzionamento del processo.

6. La problematica rappresentata, nei suoi molteplici risvolti, e' di estrema delicatezza, in quanto in essa confluisce la considerazione di plurimi valori costituzionalmente garantiti: in sintesi, da un lato la libertà di espressione e di opinione, il diritto di informare e di ricevere e comunicare informazioni - comprensivo anche del diritto di cronaca - che costituiscono estrinsecazione della libertà di manifestazione del pensiero affermata dall'art. 21 della Costituzione; dall'altra la salvaguardia delle libertà individuali e della tutela della dignità umana e dei diritti inviolabili della persona (art. 2 Cost.), nonché il diritto al «giusto processo» tutelato dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (art. 6) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (art. 47). Il compito di contemperare i contrapposti interessi in gioco e' difficile e sfuggente, dovendosi ben ponderare, nella loro relazione reciproca, valori ciascuno di per sé meritevole di considerazione, di rispetto e di tutela.

7. La vigente disciplina delle riprese audiovisive dei dibattimenti (art. 147 decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271) già fornisce una misura - ed un caveat sulla necessità - di contemperamento degli interessi in gioco: garanzia del diritto di cronaca, ma anche salvaguardia delle personalità individuali. Omologo al diritto di cronaca e' il principio della pubblicità delle udienze, immediatamente riconducibile al disposto dell'art. 101 della Costituzione: in un sistema democratico che garantisce la sovranità popolare, e nel quale la giustizia e' amministrata in nome del popolo, devono esistere meccanismi di controllo sui modi di esercizio della giurisdizione. Dall'altra parte vi sono però i valori connessi al rispetto di alcune importanti prerogative dell'individuo, tra cui l'onore e la riservatezza. La norma dianzi citata prevede che ai fini dell'esercizio del diritto di cronaca il giudice, se le parti consentono, può autorizzare in tutto o in parte la ripresa audiovisiva del dibattimento, purchè non ne derivi un pregiudizio al regolare svolgimento dell'udienza o della decisione. L'autorizzazione può essere data pure senza il consenso delle parti «quando esiste un interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento». Anche quando autorizza la trasmissione, il presidente vieta la ripresa delle immagini di parti e testimoni, periti, consulenti ed altri soggetti presenti, se i medesimi non vi consentono. Infine, non possono essere autorizzate le trasmissioni di processi che si svolgono a «porte chiuse». Secondo autorevole dottrina, la norma testè esaminata non ha fugato i dubbi che il dibattito sulla «cronaca giudiziaria» ha sollevato. Come vi e' un interesse sociale alla conoscenza del dibattimento, infatti, vi e' anche un interesse generale a non turbare lo svolgimento del processo.

8. La vigente normativa sul sistema radiotelevisivo pone tra i principi fondamentali del settore la garanzia della libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione, la tutela della libertà di espressione di ogni individuo (inclusa la libertà di opinione e quella di ricevere o di comunicare informazioni), l'obiettività, la completezza, la lealtà e l'imparzialità dell'informazione, nel rispetto delle libertà e dei diritti, in particolare della dignità della persona e dell'armonico sviluppo dei minori, garantiti dalla Costituzione, dalle regole di base dell'Unione europea, dalle norme e convenzioni internazionali e dalle leggi nazionali. Ne deriva che nell'ordinamento della comunicazione i principi rappresentati dalla libertà di espressione, di opinione e di ricevere e comunicare informazioni - comprensivi certo anche del diritto di cronaca, costituzionalmente garantito, - devono pur sempre conciliarsi con il rispetto delle libertà e dei diritti, e in particolare della dignità della persona; ne discende che a tale rispetto non e' possibile derogare neanche nel caso in cui la persona sia sottoposta a procedimento giudiziario o sia stata condannata con sentenza definitiva.

9. Ferma la necessità di evitare ogni menomazione ed ogni ingiustificato limite al diritto di informazione, si ritiene, pertanto, che la rappresentazione in televisione di temi di cronaca giudiziaria non possa reputarsi totalmente esente da regole, ma debba osservare una serie di limiti modali, riconducibili in primis all'ambito della deontologia professionale, tali da evitare il rischio che attraverso la spettacolarizzazione di vicende delittuose e giudiziarie vengano compromessi i principi di correttezza, lealtà, equità e completezza dell'informazione, nonchè i valori del rispetto della dignità umana e del diritto al «giusto processo».

Considerato che ai sensi dell'art. 7 del «Testo unico della radiotelevisione» l'attività di informazione radiotelevisiva, da qualunque emittente o fornitore di contenuti esercitata, costituisce un servizio di interesse generale e deve garantire il rispetto dei principi ivi recati, la cui osservanza e' resa effettiva dall'Autorità attraverso le regole dalla stessa stabilite.

Ritenuta la necessità che - in considerazione della delicatezza e degli aspetti marginali di opinabilità del problema - al soddisfacimento delle esigenze di correttezza della rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive si proceda attraverso un'opportuna e responsabile scelta di autoregolamentazione degli operatori interessati, in considerazione del valore costituzionalmente garantito della libertà di espressione del pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, valore che si traduce nell'esigenza che la democrazia sia basata su una libera opinione pubblica. Ravvisata, pertanto, l'utilità dell'istituzione di un apposito tavolo tecnico presso l'Autorità con l'obiettivo di promuovere la redazione, da parte degli operatori, di un corpo di regole di autodisciplina in tale materia.

Ritenuta, peraltro, necessaria al corretto dispiegarsi delle dinamiche autoregolamentari l'individuazione di criteri a presidio degli interessi tutelati dalle norme vigenti nella materia.

Ritenuta, pertanto, l'opportunità di adottare in questa sede un apposito atto di indirizzo sui criteri relativi alle corrette modalità di rappresentazione della materia delle indagini e dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive, anche in vista del successivo impegno autoregolamentare dei soggetti interessati. Udita la relazione dei Commissari Giancarlo Innocenzi Botti e Michele Lauria, relatori ai sensi dell'art. 29 del regolamento concernente l'organizzazione ed il funzionamento dell'Autorità.

Delibera:

Art. 1. Criteri sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive.

1. Le emittenti radiotelevisive pubbliche e private, nazionali e locali, e i fornitori di contenuti radiotelevisivi su frequenze terrestri, via satellite e via cavo - ferme la garanzia della libertà d'informazione e del pluralismo dei mezzi di comunicazione nonchè la salvaguardia della libertà di espressione di ogni individuo, inclusa la libertà di opinione e quella di ricevere o comunicare informazioni - sono tenuti a garantire l'osservanza dei principi normativi di obiettività, completezza, lealtà e imparzialità dell'informazione, rispetto delle libertà e dei diritti individuali, ed in particolare della dignità della persona e della tutela dei minori, in tutte le trasmissioni che hanno ad oggetto la rappresentazione di vicende e fatti costituenti materia di procedimenti giudiziari in corso, quale che sia la fase in cui gli stessi si trovino.

2. I soggetti di cui al comma 1, al fine di garantire l'osservanza dei suddetti principi, si attengono, in particolare, ai seguenti criteri:

a) va evitata un'esposizione mediatica sproporzionata, eccessiva e/o artificiosamente suggestiva, anche per le modalità adoperate, delle vicende di giustizia, che non possono in alcun modo divenire oggetto di «processi» condotti fuori dal processo. In particolare vanno evitati «processi mediatici», che, perseguendo il fine di un incremento di audience, rendano difficile al telespettatore l'appropriata comprensione della vicenda e che potrebbero andare a detrimento dei diritti individuali tutelati dalla Costituzione e delle garanzie del «giusto processo;

b) l'informazione, fermo restando il diritto di cronaca, deve fornire notizie con modalità tali da mettere in luce la valenza centrale del processo, celebrato nella sede sua propria, quale luogo deputato alla ricerca e all'accertamento della «verità»: dovranno pertanto essere seguite modalità tali da tenere conto della presunzione di innocenza dell'imputato e dei vari gradi esperibili di giudizio, evitando in particolare che una misura cautelare o una comunicazione di «garanzia» possano rivestire presso l'opinione pubblica un significato e una concludenza che per legge non hanno;

c) la cronaca giudiziaria deve sempre rispettare i principi di obiettività, completezza, correttezza e imparzialità dell'informazione e di tutela della dignità umana, evitando tra l'altro di trasformare il dolore privato in uno spettacolo pubblico che amplifichi le sofferenze delle vittime e rifuggendo da aspetti di spettacolarizzazione suscettibili di portare a qualsivoglia forma di «divizzazione» dell'indagato, dell'imputato o di altri soggetti del processo; deve inoltre porre sempre in essere una tutela rafforzata quando sono coinvolti minori, dei quali va salvaguardato lo sviluppo fisico, psichico e morale;

d) restando salva la facoltà di sviluppare sui temi in esame dibattiti tra soggetti diversi dalle parti del processo nel rispetto del principio del contraddittorio ed assicurando pari opportunità nel confronto dialettico tra i soggetti intervenienti, vanno evitate le manipolazioni tese a rappresentare una realtà virtuale del processo tale da ingenerare suggestione o confusione nel telespettatore con nocumento dei principi di lealtà, obiettività e buona fede nella corretta ricostruzione degli avvenimenti;

e) quando la trasmissione possa inferire sui diritti della persona, l'informazione sulle vicende processuali deve svolgersi in aderenza a principi di «proporzionalità», accordando pertanto alle informative e alle analisi uno spazio equilibratamente commisurato alla presenza e all'entità dell'interesse pubblico leso e raccordando la comunicazione al grado di sviluppo dell'iter giudiziario, e quindi al livello di attendibilità delle indicazioni disponibili sulla verità dei fatti.

Art. 2. Codice di autoregolamentazione

1. I soggetti di cui all'art. 1, comma 1, singolarmente o attraverso le proprie associazioni rappresentative, sono invitati a redigere un codice di autoregolamentazione, con il concorso dell'Ordine dei Giornalisti e delle organizzazioni rappresentative delle professionalità della stampa, al fine di individuare regole di autodisciplina idonee a dare concreta attuazione ai principi e ai criteri individuati nel presente atto di indirizzo.

2. L'Autorità, con separato provvedimento, provvederà ad istituire un tavolo tecnico in funzione di promozione ed ausilio rispetto alla elaborazione del codice e alla definizione delle modalità della sua redazione e sottoscrizione.

3. L'Autorità, nell'ambito della propria competenza, uniformerà la propria attività di vigilanza in materia al rispetto delle norme e dei principi richiamati, avendo specifico riguardo alle disposizione del codice di autoregolamentazione.

La presente delibera e' pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e nel Bollettino ufficiale e sul sito web dell'Autorità ed e' trasmessa alla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi.

Napoli, 31 gennaio 2008

Il presidente Calabro'. I commissari relatori Innocenzi Botti – Lauria

Pierluigi Franz replica al presidente dei cronisti Guido Columba: “Il Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive trova fondamento nei diritti, garantiti dalla Costituzione, di libertà di espressione del pensiero, da un lato, e di rispetto  dei diritti dei cittadini, dall’altro. “Il codice  riconosce la necessità di piena esplicazione del diritto di cronaca degli operatori dell’informazione e, nello stesso tempo, l’inderogabile dovere di rispettare, nell’esercizio di tale funzione informativa, i diritti alla dignità, all’onorabilità e alla riservatezza delle persone. E soprattutto di riaffermare il principio costituzionalmente garantito della presunzione di innocenza delle persone indagate, evitando la celebrazione in sede impropria, in forma libera e a fini anticipatori, dei processi in corso”.

Caro Presidente,  sono rimasto assolutamente sconcertato dal Tuo farneticante comunicato odierno: "Processi Tv: da Fnsi e Ordine nuovo cappio alla cronaca. - Hanno sottoscritto il Codice di autoregolamentazione Agcom - Soltanto lo scorso febbraio avevano formalmente deciso esattamente l'opposto" (Allegato A). E mi meraviglio che un cronista bravo ed esperto come Te sia riuscito a mettere insieme così tante inesattezze e imprecisioni senza neppure leggere l'ampio ed articolato preambolo al Codice, ricco di citazioni di numerose norme in vigore che soprattutto i giornalisti devono comunque conoscere e rispettare. Ad esempio, quando affermi nel titolo che "Fnsi e Ordine hanno sottoscritto il Codice di autoregolamentazione Agcom, mentre soltanto nello scorso febbraio avevano formalmente deciso esattamente l'opposto" dimentichi un particolare tutt'altro che trascurabile. Difatti, successivamente - anche grazie al mio modesto contributo - il testo del Codice é stato del tutto modificato su un passaggio chiave per i giornalisti iscritti all'Albo. Si tratta in particolare dell'art. 2, secondo comma, che prevede testualmente che "In ogni caso per i giornalisti eventualmente coinvolti la competenza resta riservata all'Ordine professionale". Di conseguenza mentre fino a febbraio scorso concordavo pienamente con te e con i colleghi del Consiglio nazionale contrari all'approvazione di quella prima Bozza del Codice perché non potevano essere varate nuove regole a carico dei giornalisti in aggiunta a tutte quelle già esistenti (Costituzione della Repubblica, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Raccomandazione approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 10 luglio 2003 (R(2003)13 -relativa all’informazione fornita dai media rispetto a procedimenti penali - nonché il Protocollo n. 11 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle Liberta fondamentali, codice penale, codice di procedura penale, codice civile, legge sulla stampa del 1948, legge n. 69 del 1963, Carta dei doveri, Carta di Treviso, Codice della Privacy, Testo unico della radiotelevisione, Carta dell’informazione e della programmazione a garanzia degli operatori del Servizio Pubblico Televisivo, il Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, il Codice di autoregolamentazione Tv e Minori approvato il 29 gennaio 2002 e il Codice Etico approvato dal Consiglio di Amministrazione della Rai; ecc.), la nuova formulazione accolta dal tavolo tecnico e dal Presidente dell'Authority Corrado Calabrò ha ovviamente ribaltato la situazione perché mantiene l'esclusiva competenza degli Ordini regionali territorialmente competenti così come era già avvenuto per il Codice di autoregolamentazione dell'informazione sportiva "Codice media e sport". E nell'ultima seduta del Cnog del 6-7 maggio 2009 se ne é preso atto, come delle dichiarazioni anch'esse favorevoli del Presidente della Fnsi Roberto Natale. Appare quindi del tutto inverosimile e fuorviante il sottotitolo "biforcuta" (come, cioé, se l'Ordine nazionale dei giornalisti e la Fnsi avessero la lingua biforcuta di indiana memoria) al Tuo comunicato "Processi Tv: da Fnsi e Ordine nuovo cappio alla cronaca" quando dovresti sapere che non é affatto vero, anzi é l'esatto contrario. E te lo dice uno come me come ha trascorso più di 30 anni in Cassazione, che si é letto una montagna di Gazzette Ufficiali e circa 600 mila sentenze della Suprema Corte e della Consulta, e che conosce circa 220mila tra leggi, codici e Trattati internazionali. A mio parere il Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive, cui hanno lavorato tra gli altri due ex Presidenti della Corte Costituzionale Riccardo Chieppa e Cesare Ruperto, fa, invece, finalmente chiarezza su una materia delicatissima che era stata più volte al centro di discussioni e polemiche. Mi limito solo a ricordarTi che:

1) il 30 gennaio scorso il Primo Presidente della Cassazione Vincenzo Carbone nella sua relazione sull'amministrazione della giustizia nella cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario 2009 al "Palazzaccio" di piazza Cavour a Roma aveva sottolineato la necessità di "evitare la realizzazione di veri e propri processi mediatici, simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre é ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali. La giustizia deve essere trasparente, ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria";

2) il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo intervento dello scorso anno al Consiglio Superiore della Magistratura si era richiamato ai principi affermati dalla nostra Costituzione e insiti sia nell'ordinamento nazionale, sia in quello comunitario, osservando che l'indirizzo rivolto il 31 gennaio 2008 dal Presidente dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni Calabrò costituisce "un atto puntuale e fermo contro il rischio di un sovrapporsi della televisione alla funzione della giustizia attraverso la tecnica della spettacolarizzazione dei processi e la suggestione di teoremi giudiziari alternativi";

3) il Presidente dell'Agcom, Corrado Calabrò, presente ieri alla firma in veste di "notaio" ha ribadito che il Codice rappresenta «una svolta nella comunicazione. Non si vuole assolutamente limitare la libertà d'informazione, ma bisogna rispettare i diritti fondamentali della persona, evitando rappresentazioni dei processi che possono distorcere, come è accaduto più di una volta, la reale comprensione dei fatti. Vedere che tutte le emittenti hanno aderito, anche a costo di rinunciare a qualche punto di share, è positivo per tutta la società civile»;

4) Il presidente della Rai Paolo Garimberti ha parlato di «opera meritoria», il Presidente di Mediaset Fedele Confalonieri e l’Amministratore delegato di Telecom Italia Media Mauro Nanni hanno evidenziato il «valore dell'autoregolamentazione», mentre Roberto Natale ha detto: «Oggi firmiamo e insieme traiamo nuovo impulso nella determinazione ad opporci a norme che tendono a limitare il diritto di cronaca, come il ddl intercettazioni».

In conclusione ti ricordo che contrariamente a quanto affermi nel Tuo comunicato il Codice trova fondamento nei diritti, garantiti dalla Costituzione, di libertà di espressione del pensiero, da un lato, e di rispetto dei diritti dei cittadini, dall’altro, riconoscendo la necessità di piena esplicazione del diritto di cronaca degli operatori dell’informazione e, nello stesso tempo, l’inderogabile dovere di rispettare nell’esercizio di tale funzione informativa, i diritti alla dignità, all’onorabilità e alla riservatezza delle persone. E soprattutto di riaffermare il principio costituzionalmente garantito della presunzione di innocenza delle persone indagate, evitando la celebrazione, in sede impropria, in forma libera e a fini anticipatori, dei processi in corso. Ti sarei molto grato se volessi rendere nota questa mia richiesta di rettifica del Tuo comunicato, essendo gravemente lesivo della mia onorabilità. Cordialmente. Pierluigi Roesler Franz, Consigliere nazionale dell'Ordine dei Giornalisti.

BUONI E CATTIVI CON L’ABILITAZIONE COL TRUCCO.

Vittorio Feltri, "Buoni e Cattivi”. "Se Michele Santoro è giornalista è colpa mia che l'ho promosso", scrive su “Libero Quotidiano”. Buoni e cattivi è il nuovo libro scritto da Vittorio Feltri con Stefano Lorenzetto (Marsilio, pp. 544, euro 19,50): un catalogo di 211 nomi e volti noti di politica, magistratura, imprenditoria, giornalismo, spettacolo e sport passati al vaglio dei ricordi e del giudizio come sempre lucidissimo del «Vittorioso». L’elenco dei personaggi, dalla A di Agnelli alla Z di Zeffirelli, evoca un po’ Montanelli, con i suoi ritratti di figure decisive, anche se non sempre positive, del nostro tempo. E si presta a un sequel. Il catalogo, un po’ the best of e un po’ bestiario, è anche una raccolta di pagelle. Si parte dalle eccellenze, come Oriana Fallaci e Nino Nutrizio, cui viene assegnato un 10 e lode. Si passa a Giorgio Napolitano e Matteo Renzi, che ottengono rispettivamente 4½ e 5. E si arriva ai somari, come Alfano, Amato e Boldrini che prendono 3, e ai peggiori - Cederna, Fini e Lusi - cui spetta il 2. La vera sorpresa è Marco Travaglio,«forse il più bravo giornalista d’Italia», cui Feltri regala un 9. Ci sono gli inaffidabili, come Sandro Pertini, che voleva far arrestare Feltri a Nizza. Ci sono le coppie come Hunziker-Trussardi, che Feltri fece incontrare. Poi figurano gli editori-fregatura, come Montezemolo che costò a Feltri, direttore de l’Europeo, 150 milioni di lire per videocassette scadenti e Urbano Cairo, che fece sborsare a Feltri 300 milioni di lire per un aumento di capitale di Libero non sottoscritto; e Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente Ior, che avrebbe dovuto essere tra gli editori di Libero. E poi Giuliano Ferrara, alla cui lista «Aborto? No, grazie» Feltri diede a sorpresa il suo voto.

Anche volendo, non potrei parlare male di lui. Se lo facessi, equivarrebbe a spararmi nei marroni. Si dà infatti il caso che Santoro sia diventato giornalista professionista con il mio contributo, giacché facevo parte della commissione all’esame di Stato che lo promosse e gli consentì l’iscrizione all’Ordine nazionale dei giornalisti. Era il 1982. Me lo ricordo perché erano in corso i Mondiali di calcio in Spagna, quelli vinti dall’Italia con Sandro Pertini in tribuna d’onore. L’unico motivo per cui accettai di far parte della commissione esaminatrice – composta da due magistrati designati dal presidente della Corte d’appello di Roma e da cinque giornalisti professionisti, iscritti nel relativo elenco da non meno di 10 anni – si chiamava Alberto Cavallari. Pur di allontanarmi dal direttore che mi mobbizzava, diedi la mia disponibilità all’Ordine e ottenni dal Corriere il permesso retribuito per trasferirmi a Roma a selezionare gli aspiranti scribacchini. Da allora, mai più ripetuta l’incresciosa esperienza. Non si rivelò un lavoro di tutto riposo. Era da poco stato liberalizzato l’accesso alla professione e venivano ammessi agli esami d’idoneità professionale anche cineoperatori, fotoreporter, conduttori di radio e televisioni private. Una bolgia. Saranno stati almeno 400 candidati. Un bel po’ li segammo alla prova scritta di aprile. Ne restarono in campo 250 agli orali di maggio e giugno. Fra questi, Santoro. E non solo: ho sulla coscienza altri tipi sinistri di quella sessione, come Giuseppe D’Avanzo, Curzio Maltese, Federico Rampini, Loris Campetti, Daniele Protti, Maurizio Mannoni e Cinzia Sasso, la cronista della Repubblica che, dopo aver tirato la volata a Giuliano Pisapia, se l’è sposato due mesi prima che diventasse sindaco di Milano. Roba che temo ancora, a distanza di anni, una class action da parte dei lettori per i guasti che la combriccola ha provocato. Attilio Bolzoni, mafiologo presso la medesima Repubblica, per fortuna no. Quello non mi può essere addebitato. Infatti non superò l’interrogazione. Lo bocciammo e dovette ripresentarsi all’esame l’anno successivo. Il che non gli ha impedito, trascorso un quarto di secolo, di vincere il premio È giornalismo, alias premio Stalin. Come si vede, il merito prima o poi viene sempre riconosciuto. Basta avere solo un po’ di pazienza e mettersi in coda sulla corsia giusta. Da quell’infornata uscì anche qualche firma ortodossa, per esempio Mauro Crippa, oggi gran sacerdote dell’informazione Mediaset, e Mauro Tedeschini, fior di professionista che ha già collezionato cinque direzioni: il Quotidiano Nazionale, Italia Oggi, Quattroruote, La Nazione e Il Centro. La vita del commissario esaminatore aveva qualche risvolto piacevole. Feci comunella con Giuseppe Pistilli, vicedirettore del Corriere dello Sport, il quale sedeva con me nel sinedrio. La sera andavamo a cena insieme. Il ponentino e il Frascati ci aiutavano a dimenticare le miserie cui avevamo assistito durante la giornata nel valutare i candidati. Ancora non avevo maturato la convinzione che l’Ordine dei giornalisti fosse un ente inutile, anzi peggio: dannoso. Pistilli contribuì a instillarmi qualche sospetto, illustrandomi come funzionava la commissione d’esame. Esempio: un aspirante scriba ti era stato raccomandato o ti stava a cuore? Bene, si trattava di farsi dare da lui le prime righe dell’articolo che aveva steso durante la prova scritta. Nessuno comincia un pezzo nella stessa maniera del compagno di banco, chiaro no? Perciò, non appena s’iniziava la lettura ad alta voce e in forma anonima degli elaborati, all’udire l’attacco familiare il commissario dava un calcetto sotto il tavolo a chi gli stava accanto. Costui a sua volta sferrava un calcetto al commissario più vicino, e avanti così. Con sei calcetti, il candidato era promosso. Dopodiché ricevevi a tua volta altri colpi negli stinchi e dovevi restituire il favore ricevuto. In questo modo passavano l’esame (e lo passano tuttora) asini sesquipedali. A quell’epoca Santoro non era proprio un giovincello: 31 anni. Pesava 20 chili meno di adesso. Aveva i capelli scuri (non tinti) e un bel volto da meridionale intelligente. Gli occhi erano da matto furbissimo. Non rammento nulla della sua prova scritta. L’orale, viceversa, ce l’ho stampato nella memoria. Non era ancora un personaggio televisivo, ma si capiva che trattavasi di predestinato: lingua sciolta, grande capacità d’improvvisare, prontezza di riflessi. Non ebbe alcuna difficoltà a superare la formalità richiesta dalla legge per esercitare un mestiere che, per quanto sia stato burocratizzato in modo indecente, s’impara solo facendolo con passione. E lui di passione ne ha sempre avuta, fin troppa, al punto che in breve tempo me lo ritrovai in video. Conduceva Samarcanda con assoluta padronanza del mezzo. Non ne fui sorpreso. I dati d’ascolto del programma erano da capogiro: 7 milioni di telespettatori. Che per Rai 3 erano uno sproposito. Da lì in poi Santoro galoppò sicuro da un successo all’altro (Il rosso e il nero, Tempo reale) fino a sconfinare in territorio nemico nell’autunno del 1996, quando lasciò la Rai per diventare conduttore di Moby Dick sull’Italia 1 del Berlusca. Non male per uno che proveniva dal nucleo maoista dell’Unione comunisti italiani e da Servire il popolo. Aveva inventato una formula nuova che piaceva specialmente alla gente di sinistra. Per la prima volta il pubblico partecipava alle discussioni, non era relegato ai margini con l’esclusivo compito di applaudire a comando. Un format sostanzialmente rimasto immutato nel tempo, che consente a Santoro di furoreggiare, amato e odiato, comunque atteso nelle sue performance. Ogni volta fa centro: con Sciuscià, con Il raggio verde, con Annozero, con Servizio pubblico. Ogni volta costringe anche chi lo detesta ad accendere il televisore, magari solo per sacramentargli contro. La polemica, la provocazione, la faziosità sono gli ingredienti che hanno sempre reso le sue trasmissioni imperdibili. È un arruffapopolo, un Masaniello, una birba, un efferato scassapalle costantemente al centro dell’attenzione. Silvio Berlusconi, oltre ad assumerlo, gli ha anche offerto il destro, da premier, di potersi atteggiare a martire dell’informazione sulle note di Bella ciao. Altro che «editto bulgaro». È stata l’apoteosi dello scugnizzo riccioluto, che con una cantata da partigiano stonato s’è guadagnato, nell’ordine: l’elezione a europarlamentare dell’Ulivo; il successivo ritorno in Rai per sentenza di un giudice del lavoro; un risarcimento dei danni stratosferico (1,4 milioni di euro); il reintegro nel ruolo di conduttore dei programmi di prima serata; la riconsegna in diretta del Santo Graal – il microfono – nientemeno che dalle mani di Adriano Celentano, durante una celebre puntata di Rockpolitik chiusa da Santoro al quadruplice grido di «viva la fratellanza, viva l’eguaglianza, viva la cultura, viva la libertà». Olà! In quell’occasione, con tono accorato, assicurò alle figlie che lo stavano guardando d’aver sempre «agito con onestà e correttezza». Peccato che, mentre lo diceva, continuasse a strofinarsi il naso con la mano. Rammento che si toccava la proboscide ogni dieci secondi. Ahi ahi. Evidente indizio di menzogna, avrebbe concluso Desmond Morris, studioso del comportamento umano e animale. Quando si raccontano bugie, aumenta la produzione di catecolamine, le mucose nasali s’ingrossano e subentra l’impellente e inconsapevole necessità di grattarsi le frogie per calmare il fastidioso prurito. Comunque per me Santoro, al netto del suo settarismo intollerabile, potrebbe anche infilarsi le dita nel naso e resterebbe comunque bravo. Mille volte meglio lui di quel cicisbeo di Giovanni Floris. Quello proprio non lo reggo, lui e il suo sorrisino da ebete. Voto: 6.

"Buoni e Cattivi", il libro di Vittorio Feltri: le pagelle a Fazio, Littizzetto, Serra e altri 2mila vip, su “Libero Quotidiano”. Buoni e cattivi è il nuovo libro scritto da Vittorio Feltri con Stefano Lorenzetto (Marsilio, pp. 544, euro 19,50): un catalogo di 211 nomi e volti noti di politica, magistratura, imprenditoria, giornalismo, spettacolo e sport passati al vaglio dei ricordi e del giudizio come sempre lucidissimo del «Vittorioso». L’elenco dei personaggi, dalla A di Agnelli alla Z di Zeffirelli, evoca un po’ Montanelli, con i suoi ritratti di figure decisive, anche se non sempre positive, del nostro tempo. E si presta a un sequel. Il catalogo, un po’ the best of e un po’ bestiario, è anche una raccolta di pagelle. Si parte dalle eccellenze, come Oriana Fallaci e Nino Nutrizio, cui viene assegnato un 10 e lode. Si passa a Giorgio Napolitano e Matteo Renzi, che ottengono rispettivamente 4½ e 5. E si arriva ai somari, come Alfano, Amato e Boldrini che prendono 3, e ai peggiori - Cederna, Fini e Lusi - cui spetta il 2. La vera sorpresa è Marco Travaglio,«forse il più bravo giornalista d’Italia», cui Feltri regala un 9. Ci sono gli inaffidabili, come Sandro Pertini, che voleva far arrestare Feltri a Nizza. Ci sono le coppie come Hunziker-Trussardi, che Feltri fece incontrare. Poi figurano gli editori-fregatura, come Montezemolo che costò a Feltri, direttore de l’Europeo, 150 milioni di lire per videocassette scadenti e Urbano Cairo, che fece sborsare a Feltri 300 milioni di lire per un aumento di capitale di Libero non sottoscritto; e Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente Ior, che avrebbe dovuto essere tra gli editori di Libero. E poi Giuliano Ferrara, alla cui lista «Aborto? No, grazie» Feltri diede a sorpresa il suo voto. Chi l’avrebbe mai detto: è diventato qualcuno grazie a Forza Italia. La trasmissione si chiamava così. Andava in onda su Odeon Tv, emittente privata appartenente a Calisto Tanzi, il boss della Parmalat che, tre lustri dopo, tutti avrebbero fatto finta di non aver mai conosciuto. Correva l’anno 1988. In studio Roberta Termali e Walter Zenga. Io partecipavo in veste di ospite fisso. C’era anche Cristina Parodi, con una sua rubrica, «La ragazza con la valigia», che la portava in giro per l’Italia a fare interviste. E infine lui, Fabietto. Un pistolino da oratorio. Mi divertiva con le sue imitazioni. Solo che non riuscivo a riconoscere i personaggi che imitava. Alla fine del programma, si andava tutti insieme a bere un’ombra al bar. Non è che sia molto cambiato da allora, mi assicura mia figlia farmacista che gli vende i cachet per il mal di testa .. Con quella sua aria da santificetur, Fazio mostrava grande deferenza nei miei confronti. Poi il sacrista dal collo torto tentò un paio di volte di farmi passare per fesso. Siccome è cresciuto a omogeneizzati di coniglio, ricorreva sempre a un complice. A Diritto di replica fu quel povero guitto di Sandro Paternostro, il corrispondente da Londra della Rai che ha lasciato nella storia del giornalismo più tracce di tintura Testanera che non d’inchiostro. Paternostro dirigeva quattro o cinque giovanotti, vestiti come assistenti di volo, che sfottevano ospiti ignari della trappola. Superfluo precisare che il programma andava in onda su Rai 3. A Quelli che il calcio si servì di quell’altro mandolone che risponde al nome di Gene Gnocchi, scelta battesimale un po’ infelice, considerato il corredo cromosomico d’infima qualità. Il sinistrume ha questa fissa: incastrare il giornalista diverso. Persino il Festival di Sanremo, con Fabio Fazio presentatore, è diventato di sinistra. Era ora. Di destra in Italia rimane solo il bagno al posto della doccia, ultimo orgoglio di una borghesia sempre più piccola piccola. È la prova che Forforina ha un suo talento naturale: quello di saper fiutare che aria tira. Non ha mai sbagliato un refolo, veleggia sempre con il vento a favore. Un fuoriclasse. Guadagna in un anno quello che io, ben pagato, incasso in tre: 2 milioni di euro. Il suo ultimo contratto, portato alla firma del direttore generale della Rai, proponeva fino al giugno 2017 il modico compenso di 5 milioni e 400.000 euro. Ignoro se Luigi Gubitosi ci abbia apposto in calce il proprio autografo. V’è da augurarsi di no, soprattutto dopo che al Festival di Sanremo 2014 il moscio conduttore s’è perso per strada 3 milioni di ascoltatori. Lo dico da contribuente che versa due canoni di abbonamento, uno a Milano e l’altro a Bergamo. Il sosia ligure di Bashar El Assad dà il meglio di sé nel ruolo di presentatore e conduttore... non è mai successo che abbia molestato con domande impertinenti qualche potente, in particolare se progressista, mentre ha manifestato una prontezza eccezionale nel prendere in giro qualunque povero cristo, in particolare se privo di protezioni politiche. D’altronde le tracce per le sue interviste sono preparate da un pool di autori ben locupletati, nel quale primeggia Michele Serra, ex Unità. Da solo, Faziosino non sarebbe neppure in grado di chiedere che tempo che fa. Ultimamente si è specializzato come piazzista di prodotti editoriali. In pratica occupa l’intera trasmissione del servizio pubblico per reclamizzare i libri scritti da suoi amici. (A proposito: ma i libri non sono prodotti come gli altri? non hanno un prezzo di copertina? non fanno guadagnare editori, autori e librai? e dunque non si tratta di pubblicità occulta?) Quando pubblicai Il Vittorioso, mi sarei aspettato, da ingenuo quale sono, che m’invitasse nel salottino domenicale di Rai 3. Mi sarei accontentato anche del sabato. Ero persino disposto a sopportare un grosso sacrificio: la presenza di Luciana Littizzetto. Niente da fare. Un collega mi spiegò che figuravo nella black list faziosa, in quanto il mio Giornale s’era occupato in passato della villona del nostro sulle alture di Celle Ligure (...)oggetto di esposto dell’opposizione per i massicci lavori di ristrutturazione che vi sono stati eseguiti. In compenso Fazio invita a Che tempo che fa il giornalista e scrittore Massimo Gramellini e gli riserva quasi mezza puntata affinché possa magnificare la sua ultima fatica letteraria. Poco importa che costui sia incidentalmente anche collaboratore fisso del medesimo Che tempo che fa. Poi blaterano tanto del conflitto d’interessi. Alessandro Di Pietro, conduttore di Occhio alla spesa su Rai 1, è stato licenziato in tronco perché avrebbe lodato in modo eccessivo la Aliveris, una pasta di soia per diabetici. Invece Gramellini può autopromuoversi il romanzo Fai bei sogni nella stessa bottega Rai che lo retribuisce, vendere oltre 1 milione di copie epperò va tutto bene madama la marchesa. Basta che il pistolino ci metta sopra il suo bel timbrino. Ma andate a nascondervi, moralisti del pifferino. Voto: 4.

LA VERITA’ MANIPOLATA.

Verità manipolata, Santoro condannato. Dovrà risarcire l'ex senatore Pdl Pittelli con 30mila euro per averlo diffamato in una puntata di "Annozero" del 2008, scrive Anna Maria Greco suIl Giornale”. La diffamazione è un'arte sottile, fatta di furbizie e apparenti ingenuità, di notizie taciute, tagli, allusioni e sapienti costruzioni del racconto. Certi giornalisti ne sono maestri e uno di questi è Michele Santoro, a leggere la sentenza che lo condanna con la Rai a risarcire con 30mila euro Giancarlo Pittelli per averne infangato l'onore, nella puntata di Annozero del 18 dicembre 2008. Lì, l'avvocato ed ex senatore Pdl, viene presentato ai telespettatori, spiega il giudice del tribunale civile di Roma, Vittorio Contento, come «un riciclatore, dedito a loschi affari», «senza dargli possibilità di replica» e, soprattutto, tacendo che le accuse contro di lui sono già cadute. Il gip di Catanzaro, infatti, le ha archiviate mesi prima, su richiesta dello stesso pm. Così come viene taciuta un'altra archiviazione, suscitando il falso sospetto che l'avvocato Pittelli avesse avvisato un indagato perché portasse all'estero dei soldi. Il silenzio di Santoro su questi punti determinanti merita «censura», per il magistrato, perché non si è preoccupato di «informare correttamente il pubblico e tutelare l'immagine del Pittelli». Che alla puntata non c'è, né c'è un suo legale. «Il difetto di un completo contraddittorio - scrive con severità il giudice - avrebbe dovuto essere compensato quantomeno con un'informazione completa». La storia dell'ex senatore viene inserita nello scenario della lotta tra le Procure di Catanzaro e Salerno, l'una che indagava sull'altra e viceversa, scoppiata dopo le inchieste dell'allora pm, Luigi de Magistris, «Why not» e «Poseidone», poi toltegli dal procuratore generale. La sentenza del 12 marzo va al di là della vicenda personale e critica duramente il modo del conduttore di costruire la puntata, in modo da presentare come «verità accertata» quello che non è neppure ipotesi, usando anche fiction con attori dalla «particolare efficacia persuasiva». Quella di Contento è un'analisi spietata e feroce al modo di fare televisione di Santoro, disapprovato già all'origine per aver aperto un dibattito in tv non su un processo in corso o definito, ma su un «fatto eclatante» ancora in fase di indagini, senza neppure le accuse formulate: il sequestro degli atti delle inchieste in mano agli inquirenti salernitani da parte dei colleghi calabresi, per presunta interruzione di pubblico servizio e il sospetto che volessero «affossarle». Anche la scelta dei partecipanti - Travaglio, Ghedini (Pdl), Di Pietro (Idv), Giannini (Repubblica), Vulpio (Corriere della sera), Cascini (allora segretario Anm), il giurista Grevi, il giornalista Massari e un'indagata, Caterina Merante - per il giudice è sbilanciata, fatta ad arte per sostenere tesi preconcette. «Nel complesso - scrive Contento - la partecipazione degli ospiti è stata confezionata in modo da presentare molte più voci favorevoli al De Magistris ed alla Procura di Salerno che ai magistrati calabresi». Pittelli viene tirato dentro alla guerra tra toghe quando un consulente tecnico nominato da De Magistris racconta nella solita fiction, di «anomalie» in flussi finanziari sui conti del penalista, per un versamento in contante di 2 milioni di euro da parte di tale Schettini. «Fatto questo in sé per nulla illegale - nota il giudice - ma di sicuro effetto sul pubblico, il quale è portato a presumere... che lo Schettini fosse un soggetto in qualche modo dedito ad illeciti affari... e che l'attore ne fosse coinvolto». Tutto falso, ma lo show a volte se ne infischia.

LA CASTA SI RIBELLA. DIFFAMAZIONE, NIENTE CARCERE, MA NON PER TUTTI.

Diffamazione, la Cassazione: "Niente carcere per i giornalisti", scrive “Libero Quotidiano”. No al carcere per i giornalisti ritenuti responsabili di diffamazione, se non in circostanze eccezionali. Così si è espressa la Corte di Cassazione in una sentenza depositata oggi, giovedì 13 marzo, nella quale i giudici della Suprema Corte hanno dichiarato che "la libertà di espressione costituisce un valore garantito attraverso la tutela costituzionale del diritto/dovere di informazione". La pena che potrà essere inflitta ai reporter potrà essere quindi solo un risarcimento, ma non l'arresto. Il caso - La Cassazione ha affrontato nuovamente il tema del carcere per i cronisti a causa di un processo a carico di due giornalisti del quotidiano La voce di Romagna, per un articolo pubblicato nel marzo 2006. Il direttore del giornale e il reporter che ha scritto il pezzo "incriminato" erano stati accusati di diffamazione ai danni di due militari, per aver scritto, contrariamente al vero, che erano responsabili di un furto ai danni di un collega. Iter giudiziario - I due giornalisti erano stati condannati dai giudici nei primi due gradi del processo, prima dal Tribunale di Cremona, poi dalla Corte d’Appello di Brescia, ma oggi la Cassazione ha ribaltato completamente la sentenza, impedendo che venissero incarcerati. Nei documenti del processo si legge che "anche laddove siano valicati i limiti del diritto di cronaca e/o di critica, (si deve) tener conto, nella valutazione della condotta del giornalista, dell'insostituibile funzione informativa esercitata dalla categoria di appartenenza, tra l'altro attualmente oggetto di gravi e ingiustificati attacchi da parte anche di movimenti politici proprio al fine di limitare tale funzione". 

Cassazione: niente carcere per i giornalisti. Sono sotto attacco ingiustificato, scrive “Il Messaggero”. Niente carcere per i giornalisti quando commettono diffamazione, reato che deve essere punito - a meno che non ricorrano «circostanze eccezionali», tipo 'macchina del fango' - solo con una multa, come esige dall'Italia la Corte europea dei diritti umani. Lo chiede la Cassazione, con tutta la sua autorevolezza. Tra l'altro, la categoria - che deve poter svolgere liberamente il ruolo di «cane da guardia», proseguono gli ermellini - è, in questo momento, «sotto attacco ingiustificato da parte di movimenti politici». La mente corre al blog di Beppe Grillo che spesso ha inveito e aizzato contro i lavoratori dei media. L'esortazione alla magistratura è suffragata dal rilievo che il Parlamento intende riformare le sanzioni per gli illeciti professionali a mezzo stampa commessi tramite notizie infondate o, peggio, costruite a tavolino. Sulla scia di questi principi di diritto - dai quali sono state tratte varie massime giurisprudenziali - la Suprema Corte, con la sentenza 12203 della Terza sezione penale (presidente Gennaro Marasca, relatore Grazia Lapalorcia) ha accolto il ricorso del direttore del quotidiano 'La Voce di Romagna' e di un cronista della stessa testata, che erano stati condannati a sei mesi di reclusione - sospesi dalla condizionale - per un articolo pubblicato l'11 marzo 2006. Si trattava di un pezzo nel quale si dava notizia di due militari, dei quali non veniva nemmeno fatto il nome, ma si fornivano solo le iniziali, indagati per furto ai danni di un commilitone dopo il ritrovamento nei loro armadietti di parte della refurtiva. Invece pare si trattasse solo di «materiale di interesse per le indagini, poi non riconosciuto dal derubato». Nonostante - come ha riconosciuto la Cassazione - non si fosse trattato di una diffamazione grave, il Tribunale di Cremona, nel novembre 2010, non ci era andato leggero condannando i giornalisti al carcere (non si conosce l'entità della pena di partenza) e al risarcimento delle parti lese. In appello, la Corte di Brescia, il 21 gennaio 2013, aveva ridimensionato la condanna portandola a sei mesi e aveva limato il risarcimento (anche questo di entità non specificata). Su ricorso degli imputati, la Cassazione ha sconfessato i giudici di merito. «A contrastare l'applicabilità al caso di specie della pena detentiva, c'è l'orientamento della Corte Edu che - spiega il verdetto - esige la ricorrenza di circostanze eccezionali per l'irrogazione della più severa sanzione, sia pure condizionalmente sospesa». «Altrimenti - prosegue l'Alta Corte - non sarebbe assicurato il ruolo di cane da guardia dei giornalisti, il cui compito è comunicare informazioni su questioni di interesse generale e conseguentemente di assicurare il diritto del pubblico di riceverle». Infine, gli ermellini osservano che non ricorrono gli estremi della gravità del fatto data anche la «cautela» usata scrivendo solo le iniziali dei militari e «così evitando di dare in pasto ai lettori il loro nome completo». E non ha nessun peso la circostanza che, successivamente, il quotidiano romagnolo non abbia dato notizia dell'archiviazione dell'inchiesta sui militari in quanto si tratta di un fatto successivo «inidoneo a riverberare i propri effetti sulla valutazione dell'entità del fatto». Ora un'altra sezione della Corte di Appello di Brescia, dovrà rideterminare - sotto forma di multa - la pena per gli imputati. Le statuizioni civili rimarranno invece invariate.

Cassazione: niente carcere ai giornalisti per diffamazione. La suprema corte, nelle motivazioni di una sentenza, invita anche il Parlamento ad agire in tal senso, seguendo anche la battaglia di Panorama. Niente carcere per i giornalisti in caso di diffamazione, scrive “Panorama”. A dirlo oggi è addirittura la Corte di Cassazione nelle motivazioni di una sentenza riguardante un giornalista ed il direttore della sua testata. Vicenda identica a quella che ha coinvolto un due giornalisti di Panorama condannati dal Tribunale di Milano per diffamazione per due diversi articoli ed il direttore, Giorgio Mulé condannato in entrambi i casi in primo grado ad 8 mesi per omesso controllo. Condanne dopo le quali Panorama ha cominciato una propria battaglia che ha portato il Parlamento all'approvazione alla Camera di una nuova norma che elimina appunto il carcere. Oggi poi arriva forte anche la voce della Corte Suprema. "I giornalisti - hanno detto i giudici - in quanto categoria sono attualmente oggetto di gravi ed ingiustificati attacchi da parte anche di movimenti politici proprio al fine di limitare la loro insostituibile funzione informativa". Lo sottolinea la Cassazione in una sentenza che esorta a non infliggere il carcere nel caso di condanne per diffamazione ma solo multe. La Suprema Corte, inoltre, ricorda che "'de iure condendo' anche il legislatore ordinario italiano e' orientato al ridimensionamento del profilo punitivo del reato di diffamazione a mezzo stampa". Con questo verdetto - sentenza 12203 della V Sezione penale - la Suprema Corte ha detto no alla condanna al carcere, seppure con pena sospesa, nei confronti di un giornalista e del direttore del quotidiano La Voce Di Romagna per un articolo che riportava informazioni imprecise di cronaca giudiziaria su un furto in una caserma. La sentenza della Cassazione che annulla la sanzione carceraria comminata ai danni di un giornalista per reato di diffamazione - evidenziando come, in questi casi, la reclusione debba essere prevista solo in circostanze eccezionali - rafforza la battaglia per l'affermazione di un principio di civiltà. Dopo una serie di richiami europei, la Camera ha approvato, in materia, un importante ddl in cui si contemperano la libertà di informazione, principio essenziale per una matura democrazia, e il diritto alla difesa. La sentenza di oggi è uno sprone affinchè anche il Senato acceleri l'iter di questa legge volta a sanare un vulnus che nel nostro Paese dura da troppo tempo". Lo dichiara la responsabile comunicazione di Forza Italia, on. Deborah Bergamini, prima firmataria della proposta di legge per l'abolizione del carcere per i giornalisti in caso di reato di diffamazione.

Vietato criticare le toghe: il giudice sequestra l'articolo. Che l’articolo sia diffamatorio non lo ha ancora deciso nessuna sentenza, ma per la toga non è rilevante, scrive Luca Fazzo suIl Giornale”. Giornalisti in galera, anzi no. Tutto sta nell’avere fortuna, quando si arriva davanti all’Eccellentissima Corte di Cassazione. È andata bene ieri ai due giornalisti della Voce di Romagna , che per avere scritto un articolo ritenuto diffamatorio da due carabinieri si erano visti rifilare dalla Corte d’appello di Brescia sei mesi di galera: con la condizionale, fortunatamente, ma pronti a diventar esecutivi in caso di un’altra condanna. Nello spazzare via la condanna dei giornalisti alla galera, la Cassazione ha sancito principi fondamentali, richiamando i giudici di tutta Italia al rispetto di quanto da tempo ci predica l’Europa, e cioè che punire con la prigione i reati a mezzo stampa non è ammissibile. Bene, molto bene. Peccato che basti spostarsi di due sezioni della Cassazione, dalla terza alla quinta, per trovare quelli che i giornalisti al fresco ce li sbattono volentieri: come accadde nel settembre 2012 quando la Suprema Corte confermò l’anno di carcere inflitto al direttore del Giornale Alessandro Sallusti. A Sallusti, a differenza dei colleghi romagnoli, non venne concessa neanche la condizionale, arrivò la Digos ad arrestarlo in redazione e ci volle l’intervento del capo dello Stato per fare di nuovo del giornalista un uomo libero. Ora, i giudici della terza sezione scrivono il contrario di quello che hanno scritto quelli della quinta. A ben leggere, una finestrella aperta se la tengono, perché - puntualizzano - in «casi eccezionali » la galera si può usare. Ma il principio per il resto è sancito con tale nettezza che la sentenza viene accolta con legittima soddisfazione dall’Ordine dei giornalisti. Se su di loro pendesse la spada dell’arresto, «non sarebbe assicurato il ruolo di “cane da guardia” dei giornalisti, il cui compito è comunicare informazioni su questioni di interesse generale e conseguentemente di assicurare il diritto del pubblico di riceverle». Ad allarmare la Corte sui rischi che corre di questi tempi la libertà di espressione è stata, a leggere le motivazioni, una considerazione che in apparenza c’entra poco: il fatto che la stampa si trovi «sotto attacco ingiustificato da parte di movimenti politici», riferimento che ieri qualcuno interpretava come rivolto agli attacchi di Beppe Grillo. Ma, qualunque sia il motivo, è comunque un passo avanti. In attesa che si esprimano le Sezioni unite, il cui intervento a questo punto appare inevitabile, è però inevitabile notare che tra le toghe c’è chi, senza troppo preoccuparsi della Corte europea dei diritti dell’uomo, dei moniti del Quirinale e delle proteste dei giornalisti, viaggia nella direzione addirittura opposta. Ieri infatti un giudice ha firmato, in tema di libertà di stampa, un provvedimento senza precedenti. E anche qui, curiosamente, c’è di mezzo il processo ad Alessandro Sallusti, quello in cui la giustizia italiana fece vedere alla stampa la sua faccia più severa. Il giudice di Cassazione che scrisse la condanna di Sallusti, Antonio Bevere, si è ritenuto diffamato da un articolo sulla vicenda e ha sporto querela: niente di male e niente di strano, ci sarà un processo e si vedrà chi ha ragione e chi torto. Ma a Bevere non basta: ha chiesto a un suo ex collega (lui ormai è in pensione), il giudice monzese De Lillo, di sequestrare la pagina del sito del Giornale.it che lui ritiene diffamatoria. Che l’articolo sia diffamatorio non lo ha ancora deciso nessuna sentenza, ma per De Lillo non è rilevante. Il 7 marzo 2014 scorso, accogliendo la richiesta dell’ex collega, il giudice «autorizza il sequestro preventivo della pagina web di cui in narrativa con l’oscuramento di essa». E ieri mattina in via Negri arrivano i carabinieri con il decreto in mano e fanno presente: non ce ne andiamo fin quando non cancellate l’articolo dal sito. Non resta che obbedire. Ma attenzione:l’articolo si può ancora leggere sulla raccolta del Giornale in diverse biblioteche, almeno fino a quando l’ex giudice Bevere non le farà bruciare.

LE SPUTASENTENZE. LA GOGNA MEDIATICA, GLI AVVOLTOI DELL'INFORMAZIONE E LA POTENTE LOBBY GAY.

cerchiamo si svelare i tabù che attanagliano la nostra società ed in virtù di certi tabù si condannano gesti di quotidiana banalità.

I giovani sotto le lenzuola? Poco preparati, scrive “Libero Quotidiano”.Continuano le inchieste Sex and the teens di Beatrice Borromeo sul rapporto tra i giovani e il sesso. Dopo la ricerca sulle ragazze che si sentono delle sfigate se non perdono la verginità a 14 anni, questa volta il lungo articolo pubblicato su Il fatto quotidiano affronta "la difficoltà nel gestire relazioni basate sempre meno sui sentimenti e lo spaesamento provocato dall'intraprendenza, talvolta aggressiva, delle ragazze". La giornalista decide di affrontare il delicato tema dal punto di vista di un ragazzo di 15 anni, Mattia, che racconta i retroscena della vita sessuale degli adolescenti, divisi tra il voler (o dover) apparire e la paura di un fallimento. "Chi vuole un pompino?" - Il ragazzo intervistato si sfoga sulla sua delusione d'amore: a Capodanno la sua ex fidanzata, ubriaca, andava in giro a chiedere a tutti i ragazzi se volessero un pompino, prima di chiudersi in una stanza per partecipare a un'orgia. "L'ha fatto solo per farsi notare - ha spiegato Mattia - perché sapeva che c'erano i ragazzi più grandi. Me l'aspettavo, perché queste ragazze aprono le gambe come niente". A sorpresa, sembra dai racconti di Mattia che i ragazzi siano degli inguaribili romantici e che il dover gestire questo genere di rapporti con le ragazze sia una costante fonte di angoscia. "Cerchiamo tutti una persona affidabile. Non una che cambia idea ogni settimana, che ti fa le corna e che non ha autocontrollo", sentenzia il ragazzo. Educazione sessuale - Considerando che un'unica intervista non descrive le tendenze comuni a tutti gli adolescenti e che quindi non può essere presa come esempio per tutti, il dato reale che viene fuori da questa inchiesta è che questi ragazzi non hanno le idee chiare sulla sessualità. Il problema è non solo la giovane età dei ragazzi di cui si parla, che hanno 14 o 15 anni, ma soprattutto nel fatto che non ricevono alcun tipo di educazione sessuale e che quindi vivono il sesso come un mezzo per apparire e farsi notare e ne vivono solo gli eccessi. 

Sesso a 14 anni: "Se non lo fai sei una sfigata", scrive “Libero Quotidiano”. Un'incursione nel mondo delle quattordicenni. Un'inchiesta sul sesso e i giovanissimi pubblicata da Il Fatto Quotidiano firmata da Beatrice Borromeo svela come le liceali siano assillate dall'esigenza di fare sesso per essere accettate dal gruppo. "Mi hanno stappata", ecco la frase con cui soprattutto il lunedì mattina le ragazzine si presentano a scuola per informare tutte le compagne che hanno avuto la loro prima esperienza. Una ragazzina ha spiegato che solitamente in quarta liceo solo tre o quattro si presentano già sverginate. "La regola è che bisogna liberarsene entro l'anno successivo. Per questo, a fine estate, ci sono un sacco di noi che vanno col primo che passa giusto per non sforare i tempi perché a settembre si fa il bilancio". Il sesso come chiave d'accesso al gruppo. E se, entro il secondo anno di liceo, una ragazzina non ha ancora avuto esperienze con ragazzi, allora sono fuori. Vengono considerate delle sfigate. Sesso per il gruppo - Ai preliminari - si legge nell'inchiesta del Fatto - si dà poco peso. Se esci con un ragazzo per un paio di settimane è normale fargli almeno una sega". Non ci si stupisce più neanche per il sesso orale: "Le mie amiche lo fanno spesso nei bagni delle discoteche, il sabato sera". Spesso sono ubriache, ma nessuna si pente e non ricordano neanche più il nome del ragazzo con cui hanno fatto sesso orale nei bagni. Le ragazzine spiegano che si fa sesso "per diventare grandi", e quelle che resistono si sentono dire dalle amiche: "Guarda che se non la molli, lui...". e ancora: "Per chi te la stai tenendo?". Le paure - Il mondo dei ragazzi, invece, è diverso. Loro vivono il momento del primo rapporto sessuale con ansia. Hanno paura di essere giudicati e le ragazze sono spietate, se sbagliano in qualcosa sanno che la loro defaillance diventerà di pubblico dominio. Per quanto riguarda le precauzioni, molte usano la pillola concezionale (e ciò significa che condividono la loro vita sessuale con i genitori). Altre usano il preservativo, ma c'è anche chi il lunedì arriva a scuola nel panico perché non riesce più a ricordare se ha usato l'anticoncezionale. "In più non sanno chi è il ragazzo con cui hanno scopato" oppure spiega una ragazzina "si vergognano di chiarirlo per chiedere. Quindi le più furbe vanno in consultorio e prendono la pillola del giorno dopo e le altre aspettano e pregano che il ciclo arrivi".

Sesso, per i ragazzini è un incubo: "Queste a 14 anni aprono le gambe come niente e ci ribaltano". Un'inchiesta de "Il Fatto Quotidiano" racconta il rapporto fra i liceali e il sesso. Le ragazze sono troppo più esperte: "Non sappiamo che fare. Se vai male a letto sei finito". Per le ragazzine è un bisogno, quasi un dovere - "Se a quattordici anni non ti fai stappare sei una sfigata". Per i ragazzini è tutto diverso. E tutto tremendamente più difficile. Continua il viaggio di Beatrice Borromeo, per "Il Fatto Quotidiano", nel mondo del sesso fra gli adolescenti. Dopo la storia di Chiara, 15enne milanese simbolo delle giovani di oggi - disinibite e "sveglie" - il protagonista della puntata è Mattia, un 15enne liceale alle prese con le prime cotte e la sensazione di inadeguatezza di fronte alle ben più sfontate coetanee. "La mia prima volta? - dice il giovane - Vorrei fosse con una ragazza di cui sono innamorato. Non con una che mi salta addosso e mi ribalta". Poi Mattia racconta di una sera per lui da incubo. Litri di alcol stanno per salutare l'anno nuovo e c'è una festa alla quale partecipano ragazzi e ragazze, tutti adolescenti. In lui è forte il desiderio di rivedere la ex. "L’ho vista ubriaca, che girava e chiedeva ad alta voce: ‘Chi vuole un pompino?’. È stata una cosa orribile, tristissima", racconta lui. Ma il peggio arriva poco dopo. "C’erano quattro ragazzi e due ragazze, tutti di 16 anni, che facevano le loro cose al piano di sopra. Poi la mia ex, che ha solo 14 anni, si è aggiunta a loro.  A quel punto - dice Mattia, come riporta "Il Fatto Quotidiano" - i miei amici mi hanno portato via, ero disgustato". Non è stato solo l’alcol, però, a spingere l’ex nell’orgia ma la voglia di farsi vedere. "L’ha fatto solo per farsi notare, perché sapeva che c’erano i ragazzi più grandi. Me l’aspettavo, perché queste ragazze aprono le gambe come niente – dice mordendosi il labbro – ma ci sono rimasto comunque malissimo". Mattia non è il tipico liceale: beve poco, non fuma, è ancora vergine. "Le ragazze ci provano, ma io non voglio che la mia prima volta sia con una che mi salta addosso e mi ribalta. Voglio che sia speciale, voglio essere innamorato". Innamorarsi di ragazze così, però, sembra difficile. "Non sappiamo bene cosa dobbiamo fare - ammette il 15enne - Metti che ci andiamo a letto e va male: diventa molto imbarazzante. Non fai a tempo a uscire dalla stanza che lei sta già messaggiando con le sue amiche per mandare un resoconto completo di tutto quello che abbiamo appena fatto. Descrivono ogni dettaglio e poi ti danno il voto, dicono se sei stato bravo o no. È davvero una sfida avere a che fare con queste cose". Una sfida alla quale Mattia, per ora, non è ancora pronto. 

Sesso, a quattordici anni è un dovere: "Se non ti fai stappare sei una sfigata". Inchiesta de "Il Fatto Quotidiano" sul sesso e i giovanissimi: chi arriva al secondo anno di liceo senza avere avuto un rapporto sessuale "è una sfigata". "A fine estate un sacco di noi vanno col primo giusto per non sforare i tempi", scrive “Today”. Fare sesso. Con chiunque e dovunque capiti: basta farlo. Una vera esigenza, un'ossessione, per le quattordicenni di oggi. Il passo, necessario e indispensabile, per essere accettate dal gruppo. Lo rivela un'inchiesta sul sesso e i giovanissimi pubblicata da "Il Fatto Quotidiano", a firma Beatrice Borromeo - e ripresa da "Libero" - che racconta come il rapporto sessuale sia diventato una sorta di "status" necessario alla società. Chi arriva al secondo anno di liceo senza avere ancora avuto un uomo è fuori, una sfigata. Il lunedì mattina, racconta la Borromeo, quasi come fosse un rituale, le ragazzine si incontrano davanti scuola e annunciano: "Mi hanno stappata". E' questa la frase con cui le giovani informano tutte le compagne che hanno avuto la loro prima esperienza. Una ragazzina spiega che solitamente in prima liceo solo tre o quattro si presentano già sverginate. "La regola è che bisogna liberarsene entro l'anno successivo. Per questo, a fine estate, ci sono un sacco di noi che vanno col primo che passa giusto per non sforare i tempi perché a settembre si fa il bilancio". Ai preliminari - si legge nell'inchiesta del Fatto - si dà poco peso."Se esci con un ragazzo - racconta Chiara - per un paio di settimane, è normale masturbarlo almeno. Sì, lo racconti in classe, ma non è una gran notizia: nessuno si stupisce". Non si diventa popolari nemmeno per il sesso orale: "Le mie amiche lo fanno spesso nei bagni delle discoteche, il sabato sera. Poi ci ridono su: 'Tanto ero ubriaca', dicono". Magari il giorno dopo non sanno neanche chi fosse il lui. Ma lo fanno "per diventare grandi". E quelle che resistono si sentono dire dalle amiche: "Guarda che se non la molli, lui...". E ancora: "Per chi te la stai tenendo?".

Inchiesta "Sex and teens. Chiara, quinta ginnasio a Milano, dà la sua versione: "Il primo anno di liceo comincia la conta: entro 12 mesi bisogna 'darla via' altrimenti vieni emarginata". E i maschi? "Non ci pressano perché non ce n'è bisogno". Nessuna cura della contraccezione: "Il lunedì in classe c'è il panico: non ci si ricorda se il sabato, ubriache o fumate in discoteca, si è usato o meno il preservativo", scrive Beatrice Borromeo suIl Fatto Quotidiano”. La partita di pallavolo è appena cominciata e seduti per terra, in palestra, ci sono un po’ di ragazzi che usano “l’ora buca” per fare un tifo svogliato. C’è anche la professoressa di educazione fisica, che annota con una bic blu le assenze sul registro. A interrompere tutti è una ragazza di quinta ginnasio, che invade il campo: “Finalmente mi hanno stappata!”, urla, correndo attorno alla rete con le braccia alzate. “Sì, sì: mi hanno sturata ieri sera”. È settembre 2013. E Margherita (nome di fantasia) celebra così, davanti a compagni di scuola più e meno intimi, la perdita della sua verginità. A raccontare l’episodio è Chiara, che studia nello stesso liceo milanese e che quella mattina giocava nel ruolo di alzatrice. Reazioni? “Non molte. La prof l’ha guardata male, la maggioranza di noi l’ha ignorata e qualcuno le ha fatto i complimenti”. In fondo, Margherita ci ha messo un anno intero per riuscire nella missione. Chiara spiega come funziona: “All’inizio della quarta ginnasio si fa la conta. Di solito, solo tre o quattro ragazze arrivano al liceo già sverginate. La regola è che bisogna liberarsene entro l’anno successivo. Per questo, a fine estate, ci sono un sacco di noi che vanno col primo che passa, giusto per non sforare i tempi. Perché a settembre si fa il bilancio”. Chiara, capelli biondi alle spalle, occhi castani col mascara nero sulle ciglia, stelline disegnate a penna sul polso, è una delle pochissime ragazze della sua classe a essere ancora vergine. “Se sei una persona sensibile, vivi molto male il fatto di non averla ancora data. È vero: se non sei carina, se non segui la moda, vieni un po’ emarginata. Ma è il sesso l’unico argomento che tiene banco, l’unica carta d’accesso per restare nel gruppo. O sai quello di cui parli, o ti escludono per davvero. Ti trattano come una bambina, ti lasciano fuori dal gruppo, ti prendono sempre per il culo, come fossi una sfigata”.

I PRELIMINARI. Le regole sono semplici e, anche se non valgono per tutti, finisce che tutti le rispettano. Ai preliminari, spiega Chiara, non si dà alcun peso: “Se esci con un ragazzo per un paio di settimane, è normale fargli almeno una sega. Sì, lo racconti in classe, ma non è una gran notizia: nessuno si stupisce”. Non si diventa popolari nemmeno per il sesso orale: “Le mie amiche lo fanno spesso nei bagni delle discoteche, il sabato sera. Poi ci ridono su: ‘Tanto ero ubriaca’, dicono. Anche perché, quando si esce, si parte subito con i vodka-pesca o gli shot di rum e pera, quindi non ci vuole molto per perdere il controllo. L’altra scusa è che si erano fumate tre o quattro canne, che erano ‘fatte’. Ma nessuna si pente, e pochissime si ricordano anche solo il nome del ragazzo a cui hanno fatto un pompino”. Se si incontrano il weekend dopo, spiega, i due nemmeno si salutano. E ancora, a scuola l’argomento non esalta un granché: “Una di quinta ginnasio ha avuto un rapporto orale a tre prima di perdere la verginità, per prepararsi, e il racconto non ha creato grande scalpore”. Poi, i ragazzi sono gli unici a beneficiare dei preliminari: “Su di noi? Figurati, i maschi non sanno nemmeno da che parte cominciare. Non ho mai sentito parlare di sesso orale su una mia amica. Magari se esci con quelli più grandi, ma dubito”.

IL SESSO.Scopare è come fumare una sigaretta”. In che senso? “È una piccola trasgressione, nulla di più. Si fa per diventare grandi. Non che gli altri ti vedano poi diversamente, ma tu stessa proietti un’immagine più matura e di conseguenza entri nel gruppo più figo”. All’inizio c’è la spinta delle amiche: “Per chi te la stai tenendo? Guarda che se non la molli ti molla lui… E poi a qualcuno la dovrai pur dare, o no?”. Chiara è molto carina, ha ai piedi stivaletti di cuoio, e addosso una magliettina di Zara e una felpa blu col cappuccio. Potrebbe avere 14 anni come 18. Parla di sesso come se, appunto, l’avesse studiato meticolosamente a scuola, pur non avendolo ancora mai provato. E descrive un mondo capovolto: “I ragazzi non ci pressano mai per andare a letto. Anzi, sono terrorizzati dal fare figuracce, perché non sanno bene cosa devono fare. Anche perché noi siamo cattive, se uno se la cava male poi rischia che lo roviniamo. Sono le femmine – spiega Chiara – a sentirsi in dovere di sverginarsi in fretta. E poi gli uomini non hanno bisogno di insistere, perché le ragazze sono indemoniate”. Quando decidi di farlo, lo annunci alle amiche: “Questo weekend ho deciso che scopo”. Poi c’è l’immancabile resoconto del lunedì: “Di solito dicono ‘mi hanno sfondata’, oppure ‘mi hanno aperta’”. Da quel momento in poi perdi l’inibizione: “Una volta che l’hai data, la tua vita sessuale diventa super attiva. Se sei a casa di un’amica e c’è un tipo carino, non è che te la meni. Gliela dai senza fare troppe storie. Il ragazzo neanche se l’aspetta, così lo stupisci”.

L’ORGASMO. Il sesso e il piacere non hanno proprio nulla a che spartire, nelle storie che raccontano Chiara e le sue amiche. L’obiettivo non è quello, e i ragazzi sono troppo inesperti. “A nessuna è mai piaciuto scopare. La prima volta fa stra-male, e anche le volte dopo, comunque, tutto è tranne che piacevole. Ripeto: non lo fai per venire, ma per liberarti di un peso. È una questione d’immagine, di status. Anche perché i ragazzi durano pochissimo”. Per quelle che decidono di affidarsi al primo fidanzato, il momento prescelto è quello di una gita fuori città: “Stai con uno da un paio di settimane e ti invita a passare il weekend da qualche parte? Gliela dai. Matematico”.

PANICO DEL LUNEDI’. Le precauzioni più usate, racconta Chiara, sono il preservativo e la pillola anticoncezionale. Chi prende quest’ultima, di solito, ha già condiviso la propria vita sessuale con i genitori. E le altre? “Non sai quanti lunedì mattina vedo le mie amiche completamente in paranoia. Il sabato erano strafatte e non riescono a ricordarsi se hanno usato il preservativo o no. In più, non sanno chi è il ragazzo con cui hanno scopato, oppure si vergognano a chiamarlo per chiedere. Quindi le più furbe vanno in consultorio e prendono la pillola del giorno dopo – succede ogni due o tre mesi – e le altre aspettano e pregano che il ciclo arrivi”.

Dopo Chiara parla il 15enne Mattia che evoca l’amore: "La mia prima volta? Vorrei fosse con una ragazza di cui sono innamorato. Non con una che mi salta addosso e mi ribalta. I preliminari non sappiamo farli e abbiamo paura: veniamo giudicati di continuo", scrive Beatrice Borromeo suIl Fatto Quotidiano”. La delusione, per Mattia, è arrivata durante una festa di Capodanno, nella casa di un amico lasciata libera dai genitori, partiti per la montagna. I preparativi per festeggiare il 2014, in zona Navigli, a Milano, promettevano bene: c’erano birre, vodka, canne, potenti casse per pompare la musica e una trentina di amici tra i 14 e i 17 anni. Erano quasi tutti compagni di scuola, in un liceo artistico. E Mattia sbirciava per vedere se c’era anche la sua ex ragazza, con cui era uscito per qualche settimana, e che l’aveva da poco lasciato con un sms. Dopo la prima puntata della nostra inchiesta sulle abitudini sessuali degli adolescenti, che si focalizzava sull’esperienza di un gruppo di studentesse di un liceo classico milanese), Il Fatto Quotidiano esplora ora un altro punto di vista. Quello di un 15enne – e dei suoi amici – che raccontano le difficoltà nel gestire relazioni basate sempre meno sui sentimenti, e lo spaesamento provocato dall’intraprendenza, talvolta aggressiva, delle ragazze.

CHI VUOLE UN POMPINO? Passa quasi un’ora prima che Mattia incontri la sua ex. “L’ho vista ubriaca, che girava e chiedeva ad alta voce: ‘Chi vuole un pompino?’. È stata una cosa orribile, tristissima”, racconta lui. La parte peggiore però è arrivata poco dopo: “C’erano quattro ragazzi e due ragazze, tutti di 16 anni, che facevano le loro cose al piano di sopra. Toc. Toc. Toc… Il letto sbatteva contro il muro, era davvero fastidioso. Abbiamo alzato la musica al massimo per non sentire. Poi la mia ex, che ha solo 14 anni, si è aggiunta a loro. A quel punto i miei amici mi hanno portato via, ero disgustato”. Non è stato solo l’alcol, secondo Mattia, a spingere l’ex nell’orgia: “L’ha fatto solo per farsi notare, perché sapeva che c’erano i ragazzi più grandi. Me l’aspettavo, perché queste ragazze aprono le gambe come niente – dice mordendosi il labbro – ma ci sono rimasto comunque malissimo”.

LA DONNA IDEALE. Mentre racconta la sua storia, diventa chiaro che Mattia non è il tipico liceale: beve poco, non fuma, è ancora vergine e soprattutto “mi fanno schifo quelli che escono con una tipa perché ha un bel culo. Io vorrei solo che fosse dolce, possibilmente simpatica. Che le piacesse la mia stessa musica, metal soft, che condividesse i miei ideali. Poi, certo, dev’essere carina, però non è quella la priorità”. Ma guardando questo ragazzo di 15 anni, coi capelli lunghi, la giacca di pelle nera e un viso che ricorda un giovane Johnny Depp, tutto viene in mente tranne che non abbia successo con le ragazze. “Infatti loro ci provano, ma io non voglio che la mia prima volta sia con una che mi salta addosso e mi ribalta. Voglio che sia speciale, voglio essere innamorato, perché per me fare l’amore ha un significato. Altrimenti avrei già perso la verginità. E ho molti amici che la pensano come me”. Quando parla delle ragazze Mattia non vuole generalizzare: “Non sono tutte assatanate. Il problema è che più fanno cose elaborate a letto, più scalano la piramide sociale. Per questo passano la giornata a parlare di sesso mentre noi pensiamo alla musica, ai videogame e, certo, anche alle tipe, ma solo se ci interessano davvero”.

LE REGOLE DEL SUCCESSO. “Sappiamo tutti come funziona: se vuoi che le ragazze ci provino devi essere un truzzetto”. Che Mattia, sorseggiando un succo di pera (“il caffè non mi piace”) descrive così: pantaloni a vita molto bassa, coi boxer che s’intravedono. Capello corto, o testa rasata. Cappellino da rapper. Atteggiamento arrogante. “Se sei così – che poi è tutto quello che io odio – allora la tipa ce l’hai a disposizione. Ci fai quel che vuoi”. Ma anche i truzzetti, quando c’è da scegliere una fidanzata, sono perplessi: “Alla fine (e gli amici annuiscono, ndr) cerchiamo tutti una persona affidabile. Non una che cambia idea ogni settimana, che ti fa le corna, che non ha nessun autocontrollo e va a letto con altri quattro tizi. Non c’è niente di sexy in questo. Quelle come la mia ex infatti le odiamo tutti perché sono davvero eccessive”.

IL TERRORE. Avere a che fare con ragazze così aggressive è una costante fonte d’ansia. Per vari motivi: “Intanto non sappiamo bene cosa dobbiamo fare. Metti che ci andiamo a letto e va male: diventa molto imbarazzante”. Soprattutto perché, conferma Mattia, “non fai a tempo a uscire dalla stanza che lei sta già messaggiando con le sue amiche per mandare un resoconto completo di tutto quello che abbiamo appena fatto. Descrivono ogni dettaglio e poi ti danno il voto, dicono se sei stato bravo o no. È davvero una sfida avere a che fare con queste cose”. È più sicuro, spiega, sperimentare con chi conosci bene: “Se l’hai appena incontrata va a spifferare tutto, ma proprio tutto, di sicuro. Il ragazzo che non riesce, o non viene, o non è particolarmente dotato vive poi nel terrore”.

I PRELIMINARI. La versione delle ragazze che Il Fatto Quotidiano ha incontrato è che i preliminari contano talmente poco che, anche a scuola, parlarne non ti mette al centro dell’attenzione. Mattia svela qualche dettaglio in più: “Noi a loro non facciamo niente. Sono loro ad andare ‘di bocca e di mano’. Mi pare ovvio: loro ci osservano, giudicano ogni nostra mossa e movimento. E noi, per esempio il sesso orale, non sappiamo esattamente come farlo. Quindi non ce la sentiamo. Insomma, è un rischio inutile”. Mattia spiega il sesso come se fosse uno tra i pochi ad averne colto l’importanza. Racconta l’ansia che vivono i suoi amici prima di perdere la verginità, e il panico che li accompagna dopo, preoccupati dal finire intrappolati nella casella sbagliata, quella dello “sfigato”, “imbranato”, “effeminato”, di quello che “ce l’ha piccolo” o che “non ci sa fare”. Ci tiene a chiarire che per lui la differenza tra “scopare e fare l’amore” c’è eccome. E che anche tutto quello che accompagna e precede il sesso ha, per lui, un peso.

FIORI E SOLLIEVO. Ci sono due momenti in cui Mattia alza la voce. Quando parla della sua ex (“come fai passarti quattro ragazzi uno dopo l’altro? E non intendo limonare, ma andare di bocca”) e quando racconta un episodio successo il giorno prima, a scuola. “La mia compagna di banco aveva il sorriso stampato in faccia. Le ho chiesto perché fosse così felice e mi ha detto che le è venuto il ciclo, che per fortuna non è rimasta incinta”. Ma non è il rischio di una gravidanza indesiderata a farlo innervosire: “Quello che davvero non concepisco è che si sia sverginata con un tipo, che tra l’altro ha davvero la faccia da stronzo, con cui è uscita per una settimana, che l’ha mollata per un’altra e poi è tornato da lei. E la sera stessa in cui si sono rimessi insieme lei c’è andata a letto, senza precauzioni e senza il minimo rispetto per se stessa”. E per l’8 marzo, dice Mattia, non avrebbe senso regalare le mimose alle sue amiche: “I fiori non li vogliono. Le uniche ad apprezzarli sono le prof”.

Esistono nella nostra società troppe persone dalla condanna facile, meglio detti come individui sputasentenze, ovvero sapientone, saputello, saputo, presuntuoso, saccente, pedante, cacasenno. Per questi signori vi è un detto "chi sputa in aria gli ritorna in faccia". Ad Alessandra Mussolini è capitata una tragedia. Il marito è rimasto invischiato nel caso delle baby squillo dei Parioli a Roma. Non è stato attaccato lui per la sua presunta responsabilità penale, ma Alessandra Mussolini. Come si suol dire “in ogni casa c’è una croce”, quindi di fronte alle disgrazie che ci capitano non bisogna abbatterci, ma far buon viso a cattivo gioco.

Da quanto ricostruito dal quotidiano Il Messaggero, Alessandra Mussolini, avrebbe detto in lacrime al telefono: “La mia vita è distrutta”. Un filo di voce. «Cosa posso dire? Sono distrutta». Alessandra Mussolini risponde al telefono per un secondo, e si sente chiaramente che piange. Piange. Piange anche al telefono quando la giornalista del Messaggero riesce a farsi rispondere dopo giorni di chiamate a vuoto. "Cosa posso dire? Sono distrutta", dice ad Cristiana Mangani da casa della madre dove si è trasferita con i tre figli Caterina, Clarissa e Romano. "Devo pensare a loro, devo proteggerli", ha detto alle poche persone che sono riuscite a parlarle. Poi, si sarebbe rifugiata a casa della madre con i tre figli.  ”Devo pensare a loro” avrebbe raccontato alle persone che le stanno vicino. Floriani avrebbe comunque lasciato la casa di famiglia, sarebbe stato cacciato di casa.

Già, lei dice: “sono distrutta”. Quindi pensa solo a se stessa. Non dice riferito al marito: “Si è distrutto la vita”. E di convesso stargli vicino nel momento delle difficoltà. In questo caso, essendo paladino dei deboli, sto con il marito. Però non posso fare a meno di stare vicino a tutta la famiglia quando si muove la gogna mediatica.

«Vogliamo essere lasciati in pace». A pochi passi da Villa Torlonia, dove il Duce visse fino al tradimento, Alessandra Mussolini si trascina nel suo personalissimo dramma, scrive “Il Messaggero”.  È sera quando entra nella villetta ocra sulla Nomentana, a bordo di una piccola Citroen nera guidata dal domestico sudamericano. È «triste e distrutta». È stretta in un giubbotto nero. Nervosa, così tanto, da non trovare subito la serratura del cancello interno. «Non voglio parlare, basta». Le lacrime del giorno dopo non ci sono più, per la senatrice di Forza Italia. Ora c’è il peso della ingiusta gogna del web, di quel marito sposato nella familiare Predappio 25 anni fa e finito in una storia che indigna, come la prostituzione minorile (reato ammesso dall’indagato). Non si sa se Mauro Floriani sia stato o meno «cacciato di casa», come hanno fatto circolare nel circolo politico-mediatico di cui Alessandra Mussolini, la mamma Maria Scicolone e la zia Sofia Loren («Negli Usa ma vicina con il cuore») fanno parte. Nel primo pomeriggio quando il sole manda forti illusioni d’estate, l’ex capitano della Finanza, si materializza nella villetta vicino a Villa Torlonia. Va a casa. È in sella a uno scooter nero, Honda Sh 150. Dà gas fino al secondo accesso. È elegante e asciutto dietro gli occhialini da manager. Nel cortile interno c’è la Smart nera di Alessandra con il pass del Senato. Sarà in casa anche lei? Ci sarà la resa dei conti? O forse il perdono?  Dopo poco, venti minuti, eccolo di nuovo, Floriani. Versione papà metropolitano. «Non voglio parlare, zitti, c’è lui». E mima il gesto di cucirsi la bocca con l’ago e il filo come si fa all’asilo. Lui è il più piccolo dei tre figli. Ha il borsone ben ficcato in spalla della scuola calcio, che fa pendant con la tuta. E di fronte all’innocenza di questo bimbo con non ancora tutti i dentini in bocca, papà taglia corto. E si disegna una cerniera invisibile sulle labbra: «C’è lui, per l’amor del cielo». Inforcato lo scooter scompaiono. Ma dentro, nel cortile, rimane la Smart nera della nipote del Duce, che dopo poco viene portata via dal domestico a cui Floriani - con l’autorità di chi è ancora il padrone di casa - ha impartito disposizioni: «Vai a prenderla». E forse è riferito ad Alessandra oppure a una delle due figlie. Il campanello suona a vuoto. Forse Alessandra - «che tanto lo farà nero», come chiosano i portieri dei palazzoni della Nomentana - è dalla sorella, Elisabetta, il notaio. Oppure è andata a trovare conforto dalla mamma che fino a poco tempo fa stava dalle parti di corso Trieste: «Cercate di capirci - dice gentile ma ferma Maria Scicolone - Il mio consiglio da madre per Alessandra? In questi casi non ci sono consigli». Nella follia di Twitter intanto impazzano hashtag violenti contro la parlamentare, tanto che in serata le arriva la solidarietà bipartisan dei colleghi Fabrizio Cicchitto, Renato Schifani e Maurizio Sacconi (per l'Ncd) ma anche dei sottosegretari Simona Vicari e Riccardo Nencini. E se la rete lapida, in questo quartiere, dove i Mussolini sono di casa da sempre, ci sono finalmente raggi di solidarietà. Si spererebbe più ampia e trasversale. «Alessandra? È molto sensibile nella vita privata, differente da come appare in tv. L’ha presa male», spiega un vicino, un avvocato. Nel ristorante abruzzese di corso Trieste se la ricordano bene questa famiglia: «Sì, nostri clienti, uniti e felici». Un altro portiere: «Secondo me lo lascia». Il bar, la vineria, il negozio di tendaggi: tutti ce li hanno ben a mente. Lei, «la dura e simpatica», e lui «così slanciato e riservato». Allora bisogna ritornare a casa per capire se la parlamentare stia cercando la trattativa più difficile della sua vita. Davanti al cancello ecco Caterina, la figlia più grande, con un cane al guinzaglio: «Mettetevi nei miei panni, ho diciotto anni, è tutto il giorno che siamo tempestati. La mamma? Non c’è». E invece poco dopo arriva con la Citroen. Chissà se ritornerà papà.

Prostituzione minorile, la famiglia difende il marito della Mussolini. Le ragazze dell’inchiesta: «Ci davano i voti come alle macchine», scrive Maria Corbi su “La Stampa”. L’importante adesso è tutelare i figli. In casa Floriani-Mussolini tira una brutta aria, difficile anche pensare a cosa sia la cosa giusta da fare, soprattutto da dire. Alessandra Mussolini resta muta, ma chi pensa che il suo matrimonio sia finito sgretolato da questa storia di tradimento e baby squillo si sbaglia. Il colpo è stato duro ma la coppia è sopravvissuta a molte tempeste e, anche se questa è più aggressiva, sullo sfondo c’è una vita passata insieme, da quando erano ragazzini, e tre meravigliosi figli che devono essere salvaguardati dalla curiosità e anche dalla ferocia dei commenti sul web. I vicini di casa, nel quartiere Nomentano, raccontano di tre ragazzi molto legati al padre. E adesso lo difendono. Il fidanzato della più grande, su Facebook, posta una frase chiarissima: «Viviamo in un mondo dove regna la superficialità... La gente si accontenta della prima notizia, del primo fatto! La gente è invidiosa e non vede l’ora che qualcuno fa un passo falso per sputargli addosso come se niente fosse». Dunque nessuno ha abbandonato Floriani, e il silenzio è dettato da prudenza e dolore. Anche mamma Maria Scicolone preferisce non dire nulla, appoggiando come sempre le scelte della figlia. E se si torna indietro nel tempo si trovano dichiarazioni di Alessandra Mussolini che oggi sembrano interpretare questo silenzio: «Nel caso Marrazzo, io ho sempre detto di non pubblicare la lista dei nomi. Non diciamo le cose che non sono vere; così si rovinano le famiglie». E lei lotta per tenere insieme la sua, cercando di ripararsi dagli schizzi di verità scomode miste a fango. In un Paese morbosamente attratto dalle liste dove la privacy sul nome degli indagati è continuamente ignorata. Come il principio «innocente fino all’ultimo grado di giudizio». E intanto continua l’inchiesta sulle baby prostitute da cui emerge il ritratto di un mondo malato con adolescenti allo sbando e adulti a cui è difficile trovare un aggettivo. «Ci trattavano come macchine», ha detto una delle ragazzine agli inquirenti riferendosi all’abitudine dei clienti di recensirle sul web. Al gip una di loro ha spiegato: «Chiedevamo sempre di non avere ragazzi troppo giovani, per il fatto che magari li potevamo conoscere. Cioè, tipo di 18, 20 anni no, perché magari li potevamo conoscere. Questa era l’unica nostra preferenza». Ai clienti hanno sostenuto di aver sempre detto di essere maggiorenni: «Anche se mi è capitato che qualche cliente mi dicesse, vedendo le forme, “Ma sei sicura? Sembri più grande”. Noi più che altro ci mettevamo i tacchi e ci vestivamo più elegante possibile per sembrare più grandi. Quando poi abbiamo visto che ad alcuni clienti non gliene fregava niente, ci vestivamo normali. Ci truccavamo ma in modo normale. Io mi ero fissata in testa come se avessi proprio 18 anni, dentro di me non avevo più 15 anni, facevo come mi pareva».

Alessandra Mussolini: "Attaccata come politico ma umiliata come donna". Il dramma di una donna calpestato dal qualunquismo: quando le antipatie personali o politiche superano l'umanità, scrive Roberta Marchetti su "Today". Colpita due volte. La prima alle spalle, da un marito modello che per anni ha nascosto il marcio dentro fino a ritrovarsi sbattuto in prima pagina, nei titoli dei tg in prima serata che gridano al mostro. La seconda, come se non fosse già agonizzante, in faccia dopo aver preso bene la mira, da estranei oppositori politici, o più semplicemente non simpatizzanti, che aspettavano un passo falso per affondare il colpo. Sono loro i carnefici di Alessandra Mussolini e la uccidono orgogliosi ogni giorno, per la seconda volta, su web e social network. Sono militanti politici a cui ribolle il sangue solo a sentire quel cognome "pesante", facinorosi per cui ogni pretesto è buono, sostenitori dei diritti omosessuali a cui non è mai andato giù quel commento rozzo e ignorante del "meglio fascista che frocio" urlato a Vladimir Luxuria e soprattutto sono i media morbosi e accecati da una spregevole caccia alle streghe. Per loro non è tanto importante chi ha sbagliato, quanto picchiare duro senza pietà. "E' la giusta punizione", "Se lo merita", "Dio esiste", "Che bello così non la vediamo per un bel pò", "Chissà se proporrà la castrazione chimica anche stavolta" sono solo alcuni dei messaggi rivolti ad Alessandra Mussolini che si possono leggere in Rete, tra le decine e decine di articoli e post che gridano allo scandalo. Poco importa se dietro c'è un dramma familiare, poco importa se una donna (non un politico, una donna!) sta vivendo il momento più buio della sua vita da quando ha scoperto che il marito, con cui ha tre figli, è accusato di sfruttamento della prostituzione minorile. Nessun rispetto per una donna distrutta, nessuna compassione per una persona tradita nel profondo. Davanti a vicende come questa diventa tristemente palese che l'antipatia non conosce pietà, nè solidarietà umana per lo sgretolamento di un mondo intimo nel quale per anni si è trovato rifugio e dal quale improvvisamente si è costretti a scappare. E' giusto allora iniziare a delineare confini netti non solo tra pubblico e privato, ma tra politica e umanità, tra ciò che una persona rappresenta e ciò che è. Non è obbligatoria la solidarietà, ma quanto meno il silenzio.

Dall’Italia. Il caso delle baby squillo dei Parioli, che tanto ha indignato, continua a far discutere soprattutto da quando tra gli indagati è spuntato il nome di Mauro Floriani, marito di Alessandra Mussolini, scrive Marianna Merola su “Lecce News”. Qualunque donna sarebbe distrutta se scoprisse, per caso, il tradimento del proprio uomo. Qualunque donna trasformerebbe poi il dolore in «sdegno» (per non dire «schifo») se l’altra persona coinvolta nel triangolo fosse in realtà, poco più di una bambina. Qualunque donna si sentirebbe offesa, lesa nella dignità di moglie o compagna, ferita….tradita, insomma! Perché la storia dovrebbe essere diversa se ti chiami Alessandra Mussolini? Il fatto di essere la nipote del Duce (come alcuni commenti su Twitter hanno ipotizzato) giustifica forse un paio di corna? Essere colei che si è battuta con tenacia, per anni, contro la pedofilia le fa in qualche modo meritare di essere finita in una vicenda che reputava, a ragione, lontana dalla sua famiglia? Non è sempre la moglie l’ultima a sapere? Certo, è innegabile che forse prima di parlare ognuno dovrebbe guardarsi un po’ intorno, dentro casa nel suo caso, ma ci sono situazioni che vanno al di là di ogni immaginazione. E poi le battaglie condotte anche facendo appello al pugno duro (come la castrazione chimica) perdono improvvisamente valore sol perché ti ritrovi accanto un marito diverso da come credevi che fosse? Fin da quando è partita l'inchiesta della Procura di Roma sulle baby squillo dei Parioli si era mormorato che tra i clienti ci fossero nomi importanti. Voci, indiscrezioni, che facevano “tremare” gli habitué di quell'appartamento romano dove due ragazzine di 14 e 16 anni avevano scelto di dar via il loro corpo in cambio di un po' di soldi per comprarsi scarpe e vestiti. Ora salta fuori che tra gli “insospettabili” che avrebbero varcato quel portone nel quartiere più chic della capitale, ci sarebbe Mauro Floriani, marito di Alessandra Mussolini, ex ufficiale della Guardia di Finanza attualmente ai vertici delle Ferrovie dello Stato. Su di lui magistrati avrebbero raccolto «elementi probatori incontrovertibili». La notizia è trapelata sui giornali ed ecco che sul web, personaggi noti e meno noti, gente comune e vip si sono lanciati in battutine al vetriolo, frecciatine e commenti al veleno. L’ultimo in ordine di tempo è stato quello di Vladimir Luxuria. L'ex parlamentare di Sel non ha dimenticato le parole della Mussolini che qualche anno fa le disse «meglio fascista che fro***». Così ora passa al contrattacco e su twitter in 140 caratteri replica: «non mi piace infierire su un dramma in famiglia ma la vicenda Mussolini insegna che prima di giudicare gli altri è meglio guardarsi attorno». Lecito togliersi qualche sassolino dalla scarpa se non fosse che qualche minuto dopo ha ritwittato un cinguettio in cui le veniva consigliato di indossare una bella t-shirt con la scritta «meglio fro*** che pedofilo...». Un messaggio da recapitare direttamente alla Mussolini. A lei che tra le lacrime ha affermato di avere una «vita distrutta». A lei che piange al telefono quando la giornalista del Messaggero riesce a parlarle dopo giorni di chiamate a vuoto. A lei che ha cercato conforto a casa della mamma. A lei che ha cacciato di casa il marito. A lei che è stata tradita due volte: come donna e mamma di due figlie in primis e come politica poi. La deputata di Forza Italia, come diciamo noi salentini, forse non avrebbe dovuto dire "de quai nu passu" ma la cattiveria di cui è stata oggetto in questi giorni è talmente crudele e gratuita che rischia addirittura di offuscare le responsabilità in questa storia (accertate o da accertare) di quello che fino pochi giorni fa era il suo compagno di vita. Insultare e gioire del suo dramma facendolo passare per una sorta di meritato contrappasso fa orrore. Per cui, forse sarebbe bene considerare Alessandra Mussolini non come nipote di Sofia Loren o discendente di Benito Mussolini ma come qualunque altra donna tradita. Immaginarla a lanciare piatti contro il marito mentre gli urla parole irripetibili in un turpiloquio che farebbe invidia addirittura ad uno “scaricatore di porto”. Con la stessa determinazione e tenacia che hanno caratterizzato l’altra Alessandra, quella politica.

Baby-squillo romane: la gogna mediatica di Alessandra Mussolini, scrive Enrico Maria Secci. Alessandra Mussolini ci ha edotto per anni sulla moralità, sulla sessualità e sulla famiglia dalle poltrone di ogni salotto televisivo possibile, dalle tribune politiche, dai rotocalchi patinati e dai telegiornali. Con matriarcale veemenza ha bastonato ogni chi in ogni dove, praticamente senza sosta e senza pietà alcuna non dico per l’altrui sensibilità, che sarebbe stato chiederle troppo, ma nemmeno per le proprie corde vocali e per i timpani degli sventurati interlocutori. L’eloquio verace e insultante della Mussolini ha sparato a zero su omosessuali e famiglie di fatto, unioni civili e adozioni gay con quell’insistenza ossessiva di chi presume di possedere quella verità morale assoluta che, per diritto divino, non debba mai incontrare il dubbio e contaminarsi nel civile dibattito con chi, povero lui, non abbia bevuto alla pura fonte della dottrina mussoliniana. In questi giorni tutta questa sacrale saccenza si è frantumata sotto il peso della vergogna. Le cronache di prima pagina hanno distrutto in un attimo la persona e il personaggio diffondendo la notizia del coinvolgimento del marito di Alessandra Mussolini nel giro di baby-squillo romane. La vicenda, a base di prostituzione minorile, faccendieri d’alto bordo e cocaina è quanto di più immorale e sordido potesse colpire le immani certezze della predicatrice pubblica ma, per contrappasso, contiene anche il solo insegnamento morale che la signora Mussolini ci abbia impartito. Ovvero, che l’intransigenza morale, la rigidità marziale nel giudicare le altrui vite, scelte e condizioni, l’inflessibilità e l’arroganza nel difendere “politicamente” e aprioristicamente un modello eterocentrico e vaticaneggiante della società a discapito di chiunque non gli corrisponda è, come mostra la triste storia della donna e della politica, l’indice di una gravissima inconsapevolezza di se stessi e di una imperdonabile visione semplicistica dell’essere umano negli affetti, nella famiglia e nella società. Alessandra Mussolini è certamente incolpevole se il marito a sua insaputa ha indugiato con prostitute minorenni e non merita la lapidazione che sta subendo nei social-network. Purtroppo, è vittima di una sorta di “Legge del Taglione da Social-media” che le restituisce con gli interessi le offese, gli insulti e il cattivo gusto con cui la signora Mussolini ha trattato tutti coloro che mostrassero il minimo disaccordo con la sua grandiosa e immacolata moralità della Famiglia Perfetta e non solo. Non le si perdona il fatto di aver giudicato gli altri senza guardare in casa propria e, per quanto le reazioni del web siano esecrabili, non si possono definire propriamente gratuite. Una delle acquisizioni della psicologia è che una struttura morale rigida, assolutista e intransigente è spesso correlata a una profonda fragilità e, anche quando appare solida come il granito, è destinata a crollare fragorosamente, smentita dalla realtà. Perché quando ci si arroga il diritto di avere sempre l’ultima parola e possedere il “Verbo”, non si esprime un parere costruttivo ma si agisce un sintomo e occorrerebbe fermarsi, anziché continuare nell’inconsapevolezza più assoluta e nell’inconsistenza dei “valori” che si vogliono porre come gli unici e sovrani.
La vita presenta il conto ai moralisti, e lo fa in modo orribile e devastante. Perciò bisogna solidarizzare con Alessandra Mussolini, comprendere la portata della tragedia umana, politica, psicologica e morale che la ha travolta e tacere per riflettere sulla grande lezione che, seppure indirettamente, ci sta impartendo sull’inutilità di propugnare il moralismo anziché meditare sulla complessità della vita e dei sentimenti umani.

Alessandra Mussolini (ingiustamente) insultata sul web: lei non ha colpe, scrive Angela Vitaliano suIl Fatto Quotidiano”. Alessandra Mussolini, da me lontanissima per posizioni politiche, da giorni è bersaglio, soprattutto sui “social”, di un’ondata di insulti e di affermazioni di becera soddisfazione per la triste vicenda che la vede coinvolta solo in quanto moglie di un tizio che aveva scelto, colpevolmente, di intrattenere rapporti sessuali con minorenni. L’odio messo in campo per insultare la signora Mussolini è talmente profondo che addirittura la figura colpevole del marito, la figura, ripeto, dell’unico colpevole, a volte, viene messa del tutto da parte. E trovo tutto ciò profondamente triste. Non che non comprenda le antipatie che Alessandra Mussolini possa aver collezionato in questi anni con i suoi atteggiamenti. Non che dimentichi le sue “criticabili” posizioni politiche e le sue manifestazioni pubbliche a favore di Silvio Berlusconi, altrettanto sensibile al “fascino giovanile”. La signora Mussolini, come ho detto, politicamente è per me l’antitesi di ogni mio principio. Quella, però, ricordo è “politica” che lei esercita in quanto, cittadini italiani, in virtù della propria libertà di voto, l’hanno eletta e continuano ad eleggerla da decenni. In più, aggiungo, che proprio perché mi colloco politicamente nel punto più distante da lei, rivendico il fatto che non mi appartengono atteggiamenti giustizialisti né voglie di liste di proscrizione o di pubblico ludibrio. Quelle sono cose dell’altra parte e nemmeno sempre. Io vedo una donna, madre di due figlie femmine, che è stata travolta da una tragedia familiare che annienterebbe i più e che, proprio per tutti i suoi trascorsi, a lei deve pesare, necessariamente, ancor di più. E in questa tragedia lei non ha colpe: lei non ha infranto la legge e lei non è andata con le minorenni. Insultare e gioire della cattiva sorte di una donna ferita perché pensiamo che quanto stia accadendo sia un meritato contrappasso mi fa orrore. In questi giorni in cui le donne sono al centro dell’attenzione con la mancata approvazione delle – così orrendamente definite – quote rosa, che mi vedono assolutamente contraria, io mando, virtualmente il mio abbraccio alla signora Mussolini. Che oltre la pena non merita l’insulto. Essendo innocente. 

Caso Mussolini: pietà l’è proprio morta, scrive Marina Terragni su “Io Donna”. Per aver scritto sulla mia pagina Facebook: “Ad Alessandra Mussolini è capitata una cosa tremenda. Non si può non solidarizzare con lei” (mi riferisco evidentemente alla vicenda del marito indagato per la vicenda delle baby-prostitute dei Parioli), sono stata duramente rampognata. La cosa più gentile che mi hanno risposto è “cazzi suoi“, e poi “è la legge del karma“, “Io non solidarizzo certo con chi ha urlato meglio fascista che frocio, con chi ha giustificato e votato un presidente del consiglio che andava a letto con una minorenne”, ” Un po’ di purgatorio (3000 anni?) se lo merita tutto”, “Che goduria ce la togliamo dagli schermi”, “Andasse a farsi ricostruire dal chirurgo plastico”, ” la Mussolini invocava la castrazione chimica per i pedofili... La applicherebbe oggi anche al marito?”, ” La mentalità di suo marito è la stessa grazie alla quale lei ha firmato un DDL che vorrebbe normalizzare la prostituzione senza dire una parola sui clienti che con la loro domanda sostengono un mercato per il quale vengono schiavizzate migliaia a migliaia di donne e bambine (milioni nel mondo)”. E così via. Oltre all’ovvio: si deve solidarizzare con le ragazzine, non con lei (come se le due solidarietà fossero in alternativa). E al non-ovvio: praticamente neanche una parola su quel marito che ha fatto tanto male a una ragazzina di 15 anni, e anche, dall’altro lato, alla sua famiglia e ai suoi figli. Chi mi conosce può intuire la mia vivissima antipatia politica per Alessandra Mussolini. Ma questo non mi impedisce un sentimento di umana compassione. Ti capita una cosa del genere e la tua vita deflagra. E’ un attimo, e non sai più chi sia l’uomo con cui hai condiviso la vita. Sei ridotta in poltiglia, ma devi mantenere la lucidità necessaria per parare il colpo ai figli. Non siamo nel prosaico del tradimento, che pure fa male: qui è l’apocalisse. Mi avventuro anche a fare un pensiero sul quell’inspiegabile -per me- che è la sessualità maschile. Che un uomo possa desiderare una fanciulla forse arrivo a capirlo. Che invece quel desiderio arrivi ad agirlo, pagando le prestazioni sessuali di una quasi-bambina, sapendo di commettere, prima ancora che un reato, un gesto umanamente violentissimo nei confronti di quella creatura, rischiando oltretutto di buttare all’aria la propria vita, quella della propria famiglia e dei propri figli, oltre a quella della ragazzina… be’, questo no. Questo non lo so proprio comprendere. L’incontrollabilità di quell’impulso mi sfugge. Mai provato nulla del genere nella mia vita. E grazie al cielo. Qui sono tutti vittime (le ragazzine, la moglie, i figli, le rispettive famiglie) di una sessualità maschile fuori controllo. Tornando a lei (sui SN viene fatta a pezzi, le si chiede che si dimetta da parlamentare, si sghignazza, le si augurano le peggio cose): in effetti sì, quello che le è capitato si potrebbe anche leggere come una nemesi, come “legge del Karma”. Come una tragica e beffarda messa alla prova. Il che non toglie nulla alla mia umana compassione. Io la provo. E se è una nemesi, forse la provo anche di più. Quando una persona cade, e cade così male, (in questo caso, quando cade perché gli è caduto addosso il marito a peso morto) io non festeggio, nemmeno se è un nemico. Non riesco a prendermi una soddisfazione: è troppo amara per il mio stomaco. Provo compassione per suo nonno, quando vedo le immagini del suo corpo appeso a un distributore a cento metri da casa mia. Figuriamoci per lei. Non intendo privarmi del sentimento risanante della compassione.

Il dramma di Alessandra Mussolini, il brusco risveglio della senatrice. Il marito coinvolto nello scandalo delle baby squillo. Tweet di Bassolino: io vicino alla mia ex avversaria scrive Anna Paola Merone su “Il Corriere del Mezzogiorno”. La coppia aveva già traballato su un presunto video hard. Venticinque anni di matrimonio sono un traguardo che non tutti raggiungono. Alessandra Mussolini stava quasi pensando di festeggiarli alla grande, prima di scoprire che il marito è indagato nell'inchiesta romana sulle baby squillo. Un brusco risveglio per la senatrice che, attraverso cinque lustri, ha governato la sua vita politica e quella familiare con lo stesso piglio deciso. Ha voluto fortemente e sposato — il 28 ottobre del 1989 a Predappio — Mauro Floriani, fascinoso ufficiale della Guardia di Finanza che, sette anni dopo le nozze ha cambiato lavoro. Una scelta definita all'epoca inopportuna per una serie di conflitti di interesse. Ma allora Alessandra, la leonessa, insorse. «Ora teniamo famiglia, abbiamo una figlia - disse la senatrice difendendo il marito -. Avremmo dovuto lasciarla crescere con una madre che sta sempre in giro a far politica e un padre sballottato continuamente da una caserma all'altra dell'Italia? Eh no, signori miei: abbiamo avuto l'occasione di mettere a posto le cose e non ce la siamo fatta sfuggire». Intanto la coppia ha tre figli — Caterina, Clarissa e Romano — e va avanti a gonfie vele con un equilibrio magari non convenzionale, ma efficace. È il 2009 quando la Mussolini finisce in un chiacchiericcio spiacevole. Si parlò di un suo video hard insieme con il leader di Forza Nuova Roberto Fiore. «Mio marito come ha reagito? — sbottò lei —. Ho chiesto a Mauro di andarmi a comprare Il Giornale in edicola. Poi lo abbiamo letto insieme. Non sapevo se ridere o arrabbiarmi. I miei figli? Sanno che faccio politica, che è un lavoro pericoloso. Siamo come negli anni Settanta. Prima gambizzavano. Ora fanno così: non lanciano pallottole, ma video hard. Anche nel caso Marrazzo, io ho sempre detto di non pubblicare la lista dei nomi. Non diciamo le cose che non sono vere; così si rovinano le famiglie». Su questa storia di baby squillo e clienti noti della Roma bene, però, la grintosa Alessandra non è venuta fuori con la consueta verve. Non ha convocato i giornalisti, non ha sbandierato le sue verità assolute. Difficile trovare le parole giuste quando per una vita si è tuonato contro la pedofilia, difficile parlare di un marito di cui si sussurra un coinvolgimento più significativo di quello ipotizzato nelle prime ore. Difficile anche perché Alessandra si sente tradita due volte: messa all'angolo come donna da un marito che ha incominciato a guardarsi intorno forse annoiato. E umiliata come politica che si è sempre battuta per punire — anche con la castrazione chimica — i pedofili. Mauro Floriani deve averci pensato molto prima di parlare con la sanguigna moglie del suo segreto più grande. Di quelle telefonate compromettenti, dell'indagine nella quale temeva di essere coinvolto. Ha deciso con lei — e con gli avvocati — di presentarsi spontaneamente ai carabinieri. Ma non basta una buona strategia difensiva per lenire una donna ferita profondamente. Le colpe dovranno essere eventualmente dimostrate dagli inquirenti, ma è certa la debolezza un uomo che ha perso di vista la famiglia, dimenticato di avere figlie che stanno vivendo malissimo questo polverone mediatico e che ha esposto la moglie a più di una frecciata. Tradita e umiliata, Alessandra desidera in queste ore solo il conforto di sua mamma Maria e di sua zia Sophia. Mentre affila gli artigli. «Duellammo in modo duro ma con reciproco rispetto, 20 anni fa. Ad Alessandra Mussolini esprimo la mia vicinanza umana». Lo scrive su Twitter Antonio Bassolino, che nel 1994 fu eletto sindaco di Napoli battendo proprio la Mussolini.

Alessandra Mussolini e la solita polemica del Web che fa orrore, scrive Alberto Grandi, Redattore e coordinatore della sezione Idee per Wired.it. Ci risiamo. Ieri Fiorello, oggi Alessandra Mussolini. Povere vittime di questo web cattivone che non risparmia  nessuno e gronda volgarità da ogni pixel. A difendere la bersagliata di turno, vittima del paradosso di aver inneggiato alla castrazione chimica contro i pedofili e di ritrovarsi, in casa un marito, coinvolto nel giro di clienti delle baby squillo dei Parioli, ci ha pensato la giornalista Maria Giovanna Maglie. Dopo Severgnini, ecco l’ennesima penna che soccorre il vip crocefisso dai 140 caratteri di Twitter e sulle pagine della testata che la ospita – Libero Quotidiano – scrive: “La cosa più disgustosa di tutte è il profluvio di insulti, sarcasmi, battutacce, soddisfazione sui cosiddetti social network, nei commenti agli articoli sui siti dei giornali e delle agenzie”,  e ancora:  ”un web immondizia che non mi stupisce ma mi fa orrore, perché al normale esercizio senza rete di personaggi quasi sempre nascosti da pseudonimi”. A dragare un po’ la rete si trovano gli insulti alla Mussolini, ma anche tanti tweet di solidarietà. Insomma, in questo caso, ma forse anche negli altri, a ben vedere, i social network sono stati usati come piattaforma sia per insultare sia per esprimere vicinanza a una donna che sta vivendo un momento difficile, al di là della simpatia o dell’antipatia che può ispirare. C’è da dire una cosa, però: se Maria Giovanna Maglie si stupisce e sdegna per il deplorevole linguaggio della rete, allora come si è sentita nelle varie occasioni in cui la Mussolini, con la rapidità e la violenza di uno dei tanti tweet incriminati e riportati a piè di pagina dell’articolo, si è rivolta a qualcuno e per giunta pubblicamente? Nel 2006, durante una puntata di Porta a Porta a cui era presente Vladimir Luxuria, Alessandra Mussolini disse: “Si veste da donna e crede di poter dire tutto quello che vuole… meglio fascista che frocio“. Nel 2013 durante una puntata di L’Aria che Tira, al giornalista Andrea Scanzi che aveva detto di non aver nessun rispetto per il nonno Benito, la nipote rispose: “Io devo stare qua a sentire questa testa di cazzo?. Sempre nel 2013, nel corso del quarto scrutinio dell’elezione del Presidente della Repubblica, per protestare contro la candidatura di Romano Prodi, era entrata nell’aula della Camera assieme alla collega senatrice Simona Vicari indossando magliette recanti le scritte “No questo no” e “Il diavolo veste Prodi“.In realtà il linguaggio politico della Mussolini è stato precursore di quello violento, aggressivo, di pancia che molti giornalisti della carta stampata imputano alla rete e ai social network. Come dice il proverbio? “Chi semina vento raccoglie tempesta”. Se Maria Giovanna Maglie, invece, seminando accuse al web voleva innescare un dibattito a colpi di tweet e post, guadagnando  visibilità, avrebbe dovuto inventarsi un hashtag per catalizzare il flusso di tweet e post che si aspetta, come aveva avuto la furbizia di fare Severgnini – #fiorelloincidente – a proposito di Fiorello.

Caso baby squillo, la Lucarelli contro la Mussolini su Facebook, scrive Sissi De Rosa. Selvaggia Lucarelli si scaglia contro la Mussolini su Facebook, a seguito della notizia che il marito dell’onorevole è indagato nel caso baby squillo di Roma. E’ di poche ore fa la notizia del marito della Mussolini indagato come possibile cliente nel caso baby squillo di Roma. Il commento di Selvaggia Lucarelli su Facebook non si fa attendere, ed utilizza parole molto dure sull’onorevole Alessandra Mussolini, sulla quale è stata gettata un’ombra per questo caso che sta scuotendo la cronaca italiana. Ecco cosa ha detto Selvaggia Lucarelli su Facebook a proposito della Mussolini e del marito indagato. La Lucarelli ha postato un lungo intervento sul social network, riguardo le baby squillo, che inizia così: “La Mussolini, quella che vuole la castrazione chimica per maniaci e pedofili, quella delle urla in tv contro la degenerazione dei costumi e delle famiglie, quella dei no al patteggiamento per chi va coi minori“. Sì perché la Mussolini è nota per le sue dure parole in casi del genere, ed ora si ritrova a fare i conti con un marito indagato per prostituzione minorile. E così la Lucarelli si scaglia contro questo perbenismo che si è ritorto contro all’onorevole, dicendo a proposito del marito che sembrerebbe essere “uno dei tanti clienti delle baby squillo. (pare, sì. Poi se le chiamava per farsi dire le date dei concerti di Justin Bieber non lo so)“. Con ironia e polemica, Selvaggia Lucarelli non le manda di certo a dire alla Mussolini. E così dice che sarebbe “meglio buttare un occhio in casa propria, prima di lanciarsi in crociate giustiziaste“. Naturalmente l’attacco alla Mussolini va preso con le pinze, perché la Lucarelli comunque afferma che l’onorevole potrebbe essere una vittima della vicenda baby squillo. E poi si chiede se la Mussolini invocherebbe ancora la castrazione chimica, sapendo che uno dei “mostri” che lei ogni volta mette alla gogna potrebbe essere proprio suo marito, che ogni sera cena con lei, dorme nel suo letto. Insomma, la vicenda è sicuramente controversa, e questo è il parere di Selvaggia Lucarelli sulle indagini che vedono protagonista il marito della Mussolini nel caso baby squillo. Avete letto il suo post su Facebook? Cosa ne pensate?

Ognuno, in questi giorni, ha rivendicato un motivo ritenuto giusto per denigrare Mussolini, subissata di battute di becera soddisfazione, scrive Corinna De Cesare su “Il Corriere della Sera”. Mauro Floriani, ai più, continua a essere un nome come tanti.  Perché nei giorni in cui, dall’attività investigativa degli inquirenti si è saputo che anche lui era nell’elenco dei clienti delle prostitute minorenni dei Parioli, il suo nome è stato sostituito con “il marito della Mussolini”. Di più: sui social network e nei commenti online degli articoli delle più importanti testate nazionali, il caso di un uomo, ex capitano della Finanza e padre di tre figli che avrebbe reclutato sul web una squillo 15enne, sembrava non interessare più di tanto. A finire in primo piano è invece stata sua moglie, Alessandra Mussolini. Insultata e ridicolizzata per la sua storia politica, per le sue partecipazioni al Family day,  i suoi legami di sangue, le sue battaglie più o meno condivisibili, per quella brutta frase “meglio fascista che frocio” urlata contro Vladimir Luxuria durante una puntata di Porta a Porta. Ognuno, in questi giorni, ha rivendicato un motivo ritenuto giusto per denigrare Alessandra Mussolini, che è stata subissata di battute di becera soddisfazione. Non solo: c’è chi le ha chiesto le dimissioni da parlamentare, chi le ha rinfacciato l’ipocrisia o il falso moralismo come se a essere indagata per prostituzione minorile fosse proprio lei. Lei e non il marito. Pochi quelli che sono andati al di là delle proprie convinzioni ideologiche, ancora meno quelli che più semplicemente hanno rispettato il dolore di una vicenda familiare incredibilmente dolorosa per una serie di ovvie ragioni. “Le sta bene”, il concetto espresso in dieci mila varianti da battutisti di professione (e non) che ormai si divertono a vomitare, in egual misura nella piazza virtuale e in quella reale, il loro livore e odio contro tutto e tutti. Meglio ancora se donne.

Dagospia e il format lercio e anche un po’ infame su Alessandra Mussolini.

OGNI VOLTA CHE QUALCUNO ADOMBRA IL SOSPETTO CHE DIETRO UNA BATTUTA, UN ATTACCO POLITICO, UN’IMITAZIONE, UNA VOLGARITÀ, UNO SBERLEFFO QUALSIASI, CI SIA QUESTA FAMIGERATA “CULTURA SESSISTA”, APRITI CIELO! SI SPALANCA IL CATALOGO DELLE IPOCRISIE DEL NOSTRO MONDO, IL MONDO DELLA POLITICA E DELL’INFORMAZIONE - 2. “MI ATTACCANO PERCHÉ SONO DONNA”. QUANTE VOLTE LO ABBIAMO SENTITO RIPETERE NELLE ULTIME SETTIMANE? E VA BENE COSÌ, PER CARITÀ. MA C’È ANCHE CHI VIENE ATTACCATO, ANZI, CHI SUBISCE UNA GOGNA MEDIATICA SPAVENTOSA E SENZA PRECEDENTI, SOLO PERCHÉ È IL MARITO DI UNA DONNA. DI UNA DONNA IN POLITICA DA SEMPRE. DI UNA DONNA DI DESTRA. DI UNA DONNA CON UN COGNOME CHE DIVIDE. MUSSOLINI. MUSSOLINI ALESSANDRA - 3. UNA DOMANDA PER I CHIERICI DEL POLITICAMENTE CORRETTO E LE PAPESSE DELLA PARITÀ’: SBATTERE IN PRIMA PAGINA UN PRESUNTO PUTTANIERE SOLO PERCHÉ’ MARITO DI UNA DEPUTATA, CHE COS'È? UN ALTRO GRAVE CASO DI INSOPPORTABILE SESSISMO? - Tratto da dagospia.com.

- La parità di genere nelle liste elettorali è una “questione di civiltà e qualità della democrazia” (Appello di novanta deputate).

- Basta con la “satira sessista” (Laura Boldrini sull’imitazione della Boschi).

- “Il sessismo, se da volgare battuta da bar sale nelle sfere politiche, se si esprime in Parlamento, se usando blog e siti si diffonde, legittimato da fonti autorevoli, diventa un virus da estirpare” (Giorgio Napolitano, per la festa della Donna).

- “Tutto il politicamente corretto è una cosa sbagliata; ma necessaria” (Michele Serra sulle quote rosa).

“L’insulto del deputato De Rosa esprime una cultura machista, sessista. Non mi fai una critica politica, nel merito, ma mi dici ‘taci che tu fai i pompini’. E’ anche un atto intimidatorio, molto violento. Credo sia senza precedenti” (Alessandra Moretti, Pd, intervistata da Repubblica).

DAGOANALISI. Il catalogo delle ipocrisie del nostro mondo, il mondo della politica e dell’informazione, potrebbe proseguire all’infinito. Queste, erano solo alcune frattaglie del “politicamente corretto” che è tutto intorno a noi. Battaglie da talk show contro questa famigerata “cultura sessista”. Levate di scudi generali ogni volta che qualcuno adombra il sospetto che dietro una battuta, un attacco politico, un’imitazione, una volgarità, uno sberleffo, ci sia un’inammissibile questione di genere. “Mi attaccano perché sono donna”. Quante volte lo abbiamo sentito ripetere nelle ultime settimane? E va bene così, per carità. Ma c’è anche chi viene attaccato, anzi, chi subisce una gogna mediatica spaventosa e senza precedenti, solo perché è il marito di una donna. Di una donna in politica da sempre. Di una donna di destra. Di una donna con un cognome che divide. Mussolini. Mussolini Alessandra. Oggi non la chiamano “Duciona” perché hanno rispetto del suo “grande dolore di madre e di moglie”. Come no. Ora pare che da alcuni tabulati telefonici, questo ex capitano della Finanza che lavora alle Ferrovie fosse cliente di una delle baby squillo dei Parioli. Storia che appassiona molto tutti i quotidiani nazionali per due ragioni: perché i lettori-genitori sono molto preoccupati per le loro figliole e perché vicende del genere sono illustrabili con meravigliose foto ammiccanti di Lolite pixellate, in lingerie e tacchi a spillo. Foto che tra l’altro s’intonano molto bene con certe pubblicità un po’ pedofile sulle quali si guadagna bene. Storie del genere, quando riguardano professionisti e manager, raramente finiscono sulle prime pagine del Corriere della Sera (“Il marito della Mussolini. La telefonata alla minorenne dei Parioli: ‘Ci vediamo?”, ieri) o del Messaggero (‘’Baby squillo: l’ammissione di Floriani”, oggi). Di solito ci si limita a quella penosa stiracchiatura di titoli come “Trema la Roma bene”, “Trema la Milano bene”, “Trema la Trapani bene” e via tremando. Ma in questa storia, no. Ci sono i cronisti asserragliati davanti alla casa del (presunto) manager puttaniere. Che a verbale ha detto di non aver compreso che andava con una minorenne. Tentano l’assalto alla “moglie Alessandra”. Tendono l’orecchio per capire se litigano o fanno la pace. “Forse lei lo caccia di casa”, mormorano e scrivono. Interpellano “i portinai della Nomentana” (Messaggero). Non si fermano neppure davanti al figlio piccolo che esce per andare alla scuola calcio. Vorrebbero un commento, una notizia (notizia?). Il padre fa segno che non può parlare e indica il bambino. Già, c’è sto cavolo di bambino, tra noi e la libertà di informazione. Questo cavolo di bambino. Questa maledetta infanzia “da tutelare” a cui si dedicano innumerevoli convegni e programmi tv. Gli stessi giornali che lottano in modo sconcio (perché la sconcezza è anche questa) per scovare notizie sul presunto papà puttaniere si sdilinquiscono per le parole di Bergoglio. E le vendono in edicola in ogni modo e con ogni mezzo. Che bello, scrivere che il Papa ha detto: “La Chiesa non rifiuta i peccatori. Pensare che sia solo per i puri è un’eresia”. Com’è aperto, il nuovo Papa. Com’e moderno, il nuovo Papa. Com’è buono, il nuovo Papa. E noi con lui. Poi c’è da occuparsi delle ragazzacce dei Parioli e dei loro clienti, e si passa a un altro format. Un format lercio e anche un po’ infame. Un format in cui ci si dovrebbe specchiare e basta. Un format dove alla fine non è chiaro il risultato “di genere”. Ossia se dobbiamo solidarizzare con la deputata Mussolini, sbattuta sui giornali solo ed esclusivamente per colpa del coniuge, oppure rallegrarci del fatto che finalmente i peccati dei maschi non resteranno impuniti. Ovviamente se “mariti di”.

Alessandra Mussolini e la vergogna senza fine. Il caso delle baby-squillo ha scatenato il peggio dell'opinione pubblica ma anche del mondo dell'informazione. Riflettiamoci - Gli attacchi su twitter - Alessandra, vittima non colpevole, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Mi vergogno. Ho letto gli articoli sui quotidiani e i tweet sulla vicenda che coinvolge Mauro Floriani, il marito di Alessandra Mussolini. Una vicenda di baby-squillo. Squallida come i fatti di cronaca che riguardano personaggi noti o anche no. Ma è chiaro che qui non è Floriani a stuzzicare la curiosità dei giornalisti e i sarcasmi del web. Qui è Alessandra, qui è la Mussolini, parlamentare di centro-destra e nipote del Duce. Solo che lei è quella che non c’entra. Richiamare i tradimenti del nonno, affondare la penna nel colore della storia ricamando su un suo personalissimo 25 luglio, insistere sulle battaglie di Alessandra come deputata contro la pedofilia, azzardare una legge del contrappasso evidentemente fraintesa nel suo significato (qui non c’è alcuna legge del contrappasso in azione), mi urta. Mi disgusta. Non mi piace. Non mi raccapezzo più. Sento (la sentivo da tempo) una crisi d’identità professionale. Mi vergogno come giornalista, mi vergogno di certi miei colleghi, mi vergogno della professione di cronista per ciò che è diventata. Un esercizio di maniera che affonda nel gossip, nell’indifferenza etica, nella morbosità pornografica. Mi vergogno per i danni che riusciamo a cuor leggero a produrre nella coscienza dell’opinione pubblica, ma prima ancora per il male che le nostre parole possono infliggere a una famiglia, a una donna, ai suoi figli. Leggo le cronache e inorridisco. Detesto l’assedio ai cancelli di una villa privata con l’obiettivo di stanare un padre e una madre circondati dai figli (la cui presenza non riesce neppure a fungere da scudo umano all’assalto). Quel figlio e quelle due figlie in giovane età non meritano l’accanimento giornalistico al limite dello stalking. Gli appelli del Garante della privacy vengono citati in fondo ai pezzi come fossero solo un altro elemento di cronaca, un orpello, una notiziola, non un invito a riflettere sul proprio lavoro, sulla deontologia professionale, sul pilastro della propria umana sensibilità, sul rispetto dovuto ai minori. Un trascurabile consiglio, niente più. Da cestinare nella chiusa dell’articolo. E poi, ancora, mi colpisce che questo accanimento possa consumarsi grazie alla trascrizione e divulgazione a mezzo stampa di interrogatori con tanto di virgolettati. Quindi mi vergogno non solo per i giornalisti, i miei “colleghi”, ma anche per tutti coloro che li hanno alimentati, foraggiati, aiutati a avere particolari piccanti che dovrebbero restare riservati. Sui quali sarebbe giusto e umano stendere un velo di pietoso silenzio. Non fanno parte delle sanzioni comminate dalla legge (oltretutto prima di qualsiasi processo) la gogna mediatica e l’assedio dei giornalisti a casa propria mentre tornano papà e mamma con i figli da scuola. Ecco perché sospetto che siamo noi cronisti, a volte, i nuovi barbari. Espressione di una barbarie che ci circonda. Siamo noi gli stalker e gli insensibili. Forse, in qualche caso, i potenziali criminali. PS: Mi chiedo chi abbia deciso di divulgare il nome di Floriani ma non quello di altri protagonisti dell’inchiesta come l’anonimo “funzionario di Bankitalia e il figlio di un parlamentare”. Lo hanno deciso i giornalisti o chi li ha generosamente premiati con pacchi di carte giudiziarie grondanti lacrime e squallore?

Il caso delle baby squillo dei Parioli continua a far discutere. Soprattutto dopo che tra gli indagati risulta il nome di Mauro Floriani, marito di Alessandra Mussolini è scoppiata una vera e propria bufera sulla testa dell'azzurra, scrive “Libero Quotidiano”. Polemiche, commenti al veleno e bordate su twitter. Il bersaglio è la Mussolini. Lei, che ha affermato tra le lacrime di avere una "vita distrutta", per le vicende del marito, ora è nel mirino di Vladimir Luxuria. L'ex parlamentare di Sel no  ha dimenticato le parole della Mussolini che qualche anno fa le disse "meglio fascista che fr...". Così ora passa al contrattacco e su twitter spara: "Non mi piace infierire su un dramma in famiglia ma la vicenda Mussolini insegna che prima di giudicare gli altri è meglio guardarsi attorno". Poi ritwitta una cinguettio al veleno: "Cara Vladimir, credo sia ora di una bella t-shirt del tipo 'meglio frocio che pedofilo...'Da recapitare direttamente alla Mussolini!". Insomma Luxuria specula sul dramma familiare della Mussolini. Che di certo, passata la bufera risponderà a Luxuria. Magari togliendosi qualche sassolino dalle scarpe...

Luxuria: "La Mussolini? Chi la fa l'aspetti", scrive “Libero Quotidiano”. La Mussolini? Chi sputa in cielo in faccia gli arriva, è il detto popolare per tradurre il modo di dire 'chi la fa l'aspetti'". Vladimir Luxuria continua a "godere" per i problemi familiari di Alessandra Mussolini. L'ex parlamentare di Sel in un'intervista ad Affaritaliani.it continua a "sparare" sull'azzurra che è finita nella bufera per il marito, Mauro Floriani, indagato per lo scandalo delle baby squillo dei Parioli. "Nei confronti delle persone ha sempre usato l'insulto e toni forti e ha voluto terrorizzare l'opinione pubblica equiparando i gay ai pedofili. Le consiglierei in questo periodo di dolore di ripensare al concetto di sacra famiglia e di famiaglia tradizionale come il bene rispetto al male rappresentato dalle coppie lesbo-gay. Non cerco vendetta e non gioisco per i drammi altrui. Ma più che giudicare gli altri, sputando veleno come ha fatto lei, forse è meglio guardasi dentro e soprattutto attorno". "Se lo merita" - Poi Luxuria parla anche del passato e dei suoi scontri con la Mussolini: "Non posso non ricordare la violenza verbale che è sempre stata il tratto più famoso della Mussolini. Sia in Parlamento sia nei talk show. Lei si è erta a paladina della famiglia tradizionale, dicendo ad esempio dalla D'Urso su Canale 5 di essere contraria al matrimonio tra le persone dello stesso sesso perché le faceva orrore che un bambino potesse vedere due uomini che si rotolano nel letto, alludendo alla pedofilia per le coppie omosessuali. Non posso non ricordare, perché la mia sarebbe un'omissione di opinione, la dichiarazione della Mussolini su di me a Porta a Porta, 'meglio fascista che frocio'. In qualsiasi paese democratico avrebbe portato all'espulsione di un parlamentare che dice una cosa del genere, ma l'allora ministro della Giustizia Castelli, presente in studio, non mosse ciglio". "Alessandra ha grinta" - Infine dopo aver goduto delle disgrazie altrui, Luxuria ha un momento di umanità per la parlamentare azzurra: "In questa vicenda ci sono tante sofferenze. Le sofferenze dei minorenni come sono i figli della senatrice e la sofferenza delle minorenni che si sono prostituite in un'età così giovane. E' un dramma familiare e la senatrice dovrà sbrigarsela da sola, avendo tutta la capacità e la grinta di farlo". 

La lobby omosessuale detta legge in Europa, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”. Esiste una «lobby gay» nelle istituzioni europee? Se ne parla spesso, di solito quando si lanciano generiche accuse o si immaginano complotti ai danni di altre istanze culturali, ideologiche o religiose. Ma come agisce, da chi è spalleggiato e a cosa punta chi si batte - tra corridoi e finanziamenti, convegni e direttive - per quelli che ritiene i diritti del mondo omosessuale? Libero ha provato a sostituire ai tic linguistici un po’ di fatti, raccolti tra Roma, Bruxelles e Strasburgo. Nel tentativo di capire se davvero la «lobby gay» è la più potente in Europa. Primo fatto: l’intergruppo più nutrito del Parlamento europeo, cioè l’organismo che permette ai deputati di scambiarsi pareri su temi precisi, è quello che si occupa di gay e affini. Tema sintetizzato dalla sigla LGTB (omosessuali, lesbiche, transessuali e bisessuali, talvolta scritto LGTBI per comprendere anche gli «intersessuali»). Questo esercito di politici, dotato di una segreteria, è coordinato da 6 vicepresidenti e conta più di 150 eletti di tutti i partiti e Paesi dell’Unione, Italia compresa: ci sono Sonia Alfano, Francesca Barracciu (subentrata a Rosario Crocetta quando è diventato governatore siciliano), Roberto Gualtieri, Gianni Pittella, Niccolò Rinaldi, Gianni Vattimo, Andrea Zanoni. Tutti di centrosinistra. Tale gruppo di pressione ottiene effetti apprezzabili: negli ultimi 15 anni sono numerose le risoluzioni di Bruxelles a favore delle istanze omosessuali. Anche i gruppi partitici teoricamente più «insospettabili» - come gli euroscettici di “Europa delle Libertà e della Democrazia”, che accolgono pure la Lega Nord - hanno al loro interno membri gay. Il capogruppo è Emmanuel Bordez, belga, sposato con un uomo. Ci sono gay dichiarati anche tra i funzionari del parlamento, che a differenza dei politici sono inamovibili. Il Segretario generale della Commissione europea è Catherine Day, irlandese, considerata molto sensibile alle istanze omosessuali. Bazzica le istituzioni europee dal 1975, quando si occupò della Comunità economica per conto dell’associazione degli industriali del suo Paese. Un altro big ritenuto vicino all’universo gay è Klaus Welle, tedesco. Anch’egli è segretario generale. Nell’agosto 2011 un dipendente dell’Europarlamento ha annunciato le dimissioni inviandogli una mail, spedita in copia a tutti gli uffici di Bruxelles e Strasburgo, in cui lo accusava d’essere bisessuale e di assumere le persone che andavano a letto con lui. La mail è stata cancellata da tutti i pc dell’Europarlamento, grazie a un efficace e rigoroso sistema di controllo degli esperti informatici: la copia di quella letteraccia sopravvive solo perché qualcuno se l’era stampata, finché è finita sotto gli occhi di Libero. Le istanze omosessuali sono caldeggiate anche dall’Agenzia europea dei diritti fondamentali. Ha sede a Vienna ed è stata creata nel 2007. Incassa finanziamenti da Bruxelles e sostituisce il precedente Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia. Sul suo sito ufficiale riporta un sondaggio effettuato nei Paesi dell’Unione e in cui si chiede ai cittadini dei singoli Stati se da loro è diffuso un linguaggio offensivo verso «lesbiche, gay, bisessuali e o transessuali». La maglia nera è della Lituania. Dietro c’è l’Italia e quindi la Bulgaria. Sarebbero i Paesi che, stando alla rilevazione, sono più intrisi di omofobia. Altro fatto: malgrado lo scarso rilievo ricevuto tra i deputati italiani, l’influente associazione omosex chiamata Ilga Europe sta caldeggiando iniziative ad hoc «per l’uguaglianza LGBT nell’Unione europea» in vista delle prossime elezioni. Insomma, nelle istituzioni combattono a favore dei gay parecchi parlamentari, funzionari, organismi come l’Agenzia dei diritti fondamentali. Fuori dal Palazzo, i gay si fanno sentire con le loro associazioni. Ilga Europe è un’organizzazione internazionale non governativa. Riunisce 407 sodalizi provenienti da 45 dei 49 Paesi in Europa. Ha lanciato una mobilitazione per «il sostegno dei diritti umani e l’uguaglianza LGBTI tra i candidati per il prossimo Parlamento europeo e della Commissione europea», sollecitando le associazioni omosex dei singoli Paesi per «individuare» i candidati più sensibili e votarli. L’appello di Ilga chiede di riconoscere giuridicamente il genere trans, programmi contro le discriminazioni, progetti per le famiglie omosessuali. Tra chi s’è detto favorevole all’iniziativa ci sono dieci politici austriaci, cinque belgi, due ciprioti, tre danesi, tredici finlandesi, sette francesi, diciassette tedeschi, due greci, otto irlandesi, un lettone, tre lussemburghesi, quattro di Malta. E ancora: nove olandesi, tre polacchi, un portoghese, tre sloveni, sei spagnoli, quattordici svedesi, ventitré del Regno Unito. Si fa prima a elencare i Paesi che non hanno politici che hanno aderito all’appello di Ilga: oltre all’Italia, ci sono Croazia, Ungheria, Bulgaria, Repubblica Ceca, Romania, Lituania, Estonia. Dal 1997 Ilga Europe gode dello status partecipativo nel Consiglio d’Europa e dal 2001 - come scrive l’associazione sul suo sito - «riceve il suo più grande finanziamento da parte della Commissione europea». Dal 2006 è riconosciuta nel Consiglio economico e sociale dell’Onu. Quando, nel 2004, il cattolico Rocco Buttiglione fu silurato dalla Commissione Giustizia dell’Europarlamento, l’allora ministro per gli Italiani nel Mondo Mirko Tremaglia non le mandò a dire: «Povera Europa, i culattoni sono in maggioranza». Un modo colorito, per non dire volgare, di tirare in ballo la famigerata lobby. La si può chiamare come si crede, ma a Bruxelles la sensibilità gay conta. Il 4 febbraio 2014, il giorno dopo l’altolà francese alla nuova legge sulle nozze gay, Bruxelles vota la risoluzione contro l’omofobia e la discriminazione. I cattolici provano a protestare ma non c’è partita. Voti a favore 394. Contrari 176. Astenuti 72. La relatrice Ulrike Lunacek (austriaca dei Verdi e lesbica dichiarata) esulta: «Molti di noi, lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali hanno vissuto, per troppo tempo, la propria vita nella paura», paura anche di «essere buttati fuori dalle nostre case, scuole o posti di lavoro». La Lunacek, come detto, è dei Verdi: ricordiamo che il copresidente dei Verdi europei è il tedesco Daniel Cohn-Bendi, attivo sia a Berlino che in Francia e colonna delle battaglie omosex. Tornando alle risoluzioni pro omosessuali, spesso vengono inserite in un discorso più ampio che chiede di azzerare le discriminazioni tutte. Comprese quelle che coinvolgono handicappati e minoranze etniche. Anche per questo le istanze gay faticano a trovare efficaci contraltari. Solo negli ultimi 15 anni, tra le altre cose, Bruxelles ha sfornato: nel 1998 la risoluzione «sulla parità di diritti per gli omosessuali nell’Unione»; nell’ottobre 2000 la risoluzione dell’Europarlamento per la «parità di trattamento in materia di occupazione»; nel 2001 un programma d’azione anti-discriminazione; nel 2005 una risoluzione per la protezione delle minoranze; nel 2006 una risoluzione anti-omofobia, riaggiornata un anno dopo per «l’intensificarsi della violenza razzista e omofoba»: nel 2007 altra risoluzione sull’omofobia; nel 2009 una sui diritti fondamentali. Nel 2011 ecco il documento su «violazione delle libertà di espressione e discriminazioni basate sull’orientamento sessuale in Lituania». Nel settembre 2011 viene votata una risoluzione su diritti umani e orientamento sessuale. Nel maggio 2012 altra dichiarazione contro l’omofobia. Nel luglio 2012 la risoluzione sulla violenza contro le lesbiche e per i diritti di «lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali in Africa». Pochi mesi fa, alcuni parlamentari italiani hanno rinunciato a organizzare un convegno con Luca Di Tolve, già mister gay che ha dichiarato d’essere tornato etero a Medjugorje. Ora è sposato con una donna e racconta la sua storia di «conversione». E così si becca accuse pesanti dal popolo LGTB: nel maggio 2013 scatenarono una campagna per impedire un suo convegno in Veneto. Confidenza di un deputato a Libero: «Sa, qui in Europa siamo costretti a lavorare coi funzionari. E se decidono di boicottarci con la scusa che siamo anti-gay, per noi è la fine».

Premier gay Di Rupo: "Nudo per il Belgio". Polemiche nel paese fiammingo per una sequenza del documentario sulla sua vita, scrive “Libero Quotidiano”. Esplode la polemica in Belgio. Il Primo Ministro Elio Di Rupo, omosessuale dichiarato di 62 anni, ha fatto il passo più lungo della gamba: in un reportage dedicato alla sua vita, il premier belga di origine abbruzzese, si spoglia davanti la telecamera, mostrandosi nudo di spalle. Avvertendo nell'aria il calo di consenso politico, nel countdown verso le elezione di maggio, l'uomo ha deciso di mostrarsi (in parte) senza veli. E nonostante il documentario, di una decina di minuti, sia stato giudicato "scandaloso" da molti, è il portavoce di Di Rupo che chiarisce il significato di questo gesto: "Si tratta di un reportage rispettoso, la scena è stata girata il 21 luglio scorso, dopo una cerimonia e prima di un incontro pubblico". Pochi secondi di nudo che hanno scatenato il giudizio negativo degli spettatori: "Non sa proprio che altro inventarsi per far parlare di sé!", ha dichiarato un ragazzo belga, dopo aver visto il filmato. Non è mancato nemmeno il commento della trasmissione On refait le monde che ha espresso il suo punto di vista: "Perché il primo ministro ha bisogno di mettersi a nudo per far parlare di sé? Qual è il messaggio politico?". Elio Di Rupo, eletto Primo Ministro con il partito socialista, rischia ora di restare senza camicia, in tutti i sensi; sembra infatti, il suo avversario, l'indipendentista di Nva, sia il favorito per le prossime votazioni in Belgio.

Crocetta: "Sono gay però mi piacciono pure le donne". Il presidente della Sicilia: "Ci sono anche delle ragazze che mi...". Poi su Renzi: "Voleva fare il premier", scrive “Libero Quotidiano”. Poche idee e ben confuse. Non si parla di come amministrare la Sicilia da Palazzo d'Orleans, ma di sessualità. A parlare è Rosario Crocetta, presidente dell'isola, dichiaratamente omosessuale: "Sono gay - spiega ai microfoni di Un giorno da pecora su Radio 2 - ma ciò non significa che non mi piacciano le donne. Qualche donna che mi arrapa ci sarà pure". In ogni caso, continua, "la mia ormai è l'età della riflessione". Dopo le battute sui gusti sessuali, Crocetta si esprime anche sull'attualità politica: "Matteo Renzi si è candidato alle primarie del Pd perché voleva fare il premier, non il segretario di partito". Sul suo, di governo, il presidente spiega: "Se farò il rimpasto? No, ma farò qualche aggiustamento".

PER I GIORNALISTI INTERNET E' NOCIVO.

L’Ordine: internet nuoce al giornalismo

Corso di deontologia per giornalisti. Lo promuove il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti. E’ online, gratuito e dà diritto a dieci crediti formativi professionali. Iniziativa meritoria. Almeno sulla carta, scrive Marco Pratellesi su “L’Espresso”.

Ecco uno dei quesiti proposti con risposta multipla:

Il giornalismo ragionato e d’approfondimento della carta stampata

a. rischia di essere indebolito dal primato della cultura di internet

b. si rafforza nonostante la diffusione sempre più ampia degli strumenti informatici

c. non subisce alcun effetto conseguente allo sviluppo delle tecnologie e di internet

La mia opzione era la b) anche se l’avrei formulata diversamente: “si rafforza anche grazie alla diffusione sempre più ampia degli strumenti informatici”. Ma non sarei stato fortunato. Come non lo è stato Pino Rea, uno dei 144 consiglieri chiamati a “vigilare sull’evoluzione del giornalismo e sui principi che ispirano chi lo pratica”. Come denuncia su Lsdi, sito che si occupa di innovazione nel campo del giornalismo e dell’editoria, Rea ha optato per la risposta più neutra, la c) cioè: “non subisce alcun effetto conseguente allo sviluppo delle tecnologie e di internet”. Risposta errata!

Dunque, bocciati entrambi in deontologia (anche se il quesito ha niente a che vedere con la deontologia!). La risposta esatta per l’Ordine dei giornalisti è la a): “Il giornalismo ragionato e d’approfondimento della carta stampata rischia di essere indebolito dal primato della cultura di internet”.

Non so chi abbia realizzato il corso per l’Ordine. Possiamo convenire che il giornalismo non sia una scienza esatta, ancorché abbia regole codificate in almeno duecento anni di professione. Però francamente, sono sbalordito e non riesco a capire, come l’ottimo Pino Rea.

Nel 2014 internet è vissuto in tutto il mondo, da tutte le categorie professionali, come una straordinaria opportunità di sviluppo e di crescita. Gli stessi editori stanno finalmente investendo in modo deciso su quello che ritengono sempre più il futuro dell’informazione e della formazione dell’opinione pubblica. Poi arriva l’Ordine dei Giornalisti con la sua verità che ci spiega come “il giornalismo ragionato e di approfondimento” sia inconciliabile con la cultura di internet.

Mi pare che l’Ordine abbia confuso il medium con il messaggio, la piattaforma con il contenuto, la parte con il tutto. Un editore non è uno stampatore. La qualità del giornalismo si misura, credo, sul contenuto e sul modo di rappresentarlo al lettore. E credo possano esserci pochi dubbi sul fatto che la rappresentazione digitale sia molto ma molto più ricca di quanto non abbia consentito la carta stampata in duecento anni di onorato e straordinario servizio.

Finché continueremo a raccontarci storie, ad attribuire a “nemici” esterni le responsabilità della crisi, che indubbiamente ha colpito l’editoria, senza interrogarci sul giornalismo che facciamo e proponiamo ai lettori, sarà difficile riconquistare credibilità e rilevanza. Sulla carta e nel mondo digitale.

Aggiornamento 26 febbraio ore 12,28: La domanda su carta stampata e internet è stata rimossa dal corso di deontologia per giornalisti. Le motivazioni su Lsdi.

Eliminata dal corso di deontologia la domanda su carta stampata e ‘’cultura di internet’’. La domanda al centro della nostra stupita segnalazione di ieri sera (‘’Internet nuoce al ‘giornalismo ragionato della carta stampata’. Lo proclama l’ Odg’’) è stata eliminata dal questionario del Corso di deontologia promosso dall’ Ordine dei giornalisti e il Centro di Documentazione Giornalistica provvederà a controllare che nei test già effettuati la risposta non sia stata determinante ai fini del passaggio alla lezione successiva. Lo ha reso noto oggi il Comitato tecnico scientifico (CTS) del Consiglio nazionale dell’Ordine, la struttura che cura i rapporti con le Scuole di giornalismo e le Università e gli aspetti della formazione professionale, con una nota, che qui riportiamo. “In relazione a quanto sollevato da Pino Rea IN MERITO ALLA DOMANDA NR. 9 DELLA PRIMA LEZIONE DEL CORSO ONLINE DI DEONTOLOGIA, il CTS sottolinea che la ratio dell’inserimento della domanda era quella di far riflettere sulla differenza fra carta stampata e internet soprattutto in relazione alla velocità di composizione dei pezzi. E’ innegabile che, per sua natura, Internet sia più “reattivo” rispetto alla carta stampata che ha invece tempi più dilatati. È altresì innegabile che gli sviluppi dell’informazione sembrano portare nella direzione “suggerita” in qualche modo dalla domanda: se vorrà sopravvivere, la carta stampata dovrà approfondire i temi che Internet sarà in grado di sviluppare in tempo reale. La domanda però si presta evidentemente ad interpretazioni differenti rispetto allo spirito degli estensori del testo. Per questo motivo, il Cts ha proposto al Cdg di sostituirla con un’altra domanda e di controllare che nei test già effettuati la risposta non sia stata determinante ai fini del passaggio alla lezione successiva”. Un apprezzamento ai colleghi del CTS per la tempestività del loro intervento. Quanto al merito, il modo con cui la domanda era stata formulata ci sembra molto distante dalle intenzioni. Soprattutto per la contrapposizione fra "carta stampata’’ (che non ha certo il monopolio del giornalismo ”ragionato e di approfondimento’’ e il concetto di "cultura di internet’’, che farebbe pensare a una convinzione – da parte degli estensori del testo della domanda – secondo cui al web toccherebbe esprimere, per sua natura,  un giornalismo non ragionato e superficiale. Cosa che è frutto di un pregiudizio semplificatorio.

LA MACCHINA DEL BACIO E LA MACCHINA DEL FANGO.

Franco Bechis: il Corriere, Renzi e il Vangelo. E' la "sorella della macchina del fango": viaggio nella stampa italiana che s'innamora alla follia del potente di turno. Ora tocca al mirabolante Matteo, idolo di via Solferino. La "macchina del bacio" è la sorella della macchina del fango, ma è assai più diffusa nella stampa italiana, assai incline ad innamorarsi alla follia del potente di turno (che viene tradito con il potente successivo).

Così si combatte il fango (secondo la sinistra, ndr), scrive Roberto Saviano su “La Repubblica”. Che cos'è la macchina del fango? È delegittimazione, attacco personale, screditamento attraverso il gossip, gogna pubblica di fatti privati come un calzino color turchese o una vecchia foto di vacanze su una spiaggia nudista. È un sistema semplice e antico che funziona talmente bene da diventare regola: chi si pone contro il governo o certi poteri, finirà infangato. Critichi? Ti opponi? Sarai delegittimato. Si attiva una macchina fatta di dossier, di giornalisti conniventi, di politici faccendieri che cercano attraverso media e ricatti di delegittimare gli avversari. Spesso si giustificano con la scusa dell'inchiesta. Ma esiste una differenza fondamentale tra diffamazione e inchiesta. L'inchiesta raccoglie una molteplicità di elementi per mostrarli al lettore. La diffamazione prende un singolo elemento privato e lo rende pubblico. Non perché si tratti di un reato e nemmeno di qualcosa che tiene al ruolo pubblico della persona nel mirino. Ma la mette in difficoltà, la espone, la costringe a difendersi. Così il fango intimidisce, ostacola la partecipazione, invita a evitare di rovinarsi l'esistenza. Utilizza ogni cosa e non solo qualcosa di privato che attiene alla tua sfera intima ma un tuo connotato che faccia ombra: un talento, un coraggio, un'ambizione, un'aspirazione alla bellezza. Qualunque cosa attenti alla selezione alla rovescia che è prevalsa nella vita pubblica, e che deve garantire la durata dei peggiori. I peggiori sono i peggiori, o, peggio, i migliori che hanno tradito e si sono traditi e non se la sentono più di cambiare, di risalire, e mirano a tirare giù gli altri. Il gossip, paroletta che vuole rendere leggera la brutalità della maldicenza e rendere carina la liquidazione della discrezione, è oggi uno strumento estorsivo sulla vita personale, un racket sulla privacy. Perché il fango mira alla tua sfera più intima. Ti costringe a difenderti da ciò che non è né colpa né crimine, ma solo la tua vita privata. È sacra la privacy su chi incontri, su chi frequenti, sul fatto che nessuno, tranne la persona amata, deve ascoltare una tua dichiarazione d'amore. Ma se candidi le tue amiche e puoi finire vittima di ricatti ed estorsioni, questo smette di essere un fatto privato e diventa invece condizionamento della vita pubblica di un intero Paese. La privacy è tutela della vita e della voglia di vivere. L'abuso di potere è un'altra cosa, scontata da altri. Lo scopo della macchina del fango è cancellare questa differenza fondamentale. Poter dire e ribadire: siamo tutti uguali, lo fanno tutti. E questo funziona benissimo, perché molti non comprendono la differenza, ma soprattutto perché è comodo pensarci tutti peccatori. Se siamo tutti uguali, nessuno è più costretto a fare uno sforzo per cercare di essere migliore. Questo meccanismo si nutre di una tendenza tipica del nostro Paese: se emergi, sarai stato favorito; se ti esponi, sei un narciso; se hai ambizioni, sei un opportunista. Più un potere è in crisi, più cercherà di portare nel proprio abisso tutto ciò che gli sta attorno. Viene in mente la massima: nessuno è un grand'uomo per il proprio cameriere. Il precetto di oggi che la macchina del fango impone dev'essere: nessun uomo, tutti camerieri. La libertà di stampa in Italia è compromessa dalla certezza che non verrai criticato per quello che dici, ma cercheranno di demolire la tua vita, la tua dignità, anche laddove non c'è ombra di reato. Ma non è un meccanismo che riguarda solo i giornalisti. La stessa cosa successe al presidente della Camera Fini, quando cominciò a dissentire da alcune posizioni a proposito di giustizia e legalità. Ma vale la pena ricordare soprattutto il direttore di Avvenire, Boffo, che aveva iniziato a criticare la condotta di Berlusconi. Nel maggio del 2009 aveva scritto: "Continuiamo a coltivare la richiesta di un presidente che con sobrietà sappia essere specchio, il meno deforme, all'anima del Paese". Subito entrò in azione la macchina del fango, riesumando una storia vecchia di anni che riguardava una multa pagata per chiudere una diatriba giudiziaria minima (telefonate a una persona che non voleva essere disturbata). Non solo: vi si aggiungeva un documento di supposta natura giudiziaria che diceva: "Noto omosessuale già attenzionato dalla polizia". La diffamazione si basava dunque su un documento falso, perché in nessun atto giudiziario Boffo risultava né omosessuale né tantomeno "attenzionato" dalla polizia. Ma, a parte questo, quale sarebbe il suo reato: l'omosessualità? Chi crede che l'omosessualità sia "da attenzionare" si comporta da sgherro di regime, regime qualsiasi. Boffo, per questo fango, è costretto prima a difendersi e poi a dimettersi. E il politico pdl Stracquadanio conia un termine sinistro che mostra come la diffamazione stia diventando metodo: il "trattamento Boffo", che richiama il "Trattamento Ludovico" di Arancia Meccanica. La macchina del fango è un meccanismo vecchio. Ci avevano provato anche con Giovanni Falcone, criticandolo non per il suo operato, ma per la sua immagine. Anche il fallito attentato all'Addaura dell'estate 1989 diventa pretesto per la diffamazione; nei salotti di Palermo, infatti, si dirà che la bomba l'ha fatta mettere lui stesso, per attirare l'attenzione su di sé a fini di carriera. Falcone conosceva bene l'Italia e il meccanismo secondo cui se la mafia non ti uccide, se l'attentato salta, si rischia di non essere credibili. Solo la morte può legittimarti. Dopo la diffidenza mostrata verso l'autenticità dell'attentato dell'Addaura, diventano pubbliche sei lettere anonime del "Corvo", indirizzate a diverse figure istituzionali. Nelle lettere il magistrato viene accusato di aver fatto rientrare dagli Usa il collaboratore di giustizia Contorno e di averlo usato come killer di Stato per stanare i corleonesi. Solo il 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci, le critiche personali cessano. La morte di Falcone azzera le polemiche, Falcone diventa eroe. Quasi che la morte fosse l'unica prova possibile dell'autenticità della sua lotta alla mafia. In Italia, la macchina del fango ha avuto un bersaglio prediletto in Pier Paolo Pasolini. Contro un intellettuale scomodo, indipendente, per giunta apertamente omosessuale, si tirava persino fuori un'accusa di rapina da cui lo scrittore è stato prosciolto con piena formula. Non solo attacchi da giornali di destra, ma anche giudizi sprezzanti di molti uomini della sinistra che trovavano scomoda la figura del Pasolini omosessuale. Lo scrittore subì innumerevoli denunce e 33 processi nel corso di 27 anni; non si sottrasse mai al processo. Lo stesso Pasolini scrisse su Paese Sera l'8 luglio 1974: "Mi hanno arrestato, processato, perseguitato, linciato per quasi due decenni. Questo un giovane non può saperlo... Può darsi che io abbia avuto quel minimo di dignità che mi ha permesso di nascondere l'angoscia di chi per anni e anni si attendeva ogni giorno l'arrivo di una citazione del tribunale e aveva terrore di guardare nelle edicole per non leggere nei giornali atroci notizie scandalose relative alla sua persona...". Pasolini parla di paura, terrore: è questo che produce la macchina del fango e che spesso porta a non agire, a evitare di partecipare, a compiere uno sforzo per migliorare le cose. Una volta Enrico Deaglio nel ricordare Mauro Rostagno usò un detto siciliano: "I vermi non l'hanno a mangiare". I vermi, vale a dire, non avranno alcun potere se vivrà più forte il ricordo di un uomo che si è adoperato per il bene e per il giusto. Oggi vale purtroppo anche per i vivi. Se ti poni contro il potere i vermi della delegittimazione ti vengono gettati addosso. Ribadisco, l'unico modo per fermare la macchina del fango è non darle credito. Riconoscerla, dire: è fango, non mi interessa, non mi riguarda. Facendo muro contro la maldicenza, non diventandone un veicolo di diffusione, non riprendendo la notiziola su un compenso o su una relazione. Non è difficile avere la possibilità di impastarsi meno con il veleno. Basta ricordare come ci si sente quando si diventa oggetto di illazioni false, di pettegolezzi maliziosi, di mobbing fondato su presunte inadempienze, qualcosa che è capitato a tutti. La macchina del fango è un meccanismo persecutorio che non mira solo a distruggere un avversario, ma che sta scardinando ogni possibile patto di fiducia all'interno di questo Paese. Fermarla equivale a difendersi da un acido corrosivo. Nel maggio del 1924 Giacomo Matteotti denunciò i fascisti per i brogli elettorali e, terminato il discorso, disse: "Ed ora preparatevi a farmi l'elogio funebre". Sapeva che sarebbe stato ammazzato. Non sembri troppo drammatico il citare Matteotti se oggi la consapevolezza di chiunque si ponga contro il potere del governo sia quella di sentirsi "pronto alla più feroce delle campagne di delegittimazione e fango". Per ogni denuncia, per ogni critica, per ogni gesto di coraggio, per ogni resistenza, sai già cosa ti capiterà per cui senza paura dinanzi al "tutti facciamo schifo" risponderei come risposero i ragazzi di Locri alla bestialità ndranghetista: e ora infangateci tutti. (sintesi dell'intervento proposto alle 21 del 12 aprile 2011 al Festival internazionale del giornalismo di Perugia).

Il Paese dell'odio: un libro svela i segreti della macchina del fango. Giampaolo Pansa rilegge la guerra civile tra giornali. Nel 2008 Berlusconi vince le elezioni e Repubblica  si vendica con il caso Noemi. Incendiando il clima, scrive Marco Zucchetti  su “Il Giornale”. Sarà perché - come scriveva Balzac ­«non si esce puri dall’inferno della stampa », che Giampaolo Pansa ha dato alle stampe questo «libraccio da vera carogna » sul giornalismo italiano. Oppure sarà perché, dopo mezzo secolo passato nella categoria, ormai si è fatto un’idea chiara delle ipocrisie che scorrono sotto la palta dei titoloni. D’altronde, sempre per rimanere in metafora infernale, nel fango della palude Stigia erano puniti gli iracondi. E l’odio è decisamente il peccato favorito della stampa italiana. È il livore politico e personale la linfa che tiene in vita il quarto potere. Pansa ne segue il fluire in « Carta straccia - Il potere inutile dei giornalisti italiani», terza sua fatica sul mondo dei media, edita da Rizzoli e in libreria dal 4 maggio. Parte da lontano, dalle sorgenti dell’egemonia giornalistica di area Pci, Potere Operaio e Lotta Continua a fine anni ’70. E seguendo il corso della cattiveria settaria di sinistra, approda all’ultimo triennio, al delta di quel fiume che è l’anti-berlusconismo mediatico. E come in ogni foce che si rispetti, ecco tornare il fango. Quello che da mesi viaggia in tandem con Il Giornale nei monologhi di Saviano, nelle surreali denunce per stalking di Bocchino e negli anatemi della stampa progressista: la «macchina del fango» di cui saremmo spregevoli inventori. Pansa, che nel brago è stato sommerso per aver osato raccontare le ombre della Resistenza, affronta l’argomento senza manicheismi, perché mettere il dito nelle piaghe gli è sempre piaciuto. Tutto prende il via tra 2008 e 2009, dopo la vittoria elettorale di Berlusconi, offesa inaccettabile che causa una furia isterica nell’opposizione. Tutte le armi per deporre il Cav sono buone, e Repubblica usa l’intero arsenale nella campagna ossessiva sul caso Noemi. Intercettazioni, foto, interviste, 2.200 citazioni dell’affaire : una nube velenosa che invade i media. E che incendia il clima fino agli odiosi e inquietanti episodi dell’attentato di Tartaglia, delle scritte contro Marchionne, del pestaggio a Capezzone, dei petardi a Bonanni, dei raid contro Schifani e Dell’Utri. All’attacco del quotidiano di Ezio Mauro, che cavalca lo scandalo di «papi» Silvio anche per recuperare copie, replicano le tre testate di centrodestra, Il Giornale, Libero e Il Tempo : «Tre mosche bianche su fondo rosso, isolate nel coro imponente dei media anti berlusconiani ». Ad azione, reazione. Solo che, se l’inchiesta parte da destra, subito diventa killeraggio, dossieraggio, insulto, servilismo, chiacchiera da bar, «neogiornalismo» da ultrà. È l’«avversione rossiccia» per il lavoro altrui, quella supponenza elitaria da Migliori, unici con diritto di cittadinanza nel mondo dorato degli eroi della libertà stampata. Sono Repubblica , «quotidiano di guerriglia», e Il Fatto , «setta infuriata » capitanata da Beria-Travaglio. Sono loro a imbarbarire il clima, salvo poi urlare al crucifige per il «caso Boffo», per Pansa uno scoop che ogni direttore avrebbe pubblicato. Fatto sta Il Giornale finisce nel tritacarne, messo all’indice come una Spectre di fascistoni. La furia cieca dilaga in maniera grottesca nel caso del presunto «dossier Marcegaglia », occasione in cui Bocchino conia il termine «macchina del fango»: «Chi è prigioniero di una nevrosi - e secondo Pansa l’antiberlusconismo ormai è patologico - non ragiona più». E quindi aprite le gabbie, ognuno dia fondo al peggio: credere, obbedire e combattere il Cav. E pazienza se anche giornalisti avversi al premier come Antonio Padellaro riconoscono che l’inchiesta sulla casa di Montecarlo è «eccellente ». Ogni cosa pubblicata dalle «mosche bianche» è automaticamente feccia, linciaggio, ventriloquio del Padrone. Campione di queste tesi pre-fabbricate, secondo Pansa, è Repubblica, che dall’esplodere dei sexy-gate berlusconiani ha guadagnato decine di migliaia di copie. Ripetere di continuo un unico concetto, secondo Pansa, giova: «Il pensiero unico (ma modesto) funziona». E in questo disco rotto gorgheggiano un po’ tutti, dall’Ingegner De Benedetti, arcinemico del Cav, fino all’antipatico Gad Lerner; dai «sultani Rai» Santoro e Fazio fino a D’Alema; da Floris a Di Pietro. Tutti smaniosi di bisbigliare parole d’ordine violente alle pericolose frange lunatiche della sinistra. Insomma, Berlusconi causerà anche imbarazzo con il suo comportamento non consono a un presidente, ma è obiettivamente vittima di una persecuzione gonfia di eccessi da parte di certi giornalisti militanti: «Hanno svenduto la loro libertà a un settarismo incontinente, prigionieri inconsapevoli della faziosità». Eppure, conclude Pansa, «lo hanno battuto come un materasso, ne hanno assassinato la figura pubblica, ma non lo hanno sconfitto». Il loro potere è «inutile », la loro carta è «straccia». E il sangue del Cav non è ancora quello dei «vinti».

Macchina del fango? "Invenzione". L'anti-Saviano si chiama Pansa. "Carta straccia" è primo in classifiche davanti a "Vieni via con me". Spiega ciò che la sinistra ignora, scrive Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano”. Da mesi, forse anni, il centrodestra si arrovella per trovare un “anti-Saviano”, un giornalista o uno scrittore che sia in grado di offrire al pubblico una lettura della realtà differente dalle consuete invettive contro il governo oppressore, contro la Lega che interloquisce con la mafia e contro i giornali “di regime” che agiscono a comando del premier per annichilire i suoi nemici politici. Adesso è chiaro che un antidoto alle dissertazioni savianesche sulla Macchina del fango esiste, e pensare che l’avevamo qui a portata di mano. I lettori di Libero lo conoscono bene, per la verità anche quelli di Repubblica e tutti gli altri: si chiama Giampaolo Pansa, un signore che ha firmato articoli per i principali giornali italiani e che da due settimane è in testa alle classifiche di vendita con il suo nuovo libro. “Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani” (Rizzoli) è al primo posto della lista dei bestseller di Arianna, probabilmente la più attendibile delle graduatorie. Nel fine settimana svettava in cima alla classifica della Stampa, era secondo in quella di Repubblica, di nuovo primo in quella del Corriere. Ha surclassato non solo i libri di cucina della Parodi, ma pure le tirate indignate di Stephane Hessel e di Don Gallo.  Ha lasciato indietro lo stesso Saviano, che da settimane imperversava con “Vieni via con me” (Feltrinelli), il volume che raccoglie gli interventi letti in tivù durante la trasmissione realizzata in coppia con Fabio Fazio. Pansa ha venduto oltre centoventimila copie in quindici giorni, per un totale di nove edizioni: un successo clamoroso anche per un autore conosciuto come lui. Il dato più interessante, però, riguarda il contenuto del suo libro. Che ovviamente non si riduce a una risposta all’autore di “Gomorra”, tuttavia presenta un quadro della situazione italiana molto diverso da quello dipinto ogni giorno dalle testate del gruppo Espresso, dai Santoro e dai Travaglio. Saviano ha conquistato le folle ripetendo ad libitum la sua tiritera sulla Macchina del fango, cioè “il meccanismo con cui si arriva a diffamare qualsiasi persona”. Ha spiegato che “c’è differenza fra diffamazione e inchiesta” e ha gridato che “la democrazia è letteralmente in pericolo” poiché i media asserviti alla dittatura imperante di centrodestra hanno assaltato prima il direttore di “Avvenire” Dino Boffo, poi il cofondatore del Pdl Fini. I servizi di Libero e del Giornale, dunque, non erano inchieste, ma diffamazione. Anche se nel caso Boffo c’era una condanna e in quello di Fini si parlava di una casa sottratta al partito (Alleanza Nazionale) e di soldi pubblici da versare nelle tasche di amici e famigliari. “Cosa succede in Italia quando si dà fastidio a chi comanda?”, teorizzava Saviano, “Si attiva una macchina fatta di dossier, di giornalisti conniventi, di politici faccendieri che cercano attraverso media e ricatti di delegittimare gli avversari”. Bene, Pansa in “Carta straccia” analizza la vicenda Boffo e le sue conseguenze. Mettendo in fila i fatti, dimostra che si è trattato di un’inchiesta a tutti gli effetti. Stesso discorso per la famigerata casa di Montecarlo. Racconta il clima di ostilità feroce che si è sviluppato attorno a Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro e a tutti gli altri giornalisti che non si limitavano a prendere per oro colato il vangelo di Repubblica. Suggerisce che i giornalisti conniventi al potere economico e giudiziario vanno cercati in altre redazioni che la nostra. Va oltre: si concentra sul ruolo politico che Carlo De Benedetti, patron del giornale di Largo Fochetti, ambisce ad esercitare. Narra come Ezio Mauro abbia trasformato il suo quotidiano in un organo di orientamento ideologico, in una corazzata militante. Va a toccare i santini progressisti come Santoro, Fazio e Travaglio, non risparmia nessuno. Infatti l’Espresso e Repubblica hanno bellamente ignorato la sua opera. Sono argomenti che Pansa tante volte ha affrontato nel suo Bestiario su Libero, ma che raccolti in un solo tomo hanno interessato migliaia di persone. Tra i suoi lettori ci saranno sicuramente tanti simpatizzanti del centrodestra, ma visto il numero di copie vendute devono essercene per forza anche parecchi che votano a sinistra e magari sono stanchi del “giornale guerrigliero” di Ezio Mauro, dei “postriboli televisivi” di Lerner e Santoro, delle notizie a senso unico del Tg3. Gente che magari ha comprato “Vieni via con me” e i libri di Travaglio e che desidera sentire una campana che non suoni a morto. In queste ore di nuovo si parla di invasione dei mezzi di comunicazione da parte di Berlusconi, di campagna elettorale dai toni drammatici per colpa del Pdl e della Lega, si ripetono i copioni raffermi già squadernati in prima serata su Raitre e Raidue. Beh, chi ha letto Pansa ha capito che la Macchina del fango non esiste, che i giornalisti puntano ad esercitare un’azione politica ma spesso e volentieri falliscono (e non per questo cessano di azzannare il Cavaliere) e che le divinità progressiste non sono infallibili, anzi, spesso raccontano balle fin troppo evidenti. Centomila e più italiani - e speriamo che il numero sia destinato ad aumentare - hanno compreso come funzionano davvero i media qui da noi e quanto poco Berlusconi possa fondare su di essi il proprio consenso. La risposta agli show manettari e ai video processi ce l’abbiamo sotto il naso. E non si paga milioni di euro come alcuni programmi televisivi nei quali il centrodestra ha investito le sue speranza di rivalsa. Costa 19 euro e 90 centesimi più qualche ora di tempo da dedicare alla lettura. E un pò di coraggio, perché a mettersi contro alla macchina del ridicolo di Saviano e soci ce ne vuole.

GIORNALISTI. COSA NON SI FA PER SPUTTANARE? PAGARE…..LE FONTI.

La Rai paga per "sputtanare" Tosi?

La puntata di Report su Verona non è ancora andata in onda, ma Flavio Tosi ha già sporto querela, scrive Alessio Corazza su “Il Corriere della Sera”. Ieri mattina il sindaco si è presentato in procura, per un colloquio con il procuratore Mario Giulio Schinaia, cui ha affidato una denuncia per diffamazione nei confronti del giornalista Sigfrido Ranucci, che sta lavorando alla trasmissione della Rai in questi giorni. Ne ha dato notizia lui stesso in una conferenza stampa, ieri pomeriggio a Palazzo Barbieri. In due distinte registrazioni (una audio e una video, entrambe allegate alla denuncia) carpite dal cantautore ed ex leghista Sergio Borsato, contattato dallo stesso Ranucci per ottenere un video compromettente su Tosi, il giornalista - sostiene il sindaco di Verona - fa affermazioni di una «gravità inaudita». Tra le altre cose, «ha affermato di poter utilizzare fondi riconducibili alla Rai, per costruire una trasmissione con il chiaro intento diffamatorio, per distruggere, con notizie false, politicamente e personalmente un avversario politico, attraverso una trasmissione della televisione pubblica di Stato». Un riferimento, questo, alla trattativa che si coglie dalle registrazioni per l’acquisto del video in questione. «Ho piena fiducia in Sigfrido Ranucci - ribatte l’autrice di Report, Milena Gabanelli - In 17 anni di Report non abbiamo mai pagato un informatore e mai lo pagheremo. Ci è stato proposto un video nel quale si parla di appalti pubblici, e che in passato sarebbe stato oggetto di ricatto. Per questo video ci sono stati chiesti dei soldi. Si è fatto intendere, come normalmente avviene in questi casi, una eventuale disponibilità, al solo fine di poter vedere i contenuti di questa registrazione». Gabanelli assicura in ogni caso che «nessun acquisto avrebbe in ogni caso avuto seguito. Sta di fatto che il video non lo abbiamo mai visto e nulla abbiamo mai comprato. Gli incontri-trappola organizzati da Tosi li abbiamo registrati anche noi e se sarà necessario a tempo debito verranno trasmessi integralmente. Al contrario di ciò che sostiene Tosi, Report non è una trasmissione politica e non ha simpatie o antipatie politiche, noi facciamo il nostro lavoro investigativo, le verifiche, e alla fine ciò che viene trasmesso sono solo le evidenze». Nuova controreplica di Tosi: «Dalle registrazioni risulta chiaramente e in modo inconfutabile che è vero esattamente il contrario ». Ovvero il video «dal contenuto diffamatorio» non è stato proposto al giornalista, «ma è stato lui a cercare di chiedere insistentemente di acquistarlo con fondi Rai che sarebbero stati utilizzati in maniera irregolare come lui stesso descrive ». Infine, il sindaco invita la Gabanelli a presentarsi in procura «e a fornire immediatamente alla stampa la documentazione in suo possesso». Secondo Tosi, il giornalista di Report ha contattato Borsato «presumendo che avesse documenti contro di me e che fosse mio nemico». L’ex leghista e cantautore vicentino sarebbe stato agganciato tramite un leghista dissidente di Rovigo. Borsato ha finto di avere il video e di essere motivato a divulgarlo dall’intento di annientare politicamente Tosi. Ha incontrato due volte Ranucci, in un bar a Vicenza e in un ristorante a Roma ed ha registrato tutto. Tra le altre cose, si sente il giornalista affermare di avere rapporti con tre diverse procure (Verona, Padova e Venezia) e di avere accesso al massimo canale investigativo del Veneto. Ma le affermazioni che Tosi ritiene «gravissime» sono altre: «Dice che io avrei rapporti con la ’ndrangheta, che avrei ricevuto in regalo dei rolex d’oro, che avrei partecipato a festini hard, ricevuto soldi sporchi per la campagna elettorale. Cerca un filmato compromettente con il sottoscritto, afferma che la ’ndrangheta ha questo filmato e con questo mi ricatta. Tutte cose false». Di qui la querela «preventiva ». «Non è la prima volta che ci succede - spiega Gabanelli - non ci interessano storie hard su Tosi, ma solo questioni di interesse pubblico. Continueremo a lavorare alla puntata».

Ciak, si gira e rigira. Verona set di un film a puntate giornaliere. Con continui colpi di scena. L'Amministrazione comunale, a guida Flavio Tosi, nell'occhio...dei cicloni, scrive Enrico Giardini su “L’Arena”. Dopo l'arresto dell'ex vicesindaco Vito Giacino e della moglie Alessandra Lodi in un'inchiesta per concussione e nuova corruzione, e il caso dell'assessore Marco Giorlo che minacciava le dimissioni dopo un'intervista rilasciata a un videogiornalista di Report giovedì della settimana prima, il 21 febbraio 2014 a mezzogiorno il sindaco ha depositato in Procura una denuncia per diffamazione contro il giornalista Sigfrido Ranucci della trasmissione della Rai Report, diretta da Milena Gabanelli. L'esposto — una querela per diffamazione — consegnato nelle mani del procuratore capo Mario Giulio Schinaia, è stato accompagnato dalle registrazioni di file audio, di un'ora e mezza, e video, di un'ora, consegnati anche alla stampa insieme con la trascrizione. Materiale che secondo Tosi «prova il tentativo del giornalista di Report di costruire notizie false e diffamatorie nei miei confronti, cercando di acquisire la necessaria documentazione con metodi illeciti, e con l'uso di denaro pubblico», come ha detto nella conferenza stampa convocata in Comune. Ma quale sarebbe questo tentativo? Secondo quanto riferito dal sindaco — raccontando una vicenda svoltasi dal 6 febbraio in avanti — Ranucci, in questi giorni in città per svolgere un servizio sull'Amministrazione Tosi (da mandare in onda dal 30 marzo; è lui ad aver intervistato anche l'assessore Giorlo) avrebbe contattato tramite alcuni intermediari Sergio Borsato, un ex leghista residente in provincia di Vicenza, ritenendo che potesse accedere a copie di alcuni filmati. Questi proverebbero che la N'drangheta, l'organizzazione criminale calabrese, ha rapporti con Tosi, che avrebbe fatto diversi regali fra cui un orologio Rolex. Uno dei filmati sarebbe un video hard con Tosi protagonista. Il sindaco ha raccontato poi che Borsato, contattato dal giornalista che riteneva fosse un nemico di Tosi, lo ha a sua volta chiamato per informarlo. E successivamente ha registrato con una microtelecamera due incontri con il giornalista (l'ultimo, quello di un'ora e mezza, il 14 febbraio) presente un'altra persona, per trattare la consegna del materiale. Questo d'accordo con Tosi, quindi, per smascherare le intenzioni dell'autore del servizio. «Questo materiale ovviamente non esiste», dice il sindaco, «non c'è alcun filmato. Dalla trascrizione delle immagini e delle conversazioni si ricava che l'intervistatore pagherebbe con soldi pubblici questi video e inoltre che l'obiettivo politico da colpire è il sottoscritto. Inoltre, addirittura il giornalista dice di avere contatti diretti con alcune procure e con i Ros». Stando ad alcuni passaggi, verrebbero offerti dai 10 ai 15mila euro per comprare questo materiale, che secondo il testo avrebbe a disposizione, fra gli altri, anche il leghista Maurizio Filippi, presidente del Parco Star. «In sintesi», spiega ancora Tosi, «un programma di inchiesta della Rai, pagato con i soldi dei cittadini, ha cercato di costruire una trasmissione per distruggere una persona ritenuta evidentemente un avversario politico». Da noi contattato al telefono, il giornalista Sigfrido Ranucci così replica: «Noi non abbiamo mai chiesto soldi per Report. Invece ci erano stati chiesti da Borsato. Noi abbiamo la registrazione completa degli incontri avuti con lui e quelli diffusi ieri sono stati manipolati. A noi poi non interessano notizie sulla vita privata di Tosi, ma avevamo voci di un filmato in cui si parla di spartizione di appalti pubblici a Verona. Per quanto riguarda i presunti nostri contatti con le Procure e i Ros», prosegue Ranucci, «li abbiamo millantati perché la persona che avrebbe avuto a disposizione i filmati diceva di essere stata minacciata. E andiamo avanti». E Milena Gabanelli, conduttrice di Report, ha diffuso una nota di agenzia in cui dice che «non è la prima volta che ci arriva una querela preventiva. Mi preme chiarire che in 17 anni di vita di Report non abbiamo mai speso un solo euro per pagare un informatore. Ci è stato proposto un video nel quale si parla di appalti pubblici, e che in passato sarebbe stato oggetto di ricatto. Per questo video ci sono stati chiesti soldi».
Aggiunge la Gabanelli: «Si è fatto intendere, come normalmente avviene in questi casi, una eventuale disponibilità, al solo fine di poter vedere i contenuti di questa registrazione. Nessun acquisto comunque avrebbe in ogni caso avuto seguito. Sta di fatto che il video non lo abbiamo visto e nulla abbiamo mai comprato. Gli incontri-trappola organizzati da Tosi, li abbiamo registrati anche noi e se sarà necessario a tempo debito verranno trasmessi, ma integralmente. Al contrario di ciò che sostiene Tosi», conclude la giornalista, «Report non è una trasmissione politica e non ha simpatie o antipatie politiche, noi facciamo il nostro lavoro investigativo, le verifiche, e alla fine ciò che viene trasmesso sono solo le evidenze». In serata il sindaco Tosi ha controreplicato: «La documentazione audio e video allegata alla denuncia che ho presentato in Procura è integralmente quella che ci è stata fornita. E risulta chiaramente e in modo inconfutabile che è vero esattamente il contrario di ciò che la signora Gabanelli afferma». Tosi invita la giornalista «a presentarsi subito alla Procura della Repubblica e a fornire immediatamente alla stampa la documentazione in suo possesso».

L'incontro tra il giornalista che lavora per conto di Report e l'esponente leghista è tutto filmato e trascritto, continua “L’Arena”. Il giornalista cerca in particolare un filmino a luci rosse che metta in difficoltà il sindaco Tosi tanto che afferma: «L'obiettivo è Flavio». Il colloquio tocca molti punti delicati. Vediamoli.

RELAZIONI PERICOLOSE. Il giornalista afferma di avere «filmati» su incontri «con il capo mafia di Crotone Vrenna» in occasione delle trasferte del sindaco in Calabria. Poi afferma di «averlo beccato» al «bar Filò con uno che gestisce tutta una catena di nightclub in Romania». Poi fa anche i nomi delle famiglie calabresi che avrebbero contatti con Verona e regalerebbero Rolex d'oro al sindaco: «Le famiglie calabresi Giardino, Papalia della Soveco, Paglia» e in questo contesto rientra anche l'intervista fatta all'assessore Giorlo («i calabresi festeggiano con Giorlo in Comune, abbiamo la documentazione») e che infatti nei giorni scorsi ha creato un altro caso in Giunta. E poi viene citato anche un tale Furfa, sempre calabrese.

I RICATTI. Contro Tosi il giornalista punta a raccogliere di tutto. «Ma lo sai che è già ricattato da due persone» e fa i nomi di un leghista che avrebbe foto compromettenti. E poi escort e festini a luci rosse in zona Filippini con esponenti della giunta.

LE PROCURE. Il giornalista assicura di avere fonti di prima mano e che su questi temi lavorano «la Procura di Verona, Venezia e Padova». L'obiettivo è dichiarato: «Quando tu esci che c'ha i contatti con i calabresi, prende in soldi in nero, prende i rolex dal campo degli appalti, i festini delle escort, quello che dice che è ricattabile... all'indomani di sta roba... hai buttato il fosforo, cioè tutto bruciato». Ma l'obiettivo è Flavio o qualcuno attorno a lui? Risposta: «L'obiettivo è Flavio».

LA CILIEGINA. Sulla torta manca la ciliegina: il presunto filmato. E parte la trattativa per 15 mila euro. Facendo fattura a terze persone. «Va fatta una fattura con qualcuno che ha una partita Iva». La consegna del cd con il video era prevista per oggi. Però il regalo sarà diverso.

Tosi in una conferenza stampa nel municipio di Verona, ha consegnato copia dei file audio e video di due incontri tra Ranucci e Borsato avvenuti a Padova e a Roma. Copia dei file audio e video è stata consegnata ovviamente anche in Procura: alcuni passaggi salienti delle conversazioni registrate di nascosto con il cronista di Report sono pubblicate su tgverona.it. Tosi ha spiegato che "Ranucci era alla ricerca di un video da comprare, nel quale ci sarebbe la prova dei miei contatti con la 'ndrangheta". "Ha detto - ha aggiunto - che ci sono indagini di tre Procure - Venezia,Verona e Padova -, di avere fonti investigative di altissimo livello; ha parlato in modo esplicito e ripetuto del comandante del Ros del Veneto, dei servizi segreti. Ha fatto affermazioni gravissime, dichiarando che la 'ndrangheta mi avrebbe regalato Rolex d'oro, organizzato festini hard, raccolto fondi per la campagna elettorale. Per questo era alla caccia di questo fantomatico filmino con il quale la 'ndrangheta mi ricatterebbe". Tosi ha poi spiegato che nell'incontro con l'ex militante leghista "Ranucci ha parlato delle primarie del centrodestra ed ha affermato ripetutamente che l'obiettivo è Flavio Tosi. Sostiene di avere un rapporto assolutamente paritario con Milena Gabanelli, che Report è una 'repubblica a parte' e che pur non potendo usare fondi Rai, dichiara di poter acquistare il presunto filmino ricorrendo a fondi "paralleli". "Per questo abbiamo consegnato tutto alla Procura - ha concluso -, non so se quella di Verona risulterà competente, ma intanto l'indagine farà il suo corso e i magistrati valuteranno se ci sono gli estremi anche per altri reati".

Tosi affonda la corazzata Report con un video-esca, scrive Alessandro Ambrosini su “Notte Criminale”. Offerti 15.000 euro da fondi "paralleli" della Rai per creare uno scoop che eliminasse Tosi dalla scena politica. Tutta la trattativa registrata. Querela per diffamazione nei confronti del giornalista. Quante volte abbiamo visto svelare retroscena inquietanti dai giornalisti di Report? Quante volte abbiamo sentito Milena Gabanelli parlare di etica, di equidistanza politica, di bisogno di rigore nell’informazione? Tante, mai abbastanza. Vero è, che lo stesso rigore, alcuni dei suoi giornalisti non sempre l’hanno usato, non sempre hanno tenuto comportamenti corretti nei confronti dei loro colleghi, che erano anche fonti. Il confine tra l’eticamente corretto e la scorrettezza è una linea di demarcazione  che spostano volentieri a seconda del bisogno, a seconda dell’occasione. Oggi non ci sono colletti bianchi o politici corrotti sul banco degli imputati. Oggi, come migliaia di altre volte,  sul banco degli imputati finisce proprio la trasmissione della Gabanelli e uno dei loro giornalisti: Sigfrido Ranucci. Oggi, non è la solita querela. Il film che viene trasmesso lascia poco all’immaginazione. Nelle prime ore del pomeriggio, il sindaco di Verona Flavio Tosi ha portato la querela per diffamazione al Procuratore della Repubblica Mario Giulio Schinaia, allegando registrazioni di file audio video di una certa gravità. Queste provano il tentativo del giornalista di Report di costruire delle notizie false e diffamatorie a scapito del sindaco scaligero, cercando di acquisire il materiale necessario con metodi illeciti e con l’uso di denaro pubblico. Andiamo nel dettaglio: Da giorni, Sigfrido Ranucci, si trovava nella città scaligera per fare un servizio sull’amministrazione locale e i presunti scandali in cui è stata investita ultimamente. Alla ricerca di un punto debole, o di qualcuno che volesse togliersi qualche sasso dalla scarpa, contattò Sergio Borsato, ex leghista dell’ala bossiana. Il giornalista chiese del materiale. Informazioni che potessero mettere in difficoltà il sindaco veronese ma, vista la finalità della richiesta, l'ex militante padano avvertì Tosi. Dopo aver concordato il video- bluff, Borsato si incontrò due volte con Ranucci, a Roma e  Padova. Con una microtelecamera.  Durante questi briefing, l’ex leghista, affermò  di essere in possesso di un video che avrebbe provato i rapporti di Tosi con la ‘ndrangheta, festini hard e tutto quello che poteva far cadere l’amministrazione. Esca succulenta che, proprio nella microtelecamera troverà l’amo più letale.  Queste registrazioni audio-video con microtelecamere, come ben sapete, sono una delle armi più usate da molti giornalisti per riuscire a “rubare” qualche indiscrezione lontano dai microfoni. Cose che si vedono spesso nei servizi in tv  e che molte volte hanno generato buoni risultati. Ma questa volta, a finire nella rete, è finito Sigfrido. Con tutte le scarpe. Nel video il giornalista di Report cercò di acquisire il materiale che gli poteva permettere di confezionare lo scoop nei confronti del sindaco:«L’obiettivo è Flavio», questo era il target da colpire. Il colloquio toccò molti punti delicati. Presunte relazioni pericolose con la 'Ndrangheta, presunti ricatti nei confronti del sindaco, incontri hard e relative foto compromettenti. Infine, la richiesta e la trattativa per la consegna del presunto filmato hard in cambio di 15 mila euro. La costruzione di un finto scoop su un finto-video, esilarante. In queste registrazioni sono poi svelate, dallo stesso Ranucci, i  rapporti con tre Procure venete ( Venezia, Verona e Padova) e di avere fonti investigative di primissimo livello. Più volte parlò esplicitamente del comandante del Ros del Veneto e dei servizi segreti. Affermazioni di una gravità inaudita per ruolo e implicazioni. Un fiume calmo ma in piena, questo è il sindaco Tosi che ha continuato dicendo: “Ha fatto affermazioni gravissime, dichiarando che la 'ndrangheta mi avrebbe regalato Rolex d'oro, organizzato festini hard, raccolto fondi per la campagna elettorale. Per questo era alla caccia di questo fantomatico filmino con il quale la 'ndrangheta mi ricatterebbe”. Un suicidio quasi in diretta per il coautore della Gabanelli con cui dichiarò di avere un rapporto paritario all’interno della redazione, almeno a quanto afferma. Parlò di una “repubblica a parte”quando spiegò la struttura della trasmissione. Struttura che possiede fondi “paralleli” la cui provenienza è data da distrazioni all’interno del servizio pubblico televisivo. Un bluff? Un momento di mitomania? Fatto sta che quel video-esca era pronto a comprarlo. E’ un fatto. Report non ha fatto attendere molto la sua replica, anche se la difesa è un po’ debole. Un comunicato della stessa conduttrice all’Ansa ribatte:« Non è la prima volta che ci arriva una querela preventiva. Mi preme chiarire che in 17 anni di vita di Report non abbiamo mai speso un solo euro per pagare un informatore. Ci è stato proposto un video nel quale si parla di appalti pubblici, e che in passato sarebbe stato oggetto di ricatto. Per questo video ci sono stati chiesti soldi. Si è fatto intendere, come normalmente avviene in questi casi, una eventuale disponibilità, al solo fine di poter vedere i contenuti di questa registrazione. Nessun acquisto comunque - aggiunge Gabanelli - avrebbe in ogni caso avuto seguito. Sta di fatto che il video non lo abbiamo visto e nulla abbiamo mai comprato. Gli incontri-trappola organizzati da Tosi, li abbiamo registrati anche noi e se sarà necessario a tempo debito verranno trasmessi, ma integralmente. Al contrario di ciò che sostiene Tosi, Report non è una trasmissione politica e non ha simpatie o antipatie politiche, noi facciamo il nostro lavoro investigativo, le verifiche, e alla fine ciò che viene trasmesso sono solo le evidenze». Più decisa la controreplica di Tosi che sempre tramite l’agenzia stampa ribatte « La documentazione audio e video allegata alla denuncia che ho presentato oggi al Procuratore della Repubblica di Verona e che ho diffuso alla stampa è integralmente quella che ci è stata fornita. Da essa risulta chiaramente e in modo inconfutabile che è vero esattamente il contrario di ciò che la signora Gabanelli afferma - aggiunge Tosi - che il video dal contenuto diffamatorio non è stato proposto al giornalista di Report Sigfrido Ranucci ma che è stato lui a cercare di chiedere insistentemente di acquistarlo con fondi Rai che sarebbero stati utilizzati in maniera irregolare come lui stesso descrive. Invitiamo la signora Gabanelli - conclude Tosi - a presentarsi domani alla Procura della Repubblica e a fornire immediatamente alla stampa la documentazione in suo possesso». Una brutta storia per la trasmissione d’inchiesta più seguita e più pungente della televisione italiana. Una vicenda che rischia seriamente di minare la credibilità acquisita negli anni. Anni che hanno visto Report essere l’innesco per fare affiorare malaffare e corruzione nel nostro Paese. Sarà la magistratura a chiarire il tutto. Sarà un vaso di Pandora che si aprirà dopo questo scandalo o ci sarà un capro espiatorio ?  Passerà tutto per un bluff o tutto rimarrà soffocato tra il nuovo Governo Renzi e il Festival di Sanremo?

CREDIBILITA' E CENSURA.

BAVAGLIO ALL'ORA Da Repubblica al Giornale, la notizia corre sul web. La denuncia dell'Ora della Calabria dopo il blocco della stampa. Il direttore Luciano Regolo: «Violate le regole della democrazia e del vivere civile»

«Ieri notte si è consumato un fatto gravissimo per la libertà di stampa, la violazione delle più elementari regole della democrazia e del vivere civile. Ultimata la lavorazione del giornale, a tarda ora, l'Editore mi ha chiesto se non fosse possibile ritirare dalla pubblicazione l'articolo relativo all'indagine in corso sul figlio del senatore Tonino Gentile, Andrea, al quale sono contestati i reati di abuso d'ufficio, falso ideologico e associazione a delinquere nell'ambito del caso Asp. Di fronte alla mia insistenza, nella difesa del diritto di cronaca, ho minacciato all'Editore stesso le mie dimissioni qualora fossi stato costretto a modificare il giornale, vanificando il mio lavoro e quello dei miei colleghi. Mentre discutevamo di questo, in mia presenza e in viva voce, l'editore ha ricevuto la telefonata del nostro stampatore Umberto De Rose, il quale, ponendosi come "mediatore" della famiglia Gentile, faceva ulteriori pressioni per convincerlo a non pubblicare la notizia, ricordandogli che «il cinghiale, quando viene ferito, ammazza tutti». Avendo io ribadito all'Editore che non intendevo in alcun modo censurare ciò che era stato scritto, ci siamo salutati. Così De Rose, dopo avere chiamato insistentemente la redazione, soltanto alle due di notte ha fatto sapere che il giornale non poteva andare in stampa per un guasto alle rotative. E' evidente che si è trattata di un'azione intollerabile e ingiusta, e aspetto serenamente che la Procura di Cosenza mi convochi per produrre la documentazione in mio possesso riguardo alle pressioni che Gentile, per interposta persona, ha effettuato per evitare che fosse divulgata l'indagine sul conto di suo figlio.»

«Mi è stato riferito da alcuni amici la presenza di articoli relativi a fatti e vicende assurde che ledono il mio onore e la mia reputazione. Ho dato mandato ai miei legali di proporre immediatamente querela nei confronti di quanti, senza alcun elemento, mi hanno accusato di essere il responsabile di una storia incredibile rispetto alla quale sono totalmente estraneo».  Lo afferma il senatore Antonio Gentile, segretario dell'Ufficio di presidenza del Senato e coordinatore calabrese Ncd, a 24 ore di distanza dalla conferenza indetta dal direttore de L’Ora della Calabria, Luciano Regolo, durante la quale aveva annunciato presunte pressioni subite per evitare l’uscita di un articolo riferito al figlio del senatore, Andrea Gentile: fatto che è coinciso con la mancata andata in edicola del quotidiano. Sia l'editore che il tipografo del giornale avevano, però, subito smentito le presunte pressioni riferite da Regolo.

La censura subita ha fatto il giro dei siti internet. Galullo del Sole 24 Ore: «Un fatto senza precedenti». Il direttore Sallusti: «Ne ho viste tante, ma giuro, una così non mi era mai capitata». La notizia della censura subita dall’Ora della Calabria ha fatto il giro dei siti internet della stampa nazionale. Da Repubblica.it al Manifesto fino al Fatto Quotidiano, molte testate hanno ripercorso la vicenda. Il giornalista del Sole 24 Ore Roberto Galullo, che spesso si occupa di vicende calabresi, sul suo blog scrive: «Le cose che Regolo denuncia e le accuse che lancia per chi (come chi vi scrive) vive il giornalismo come una prima e non una seconda pelle, rappresenterebbero (se provate persino davanti ad un pm e ad un eventuale giudice come lo stesso Regolo auspica) la pietra tombale per quel che residua della libertà di stampa in Calabria (ma, ahimè, su per li rami nell’intera Italia). Attendiamo le repliche alla sua denuncia e alle sue accuse per darne doverosamente conto all’interno di questo stesso pezzo, nelle prossime ore. Come deve fare ogni cronista. Cognita causa – come direbbero i dotti, vale a dire sulla mia pellaccia, come dico io – da lunghi anni so cosa vuol dire sostenere il peso di una libertà di stampa piena e assoluta (ergo non piegata ad alcuni interesse se non quello del lettore) in terra calabrese. La morte fisica è l’ultimo dei problemi: basta il venticello subdolo della delegittimazione, che viaggia sulle solite correnti di potere e che, per i Giornalisti, equivale alla morte eterna». Ancora Galullo: «Ciò che negli ultimi anni, negli ultimi mesi, nelle ultime settimane, perfino nelle ultime ore, sta accadendo in Calabria alla libertà di informazione e alla libertà di stampa è senza precedenti».Invece il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti in prima pagina ha scritto un editoriale sulla vicenda. "Il senatore pupillo di Alfano fa bloccare l'uscita di un giornale". «Ne ho viste tante, ma giuro, una così non mi era mai capitata. Un senatore, capo regionale di un partito che dice di essere il futuro dei liberali italiani, insieme ad amici impedisce l'uscita di un quotidiano per evitare la diffusione di una notizia sgradita. Ottima scelta, Alfano. Ha messo il partito in buone mani. E dire che è anche ministro degli Interni, quello che deve liberare il Sud e arroganze».

Il senatore Antonio Gentile si dice totalmente all’oscuro della vicenda relativa alla mancata pubblicazione dell’edizione di due giorni fa dell’Ora della Calabria, Massimo Clausi su “Il Quotidiano Web”. A distanza di 48 ore l’esponente di punta del Ncd interviene minacciando querele. «Mi è stato riferito da alcuni amici - ha scritto ieri in una nota - la presenza di articoli relativi a fatti e vicende assurde che ledono il mio onore e la mia reputazione. Ho dato mandato ai miei legali di proporre immediatamente querela nei confronti di quanti, senza alcun elemento e senza alcun contraddittorio, mi hanno accusato di essere il responsabile di una storia incredibile rispetto alla quale sono totalmente estraneo».  Il senatore e coordinatore regionale del Nuovo centrodestra si riferisce alla denuncia pubblica del direttore dell’Ora, Luciano Regolo, che nei giorni scorsi ha detto di aver ricevuto dall'editore del quotidiano, Alfredo Citrigno, la richiesta di non pubblicare l'articolo che riferiva dell'indagine sul figlio dello stesso senatore, Andrea Gentile, nei confronti del quale sono ipotizzati i reati di abuso d'ufficio, falso ideologico e associazione a delinquere nell'ambito del caso Asp di Cosenza. Una pressione che sarebbe stata svolta anche da Umberto De Rose, il tipografo che stampa il giornale. Circostanze però seccamente negate da entrambi. La storia ha avuto un clamore mediatico senza precedenti ed è arrivata anche sulle pagine di alcuni quotidiani nazionali. Inevitabile visto lo scontro in atto fra Forza Italia e Ncd, di cui lo stesso Gentile è esponente di spicco, al punto di essere in predicato di diventare Sottosegretario alla Giustizia. Ma è inevitabile soprattutto se si considera lo spessore politico della famiglia Gentile sulla provincia di Cosenza e sull’intera regione. A far finire nei guai l’avvocato Andrea Gentile è stato proprio il collega Nicola Gaetano. Nella richiesta, poi accolta dal gip, di interdittiva per il direttore generale dell’Asp, Gianfranco Scarpelli (avanzata dal procuratore aggiunto, Domenico Airoma, e dal sostituto Domenico Assumma) Gaetano al di là dell’enorme mole di consulenze ricevute, viene tratteggiato come una specie di direttore generale ombra dell’Asp. Addirittura in un passaggio le Fiamme Gialle che hanno condotto parte dell’inchiesta citano una mail con la quale Gaetano inoltra a Scarpelli la bozza di una risposta che il dg avrebbe dovuto inoltrare ai finanzieri a seguito di una specifica richiesta nell’ambito di un procedimento attualmente aperto dalla Dda di Catanzaro sulle vicende dell’Asp. In un secondo momento i carabinieri hanno acquisito una serie di atti e gli inquirenti hanno potuto notare come molte delibere di Scarpelli non erano altro che «la pedissequa ricezione delle “minute” predisposte dal Gaetano, limitandosi alla mera sottoscrizione». Ancora nella richiesta i due magistrati scrivono che Scarpelli procedeva all’affidamento di incarichi legali scegliendoli su base fiduciaria, «sovente su esplicite indicazioni del Gaetano Nicola». Fra questi avvocati c’è appunto Andrea Gentile. In particolare è la Guardia di Finanza in una informativa a citare una mail del 5 ottobre 2011 (ore 17,14) con la quale Nicola Gaetano inoltra al dg Scarpelli la bozza di una procura con la quale l’Asp avrebbe dovuto nominare Andrea Gentile proprio difensore di fiducia nell’ambito di un procedimento penale. Non si capisce bene di quanti incarichi abbia usufruito Gentile. Così come appare – dalle carte fino ad oggi note – molto defilato il suo ruolo nella vicenda. Non a caso la sua posizione è stata stralciata rispetto al filone d’inchiesta principale, forse per capire se e fino a che punto il giovane professionista fosse a conoscenza del meccanismo, contestato nelle ipotesi di accusa, di affidamento degli incarichi legali. I magistrati dipingono il rapporto tra Gaetano e Gentile come antico, consolidato anche da comuni interessi economici, professionali e politici. L’ultima circostanza, in realtà, non risulta visto che Gentile jr non ha intrapreso una carriera politica attiva preferendo concentrare le sue energie sullo studio. Vive a Roma dove, oltre a svolgere la professione di avvocato, è anche ricercatore in una prestigiosa università privata. E’ vero invece che questi ha mosso i suoi primi passi professionali proprio nello studio di Gaetano. La Guardia di Finanza, poi, in un’altra informativa, scrive che Gaetano e Gentile in diverse mail si definiscono “compari”. Ad onore del vero, questo gergo è tipico nel cosentino fra persone che hanno particolare confidenza. Vedremo nelle prossime settimane se l’impianto accusatorio reggerà. Nel frattempo c’è da registrare la posizione del consigliere regionale Mimmo Talarico che ieri ha chiesto le dimissioni dei Umberto De Rose da presidente di Fincalabra. «Già le contestazioni ricevute sull'utilizzo di fondi pubblici costituivano un elemento di conflitto con la carica posseduta - scrive Talarico - ora la misura è davvero colma, tanto più dopo le dichiarazioni rese dall’editore Citrigno».

Tonino Gentile: il senatore alfaniano che censura “L’Ora della Calabria”, scrive Alberto Sofia su “Giornalettismo”. Il politico del Nuovo Centrodestra accusato di aver fatto pressioni all'editore del quotidiano locale per stoppare l'uscita di un articolo, dove si raccontava dell'indagine sul figlio Andrea. A denunciare tutto è stato il direttore del quotidiano locale, Luciano Regolo. Articolo sgradito? Nella Calabria delle “amicizie” e dei favori tra politica ed editoria, al senatore alfaniano Tonino Gentile può bastare mettersi in contatto con l’editore per bloccare la sua pubblicazione. E se il direttore del giornale si oppone, non sembrano esserci problemi. Con tanto di “improvviso” guasto delle rotative: in pratica, il giornale non si stampa. Non siamo né in Eritrea, né in Turkmenistan o nella Corea del Nord, agli ultimi posti nella classifica per la libertà di stampa.  Succede in Italia. A denunciare pressioni e censura è stato Luciano Regolo, direttore del piccolo quotidiano “L’Ora della Calabria”, (già “Calabria Ora” e in passato diretta da Piero Sansonetti, ndr). Era ormai pronto per far mandare a stampare il quotidiano, con tanto di scoop: l’indagine su Andrea Gentilefiglio del noto senatore del Nuovo Centrodestra Tonino, quest’ultimo indicato tra i papabili per un ruolo da sottosegretario nel futuro governo Renzi appoggiato dagli alfaniani. Spiega il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti:

«Lunedì la Procura di Cosenza ha accesso i riflettori sull’azienda sanitaria cosentina. Il direttore generale, Gianfranco Scarpelli, da sempre e da tutti considerato vicino ai Gentile, s’è visto notificare l’interdizione dai pubblici uffici, accusato d’aver speso 900mila euro per incarichi conferiti in via discrezionale ad un avvocato Nicola Gaetano, che secondo gli inquirenti «avrebbe agito per ottenere per sé il maggior numero di affidamenti e pilotare verso legali amici gli ulteriori affidamenti». Di quel fiume di denaro, attraverso Gaetano, avrebbe beneficiato anche il figlio del parlamentare, Andrea Gentile: a suo carico si procede per abuso d’ufficio, falso, truffa e associazione a delinquere»

Come ha ricordato il Giornale, Regolo ha spiegato di aver ricevuto pressioni per bloccare l’uscita del pezzo, che citava anche una telefonata, risalente al 25 settembre 2013, nel corso della quale lo stesso senatore Tonino Gentile non indagato – parlava con Scarpelli. «Martedì sera l’editore mi ha chiesto se non fosse possibile ritirare l’articolo sull’indagine sul figlio di Gentile. Ho minacciato le dimissioni». Ma non solo: mentre i due discutevano, con l’editore che spingeva per fermare la pubblicazione dell’articolo “sgradito” e il direttore che si opponeva, Regolo ha raccontato di una particolare telefonata ricevuta in viva voce dello stesso l’editore. A chiamare era lo stampatore del quotidiano, Umberto De Rose, che, secondo quanto ha denunciato Regolo, «ponendosi come mediatore della famiglia Gentile, faceva ulteriori pressioni per convincerlo a non pubblicare la notizia, ricordandogli che “il cinghiale, quando viene ferito, ammazza tutti”». Nonostante le ripetute pressioni, il direttore ha continuato ad opporsi. Nulla da fare, Regolo non si è lasciato convincere. Quando sembrava che tutto fosse chiarito, con il giornale pronto per essere stampato, lo strano “incidente di percorso”. Un guasto alle rotative, improvviso. Annunciato in piena notte, alle due, da una telefonata dello stesso stampatore.  «Ci ha chiamato per dirci che il giornale non sarà stampato per un improvviso guasto alle rotative. Mi pare evidente che le pressioni del senatore Gentile hanno avuto effetto. Sono pronto a portare documenti e registrazioni telefoniche in procura», ha continuato Regolo, che ha organizzato una conferenza stampa per raccontare tutto.  Per Regolo si tratta di una chiara censura, seppur “mascherata” attraverso l’incidente delle rotative. Frutto delle pressioni del senatore considerato una sorta di pupillo di Angelino Alfano, ormai in rampa di lancio. A spiegare il suo “curriculum” è stato Enrico Fierro, sul Fatto Quotidiano: fedelissimo del governatore regionale e coordinatore nazionale dei circoli di Ncd, Peppe Scopelliti, Antonio – detto “Tonino” – Gentile fa parte di una famiglia influente in Calabria. Con familiari riusciti a “piazzarsi” in diverse giunte: dal fratello Pino, assessore regionale, alla nipote Katia, ex vicesindaco di Cosenza. In pratica, per il Fatto una macchina elettorale. Tanto da poter aspirare al posto di sottosegretario nel prossimo governo Renzi-Alfano. Forse anche per questo, secondo Regolo, la notizia sull’indagine del figlio “doveva” essere bloccata. Anche gli editori dell’ “Ora della Calabria”, la famiglia Citrigno – con interessi nel campo della sanità e nell’editoria – non sono esenti da grane giudiziarie. «Piero, il capostipite, sta scontando una condanna a 4 anni e otto mesi per una storia di usura, e a fine gennaio si è visto sequestrare dall’antimafia due cliniche (ovviamente convenzionate col Sistema sanitario nazionale) e beni per oltre 100 milioni», ha ricordato il Fatto Quotidiano.  Nonostante la denuncia del direttore Regolo, i diretti interessati – accusati di aver boicottato l’uscita del quotidiano locale – si sono difesi. «È da folli ipotizzare scenari del genere. Era l’editore a fare pressioni per non pubblicare l’articolo. Stampo quel giornale anche se non vedo un centesimo da dieci mesi. E poi la notizia del figlio di Gentile era già su tutti i siti e i giornali calabresi», ha replicato lo stampatore. Al contrario, l’editore Alfredo Citrigno: ha spiegato di essersi limitato ad «aver chiesto di verificare bene la notizia, visto che nessun giornale, nessun sito, né le agenzie l’avevano pubblicata». Critico, al contrario, Franco Siddi, segretario della Fnsi: «L’episodio getta una luce sinistra sui processi dell’informazione in Calabria». La notizia, pubblicata soltanto nell’edizione on line dato che il giornale non è uscito, ha scatenato  diverse reazioni Due parlamentari grillini, Molinari e Barbanti, hanno parlato di “pagina nera”: «Un attacco alla libertà di stampa», hanno spiegato, mentre l’ex deputato democratico Franco Laratta ha denunciato come nella regione «giornali e tv vivano costantemente sotto assedio».

L’epopea politica della famiglia Gentile inizia a metà degli anni ’70. Scrive Massimo Clausi su “Il Quotidiano Web”. Il vecchio partito Socialista in Calabria, come nel resto del Paese, è dilaniato da feroci guerre intestine. Giacomo Mancini intuisce che è necessario, per consolidare i consensi, dialogare sempre di più con l’anima popolare della città. Il leader socialista individua la chiave per entrare in quei quartieri in una coppia di vivaci fratelli, Pino e Antonio Gentile, che animano la storica sezione “Morandi” della Massa, rione alle pendici del centro storico di Cosenza. Il primo fa il geometra all’Aterp, il secondo invece è impiegato all’ospedale. I due, che provengono da una famiglia numerosa composta da sette fra fratelli e sorelle, dimostrano subito di avere stoffa. Intuiscono di avere di fronte grandi spazi politici e sono abili a sfruttare, alle elezioni comunali, quella che in gergo veniva definita la “quattrina”. All’epoca per il consiglio comunale era possibile esprimere fino a quattro preferenze. Bastava organizzarsi fra famiglie numerose e votare compatti tutti sugli stessi quattro nomi non solo per essere eletti, ma anche per formare un gruppo in consiglio comunale e chiedere un assessorato. Inizia così l’ascesa politica con Pino che diventa assessore ai Lavori Pubblici a Palazzo dei Bruzi, proprio nell’epoca in cui al Comune di Cosenza venne effettuata l’ultima, e anche cospicua, serie di assunzioni. I Gentile crescono in consenso e autorevolezza. Nel 1979 all’interno del Psi si consuma una crisi profonda fra i vari gruppi dirigenti. Del caos ne approfitta Antonio Gentile, abile a tessere accordi e alleanze, che diventa a 29 anni il più giovane segretario provinciale del Psi dei tempi d’oro. Un ruolo mica male che gli permette di estendere i suoi rapporti dalla città al territorio. Ma è solo il primo passo. All’epoca delle lottizzazioni erano i partiti ad indicare i membri del cda degli istituti bancari e il Psi indica per la Cassa di Risparmio di Calabria e di Lucania, appunto il suo giovane segretario provinciale (c’è chi dice all’insaputa del gruppo dirigente). Qui si consuma il primo grosso strappo fra Mancini e Gentile che intanto, dalla postazione del cda Carical, comincia a tessere nuovi rapporti, questa volta con il gruppo che fa capo a Riccardo Misasi e alla Dc cosentina che nell’istituto di credito calabro-lucano ha un peso forte. 

L’attuale senatore del Ncd si dedica quindi a fidi e mutui fino al crac della Carical. E’ il 1987 quando un giovane pm di Locri, Nicola Gratteri, spicca un ordine di arresto per Antonio Gentile e gli altri vertici della banca. L’accusa è quella di una gestione allegra, soprattutto negli affidamenti. L’impianto però non reggerà dinanzi al processo e Gentile verrà prosciolto da tutte le accuse. Nel frattempo un altro fratello, Raffaele, che lavora all’ospedale civile dell’Annunziata, riesce ad imporsi nel sindacato. E’ molto attivo nella Uil sanità e, in quegli anni, arriva fino alla segreteria provinciale del sindacato. Pino ridiventa assessore comunale e nel 1982 diventa sindaco di Cosenza, mostrando grandi doti amministrative. Una grande prova di forza la danno nel 1985 quando Pino Gentile viene eletto per la prima volta in consiglio regionale a discapito di Ermanna Carci Greco cui soffia lo scranno per una manciata d voti. Il consenso dei fratelli Gentile quindi cresce, muovendosi lungo tre direttrici principali: quella politica, quella economica e quella sociale del sindacato. I tre riescono a crearsi una serie di rapporti solidi e soprattutto ad avere un uomo di riferimento in tantissimi dei comuni del cosentino. Il rapporto con Mancini continua ad essere altalenante. Una piccola tregua si ha nel 1990 quando viene eletto sindaco di Cosenza Pietro Mancini. L’armistizio però dura poco perchè al Comune accade il ribaltone e diviene sindaco Giuseppe Carratelli mentre i Gentile si alleano nel partito con De Michelis e Giusy La Ganga. Mancini non dimentica. Nel 1992 ci sono le politiche. Antonio è sicuro di un posto in lista per il Psi, ma all’ultimo momento il suo nome sparisce dall’elenco. E’ la fine del rapporto con il garofano. Il senatore decide di candidarsi con il Psdi, ma non viene eletto nonostante il cospicuo risultato elettorale che, fra l’altro, impedisce l’elezione anche di Giacomo Mancini in parlamento. La parabola politica a quel punto sembra in una fase di stasi. Fuori dal Psi, con il Psdi ridotto ai minimi termini. C’è però il vecchio Pri che ha grandi tradizioni ma pochi consensi. In una riunione alla quale partecipano anche Ugo La Malfa, Enzo Bianco e Bartolomeo Tommasi viene sancito il passaggio dei Gentile all’Edera e siglata una sorta di joint venture con Nucara a Reggio Calabria e un cospicuo gruppo di Vibo Valentia. Pino si candida con manifesti dallo slogan inequivocabile “La gente lo vuole, il potere lo avversa” ed è l’unico della pattuglia del Pri che viene eletto con 9000 voti. Anche il Pri però ha il respiro corto come partito, ma a quel punto avviene la discesa in campo di Silvio Berlusconi che dà mandato a Gegè Caligiuri di radicare il suo partito anche in Calabria. I Gentile sono subito della partita, nonostante la feroce opposizione dei circoli che facevano capo a Mimmo Barile. Il resto è storia nota fatta di elezioni con consensi bulgari sia per Pino sia per Antonio, che diventa sia pure per un breve periodo sottosegretario all’Economia. Nel 2011 la famiglia Gentile giunge all’apice del suo potere politico con Pino assessore regionale ai Lavori Pubblici, la figlia Katya vice-sindaco e assessore ai Lavori Pubblici a Cosenza e altre ramificazioni sul territorio come Dario Gaetano, fratello di quel Nicola finito nell’inchiesta dell’Asp, anche lui assessore ai Lavori Pubblici al comune di Paola, il più grosso centro del tirreno cosentino. Il resto è storia di fratture: fra Katya e il sindaco Mario Occhiuto e fra Antonio e Silvio Berlusconi, con il primo che è fra i più entusiasti del progetto politico di Angelino Alfano, al quale pochi giorni fa, ha concesso un bagno di folla al teatro Rendano.

Il senatore e il giornale bloccato Spunta l'audio delle pressioni. Gentile, pupillo di Angelino, nega il pressing sull'editore dell'Ora della Calabria per fermare un articolo scomodo: "Querelo tutti". Il direttore insiste: tutto registrato, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. Cosenza - L'avvocato Andrea Gentile, figlio del senatore Tonino (Ncd), è indagato dalla Procura di Cosenza con l'accusa di abuso d'ufficio, falso ideologico, truffa ed associazione per delinquere. La notizia ha potuto darla ieri anche L'Ora della Calabria. Il quotidiano diretto da Luciano Regolo era pronto ad offrirla ai suoi lettori già mercoledì, ma quel numero non aveva mai visto la luce. Bloccato prima dalle pressioni ricevute per impedire la pubblicazione di alcuni articoli, poi da un improvviso guasto notturno alle rotative di proprietà di Umberto De Rose, ex presidente di Confindustria Calabria. L'uomo che aveva invano tentato di ottenere fossero cestinati i pezzi in cui si parlava dell'inchiesta sull'Asl bruzia: un fiume di denaro secondo i pm finito nel mare degli incarichi esterni affidati con criteri discrezionali dal direttore generale Gianfranco Scarpelli, anch'egli indagato e adesso temporaneamente interdetto dai pubblici uffici. Tra i beneficiari, per la Procura, pure Andrea Gentile. Era a lui e al padre, lider maximo degli alfaniani in Calabria ed in predicato di divenire sottosegretario alla Giustizia nel governo Renzi, che De Rose voleva evitare l'onta mediatica, ammonendo quelli dell'Ora a fare attenzione, perché «il cinghiale, quando viene ferito, ammazza tutti»? Non ha dubbi Regolo, che le ingerenze le aveva già denunciate, con nomi e cognomi, in conferenza stampa. «Lo stampatore s'è posto, ed ha cercato di imporsi, come mediatore di Gentile», ha ripetuto anche ieri ai tanti che lo hanno cercato per manifestargli solidarietà. «Martedì sera - ha rincarato la dose l'editore del quotidiano calabrese, Alfredo Citrigno - De Rose mi ha chiamato per consigliarmi di non dare notizia dell'indagine a carico del figlio del senatore Gentile, precisandomi che, da sue fonti certe, gli altri giornali non l'avrebbero pubblicata. Ho deciso di non cedere a quelle richieste e di stare dalla parte dei miei giornalisti». Dopo lo stop forzato, L'Ora è tornata nelle edicole. Dando conto dei legami tra il dg interdetto ed il senatore, nelle cronache indicato come «il sostenitore più forte delle politiche di risanamento della sanità cosentina avviate da Scarpelli». Lo stesso che avrebbe poi elargito incarichi ad un avvocato, Nicola Gaetano, che stando agli atti di indagine resi noti dal quotidiano calabro sarebbe entrato nel mirino degli inquirenti perché sospettato di «aver agito per ottenere per sé il maggior numero di affidamenti e pilotare gli ulteriori affidamenti verso legali amici», tra i quali Andrea Gentile. Il parlamentare, estraneo all'inchiesta, affida il suo punto di vista ad una breve nota: «Si tratta di vicende assurde che ledono il mio onore e la mia reputazione. Ho dato mandato ai miei legali di proporre querela nei confronti di quanti, senza alcun elemento né contraddittorio, mi hanno accusato di essere il responsabile di una storia incredibile, alla quale sono totalmente estraneo». Intanto, De Rose smentisce di averne mai speso il nome nelle telefonate intercorse con l'editore e il direttore del foglio calabrese. «Resto in attesa che la Procura mi convochi per produrre la documentazione in mio possesso riguardo alle pressioni che Gentile, per interposta persona, ha effettuato per evitare che fosse divulgata l'indagine sul conto di suo figlio», ribatte Regolo, pronto a mettere sul tavolo le registrazioni dei famigerati colloqui. Al momento, però, i magistrati non si sono fatti sentire. E i nastri dell'Oragate restano in cassaforte.

Cosenza: quell'articolo è scomodo. E la rotativa del giornale si guasta. Il figlio di un senatore indagato. Un giornale chiuso in tipografia. Poi le pressioni dell'editore e dello stampatore sulla direzione, scrive  Giuseppe Baldessarro su La Repubblica”. Non volevano che si sapesse che il figlio del senatore era indagato. Così, l'editore del giornale ha prima fatto pressione sul direttore perché togliesse l'articolo dal giornale e poi, al suo rifiuto, stranamente, si è rotta la rotativa. Sta di fatto che "L'Ora della Calabria" stamattina non era in edicola. La denuncia è arrivata con una nota del direttore del quotidiano regionale Luciano Regolo che ha riassunto la vicenda in poche righe rese pubbliche nel pomeriggio.  Scrive Regolo: "Ieri notte si è consumato un fatto gravissimo per la libertà di stampa, la violazione delle più elementari regole della democrazia e del vivere civile".  E spiega: "Ultimata la lavorazione del giornale, a tarda ora, l'editore mi ha chiesto se non fosse possibile ritirare dalla pubblicazione l'articolo relativo all'indagine in corso sul figlio del senatore Tonino Gentile, Andrea, al quale sono contestati i reati di abuso d'ufficio, falso ideologico e associazione a delinquere nell'ambito del caso Azienda sanitaria provinciale di Cosenza. Di fronte alla mia insistenza, nella difesa del diritto di cronaca, ho minacciato all'editore stesso le mie dimissioni qualora fossi stato costretto a modificare il giornale, vanificando il mio lavoro e quello dei miei colleghi". "Mentre discutevamo di questo, in mia presenza - prosegue - e in viva voce, l'editore ha ricevuto la telefonata del nostro stampatore Umberto De Rose, il quale, ponendosi come "mediatore" della famiglia Gentile, faceva ulteriori pressioni per convincerlo a non pubblicare la notizia, ricordandogli che "il cinghiale, quando viene ferito, ammazza tutti". Avendo io ribadito all'editore che non intendevo in alcun modo censurare ciò che era stato scritto, ci siamo salutati. Così De Rose, dopo avere chiamato insistentemente la redazione, soltanto alle due di notte ha fatto sapere che il giornale non poteva andare in stampa per un guasto alle rotative".  Secondo il direttore dell'Ora della Calabria: "È evidente che si è trattata di un'azione intollerabile e ingiusta, e aspetto serenamente che la Procura di Cosenza mi convochi per produrre la documentazione in mio possesso riguardo alle pressioni che Gentile, per interposta persona, ha effettuato per evitare che fosse divulgata l'indagine sul conto di suo figlio". Inutile dire che la notizia ha sollevato un vespaio di polemiche, anche se la notizia del coinvolgimento di Andrea Gentile è comparso su altre testate e siti giornalistici. Nei giorni scorsi infatti  le indagini della Procura di Cosenza sugli incarichi concessi dall'Azienda sanitaria si era arricchito di un nuovo fascicolo che coinvolgeva due avvocati. Ossia Alessandro Ventura, legale di Paola, e Andrea Gentile, figlio di Tonino, senatore e coordinatore regionale del Nuovo centrodestra. La conferma dell'iscrizione di un procedimento a carico dei due è contenuta in un atto del 24 gennaio scorso, firmato dal pm Domenico Assumma, del Procura di Cosenza. Contro i legali l'ipotesi di reati come l'abuso d'ufficio, il  falso ideologico, la truffa ed l'emissione di fatture per operazioni inesistenti. Non ultimo  compare la contestazione dell'associazione per delinquere. Una notizia spinosa dunque, anche in virtù della fase politica particolarmente delicata. Per questo, ipotizza di fatto Regolo, si sarebbe tentato di farla sparire dal giornale. Ieri sera tuttavia è arrivata la smentita dello stampatore Umberto De Rose, che in una nota racconta la sua versione dei fatti: "Non avrei avuto nessuna necessità di fare pressioni preventive, atteso che il guasto lo avrei potuto simulare a qualsiasi ora". Aggiunge poi: "Garantisco la libertà di stampa di questo giornale, considerato che da circa dieci mesi non vengono adempiuti gli obblighi contrattuali di controparte". Nel caso "Se già il suo editore gli stava facendo pressioni per quella vicenda, che interesse avevo io a perorare cause di terzi? Voglio ribadire che l'editore è l'unico ad avere un potere sulla direzione e non certo lo stampatore".

«Vi racconto la verità sulle telefonate per bloccare la notizia sul figlio del senatore Gentile», scrive Luciano Regolo su “L’Ora della Calabria” .«La Procura di Cosenza mi convochi». «Lettrici e lettori carissimi, se non ci avete trovato in edicola ieri è perché nella notte tra il 18  e il 19 febbraio si è consumato un fatto gravissimo per la libertà di stampa, la violazione delle più elementari regole della democrazia e del vivere civile. Ultimata la lavorazione del giornale, a tarda ora, l'Editore mi ha chiesto se non fosse possibile ritirare dalla pubblicazione l'articolo relativo all'indagine in corso sul figlio del senatore Tonino Gentile, Andrea, al quale sono contestati i reati di abuso d'ufficio, falso ideologico e associazione a delinquere nell'ambito del caso Asp. In particolare Alfredo Citrigno mi faceva notare che nessun sito degli altri quotidiani calabresi (l'unico coraggioso in effetti è stato quello del settimanale “Il Corriere della Calabria”) dava questa informazione e mi chiedeva se ci fosse la documentazione certa, altrimenti di soprassedere. Io non soltanto ho confermato che l'articolo era ampiamente documentato e corredato delle opportune verifiche, ma difendendo il diritto di cronaca, ho minacciato le mie dimissioni qualora fossimo stati costretti, io e l'Editore, a modificare il giornale, vanificando il mio lavoro e quello dei miei colleghi. Per altro ci tengo a precisare che nei due miei mesi di direzione Citrigno non mi aveva mai chiesto di rivedere o modificare i contenuti del giornale e che per questo, fin dal principio di questa nostra conversazione, mi sono reso conto che c'era qualcosa di strano, qualcosa che lo rendeva quasi confuso, intimorito. Mentre discutevamo di questo nella sua auto, in viva voce, essendo lui al volante ed essendoci tra noi un rapporto di assoluta stima, confidenza e fiducia reciproca, l'Editore, che nel frattempo mi stava dando un passaggio a casa, ha ricevuto la telefonata del nostro stampatore Umberto De Rose, il quale, ponendosi come «mediatore» della famiglia Gentile, faceva ulteriori pressioni per convincerlo a non pubblicare la notizia, ricordandogli che «il cinghiale, quando viene ferito, ammazza tutti». E che Tonino Gentile sarebbe potuto diventare «sottosegretario alla giustizia, quindi se vede che solo tu pubblichi questa notizia poi qualche danno te lo fa». Conclusa la conversazione telefonica, ho visto l'Editore molto provato penso anche per le vicende legali che coinvolgono la sua famiglia, agli attacchi mediatici che ha ricevuto negli ultimi tempi e rimando al riguardo a quanto ho già scritto in un mio editoriale dal titolo "Vogliono tapparci la bocca"-  e gli ho ribadito comunque che non potevamo in alcun modo censurare ciò che era stato scritto. Quindi, ci siamo salutati cordialmente, come sempre. Così, De Rose, dopo avere chiamato insistentemente la redazione, soltanto alle due di notte ha fatto sapere che il giornale non poteva andare in stampa per un guasto alle rotative. In questa pagina trovate anche la replica di De Rose, che pubblichiamo proprio per coerenza con l'opposizione a ogni forma di censura, nonostante il contenuto sia ampiamente discutibile. De Rose afferma che se avesse inteso ostacolare l'uscita del giornale poteva inventarsi il guasto a qualunque ora e senza fare pressioni su nessuno, ma non spiega perché, era al telefono con l'Editore, passata la mezzanotte a convincerlo che doveva non farmi pubblicare la notizia (per lui «una follia»), per non far infuriare il «cinghiale» (i Gentile) che avrebbero «ammazzato tutti». Né spiega perché insistentemente chiedeva a Citrigno di richiamarlo per rassicurarlo che la notizia fosse stata tolta, in modo che a sua volta potesse avvertire i Gentile, i quali, a suo dire, avevano già avuto la certezza («al cento per cento») che gli altri quotidiani non l'avrebbero riportata. De Rose, infine, non spiega perché l'avvenuto guasto sia stato comunicato alla redazione soltanto dopo che lui ha avuto la certezza che l'articolo sul figlio di Gentile non sarebbe stato tolto. Non capisco che cosa c'entrino i contenziosi amministrativi cui allude, non capisco che cosa c'entri il fatto che io non lo conosca personalmente. Mi sembrano linguaggi, logiche poco chiare. Ciò che invece mi sembra chiaro e incontrovertibile è il fatto che la mancata messa in stampa dell'Ora si sia trattata di un'azione intollerabile e ingiusta, un danno sia per la redazione sia per l'Editore, e aspetto serenamente che la Procura di Cosenza mi convochi per produrre la documentazione in mio possesso riguardo alle pressioni che Gentile, per interposta persona, ha effettuato per evitare che fosse divulgata l'indagine sul conto di suo figlio. Un senatore della repubblica dovrebbe difendere la libertà di stampa. O sbaglio?»

L'Editore Alfredo Citrigno su “L’ora della Calabria”: «Ecco la verità, travisate le mie parole». «Il direttore mi aveva rassicurato sulla fondatezza degli atti» .«Nonostante sia stato raggiunto da insistenti telefonate, che mi hanno turbato, ho deciso di non cedere a quelle richieste». « Alla luce della vicenda che riguarda il giornale di cui sono editore, intendo precisare quanto segue: intorno alle ore 19 di martedì ricevo una telefonata da parte dello stampatore il quale mi consiglia di non pubblicare la notizia dell'indagine a carico del figlio del senatore Tonino Gentile, perché non fondata precisandomi che, da sue fonti certe, gli altri giornali non l'avrebbero pubblicata. A quel punto ho chiesto al direttore di accertarsi della veridicità della notizia e lo stesso mi ha rassicurato prontamente sulla fondatezza degli atti.
Nonostante sia stato raggiunto da altre insistenti telefonate, che mi hanno profondamente turbato, ho deciso comunque di non cedere a quelle richieste e di stare dalla parte dei miei giornalisti che invito, ora, a proseguire nel cammino già intrapreso, in piena e assoluta autonomia. Chiedo scusa ai lettori dell'Ora per la mancata pubblicazione per cause non imputabili all'editore».
«Ho chiesto la verifica al direttore della veridicità e della fondatezza della notizia riguardante l'indagine a carico del figlio del senatore Gentile». A parlare è Alfredo Citrigno, editore dell'Ora della Calabria. «La mia domanda traeva origine del fatto che nè i siti degli altri quotidiani calabresi, né le agenzie di stampa avevano pubblicato la notizia. La mia preoccupazione, quindi, derivava solo da questo. Da qui la mia insistenza col direttore sulla verifica della notizia e sull'opportunità della pubblicazione. Lui mi ha risposto dicendomi che era in possesso dei relativi atti e pertanto ha deciso di pubblicare ugualmente l'articolo. Che poi il giornale non sia stato stampato e non sia dunque arrivato in edicola non è dipeso sicuramente da me. Anzi, la mancata pubblicazione ha rappresentato per me un danno economico».

«Se Luciano Regolo afferma Umberto De Rose, proprietario dello stabilimento tipografico ipotizza che ho volontariamente dichiarato un guasto alla rotativa per impedire la stampa del giornale, allora devo replicare su tre aspetti fondamentali. Il primo aspetto è che non avrei avuto nessuna eventuale necessità di fare pressioni preventive, atteso che il guasto lo avrei potuto simulare a qualsiasi ora. Il secondo aspetto è che garantisco la libertà di stampa di questo giornale, considerato che da circa dieci mesi non vengono adempiuti gli obblighi contrattuali di controparte. Ed infine il terzo aspetto è che se già il suo editore gli stava facendo pressioni per quella vicenda, che interesse avevo io a perorare cause di terzi? Voglio ribadire che l'editore è l'unico ad avere un potere sulla direzione e non certo lo stampatore. A dimostrazione di ciò voglio solo affermare che non conosco personalmente Luciano Regolo nonostante lui diriga questo giornale da qualche mese».

«La vicenda che ha coinvolto L'Ora della Calabria dichiara Giuseppe Soluri, presidente dell'Ordine dei giornalisti calabresi -, e le pressioni che il direttore responsabile del giornale, Luciano Regolo, afferma di avere subito dal suo editore e, attraverso lo stesso editore, anche dallo stampatore, rappresentano plasticamente la situazione di difficoltà, di debolezza e, in qualche caso, di degrado in cui si muove l'editoria calabrese. Nell'occasione Regolo ha denunciato il fatto ed ha resistito alle pressioni, e non possiamo che essere felici di questo. Il fatto conferma però, purtroppo, che quando la proprietà di un giornale è legata ad interessi non solo editoriali ma anche in qualche misura direttamente dipendenti da scelte politiche, è facile immaginare a quali e quante pressioni un direttore o una redazione siano quotidianamente sottoposti e quanto sia difficile difendere lo spazio di libertà che la stampa deve avere. Nel riaffermare il diritto dei giornalisti a non essere sottoposti a pressioni o censure di alcun genere da parte di chicchessia ed il diritto dei direttori dei giornali di esseri interpreti della linea editoriale concordata con gli editori e non certo gli insabbiatori di questa o quella notizia, l'Ordine dei Giornalisti della Calabria ribadisce la necessità che i giornalisti abbiano sempre e soltanto la propria coscienza, il proprio senso di responsabilità e la propria deontologia professionale come punti di riferimento nello svolgimento del loro difficile lavoro. La libertà di stampa passa attraverso questi punti fermi e non può tollerare intrusioni o pressioni di alcun genere».

Inoltre l'editore dell'Ora della Calabria, Alfredo Citrigno, ha diffuso un comunicato in merito al sequestro di beni nei confronti del padre Pietro Citrigno. «Anche questa vicenda è stata utilizzata in malafede da terzi come gogna mediatica a danno della mia famiglia». L'editore dell'Ora della Calabria Alfredo Citrigno, figlio dell'imprenditore Pietro Citrigno, ha diffuso il testo di una dichiarazione in merito al sequestro di beni nei confronti del padre. «In merito al sequestro emesso dal tribunale di Cosenza, sezione penale misure di prevenzione notificato stamane e avente come oggetto beni rientranti nel patrimonio familiare si afferma nella dichiarazione nella qualità di figlio di Pietro Citrigno dichiaro che le questioni inerenti l'atto giudiziario summenzionato saranno prontamente discusse e risolte nelle opportune sedi giudiziarie dove sicuramente emergeranno "tante verità" e dove dimostreremo che tutto quanto ingiustamente esposto ad un grave provvedimento illegittimo è stato ed è frutto del lavoro di anni dell'intera famiglia Citrigno, ricordando che sin dalla maggiore età io e le mie sorelle Filomena e Simona ci siamo dedicati alle attività imprenditoriali personalmente ed attivamente». «Prendo atto che anche questa vicenda prosegue Alfredo Citrigno è stata utilizzata in malafede da terzi come gogna mediatica a danno della mia famiglia. A tal proposito ho già conferito mandato ai miei avvocati affinché ogni buon diritto della famiglia Citrigno ottenga la giusta e dovuta tutela. Sono comunque fiducioso perché confido nella serenità e nell'autonomia della magistratura».

Non dimentichiamoci, poi, l’esclusiva notizia data proprio dal suo giornale.

Accuse selezionate ad hoc: «I favori del pm Mollace». Il magistrato sarà sentito dalla Procura di Catanzaro. Da poco più di due mesi in servizio alla procura generale della Corte d’appello di Roma. Prove celate, indagini che avrebbero potuto svelare i retroscena di un delitto, insabbiate. è su una serie di omissioni,compiute al solo fine di favorire la ‘ndrangheta, che  l’ex sostituto procuratore generale di Reggio Calabria, da poco più di due mesi in servizio alla procura generale della Corte d’appello di Roma, Francesco Mollace dovrà spiegare alla Procura di Catanzaro che lo ha indagato per corruzione in atti giudiziari, scrive Gabriella Passariello  su “L’Ora della Calabria”. Il magistrato, che può considerarsi uno dei pilastri storici dell’antimafia, ha ricevuto un avviso a comparire vergato dal procuratore capo della Repubblica del capoluogo Vincenzo Antonio Lombardo, dall’aggiunto Giuseppe Borrelli, dai sostituti Gerardo Dominijanni e Domenico Guarascio. Per lunedì prossimo è previsto il faccia a faccia e quel giorno, il 24 febbraio, un dato può già dirsi certo: Mollace non si avvarrà della facoltà di non rispondere. Questo interrogatorio lui l’attendeva da tempo. Dovrà difendersi dalle accuse che gli vengono contestate, spiegando perché da sostituto procuratore della Dda di Reggio, preposto alla gestione e alla trattazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Maurizio Lo Giudice  e Paolo Iannò, non avrebbe svolto alcuna attività investigativa inerente i contenuti delle prove raccolte, dichiarazioni convergenti «quanto all’esistenza della cosca Lo Giudice anche dopo il 1991 e quanto alla perpetrazione dell’omicidio di Angela Costantino», moglie del boss Pietro Lo Giudice. fatta sparire e secondo l’accusa uccisa per salvare l’onore del capoclan «da parte dei componenti la medesima famiglia ‘ndranghetista». Avrebbe omesso, secondo le ipotesi di accusa, di riaprire le indagini sulla scomparsa della Costantino, senza vagliare e comparare le dichiarazioni dei due pentiti. Con un’unica conseguenza. Che Mollace avrebbe per così dire selezionato i contenuti e le prove rese attraverso le dichiarazioni di Maurizio Lo Giudice e Iannò, fornendone un quadro parziale, gli inquirenti utilizzano il verbo “parcellinare”. Nessun riscontro al narrato dei collaboratori, neanche per quanto concerne «la pervicacia ed esistenza della famiglia Lo Giudice quale cosca operante nel territorio reggino, ricevendo quale utilità, da parte della predetta cosca, la dazione gratuita dei servizi di manutenzione e rimessaggio dei natanti ormeggiati nel cantiere di Calamizzi, gestito e diretto da Antonino Spanò e Luciano Lo Giudice, il primo quale prestanome del secondo». Fatti accaduti in data anteriore e prossima al 30 ottobre 2010. Un’inchiesta, quella che vede indagato Mollace, che nasce dal memoriale sul “Nano”, lo pseudo pentito Antonino Lo giudice  che ha fornito nomi e cognomi di chi avrebbe materialmente piazzato l’ordigno del 3 gennaio di quattro anni fa davanti alla Procura generale di Reggio Calabria, quello del 26 agosto seguente all’ingresso dell’abitazione del procuratore generale Di Landro e il bazooka fatto ritrovare il 5 ottobre dello stesso anno a poche centinaia di metri dal Cedir, sede della Direzione distrettuale Antimafia di Reggio.  Salvo poi ritrattare la sua versione dei fatti, scappare dalla località protetta, per finire di nuovo dietro le sbarre.

Parliamo di Giancarlo Giusti. Per venir fuori dal carcere bastava pagare, scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica”. Al resto ci pensava la "toga" amica. Gli avvocati presentavano istanza al Tribunale della Libertà, poi lui, il giudice Giancarlo Giusti, trovava il cavillo giusto e gli 'ndranghetisti tornavano a casa. L'ultima volta al clan Bellocco è costato 120 mila euro. In compenso, il 27 agosto del 2009, la cosca di Rosarno potè riabbracciare Rocco Bellocco, Domenico Bellocco e Rocco Gaetano Gallo, arrestati alcuni mesi prima nell'operazione congiunta tra le procure di Reggio Calabria e Bologna, "Rosarno è nostra". A Giusti arrivarono, 120 mila euro, ossia quanto previsto dal suo personale tariffario. Lui prevedeva  40 mila euro a testa. Il 14 febbraio 2014 mattina sono finiti in manette in otto. Il giudice e altri sette esponenti della "famiglia". Contro la toga l'accusa di corruzione in atti giudiziari e concorso esterno in associazione mafiosa. Per i magistrati della Procura di Catanzaro (l'inchiesta porta la firma dell'Aggiunto Giuseppe Borrelli e del sostituto Vincenzo Luberto) era "a disposizione" della 'ndrangheta. Ad inchiodare l'allora giudice del Tribunale del riesame una serie di intercettazioni provenienti da diverse indagini. Dialoghi che singolarmente non avevano significato, ma che gli specialisti della Squadra Mobile di Reggio Calabria hanno rimesso assieme in maniera certosina, incastrando ogni tassello in un unico mosaico. L'operazione "Abbraccio", che ha portato all'arresto di sette persone in tutto, ha dimostrato l'esistenza di un sistema consolidato. Giancarlo Giusti, era già rimasto incastrato nella rete di un'altra inchiesta. E infatti si trovava già ai domiciliari per una condanna a 4 anni nell'ambito di una inchiesta della Dda di Milano ed era stato sospeso dal Csm. Stava aspettando il giudizio definitivo in casa perché, mentre era dietro le sbarre, dopo la sentenza di primo grado aveva tentato il suicidio. Era un giudice particolare "Giusti", amava la bella vita e belle donne. Quando venne arrestato la prima volta gli investigatori a casa sua trovarono un diario nel quale si appuntava, e raccontava, le notti trascorse le prostitute che i boss del clan Valle-Lampada gli procuravano in cambio di informazioni. Per i giudici di Palmi che firmarono l'ordinanza di custodia cautelare in carcere il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, tutti documentati. Nei suoi appunti si scoprì che c'era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Eclatante un'intercettazione captata mentre parlava con alcuni 'ndranghetisti, nella quale si vantava della sua astuzia: "... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...".

'Ndrangheta, in manette il magistrato Giusti. «Dovevo fare il mafioso» 120mila euro per la scarcerazione, scrive “L’Ora della Calabria”. Arrestate sette persone del clan Bellocco: sono accusati di corruzione in atti giudiziari aggravata dall'art.7 della legge 203/91 e concorso esterno in associazione mafiosa. Già arrestato nel 2012. Poi tentò il suicidio in carcere. La Polizia di Stato di Reggio Calabria, al termine di un complessa indagine coordinata dalla Procura Distrettuale di Catanzaro, ha eseguito sette ordinanze di custodia cautelare nei confronti di soggetti contigui alla cosca Bellocco, operante nella Piana di Gioia Tauro, ritenuti responsabili, a vario titolo, di corruzione in atti giudiziari aggravata dall'art.7 della legge 203/91 e concorso esterno in associazione mafiosa. Lo riferisce una nota della Polizia di Stato. Tra i soggetti colpiti dal provvedimento restrittivo figura anche un magistrato, attualmente sospeso dalle funzioni, in quanto coinvolto in una precedente vicenda giudiziaria. Si tratta di Giancarlo Giusti che all'epoca dei fatti era magistrato del Riesame di Reggio Calabria. 47 anni, era già ai domiciliari perché arrestato nel marzo del 2012 nell'ambito di un'operazione della Dda di Milano e condannato, nel settembre del 2012, a quattro anni di reclusione con l'accusa di corruzione in atti giudiziari. Giusti, dopo la sentenza, tentò il suicidio in carcere ma venne salvato e qualche mese più tardi ha ottenuto i domiciliari per motivi di salute. Il magistrato ha prestato servizio sia al Tribunale di Reggio Calabria sia a quello di Palmi. In quell'occasione era stato accusato di avere accettato viaggi a Milano ed escort pagate da Giulio Lampada, condannato in primo grado a sedici anni di reclusione e considerato imprenditore e personaggio di vertice della famiglia omonima. Le persone raggiunte dall'ordinanza di custodia cautelare sono: Giancarlo Giusti di 47 anni, già detenuto; Rocco Bellocco di 62 anni, già detenuto; Rocco Gaetano Gallo di 61 anni, già detenuto; Domenico Puntoriere di 59 anni; Vincenzo Albanese di 37 anni; Domenico Bellocco di 34 anni; Giuseppe Gallo di 30 anni; Gaetano Gallo di 60 anni. Una somma di 120 mila euro per disporre la scarcerazione di alcuni esponenti di spicco della cosca Bellocco: è l'accusa mossa dagli investigatori, sulla base di intercettazione telefoniche ed ambientali, a Giancarlo Giusti. Il fatto, secondo l'accusa, risale al 27 agosto 2009 quando Giusti, in qualità di componente del Tribunale del riesame di Reggio Calabria, dispose la scarcerazione di alcuni esponenti dei Bellocco contribuendo, così «al rafforzamento del programma criminoso» della cosca. «Ossessionato» dal sesso e anche capace di dire «io dovevo fare il mafioso, non il giudice». E' il quadro emerso dall'inchiesta condotta negli anni scorsi dalla Dda di Milano a carico del giudice Giancarlo Giusti. Agli atti dell'inchiesta milanese, conclusa con una condanna in primo grado a 4 anni di reclusione, c'è una telefonata intercettata dagli inquirenti in cui Giglio, parlando con Giulio Lampada, dice: «Non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di ... ma io dovevo fare il mafioso, non il giudice». Giusti, secondo quanto scrisse il gip di Milano nell'ordinanza di custodia cautelare, aveva inoltre «l'ossessione per il sesso» e per «divertimenti, affari, conoscenze utili». In un «diario informatico» sequestrato dagli inquirenti milanesi, in cui Giglio annotava tutto ciò che faceva, sono state trovate varie annotazioni, tipo: «venerdì notte brava con (...) Simona e Alessandra. Grande amore nella casa di Gregorio».

Parliamo di Giuseppina Pesce. La giovane mamma calabrese ha permesso l'arresto dei familiari e il sequestri di beni per 224 milioni di euro. Arrestata aveva iniziato a collaborare con gli inquirenti della Dda di Reggio Calabria. Dopo una strana ritrattazione è tornata a essere collaboratrice di giustizia, scrive Giovanna Trinchella suIl Fatto Quotidiano”. Da Rosarno all’aula bunker di Rebibbia. Sono poco meno di 650 i chilometri che separano Giuseppina Pesce, figlia, sorella e nipote di boss di una delle cosche più potenti della Calabria, dalle sue origini, dalla sua storia e dalla sua famiglia. Ma è una distanza enorme quella percorsa da questa giovane mamma di 30 anni che dal suo arresto, nell’aprile del 2010, è diventata una collaboratrice di giustizia. Che lunedì prossimo a Roma testimonierà contro gli imputati del maxi processo di Palmi – iniziato nel luglio dell’anno scorso – contro esponenti della ‘Ndrangheta che anche lei, passando per una sofferta ritrattazione, ha contribuito a far arrestare. Compresi i suoi familiari più stretti. Giuseppina è l’unica delle donne che, negli ultimi tempi, sono andate contro la ‘Ndrangheta a essere viva. Maria Concetta Cacciola è morta dopo aver bevuto misteriosamente dell’acido e i suoi familiari sono in carcere per istigazione al suicidio. Il corpo di Lea Garofalo invece non è mai stato trovato. I sei uomini che sono stati condannati all’ergastolo, compreso l’ex marito e padre di sua figlia, l’avrebbero sciolta in cinquanta litri di acido. A tutte e tre queste donne è stato dedicato l’ultimo 8 marzo. Nell’ottobre del 2010 Giuseppina, che all’interno della cosca aveva il compito di fare da staffetta di ordini tra il padre in carcere e i suoi uomini fuori, decide di collaborare. Dice di volere assicurare ai tre suoi figli un futuro diverso. Fuori dalla criminalità organizzata. Dove lei aveva avuto quel ruolo di collegamento per portare al di là delle sbarre le richieste estorsive. Ma anche di avere partecipato all’attività di intestazione fittizia di beni e per riciclare i soldi sporchi della cosca, che solo per farne comprendere la forza aveva un bunkerista di fiducia. Una breccia, la collaborazione di Giuseppina nell’impenetrabile universo ‘ndraghetista, che ha permesso agli inquirenti calabresi, che ne sottolineano la novità e l’eccezionalità, di ricostruire la piramide del potere dei Pesce. Con Antonino, lo zio della collaboratrice, a capo e con il figlio Francesco, subentrato prima dell’arresto, al boss. E poi il ruolo di suo padre e del fratello, anche lui di nome Francesco, della madre e della sorella. Arrestati. Il suo racconto, le sue dichiarazioni anche hanno permesso di sequestrare beni per 224 milioni di euro. Giuseppina ha così raccontato di avere saputo dal fratello e dal marito che esistono gerarchie e gradi, che si acquisiscono attraverso la commissione di reati. Chi dimostra maggiore capacità criminale viene promosso. Il fratello le aveva confidato di avere la “santa” e quindi di avere uno dei gradi più alti nella speciale carriera della società mafiosa. Non solo i gradi, ma anche le alleanze ed ecco che così Giuseppina agli inquirenti della Dda di Reggio Calabria, l’aggiunto Michele Prestipino e il pm Alessandra Cerreti, ne descrive la composizione: “Lo so perché, come le ripeto, le dicevo ci sono le squadre, no?, e quindi loro sono i tifosi, ci sono le persone vicine alla famiglia Pesce, cioè ha le su famiglie, e la famiglia Bellocco ha le famiglie di cui parlavo prima, gli Ascone, i Cacciola (cui apparteneva Maria Concetta, amica di Giuseppina ndr), adesso mi sfugge… Olivieri, e i Cacciola sono… lui, la sua famiglia insomma, fanno parte di quelle famiglie vicine ai Bellocco, insomma…”. Giuseppina, da interna, sa tante cose: “Stando dentro una famiglia che di questi discorsi ne senti, dove vai, anche… cioè anche non facendone parte, non prendendo parte ai discorsi però li senti, è così!. Eh, bisogna viverci! Non vuol dire però che si condividono, eh, questo volevo puntualizzare… le so però non vuol dire che sono cose che… cioè, magari, fa anche male saperli e anche male sentirli e anche respirarle”. Chissà come deve essere respirare la ‘Ndrangheta. Le indagini che hanno riunificato le operazioni dei carabinieri “All Inside” 1 e 2 erano partite dopo l’omicidio, nell’ottobre del 2006, di Domenico Sabatino, considerato uomo dei Pesce. All’improvviso però Giuseppina, era il 2 aprile del 2011, decide di interrompere la collaborazione. Non vuole più essere una pentita. In una lettera la giudice dichiara di essere stata “indotta” a fare le dichiarazioni eppure il giorno 4 aprile, interrogata dal pm che ancora non è informato della novità, risponde. Solo l’11 aprile si avvale della facoltà di non rispondere e ammette di essere in contatto con la sua famiglia e con quella del marito; tutti le avevano offerto sostegno economico per le spese legali e tutto ciò di cui, rinunciando alla protezione dello Stato, avrebbe avuto bisogno per sé ed i figli. Poi l’arresto a giugno per evasione dagli arresti domiciliari. Dopo qualche giorno spiega le sue ragioni. Per esempio la non condivisione da parte dei figli, pur giovanissimi, della sua collaborazione e in particolare della figlia maggiore adolescente. E poi anche un’altra verità forse quella più sentita; il timore che qualcosa di male potesse accadere ai suoi cuccioli. Giuseppina era assolutamente consapevole che se quel giorno, l’11 aprile, avesse regolarmente risposto alle domande, non avrebbe più rivisto i figli. Che ora stanno con lei. Sotto protezione. Come questa mamma che respirava la ‘Ndrangheta sognava e scriveva alla sua Angela in una poesia.

Palmi, decine di condanne per il clan Pesce. Pene pesanti per la famiglia di Giuseppina. Regge l'impianto accusatorio basato sulle accuse della pentita che ha puntato il dito contro i suoi congiunti. Inflitti 27 anni al padre, 25 al fratello; condannate anche la madre e la sorella. Per Antonino Pesce, indicato come capo della potente cosca di Rosarno, la pena più pesante: 28 anni, scrive Domenico Galatà su “Il Quotidiano della Calabria”. Si chiude con 42 condanne, 20 assoluzioni e due prescrizioni il processo di primo grado a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, contro il potente clan Pesce di Rosarno. Regge quindi l'impianto accusatorio basato sulle dichiarazioni della testimone di giustizia Giuseppina Pesce, che ha puntato il dito contro la propria famiglia. E proprio per i suoi congiunti le pene sono durissime: 27 anni e 7 mesi al padre Salvatore; 25 anni e 8 mesi al fratello Francesco che di anni ne ha 29; 13 anni e 5 mesi alla madre, Angela Ferraro; 12 anni e 10 mesi alla sorella Maria Grazia. Condannato anche il marito e padre dei figli di Giuseppina, Rocco Palaia: dovrà scontare 21 anni e due mesi di reclusione. Alla pentita, per la quale l'accusa aveva chiesto 4 anni, il tribunale ha inflitto 4 anni e 10 mesi. La pena più alta in assoluto, 28 anni, è stata inflitta ad Antonino Pesce, detto "testuni", accusato di essere il capo della cosca. Per Giuseppe Ferraro, fratello della madre di Giuseppina, la pena è di 26 anni. Inflitti 16 anni e 4 mesi all'ex dirigente sportivo Domenico Varrà, ma il giudice ha rigettato la richiesta di confisca del Sapri Calcio. Tra gli assolti, invece, c'è anche l'altro presunto boss Rocco Pesce, per il quale l'accusa aveva chiesto 25 anni.

Un percorso avviato il 14 ottobre 2010 e assai tormentato, che adesso, a distanza di oltre tre anni, trova un decisivo punto fermo, con le motivazioni della sentenza di primo grado del procedimento "All Inside", con cui il Tribunale di Palmi ha inflitto condanne molto dure alla potente cosca Pesce di Rosarno. La protagonista è proprio lei, Giuseppina Pesce, figlia del boss Salvatore Pesce e collaboratrice di giustizia, scrive Claudio Cordova su “Il Dispaccio. Sposata con Rocco Palaia e madre di tre figli minorenni, Giusi Pesce tenterà per due volte il suicidio in carcere, poi deciderà di collaborare. Un percorso tormentato, che troverà il punto più basso con la missiva del 2 aprile 2011, allorquando la collaboratrice dichiarerà di voler interrompere la collaborazione, accusando i magistrati di averla indotta a rendere dichiarazioni false contro i propri parenti. Una decisione dettata dalle pressioni di una delle figlie, plagiata dai parenti e convinta a far di tutto per riportare la madre – che era diventata una minaccia per il clan – in Calabria: "L'obiettivo era quello di farmi tornare indietro. Sapeva che senza mia figlia non sarei andata da nessuna parte" dirà la giovane collaboratrice al pm Cerreti. Si spezza così il percorso collaborativo, in cui Giusi Pesce era accompagnata da un uomo, cui era legata sentimentalmente con una relazione extraconiugale che, per la prima volta, la "rispettava come donna" e le "voleva bene". Non tanto per la paura di essere punita, in base a quel "codice d'onore" che, all'interno della 'ndrangheta non ammette tradimenti e "corna", ma soprattutto per l'amore nei confronti dei figli, Giuseppina Pesce deciderà di non sottoscrivere il verbale illustrativo (a fine aprile), di uscire dal programma di protezione (maggio) e verrà arrestata per violazione degli arresti domiciliari (giugno). Dal luglio 2011, però, la giovane donna, rassicurata dalla presenza del sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti, che seguirà tutto il caso, deciderà infine di riprendere il percorso di collaborazione. Da quel momento non avrà più dubbi e anche in dibattimento accuserà i propri familiari, non senza difficoltà, non senza lacrime e commozione. La donna ammetterà l'esistenza della cosca Pesce, ripercorrerà le varie gerarchie interne al clan, descrivendo l'ascesa del cugino Francesco Pesce, detto "Ciccio Testuni" e riconoscerà i propri delitti di intestazione fittizia di beni. Dichiarazioni che contribuiranno a far eseguire all'autorità giudiziaria decine di arresti, di sequestrare beni per oltre 200 milioni di euro e, grazie all'attività in aula, di condannare numerosi boss e affiliati a uno dei casati storici della 'ndrangheta reggina. Una collaborazione che susciterà preoccupazione e terrore tra boss e affiliati, che non solo avranno paura per le conoscenze di Giuseppina (riversate agli inquirenti), ma anche sulla possibilità che altre donne del clan Pesce (figure fondamentali, per come emerso dalle indagini) potessero seguire le orme di Giusi "la pazza": "Il cervello delle femmine è un filo di capello" dice preoccupato in una conversazione intercettata Francesco Pesce. Dichiarazioni, quelle di Giuseppina, che convinceranno il Tribunale presieduto da Concettina Epifanio, che nelle motivazioni della sentenza "All Inside" userà parole nette sulla collaborazione (contestata, tanto dai parenti mafiosi, quanto da organi di stampa che si faranno, di fatto, strumenti delle volontà della famiglia): "Giuseppina Pesce conosce bene persone e personaggi che ha accusato, per essere sempre vissuta all'interno di una famiglia che a Rosarno, e non solo, ha sempre dettato legge. Ha strettissimi rapporti di parentela con la maggior parte dei soggetti chiamati in correità [...] non ha esitato ad accusare gli affetti più cari: il padre, la madre, la sorella Marina, il fratello Francesco, nei cui confronti non aveva motivo di risentimento o di rivalsa, anzi! La commozione a cui ha ceduto più volte nel corso dell'esame, soprattutto quando si trattava di far sentire la sua voce contro il suo sangue, la dice lunga dell'affetto che Giusi aveva per i componenti del suo stretto nucleo familiare. E se motivo di risentimento, in astratto, poteva avere nei confronti del marito, da cui aveva subito maltrattamenti e umiliazioni, risentita non si è affatto dimostrata nei suoi confronti, anzi! [...] Giuseppina ha accusato anche sé stessa di reati gravissimi; ha parlato solo di fatti da lei conosciuti o direttamente, o per esservi stata in qualche modo coinvolta, o per averli appreso dal racconto delle persone con le quali si rapportava abitualmente, indicando sempre le fonti da cui aveva attinto le sue conoscenze e senza aggiungervi nulla. Lei, che fin dalla nascita ha respirato il clima di sopraffazione e di intimidazione che la famiglia mafiosa alla quale apparteneva diffondeva attorno a sé, non ha avuto bisogno di millantare o di inventare; le è bastato dare la stura ai ricordi, mettendoli in ordine". Dopo una valutazione così lunga ed espressa in questi termini, la valutazione del Tribunale sull'attendibilità della collaboratrice non può che essere positiva: "Giuseppina ha deciso liberamente e senza alcuna costrizione di iniziare a collaborare con la giustizia e di riprendere la collaborazione, spinta solo dal desiderio di dare ai suoi figli un futuro diverso e migliore di quello che sarebbe loro toccato se fossero rimasti nell'ambiente dov'erano nati e avevano fino a quel momento vissuto; di dargli la possibilità di una vita diversa da come era stata la sua, scandita dalle visite continue in carcere, ora al padre, ora al fratello, ora al marito".

Il colpo più duro l'aveva ricevuto dalla figlia maggiore, 16 anni vissuti a Rosarno, in terra e famiglia di 'ndrangheta, ribellatasi all'idea di vivere con una madre «pentita» lontano dalla Calabria, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. «Mi dispiace ma ce l'ho con te, mamma, sono arrabbiata per quello che stai facendo - le ha scritto il 18 luglio scorso -. Questa è la tua scelta e la rispetto, ma sappi che lo stai facendo solo per te, non per noi che ci fai solo del male». Parole e toni aspri, forse troppo per una ragazzina che tentava di trasmettere anche sentimenti di affetto: «Avrei voluto stare con te perché ti amo e perché sei la mia mamma, però io non ce la faccio». Fino ad arrivare a un invito esplicito: «Non sono d'accordo con te, perché stai sputando nel piatto dove hai mangiato senza alcun senso. Spero che capisci quello che ti sto dicendo. Non lo dico per cattiveria, ma per farti capire quello che è sbagliato». Davanti a un simile ultimatum Giuseppina Pesce - 32 anni, nata e cresciuta nel clan che comanda a Rosarno, piana di Gioia Tauro, tre figli da educare con marito, genitori, fratelli, sorelle zii e cugini in galera - non poteva non vacillare ancora. Arrestata nella primavera del 2010 per associazione mafiosa, dopo sei mesi aveva deciso di collaborare con la giustizia, scaricando nuove accuse su di sé e sui parenti che l'avevano subito disconosciuta. Poi ad aprile 2011 il colpo di scena: Giusy Pesce si pente di essersi pentita, ritratta tutto, dice di essere stata condizionata e costretta nei precedenti interrogatori. Ma a giugno «evade» per un giorno dagli arresti domiciliari insieme all'uomo che nella sua vita ha preso il posto del marito. Rientra in carcere, e dopo poche settimane si rivolge nuovamente ai magistrati: «Sarebbe mia intenzione riprendere il percorso della collaborazione, sperando di poter recuperare la vostra fiducia». I pubblici ministeri della Procura antimafia di Reggio Calabria tornano da lei, il percorso riprende. Ma la figlia maggiore di Giusy si mette di traverso, con la sua lettera: «Per te è più importante quello che ti promettono loro oppure la tua famiglia e la nostra felicità? Se è la nostra felicità e la tua famiglia, allora fai in modo di non fare questo passo, cerca in tutti i modi di tirarti indietro finché sei in tempo... Non so che dirti, credimi, ma sono delusa». Stavolta però Giuseppina Pesce riesce a non retrocedere. Anche perché una settimana più tardi sua figlia torna a scriverle: «Io senza di te non ce la farò mai... A me quello che pensa o dice la gente non mi importa, io penso con la mia testa e decido io. Nella lettera precedente ti avevo detto che non venivo, però non era una mia scelta». Era la conferma di quel che Giuseppina immaginava, delle pressioni a cui la ragazza era stata sottoposta per convincere la madre a ritrattare per la seconda volta; a scegliere la protezione della famiglia (di sangue e di 'ndrangheta) anziché quella dello Stato. Ma Giusy ha resistito, raccontando tutto ai magistrati: «In quella lettera mi dice che sto sputando nel piatto dove mangio, e io da lì ho capito che non erano parole di mia figlia... non è un' espressione che usa... Ho capito che stava subendo delle pressioni». La madre riferisce anche dei successivi colloqui con la figlia: «Mi ha detto che mio marito le ha detto di scegliere tra me e lui...». Anche il marito di Giuseppina, Rocco Palaia, le ha scritto dal carcere dov'è rinchiuso. Con toni più concilianti quando la moglie era indecisa: «Quando usciamo facciamo finta che non è successo mai niente, promesso...». Poi con parole di risentimento: «Se ti può interessare ti faccio sapere che a tuo padre e a zio Pino gli hanno dato il 41 (il 41 bis, regime di carcere duro, ndr ) e sai benissimo chi glielo ha fatto dare», alludendo a lei, anche se non è vero. Infine con una sferzata dopo la nuova collaborazione coi giudici: «Mi domandavo da tanto tempo come mai tu ti sei, anzi ci hai rovinato la vita a tutti... Spero che Dio ti illumini». Rocco Palaia chiede alla moglie di lasciare in Calabria il figlio maschio, di nove anni, evitando di portarlo con lei: «Ha bisogno di essere seguito a scuola e deve andare al doposcuola, tu non sarai in grado». Secondo Giusy Pesce, il bambino le avrebbe rivolto questa frase a proposito del fidanzato della madre, su istigazione di uno zio: «Lui ha mancato di rispetto a mio padre, se io vengo e lui c'è io devo prendere un coltello e mentre dorme lo devo ammazzare». La pentita ha spiegato i motivi della sua ritrattazione, annunciata con una lettera pubblicata da un giornale locale: «Mio suocero mi ha offerto di pagare le spese legali e di provvedere a tutte le mie necessità economiche ove avessi deciso di interrompere la collaborazione. I contatti con la famiglia di mio marito sono avvenuti all' inizio attraverso mia figlia, che continuava a farmi pressioni affinché io recedessi dalla collaborazione». E a proposito della lettera in cui lamentava di essere stata costretta dai magistrati ad accusare i suoi familiari, dopo il cambio del difensore: «È stata scritta dall' avvocato... Nessuno mi ha mai costretta o indotta a rendere dichiarazioni, è stata una mia libera scelta». Il pubblico ministero Alessandra Cerreti, al processo in corso contro la cosca Pesce, ha prodotto tutte le lettere e le dichiarazioni sui condizionamenti subiti dalla pentita, e ha avviato un'indagine per istigazione a rendere false dichiarazioni a carico del suocero e dei cognati di Giuseppina Pesce. La quale in uno degli ultimi interrogatori ha rivelato che se pure avesse insistito sulla strada della ritrattazione, non se la sarebbe cavata: «Prima o poi sarei stata giustiziata, diciamo, per l'errore che ho fatto».

Eppure, al momento la ritrattazione di Giuseppina Pesce suscitò scalpore, anche se nessuno diede la notizia eccetto Calabria Ora con il suo direttore Piero Sansonetti.

Ndrangheta. "Costretta a pentirmi". Rosarno, l’ex collaboratrice di giustizia Giuseppina Pesce accusa i magistrati: sono stata obbligata a dire ciò che volevano per poter rivedere i miei bambini. Calabria Ora del 28/04/2011 a firma di Davide Varì. Il 2 aprile scorso Giuseppina Pesce, una delle principali pentite della ndrangheta (che con le sue dichiarazioni ha messo a soqquadro le cosche del Rosarnese) ha scritto una lettera al tribunale di Reggio nella quale lancia accuse gravissime. Dice di essere stata costretta a pentirsi, e di avere detto ai magistrati le cose che volevano che lei dicesse. In che modo? L’avvocato della signora Pesce, Giuseppe Madia, dice che i giudici hanno ignorato una perizia medica – condotta da un professionista nominato dal gip – la quale consigliava la scarcerazione o comunque l’avvicinamento a casa del- l’imputata; e hanno fatto capire alla signora Pesce che avrebbe potuto rivedere i suoi bambini solo se avesse rilasciato determinate dichiarazioni accusando i parenti. Dopo la perizia, Giuseppina Pesce anziché essere avvicinata a Rosarno è stata spedita a Milano. Pare che abbia tentato di suicidarsi. Poi in ottobre ha ceduto ai magistrati e ha deciso di parlare; subito dopo, ai primi di novembre, ha ottenuto gli arresti domiciliari. Siamo in possesso della lettera della Pesce ai giudici, con la quale annuncia la ritrattazione di tutte le sue dichiarazioni, e la pubblichiamo integralmente all’interno.

«Signor giudice: voglio ritirare tutte le accuse».

"Gentile signor giudice, con questa mia lettera voglio ritirare tutte le accuse che ho fatto nelle mie dichiarazioni precedenti. Mi sono decisa a fare questo non per paura ma per coscienza, perché ho detto cose che non rispondono alla realtà. Ho fatto quelle dichiarazioni in una grave situazione di mia malattia, soffrendo tantissimo per l’allontanamento dei miei bambini. I dottori che sono venuti a visitarmi quando ero detenuta hanno potuto vedere lo stato di malattia e di grave abbattimento che avevo in carcere, dove per disperazione ho messo a rischio la mia vita. Quando il giudice ordinò il mio avvicinamento a Reggio dal carcere di Lecce, speravo di poter vedere finalmente i miei bambini, che sono tre, un bambino con seri problemi di salute. Ma fu speranza per poco perché da Lecce mi mandarono a Milano, a quel momento ho capito che per me era la fine se non facevo quelle dichiarazioni che si aspettavano da me. Al giudice della causa spiegherò come nascevano le mie risposte alle domande che già avevano dentro le accuse e che senza pietà riguardavano i miei stretti familiari e che avevano tutte una condizione chiaramente detta: più accusi più sei creduta ma più accusi la tua famiglia ancora di più sei creduta. Ero talmente abbattuta che ho accusato i miei più stretti familiari di cose non vere. La paura e la malattia mi hanno fatto fare quelle dichiarazioni che mi hanno messo nell’anima una sensazione di vergogna. Mi sento come se mi hanno spogliata davanti a tutti senza riguardo per la mia dignità e per i miei affetti. Mi sento come se mi hanno usata. Oggi che mi sento meglio trovo il coraggio di ritirare quelle accuse, anche se si riaffaccia la paura di prima per un processo mostruoso che so che mi aspetta. A tutti, anche a quelli che ho fatto del male ingiustamente chiedo un poco di comprensione e di rispetto se possibile per il dramma che sto vivendo. In fede, Giuseppina Pesce".

L’avvocato Madia: «La Pesce ha detto ciò che i pm volevano dicesse», scrive ancora Davide Varì su Calabria Ora del 28/04/2011. «Sa quante volte ho parlato con la mia assistita? Una sola volta, e per di più in una caserma dei carabinieri. Poi, più nulla. Si figuri che adesso non so neanche dove si trovi». L’assistita dell’avvocato Giuseppe Madia ha un nome ingombrante, un nome che fa paura. Il nome dell’assistita dell’avvocato Madia è Giuseppina Pesce. Proprio lei: la più importante pentita di ndrangheta. La figlia del boss Salvatore Pesce, la donna che ha tirato in ballo e fatto arrestare sua madre e sua sorella e che con le sue rivelazioni ha fatto tremare uno del clan più potenti della Piana. «Ma quali rivelazioni – sbotta l’avvocato Madia – legga, legga pure», dice sventolando il faldone dell’interrogatorio. Insomma, la tesi dell’avvocato Madia è chiara e semplice: le denunce di Giuseppina Pesce sarebbero inconsistenti e per di più “estorte” sotto la “minaccia” velata di non farle più rivedere i propri figli. E la prova sarebbe una lettera che l’avvocato tiene in bella mostra sulla sua scrivania. Una lettera firmata da Giuseppina Pesce, una lettera di smentita e ritrattazione. Ma prima di consegnarla l’avvocato vuol raccontare di sé, della sua storia… E’ una famiglia di avvocati quella dei Madia, di grandi avvocati. Il capostipite è niente meno che Titta Madia, senatore della Repubblica e principe del foro. E anche lui, Giuseppe Madia, figlio del fratello di Titta, ha un curriculum niente male. «Si figuri se mi faccio impressionare: io ho difeso Renè Vallanzasca, solo per dirne uno. Guardi, guardi qui», dice mostrando la foto del bel Renè fasciato da un impeccabile tait grigio, che sfoggia un sorriso da canaglia con tanto di sigaretta stretta tra le labbra. «Era il giorno del suo matrimonio – racconta l’avvocato – fu celebrato in carcere e tra gli ospiti c’erano anche questi qui», racconta sornione indicando tre tizi. «Sa chi sono? Sono Frank Turatello e i due marsigliesi Berenguer e Bergamelli». Ma negli anni ’80 la passione dell’avvocato per i criminali belli e maledetti alla Vallanzasca ha lasciato il posto alla terribile vicenda di Alfredino Rampi. Il ragazzino caduto in un pozzo nella periferia romana e morto dopo giorni di angoscia e di agonia. Il Paese quei giorni lì si fermò davanti alla tivvù. Fu il primo grande evento mediatico. Alfredino morì. E nella memoria di milioni di italiani rimase l’immagine degli occhi di sua mamma, la signora Franca. Erano gli occhi disperati di un donna esausta. Esausta ma infaticabile. «Eccola – dice l’avvocato tirando fuori l’ennesima foto dal suo sterminato archivio – Eccola qui la signora Franca. Io ero il suo avvocato, l’avvocato di parte civile. Potevamo vincerlo quel processo lì», dice con un filo di commozione. «Eravamo riusciti a dimostrare che il primo intervento dei vigili fu sbagliato e fatale. Ma alla fine perdemmo. Purtroppo perdemmo ». Ne è passato di tempo dai celebri processi a Vallanzasca e dalla tragedia del piccola Alfredino. Ma evidentemente l’avvocato Madia ha ancora tante energie da spendere. Sarà per questo che ha deciso di occuparsi di una causa impopolare come quella di Giuseppina Pesce. «Legga questa perizia medica, legga cosa dice della signora Pesce», dice Madia allungando un fascicolo firmato dal dottor Nicola Pangallo, medico chirurgo e specialista in Psichiatria, e regolarmente depositato in Cancelleria. «Anzi, dia qui, glielo leggo io. Senta, senta che dice il dottore nominato dal gip: “la perizianda si trova in condizioni di salute particolarmente gravi da non consentire la prosecuzione della custodia cautelare in carcere. E ancora: “L’agente di servizio riferisce che la detenuta aveva tentato il suicidio per impiccagione”. E perché voleva ammazzarsi? Perché qualcuno l’aveva convinta che se non parlava non avrebbe più rivisto i propri figli. “La paziente è completamente assorta dalla sua realtà attuale e polarizza l’attenzione sulla speranza di abbandonare il regime detentivo per poter incontrare i propri figli: mia figlia mi ha chiesto, “ma sei tu la mamma?, ho paura che non mi riconosca più”. Ed ecco la raccomandazione del medico: le terapie di cui la perizianda necessita devono essere effettuate in una struttura penitenziaria in grado di offrire continua assistenza specialistica, preferibilmente non troppo lontana dai figli e al fine di consentire un più frequente contatto familiare” ». «Ecco – riprende l’avvocato – sa dov’è il posto più vicino a Reggio secondo la Procura? E’ Milano, naturalmente. Si rende conto? Pochi giorni dopo questa perizia in cui si auspicava un riavvicinamento con i figli che vivevano a Rosarno, Giuseppina Pesce è stata trasferita a Milano, a più di mille chilometri di distanza dai figli». A quel punto la donna è crollata ed ha deciso di collaborare. E in effetti il 14 ottobre del 2010 i pm Di Palma e Cerretti interrogano una Giuseppina Pesce decisamente più disponibile. Ma anche i pm sono più disponibili se consideriamo che un mese più tardi, il 4 novembre 2010 il Gup del tribunale di Reggio, “visto il parere favorevole del pm”, concede gli arresti domiciliari. «E’ evidente – racconta l’avvocato Madia – che la signora Pesce non ha detto la verità, ha solo detto quel che i magistrati volevano che dicesse, per questo – racconta allungando finalmente la lettera della figlia del boss – ha scritto queste cose…».

Ma dalle indagini sono emersi riscontri concreti. Le dichiarazioni ora ritrattate da Giusy hanno portato in carcere madre e sorella, scrive Consolato Minniti su Calabria Ora il 28/04/2011. In principio fu la “postina” del clan; poi divenne la grande accusatrice di amici e parenti; infine disse di non voler più collaborare con la giustizia: quelle dichiarazioni le sarebbero state “cavate” facendo leva su ciò a cui nessuna donna può rinunciare: i figli, sangue del proprio sangue, quello stesso che lei, probabilmente, ha sentito di aver tradito. Irrimediabilmente. In poco meno di un anno, Giuseppina Pesce ha cambiato volto. Lo ha fatto radicalmente almeno tre volte. Adesso la sua lettera rivela quello che l’ha spinta a non voler più parlare con i magistrati. Ci sarebbe stata una questione di coscienza alla base. Insomma, nessuna marcia indietro dettata da un ripensamento, ma semplicemente delle “non verità” spacciate per affermazioni precise e circostanziate. Avrebbe inventato tutto l’ex collaboratrice. Eppure dalle risultanze investigative dei carabinieri emerge chiaramente una credibilità intrinseca delle sue parole, riscontrate attraverso delle precedenti attività d’indagine. Del resto, che Giusy Pesce fosse una donna chiave del clan di Rosarno non è più un mistero da un pezzo. la postina del clan Non serve andare molto lontano per avere un’idea del contributo che la ragazza avrebbe dato alla consorteria mafiosa d’appartenenza. Lo si evince dal decreto di fermo contenuto nell’operazione “All inside” che ha portato proprio Giusy in carcere con l’accusa di essere un tramite del clan. Dalla cella, suo padre Salvatore e suo fratello Francesco impartivano gli ordini e lei avrebbe portato le informazioni a chi di dovere. È emblematica la lettera che don Turi Pesce le inviò il 12 aprile 2006, circa le dichiarazioni da fare in merito ad un processo che lo vedeva coinvolto. In questo contesto Pesce venne escusso relativamente ad un assegno bancario diede disposizioni alla figlia. Ecco parte della lettera così come inviata a Giusy: «Poi senti digli a Rocco di parlare subito con suo fratello Ciccio perchè stamattina mi anno interrogato per l’assegna e glielo detto che me la dato lui digli che glio detto così perché lui prende l’indulto e amme l’indulto mi serve che devo uscire e se lo chiamano io gli ho detto che lui è venuto al marchet e a preso dei liquori e altre cose per un totale di 300 e più euro che aveva il battesimo del figlio o figlia e che al market ceravate voi che mi avete chiamato se lo potevate prendere e io viò detto di si e che dopo che e tornato indietro cià dato i soldi così anche lui non sapeva da dove arrivava diglielo subito e sabato mi dici se l’anno chiamato». Ma era anche nei colloqui in carcere che Giusy Pesce avrebbe svolto il suo ruolo di portavoce del padre e del fratello. Il 12 dicembre del 2006, ad esempio, la ragazza discute con il fratello Francesco, detenuto, della faccenda riguardante i camion della Sisa e di una somma da versare da parte del titolare, il quale doveva pagare l’ostruzionismo fatto nei suoi confronti. Francesco: Ma… soldi niente mà, non te ne hanno portati (incomprensibile)? Angela: Ciccio, io ora sono arrivata qua, venerdì sono arrivata. Francesco: (Incomprensibile) ti avevo detto … vi avevo io detto al colloquio di andare per i soldi. Giuseppina: Non glieli ha dati (incomprensibile) ancora. (Incomprensibile) di aspettare due giorni, tre giorni, non so perché eh, e… Francesco: Di aspettare cosa? Me ne fotto di lui, lui la barca ce l’ha all’asciutto. Che non mi rompa i coglioni, che vada a prendermi i soldi. Giuseppina: (Incomprensibile). Francesco: Sull’onesto di mamma, che a questo qua gli scasso tutto. Giuseppina: (Incomprensibile) questa settimana ha detto che glieli dà. Angela: Ancora. Francesco: Quest’infame di merda che non è altro. A me deve dare i soldi ogni fine mese, non come dice lui. Angela: (Incomprensibile). Giuseppina: Questa settimana (incomprensibile) te ne dà 1000, non 6 o 8, te ne dà 1000. Però, questa settimana. Francesco: Questo pisciatore che non è altro, sull’onesto di mamma, se esco da qua dentro lo ammazzo. Angela: Ancora, ancora. Francesco: A questo merda. Angela: (Incomprensibile). Giuseppina: Gli ha detto che te ne deve dare 1000. Però, (incompr.) settimana te li dà. la decisione di pentirsi È l’aprile dello scorso anno quando la Dda di Reggio infligge un durissimo colpo al clan Pesce. Con l’operazione “All inside” vengono arrestate 30 persone accusate di appartenere alla cosca della Piana. Tra queste c’è anche Giusy Pesce. Quando esce dalla comando provinciale dei carabinieri ha lo sguardo provato. Quasi perso nel vuoto. Passano 169 giorni e si trova rinchiusa all’interno del carcere di San Vittore. Troppo lontano da casa. Troppo distante dai suoi figli che erano rimasti soli, dopo l’arresto anche del marito. Giusy matura così la decisione di dare un taglio al passato e chiede di parlare con il giudice. Sono diversi gli interrogatori cui viene sottoposta. È un fiume in piena. Accusa amici, parenti e i più stretti familiari. Conosce tutto di tutti. È figlia di un boss, nipote di uno storico padrino e cugina del capo designato: quel Ciccio Pesce “testuni” ancora latitante. È un vero scrigno Giusy, dal quale tira fuori tutti i segreti di una consorteria mafiosa impenetrabile. Lei è la chiave che apre orizzonti nuovi a magistrati e forze dell’ordine. Lo fa sino alla metà del mese d’aprile: riempie pagine di verbali in cui non risparmia neppure la madre e la sorella. Ne scaturiscono le operazioni “All inside 2” e “All clean”. Il dietrofront improvviso. Poi arriva il colpo a sorpresa: la giovane donna prende la penna e verga a mano una lettera di qualche riga. Spiega di aver dovuto collaborare perché senza alternativa. Si è sentita «usata» Giusy Pesce. Trova il tempo di chiedere scusa e affida al suo avvocato il compito di confermare l’indiscrezione che la vuole ormai ex pentita. Arriva anche il crisma dell’ufficialità da parte di Pignatone, che spiega come la ragazza si sia avvalsa della facoltà di non rispondere. È il segnale inequivocabile: ha smesso di collaboratore. Almeno per il momento. La lettera sembra chiudere qualsiasi spazio di ripensamento, ma in molti credono che la storia di Giusy Pesce sia solo ad un capitolo intermedio.

‘Ndrangheta. A Palmi il Pm critica la stampa locale per cronache sui pentiti. Al processo ‘All Inside’ torna in scena una polemica del 2011, scrive “Ossigeno Quotidiano”. Come se ne occupò Ossigeno. Giuseppina Pesce, la figlia di Salvatore, il boss dell’omonima cosca di Rosarno, ha deciso di collaborare con la giustizia con un ”atto d’amore nei confronti dei propri figli. E la sua collaborazione fa alla ‘ndrangheta più paura di quella di un pentito maschio, perché dimostra che una donna può ribellarsi allo strapotere delle cosche”, ha detto il pubblico ministero Alessandra Cerreti, al Tribunale di Palmi, pronunciando la prima parte della requisitoria al processo "All inside", nato da una inchiesta coordinata dalla Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria. In otto ore di intervento, il Pm ha descritto la posizione di ciascuno dei tre pentiti, Giuseppina Pesce, Rosa Ferraro e Salvatore Facchinetti. Ha spiegato le motivazioni della loro scelta di collaborare, ha ricostruito il loro contributo alle indagini, ha motivato l’attendibilità e la credibilità delle loro dichiarazioni accusatorie. La posizione di Giuseppina Pesce ha occupato la parte centrale della requisitoria. Lei e Rosa Ferraro hanno svelato come la cosca gestiva le attività illecite e chi copriva tali attività. Il rappresentante della pubblica accusa ha parlato delle forti pressioni esercitate dagli esponenti della cosca su Giuseppina Pesce e Rosa Ferraro per convincerle ad interrompere la collaborazione con la giustizia. Una cronaca dell’udienza firmata da Francesco Altomonte, pubblicata su "Calabria Ora" riferisce che il Pm ha criticato una parte della stampa locale e in particolare "Calabria Ora", biasimando la scelta di pubblicare una lettera con la quale la ‘pentita’ Giuseppina Pesce annunciava di volere lasciare il programma di protezione: quella decisione, come si è appreso successivamente e come si sospettava fin dall’inizio, le era stata estorta dai boss di Rosarno, e comunque quella decisione di ritrattare non è stata mantenuta. Ossigeno si è occupato del caso nato dalla pubblicazione di quella lettera di Giuseppina Pesce su "Calabria Ora", e della contrapposizione con altri giornalisti che contestarono quella scelta, nel saggio di Roberto S. Rossi contenuto nel Rapporto annuale 2011/2012 (pagg. 464-473). Riproponiamo di seguito i brani più significativi:

È SPENTO IL VULCANO? di Roberto S. Rossi. A luglio del 2010 (…) la direzione di Piero Sansonetti ha segnato un evidente mutamento di linea di "Calabria Ora". Il quotidiano ha adottato una linea che possiamo definire iper garantista, e che ha portato a criticare apertamente alcune scelte dei magistrati della Procura di Reggio Calabria; l’uso dei «pentiti» in particolare. (…) Vicenda emblematica del nuovo corso di «Calabria Ora» è la copertura giornalistica di una della fasi più delicate del caso di Giuseppina Pesce, una «pentita» di ’ndrangheta appartenente ad una delle famiglie più temibili della mafia calabrese, operante a Rosarno, nella Piana di Gioia Tauro. Contro la cosca Pesce, nel volgere di un anno, la magistratura reggina ha inferto colpi mortali, anche grazie alla collaborazione di Giuseppina, che dall’ottobre del 2010 è inserita nel programma di protezione. Lo scorso aprile, a pochi giorni dal rinvio a giudizio di gran parte dei componenti della sua famiglia, Giuseppina fa dietrofront, decide di avvalersi della facoltà di non rispondere e accusa pubblicamente i magistrati di averla costretta a pentirsi. Ritornerà sui suoi passi nel settembre del 2011, dichiarando agli inquirenti che fu la paura e la pressione dei suoi familiari a farle interrompere la collaborazione con la giustizia. I veleni contro la Procura di Reggio, le false accuse di Giuseppina, furono veicolati tramite una lettera che, stando alle sue dichiarazioni contenute nei verbali di settembre, fu da lei firmata, ma scritta dal suo avvocato e successivamente consegnata dallo stesso – dichiara testualmente la «pentita» – «all’unico giornale disposto ad ascoltarci». Fu "Calabria Ora", il 26 aprile del 2011, a pubblicare integralmente quella missiva, dedicando alla vicenda l’apertura per due giorni, e proseguendo fino ai primi di maggio una polemica con il Procuratore di Reggio, Giuseppe Pignatone, attraverso una serie di editoriali coi quali Sansonetti gli chiedeva spiegazioni sull’operato del suo ufficio. Invece "Il Quotidiano della Calabria" sulla vicenda scrive per la prima volta il 27 aprile, e avanza l’ipotesi – poi dimostratasi corretta – che la ritrattazione di Giuseppina sia stata imposta dal clan. «La Pesce non convince», scrive Baldessarro che rileva alcune incongruenze fra la lettera della «pentita» e quanto emerso nelle prime fasi della sua collaborazione, e definisce «strano» quel «dietrofront a pochi giorni dall’udienza delle indagini preliminari». In un articolo del 30 aprile, carte alla mano, il giornalista smonta le argomentazioni della «pentita». Sulla vicenda interverrà, il giorno dopo, lo stesso Pignatone con una nota affidata a «il Riformista». Non si fa attendere la risposta di Sansonetti, che scrive il 3 maggio: «In questo articolo Pignatone ribadisce alcune delle affermazioni che un paio di giorni fa erano state anticipate su Il Quotidiano di Calabria, ma non attribuite esplicitamente a Pignatone bensì firmate da un giornalista di quella testata (è una pratica che a noi non piace ma che ormai è molto estesa quella dei giornali che si fanno megafoni diretti e portavoce ufficiali delle Procure)». L’attacco a Baldessarro è apparso subito grave, anche se pochi gli hanno mostrato solidarietà. Lo ha fatto il cdr del suo giornale diffondendo questa nota: «Oggi il direttore di Calabria Ora, Piero Sansonetti, ha messo all’indice Giuseppe Baldessarro, colpevole di essere “megafono della procura” reggina, solo perché aveva pubblicato alcuni atti di un processo e, quindi, pubblici [...]. Riteniamo questa pratica molto pericolosa sia per l’incolumità fisica del nostro collega, sia per l’intera categoria, sia per la stessa efficacia della lotta al malaffare e alla ’ndrangheta». Parlare di un giornalista come del «portavoce delle Procure» in una terra come la Calabria è molto pericoloso. Non si tratta, come potrebbe essere a Roma o a Milano, solo di accusare un professionista di essere dipendente dalle fonti. «Amico degli sbirri», «confidente di questura», sono locuzioni tipiche della cultura mafiosa usate per identificare gli «infami», quelli che parlano troppo, odiati per questo. Usare quelle parole in un contesto come quello calabrese può anche fornire una sponda a quell’odio, esporre il cronista al pericolo di una rappresaglia mafiosa. Il pensiero di Angela Napoli: «È estremamente grave, perché mette a rischio in maniera molto netta l’incolumità del giornalista». Quello di Antonio Nicaso: «In casi del genere, il rischio è quello di far credere che un giornalista si comporti in maniera diversa dagli altri». Piero Sansonetti ha esposto le sue convinzioni in un editoriale dal titolo «Giornalisti o soldati?» scritto il 7 maggio 2011: «Vi dirò la verità» – scrive – «io me ne frego un po’ della legalità. [...] Legalità vuol dire rispetto delle leggi. Che sia un valore o un disvalore, ovviamente, dipende dalle leggi e da come vengono applicate. Rispettare le leggi non sempre, secondo me, è un merito. La disobbedienza – diceva un certo don Milani – è una virtù. Già, ma chi se lo ricorda più don Milani! A me spesso le leggi non piacciono. Io non mi sono mai schierato dalla parte della legalità. Tendo a pensare che sia giusto schierarsi a difesa dei deboli, chiunque essi siano, che siano buoni o cattivi, colpevoli o innocenti». Queste convinzioni lo hanno portato, fra l’altro, ad ingaggiare una campagna contro la scelta dei magistrati di avvalersi delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, e ad esprimere forti critiche per il regime carcerario del 41bis. «Prima del 41bis» – ci spiega Antonio Nicaso – «molti mafiosi continuavano a comandare dal carcere. L’idea di questa modifica all’ordinamento carcerario è quella di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza» (…)

QUATTRO DOMANDE A PIETRO SANSONETTI di Roberto S. Rossi. (…) Il 13 ottobre del 2010 esce la notizia che il pentito Paolo Iannò, sentito dai magistrati sui rapporti tra ’ndrangheta e politica, ha dichiarato: «Si diceva che Giuseppe Scopelliti era appoggiato dalla ’ndrangheta». La notizia è data con ampio risalto da alcuni giornali. Calabria Ora invece non le dedica una riga. Ecco, lei ha criticato in diversi suoi editoriali l’uso dei collaboratori di giustizia da parte della magistratura, al punto da non pubblicare dichiarazioni scottanti come quelle di Iannò, poi però il 26 aprile scorso pubblica in esclusiva la lettera della «pentita» Pesce che accusava i magistrati di averla costretta a pentirsi. Dedica alla notizia l’apertura per due giorni e le affianca un editoriale nel quale chiede spiegazioni al Procuratore Giuseppe Pignatone. Non c’è contraddizione in questo? Può spiegare il perché di queste scelte? Non ricordo in che modo il mio giornale fornì la notizia sulla deposizione del pentito Iannò. Può darsi che prendemmo un buco, anche se ci succede molto raramente – in genere diamo i buchi – e certamente, se è così, non lo prendemmo per ragioni ideologiche. Detto ciò, la notizia – fatta evidentemente circolare da qualche giudice per scopi che non mi va di indagare – che un pentito del quale è molto discutibile l’attendibilità sostiene di aver «sentito dire» che un tale aveva rapporti con la mafia, mi pare una notizia di scarsissimo rilievo. Lei si rende sicuramente ben conto che il giornalismo costruito sui «sentito dire», e per di più sui «sentito dire» da imputati per reati di mafia, e per di più «sentito dire» riferiti in modo interessato da qualche giudice, beh, è un giornalismo assai scadente. Penso che siamo d’accordo su questo, no? La testimonianza della signora Pesce era un po’ diversa. Non c’era nessun «sentito dire», era una testimonianza diretta e drammatica, contenuta in una lettera ufficialmente scritta dalla signora e depositata. Tutti potevano pubblicarla, non si trattò di uno scoop. E la signora ci informava di come era avvenuto il suo pentimento – il suo, non quello di un altro – mettendo in discussione la correttezza dei comportamenti della magistratura. Ci mancava altro che dei giornalisti seri non avessero pubblicato questa notizia clamorosa! Lei mi dirà: e perché altri giornali non l’hanno pubblicata? Non saprei, francamente, credo che abbiano preso, in quel caso, un buco clamoroso. Non credo certo alle chiacchiere di chi dice che non l’hanno pubblicata perché la Procura di Reggio non gradiva, e dunque che abbiano pensato che è meglio tenersi buoni i giudici, visto che poi le notizie ai giornali le danno (o non le danno) i giudici. Non ci credo proprio a queste calunnie.

IL CASO DI GIUSEPPINA PESCE. PIGNATONE/SANSONETTI.

La polemica sul caso delle (ex) pentita Giuseppina Pesce (gli articoli integrali). La discussione polemica tra Piero Sansonetti, direttore di CalabriaOra, e Giuseppe Pignatone, Procuratore della Repubblica di Reggio, sul caso di Giuseppina Pesce, la nipote di uno dei boss del clan di Rosarno che si è prima pentita, svelando particolari ed affari inquietanti del clan, che la Procura considera d’importanza decisiva e ritiene di avere riscontrato con elementi di fatto, per poi ritrarre.

*Editoriale di Piero Sansonetti, direttore di Calabriaora, del 29 aprile 2011, pubblicato su CalabriaOra col titolo: “Tre domande al Procuratore di Reggio Calabria”, contemporaneamente all’articolo  pubblicato sul Riformista, col titolo: “La stagione del pentitismo andrebbe conclusa”.

TRE DOMANDE AL PROCURATORE DI REGGIO CALABRIA* di PieroSansonetti.

Il dottor Pignatone, procuratore di Reggio Calabria, ha risposto con un po' di stizza ai nostri servizi di ieri sul caso-Pesce. E cioè sull'ipotesi che la signora Giuseppina Pesce - collaboratrice di giustizia - sia stata indotta a pentirsi con metodi poco corretti, o addirittura con un vero e proprio ricatto. Ipotesi contenuta in una lettera che la stessa signora Pesce ha inviato ai giudici di Reggio, e che fino a ieri (quando noi ne siamo entrati in possesso e l'abbiamo pubblicata) era rimasta segreta. Come riferiamo qui accanto, il procuratore Giuseppe Pignatone ritiene che la lettera di Giuseppina Pesce non meriti risposta. Perché? Il procuratore fornisce una sola ragione: perché la signora Pesce è stata arrestata per associazione mafiosa e la legittimità del suo arresto è stato confermato dalla Cassazione. Vi diciamo francamente che a noi il fatto che la signora sia accusata di mafia non sembra una ragione sufficiente per ignorare la sua denuncia. Del resto, a quanto sappiamo, la signora, sebbene accusata per mafia, è stata ritenuta attendibile nelle sue denunce contro i propri familiari. (...) Vorremmo allora rivolgere al Procuratore tre domande piuttosto semplici.

1 E’ vero o è falso che la signora Pesce , detenuta a Lecce, fu visitata da un medico nominato da una autorità indipendente (il gip) il quale trovò molto gravi le sue condizioni di salute, prese atto di un suo tentativo di suicidio, ebbe l’impressione che la signora fosse ossessionata dal pensiero di non poter rivedere i suoi figli piccoli, e scrisse che «la perizianda si trova in condizioni di salute particolarmente gravi da non consentire la prosecuzione della custodia cautelare in carcere»? Ed è vero che il perito chiese che fosse trasferita in una struttura adatta a curarla e il più vicino possibile a casa sua? Ed è vero che, paradossalmente, subito dopo questa perizia Giuseppina Pesce fu trasferita a Milano, cioè a mille chilometri da casa?

2 E’ vero o è falso che la signora Pesce chiese di collaborare dopo un breve periodo di detenzione a Milano, e iniziò l’interrogatorio con queste parole: «Farò quello che volete, ma lo faccio solo per i miei figli»? E, se è vero, è ragionevole sospettare che - come c’è scritto nella lettera inviata ad aprile dalla signora Pesce ai giudici - la decisione di non tener conto del parere del perito, e anzi di rovesciarne le raccomandazioni allontanando ancora di più la signora dai figli, nonostante il suo precario stato psicologico, sia stata il fattore determinante nel provocare il pentimento e la deposizione?

3 Se, per caso, alle prime due domande si dovesse dare una risposta affermativa, non sarebbe il caso, allora, di approfondire la vicenda, anche con una inchiesta giudiziaria, per stabilire se nella vicenda del pentimento-Pesce non siano stati violati i diritti essenziali della persona?

Il procuratore Pignatone ci tranquillizza, assicurandoci che tutte le informazioni fornite dalla signora Pesce (la quale, ricordiamo per dovere di cronaca, ha accusato molti suoi parenti strettissimi, facendoli arrestare e probabilmente producendo un danno gravissimo al potere mafioso nel Rosarnese) sono state riscontrate. Siamo sicuri che le cose stanno così, perché conosciamo bene e apprezziamo le qualità professionali e lo scrupolo del procuratore Pignatone. Ma il problema che noi abbiamo sollevato è diverso. Noi non abbiamo messo in dubbio la serietà delle indagini contro il clan Pesce: noi abbiamo messo in dubbio la legittimità degli interrogatori della signora. Non è in discussione la nostra stima per il dottor Pignatone: gliela abbiamo espressa in varie occasioni e in varie forme. Tra l’altro, appena qualche mese fa abbiamo pubblicato un numero speciale di Calabria Ora con la prima pagina tutta dedicata a lui, che avevamo scelto come “Il personaggio dell’anno” per l’efficacia del suo lavoro e della sua battaglia contro la ’ndrangheta. E ancor più recentemente abbiamo preso decisamente le sue parti, in occasione di una polemica - seppur molto sobria e indiretta - che Pignatone ha avuto con il procuratore antimafia Pietro Grasso a proposito dell’espandersi della ’ndrangheta in Lombardia. Ma tutto questo non ci impedisce di esercitare con oggettività e freddezza il nostro lavoro di giornalisti che non dividono il mondo in amici e nemici ma cercano di battersi per il rispetto delle regole, dei principi e delle forme. Naturalmente conosciamo benissimo l’obiezione al nostro ragionamento. Si riassume in questa domanda: «Ma è più importante la lotta alla ’ndrangheta o sono più importanti gli eventuali diritti individuali della signora Pesce»? Ecco, noi siamo convinti che sia una domanda non lecita. La lotta alla mafia, come tutti gli esercizi di giustizia, deve esser condotta dentro le regole, rigorosamente dentro le regole, assolutamente dentro le regole. Altrimenti si dà forse qualche colpo alla mafia ma si danno colpi ancor più seri all’impianto della nostra società giuridica. Allo Stato di diritto. Sono sicuro che il procuratore di Reggio ci darà rassicurazioni e ci fornirà spiegazioni convincenti. E che la magistratura, se resterà il sospetto che la signora Pesce sia stata indotta in modo scorretto a collaborare, aprirà una inchiesta.

“Il Procuratore Giuseppe Pignatone replica a Sansonetti”, l’articolo del Procuratore di Reggio apparso sul Riformista l’1 maggio 2011 di Giuseppe Pignatone.

«Spiace che nel suo articolo "La stagione del pentitismo andrebbe conclusa", Piero Sansonetti per giungere a conclusioni che sostiene da molto tempo parta da dati inesatti o letti in modo distorto». «La collaborazione con lo Stato può costituire una via per il riscatto sociale». Sansonetti non dice che alle prime parole della Pesce («farò come volete voi») il magistrato abbia risposto: «No signora. Non deve fare come vogliamo noi.. deve volere lei e questo è importante, lo deve volere lei». Rinunciare ad utilizzare i collaboratori di giustizia, significa rinunciare allo strumento che ha consentito di identificare e condannare i responsabili di gravi delitti. Signor Direttore, spiace che nel suo articolo di oggi ("La stagione del pentitismo andrebbe conclusa") Piero Sansonetti per giungere a conclusioni che sostiene, credo, da molto tempo parta da dati inesatti o letti in modo distorto. Prima di affrontare il tema di fondo è quindi necessario sgombrare il campo da imprecisioni ed equivoci. Non è vero infatti, come risulta dagli atti processuali, che sono pubblici e che lo stesso Sansonetti ben conosce, che il perito di ufficio abbia dichiarato che le condizioni di salute della signora Pesce fossero incompatibili con la sua detenzione in carcere; inoltre, il suo trasferimento alla casa circondariale di Milano San Vittore è stato disposto dal Ministero perché questa è una delle (non numerose) strutture in grado di assicurare l`assistenza medica indicata dal perito. Va aggiunto che il Gip e la Procura hanno concesso ai familiari, e in particolare ai figli, i permessi di colloquio ben oltre la misura ordinaria e fino al limite massimo consentito dalla legge; pertanto nulla sarebbe cambiato, sotto questo profilo, se la signora Pesce fosse stata detenuta in un carcere più vicino a Rosarno. Ancora, il dottor Sansonetti non dice che alle prime parole della Pesce all`inizio della collaborazione («farò come volete voi») il magistrato della Procura abbia correttamente risposto: «No, signora. Non deve fare come vogliamo noi, farà come vuole lei... deve volere lei e questo è importante, lo deve volere lei». Né è vero che la signora Pesce abbia scritto «di essere stata costretta a parlare con la minaccia di non poter rivedere i figli». Tralascio poi altre "imprecisioni" (la lettera del 4 aprile non era diretta alla Procura ma al Giudice per l’udienza preliminare e non era segreta ma depositata agli atti), ne le tante omissioni (la Pesce dice sì di avere deciso di collaborare per i suoi figli, ma precisa anche che lo ha fatto per assicurare loro un futuro diverso e migliore). Spiace poi che il dottor Sansonetti interpreti male la mia dichiarazione («non meritano alcun commento le affermazioni riportate dalla stampa secondo cui Giuseppina Pesce sarebbe stata costretta a pentirsi»). In realtà io non ho voluto commentare una notizia di stampa assolutamente imprecisa dato che, come detto, la lettera della signora non parla di costrizione e anche il suo avvocato, in un’intervista pubblicata proprio dal giornale diretto dallo stesso Sansonetti, afferma che «nessuno si sogna di affermare che Giuseppina Pesce è stata costretta a confessare». Invece la signora Pesce nella sua lettera prospetta una tesi difensiva, peraltro ricorrente in quasi tutti coloro che decidono di ritrattare precedenti dichiarazioni, e cioè di avere formulato accuse false a causa dello stato di sofferenza e abbattimento provocato dalla detenzione e dalla lontananza dei figli; tesi difensiva che, in quanto tale deve essere, come pure ho detto, valutata dal giudice nelle competenti sedi processuali. Non vi è quindi alcun motivo di scegliere a priori «fra il comportamento di integerrimi magistrati e le accuse di una mafiosa» (a parte che una simile impostazione è assolutamente lontana dalla mia mentalità e credo che la mia storia professionale lo dimostri). Ciò premesso, è del tutto ovvio che gli imputati hanno diritto a difendersi con ogni mezzo previsto dalla legge e che il processo serve a verificare davanti a un giudice terzo le opposte tesi delle parti; queste sono su un piano di parità e non ha quindi senso dire che «la magistratura è comunque superiore agli imputati». Altrettanto ovvio è affermare che vanno rispettati i diritti di qualsiasi persona, anche se imputata dei delitti più gravi. Anzi, proprio in una intervista al dottor Sansonetti ho ribadito, pochi mesi fa, che il fine non giustifica i mezzi, neanche nella lotta alla mafia, e che anche in questo campo è necessario il più rigoroso rispetto delle regole. È quindi assurdo ipotizzare, come egli fa, spero solo per amore di polemica, «l`annientamento dei diritti della persona», i campi di Guantanamo, la Santa Inquisizione e la pena di morte. Così sgombrato il campo dagli equivoci relativi al caso specifico, va detto chiaramente che non è condivisibile la richiesta di rinunciare ai collaboratori di giustizia ne l`affermazione che «oggi le tecniche giudiziarie non esistono più, esistono solo pentiti e spiate telefoniche». Confesso di non sapere cosa siano le «tecniche giudiziarie»: forse dichiarazioni di testimoni che in terre di mafia sono un`assoluta eccezione o servizi di pedinamento della polizia giudiziaria che al massimo documentano incontri di cui non si conosce il contenuto? Sono abbastanza vecchio per ricordare il tempo in cui, in assenza di collaboratori di giustizia e intercettazioni telefoniche e ambientali, i processi di mafia si concludevano sistematicamente con l’assoluzione, magari per insufficienza di prove, di tutti gli imputati. Cosa ben diversa è, naturalmente, la prudenza e l`attenzione con cui devono essere utilizzati questi strumenti, con l'osservanza scrupolosa di tutte le garanzie, formali e sostanziali, previste dalla legge. Del resto, oggi non esiste che sulla sola parola di un collaboratore di giustizia «scatta una raffica di arresti», come sembra credere il dottor Sansonetti: le accuse devono essere attendibili e riscontrate secondo criteri ormai consolidati nella giurisprudenza. E proprio la Procura di Reggio Calabria ha ritenuto inattendibile più di un "aspirante collaboratore" e ha quindi evitato di utilizzarne le dichiarazioni. Un'ultima notazione sulla conclusione del dottor Sansonetti che descrive un sostituto che mette «a repentaglio la vita di una donna e dei suoi figli per ottenere una confessione, un indizio, una pista antimafia», e che «può farlo con ogni mezzo, con la costrizione, col ricatto». Spiace ancora una volta che egli usi a cuor leggero un termine, «ricatto», che neanche la signora Pesce usa, ma soprattutto siamo di fronte ad un incredibile capovolgimento della realtà: chi minaccia e mette a rischio la vita delle persone è la mafia. Proprio per questo la legge prevede per i collaboratori e per i (pochi) testimoni di giustizia il ricorso a speciali misure di protezione. Chi decide di collaborare lo fa liberamente, sapendo dei rischi che corre, dei benefici di cui può godere e delle misure di tutela di cui può usufruire. Altrettanto liberamente, e lo dimostra anche il caso della signora Pesce, chiunque può cessare la sua collaborazione, per le ragioni più diverse, alcune delle quali (violenza, minaccia, offerta di denaro) hanno - se provate - precise conseguenze processuali previste dal codice. L`esperienza di questi trent'anni dimostra che proprio queste sono le cause più frequenti delle ritrattazioni, ma è compito del processo accertarlo. Il dottor Sansonetti sembra credere che sia meglio rinunciare allo strumento dei collaboratori di giustizia per non correre il rischio che essi siano minacciati o, peggio, colpiti. È un'opinione rispettabile, che io non condivido; e comunque spetta al legislatore decidere. Deve però essere chiaro che rinunciare ad utilizzare, con ogni necessaria cautela, i collaboratori di giustizia, significa rinunciare allo strumento che ha consentito di comprendere che cosa sono veramente le grandi organizzazioni mafiose, di conoscerle dall`interno, di identificare e condannare i responsabili di gravissimi delitti, di accertare molte delle collusioni che fanno forti le mafie e che le rendono un pericolo mortale per la democrazia e la libertà nel nostro paese. Tutto questo avrebbe poi effetti ancor più devastanti nel contrasto alla `ndrangheta, in Calabria e nel resto d`Italia, dato che solo ora e dopo molti anni in cui questo veniva ritenuto impossibile, hanno iniziato a collaborare alcuni appartenenti a quella che tutti concordano nel definire oggi la più ricca, potente e pericolosa delle organizzazioni mafiose. E da ultimo, ma non per ultimo, la collaborazione con lo Stato può costituire, come insegnano tante esperienze positive del passato, una via per il riscatto sociale e per dimostrare che nelle famiglie di mafia il destino dei figli non è inevitabilmente quello dei padri. GIUSEPPE PIGNATONE, PROCURATORE DELLA REPUBBLICA di REGGIO CALABRIA

L’articolo di Piero Sansonetti, apparso l’1 maggio 2011 su CalabriaOra con cui il direttore della testata ribatte al procuratore Pignatone, col titolo “Cari giudici siete un po’ reticenti.

TRE DOMANDE AL PROCURATORE DI REGGIO CALABRIA, di PieroSansonetti.

Il dottor Pignatone, procuratore di Reggio Calabria, ha risposto con un po' di stizza ai nostri servizi di ieri sul caso-Pesce. E cioè sull'ipotesi che la signora Giuseppina Pesce - collaboratrice di giustizia - sia stata indotta a pentirsi con metodi poco corretti, o addirittura con un vero e proprio ricatto. Ipotesi contenuta in una lettera che la stessa signora Pesce ha inviato ai giudici di Reggio, e che fino a ieri (quando noi ne siamo entrati in possesso e l'abbiamo pubblicata) era rimasta segreta. Come riferiamo qui accanto, il procuratore Giuseppe Pignatone ritiene che la lettera di Giuseppina Pesce non meriti risposta. Perché? Il procuratore fornisce una sola ragione: perché la signora Pesce è stata arrestata per associazione mafiosa e la legittimità del suo arresto è stato confermato dalla Cassazione. Vi diciamo francamente che a noi il fatto che la signora sia accusata di mafia non sembra una ragione sufficiente per ignorare la sua denuncia. Del resto, a quanto sappiamo, la signora, sebbene accusata per mafia, è stata ritenuta attendibile nelle sue denunce contro i propri familiari. (...) Vorremmo allora rivolgere al Procuratore tre domande piuttosto semplici.

1 E’ vero o è falso che la signora Pesce, detenuta a Lecce, fu visitata da un medico nominato da una autorità indipendente (il gip) il quale trovò molto gravi le sue condizioni di salute, prese atto di un suo tentativo di suicidio, ebbe l’impressione che la signora fosse ossessionata dal pensiero di non poter rivedere i suoi figli piccoli, e scrisse che «la perizianda si trova in condizioni di salute particolarmente gravi da non consentire la prosecuzione della custodia cautelare in carcere»? Ed è vero che il perito chiese che fosse trasferita in una struttura adatta a curarla e il più vicino possibile a casa sua? Ed è vero che, paradossalmente, subito dopo questa perizia Giuseppina Pesce fu trasferita a Milano, cioè a mille chilometri da casa?

2 E’ vero o è falso che la signora Pesce chiese di collaborare dopo un breve periodo di detenzione a Milano, e iniziò l’interrogatorio con queste parole: «Farò quello che volete, ma lo faccio solo per i miei figli»? E, se è vero, è ragionevole sospettare che - come c’è scritto nella lettera inviata ad aprile dalla signora Pesce ai giudici - la decisione di non tener conto del parere del perito, e anzi di rovesciarne le raccomandazioni allontanando ancora di più la signora dai figli, nonostante il suo precario stato psicologico, sia stata il fattore determinante nel provocare il pentimento e la deposizione?

3 Se, per caso, alle prime due domande si dovesse dare una risposta affermativa, non sarebbe il caso, allora, di approfondire la vicenda, anche con una inchiesta giudiziaria, per stabilire se nella vicenda del pentimento-Pesce non siano stati violati i diritti essenziali della persona?

Il procuratore Pignatone ci tranquillizza, assicurandoci che tutte le informazioni fornite dalla signora Pesce (la quale, ricordiamo per dovere di cronaca, ha accusato molti suoi parenti strettissimi, facendoli arrestare e probabilmente producendo un danno gravissimo al potere mafioso nel Rosarnese) sono state riscontrate. Siamo sicuri che le cose stanno così, perché conosciamo bene e apprezziamo le qualità professionali e lo scrupolo del procuratore Pignatone. Ma il problema che noi abbiamo sollevato è diverso. Noi non abbiamo messo in dubbio la serietà delle indagini contro il clan Pesce: noi abbiamo messo in dubbio la legittimità degli interrogatori della signora. Non è in discussione la nostra stima per il dottor Pignatone: gliela abbiamo espressa in varie occasioni e in varie forme. Tra l’altro, appena qualche mese fa abbiamo pubblicato un numero speciale di Calabria Ora con la prima pagina tutta dedicata a lui, che avevamo scelto come “Il personaggio dell’anno” per l’efficacia del suo lavoro e della sua battaglia contro la ’ndrangheta. E ancor più recentemente abbiamo preso decisamente le sue parti, in occasione di una polemica - seppur molto sobria e indiretta - che Pignatone ha avuto con il procuratore antimafia Pietro Grasso a proposito dell’espandersi della ’ndrangheta in Lombardia. Ma tutto questo non ci impedisce di esercitare con oggettività e freddezza il nostro lavoro di giornalisti che non dividono il mondo in amici e nemici ma cercano di battersi per il rispetto delle regole, dei principi e delle forme. Naturalmente conosciamo benissimo l’obiezione al nostro ragionamento. Si riassume in questa domanda: «Ma è più importante la lotta alla ’ndrangheta o sono più importanti gli eventuali diritti individuali della signora Pesce»? Ecco, noi siamo convinti che sia una domanda non lecita. La lotta alla mafia, come tutti gli esercizi di giustizia, deve esser condotta dentro le regole, rigorosamente dentro le regole, assolutamente dentro le regole. Altrimenti si dà forse qualche colpo alla mafia ma si danno colpi ancor più seri all’impianto della nostra società giuridica. Allo Stato di diritto. Sono sicuro che il procuratore di Reggio ci darà rassicurazioni e ci fornirà spiegazioni convincenti. E che la magistratura, se resterà il sospetto che la signora Pesce sia stata indotta in modo scorretto a collaborare, aprirà una inchiesta.

“All inside, il pm contro Calabria Ora” di Francesco Altomonte (Calabria Ora). Al Tribunale di Palmi si sta celebrando il processo contro la cosca Pesce di Rosarno. Il procedimento è conosciuto come “All inside”, frutto di una operazione coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria e i carabinieri. Nel corso della seconda giornata di requisitoria da parte del sostituto procuratore di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti, il magistrato ha attaccato una parte della stampa locale, «anzi – ha precisato il magistrato – un giornale» reo di avere pubblicato la lettera con cui Giuseppina Pesce, dopo alcuni mesi che aveva iniziato la collaborazione con l’autorità giudiziaria, annunciava di volere lasciare il programma di protezione. Il ragionamento del magistrato parte da lontano, cioè dalla capacità della cosca Pesce di infiltrarsi nel mondo dell’economia e, nel caso particolare, anche in quello giudiziario. In alcune intercettazioni, secondo quanto riporta la Cerreti, sarebbe chiaro il tentativo della clan rosarnese, di “aggiustare” un processo in Cassazione per Salvatore Pesce, padre della collaboratrice Giuseppina Pesce, attraverso un avvocato che cura gli interessi di famiglia. Qui il magistrato riprende le dichiarazioni della Pesce in merito a alcune conversazioni che aveva sentito a casa del suocero, nella quali Gaetano Palaia si sarebbe vantato di avere contatti in Cassazione e per questo motivo suo padre e suo zio Giuseppe Ferraro le avevano chiesto di intercedere per trovare un aggancio al Palazzaccio. «La prova che Giuseppina Pesce abbia detto la verità sul potere di Gaetano Palaia», sottolinea la Cerreti, si sarebbe sostanziata nell’aprile 2011, vale a dire quando la collaboratrice di giustizia decide di uscire dal programma di protezione, cosa che poi avverrà solo per qualche mese, comunicandolo attraverso una lettera. Nell’udienza precedente, il magistrato aveva spiegato che il contenuto della missiva, nella quale in estrema sintesi accusava la procura di Reggio di averle estorto quelle dichiarazioni, era stato imposto dal suocero sia alla Pesce sia al legale che in quel momento la stava rappresentando. Ieri, però, la Cerreti è andata oltre, sostenendo che «il potere di Palaia» sarebbe stato quello di avere fatto pubblicare «su un giornaletto locale che vende 5mila copie al giorno la lettera». Il «giornaletto» (Calabria Ora, ndr) l’avrebbe pubblicata solo «per vendere qualche copia in più». Ma non è mica finita qui. Sì, perché il direttore del «giornaletto» (Piero Sansonetti, ndr), che mai prima di allora era apparso nelle tv nazionali (sic) e in un momento in cui la Calabria «si trova in un cono d’ombra dell’informazione nazionale, viene ospitato dal Tg1 di Minzolini che gli dedica una lunga intervista» attaccando la procura e chiedendo «addirittura l’intervento del Parlamento».

La malapianta mafiosa non si combatte con la censura. "E’ ormai sin troppo evidente che gli unici giornalisti “buoni” sono quelli che fungono pedissequamente da cassa di risonanza di questo o quel potere, che ossequiano acriticamente qualunque rappresentante del potere costituito, che non si pongono problemi di qualità e dignità del proprio lavoro e che allegramente si adagiano sul ruolo di passacarte o passa-dichiarazioni. Se ci fosse stato qualche dubbio in tal senso, nonostante le tante reprimende, dichiarazioni di fuoco, manifestazioni di irritazione che sono venute nel tempo soprattutto dal mondo della politica, è arrivato ora il passaggio della relazione della Direzione Nazionale Antimafia nel quale, con un linguaggio in verità un po’ curiale e vagamente assimilabile al politichese, si bacchettano quei giornalisti calabresi che “alimentano polemiche e dibattiti che, partendo da una legittima visione garantista del processo penale e dal doveroso ed irrinunciabile rispetto degli indagati e degli imputati, sposta il fuoco dell’attività giornalistica su polemiche, pro o contro i pubblici ministeri, pro o contro quell’imputato, che alla fine, ancora una volta, oggettivamente, fanno passare in secondo piano la vera origine dei drammatici problemi calabresi”. Un passaggio che ha spinto già autorevoli colleghi a parlare di tentativo di “sospendere la libertà di stampa in Calabria e forse persino la libertà di opinione” con l’invito all’ex Capo della Dna, Piero Grasso, oggi candidato del Pd ma regnante all’epoca della stesura della relazione, ad intervenire e fare chiarezza. Certo, è utile sapere se il passaggio contenuto nella relazione sia condiviso da Grasso oppure sia solo il frutto di una lettura distratta della relazione predisposta da altri. Così come è importante sapere se il Csm ed il suo capo, cioè il Presidente della Repubblica, condividano il passaggio stesso. Nell’attesa è appena il caso di ricordare che le polemiche tra pm e tra giudici non sono il frutto di esagerazioni o invenzioni giornalistiche ma un dato, questo sì oggettivo, rinveniente da dichiarazioni, posizioni o iniziative che il mondo giornalistico si limita a riferire, naturalmente sentendosi libero, fino a quando qualcuno non deciderà che la libertà di stampa in Italia non è più in vigore, di esprimere valutazioni o di fare commenti. Così come è il caso di ricordare che i giornalisti calabresi sono stati sempre in prima linea, naturalmente dalla propria postazione, che è diversa da quella di forze dell’ordine e magistrati, nel denunciare i fenomeni criminali che condizionano la vita civile nella nostra regione. Tanto che sono molti i giornalisti calabresi fatti oggetto di minacce ed intimidazioni anche gravi da parte di esponenti della ndrangheta. Contro queste intimidazioni i giornalisti calabresi intendono continuare a battersi con forza, unitamente a quanti, per la specificità del proprio lavoro, sono chiamati ad interdire quotidianamente l’invasività e l’aggressività della malapianta mafiosa. Malapianta che si combatte anche con il coraggio di esprimere sempre e liberamente le proprie idee, anche se questo non piace a qualcuno o a tanti. Giuseppe Soluri, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Calabria; Carlo Parisi, Segretario del Sindacato Giornalisti della Calabria".

In Calabria le storie si ripetono.

Parliamo di Maria Concetta Cacciola. L'ultima confessione di Maria Concetta Cacciola. Maria Concetta Cacciola, di Rosarno, la testimone di giustizia suicidatasi ingerendo acido muriatico il 22 agosto del 2011. Tre familiari della testimone sono stati arrestati a Reggio Calabria, 9 febbraio 2012, per maltrattamenti in famiglia e violenza o minaccia per costringerla aritrattare le dichiarazioni rese all'autorità giudiziaria nel corso dell'operazione Califfo contro la cosca Pesce. Contestualmente sono stati eseguiti anche 11 provvedimenti di fermo emessi dalla Dda di Reggio Calabria per associazione mafiosa, scrive Raffaella Fanelli su “Panorama”. "Ho detto quelle cose per andarmene da casa, ero arrabbiata… mi sentivo confusa … ho detto cose false contro mio padre e mio fratello. Volevo vendicarmi di loro…  fargliela pagare”. Una registrazione di 11 minuti che Panorama.it pubblica in esclusiva. La voce è quella di Maria Concetta Cacciola, la testimone di giustizia che si sarebbe suicidata bevendo acido muriatico il 20 agosto 2011 a Rosarno. Aveva raccontato alla Dda di Reggio Calabria le attività criminali della sua famiglia. Pochi giorni fa  i carabinieri di Gioia Tauro hanno arrestato i  genitori e il fratello della 31enne, con l’accusa di aver esercitato violenze, minacce e forti pressioni psicologiche per farla ritrattare, compresa la prospettiva di non farle più vedere i suoi tre figli. In manette sono finiti Michele e Giuseppe Cacciola, padre e fratello della donna, e la madre Anna Rosalba Lazzaro. Maria Concetta una settimana prima  di suicidarsi, registrò l’audio che pubblichiamo, lo stesso consegnato in procura per ritrattare le sue dichiarazioni. Da quest’audio sono partite le indagini per istigazione al suicidio. Una registrazione che si interrompe. Accanto a Maria Concetta c’è qualcuno. Qualcuno che spegne il registratore, che suggerisce alla giovane cosa dire. “E’ da tre giorni che sono a casa mia, tra mio padre, mia madre e i miei fratelli. E i miei figli. Qui ho ritrovato la serenità che cercavo”. Una serenità che l’avrebbe portata ad ingerire acido muriatico. La testimone di giustizia era figlia del cognato del boss Gregorio Bellocco, uno dei capi di spicco dell’omonima cosca che insieme alla potente ‘ndrina dei Pesce gestisce il traffico di armi e stupefacenti, e non solo in Calabria.  Cosche potenti unite da stretti legami, anche familiari. Maria Concetta era cugina di Giuseppina Pesce, l’ex pentita dell’altra cosca storica della ‘ndrangheta di Rosarno che con le sue dichiarazioni  ha mandato in carcere anche la madre e la sorella, oltre a due carabinieri e a un agente di polizia penitenziaria sul libro paga della cosca Pesce. Salvatore Figliuzzi, il marito di Maria Concetta Cacciola è attualmente detenuto per scontare una condanna a otto anni di reclusione per associazione mafiosa. Nella registrazione, la donna afferma di aver incontrato due magistrati. “Mi hanno portata a Cosenza, poi a Bolzano – ha detto ancora al registratore la donna – facendo pressione su delle cose, delle famiglie. Io ero presa di rabbia e mettevo sempre mio padre e mio fratello in tutto, perché volevo fargliela pagare”. Quindi Maria Concetta Cacciola avrebbe “messo in tutto” il padre e il fratello per vendicarsi.    Eppure due giorni prima di togliersi la vita Maria Concetta cercò  di riprendere i contatti con i carabinieri.  Oltre ai familiari di Maria Concetta, sono indagati anche due avvocati, Vittorio Pisano e Gregorio Cacciola;  i magistrati della Procura di Palmi che coordinano le indagini, infatti, intendono accertare la regolarità del comportamento tenuto dai due legali nella vicenda della ritrattazione della donna.

Palmi, moglie del mafioso bevve acido. I giudici: “Indagare su finto suicidio”. La donna è morta nell'agosto del 2011: la Corte d'Assise ha assolto i familiari dall'accusa di induzione al suicidio, ma ha trasmesso gli atti alla Procura per verifica che non le sia stata fatto assumere la sostanza. In una registrazione destinata alla madre aveva detto: "So che non ti vedrò mai, perché questo è l'onore della famiglia: avete perso una figlia", scrive Lucio Musolino suIl Fatto Quotidiano”. Colpo di scena al tribunale di Palmi dove si è concluso il processo contro i genitori e il fratello della testimone di giustizia Maria Concetta Cacciola, morta nell’agosto 2011 dopo avere ingerito acido muriatico. La Corte d’Assise di Palmi ha condannato i familiari della donna non per induzione al suicidio, ma solo per maltrattamenti, reato “aggravato per avere agito con metodo mafioso e al fine di agevolare l’associazione a delinquere di tipo mafioso denominata ‘ndrangheta, e in particolare la cosca Bellocco-Cacciola”. È proprio questo il punto: il presidente Silvia Capone e i giudici popolari davanti ai quali si è celebrato il processo non pensano si sia trattato di suicidio ma di omicidio commesso dalle cosche. La Corte d’Assise ha, quindi, trasmesso gli atti alla Procura di Palmi per verificare se alla testimone di giustizia sia stato fatto bere l’acido che l’ha uccisa e se poi sia stato inscenato un finto suicidio. Secondo i magistrati gli imputati avrebbero “impiegato un mezzo venefico e agito con premeditazione”. La svolta è arrivata dopo la relazione del consulente medico-legale che ha effettuato l’autopsia sul corpo di Maria Concetta Cacciola. Quest’ultima, prima di morire, aveva abbandonato il programma di protezione ed era rientrata a Rosarno. Costretta a ritrattare le precedenti dichiarazioni e affidarle a una registrazione, la donna cresciuta in una famiglia di ‘ndrangheta ha pagato con la vita l’essersi rivolta ai carabinieri. “Perdonami se puoi. So che non ti vedrò mai perché questa sarà la volontà dell’onore, che ha la famiglia. Per questo avete perso una figlia. Addio, ti vorrò sempre bene”. Sono le parole attraverso le quali la Cacciola aveva spiegato alla madre, Anna Rosalba Lazzaro, la sua scelta di collaborare con lo Stato, di diventare infame. Una scelta che non poteva essere accettata da chi respira l’aria di ‘ndrangheta da sempre. Proprio alla madre, ora condannata a 2 anni di carcere, aveva affidato i figli raccomandandole di dar loro una “vita migliore” di quella che la sua famiglia, legata alla cosca Pesce-Bellocco, le aveva riservato: “A 13 anni sposata per avere un po’ di libertà… credevo potessi tutto, invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava né l’amo e tu lo sai”. Frasi che fanno comprendere le pressioni e le vessazioni subite negli anni dalla testimone. Voleva portare con sé i figli, ma il padre e il fratello non gliel’hanno consentito. Il primo, Michele Cacciola (cognato del boss Gregorio Bellocco), è stato condannato a 6 anni di carcere, mentre a Giuseppe Cacciola, fratello di Maria Concetta, sono stati inflitti 5 anni e 4 mesi. Dopo essersi nascosta a Cosenza, a Bolzano e a Genova, la testimone voleva riabbracciarli. In fondo, per loro, aveva saltato il fosso. E sempre per loro voleva ritornare indietro. Con un marito in carcere a scontare una condanna a 8 anni per associazione mafiosa, sarebbe stato normale che i tre figli seguissero la madre. Era lei che, in quel momento, esercitava la patria potestà su di loro che non sarebbero dovuti rimanere in quell’ambiente dal quale la donna stava scappando.

Donne e libertà: il prezzo è la morte, scrive Laura Aprati su “Malitalia”. Domani si celebrano a Milano i funerali di Lea Garofalo, la collaboratrice di giustizia uccisa,la notte tra il 24 e 25 novembre 2009, dall’ex compagno Carlo Cosco, padre di sua figlia Denise. Lea ha pagato con la vita la sua volontà di ribellarsi alla “famiglia”, al concetto di onore,omertà,connivenza che da sempre le era ruotato intorno. Ma proprio in questi giorni è stata depositata la sentenza relativa al processo per la morte di un’altra giovane donna calabrese che voleva ribellarsi alla sua famiglia. Maria Concetta Cacciola morta il 21 agosto 2011 per aver ingerito acido muriatico. A processo sono andati la madre,Anna Rosalba Lazzaro, il padre Michele ed il fratello Giuseppe. Già nell’ordinanza di custodia cautelare si leggeva “ Se le pagine del processo che saranno a breve esaminate non fotografassero una realtà brutale e soffocante, si potrebbe credere di leggere l’appassionante scenografia di un film, nella quale una giovane donna di soli 31 anni, madre di tre figli e costretta a vivere una vita che non le appartiene, decide in un anonimo pomeriggio di fine estate di togliersi la vita, ingerendo acido muriatico, nella disperata illusione di poter riacquistare la tanta sognata libertà.” Una sceneggiatura che ha trovato purtroppo riscontro nei dati del processo che ha portato alla condanna dei familiari di Maria Concetta. Dalla sentenza si legge e si fotografa, in un bianco e nero indelebile, quale è il ruolo della madre. Una madre che a chi, non in fase dibattimentale ma in un colloquio, le fece notare che la figlia,morta, era molto giovane e che aveva avuto il primo figlio a 15 anni, rispose “E che c’è di strano anche io l’ho avuta a 15 anni!”.Come se,visto che era successo a lei perché no alla figlia. Una figlia che prima di morire le scrive e la implora “…..me la prendevo con la persona che volevo più bene.. eri tu e per questo ti affido i miei figli dove non c’è l’ho fatta io so che puoi inc… ma di un’unica cosa ti supplico, non fare l’errore mio… a loro dai una vita migliore di quella che ho avuto io, a 13 anni sposata per avere un po’ di libertà… Dagli quello che non hai dato a me”.
Una madre che viene descritta nelle motivazioni della sentenza così”….come la LAZZARO accompagnasse costantemente Maria Concetta le rare volte in cui quest’ultima usciva di casa curandosi di non lasciarla mai da sola. E tale condotta non può che essere sintomo della consapevolezza con cui l’imputata aveva accettato ed eseguito l’incarico di controllare i movimenti della figlia, che le era stato evidentemente affidato dagli uomini della sua famiglia. La vera e propria adesione della LAZZARO a tale modello comportamentale emerge poi in maniera evidentissima dalle intercettazioni telefoniche e ambientali; prima tra tutte quella del 2 agosto – già citata – in cui Michele CACCIOLA intima alla moglie di seguire la figlia fino al bagno per assicurarsi che non mandasse messaggi (Michele: “Entra con lei dentro che non mandi qualche messaggio” Voce Femminile: “Ah?” Michele: “Che non mandi qualche messaggio”)”. Gli uomini inseguono l’onore e le donne fanno si che lo mantengano, lo fanno anche “imponendo” la morte alla propria figlia. E a questo partecipano, parenti, amici, avvocati, medici. Tutti pronti a costruire una verità “alternativa” che confuti le parole di Maria Concetta che era diventata un vero problema per la “famiglia”. Il 18 agosto 2011 Maria Concetta (in una intercettazione ambientale)dice alla mamma “Io me ne vado mamma!”Si legge in sentenza “È dunque verosimile che la decisione di eliminarla fosse maturata proprio in quell’ultimo periodo, quando il rischio che scappasse di nuovo aveva reso impellente la necessità di rendere “irrevocabile” la ritrattazione delle sue accuse”…..La sentenza è chiara e netta “…..va osservato come le modalità particolarmente allarmanti della condotta, il dilatatissimo arco temporale in cui la stessa è stata posta in essere e l’intensità del dolo da cui è risultata connotata, non consentono di concedere a nessuno degli imputati le circostanze attenuanti generiche.
E inoltre “Se la causa di morte stricto sensu intesa è innegabilmente quella cristallizzata nel capo di imputazione (più precisamente l’asfissia determinata dall’assunzione di una sostanza altamente tossica a corrosiva), gli esiti dell’istruttoria dibattimentale svolta – a giudizio della Corte – impongono di concludere che la donna non si sia inflitta autonomamente tale atroce morte ma che sia stata, al contrario, assassinata”. E per la madre, Anna Rosalba Lazzaro la condanna è a due anni ma pur essendo incensurata non le viene concessa la sospensione condizionale della pena “ non essendo favorevole la prognosi in ordine al fatto che ella si asterrà in futuro dal commettere altri reati…” Alla fine delle 264 pagine della sentenza si legge “Ordina la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica D.D.A. presso il Tribunale di Reggio Calabria per quanto di competenza nei confronti di tutti gli imputati in ordine agli ulteriori reati di cui agli artt.110, 369, 372, 378, c.p., tutti aggravati dall’art.7 del D.L.152 del 13-05-1991 per avere agito con metodo mafioso ed al fine di agevolare l’associazione a delinquere di tipo mafioso denominata ‘ndrangheta, ed in particolare la cosca BELLOCCO-CACCIOLA.” Un bravo sceneggiatore, o un grande giallista, forse ad un certo punto del libro avrebbe trovato il modo per “redimere” i suoi personaggi. La realtà, in questo caso, è andata oltre e per Maria Concetta i carnefici sono stati i suoi genitori. Ma la fine di questa storia non è ancora stata scritta.

Maria Concetta Cacciola uccisa per non farla parlare. Arrestati i genitori. Le accuse della Dda che hanno portato all'arresto dei familiari della donna, collaboratrice di giustizia e madre di tre figli, e di due avvocati. Per i pm fu costretta a bere acido muriatico simulando poi un suicidio, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Voleva svelare i segreti dei clan della 'ndrangheta della piana di Gioia Tauro. Ma, per impedirle di collaborare con la giustizia, sarebbe stata uccisa dai genitori e dal fratello. L'omicidio sarebbe stato camuffato con un suicidio. Alla vittima, Maria Concetta Cacciola, madre di tre bambini, il 20 agosto 2011 sarebbe stato fatto bere dai familiari acido muriatico per simulare il suicidio e tapparle definitivamente la bocca. Su questo omicidio hanno indagato a lungo i carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria, coordinati dai pm della procura antimafia. Adesso, dopo lunghi accertamenti e intercettazioni ambientali, è emerso un quadro sconcertante. I giudici hanno stabilito che per impedire la collaborazione con la giustizia di Maria Concetta Cacciola si era mossa una squadra criminale. Uomini al servizio dei clan della 'ndrangheta che avevano l'obiettivo di impedire che la donna continuasse a parlare ai magistrati svelando i segreti dei boss. I capimafia temevano soprattutto la possibile emulazione di altre donne, segregate e costrette a vivere in famiglie mafiose, che avrebbero potuto seguire la strada tracciata da Maria Concetta Cacciola. L'inchiesta, coordinata dai pm della Dda di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti e Giovanni Musarò, e da Giulia Masci, della procura di Palmi, è stata lunga e travagliata. Ma si è arricchita di tanti particolari e prove sostanziose che delineano un quadro in cui il gruppo familiare avrebbe deciso di eliminare una figlia pur di salvare i mafiosi che dominano sul territorio. Così i carabinieri hanno arrestato cinque persone, il padre, la madre e il fratello della vittima, e poi due avvocati penalisti molto noti nella piana di Gioia Tauro: Gregorio Cacciola e Vittorio Pisani. Per i familiari l'accusa è di concorso in violenza privata, concorso in violenza o minaccia per costringere a commettere un reato, concorso in favoreggiamento personale, tutti aggravati dall’aver favorito la 'ndrangheta. Per gli avvocati le accuse sono pesanti: avrebbero indotto la donna a ritrattare le dichiarazioni che aveva fatto ai magistrati. Nelle intercettazioni eseguite emerge come l'avvocato Pisani ogni volta che parlava con i propri clienti, accusati di mafia, controllasse bene l'ambiente in cui si trovavano, per verificare se fossero state collocate microspie da parte delle forze dell'ordine, poiché sospettava di essere intercettato. Dalle registrazioni fatte, invece, grazie ai microfoni piazzati dai carabinieri nello studio legale dell'avvocato Gregorio Cacciola, emerge una sconcertante contiguità del professionista con gli ambienti della criminalità organizzata di Rosarno, nel cuore della Piana di Gioia Tauro. Da alcuni dialoghi captati all’interno dello studio legale, i magistrati hanno dedotto che l'avvocato Cacciola aveva definitivamente saltato il fosso, fungendo stabilmente da “consigliori” dell’attività di diversi soggetti appartenenti o contigui alla 'ndrangheta, dispensando consigli e direttive che nulla hanno a che fare con un mandato difensivo lecito, neanche di un professionista che opera in un contesto difficile come quello rosarnese. Il legale, ad esempio, avrebbe consigliato ad un indagato di darsi alla latitanza, invitato il padre di un detenuto a non parlare durante i colloqui perché potrebbero esserci microspie, si è dichiarato disponibile a portare messaggi ai detenuti, utilizzando affermazioni proprie dei mafiosi. Quando si riferisce alle forze dell’ordine us con disprezzo il termine “sbirri”, riceve e riferisce confidenze su fatti gravissimi, come omicidi, avvenuti nel mandamento tirrenico e su dinamiche interne alla ‘ndrangheta .Maria Concetta Cacciola sognava la libertà. Per questo era destinata a morire.

Una donna che non si è piegata al volere della famiglia, del marito e della 'ndrangheta. Così scriveva all'uomo con cui voleva fuggire: «So che se torno a casa ti ho perso. I miei non perdonano l’onore e la dignità e io, per loro, li ho traditi entrambi», scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. «Mio papà ha due cuori: la figlia o l’onore?... In questo momento dice che vuole la figlia, però dentro di lui c’è anche quell’altro fatto». È il 6 agosto 2011 e Maria Concetta Cacciola sta parlando al telefono con l’amica Emanuela. Si trova a Genova, in località segreta, e da qualche settimana sta collaborando con la giustizia. A casa, a Rosarno, ha lasciato tre figli, che le mancano terribilmente. Ma sa che se tornasse da loro rischierebbe la vita, perché ha infranto il codice dell’onore. Che per il padre ha la stessa sacralità della vita di sua figlia. Maria Concetta ha poco più di trent’anni, è nata a Rosarno e la sua è una famiglia di ’ndrangheta. Il padre, Michele Cacciola, è cognato del boss Gregorio Bellocco e vanta trascorsi criminali di tutto rispetto. È stato più volte in carcere e il figlio Giuseppe, fratello di Maria Concetta, segue con successo le sue orme. Ha collezionato denunce per mafia, usura, riciclaggio, traffico di armi, e si è fatto anche lui qualche soggiorno in galera. Maria Concetta subisce fin da ragazzina il peso di regole rigide e soffocanti. Chiusa in casa, controllata a vista, conduce una vita da reclusa e vagheggia una libertà che le appare a portata di mano quando un ragazzo del paese, Salvatore Figliuzzi, comincia a corteggiarla. Lei ha tredici anni ma per i genitori non ci sono problemi, basta che tutto avvenga secondo le regole: così, dopo l’immancabile fuitina, quando lei compie sedici anni vengono celebrate le nozze. Purtroppo però il sogno di felicità di questa sposa bambina viene presto scalzato dalla realtà. Non ama il marito e scopre che neppure lui ama lei: l’ha sposata solo per entrare nel circolo mafioso della sua famiglia. Salvatore in effetti non è propriamente un marito amorevole e premuroso. Un giorno, durante una lite scoppiata per una sciocchezza, mette a tacere la moglie puntandole contro una pistola. Lei, spaventata a morte, cerca di trovare rifugio a casa dei genitori, lontana da quel mostro. Una volta al sicuro, racconta l’accaduto al padre sperando che rimproveri Salvatore. Ma la reazione di Michele Cacciola è di tutt’altro tenore: «Questo è il tuo matrimonio e te lo tieni per tutta la vita», sentenzia gelido. A quest’uomo non interessa che la figlia stia male, che debba subire i soprusi di un marito violento. Per Michele Cacciola non è sul piano dei sentimenti che si affrontano questioni come queste. In quanto donna sposata, lei è tenuta a piegarsi alla volontà del suo uomo, che le piaccia o no. Nella Piana, una moglie deve conformarsi alle regole che rendono rispettabili agli occhi del mondo, e lui intende continuare a camminare per il paese a testa alta e non tollererà infrazioni da parte della figlia. Maria Concetta obbedisce e si rassegna. Non è felice, né tantomeno libera. Ma tira avanti sorretta dall'amore profondo per i suoi tre bambini. Coronato il suo sogno di entrare in una famiglia di ’ndrangheta, Salvatore Figliuzzi è presto tenuto ad affrontare il suo primo esame da vero mafioso: il carcere. Nel 2005 è condannato a otto anni di reclusione nel processo «Bosco Selvaggio», che spedisce in prigione Gregorio Bellocco e quasi una ventina di affiliati al suo clan. Vegliare su Maria Concetta, sola e quindi esposta a pericolose tentazioni, spetta adesso ai maschi della sua famiglia. Che eseguono il compito con rigore ammirevole. Nelle lettere che scrive al marito detenuto, la giovane donna si lamenta dell’isolamento in cui è costretta a passare le sue giornate. Dice di non farcela più a crescere i figli da sola, di aver voglia di morire e di provare rabbia verso la vita, che non le riserva alcuna gioia. «Esco la mattina per andare a portare i figli a scuola... Non posso avere contatto con nessuno, a cosa mi serve la mia vita quando non posso avere contatto con nessuno?» si sfoga con il marito nel novembre 2007. Nella stessa lettera, racconta a Salvatore di essere uscita proprio quella mattina per portare una medicina a un’amica. Non certo da sola, con lei c’era il figlio Alfonso, ma questo non è bastato a impedire che il padre al rientro la rimproverasse severamente. È esasperata e scrive: «Come posso campare così se non posso nemmeno respirare... dimmi tu cosa ho fatto di male se non posso nemmeno avere uno sfogo, gli piace di vedermi disperata dalla mattina alla sera». Per anni le cose vanno avanti nella solita monotonia paesana e con la morte nel cuore. La villetta in cui questa giovane madre vive coi figli è una cella confortevole ma soffocante. I genitori abitano al piano di sotto, la aiutano coi bambini, non le fanno mancare niente. Ma non le concedono il minimo spazio di libertà, punendola ogni volta che pensano abbia infranto le regole. È un’esistenza d’inferno, ma un giorno succede qualcosa che le restituisce la voglia di vivere. Maria Concetta, grazie a Facebook, conosce un uomo di Reggio Calabria che lavora in Germania. Si innamora di lui. Per un paio di anni la famiglia Cacciola non sospetta nulla. Poi, nel giugno 2010, cominciano a piovere in casa lettere anonime che denunciano ai genitori la relazione clandestina di Maria Concetta, fino a quel momento solo platonica. A niente sono dunque serviti i controlli e le porte sbarrate: la figlia è riuscita comunque a coprirli di disonore e presto in paese lo sapranno tutti. Il padre e il fratello sono furiosi. Chiedono a Maria Concetta se questa storia sia vera e lei, con coraggio, non solo non nega ma dice di avere intenzione di lasciare il marito. Davvero troppo, per i due uomini, che la massacrano di botte. Le si avventano addosso con tanta violenza da fracassarle una costola. Di andare in ospedale non si parla nemmeno, perché dopo quello che ha fatto, di lei non c’è più da fidarsi. Così viene chiamato un medico amico, zio di Michele Bellocco e già condannato qualche anno prima per aver favorito un membro della cosca Pesce. Uno dei tanti professionisti che in Calabria, con certificazioni o visite a domicilio ad hoc, aiutano boss e latitanti a restare lontani dal carcere. Con discrezione e riserbo, questo compiacente dottore cura la donna per tre mesi, senza nemmeno prescriverle una radiografia. Le ferite guariscono, ma la morsa dei controlli, per lei, si fa ancora più stretta di prima. Il fratello e alcuni cugini la pedinano ossessivamente ogni volta che si muove per le vie di Rosarno. La cognata le raccomanda di non fare conversazioni compromettenti al telefono, quando è in casa, perché Giuseppe ha piazzato qualche strano marchingegno per spiarla. Maria Concetta è allo stremo della sopportazione, non può più in alcun modo disporre di sé, della sua vita. È una prigioniera senza speranza. Ma non è solo l’assenza di prospettive a preoccuparla. Maria Concetta conosce la legge del clan e sa che in gioco c’è la sua vita. Ha tradito il marito e ha disonorato la famiglia: da un momento all’altro potrebbe succederle qualcosa di terribile. È in questo stato emotivo che si presenta in caserma l’11 maggio 2011. Hanno rubato il motorino al figlio più grande e lei è convocata per le solite questioni burocratiche. Quando si trova davanti al maresciallo che si sta occupando della pratica, Maria Concetta, d’impulso, gli rivolge una disperata richiesta di aiuto. Agitata, intimorita e continuamente interrotta dalle telefonate della madre, che vuole sapere dov’è, racconta in breve la sua storia: il marito in carcere, le lettere anonime, la segregazione e i pedinamenti. Parla in fretta e dice di non potersi trattenere a lungo perché ha paura del padre: «Se la mia famiglia viene a sapere che oggi sono qua a raccontare queste cose mi ammazza», spiega prima di uscire dalla stazione dei carabinieri. Quattro giorni più tardi la donna viene di nuovo convocata in caserma. I fatti che ha raccontato rivelano retroscena assai interessanti sulla vita del clan e gli investigatori vogliono riascoltarla per farsi un’idea più precisa della situazione. Lei ammette di avere una relazione extraconiugale e confessa di avere molta paura che il fratello la uccida per il suo tradimento. «Mio fratello ha un brutto carattere ed è capace di fare qualsiasi cosa, anche di farmi sparire», ripete più volte ai militari dell’Arma che la stanno ascoltando. Se il padre Michele in qualche modo può essere placato dall’intercessione della madre, Giuseppe invece è molto «testardo», perché è «cresciuto frequentando persone più grandi di lui sin da giovane» e si è conquistato così il «rispetto» della gente. "Rispetto" che adesso rischia di perdere per colpa sua. Per l’onta che potrebbe lasciare il tradimento, semmai venisse alla luce. Se ancora non l’ha uccisa è solo perché sta cercando delle prove. Quando le avrà trovate ammazzerà lei e il suo amante. Per questo l’angoscia non l’abbandona mai e ogni volta che il fratello si presenta in casa lei trema. Perché «prima o poi mio fratello mi viene a dire: “Vieni con me” e a quel punto sono sicura che mi farebbe sparire». Ha già pensato di andarsene, di farsi ospitare da qualche amica che abita al Nord. Più di una volta è andata in agenzia a comprare il biglietto per il viaggio, ma all’ultimo momento ha cambiato idea. Per paura. Perché i suoi familiari sarebbero capaci di fare del male a chiunque la aiutasse e lei non vuole che altre persone ci vadano di mezzo. Il percorso della collaborazione con la giustizia inizia da qui. Maria Concetta Cacciola ha cose molto scottanti da raccontare, come dimostra ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia che la ascoltano nei giorni successivi alla sua richiesta di aiuto ai carabinieri. E' disposta a farlo in cambio di protezione. Ha fatto la sua scelta e deve solo aspettare il momento opportuno per scappare di casa. Finalmente nel suo orizzonte asfittico si apre uno squarcio di luce, la prospettiva di una vita autonoma. Questa volta non si tratta di un’illusione: Giusy Pesce, sua cugina, ha fatto questa scelta prima di lei ed è riuscita non solo a salvare la pelle, ma anche a crearsi un’esistenza nuova accanto all’uomo che ama. Sarà difficile, si ritroverà tutti contro, ma già adesso, in fondo, è così. C’è un unico pensiero a trattenerla, a smorzare la sua determinazione: i suoi figli. Li adora, ma non può portarli con sé. Così decide di lasciarli alla persona che ama di più, che sente vicina, che sa che se ne prenderà cura come farebbe lei stessa: Anna Rosalba Lazzaro, sua madre. «Non so da dove si inizia e non trovo le parole a giustificare questo mio gesto», le scrive nella lettera di addio. «Mamma tu sei mamma e solo tu puoi capire una figlia... so il dolore che ti sto provocando, e spiegandoti tutto almeno ti darai una spiegazione a tutto... non volevo lasciarti senza dirti niente. Quante volte volevo parlare con te e per non darti un dolore non riuscivo. Mascheravo tutto il dolore e lo giravo in aggressività, e purtroppo non potevo sfogarmi e me la prendevo con la persona che volevo più bene... eri tu e per questo ti affido i miei figli, dove non ce l’ho fatta io so che puoi [...] ma di un’unica cosa ti supplico, non fare l’errore mio... a loro dai una vita migliore di quella che ho avuto io, a tredici anni sposata per avere un po’ di libertà... credevo potessi tutto, invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava né l’amo, e tu lo sai. Ti supplico, non fare l’errore a loro che hai fatto con me... dagli i suoi spazi... se la chiudi è facile sbagliare, perché si sentono prigionieri di tutto.» Per i suoi figli Maria Concetta vuole un destino diverso dal suo: «In fondo sono sola, sola con tutti e tutto, non volevo il lusso, non volevo i soldi... era la serenità, l’amore che si prova quando fai un sacrificio, ma avere le soddisfazioni, a me la vita non ha dato nulla che solo dolore». È con una pena bruciante che dovrà convivere ogni singolo giorno della sua nuova vita da donna libera, e lo sa bene: «La cosa più bella sono i miei figli» scrive «che li porterò nel mio cuore, li lascio con dolore, un dolore, che nessuno mi ricompensa. Non abbatterti perché non lo farai capire ai miei figli, datti forza per loro, non darglieli a suo padre, non è degno di loro. [...] Io vivrò finché Dio mi lascia ma voglio capire come si può trovare la pace in me stessa [...] Mamma perdonami, ti prego ti chiedo perdono di tutto il male che ti sto provocando. Ti dico solo che dove andrò avrò la pace, non mi cercate perché vi mettono nei casini. E non voglio arrivare dove sono arrivati gli altri, per stare in pace. Ora non riesco a parlare più, so solo io quello e come la sto scrivendo ma non potevo lasciarti senza dirti e darti un saluto, so che non ti abbraccerò né ti vedrò ma negli occhi ho solo te e i miei figli. Ti voglio bene... mamma abbraccia i miei figli come hai sempre fatto e parlagli di me, non lasciarli a loro, non sono degni di loro, di nessuno. Mamma Addio e Perdonami, Perdonami se puoi». Nel flusso di parole pesanti di emozione trova spazio, prima dell’ultimo addio, un risentito rimprovero per chi in fondo l’ha messa nelle condizioni di fare quello che sta facendo: «So che non ti vedrò Mai perché questa sarà la volontà dell’Onore, che ha la famiglia, per questo che avete perso una figlia». È per colpa dell’onore che lei è costretta a fuggire, è perché loro, il padre, il fratello e in fondo anche la madre, hanno sempre anteposto il codice a lei, alle sue esigenze, alla sua felicità. E ora che se ne sta andando trova il coraggio di rinfacciarglielo. La notte tra il 29 e il 30 maggio 2011 Maria Concetta Cacciola viene prelevata di nascosto dai carabinieri del Ros e trasferita in un agriturismo a Cassano sullo Ionio. Assapora le prime settimane di vera indipendenza della sua vita. Chi la conosce in questa fase – il gestore della struttura, un cliente e una cameriera che saranno più tardi interrogati dagli inquirenti – la descrive come una ragazza solare, aperta, sempre di buon umore. Dentro, il dolore per i suoi figli è vivo, ma la leggerezza della libertà è inebriante per questa donna che non l’ha mai davvero sperimentata. Il 22 giugno Maria Concetta viene trasferita a Bolzano, da dove cinque giorni più tardi, per motivi di sicurezza, è condotta a Genova. Da un mese è lontana da casa, non ha più avuto contatti con nessuno dei suoi familiari, come prescrive il regime di protezione, e in lei si insinua la nostalgia della madre e dei figli. La voglia di sentirli è tanta, forse più di quella che pensava di dover affrontare. Si accorge di non essere abbastanza preparata. Così il 2 agosto, d’impulso, chiama la madre, le rivela dove si trova e le dice di volerla incontrare. Anna Rosalba Lazzaro e il marito non aspettano altro, si mettono subito in viaggio e la raggiungono a Genova. Da qui ripartono la sera stessa per tornare a Rosarno, portandosi dietro la figlia. Un attimo di debolezza? Un ripensamento improvviso? L’amore materno che ha avuto la meglio? Forse è l’insieme di tutte queste cose a indurre Maria Concetta a salire in auto con i genitori. Durante il viaggio capisce di aver fatto un errore. Il padre, come rivelano agli inquirenti i microfoni nascosti nell’auto, cerca come prima cosa di capire quanto compromettenti siano le dichiarazioni rilasciate dalla figlia ai pm, e quando lei ammette di aver parlato addirittura di un omicidio, lui e la moglie esplodono: «Hai fatto... omicidio?... ah disg...» inveisce la madre maledicendola. Maria Concetta evidentemente sa più di quanto pensassero. Vivendo in famiglia, per quanto non abbia alcun ruolo nelle attività criminali, ha assorbito informazioni preziose, ha ascoltato «discorsi di malavita che a lei non piacevano», come rivela all’amante all’inizio del loro rapporto, confessandogli di appartenere a una potente famiglia di ’ndrangheta. Sfogata l’ira, i coniugi Cacciola cambiano registro, sforzandosi di apparire concilianti. «Cetta» le dice il padre rassicurante, «ti giuro a papà che nel giro di dieci giorni a Rosarno non si parlerà più di noi, stai sicura e tranquilla.» E ancora: «A noi può darci il torto, non a te, a noi... tu hai una vita davanti, stai tranquilla con la tua famiglia». Dentro di lui cova la rabbia, ma la gioia per aver riconquistato la figlia sembra più forte, e pare anche sincera. «Me la prendevo con te [...] per il fatto dello sgarro, perché lo sgarro non me lo meritavo» le dice. «Io sono sicuro al cento per cento, lo sa tuo fratello, lo sanno tutti, lo sa tutto Rosarno, loro le cose me le fanno di altre cose, io voglio che mia figlia ritorni a casa, non la voglio [...] ricordati che gente siamo, ricordatelo, ricordati che non c’è nessuno [...] e se io debbo fare sacrifici per [...] io vado [...] hai capito? Perché tu sei sangue mio, e se io debbo passare problemi, e io li passo e non mi interessa. [...] Che ho passato lo so solo io, però non mi interessa niente, io lo so di essere stato disonorato.» A poco a poco, dietro tutte queste manifestazioni di amore paterno, comincia a intravedersi un intento preciso: tenersi buona la figlia affinché, una volta a casa, si rimangi tutto quello che ha raccontato ai pm. È questo che preme a Michele Cacciola, sopra ogni altra cosa. Maria Concetta, chilometro dopo chilometro, si rende conto sempre di più di essere in trappola. Arrivati a Reggio Emilia, dove lei e i genitori vengono ospitati per la notte da una cugina di Anna Rosalba, chiama gli uomini del servizio di protezione, dice loro dov’è e chiede che la vengano a riprendere. Il mattino seguente i coniugi Cacciola sono costretti a ripartire per Rosarno senza la figlia, ma nelle ore trascorse con lei hanno potuto saggiarne la vulnerabilità: se ha ceduto una volta, è probabile che lo faccia di nuovo, basta solo essere compatti e mettere in atto una strategia efficace. Così, quando il figlio Giuseppe li chiama, mentre ancora stanno viaggiando, Michele lo esorta a recarsi subito dall’avvocato e a stare tranquillo, perché «a lei la teniamo noi [...] al magistrato deve andare lei e gli deve dire che non vuole essere più protetta». Il padre ha chiaro il percorso, occorre soltanto indirizzarci la figlia, che lui, nonostante la fuga recente, sente di avere in pugno. Ma bisogna cominciare a muoversi da subito, prima che diventi troppo tardi. Quando Maria Concetta, in serata, chiama la madre da Genova, il piano scatta. Giocando subdolamente con i suoi sentimenti, Anna Rosalba Lazzaro comincia a tesserle intorno una tela vischiosa di promesse e rassicurazioni. Vuole che torni, magari potrebbero andare a vivere insieme, tutto si aggiusterà, basta solo che lei lasci perdere tutto e ritratti. «Cetta, vedi che me ne vengo anch’io con te... me ne vengo anch’io con te... ha detto papà che ci intestiamo una casa e me ne vengo anch’io con te [...] tu vieni con me... eh, Cetta lasciala stare... lascia stare tutte cose» le dice. «O Cetta, ascoltami, tu devi dire la verità, Cetta... che tu non sapevi niente... come non esiste.» Ogni volta che si sentono al telefono la madre la incalza, non le dà tregua, vuole sfibrare la sua resistenza: «Cetta tornatene, tornatene indietro che questi qua vogliono il male nostro, loro lo sanno che tu non sai niente e tu devi dirgli che non sai niente... va bene?». L’unica cosa che deve fare Maria Concetta è chiamare l’avvocato, che è già stato preavvisato ed è addirittura disposto a recarsi a Genova per portarsela via: «Viene a prenderti e ti porta dove vuoi tu» le spiega la madre, «dalla zia Giovanna o dalla zia Angela, che ti mando i figli pure». Anna Rosalba sa quanto a Maria Concetta manchino i figli, sa che l’amore materno è in quel momento il suo punto debole, ed è proprio lì che colpisce. «I figli vengono lì con te, non vuoi venire qua? Vai dalla zia Angela, dalla zia Santina, dove vuoi tu.» Insiste ed è tenace, Anna Rosalba, non molla la preda, la sfianca, e quando la figlia sbuffa perché si sente troppo pressata, lei replica asciutta: «Non sei spronata, Cetta, ti stanno spronando loro, non sei spronata, tu devi scegliere: o noi o loro». Maria Concetta è indecisa, si sente fragile, confusa. In quei giorni si sfoga con l’uomo che ama, a cui sa che le toccherebbe rinunciare nel caso tornasse a Rosarno: «So che se torno a casa ti ho perso. I miei non perdonano l’onore e la dignità e io gli ho toccato tutte 2 di queste» gli scrive in un sms il 5 agosto. Il giorno dopo Maria Concetta chiama Emanuela, la sua amica del cuore. Le parole intercettate dagli inquirenti ricostruiscono il ritratto di una donna lucidamente consapevole del destino che la attende a Rosarno, ma incapace di fondare su questa certezza una scelta definitiva. Ammette di avere molta paura di tornare, non tanto per il padre, che per quanto arrabbiato dice di averla perdonata, ma per Giuseppe, che anche Emanuela ritiene molto più pericoloso: «Può anche darsi, Cetta, che tuo padre ha capito tante cose, che tuo padre ha capito tante cose, tanti sbagli che tu davvero hai fatto perché tuo fratello era davvero accanito. Lui era un malato mentale [...] in questo modo, che tuo padre sta soffrendo per te, stai tranquilla che tuo padre a tuo fratello non lo farà avvicinare a te nemmeno con un dito». Giuseppe, d’altra parte, non è certo disposto a tornare in galera, e questa volta per omicidio: «Secondo il mio parere» cerca di rassicurarla l’amica, «non ti fa niente... perché poi lo deve mettere in conto anche lui». «E poi se dovesse succederti qualcosa, chi paga?». Ma l’eventualità che Maria Concetta potesse essere uccisa, qualcuno l’aveva messa in conto davvero a Rosarno. Emanuela le confida infatti che il giorno in cui lei è sparita, la madre si è vestita di nero in segno di lutto e ha cominciato a piangerla come morta. Gli altri «invece di consolarla le dicevano di rassegnarsi, questa era la parola di tutti». «Me lo ha detto, mia mamma, che tutti le dicevano di rassegnarsi, che non è la prima né l’ultima, gli sembrava che me ne fossi andata con qualcuno», replica Maria Concetta. Ma l’amica precisa: «No, o che sei andata con qualcuno o che sei morta». «Ti giuro» le dice, «perché facevano esempi di certe persone che da trent’anni, da quaranta anni non c’erano più nemmeno nella faccia della terra, hai capito? Pensavo io. Pensavo io e gli dicevo a tua mamma: “Ma tu ti rendi conto di quello che ti stanno dicendo? Non possono paragonarti a te con queste persone”». Sono passati decenni ma il codice non è cambiato. Le donne che infangano l’onore è molto probabile che spariscano, quindi non è assurdo che Anna Rosalba si vesta a lutto e pianga la figlia. Maria Concetta però non è morta, è viva, e sta pure raccontando ai magistrati cose che non andrebbero raccontate. Non solo. Gli uomini della sua famiglia sono riusciti a recuperare i tabulati delle sue telefonate all’amante. Hanno scoperto chi è, e sono pure andati a fargli una visita a casa. Glielo ha rivelato la madre e lei, in quel momento, non ha potuto più continuare a negare. «Mia madre mi ha detto che ci sono i tabulati con quella persona [...] mi ha detto: “Vedi che loro sanno tutto”. Quando ti dicono vedi che loro sanno tutto tu cosa fai?». «Mia madre quel giorno mi ha detto: “O figlia, vedi che hanno tutti i tabulati... che hanno i tabulati di quando tu parlavi con una persona”. Ed io quindi a mia mamma in quel momento gli ho detto la verità». «Gli ho detto io... gli ho raccontato le cose come stanno... quando gli ho detto in quel modo si è messa a piangere e mi ha detto: “Figlia, tu devi sapere... io ti aiuto”». Maria Concetta ora sa che la sua condanna è stata emessa. Il padre e il fratello hanno in mano le prove del suo tradimento e se lei tornasse la ucciderebbero perché «l’onore non lo perdonano e questa cosa gli è caduta più del fuoco della fiamma» dice a Emanuela. Anche la madre sa che la figlia rischia la vita se rimette piede in paese, ma questa certezza non la distoglie dalla sua azione di logoramento, che continua a svolgere con più tenacia che mai. Maria Concetta deve uscire dal programma di protezione e rientrare all’ovile, è indispensabile. Perché la priorità, in questo momento, per lei e per il marito non è proteggerla, bensì costringerla a ritrattare. E Maria Concetta lo sa: «Ti dico la verità, che se torno loro sanno perché devo tornare!» spiega amara all’amica. «Loro mi fanno tornare apposta così loro dicono: “Mi cacci stì cose che c’erunu” [ritratti quello che hai detto] hai capito?». E ancora: «Dentro di me un po’ ho paura... anche se lei mi dice di ritornare per lei sono figlia, lo so, però gli uomini sappiamo come sono fatti, specialmente gli uomini lì da me no! Dicono: “Scendi. Così ritratti tutto quello che hai detto e che non hai detto”. Hai capito?». Maria Concetta non si fa illusioni su quello che l’attende a Rosarno. Ma è lì che ci sono i suoi figli, e i genitori se li tengono ben stretti. «Io non so, Manuela... io non ho l’idea... io vorrei tornare a casa mia per i miei figli... perché i figli non me li mandano... non vedi che non me li hanno mandati [...] Non me li hanno mandati i figli e non me li mandano perché loro hanno capito che se mi mandano i figli è finita, non torno più.»  Alla fine sarà proprio questa l’arma che la farà capitolare. L’8 agosto, nel primo pomeriggio, la donna chiama la madre e scopre che è in viaggio per Genova insieme all’altro fratello, Gregorio, e alla figlia più piccola. Maria Concetta è stupita, non vuole vederli perché sa di essere debole, dice loro di tornarsene a casa, che l’hanno già spostata in un’altra città. La madre però non le crede, e allora lei chiede tempo, dice di dover avvisare qualcuno prima di poterli incontrare. In quel preciso istante dal telefono le arrivano le grida e i lamenti della bambina, subito sovrastati dalla voce imperiosa del fratello, che la aggredisce: «Cetta, a chi devi chiamare? Perché devi fare così? Ma la senti tua figlia cosa sta facendo?». «Digli di stare tranquilla» risponde lei, ma si sente replicare: «Che sta tranquilla, Cetta, che questa qua sta morendo». «Va bene dai, aspetta che ora glielo dico... chiudi chiudi, adesso li chiamo», sospira lei. È la sua resa definitiva. Quella sera Maria Concetta Cacciola lascia Genova e torna a Rosarno. Dodici giorni più tardi, il 20 agosto, il padre e la madre raccontano di averla trovata priva di vita nel bagno del seminterrato della loro villetta. Ha bevuto acido muriatico. Michele e Anna Rosalba caricano in macchina la figlia e corrono in ospedale, ma ormai non c’è più nulla da fare. Maria Concetta Cacciola è morta. La sua storia però non è ancora finita. Tre giorni dopo, senza nemmeno aspettare che la figlia venga sepolta, i coniugi Cacciola depositano un esposto alla procura di Palmi. È uno scritto in cui viene fornita una versione dei fatti palesemente distorta, tesa a far apparire Maria Concetta come vittima di un raggiro da parte delle forze dell’ordine, che l’avrebbero forzata a rilasciare dichiarazioni infamanti contro la sua volontà. Sostengono che, approfittando del suo stato di debolezza psicologica, i militari le avrebbero promesso «in maniera subdola [...] una condizione di vita personale di assoluto vantaggio», ovvero una condizione di vita «migliore lontana da qualunque problematica di carattere familiare e personale, oltre forse anche di carattere economico», «che in realtà poi al contrario si è rivelato un autentico inferno», ma che in quel momento ha avuto buon gioco nel convincerla a offrire collaborazione. «Che mai avrebbe potuto offrire essendo la stessa lontana da sempre da qualunque tipologia di collegamento e/o circuito criminale o delinquenziale che dir si voglia.» Una volta tornata a Rosarno, in famiglia, la figlia aveva finalmente ritrovato serenità, spiegano i Cacciola nell’esposto, tutti la ricoprivano di premure e attenzioni, «a parte qualche scenata di ordinaria e naturale gelosia». Se si era tolta la vita, era anche per colpa di chi con l’inganno l’aveva costretta a collaborare, ovvero forze dell’ordine e magistrati, sul cui comportamento era dunque opportuno far luce. Insieme all’esposto, Michele e Anna Rosalba Cacciola depositano la lettera di addio scritta dalla figlia prima di lasciare Rosarno e un’audiocassetta che dicono di aver trovato due giorni prima nel taschino di una camicia. Contiene un messaggio della figlia, che in sostanza confesserebbe di avere accusato il padre e il fratello soltanto per vendicarsi di loro. Tutto quello che ha rivelato finora ai pm, dunque, sarebbe semplicemente frutto della sua fantasia. Si tratta di un testo finalizzato a invalidare tutte le dichiarazioni rilasciate da Maria Concetta nel corso degli interrogatori, ma non è lei ad averlo pensato e non lo ha registrato spontaneamente. Oggi si scopre che a redigere il testo sono stati altri con la complicità degli avvocati arrestati. Lo dimostrano alcuni dettagli, come la presenza in sottofondo di una voce femminile che suggerisce certi passaggi o il fatto che in casa Cacciola, come rilevano le perquisizioni, non ci siano registratori. Ma lo rendono evidente anche i numerosi messaggi che la donna invia negli ultimi giorni di vita al suo amante, da cui non traspare traccia del clima idilliaco che sul nastro dice di aver ritrovato in famiglia. «Mia madre bene, ma mio fratello all’inizio mi ha detto tutto e di più. Ora non mi rivolgono la parola. Mi portano avvocati, avvocati x farmi ritrattare dirgli che uso psicofarmaci e che l’ho fatto x rabbia... ora mia madre mi fa la loro freddezza verso di te mi fa paura... ma io lo so xche lo fanno anche le mogli». In realtà Maria Concetta non ha mai fatto uso di psicofarmaci, le uniche pasticche che ingerisce sono pillole per dimagrire, ma facendola passare per depressa si lede la sua attendibilità di teste. La registrazione è con ogni probabilità effettuata nello studio dell’avvocato della famiglia, forse sulla base di un canovaccio che qualcuno ha già scritto e che Maria Concetta si limita a seguire. Una versione dei fatti che sarebbe peraltro corroborata da una frase che la figlia maggiore di lei, Tania, pronuncia durante un colloquio telefonico col padre detenuto. Quando lui le domanda dove sia in quel momento la madre, lei risponde che è andata dall’avvocato per registrare. In quegli ultimi giorni prima di morire, Maria Concetta è in completa balia dei suoi familiari, che hanno reso i controlli ancor più serrati e la stanno pesantemente manipolando. Vorrebbero addirittura imporle di andare in carcere a trovare il marito, ma lei, almeno su questo, riesce a far prevalere la sua volontà. Ha paura a uscire di casa, non perché teme di incontrare qualcuno che ha denunciato, ma perché si vergogna delle cose che l’hanno costretta a dire i suoi genitori per screditarla e salvarsi. Tutti ormai sanno che lei è tornata e sta ritrattando, anche perché Michele e Anna Rosalba Cacciola si sono premurati di inviare ai giornali l’esposto, la lettera e la registrazione, che vengono pubblicati con grande evidenza. Sanno quanto può essere importante manipolare l’informazione, per incutere timore e cercare consenso. Non tutti i giornalisti si piegano, molti resistono a testa alta, malgrado intimidazioni e minacce. Ma qualcuno disposto ad assecondarli, i clan lo trovano sempre. Maria Concetta è pentita di essere tornata a Rosarno, come scrive negli sms inviati all’amante in quei giorni, e ha deciso di andarsene di nuovo. Così chiede all’uomo di mettersi in contatto con Gennaro, il nome in codice del maresciallo suo riferimento nei Ros, e di illustrargli la situazione: «Parla con Gennaro, digli che i miei mi portano in tutti gli avvocati che x colpa della mia leggerezza sono qui». E ancora: «Prova a chiamare Gennaro spiegagli come è andata e gli dici che voglio rientrare». Il 17 e il 18 agosto Maria Concetta Cacciola telefona più volte alla caserma dei carabinieri. Parla con Gennaro, cui ribadisce di voler riprendere il programma di protezione. Il problema però è trovare il modo di uscire di casa senza farsi vedere. Il padre, la madre e il fratello la sorvegliano ogni istante. Lei vorrebbe che fossero i carabinieri a convocarla in caserma con una scusa, ma il maresciallo le spiega che è meglio di no, è più opportuno che sia una macchina a prelevarla di nascosto per strada. Maria Concetta indugia, ha paura, sembra fare resistenza. È lei che chiama per cercare un accordo, è chiaro che vuole andarsene, ma poi rimanda, tergiversa. Ha preso la sua decisione ma lasciare i suoi figli, di nuovo, le risulta difficile. Inoltre non vuole che la madre possa essere accusata dal padre di averla coperta, e quindi esclude di potersi far prelevare quando è fuori in sua compagnia. «Non è facile, il modo di uscire da qua, non è facile» spiega a Gennaro, «perché poi mio padre se la prende, perché mi lascia con mia madre, e quello se la prende con lei!» In un moto di confidenza, sentendo la madre come unica figura che in qualche modo le dà sostegno, Maria Concetta le rivela il suo piano. Ma Anna Rosalba non le offre la complicità che sperava. La figlia non può assolutamente fare una cosa del genere, lei lo impedirà, perché questa volta non vuole rassegnarsi a perderla. Il 18 agosto, nel pomeriggio, Maria Concetta chiama di nuovo Gennaro e gli dice che la fuga va rimandata «perché mia figlia che sta male, la seconda, so che non è una cosa facile» aggiunge sospirando preoccupata. «Voglio vedere come va, perché sto facendo dei controlli ed ho paura, non si sente tanto bene, aspetto due o tre giorni e vi richiamo.» È l’ultima volta che Gennaro la sente. Due giorni dopo Maria Concetta si toglierà la vita. È molto strano che i genitori l’abbiano lasciata a casa da sola, quel pomeriggio, ed è altrettanto strano che l’amore materno capace di trattenerla in quella prigione domestica non l’abbia tenuta con altrettanta forza attaccata alla vita. E poi c’era il suo nuovo amore, con cui progettava di rifarsi un’esistenza, come l’uomo racconterà agli inquirenti dopo il suicidio di lei. Perché Maria Concetta avrebbe deciso di rinunciare a tutto questo? Se davvero si fosse trattato di un suicidio, a spingere Maria Concetta verso quella morte atroce non sarebbe stata certo la vergogna per aver raccontato bugie ai magistrati, quanto l’esasperazione e il senso di impotenza provocati in lei dalla brutale insensibilità dei suoi familiari, preoccupati soltanto di salvare l’onore e di non finire in galera per colpa sua. Ma in galera ci finiscono lo stesso. Nel febbraio 2012, Fulvio Accursio, giudice per le indagini preliminari del tribunale di Palmi, dispone l’arresto per Michele e Giuseppe Cacciola, concedendo ad Anna Rosalba i domiciliari. Li ritiene responsabili di aver indotto la figlia al suicidio esercitando su di lei un’insostenibile pressione psicologica e sottoponendola a ripetuti maltrattamenti e soprusi, non ultimo quello di costringerla a ritrattare. Il giudice è convinto non solo che possano comportarsi verso i nipoti con la stessa brutalità riservata alla figlia, ma che possano intimidire i testimoni e inquinare le prove. Per questo ritiene opportuno tenerli in carcere. Rischiano fino a vent’anni. E non sono riusciti minimamente a screditare l’attendibilità di Maria Concetta come testimone di giustizia: le sue dichiarazioni, come quelle della cugina Giusy Pesce, hanno consentito ai magistrati di sferrare pesanti colpi alle cosche di Rosarno e della Piana di Gioia Tauro. A distanza di oltre un anno dall’omicidio-suicidio di Maria Concetta, nella villetta color giallo ocra della famiglia Cacciola vive ormai solo la madre. È agli arresti domiciliari e dunque non può parlare con gli estranei. Sulla parete accanto all’ingresso di casa è ancora incollato con il nastro adesivo un grande manifesto a lutto che ricorda la morte di «Cacciola Maria Concetta». Una sorta di sigillo della riconquistata rispettabilità familiare. Poi è arrivato l'arresto anche per lei, insieme al marito, al figlio e ai due avvocati. Tutti in carcere. Eppure Maria Concetta voleva solo una vita che fosse la sua. Cercava, come scrive il gip Accurso nell’ordinanza di custodia cautelare, «quella libertà che da anni le veniva rubata a forza, mediante l’inflizione di penose umiliazioni, che erano compiute ad opera di chi avrebbe dovuto invece amarla di più, perché fatta del suo stesso sangue, e che pur tuttavia la rendeva prigioniera, costringendola a subire in silenzio le ferite fisiche e morali di chi pratica tra le mura domestiche le regole ferree dell’apparenza, che sono soprattutto quelle proprie di una famiglia contigua alla ’ndrangheta, dove il concetto di Onore viene elevato a principio cardine dell’esistenza». Un principio in ossequio al quale «nessuno viene scrutato negli occhi e nel cuore, e per la cui osservanza si impone spesso, a chi non lo condivide, di morire lentamente in un inferno di regole non volute, da cui a volte è possibile fuggire via solo a costo della propria vita». È questo che è accaduto a Maria Concetta Cacciola. La speranza è che davvero le sue figlie possano avere un destino migliore del suo.

Maria Concetta, pentita e suicida in terra di ‘ndrangheta. Rosarno, sono le sette di sera di un sabato di agosto e Maria Concetta si chiude in bagno, mandando giù a sorsate, come fosse acqua, l’acido muriatico. Madre di tre figli in terra di ‘ndrangheta, qualche mese prima aveva iniziato a collaborare con la giustizia. Da un luogo protetto diceva, riferendosi alla famiglia: «Non me li hanno mandati i figli e non me li mandano perché loro hanno capito che se mi mandano i figli è finita non torno più». Tornata per rivederli, aveva anche ritrattato la collaborazione, prima di riprenderla. Ora è arrivato l’arresto del padre e della madre, accusati di averla spinta al suicidio, scrive Francesca Chirico su “L’Inkiesta”. Nell’audio registrato il 12 agosto 2010, per ritrattare le dichiarazioni rese precedentemente ai magistrati della Dda di Reggio Calabria, aveva ripetuto due volte «di spontanea volontà mia». Come una cantilena. Sull’ultima frase del lungo monologo (10 minuti) la voce le era quasi scomparsa: «È da tre giorni che sono a casa mia tra mio padre, mia madre, i miei fratelli, i miei figli e ho riacquistato la serenità che cercavo. Vorrei lasciata in pace in futuro e non essere chiamata da nessuno». Otto giorni dopo quella registrazione la testimone di giustizia Maria Concetta Cacciola, 31 anni e tre figli, si era attaccata ad un bottiglia rossa piena di acido muriatico. Su quale inferno avesse deciso di sottrarsi si sono concentrate le indagini della Procura di Palmi che ha chiesto, e ottenuto dal Gip, l’arresto dei suoi genitori, Michele Cacciola e Anna Rosalba Lazzaro, mentre si è reso irreperibile il fratello Giuseppe. L’ipotesi di reato per i tre familiari della donna è concorso in maltrattamenti in famiglia e violenza per costringere a commettere un reato. In pratica, «attraverso reiterati atti di violenza fisica e psicologica», avrebbero costretto Concetta all’autocalunnia, facendole ritrattare le accuse contro la ‘ndrangheta di Rosarno. E facendole scegliere il suicidio «in conseguenza dei gravi e reiterati maltrattamenti». Cugina di Giuseppina Pesce, la pentita dell’omonima cosca rosarnese, Maria Concetta Cacciola orbitava attorno all’altro clan del grosso centro della piana di Gioia Tauro: una zia paterna aveva sposato il boss Gregorio Bellocco, mentre il marito, Salvatore Figliuzzi, era stato arrestato nel 2003 con l’accusa di far parte proprio del clan Bellocco e condannato a otto anni per associazione mafiosa. Maria Concetta l’aveva sposato a 14 anni. A 16 anni era già mamma: «Sognavo un po’ di libertà e invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava, né l’amo e tu lo sai», scriverà alla madre, affidandole i tre figli alla vigilia della sua partenza verso la prima località protetta. È il maggio 2011 e la sua collaborazione è partita, come uno sfogo, da qualche giorno. La donna sogna “la liberazione” da una cappa opprimente: è innamorata di un altro uomo e nel giugno 2010 il padre e il fratello hanno ricevuto delle lettere anonime che segnalano il tradimento, la macchia all’onore di famiglia. La reazione, immediata, ha previsto botte da orbi e minacce. «Questo è il tuo matrimonio e te lo tieni». Le hanno rotto pure una costola, a Maria Concetta, medicata in casa da un medico. La donna ha paura di fare, da un giorno all’altro, una brutta fine: «Mio fratello ha un brutto carattere ed è capace di fare qualsiasi cosa, anche di farmi sparire». Maria Concetta Cacciola varcherà la soglia della caserma dei carabinieri di Rosarno con la scusa del sequestro del motorino del figlio. Fuori l’aspetta il suocero perché da sola non le è permesso di uscire. Dentro lei comincia a parlare. «Voleva cambiare vita per sé e per i figli, era una donna forte e determinata», ricordano gli inquirenti. Ascoltata più volte dai magistrati della Dda di Reggio Calabria sugli interessi criminali della sua cerchia parentale, fa scoprire due bunker ed è presto ammessa al regime di protezione. Ma sceglie di lasciare i tre figli con i nonni e non si accorge di essersi messa, per questo, sotto ricatto. «Non me li hanno mandati i figli e non me li mandano perché loro hanno capito che se mi mandano i figli è finita non torno più», si lamenterà al telefono con l’amica del cuore, a cui confesserà anche il suo travaglio su un possibile ritorno a casa: «Tutti me lo dicono, renditi conto di quello che ti aspetta, perché ormai lo hai fatto, il passo lo hai fatto, una cosa e un’altra ti dicono che ti perdonano però che so nel cuore (…) Te lo dicono in questo momento e poi tra un po’ di tempo ti fanno (…). L’onore non lo perdonano (…) Le sappiamo queste cose come vanno nelle nostre famiglie no?! Almeno nella famiglia mia». Combattuta tra la paura di ritorsioni e la voglia di riabbracciare i propri affetti, alla fine cederà a quest’ultima. Il 10 agosto 2011 lascia il regime di protezione e torna a Rosarno, ma di aver peccato di ottimismo lo capisce subito: «Mi portano avvocati avvocati x farmi ritrattare dirgli che…uso psicofarmaci e che lo fatto x rabbia… ora mia madre mi fa la loro freddezza verso di te mi fa paura» si sfoga attraverso un sms con l’uomo amato. È di nuovo in gabbia e di nuovo vuole uscirne. Il 17 agosto Maria Concetta Cacciola esprime l’intenzione di riprendere il percorso di collaborazione: la partenza per la nuova località protetta è già stata fissata, pronte le valigie, rispolverato il sogno di “liberazione”. Alle 19:00 di sabato 20 agosto, però, la donna si chiude in bagno, mandando giù a sorsate, come fosse acqua, l’acido muriatico. Dopo la sua morte i genitori parleranno di «depressione psichica», presentando una denuncia contro ignoti alla Procura di Palmi e scagliandosi contro i magistrati colpevoli di avere ingannato la figlia «con la scusa di un’ipotetica protezione per dei problemi personali e familiari di normale ordinarietà».

MAGISTRATI E GIORNALISTI. A CIASCUNO IL SUO MESTIERE.

Gentile Direttore, chiarisco subito, con la schiettezza che mi appartiene, che quanto sto per scriverle non mira assolutamente a “colpire” la libertà di informazione. So bene che, senza di essa, nessuna democrazia ha ragion d’essere. Tuttavia mi lasci dire, con altrettanta schiettezza, che disapprovo con forza la scelta fatta dalla Gazzetta di dedicare un’intera pagina all’intervista “in esclusiva” alla moglie di Michelangelo Stramaglia (“Vi racconto il boss, mio marito”) dove fra l’altro lo si definisce “coccolone” e vi si leggono frasi quali “non voleva che si spacciasse” oppure “Padre Pio, qualcuno lo chiamava così: ascoltava tutti e faceva del bene”. Ovviamente, Direttore, non sono in discussione le parole usate da moglie e figlia di Stramaglia: i legami affettivi appartengono a ognuno di noi e meritano rispetto. E talvolta riservatezza. Ciò che mi sfugge è il senso di un articolo del genere: che cosa aggiunge alla conoscenza di tutti noi, che non sia stato già chiarito dai vari procedimenti penali che hanno riguardato la vicenda di Stramaglia? Il lato umano forse: ma quali dinamiche innesca leggere di un “boss” che sostanzialmente fa anche del bene? Questo sostanzialmente non mi piace: e non soltanto perché io abbia fatto il magistrato e abbia visto, con i miei occhi, troppe volte il sangue per terra di tanti ragazzi di questa città ammazzati nelle guerre di mafia che, gentile Direttore, non si scatenano da sole. Ma vengono ordinate e pianificate dai “boss” che comandano. Ho raccolto lacrime e dolore da altre donne che piangevano mariti, figli e fratelli uccisi brutalmente e ho vissuto al fianco di tanti uomini e donne che ogni giorno contro la criminalità organizzata lavorano, lottano e rischiano la propria vita. Non mi piace, Direttore, anche da cittadina, moglie e madre, che di un “boss” che, ribadisco, ha evidentemente tutto il diritto di essere amato e ricordato dai propri cari, ne venga fatto un ritratto quasi fosse il personaggio di un film. La criminalità organizzata è sangue, dolore, violenza: non altro. Avrei potuto far finta di non aver letto, come probabilmente e comodamente faranno altri: ma esprimo la mia opinione e non temo, per questo, di dover subire un “oscuramento” da parte del suo giornale che è un po’ anche “nostro” essendo il più antico giornale di questa città e di questa regione e che combatte, giornalisticamente, per la nostra Bari e la Puglia su ben altri argomenti. Le parole, gentile Direttore De Tomaso, come lei insegna, possono fare più danni di una pallottola: sono certa che saprà cogliere il senso delle mie. Desirèe Digeronimo, Bari.

La risposta del direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, Giuseppe De Tomaso. Gentile Dottoressa, penso di aver colto il senso delle sue parole. Ma le dico questo. Tutte le volte che un giornale si è occupato di un malavitoso facendo parlare il diretto interessato o i suoi sodali si è scatenato il putiferio. Indro Montanelli pubblicò un’intervista al boss Calogero Vizzini e fu quasi crocifisso. Lucky Luciano, ritenuto il più grande mafioso della storia, viveva circondato dai giornalisti, cui rilasciava dichiarazioni e messaggi. Ciò non significa che questi giornalisti e Montanelli fossero corrivi o indulgenti con Cosa Nostra. Anche la recente intervista in tv della figlia di Riina ha destato scalpore, perché ovviamente la signora santificava suo padre. Io credo che l’opinione pubblica sia adulta e matura, e che non abbia bisogno di essere presa per mano per comprendere i problemi che ci angustiano. L’opinione pubblica sa distinguere il male dal bene, bene che costituisce il caposaldo del diritto naturale, prima che del diritto positivo. È accaduto in passato, e potrebbe accadere in futuro. Se un giornale intervistasse Riina o la sua consorte, si presterebbe forse all’accusa di aver «oggettivamente» fatto il gioco della Famiglia mafiosa. Ma molti cronisti del mondo sognerebbero uno scoop simile. Il giornalismo è pedagogico, o antipedagogico, quando riporta opinioni, è cronaca pura quando fa parlare i protagonisti e i fatti. Il giornalismo non può venir meno al suo dovere di informare e raccontare, anche quando le storie e gli interpreti di queste storie sono assai controversi. Credo che i lettori della Gazzetta sappiano chi fosse Michelangelo Stramaglia, perché su di lui e sui suoi spietati misfatti sono stati scritti su queste colonne articoli su articoli. L’intervista alla vedova del boss non cambia di una virgola la linea della Gazzetta sulla questione della criminalità. Ci mancherebbe. L’intervista cui fa riferimento lei, Dottoressa Digeronimo, costituisce solo una testimonianza, resa dal versante familiare, sui misfatti del marito, sulla «carriera» di un uomo al centro della corruzione ambientale di istituzioni politiche, amministrazioni locali, palazzi del potere in genere. A proposito: ne emerge uno scenario di collusioni inquietanti. Un magistrato potrebbe approfittare dell’intervista per un supplemento di indagini sulle relazioni pericolose tra il clan Stramaglia e i colletti bianchi delle istituzioni. Ma questo è un altro discorso. Certo, sono da prendere con le pinze le dichiarazioni di padrini, mogli, parenti e affini. Così come andavano prese con le pinze le sparate di Luciano Liggio a Enzo Biagi, giornalista al di sopra di ogni sospetto che nelle interviste in tv al capostipite dei corleonesi, appariva, agli occhi di parecchi telespettatori, come una spalla del capomafia. Ma cosa dovrebbero fare i giornali? Rinunciare alle interviste a mafiosi, tangentisti e delinquenti vari? O ai loro familiari? Se così fosse, anche il cinema non dovrebbe occuparsi dei mammasantissima perché le loro gesta criminali emanerebbero un certo fascino presso i giovani. L’ultimo film di Scorsese sugli squali, sui criminali, di Wall Street ha prodotto consensi, e addirittura applausi da parte del pubblico in sala, verso i tipi più ributtanti della trama. Che si fa? Si accusa Scorsese di connivenza con il crimine finanziario? Una democrazia seria non ha paura del diavolo. Un Paese profondamente liberale fa parlare anche il diavolo. Salvo condannarlo e inviarlo all’inferno. Per concludere, illustre Dottoressa. Il giornalismo descrive persone e fatti, e li lascia giudicare dai lettori. L’ordine giudiziario applica la legge, e giudica chi è accusato di violarla. Anche se sono accomunati dal «potere» di disporre della reputazione delle persone, giornalisti e magistrati fanno mestieri assai diversi. A ciascuno il suo. (Giuseppe De Tomaso).

Anno giudiziario. Perquisizioni alla Gazzetta e diritto di cronaca nell'intervento del Presidente dell'Ordine regionale dei giornalisti di Basilicata. Ecco il testo integrale dell'intervento del Presidente dell'Ordine regionale dei giornalisti di Basilicata, Mimmo Sammartino, in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario presso la Corte d'Appello di Potenza. "Signor Presidente, Signor Procuratore Generale, Autorità, partecipanti tutti, porto il saluto e l'augurio di buon lavoro da parte dei giornalisti lucani. Nei mesi scorsi si è dibattuto a lungo del rischio di approvazione di una normativa, che non a caso è stata definita da più parti “LEGGE BAVAGLIO”, che avrebbe, tra l'altro, posto pesanti limiti alla possibilità di svolgere, in autonomia e libertà, il diritto-dovere di cronaca e di critica in questo Paese. Avrebbe cioé sottratto ai cittadini la possibilità di venire a conoscenza di fatti sulla base dei quali potersi formare un'autonoma opinione motivata sugli accadimenti, sulle responsabilità che a essi hanno portato, sulla qualità e sulla eticità con le quali chi svolge – a qualsiasi titolo e in qualsiasi ruolo – una funzione pubblica, adempie ai propri doveri e svolge le proprie mansioni. Il DIRITTO DOVERE DI CRONACA E DI CRITICA costituisce una delle principali cartine di tornasole del livello di democrazia di un Paese. Sapere che si può contare su una informazione libera, un'informazione che chiede conto dell'operato di ricopre incarichi e responsabilità, può persino spingere a mettere in campo le qualità migliori. A mettersi in gioco consapevoli di sottoporre la propria azione al giudizio pubblico. Perché è vero che l'AUTORITÀ proviene dalla legge, ma l'AUTOREVOLEZZA legittima quella stessa autorità. La rende più solida e più credibile. E UN'AUTORITÀ È PERCEPITA COME AUTOREVOLE QUANDO PUÒ MOSTRARSI ESSENZIALMENTE FONDATA SU UNO SPIRITO ETICO E DI SERVIZIO, SULLA BUONA REPUTAZIONE, SULLA EQUITÀ, SUL RIGORE MORALE. IN SOSTANZA SU COMPORTAMENTI E VALORI RICONOSCIUTI E CONDIVISI. La realtà con cui siamo costretti a fare i conti è invece quella di un Paese che arranca su un piano scivoloso e inclinato. Un Paese pare sempre sull'orlo di una crisi di nervi. Non aiuta, in tal senso, uno scenario che punta ogni giorno al reciproco discredito fra le istituzioni. Attraverso una guerra di corporazioni l'una contro l'altra armata. Con guerre senza quartiere anche all'interno di ciascuna di esse. Chi ci rimette da tutto ciò? Sicuramente l'interesse generale. Sicuramente le aspettative legittime di comunità e territori. Ci rimettono i cittadini onesti, ci rimettono l'economia e la stabilità, ci rimettono le giovani generazioni lasciate allo sbando e senza prospettive. Ci rimette l'Italia migliore che, per quanto attonita, continua a esistere. È facile comprendere come non sia certamente semplice, per gli operatori dell'informazione, poter dar conto e svolgere serenamente il proprio lavoro quando i Palazzi sono scossi da simili tensioni. Quando le istituzioni, i loro rappresentanti, smarriscono il senso dell'equilibrio e della responsabilità. Quando la confusione cresce e le lingue si ingarbugliano c'è il rischio che si inneschi una nuova patologia: la sindrome dello specchio delle brame della matrigna di Biancaneve. La sindrome dello specchio delle brame è quella che pretende di sentirsi ripetere che la matrigna è sempre la più bella del reame. Anche se l'evidenza dice che non è vero. Ma questo è indice di una concezione distorta e poco lungimirante del rapporto con l'informazione, la cui MISSIONE FISIOLOGICA NON È L'OSSEQUIO MA LO SVOLGIMENTO DEL PROPRIO COMPITO IN AUTONOMIA E INDIPENDENZA. Un sistema dell'informazione all'altezza del proprio compito è quello consapevole di non possedere l'infallibilità. Ma che sa di avere l'obbligo di essere e mostrarsi sano. Di pretendere da sé RIGORE, COMPLETEZZA, ONESTÀ INTELLETTUALE, RISPETTO PER CHI È OGGETTO E/O PROTAGONISTA DEI FATTI DI CRONACA. Che è CAPACE DI RIFUGGIRE DALLE TENTAZIONI DI TRASFORMARSI IN UNA INFORMAZIONE A TESI CHE CONFONDE I FATTI, CON FATTOIDI E OPINIONI O CHE SI RENDE STRUMENTO DI INTERESSI DIFFERENTI DA QUELLI RIGUARDANTI IL DARE CONTO DELLE NOTIZIE. In tempi di crisi e di diffusa sfiducia, il rapporto fra Istituzioni e Società, fra Paese Reale e Paese Legale, diventa ancora più fragile. E l'informazione può svolgere, in un simile orizzonte, un ruolo importante per aiutare il Paese a lanciare il cuore oltre l'ostacolo: ad esempio, con la propria funzione di mediazione fra Istituzioni e Società. Ad esempio, aiutando a rendere i Palazzi più aperti e più trasparenti, consentendo – attraverso la diffusione delle notizie – pari opportunità di partecipazione anche a coloro che i Palazzi non sono usi frequentare. Coloro che, pur avendo meriti, competenze, talenti, rischiano di essere esclusi. Ad esempio affermando i principi di legalità e di uguaglianza dei cittadini. Ad esempio tutelando il riconoscimento dei diritti di cittadinanza, svolgendo un'azione di controllo affinché essi non siano ignorati o calpestati. Specie quando penalizzano i meno garantiti, gli “invisibili”, i “senza voce”. È questo, io credo, il ruolo essenziale di una informazione che prova a fare il proprio mestiere. Oggi però – e voglio dirlo con grande pacatezza e rispetto nei confronti di una istituzione qual è la magistratura, uno dei pilastri sui quali la Costituzione ha fondato l'edificio democratico del nostro Paese – ci vediamo costretti a ribadire sconcerto e stupore dinanzi a quanto accaduto, su disposizione della Procura di Salerno, lo scorso 8 gennaio a Potenza. Mi riferisco a un provvedimento che ha colpito un giornalista, un giornale e un principio che, nell'interesse della collettività (non della stampa), dovrebbe essere ritenuto intangibile, qual è appunto il diritto-dovere di cronaca. La contestazione è stata quella di divulgazione di segreto d'ufficio. Non vogliamo entrare nel merito della vicenda (non è questa la sede), anche se in oggetto ci sono fatti di cui in parte si era già parlato nel tempo, anche perché riguardano, in qualche caso, episodi vecchi persino di 25 anni. Fatti che si riferiscono a una tragedia che ha profondamente scosso e turbato – e continua a inquietare - la coscienza collettiva e la pubblica opinione, non solo lucana. Una vicenda in attesa di verità e giustizia a quasi 18 anni dagli accadimenti. La vicenda riguardante il delitto di Elisa Claps. Si potevano e si dovevano pubblicare i resoconti di quelle notizie? Restiamo al punto di quelli che sono stati indicati, da autorevoli sentenze, come I LIMITI DA PORRE AL DIRITTO DI CRONACA: LA VERITÀ DEI FATTI, L'INTERESSE SOCIALE DELLA NOTIZIA, IL RICORSO A UN LINGUAGGIO NON OFFENSIVO. Condizioni che, nel caso specifico, riteniamo siano state considerate e rispettate. Con tutto il rispetto per il lavoro dei magistrati, riteniamo che aver indagato Fabio Amendolara, perquisito la sua postazione nella redazione de La Gazzetta del Mezzogiorno, insieme alla sua abitazione e alla sua auto, l'aver sequestrato il materiale di cui era in possesso (compresi documenti legittimamente detenuti da anni nel suo archivio professionale, sottraendo di fatto a un giornalista strumenti essenziali di lavoro), possa costituire un'azione esemplare, ma non un'azione di cui poter andare fieri. E se ci lascia perplessi il merito, ancor più sconcerto ci crea la modalità scelta per dar luogo alle disposizioni attuate. Con una tempestività e un dispendio di energie degni di miglior causa. Sia chiaro - anche se non si può chiedere ai giornalisti , il cui lavoro consiste nel dare notizie, esprimere assenso verso chi chiede loro di non pubblicare le notizie stesse– non ci pare un fatto straordinario che, nell'ambito delle cronache giudiziarie, possa esserci una acquisizione di atti o la richiesta a un cronista di rivelare l'identità delle sue fonti. Peraltro i documenti richiesti, anche in questo caso, sono stati spontaneamente consegnati dal giornalista indagato. Resta però la domanda: potendo ottenere lo stesso risultato con un'azione ordinaria, perché si è voluto esibire tanta plateale solerzia contro chi ha cercato di fare solo il proprio mestiere? Si parla di fuga di notizie e ci si scaglia contro i giornalisti: ma non si è mai vista una notizia mettere le gambe e uscire da sola fuori da un ufficio. Lungi da noi l'idea che qualcuno – a cominciare dai giornali e dai giornalisti – possa essere autorizzato a stare fuori delle regole. Ma rimaniamo altrettanto convinti che IN UN PAESE NORMALE, UN PAESE CHE RIESCA A MANTENERE SOBRIETÀ ED EQUILIBRIO NELLE SUE DECISIONI E AZIONI, COMPITO PRECIPUO DELLA GIUSTIZIA RESTI QUELLO DI INDIVIDUARE – SE POSSIBILE TEMPESTIVAMENTE E COMUNQUE IN TEMPI RAGIONEVOLI E CERTI – I MISFATTI E COLORO CHE SE NE RESI RESPONSABILI, E NON CHI QUEI MISFATTI RACCONTA. Crediamo fermamente che IL RISPETTO DELLA MAGISTRATURA E DEL SUO OPERATO COSTITUISCA UN VALORE IN SÉ IN UN PAESE DEMOCRATICO. ANCHE QUANDO LE SUE DECISIONI POSSONO NON PIACERE. Ma con altrettanta schiettezza vogliamo ribadire che questo provvedimento NON CI HA CONVINTO E CONTINUA A NON CONVINCERCI. Dinanzi a questa vicenda – come hanno fatto anche le rappresentanze nazionali e territoriali dell'Ordine e della Federazione della Stampa, ma anche organismi e associazioni non legati alla categoria, con echi e stupori che sono andati ben al di là dei confini regionali – non possiamo non ribadire un FERMO E MOTIVATO DISSENSO. Ne siamo consapevoli. Non è certo facile svolgere – in particolare in questi tempi – il vostro delicatissimo lavoro. Ma, vi assicuriamo, anche quello degli operatori dell'informazione è assai complesso. E spesso obbliga a effettuare scelte in tempi ridottissimi e su questioni assai spinose. Condizioni che non consentono, com'è umano, di avere certezza che qualunque decisione assunta in quei frangenti e in quelle condizioni possa risultare sempre la più felice delle scelte possibili. Ma, come già dicevamo, non è l'infallibilità dell'informazione il tema. La domanda invece è: è possibile, anche nelle condizioni più complicate, fare buona informazione? Pensiamo di sì. È POSSIBILE SE CI SI LASCIA GUIDARE DA BUSSOLE FONDAMENTALI QUALI: L'ONESTÀ INTELLETTUALE, IL RIGORE, LO SFORZO DI COMPLETEZZA. E sono convinto che si possa correre il rischio di sbagliare meno, se - nel rispetto reciproco di ruoli e funzioni – si è capaci di stabilire relazioni istituzionali trasparenti. Un riconoscersi reciproco. Che significa un reciproco rispettarsi. Rispettarsi, però. Non tacitarsi. Anche perché non c'è disposizione che possa imporre bavagli, di qualsiasi natura, alle idee e alla libera manifestazione del pensiero come ci suggerisce innanzitutto quella Carta che talvolta ci viene presentata come un oggetto fuori moda, ma alla quale siamo affezionati nel convincimento che resti l'àncora di salvezza, l'appiglio contro le degenerazioni incombenti, la ciambella di salvataggio di questo Paese (se il Paese vuole salvarsi). Sono i principi costituzionali la stella polare che può guidarci anche nei momenti più confusi e di generale smarrimento. E lì la libertà di stampa, così come la divisione dei poteri, costituisce una pietra angolare. La difficoltà a fare informazione, anche in provincia (luogo in cui tutti conoscono tutti e dove diventa più facile imbattersi nelle cosiddette “relazioni corte”), è dimostrata da vicende come quella che sta riguardando, ormai da circa un anno e mezzo, un altro giornalista. Nello Rega, che ha denunciato di aver subito azioni intimidatorie di particolare gravità. Qualche settimana fa ha ottenuto un'auto e due uomini di scorta. Ma riteniamo che, accanto alla solidarietà, accanto alla necessaria tutela della incolumità fisica dell'uomo e del giornalista, vada fatta quanto prima la massima chiarezza sulla natura degli eventi intimidatori avvenuti. Eventi che inquietano. Anche perché, in questi ultimi anni, è accaduto più di una volta che giornali e giornalisti siano stati presi di mira o usati come buca delle lettere per messaggi anonimi e minatori. Credo che sia necessario e doveroso tenere alta la guardia. Mi rendo conto – e mi accingo a concludere – che lanciare un accorato APPELLO AFFINCHÉ DA PARTE DI TUTTI SI POSSANO RITROVARE MISURA, SOBRIETÀ, EQUILIBRIO E LA DIGNITÀ DI OPERARE PER IL PERSEGUIMENTO DEL BENE COMUNE, di questi tempi – in un Paese che sembra muoversi all'incontrario - possa apparire come un elogio dell'utopia (anche se dovrebbe essere il terreno della normalità). Ciò nonostante credo che valga comunque la pena lanciarlo un simile appello, che vuol essere anche UN IMPEGNO COMUNE E UN RICHIAMO A RESTITUIRE ALLE COSE IL LORO SIGNIFICATO ORIGINARIO (SOTTRAENDOLE AL RISCHIO DI DISFACIMENTO). Un RICHIAMO A RITROVARE FIDUCIA NELLA POSSIBILITÀ DI RIDEFINIRE UN PROGETTO COLLETTIVO DEL QUALE OGNUNO, DALLE ISTITUZIONI AI SINGOLI CITTADINI, SI SENTA PARTE E PARTECIPE. Un RICHIAMO PER RIAFFERMARE IL BISOGNO INDEROGABILE DI RITROVARE QUEL SENSO DI RESPONSABILITÀ CHE È (O DOVREBBE ESSERE) PRECISO DOVERE DI TUTTI E DI CIASCUNO. A cominciare da chi è chiamato a ricoprire pro-tempore ruoli apicali. Ma anche di ogni cittadino. È possibile questo? Diciamo che è necessario. Da parte nostra, operatori dell'informazione, non abbiamo la pretesa e la presunzione di aver trovato le risposte alla complessità dei problemi, ma pensiamo di poter fare la parte che ci compete. Di poter svolgere con dignità il nostro compito se almeno avremo posto qualche giusta domanda. Ci confortano, in questo convincimento, le parole del Nobél Jostein Gaarder: UNA RISPOSTA NON MERITA MAI UN INCHINO, PER QUANTO INTELLIGENTE POSSA SEMBRARE... UNA RISPOSTA E' IL TRATTO DI STRADA CHE TI SEI LASCIATO ALLE SPALLE. SOLO UNA DOMANDA PUO' PUNTARE OLTRE”.

SCHADENFREUDE: PERCHE’ SI GIOISCE DELLE DISGRAZIE ALTRUI?

Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui". Molti di questi studi si basano sulla teoria del confronto sociale, l'idea è che quando le persone intorno a noi hanno avuto eventi sfortunati, guardiamo meglio noi stessi. Altri ricercatori hanno scoperto che le persone con una bassa autostima sono più propensi a provare Schadenfreude rispetto a persone che hanno una grande autostima. Schadenfreude. Alzi la mano chi sa che cos’è. Quasi nessuno? Strano. Perché se chiedessi chi l’ha provata, tutti dovremmo alzare non una ma entrambe le mani. Non me la voglio tirare: so che cosa sia la Schadenfreude solo perché ne ho sentito parlare per radio e, ravanando un po’ su Google, sono poi riuscito a risalire alla pagina di Wikipedia che ne parla. Il termine è tedesco, e indica il piacere infame provocato dalla sfortuna altrui. Pensate che occorra essere precisi come i tedeschi per dare un nome a un sentimento così meschino e diffuso? Errorissimo. In lingue diverse ha nomi diversi, dall’arabo al cinese, e compare in numerosi proverbi che spiegano come la Schadenfreude sia l’unica vera gioia, quella che arriva dal più profondo del profondo. Ma perché si gode delle disgrazie degli altri? Studi basati sulla teoria del confronto sociale affermano che se intorno a noi ci sono persone maltrattate dalla sfortuna, si finisce col guardare meglio a se stessi. Ci si sente migliori, in altre parole. Altri ricercatori hanno invece notato che le persone con un’autostima sotto i piedi provano più facilmente la Schadenfreude rispetto a chi ha di sé un’immagine più positiva. Per far capire ancora meglio che cosa sia la Schadenfreude voglio citare un esempio per comporre il quale è stata indispensabile l’enciclopedica conoscenza del calcio del mio amico Luca Ceste. Che, da juventino qual è, specifica che i “cugini” granata son più contenti quando perde la Juve che quando vince il Toro (non che godano spesso, nell’uno o nell’altro caso...). Comunque: al termine del campionato 1999- 2000 il Toro è condannato alla serie B. Ma all’ultima giornata la Juventus è sconfitta nella “piscina di Perugia”, il campo allagato da un violento nubifragio. La Lazio invece vince, sorpassa i bianconeri e acchiappa lo scudetto: sai che Schadenfreude per i torinisti! Ognuno provi a chiedersi quand’è l’ultima volta che ha provato Schadenfreude. E poi se lo tenga per sé, dato che probabilmente non sarà cosa di cui vantarsi. E infatti il filosofo Arthur Schopenhauer ci ricorda che «Provare invidia è umano, godere della Schadenfreude è diabolico». Come opposto voglio invece citare il concetto di mudita che, nel Buddhismo, è la felicità per la buona sorte dell’altro. E’ la forma più perfetta dell’amore: come il marito che è contento per il successo della moglie o il genitore che gioisce per la felicità del figlio. Perciò credo che le cose andrebbero meglio per tutti, se nel nostro quotidiano ci fosse più mudita e meno Schadenfreude.

Gli americani a volte usano l’espressione «Roman holiday», con un chiaro riferimento ai crudeli giochi gladiatori. I tedeschi hanno un termine ancora più preciso per descrivere la gioia malevola che si può provare davanti alle sofferenze degli altri. Schadenfreude, scrive Anna Meldolesi su “Il Corriere della Sera”. È il rovescio della medaglia dell’empatia, e probabilmente il più vigliacco dei sentimenti. In italiano non esiste una parola del genere, ma non c’è dubbio che anche noi siamo capaci di avvertire un perverso piacere quando vediamo cadere qualcuno nel fango. Tanto più se era potente e riverito prima di finire in disgrazia, e se a difenderlo non c’è rimasto nessuno. È una miscela tossica di insoddisfazione di sé, risentimento e sadismo, che a volte sporca il più nobile dei sentimenti: il desiderio di giustizia sociale. Pensiamo ai blitz della guardia di finanza a Cortina e nei luoghi della movida milanese. Erano utili e necessari, anche dal punto di vista simbolico. Ma quanti di noi, invece di limitarsi ad approvare l’operato dell’Agenzia delle entrate, hanno gongolato? Oppure prendiamo la tragedia della Costa Concordia. Davvero i balbettii di Schettino, mentre veniva strigliato dall’implacabile De Falco, andavano trasmessi e ascoltati tutte quelle volte, morbosamente, fino a diventare uno slogan da t-shirt? E la pioggia dimonetine fuori dal Raphael ai tempi di Tangentopoli, era isterica rivolta morale o linciaggio puro? Storici e primatologi testimoniano che un maschio alfa può essere deposto da una coalizione di primati di basso rango. Gli psicologi sociali, d’altronde, sanno che i gruppi possono esprimere una violenza che moltiplica i tassi di aggressività individuali. Ma il piacere per le sventure altrui è già annidato nel cervello dei singoli, in ciascuno di noi. Soprattutto in chi ha una bassa autostima, come confermano diversi lavori scientifici, l’ultimo dei quali pubblicato a dicembre su «Emotion». I neuroscienziati che lo studiano hanno adottato la parola tedesca nata dalla fusione di avversità e gioia (Schaden più Freude) e hanno appurato che la Schadenfreude è parente stretta di uno dei sette peccati capitali: l’invidia. I meccanismi cognitivi dello shakespeariano mostro dagli occhi verdi sono stati rivelati sulla rivista «Science» da Hidehiko Takahashi, con l’aiuto della risonanza magnetica funzionale. Il gruppo giapponese ha scoperto che quando si è invidiosi del successo di qualcuno si attiva la corteccia cingolata anteriore, nel circuito neurale del dolore. Quando si gioisce della sfortuna altrui, invece, si attiva lo striato, che fa parte del circuito della ricompensa. Lo stesso che dispensa dopamina e piacere quando ci concediamo vizi e svaghi gratificanti. La sventura altrui rappresenta per l’invidioso ciò che la cioccolata è per il goloso e il sesso per il lussurioso. Il nostro cervello, infatti, tratta le esperienze sociali e quelle fisiche inmodo più simile di quanto si pensi. Chi ha sete chiede acqua. Chi ha freddo, un riparo. Chi non è soddisfatto di se stesso anela a sentirsi migliore attraverso la svalutazione degli altri. Quando sentiamo piagnucolare un comandante che ha abbandonato la nave per primo, chiunque può pensare: io valgo di più. Ma resta il fatto che non tutti ce ne compiaciamo allo stesso modo. I soggetti studiati da Takahashi mostrano gradi variabili di attivazione dei centri dell’invidia, una volta messi di fronte a un soggetto che possiede qualità superiori alle proprie, così come dei centri della Schadenfreude quando il loro termine di paragone cade in disgrazia. Chi più soffre nella prima fase, più gioisce nella seconda. Spesso l’invidioso ha la sensazione di non poter raggiungere con le proprie forze ciò che vorrebbe per sé e per riportare l’equilibrio nel confronto sociale deve passare per la distruzione materiale o simbolica dell’altro, come spiega la neuropsicologa olandese Margriet Sitskoorn nel suo I sette peccati capitali del cervello, appena pubblicato da Orme. Se Otello è il simbolo universale della gelosia, l’invidia ha le sembianze di Iago. È invidioso del potere, delle virtù, della bella moglie del moro di Venezia, ed è invidioso di Cassio che è stato promosso al suo posto. Per salvare l’amor proprio, trasforma la felicità altrui in tragedia. Nella realtà, le dimostrazioni di questo perverso gioco di dolore e piacere possono essere ben più banali: piacciono le foto delle star immortalate senza trucco, piace vedere una multa sul cruscotto di un Suv. Ma non sempre l’invidia è così sciocca o così pericolosa. A volte l’attenzione ossessiva verso le qualità e i difetti degli altri diventa una molla per migliorare. Altre volte quella che sembra invidia è piuttosto un risentimento per le ingiustizie subite. Sono celebri gli esperimenti in cui Frans de Waal ha dimostrato che sia gli scimpanzé che le scimmie cappuccine si ribellano ai trattamenti iniqui. Se gli si offre un pezzo di cocomero come premio per aver svolto un compito, gli animali sono ben contenti. Ma se si accorgono che a un altro esemplare viene data dell’uva, non sono più disposti ad accettare una ricompensa che considerano meno appetibile. Le ingiustizie sono ovunque anche nella nostra vita: c’è chi nasce ricco e ha la strada spianata, chi lo diventa con la spregiudicatezza, chi non paga le tasse, chi lavora meno di noi e ottiene di più. Infastidirsi è normale, soprattutto se il fortunato ci assomiglia: magari abita nell’appartamento vicino, ha fatto la nostra stessa scuola, ha scelto la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda quello che avremmo potuto essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato la nostra comunità di riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero di confronti sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né le pene. E allora diventa facile pensare: quel politico non ha il mio curriculum e guarda dov’è arrivato. Se viene travolto da uno scandalo, non ce ne rammarichiamo più di tanto. Secondo Sitskoorn, comunque, l’invidia non ha a che fare tanto con l’ingiustizia quanto, più in generale, con la disuguaglianza. Scatta soprattutto quando l’altro possiede più di noi perché è migliore di noi, anche se non sempre siamo disposti ad ammetterlo. Attenzione, ammonisce la neuropsicologa, il travestimento dell’invidia con i panni dell’ingiustizia può risultare talmente perfetto che alla lunga finiamo noi stessi per crederci.

Chi gode delle disgrazie altrui certamente è Marco Travaglio, che ha sempre un giudizio su tutti.

Travaglio dà i voti al 2013: Napolitano, Renzi e Letta, sfottò per tutti. Il vicedirettore del Fatto: "Che emozione questo anno quasi finito, che svolta generazionale. E nel 2014 arrivano le riforme...", scrive “Libero Quotidiano”. Non c'è mai stato anno più bello di questo 2013. Anzi, forse solo il 2014 potrà batterlo. Usa il sarcasmo, Marco Travaglio, per compilare il suo pagellone sull'anno che si sta chiudendo. Naturalmente, insufficienze per tutti tranne che per "quei brubru antipolitici dei 5 Stelle". Il vicedirettore del Fatto quotidiano si mette nei panni di un simpatizzante di Enrico Letta, finge di abboccare alle promesse del premier su "svolte generazionali" e "riforme in arrivo" e parte con la contraerea. Tanti bei finti complimenti al "pischello Napolitano", che ha messo l'Italia "alla pari dello Zimbabwe di Mugabe", al Letta nipote di Gianni ("unico caso di nipote più anziano dello zio"), ad Alfano "maggiordomo di B.", al ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri ("la colf dei Ligresti"), al "frugoletto Amato alla Consulta", ai presidenti di Camera e Senato Boldrini e Grasso, "pronti a zittire chiunque osi nominare Napo invano". Il sospetto che, tra un'ironia e una velenosa battuta, il 2013 sotto sotto sia un po' piaciuto a Marco Manetta viene quando, naturalmente, si finisce a parlare di Silvio Berlusconi. "Il 1° agosto i soliti giudici che non si fanno mai i cazzi loro han rischiato di far saltare tutto con quell'assurda condanna". E invece, finge di gioire Travaglio, le larghe intese hanno resistito. Risultato: il governo dei favori e delle stangate. "L'Imu non la pagheremo più perché ora si chiama Tasi e ci costa di più". "I concessionari di slot dovevano 98 miliardi al fisco, ma il governo gli farà pagare 400 milioni, così imparano ad evadere. In compenso, un sacco di fondi neri per finanziare la politica, soprattutto dal 2017". E poi arriva Matteo Renzi, che attacca l'articolo 18 come avevano fatto Berlusconi, Monti, Fornero: "Ma loro, quando lo aggredivano, non avevano mica 38 anni". Se il rinnovamento dei quarantenni promesso da Letta è questo, suggerisce Travaglio sfregandosi le mani, ci divertiremo ancora per qualche anno. Gli italiani decisamente meno.

Ed ancora, Travaglio contro Liguori: "Alla tua scuola di giornalismo imparano a leccare". Marco Manetta attacca il master in giornalismo di Mediaset. Ma scorda qualcosa...scrive “Libero Quotidiano”. A poche ore dalla sentenza per il processo Mediaset, gli attacchi di Marco Travaglio al Cav percorrono strade mai battute prima. Marco "Manetta" non risparmia nessuno pur di mettere nel mirino Silvio Berlusconi (e la sua azienda). Nella mattinata di lunedì 29 luglio, Travaglio, con un editoriale tra il serio e il faceto, ha puntato il dito contro la scuola di Giornalismo dell'Università Iulm di Milano che è in consorzio con Mediaset e che ogni anno sforna 15 giornalisti professionisti da inserire nel mercato del lavoro. Travaglio citando un'intervista a Panorama dell'amministratore delegato della scuola, Paolo Liguori,  tra le righe, ma nemmeno troppo, lascia intendere che la scuola di Mediaset-Iulm crea dei giornalisti che sanno "usare la lingua". Imparano "tutto con la lingua", scrive il vicedirettore del Fatto Quotidiano.  Ecco il virgolettato dell'editoriale: "Li(n)guori afferma: 'Un giornalista oggi deve saper fare tutto. Noi formiamo giovani giornalisti 2.0, nella teoria e nella pratica. I partecipanti al master imparano ad adattare la prosa e il linguaggio a seconda del media su cui devono comunicare". Qui arriva la prima bacchettata del professor Travaglio, che sottolinea come al singolare si dica "medium" e non "media". La consueta superbia di chi immaginia di essere infallibile. Non finisce qui. Travaglio prosegue e continua con la citazione di Liguori: "I partecipanti al master imparano a condurre notiziari, montare servizi per la tv, come pure a scrivere per quotidiani, portali internet o uffici stampa". Fin qui le parole di Liguori. A questo punto arriva la stoccata al veleno di Travaglio che aggiunge: "Sì, i ragazzi imparano tutto con la lingua". Per Travaglio chiunque faccia il giornalista dopo aver studiato per due anni alla scuola Mediaset-Iulm sarebbe con un doppio senso, un "lecchino di professione". Peccato che proprio al Fatto Quotidiano, sia alla redazione web sia a quella del cartaceo di Roma, arrivino ogni anno stagisti proprio dalla scuola dello Iulm-Mediaset. Ragazzi che comunque fanno il loro mestiere onestamente e usano la lingua solo per parlare. Ma non è tutto. Alcuni di questi ragazzi - di cui per ovvie ragioni non facciamo i nomi - hanno ottenuto un contratto di collaborazione al sito e all'edizione cartacea del Fatto, e qualcuno addirittura è in lizza per un'opportunità lavorativa a Servizio Pubblico, il quartier generale del giornalismo "travaglino", dove "regna" il comandante Michele Santoro. Il chiodo fisso di attaccare il Cav è storia vecchia per Travaglio. Ma per farlo ormai non guarda in faccia nessuno. Nemmeno qualche ragazzo che ha speso soldi e ha fatto sacrifici per riuscire a scrivere. Magari proprio sul Fatto Quotidiano. Travaglio lo sa, o fa finta di niente?

Il tengo amici di Travaglio continua... Lo “strabismo ammiccante” da Di Pietro ad Ingroia, arrivando a Grillo, scrive l’Ufficio di Presidenza della “Casa della Legalità e della Cultura”. Marco Travaglio continua nella sua pratica di giornalista di parte, piega e mistifica realtà e fatti, non per informare i cittadini ma per tutelare gli amici, quindi, indirizzare l'opinione pubblica nel "credo" da lui amato. Comportamento legittimo, per carità... ma che ben poco ha a che fare con la veste di giornalista indipendente che vorrebbe incarnare. Così c'è la volta che parte alla carica di chi osa toccare i suoi amici, c'è la volta che si sovverte la realtà per giustificare certi comportamenti o atti, c'è la volta che indossa la divisa del pompiere... basterebbe che lo dicesse: tengo amici, e gli amici miei non si devono toccare. Ed invece no... lui che ci ha abituati a dire cose serie su molti protagonisti e misfatti della politica italiana, poi, quando si tratta dei suoi amici, di coloro per cui gode di simpatia politica, si mette a fare propaganda e contropropaganda, a seconda del bisogno, così che in tanti, troppi, ci cascano e pensano che anche in quel caso, di giornalista militante e non quindi di giornalista indipendente, lui parli con obiettività. Ed ora, sulla questione Grillo, ha superato se stesso, oltre ogni limite di decenza, assumendo quella veste di amico avvocato difensore, che non solo non guarda ai fatti, ma che attacca senza freno chi osa guardarli ed indicarli, come avviene con l'editoriale odierno contro Antonio Amorosi ed il Tg3. Ed allora parliamone un attimo...Marco Travaglio è stato, per anni, il miglior ufficio stampa e propaganda (non pagato, bisogna dirlo) di quel che fu l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Quello che se lo facevano gli altri era uno scandalo indecente e intollerabile, quando veniva fatto da Di Pietro ed i suoi era invece irrilevante, giustificabile, una “bazzecola”, quasi quasi un merito. A Di Pietro era sempre tutto da perdonare, agli altri no. Un normale atteggiamento da giornalista schierato politicamente, quello di Travaglio... soltanto che Travaglio faceva (come fa ancora oggi) intendere che lui lo diceva dall'alto della propria indipendenza, così da mascherare e nascondere quello strabismo, dei due pesi e delle due misure, adottato nelle proprie valutazioni. E così se Di Pietro gestiva il partito con moglie ed amica tesoriera, alla faccia della democrazia che deve avere un partito, andava tutto benissimo così... (partiti antidemocratici e familisti lo sono altri, Di Pietro aveva una sorta di lasciapassare per contraddire nei fatti ciò che predicava). E così se massoni e piduisti approdavano nell'Italia dei Valori (benvoluti da Di Pietro, che, come nel caso di De Iorio, si muoveva in prima persona per la difesa assoluta) sono massoni e piduisti buoni, mica come i massoni e piduisti che stanno con gli altri, che sono brutti e cattivi. E così, ancora, quando la 'ndrangheta stringeva patti con esponenti dell'Italia dei Valori (benvoluti da Di Pietro, che, anche in questo caso, scendeva in prima persona nel difendere l'indifendibile) sono cose che capitano, probabilmente – addirittura - ordite proprio per danneggiare il povero Di Pietro, come se gli amici dei mafiosi li selezionasse e sostenesse lui, ma a propria insaputa). E così, inoltre, per fare un altro esempio, quando i suoi uomini (scelti da lui, nel partito personale) finivano in scandali ed inchieste, bisognava lasciare correre, perché i faccendieri degli altri son brutti e cattivi, ma quelli con Tonino erano devoti alla causa, quindi, immuni da critiche e valutazioni etiche e politiche... e certamente vittime di attacchi giudiziario-mediatici. E, in ultimo, se per gli altri partiti (la nota kasta) era scandaloso il prendere e sperperare i noti “rimborsi elettorali”, quelli che prendeva Di Pietro (e che gestiva con moglie ed amica tesoriera), erano soldi santi, necessari, gestiti benissimo... anche quando entrati nelle casse dell'Italia dei Valori venivano girati come affitti alla società personale di Antonio Di Pietro (l'Antocri) che, così, pagava i mutui degli immobili che poi andavano a consolidare il patrimonio immobiliare di Antonio Di Pietro (non dell'Italia dei Valori). Tutto giusto, santo e pure pio secondo Travaglio che, in ogni circostanza difendeva a spada tratta il Di Pietro ed il suo partito, contribuendo, così, nei fatti, alla degenerazione totale di quel partito che alla fine è imploso su se stesso, sotto il peso di quelle contraddizioni di indecenze dilagati che il Travaglio contribuì a minimizzare, giustificare, quando non a negare. Di Pietro, per Travaglio, era solo vittima delle circostanze, del fato... Un fato cinico e baro che valeva, ovviamente, solo per Tonino, perché per gli altri non c'era possibilità di appello, condanna definitiva, anche se, in molti casi, così come la storia dell'Italia dei Valori, di penalmente rilevante vi era ben poco. Un destino cinico e baro che il buon Travaglio, palco dopo palco, uscita dopo uscita, palco dopo palco (pagato dall'IdV nelle grandi mobilitazioni spacciate da "società civile") cercava di esorcizzare facendo incontrare Grillo a Di Pietro, e facendo sì che il primo appoggiasse il secondo, mentre entrambi idolotravano lui, il sommo maestro del giornalismo (di partito, senza giornale di partito). Mai una parola, ad esempio, ancora, da Travaglio, sul fatto che al pool di Milano, quello di Mani Pulite, di fatto, ad un certo punto, “commissariarono” il Di Pietro perché lo stesso aveva una particolare “amicizia” che lo avvertiva pure di ispezioni. Quell'amicizia era quella di Cesare Previti (lo stesso che poi, nel suo studio, ospitava gli incontri tra Di Pietro e Berlusconi)... ma se per altri i contatti con Previti o, faccendieri come Paccini Battaglia, erano ingiustificabili e senza appello, per Di Pietro non contavano nulla... lui era benedetto, più che da Dio, da Travaglio, e scusate se è poco.  Marco Travaglio ha un altro amico, Antonio Ingroia. Così, come per Di Pietro, tutto ciò che è gradito all'amico è giusto, da sostenere, anche quando certi teoremi e certe valutazioni non stanno in piedi. Nel caso di assecondare l'Ingroia pensiero Tavaglio di prodiga su più fronti... perché una difesa semplice gli pare poco, probabilmente, o, sa benissimo, si scioglierebbe come neve al sole. Ed allora eccone una rassegna...
Si parte con l'ultima intervista di Paolo Borsellino, quella ai francesi. Per Travaglio l'intervista vera è quella della videocassetta “sintetica”, poco conta che quella sia una versione “manipolata” dell'intervista di Paolo Borsellino, dove al magistrato di Palermo vengo messe in bocca, con taglia e cuci, parole che non ha mai detto. Con la “manipolazione” a Borsellino viene fatto dire che c'era una telefonata tra Mangano e Dell'Utri, intercettata, in cui parlano di consegna di “cavalli”, cioè droga, in un albergo di Milano. Nella versione reale, integrale, invece, Borsellino non solo non dice quello ma lo smentisce, affermando che in quella telefonata Mangano parla con un'esponente della famiglia Rinzevillo e non, quindi, con Dell'Utri. Arriva una sentenza che accerta che quella della cassetta aveva un contenuto manipolato, ma Travaglio parte in quarta: è uguale! Ma come: è uguale? E poi, come se nulla fosse, pubblica e diffonde con il Fatto (a pagamento) la versione integrale dell'intervista, quella dove Borsellino smentisce, di fatto, con le sue parole, quel “è uguale” di Travaglio, ma il dettaglio sfugge! Si passa all'attacco a Pietro Grasso. Anche qui, con una serie di illazioni e mistificazioni senza ritegno, smentite dai fatti. Come quando, si affretta, Travaglio, ad affermare che quella della “non firma” dell'appello su Andreotti da parte di Grasso perché questi era stato testimone in primo grado, era null'altro che una balla. Peccato che quella di Grasso non fosse una balla ma la verità, comprovata dagli Atti del processo (come abbiamo recentemente documentato). Ma Grasso non condivide i teoremi di Ingroia ed allora per aiutare l'amico occorre attaccare chi non lo asseconda: Grasso. E così giù altre mistificazioni, come quella del far apparire Grasso come quello che “graziò” Cuffaro, quando invece, con la scelta compiuta da Grasso, di contestare i reati provati, senza buttarsi in un campo incerto senza adeguate prove, ed arrivando al risultato di far condannare (si badi: far condannare!) Cuffaro, allora potente Presidente della Regione Sicilia, si dimostra che la tesi di Travaglio non è solo debole, ma ridicola... tanto che, per rinforzare la tesi “Grasso cattivo, Ingroia bravo” deve chiamare in causa uno che la verità (sic) la dispensa a destra e a manca e che, per curriculum, ha sempre avuto a cuore la Giustizia: Marcello Dell'Utri. Si passa alla fabbricazione del nuovo simbolo dell'antimafia: il Ciancimino jr. Un mafioso figlio d'arte, che occulta e ricicla soldi sporchi, di quel tesoretto di papà “don Vito”, che cerca di screditare lo Stato, producendo cosiddette prove tarocche, fa identikit di tal “signor Franco” che però non si trova da nessuna parte, racconta di tutto e di più, in contraddizione con se stesso e con le risultanze certe di altri procedimenti e persino di sentenze definitive, se la ride di aver in mano i pm di Palermo e di riuscire così a salvare il malloppo marchiato Cosa Nostra. Viene smascherato per le calunnie, per i soldini (tanti) occultati e riciclati... gli trovano anche la dinamite, a sua insaputa, nel giardinetto di famiglia... Ma se piace ad Ingroia, Ciancimino jr, piace anche a Travaglio... Se è bocca della verità per il primo, lo diviene anche per il secondo, in automatico, alla faccia dei fatti e delle prove che, dovrebbero essere l'unico elemento per stabilire l'attendibilità di certe dichiarazioni e che, nel caso del figlio di “don Vito”, dimostrano che questi mente con la stessa naturalezza del respirare. Si giunge all'apoteosi del “complottone” per fermare il processo sulla fantomatica “trattativa”. Qui davvero Travaglio ha mostrato di essere capace anche di ciò che appare impossibile. Davanti ad un'indagine che si fonda, come prove, sulle dichiarazioni del già citato Ciancimino jr, e che richiama l'inchiesta “Sistemi Criminali”, che se uno la legge si rende conto che smentisce totalmente i pilastri della c.d. inchiesta sulla “trattativa Stato-Mafia” che ora va a processo a Palermo, Travaglio non ha dubbi: colpevoli. Non ci sono le prove, non conta. Conta che l'indagine, quell'indagine, senza prove, è uno dei prodotti dell'amico Ingroia. Ma se appare impossibile offrire una percezione di realtà così tanto difforme dai fatti reali, Travaglio va oltre e, con una serie di illazioni, di urli al “compottone”, che riesce nel far credere l'opposto della realtà. E siamo, qui, nel capitolo delle intercettazioni delle telefonate tra Napolitano e Mancino. Travaglio vuol far credere al popolo che in quelle intercettazioni c'è la prova del “peccato”. E, essendo lì la prova chiave della colpevolezza degli indagati da Ingroia, è evidente che le si vuole distruggere, quelle intercettazioni, per negare la prova-madre. Travaglio quindi indica un complotto che va dal Csm al Parlamento, passando per Corte Costituzionale, Quirinale e Governo. Praticamente il mondo intero è parte di un complotto, tutti tranne Ingroia e chi sostiene il suo teorema. Ed in tanti ci cascano... vedono lì, materializzato il complotto universale disegnato da Travaglio. Peccato che la verità, i fatti, smentiscano – già a priori – questa tesi dell'avvocato difensore dell'amico Ingroia. E, si badi, non fatti prodotti dagli attori e partecipi del presunto “complottone”, ma fatti indicati dalla stessa Procura di Palermo, dove c'è il suo amico Ingroia! Infatti è la stessa Procura di Palermo che, nero su bianco, scrive che quelle intercettazioni delle telefonate tra Napolitano e Mancino sono prive di qualsiasi rilievo penale e non rappresentano nemmeno alcuno spunto investigativo! Ecco: questo dice la Procura di Palermo! Non basta. Quella stessa Procura dice che quelle intercettazioni delle telefonate tra Napolitano e Mancino potrebbero essere utili solo per la Difesa di Mancino, ovvero il principale imputato! Questi i fatti. Ma Tavaglio li capovolge e fa credere che invece la distruzione di quelle intercettazioni sia un aiuto a Napolitano e Mancino per fermare l'inchiesta! Un delirio totale. Una mistificazione radicale che però, nell'opinione pubblica fa breccia. Così come si vorrebbe capovolgere lo Stato di Diritto e quei principi costituzionali, di cui Travaglio e amici si dichiarano grandi difensori. Infatti ecco lì che si mette in discussione che una regola (per cui il Presidente della Repubblica non possa essere intercettato) bisogna ignorarla e visto che la Corte Costituzionale dice che le norme ed i principi della Costituzione non possono essere calpestati, così, come già aveva abituato Berlusconi, ecco che parte l'urlo, questa volta da Ingroia & C: sentenza politicizzata!  Marco Travaglio ha ora, sullo scacchiere politico, un solo amico, Beppe Grillo. Di Pietro, così come Ingroia, sono rimasti fuori dal Parlamento e quindi gli resta solo il M5S ed il suo amico padre-padrone. Grillo lo ha ospitato con il “passaparola” dandogli un palcoscenico nei momenti di stanca dal piccolo schermo. Grillo, con la Casaleggio, ne ha prodotto i Dvd. La base “grillina” è un buon mercato che, si sa, se osi non chinarti al “verbo” di Grillo (lo chiama “il verbo” da diffondere lui stesso, molto umilmente), sei un traditore e cadi in disgrazia, che se devi vendere giornale e libri non è una bella prospettiva. Ed allora ecco che, ancora una volta, tutto ciò che per gli altri sarebbe “peccato” quando riguarda Grillo e pentastellati diviene un “pregio”, anzi una garanzia!
Travaglio, che ha tanto a cuore la questione “legalità”, non si è nemmeno accorto che nel programma (e nemmeno nelle “stelle”) del movimento del suo amico Grillo, questo punto è latitante! Non c'è una proposta che sia una in materia di anticorruzione, antiricilaggio... nemmeno su prevenzione e contrasto delle mafie, così come nulla sulla necessaria riforma della Giustizia. Il silenzio colpevole degli altri, quando è silenzio di Grillo e dei “5 stelle” diventa un bello... E così un “sacco bello” diventa anche il negazionismo e le sortite deliranti sulla mafia che Grillo dispensa e che i “grillini” assimilano. Anche qui, se mai l'affermazione “La mafia non uccide” l'avesse fatta un Berlusconi o un chicchessia qualsiasi di altri partiti, apriti cielo (giustamente), ma visto che l'ha fatta Grillo ed i “grillini” l'hanno assunta a “verbo” allora va bene, è giusto così, “la mafia non uccide”. Ed ancora se mai un Casini, un Crisafulli o Dell'Utri avessero detto che ormai la mafia non ricicla più nel cemento si sarebbero aperte (giustamente) le critiche più pesanti, ma visto che lo sostiene Grillo allora è vero, la mafia nel cemento non ci azzecca più nulla... anche se la realtà dice l'esatto opposto. E poi, i programmi, la credibilità dei candidati e della loro azione, che tanto sta a cuore in generale a Travaglio, per il movimento di Grillo, sono bazzecole che non occorre valutare. Ed allora, quando ti trovi in realtà dove, ad esempio, la 'ndrangheta condiziona pesantemente economia, politica e pezzi delle istituzioni e pubbliche amministrazioni, e i partiti della “kasta” tacciono, negano o minimizzano, si deve (giustamente) denunciare tale scellerato atteggiamento, ma se a tacere, negare o minimizzare sono Grillo ed il M5S allora va bene così, di certe cose non è poi mica necessario parlare! E, di esempi, ce ne sono. Guardiamo alla terra della Liguria, quella di Grillo. Ebbene qui a Genova, delle collusioni tra 'ndrangheta e pezzi determinanti dell'economia locale, così come della politica e delle pubbliche amministrazioni, ce ne sono quanti se ne vuole, ma il M5S su questo “dettaglio” tace. A Bordighera, Comune la cui amministrazione è stata sciolta per mafia e che vede l'ex sindaco indagato per concorso esterno, si è andati ad elezioni ma sul punto 'ndrangheta dal M5S il silenzio è stato assoluto, anche davanti alle sparate di Vittorio Sgarbi che, nostalgico di Niscemi, è giunto per sostenere che il problema a Bordighera non è la mafia, bensì l'antimafia. E così a Imperia, la città di Scajola e del Porto di Caltaggirone, costruito con le ditte di 'ndrangheta, silenzio sul punto, così come a Sestri Levante dove grande imprenditore e consigliere comunale uscite è il Santo Nucera che, dagli atti, risulta affiliato alla criminalità organizzata calabrese... e poi, ancora più a levante, a Sarzana, dove ha sede uno dei “locali” della 'ndrangheta, di nuovo, sempre, costante, silenzio sul tema! A Grillo ed al suo movimento è perdonato tutto ciò che agli altri non sarebbe lasciato passare nemmeno per sbaglio. Travaglio è così, gli amici sono amici e vanno difesi, a prescindere. Si può modificare la realtà, offrendone una percezione radicalmente difforme, pur di difendere l'ultimo amico sullo scacchiere politico. Ed allora alla propaganda di Travaglio per Grillo, come di prassi, come già accaduto per Di Pietro e per Ingroia, si indossano gli abiti di avvocato difensore che mostra i denti a chi osa toccar l'amico. Già davanti ai risultati elettorali si è potuto assistere al salto mortale del tramutare, da parte di Travaglio, una sonora sconfitta in una gloriosa vittoria, ma visto che non bastava, e visto che occorre serrare le fila nella difesa dell'amico in difficoltà, Travaglio supera, ancora una volta, se stesso con l'ultimo editoriale, quello di oggi. Travaglio attacca Antonio Amorosi reo di aver parlato della nostra articolata e documentata inchiesta sulla gestione dei fondi da parte del M5S. Travaglio si guarda bene dall'entrare nel merito dell'inchiesta che abbiamo pubblicato ed inviato alle Autorità competenti Non lo fa perché sarebbe dura smentire le fonti di questa inchiesta che sono, tutte, una dopo l'altra, tutte fornite dai vari siti del M5S e quindi, ovviamente, non considerabili “ostili” allo stesso. Non lo fa perché Travaglio sa bene che un partito non può gestire i propri fondi (siano quelli derivanti dai rimborsi elettorali, quelli derivanti dai fondi pubblici a cui attinge o quelli derivanti da donazioni e sottoscrizioni) su conti privati di terzi, eludendo ogni contabilizzazione da parte del partito e quindi ogni tracciabilità dei movimenti in entrata ed in uscita. Se si leggesse un articolo di Travaglio che dice “gestire i fondi del partito su miriadi di conti privati, senza iscriverli a bilancio e usandoli facendo fatture intestate ad altri è bello e giusto” è ovvio che si sobbalzerebbe sulla sedia e il strabismo sarebbe evidente ai più... e quindi lui evita di entrare nel merito dell'inchiesta che abbiamo fatto e attacca chi osa parlarne, reo, come detto, di lesa maestà, cioè il portatore del “verbo”, l'amico Beppe Grillo. Travaglio attacca Amorosi che riporta un passaggio della nostra inchiesta (che nemmeno Grillo ed alcuno del M5S ha smentito, né nelle anticipazioni, né nella sua pubblicazione (anche sulle bachece facebook di Grillo, anche se in diversi gli hanno postato sul blog la questione ed i link). Grillo non risponde, il M5S non risponde... anche perché è dura dare smentita ai fatti... ma parte all'attacco Travaglio, così da porre il suo "bollino di qualità" che, senza smentire, fa dire: smentita è fatta!
Travaglio crea, come sempre, il paradosso affermando che si accusa Grillo di “rubare” per esorcizzare e nascondere una verità di fatti documentata: una gestione del M5S, il secondo partito italiano, inquietante e fuori da qualsivoglia norma. Poi per cercare di rappresentare al meglio la sua illazione-difensiva la butta sul “giudiziario”... ovvero se non c'è un'inchiesta della magistratura (e poi chi lo dice, con certezza, che non ci sia?) allora va tutto bene, dimenticando che c'è una questione politica grande come una casa: un politico - il suo amico Grillo - che sbraita di trasparenza, democrazia e di politica senza soldi, e che ha un movimento - il M5S – che di trasparenza non ne ha nemmeno l'ombra, di democrazia non ne parliamo visto che è un partito in mano a Grillo, nipote e commercialista (unici tre soci e dirigenti), in cui ogni decisione è presa da Grillo (e staff, alias Casaleggio), e di soldi ne ha quanti ne servono per le proprie attività, ma gestiti come “fondi neri” (in quanto non contabilizzati e gestiti in entrata ed uscita su conti correnti personali e non quindi del M5S), tanto che pubblica persino un rendiconto falso dello Tsunami Tour. Immaginate se una gestione così l'attuassero gli altri partiti, quelli della “kasta”? Sarebbe il finimondo. Sarebbe un giusto attacco ad una gestione inquietante della democrazia interna, delle scelte e della gestione dei fondi... ma già come fu per il partito familiare dell'amico Di Pietro, anche in questo caso, per Travaglio, essendo in causa l'amico Grillo, non solo propaganda, ma difende a prescindere dai fatti e attacca chi osa criticare il suo ultimo uomo nello scacchiere politico.
Non si chiama come Fede, ma anche lui si dimostra “fido” agli amici... E' ammiccante e accattivante, con il suo sguardo e la sua battura ed il falso detto bene diventa verità, in Italia... vale per gli altri e vale per il popolo fedele di Travaglio che, non guarda ai fatti, ma si affida alla loro libera interpretazione del vendicatore dalla penna pungente. In Italia ci sono le tifoserie, si sà... e non conta la verità, anzi non la si vuole la verità. Si vuole quella percezione di verità che ci fa stare bene, ad ogni tifoseria la propria, quella che avvalla il dogma, il credo, la fiducia nel "salvatore". E Travaglio ha la sua curva di tifosi, non può tradirla e quindi l'asseconda dicendo ciò che vogliono sentire, difendendo l'amico, tanto i fatti non contano, siamo nel campo della propaganda! E' così da tempo, purtroppo e guai a ricordarlo, è molto permaloso, perché per lui la verità è ciò che si presta a darli ragione, ma se una verità lo smentisce allora questa è deve essere cancellata, senza se e senza ma, perché nell'ambito della fede non conta la logica ma solo l'acquiescenza anche alle bufale più conclamate. Non a caso, come il suo maestro Montanelli, anche lui – come ha avuto modo di ricordare anche pubblicamente – votava DC turandosi il naso, perché la DC era il meno peggio... infatti nella DC del meno peggio c'erano persona per bene, come il buon vecchio “don Vito”, papà del nuovo eroe dell'antimafia, e tanti altri personaggi che ben conosciamo, mentre dall'altra parte, quella "del peggio" c'erano gente come Enrico Berlinguer che, per carità, era il demonio.  L'Italia è il Paese del "tengo famiglia", ma anche quello del "tengo amici"... e noi di amici ne abbiamo pochi ed anche con questo pochi, quando c'è qualcosa di dire, la diciamo. Ecco, noi l'opportunismo e la convenienza personale, così come la pratica del piegare i fatti per agevolare qualcuno nello scacchiere politico, non ce l'abbiamo. Altri, come Travaglio, dimostrano, giorno dopo giorno, di stare bene, invece, in questa Italia, del tengo famiglia e del tengo amici... Lui si dice indipendente ma poi ci casca sempre nello smentirsi con le dichiarazioni di voto, lo fa per il popolo che pende dalle sue labbra... per lui informazione è propaganda, non è fornire gli elementi oggettivi perché poi ognuno, in propria coscienza e ragionamento, valuti e decida. E' un Ufficio Stampa gratuito per gli amici, ed in tempo di "crisi" non conosce crisi, anche questa, in Italia, è una "qualità"! P.S. Ma perché Travaglio non dice apertamente di essere un giornalista militante, ovvero uno che fa il giornalista e presta questa sua penna alla difesa degli amici? Sarebbe più corretto del mostrarsi “indipendente” quando questa indipendenza non c'è manco di striscio.

In contrapposizione a Travaglio ci troviamo Grasso. Aldo Grasso: "Per il 2014 meno talk show e più X-Factor". Il critico del Corriere elenca i suoi desiderata per l'anno nuovo: "Basta talk show che non approfondiscono nulla. Meglio Fiorello e il talent per chi canta", scrive “Libero Quotidiano”. "Meno Santoro e più X Factor". E' questa la tv che sogna Aldo Grasso per il 2014. In un editoriale su Oggi, il critico televisivo del Corriere della Sera fa l'elenco dei suoi "dieci desideri per la televisione del 2014". Grasso mette nel mirino subito i talk show che ormai affollano i palinsesti dal lunedì al sabato. Grasso critica soprattutto quelli d'approfondimento politico ed è facile leggere oltre le righe un riferimento a Servizio Pubblico di Michele Santoro e Ballarò di Giovanni Floris: "Mi piacerebbe che ci fossero meno talk di approfondimento, che tanto non approfondiscono più niente, sono solo passerelle per i politici o gente che si vuole mettre in mostra". Insomma Grasso vuole un palinsesto libero dai santorini di turno e spinge per una tv che sappia riscoprire "X Factor e Fiorello": "Verrà mai il giorno in cui la Rai, il Srvizio Pubblico farà un varietà bello come X Factor? Tornerà Fiorello?", scrive Grasso. Infine il critico mette nel mirino Vespa: "Non vorrei più vedere, per fare un esempio, un Matteo Renzi in un programma di Bruno Vespa. Il nuovo esiste solo quando si confronta con il nuovo".

E poi ci sono i giustizieri della rete. Ragazza malata pubblica messaggio a favore della sperimentazione animale, coperta d'insulti: "Dovevi morire bambina". Caterina ha 25 anni e studia Veterinaria. Ma ha 4 malattie genetiche e senza ricerca scientifica sarebbe morta a 9 anni. Ma per il popolo del web questa è una colpa, scrive “Libero Quotidiano”.

"Dovevi morire a 9 anni, meglio gli animali di te, crepa" e giù insulti. Caterina Simonsen, studentessa di Veterinaria a Bologna afflitta da quattro malattie genetiche, è stata raggiunta da oltre 30 auguri di morte e 500 offese personali per aver pubblicato su Facebook un messaggio a favore della sperimentazione animale dei farmaci. Caterina ha avuto la colpa, a giudizio di quelli che lei stessa, con una certo ironia, ha definito i "nazianimalisti", di fotografarsi attaccata a un respiratore e con il cartello: "Io, Caterina S., ho 25 anni grazie alla vera ricerca, che include la sperimentazione animale. Senza la ricerca sarei morta a 9 anni. Mi avete regalato un futuro". Le reazioni - "Per me puoi pure morire domani. Non sacrificherei nemmeno il mio pesce rosso per un’egoista come te" scrive tale Giovanna. "Per me potevi pure morire a 9 anni, non si fanno esperimenti su nessun animale, razza di bestie schifose", rincara la dose un altro utente, "Magari fosse morta a 9 anni, un essere vivente di m... in meno e più animali su questo pianeta" rilancia un terzo. E' questo il tenore dei messaggi ricevuti da Caterina, tutti finiti in un dossier presentato alla Polizia Postale per avere ragione delle violenze verbali subite. Il linciaggio mediatico della ragazza  è partito dopo la sua foto è stata rilanciata sui social dal gruppo "A favore della sperimentazione animale", cosa che le ha dato maggiore visibilità. "Non capisco il perché di tanta cattiveria - si chiede ora che l'incidente è avvenuto -. Loro non sanno chi sia io, cosa faccia io, e probabilmente sono così ingenui da non sapere che tutti i farmaci che prendono, che danno ai loro figli e che danno ai loro animali sono stati testati sugli animali". La Simonsen ora chiede che Partito animalista europeo, Lega antivivisezione (Lav) e l'ex ministro Michela Vittoria Brambilla prendano le distanze e stigmatizzino l'incidente. Nel frattempo si gode i 14mila like che comunque il web le ha tributato.

«Per me puoi pure morire domani. Non sacrificherei nemmeno il mio pesce rosso per un’egoista come te»: firmato Giovanna. E’ solo uno degli oltre 30 auguri di morte e 500 offese ricevuti su Facebook (e denunciati) da Caterina Simonsen, studentessa di Veterinaria all’Università di Bologna, colpita da quattro malattie genetiche rare, e divenuta il bersaglio di estremisti animalisti sul social network dopo avere pubblicato una foto che la ritrae con il respiratore sulla bocca e un foglio in mano, scrive invece “Il Corriere della Sera”. «Io, Caterina S. - recita la scritta - ho 25 anni grazie alla vera ricerca, che include la sperimentazione animale. Senza la ricerca sarei morta a 9 anni. Mi avete regalato un futuro». Il post, rilanciato su Facebook dal gruppo «A favore della sperimentazione animale», ha ricevuto oltre 13mila «mi piace», ma ha suscitato anche una pioggia di «insulti, apprezzamenti, di tutto e di più», spiega la ragazza che con due video risponde a chi la attacca e lancia un appello a Partito animalista europeo, Lega antivivisezione (Lav) e Michela Vittoria Brambilla, affinché si dissocino dagli auguri di morte e prendano provvedimenti. «Se crepavi anche a 9 anni non fregava nulla a nessuno, causare sofferenza a esseri innocenti non lo trovo giusto», è il messaggio di Valentina. Concorda Mauro: «Per me potevi pure morire a 9 anni, non si fanno esperimenti su nessun animale, razza di bestie schifose». Insulti anche da Perry: «Magari fosse morta a 9 anni, un essere vivente di m... in meno e più animali su questo pianeta». Materiale che Caterina ha consegnato alla polizia postale, con nomi e cognomi degli autori dei post. «Non capisco il perché di tanta cattiveria - replica la giovane -. Loro non sanno chi sia io, cosa faccia io, e probabilmente sono così ingenui da non sapere che tutti i farmaci che prendono, che danno ai loro figli e che danno ai loro animali sono stati testati sugli animali». Caterina non mangia carne e il suo sogno è laurearsi in Veterinaria per «salvare gli animali». Seduta sul letto, circondata dalle decine di farmaci che deve assumere e dai macchinari che le permettono di respirare, la ragazza spiega a chi la attacca come trascorre la sua giornata tipo. Una lotta quotidiana contro quattro malattie rare (immunodeficienza primaria, deficit di proteina C e proteina S, deficit di alfa-1 antitripsina, neuropatia dei nervi frenici), abbinate al prolattinoma, un tumore ipofisario, e a reflusso gastroesofageo, asma allergica e tiroidite autoimmune. Per poter sopravvivere passa dalle 16 alle 22 ore al giorno attaccata a un respiratore, deve utilizzare un’apparecchiatura che le fa vibrare i polmoni aiutandola a eliminare muco, assume montagne di medicinali spray, per bocca e in vena. Tra i quali, tiene a evidenziare, anche alcuni indicati per curare cani, gatti, furetti, rettili e uccelli. Quattro volte Caterina è finita in rianimazione, a un passo dalla morte. Solo nell’ultimo anno ha accumulato 12 settimane di ricovero e 20 di terapia endovena, e per poter dare gli esami all’Università segue un programma studiato appositamente per lei. «Mi dicono “meglio 10 topi vivi di te viva”, ma io spero di avervi fatto capire quanto ci tengo a vivere», dice la giovane nei video. Questo è il suo appello: «Invito Brambilla, Lav e Partito animalista europeo a combattere contro l’utilizzo degli animali dove non è fondamentale per l’esistenza umana: la caccia, i macelli, gli allevamenti di pellicce. Anziché fare tanto rumore mediatico, e ostacolare il lavoro dei ricercatori potreste raccogliere fondi e investire soldi per cercare un metodo alternativo valido agli esperimenti sugli animali. Una volta trovati questi metodi, per legge dovranno sostituire i test sugli animali. Vi chiedo di chiedere all’Aifa di mettere grande sulle confezioni dei farmaci che il medicinale è testato sugli animali a norma di legge, così che chi si cura possa fare una scelta consapevole». A chi vorrebbe fosse morta, infine, la ragazza augura «il meglio», e «buona domenica». «È una vergogna quello che sta succedendo a Caterina. Non è ammissibile che persone disinformate e prepotenti si permettano di minacciare e augurare la morte a una persona gravemente malata». Così Dario Padovan, presidente di Pro-Test Italia (associazione non profit per la difesa della ricerca bio-medica), che bolla come «inaccettabili» gli insulti diretti alla ragazza. «Chiediamo che le associazioni animaliste prendano pubblicamente le distanze da questi comportamenti vergognosi e incivili di chi si professa sostenitore della loro stessa causa» conclude.

I MORALISTI DEGLI AFFARI ALTRUI.

Il moralista spesso è disonesto. Peire Cardenal diceva che gli intellettuali si fanno predicatori morali, assassini che sembrano santi. Il moralista che dice: Ricchi perché disonesti. Ricchi perché spietati. Ricchi in quanto senza morale oppure, peggio, furbi. Il moralista è un comune esemplare appartenente alla fauna urbana che infesta reality show, programmi scandalistici tipo pomeriggio cinque e persino ristoranti di lusso. Pratiche diffuse tra i moralisti sono il rompimento di coglioni, la predica e la sentenza. Chiunque può diventare un moralista. Purtroppo, anche tu dato che sembrerebbe che nessuno di questi sia munito di buon senso e intelletto. Un moralista è uno scrittore che propone, in maniera discontinua, riflessioni sui costumi, le usanze e i modi di essere degli uomini, i loro caratteri e modi di vivere. Il moralista, in senso generico, è anche colui che «per carattere, per educazione o per cultura è portato a esaminare e valutare l’aspetto morale di qualsiasi questione o situazione» o chi, nel senso di "moralizzatore", pretende, attraverso le sue parole, presunti insegnamenti e, più raramente, il suo esempio, di dare lezioni di comportamento morale.

La moda del moralismo, scrive Gianni Pardo. La morale ha come base le necessità fondamentali del genere umano. L'intelligenza della nostra specie ci ha inoltre fatto capire che staremo tutti meglio se osserveremo un numero molto maggiore di regole rispetto a quelle che ci detta la natura: dal non fare rumore la notte per non disturbare i vicini al pagare le tasse; dal fare la coda allo sportello evitando discussioni alla cura dei vecchi, visto che vecchi diventiamo tutti (si spera) una volta o l'altra. Questo affinamento dei doveri consigliati dalla convivenza è molto meno cogente dell'istinto e infatti in questo ambito le società non sono tutte uguali. Si potrebbe dire che esistono società più o meno morali. Mezzo secolo fa chiesi ad una ragazzina, in Francia, che cosa avrebbe pensato di una compagnetta che a scuola avesse copiato il compito. E lei non ebbe dubbi: "Qu'elle est malhonnête", che è disonesta. Da noi invece anche i candidati al concorso per magistrato cercano di copiare. Dunque "la società scolastica francese è (era?) più morale dell'italiana". La morale nasce dalla società ma diviene un fatto individuale. Chi è abituato ad un certo comportamento finisce col considerarlo naturale. Quella bambina non si strapazzò a dichiarare che lei non avrebbe mai copiato come in Italia nessuno oggi si vanta dicendo: "Io non sputo per terra".  Eppure un secolo fa tanta gente lo faceva. L'uomo morale lo è senza proclami, mentre il moralista si considera degno di particolare stima. E questo è preoccupante. Chi dice mai: "Io non rubo" se non chi ha frequentato dei ladri o chi deve lottare contro la tentazione di rubare? Per questo Ernest Renan ha scritto: "Ho conosciuto molte canaglie che non erano moraliste, non ho conosciuto moralisti che non fossero canaglie". L'Italia, per cause remote, è poco morale. Il rispetto della collettività è evanescente; il sentimento religioso è tenue; il senso civico pressoché inesistente; le regole si rispettano se non se ne può fare a meno. In compenso, in passato i costumi erano tolleranti. Gli italiani (e i cinesi) furono sbalorditi quando gli americani pretesero le dimissioni di Richard Nixon solo perché aveva mentito. Dall'alto di una saggezza e di un pessimismo millenari trattavamo con indulgenza gli errori e i peccati altrui. Pensavamo, con Terenzio, che non ci è alieno niente che sia umano. Purtroppo nell'ultimo mezzo secolo noi italiani non siamo diventati più morali ma solo meno tolleranti. Dei vizi altrui. Fra i più accaniti moralisti ci sono coloro che non hanno molte possibilità di comportarsi male: per esempio i professori. Non possono imbrogliare sul peso, emettere fatture false o frodare il fisco e perciò sono più arcigni e severi di Girolamo Savonarola. Nel frattempo non si accorgono che le raccomandazioni sono un atto di disonestà. Non capiscono che, se dànno una lezione privata e non la dichiarano al fisco, sono evasori, come lo sono quando non chiedono la fattura all'idraulico per non pagare l'Iva. "Per somme minime!", esclamano. Come se si fossero volontariamente astenuti dall'ingannare il fisco per milioni di euro. Il moralismo italiano è una moda. Dimentichiamo le lezioni della storia e arriviamo all'assurdo di sostenere che i politici "devono dare l'esempio". Per non interferire col corso della Giustizia (più infallibile di Salomone) devono rinunciare a quella prescrizione cui nessun cittadino rinuncerebbe. A cominciare dai moralisti. Gli statisti non che arricchirsi dovrebbero rimetterci; gli amministratori degli enti pubblici dovrebbero essere impermeabili alle raccomandazioni per gli appalti mentre i privati raccomandano i figli a scuola e gli amici per qualche impiego. Ognuno depreca vivamente i peccati che, per una ragione o per l'altra, non può commettere, e scusa quelli che commette con la solita, imbattibile giustificazione: "Lo fanno tutti". I moralisti sono quelli che vorrebbero imporre a tutti gli altri una virtù sublime mentre usano un diverso metro per sé e per i loro cari. Il mondo dei media è pieno di questa fastidiosa genia. Siamo al punto che coloro che sono sul serio eccezionalmente morali non dovrebbero mai predicare la virtù: nessuno potrebbe distinguerli dai moralisti.

I moralisti che raccomandano agli uomini di soffocare le passioni e di dominare i desideri per essere felici, non conoscono affatto il cammino della felicità. Émilie du Châtelet, Discorso sulla felicità, 1779.

Non c'è un solo moralista che non possa essere convertito in un precursore di Freud. Emil Cioran, L'inconveniente di essere nati, 1973.

Colui che predica la morale limita di solito le sue funzioni a quelle d'un trombettiere di reggimento, che dopo aver sonata la carica e fatto molto rumore, si crede dispensato di pagar di persona. Charles Lemesle, Misophilanthropopanutopies, 1833.

Un moralista è il contrario di un predicatore di morale; è un pensatore che vede la morale come sospetta, dubbiosa, insomma come un problema. Mi spiace di dover aggiungere che il moralista, per questa stessa ragione, è lui stesso una persona sospetta. Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, 1869/89.

Quando t'imbatti in un moralista, consideralo con rispetto, ad una prudente distanza, perché la morale è come la trichina: vive nella carne del porco. Pitigrilli (Dino Segre).

I moralisti han torto. La sessualità non si vince soltanto con l'astinenza ma anche con la lussuria. Italo Tavolato, Contro la morale sessuale, 1913.

Diventerò moralista il giorno in cui uno mi dimostrerà di aver pensato durante il coito alla generazione futura. Italo Tavolato, Contro la morale sessuale, 1913.

La ferocia dei moralisti [...] è superata soltanto dalla loro profonda stupidità. Filippo Turati, Discorso parlamentare, 1907.

Un uomo che moraleggia è di solito un ipocrita, una donna che moraleggia è invariabilmente brutta. Oscar Wilde, Il ventaglio di lady Windermere, 1892.

Citazioni sulla morale.

Conosco molti furfanti che non fanno i moralisti, ma non conosco nessun moralista che non sia un furfante. (Indro Montanelli).

Di conseguenza, le opinioni degli uomini su ciò che sia degno di lode o di biasimo sono condizionate da tutte le molteplici cause che ne influenzano i desideri riguardanti l'altrui condotta [...]. Dovunque vi sia una classe dominante, la morale del paese emana, in buona parte, dai suoi interessi di classe e dai suoi sentimenti di superiorità di classe. (John Stuart Mill).

Fino ad ora, sulla morale ho appreso soltanto che una cosa è morale se ti fa sentire bene dopo averla fatta, e che è immorale se ti fa star male. (Ernest Hemingway).

Ho sempre sentito che avevo delle responsabilità. Quel senso del dovere, poi, che avevo sempre addosso, quel senso che, insomma, era giusto fare certe cose o non farle. Ma non ero io... era che non c'era niente di più importante nella mia vita, non c'era niente di più grande, sai... sono uno che non ha mai fatto compromessi. Non ne ho avuto forse un grande bisogno, ma avevo una ripulsione per i compromessi e se questa la vuoi chiamare moralità, sì. (Tiziano Terzani).

Il moralista borghese è l'uomo della lettera anonima (Mario Mariani).

Il peggior criminale che abbia mai camminato su questa terra è moralmente superiore al giudice che lo condanna alla forca. (George Orwell).

Il peso materiale rende prezioso l'oro, quello morale l'uomo. (Baltasar Gracián y Morales).

L'onestà è lo stato allotropico della morale. (Carlo Maria Franzero).

La ferocia dei moralisti [...] è superata soltanto dalla loro profonda stupidità! (Filippo Turati).

La loro moralità, i loro principi, sono uno stupido scherzo. Li mollano non appena cominciano i problemi. Sono bravi solo quanto il mondo permette loro di esserlo. Te lo dimostro: quando le cose vanno male, queste... persone "civili" e "perbene", si sbranano tra di loro. Vedi, io non sono un mostro; sono in anticipo sul percorso. (Il cavaliere oscuro).

La morale comune cambia, a seconda di dove si vive. (Allan Prior).

La morale è l'intera scienza del soggettivo e dell'obbiettivo morale. – La conoscenza del dovere per ciò che è dovere senza alcun riguardo a qualsiasi conseguenza. (Victor Cousin).

La morale è la cognizione de' nostri veri e solidi interessi. (Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy).

La morale è la debolezza del cervello. (Arthur Rimbaud).

La morale è semplicemente l'atteggiamento che adottiamo nei confronti di individui che, personalmente, non ci piacciono. (Oscar Wilde).

La morale è sempre la stessa, non si modifica a seconda del suo essere applicata alla sfera pubblica o alla sfera privata. Ma la morale tiene sempre conto dell'oggetto, della realtà a cui si applica. (Georges Marie Martin Cottier).

La morale è un fondo sociale che viene accresciuto lungo il doloroso corso delle epoche. (Jack London).

La morale non è altro che l'arte attiva e pratica di viver bene. (Pierre Gassendi).

La moralità, ciò che la società chiama «morale» di per sé non esiste. (Carlo Maria Franzero).

La moralità consiste nel rispettare le cose con la volontà, secondo il pregio ch'elle hanno. (Augusto Conti).

La moralità è il rapporto tra il gesto e la concezione del tutto in esso implicato. (Luigi Giussani).

La ricerca esclusiva dell'avere diventa un ostacolo alla crescita dell'essere e si oppone alla sua vera grandezza: per le nazioni come per le persone, l'avarizia è la forma più evidente del sottosviluppo morale. (Papa Paolo VI).

La Rivoluzione sociale sarà morale, oppure non ci sarà. (Charles Péguy).

La vera moralità consiste non già nel seguire il sentiero battuto, ma nel trovare la propria strada e seguirla coraggiosamente. (Mahatma Gandhi).

La vergogna è un sentimento fondamentale. Vergogna viene da vere orgognam: tempo l'esposizione. Oggi l'esposizione non la si teme più. E allora cosa succede: se io mi comporto in una modalità trasgressiva, bè che male c'è. Vado incontro ai desideri nascosti di ciascuno di noi e li espongo, quanto son bravo. E allora a questo punto non sono più visibili con chiarezza i codici del bene e del male. C'era Kant che diceva che il bene e il male ognuno le sente naturalmente da sé, usava la parola sentimento. Oggi non è più vero. Semplicemente se uno ha il coraggio anche di mostrarsi vizioso, se ha il coraggio anche di mostrarsi trasgressivo è un uomo di valore, almeno lui ha il coraggio, ha interpretato i sentimenti nascosti di ciascuno di noi. Questo ormai significa, non dico il collasso della morale collettiva, ma persino di quella individuale, quella interna, quella psichica. Quindi la fine dei tempi. (Umberto Galimberti).

L'entusiasmo non è altro che ubriachezza morale. (George Gordon Byron).

Le passioni umane si fermano solo dinanzi a una potenza morale che rispettino. Se manca una qualsiasi autorità di questo tipo, la legge del più forte regna e, latente o acuto, lo stato di guerra è necessariamente cronico. (Émile Durkheim).

L'etica è più una questione di opinioni che una scienza. La morale è una consuetudine più che una legge naturale. (Robert Heinlein).

Il cedimento morale di tanti cristiani anzi, la crisi stessa della Chiesa hanno una causa. E questa causa è, per dirla chiara, l'indebolimento della fede. È impossibile vivere la morale cattolica se non si è più convinti, e fino in fondo, che Gesù Cristo è il figlio di Dio e che nel vangelo è contenuto il progetto divino per l'uomo. (Benedetto XVI).

L'indignazione morale è in molti casi al 2 per cento morale, al 48 per cento indignazione, e al 50 per cento invidia. (Vittorio De Sica).

L'intelligenza è una categoria morale. (Theodor Adorno).

Nella morale come nell'arte, nulla è dire, tutto è fare. (Ernest Renan).

Non può esserci agire morale, lì do­ve non ci sia l'altro, riconosciuto in tutto lo spessore irriducibile della sua alterità. (Bruno Forte).

Non resta altro mezzo per rimettere in onore la politica, si devono come prima cosa impiccare i moralisti. (Friedrich Nietzsche).

Non si può essere felici finché intorno a noi tutti soffrono e si infliggono sofferenze; non si può essere morali fintantoché il procedere delle cose umane viene deciso da violenza, inganno e ingiustizia; non si può neppure essere saggi fintantoché l'umanità non si sia impegnata nella gara della saggezza e non introduca l'uomo alla vita e al sapere del più saggio dei modi. (Friedrich Nietzsche).

Ogni disordine morale è un atto di guerra. (Carlo Gnocchi).

Ogni moralità trae la sua origine dalla religione, perché la religione è soltanto la formula della moralità. (Fëdor Dostoevskij).

Pensavi che potessimo essere persone per bene in questi tempi in cui tutto è male, ma ti sbagliavi. Il mondo è spietato, e l'unica moralità in un mondo spietato è il caso. Imparziale, senza pregiudizi, equo. (Il cavaliere oscuro).

Per i moralisti, tu sei naturalmente cattivo. La bontà sarà una disciplina imposta dall'esterno. Tu sei un caos e l'ordine deve essere instaurato da loro; saranno loro a portare l'ordine. E hanno fatto del mondo intero un pasticcio, una confusione, un manicomio, perché hanno continuato a fare ordine per secoli e secoli, a disciplinare per secoli e secoli. Hanno insegnato così tanto che coloro cui è stato insegnato sono impazziti. (Osho Rajneesh).

Per mettere in chiaro i veri princìpi della morale, gli uomini non hanno bisogno né di teologia, né di rivelazione, né di divinità: hanno bisogno solamente del buon senso. (Paul Henri Thiry d'Holbach).

Per morale o etica particolare od applicata s'intende quella parte di morale, la quale tratta del sommo bene e dell'onesto, ovvero dei doveri e della virtù in tutte le loro applicazioni e relazioni. Questa parte è la morale veramente pratica, quella che per alcuni forma tutta la scienza dell'etica, appunto perché in essa deve apprendere lo spirito ad operare. (Baldassarre Poli).

Più profittevole al mondo è chi abbia lasciato un solo precetto di morale, una sola sentenza risguardante la vita, che non un geometra, avesse egli pure scoperte le più belle proprietà del triangolo. (François-René de Chateaubriand).

Quando il tempo è denaro, sembra morale risparmiare tempo, specialmente il proprio. (Theodor Adorno).

Quando mi trovavo a Motiers andavo a degli incontri mondani dai miei vicini portandomi in tasca sempre un bilboquet per giocarci per tutto il tempo per non parlare quando non avevo niente da dire. Se ognuno facesse altrettanto, gli uomini diventerebbero meno malvagi, i loro commerci diventerebbero più sicuri, e io penso, più agevoli. Infine, che qualcuno rida se vuole, ma io sostengo che la sola morale disponibile nei tempi odierni sia la morale del bilboquet. (Jean Jacques Rousseau).

Quando t'imbatti in un moralista, consideralo con rispetto, ad una prudente distanza, perché la morale è come la trichina: vive nella carne del porco. (Pitigrilli).

Quello che diciamo praticamente morale, non è altro da quello che teoricamente diciamo filosofia. La distinzione deriva, a nostro modo di vedere, dal concepire astrattamente il bene, che è oggetto della morale, e la verità, che è oggetto della filosofia. (Giovanni Gentile).

Rivoltatela come più vi pare, | prima viene lo stomaco, poi viene la morale. (Bertolt Brecht).

Se la morale non urtasse, non verrebbe lesa. (Karl Kraus).

Si diventa morali non appena si è infelici. (Marcel Proust).

Tutti noi abbiamo bisogno di un coinvolgimento morale che vada oltre le meschine contingenze della vita quotidiana: dovremmo prepararci a difendere attivamente questi valori ovunque siano scarsamente sviluppati o siano minacciati. Anche la morale cosmopolita deve essere mossa dalla passione; nessuno di noi avrebbe nulla per cui vivere se non avessimo qualcosa per cui valga la pena morire. (Anthony Giddens).

Vilfredo Pareto: I precetti morali sono spesso volti ad assodare il potere della classe dominante, spessissimo a temperarlo. La morale tipo è stata considerata come alcunché di assoluto; rivelata od imposta da Dio, secondo il maggior numero; sorgente dall'indole dell'uomo, secondo alcuni filosofi. Se ci sono popoli i quali non la seguono ed usano, è perché la ignorano, e i missionari hanno l'ufficio di insegnarla ad essi e di aprire gli occhi di quei miseri alla luce del vero; oppure i filosofi si daranno briga di togliere i densi veli che impediscono ai deboli mortali di conoscere il Vero, il Bello, il Bene, assoluti; i quali vocaboli sono spesso usati sebbene nessuno abbia mai saputo cosa significassero, né a quali cose reali corrispondessero. Vi sono certi fenomeni ai quali nelle nostre società si dà il nome di ETICI o MORALI, che tutti credono conoscere perfettamente, e che nessuno ha mai saputo rigorosamente definire. Non sono mai stati studiati da un punto di vista interamente oggettivo. Chi se ne occupa ha una qualche norma che vorrebbe imporre altrui, e da lui stimata superiore ad ogni altra.

Moralisti e manettari. Provare a spiegare a uno straniero che cosa sia il rapporto tra certa magistratura è certa stampa in Italia è impossibile, scrive “Il Giornale”. Come si fa per esempio a raccontargli ciò che sta accadendo in queste ore sul cosiddetto «caso Panama». C'è Valter Lavitola al quale hanno notificato un altro provvedimento di arresto per un tentativo di estorsione ai danni di Impregilo. Ma non è questa la notizia, ovviamente. E la notizia non è neanche un'altra: cioè che lui avrebbe danneggiato Silvio Berlusconi, usato come esca inconsapevole per la grande azienda di costruzioni che voleva fare affari a Panama. No, per i giornali la notizia sarebbero i presunti filmini hard che lo stesso Lavitola avrebbe girato dopo aver procurato - dice lui - delle prostitute a Berlusconi. Così ieri i giornali erano tutti pieni di questa notizia condita con intercettazioni senza alcuna rilevanza processuale e penale che però sono stati sbattuti nell'ordinanza di arresto e che a quel punto sono finiti alle redazioni. È la vergogna che si ripete: le vittime di possibili reati trattate come colpevoli, la privacy e il rispetto stracciati, l'ossessione delle altrui vicende sessuali che porta a spiattellare tutto senza distinguere ciò che è notizia vera da ciò che invece non lo è. La cosa più grave, come sempre, è il silenzio: nel Paese dei moralisti a gettone, dei garantisti a chiamata nessuno che si sia alzato in piedi per dire che questo è uno scandalo. Una vergogna della quale l'Italia si macchia da vent'anni e della quale non si riesce a liberare. I verbali contengono il nulla su Berlusconi, ma non importa. Non appena compare il suo nome in un'inchiesta, anche come vittima, viene trasformato in autore di misfatti dei quali neanche è a conoscenza. Chi li ha letti dovrebbe essere indignato per il solo fatto che quegli atti siano stati pubblicati. Di più: per il fatto che siano stati inseriti nell'inchiesta. Ecco, se quello straniero ha comprato Repubblica o il Fatto Quotidiano avrà pensato che Berlusconi sia stato considerato responsabile di chissà quale nefandezza. Il numero di pagine dedicate dai giornali al fatto è talmente sproporzionato da far dedurre al povero forestiero che la cosa sia grossa e molto importante. Neanche la lettura degli articolo può averlo aiutato, tanta e tale la bile sprigionata dalle gazzette delle procure. Vagli a spiegare che se qualcosa di vero c'è, Berlusconi è la vittima. Non è possibile perché la militanza di magistrati e giornalisti manettari è così forte da uccidere la verità. E poi parlano di giustizia.

I FRIGNONI ED I VOLTAGABBANA.

I nuovi moralisti manettari e i frignoni italici .

"Qui piove e gli italiani si lagnano". Vittorio Feltri è una furia contro i piagnoni di casa nostra. Questa volta a far sbottare il fondatore di Libero è il meteo. In un editoriale su il Giornale, Feltri attacca chi si lamenta del freddo e della pioggia sotto le feste. Feltri guarda in Europa e afferma che in altri paesi come Inghilterra, Francia e Germania non c'è nessuno che "piange per il maltempo". "Siamo portati a dare una valenza politica a tutto, perfino ai fenomeni naturali, come se dipendessero dagli umani, in particolare se eletti e seduti in poltrona. Da quando non crediamo più in Dio, crediamo all'onnipotenza degli uomini. Siamo ridicoli", scrive Feltri. Insomma per Vittorio il motto "piove, governo ladro" è roba del secolo scorso. E così rincara la dose sugli italiani: "Per quanto riguarda la tempesta di Natale non si segnalano invece manifestazioni di protesta degli inglesi e dei francesi che hanno fatto i conti con tragedie non certo inferiori a quelle che periodicamente ci toccano". Infine la stoccata: "Vi sarà pure un motivo per cui il nostro popolo è incline a trovare un capro espiatorio al quale addossare la responsabilità di ogni guaio grosso o piccolo che sia. Probabilmente siamo talmente sospettosi nei confronti di qualunque autorità da temere che anche la furia degli elementi sia manovrata dal palazzo allo scopo di dimostrare che siamo ancora sudditi...". 

Politici postdatati vs cittadini retroattivi, scrive Nicola Porro. Per capire l’innesco, la sceneggiatura, di una rivoluzione borghese, o se preferite della classe media impoverita, basta tradurre in pagina il comportamento della nostra classe dirigente. Per se stessa applica il principio del «postdatato», mentre per il resto del mondo quello del «retroattivo». Andiamo al dunque. Si chiede a gran voce la riduzione (non fosse altro che per motivi di sobrietà istituzionale) dei costi della politica. I nostri geni si adeguano, producono una legge che avrà effetti nel prossimo futuro. Con il retropensiero che, passata la nottata, si possa sempre cambiare la norma al momento della sua esecuzione. Si taglia il finanziamento pubblico ai partiti, per dirne una, ma a partire dal 2017. Quando però la norma riguarda la gente comune, l’esecuzione è retroattiva. Altro che postdatata. Si applica una patrimoniale sui conti di deposito, ma a valere da ieri. Quindi è impossibile scappare. Si alzano le aliquote dell’Imu a dicembre, ma riguardano l’anno appena trascorso. Sono riusciti a inventarsi un acconto sulle imposte future superiore al 100 per cento di quanto presumibilmente dovuto. Le norme fiscali, nonostante lo Statuto dei contribuenti, sono spesso retroattive. Inchiodano al passato, senza dare la possibilità ai contribuenti di mutare, anche opportunisticamente, i propri comportamenti. L’Italia è l’unico Paese al mondo in cui una norma fiscale restrittiva si applica anche per il periodo in cui essa non era ancora vigente. Ecco, non c’è bisogno di scomodare lo scrittore Ballard per capire i motivi dell’insofferenza e della rabbia che ci invade, basta fare una telefonata al commercialista.

I voltagabbana. ''Marco Pannella dice che non andrà in piazza. Ma ci andrà comunque la Bonino, insieme al giustizialista Di Pietro. Se i radicali oggi fossero davvero liberi e capaci di fare una cosa liberale, dovrebbero molto semplicemente rompere l’alleanza (anche nel Lazio) con Di Pietro e con le liste di sinistra comunista e massimalista. Ma non lo faranno. Il resto sono solo chiacchiere e fumisterie, nel vano tentativo di nascondere l’alleanza sempre più strutturale di Bonino e Pannella con forze illiberali, giustizialiste e manettare''. Lo dichiara Daniele Capezzone, portavoce del Pdl, sottolineando che è un ''triste epilogo della storia radicale: si passa da Sciascia a Travaglio, da Tortora a De Magistris, da Pannunzio a D’Avanzo, da Ernesto Rossi a Gioacchino Genchi. Auguri''.

In politica la tattica è (quasi) tutto, scrive “Libero Quotidiano”. Pertanto, la sterzata manettara di Matteo Renzi non stupisce. Da essa, il rottamatore deriva una triplice utilità nell’immediato: a) vellica i settori di elettorato più buttachiavi presenti sia a destra sia a sinistra; b) picchia sul nervo scoperto del rapporto tra piani alti del Pd e Giorgio Napolitano; c) costruisce un altro tassello della propria persona congressuale di strenuo avversario delle larghe intese (e del Pd che, Enrico Letta in testa, nelle larghe intese sguazza vieppiù apparecchiando le inconfessabili pastette col Caimano). Un politico, specialmente uno attento alla propaganda come Renzi, che non cogliesse al volo un’opportunità tanto evidente sarebbe un politico dalle discutibili abilità e scaltrezza. Detto questo, la giravolta forcaiola di Renzi una certa tristezza riesce comunque a metterla. Prima di tutto perché certifica che il sindaco di Firenze sarà innovatore finché si vuole ma non lo è al punto di sapersi sottrarre alla dittatura dei sondaggi che tanto piagò la seconda repubblica: i contrari a indulto e amnistia sono al 60%? Ebbene, sia dia loro contrarietà a indulto e amnistia, e per pensare al resto il tempo si troverà.

Il motivo vero per cui la folgorazione mozzorecchi del rottamatore arreca il magone, però, è un altro. E cioè il tradimento plateale di uno degli elementi del renzismo primigenio che meglio avevano fatto sperare: la possibilità di dare vita ad una nuova sinistra in grado di fare politica senza sventolare manette e brogliacci di tribunale. Prometteva benissimo, Renzi, al punto da fare intravedere la rivoluzione copernicana persino nei confronti del nemico numero uno (quante volte l’avrà ripetuta la famosa frase su Berlusconi «che va battuto alle elezioni e non nei tribunali»?). E invece niente da fare, tutto buttato alle ortiche in nome della convenienza del momento. Purtroppo per il sindaco, le tracce della piroetta sono ben visibili. Una, bellissima, l’ha trovata ieri Blogo.it: è una schermata dell’account ufficiale di Renzi su Twitter risalente al 18 dicembre 2012. C’è scritto solo «#iostoconMarco». Il Marco in questione era Panella, il quale era impegnato in uno dei periodici scioperi della fame per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’inferno delle carceri e chiedere adeguati provvedimenti di clemenza. E Renzi stava con lui.

Un radicale fiorentino tira fuori la lettera di Renzi che nel 2005 scriveva: “Aderisco alla battaglia di Pannella per l’amnistia, impegno morale, civile sociale della comunità italiana”. Anche nel 2012 appoggiava le battaglie di Marcolone - Ma non era diseducativa? - Idem per Grillo, che nel 2005 firmava appelli…

1. QUANDO MATTEO RENZI VOLEVA L'AMNISTIA, tratto da  giornalettismo.it. Matteo Renzi dice di non essere contrario all'amnistia per ragioni elettorali, e non si fa fatica a credergli. Perché soltanto uno che se ne frega totalmente del ridicolo in cui potrebbe finire direbbe oggi di essere contrario all'amnistia quando appena qualche tempo fa - mentre era presidente della Provincia di Firenze - era invece favorevole, come ricordano i radicali fiorentini. Questo il testo della lettera inviata da Massimo Lenzi nel 2005: Caro Presidente, l'auspicio a Lei caro "il futuro non può attendere" spesso impone una pronta attenzione al presente. Ed oggi l'auspicio di un futuro migliore si incarna nella decisione di Marco Pannella di attuare una forma estrema di lotta nonviolenta, lo sciopero totale della fame e della sete, per chiedere alle nostre istituzioni un'amnistia generalizzata per la popolazione carceraria. Giunto ormai al nono giorno della sua drammatica iniziativa, Pannella ha ribadito pubblicamente il senso di questa sua ennesima forma di lotta nonviolenta: «A queste istituzioni che si genuflettono dinanzi al Pontefice mi rivolgo chiedendo loro un atto di coerenza, di riconoscenza nei confronti del Papa. Un risarcimento, perché no?, con un fatto concreto. Mi chiedo: quale dev'essere l'atto di compassione nei confronti di quest'uomo? Tutte le nostre istituzioni - ha spiegato Pannella - hanno avuto parole di riconoscenza nei confronti del Papa. Sarebbe davvero un atto di riconoscenza varare l'amnistia. E' tradizione un atto di clemenza per festeggiare i nuovi re e i nuovi papi. Un'amnistia in ottemperanza a quello che lui chiese. Sarebbe anche un momento di dolcezza...». Come Lei sa, un deciso e straordinario provvedimento di amnistia e indulto, oltre a raccogliere la richiesta di clemenza reiterata dal Pontefice, consentirebbe di ripristinare l'esercizio effettivo della amministrazione giurisdizionale e giudiziaria, ponendo un argine contro la degenerazione in atto nella giustizia italiana, che, con sempre maggior evidenza, si traduce in ingiusta discriminazione di classe. Per questa ragione, caro Presidente, Le chiedo di schierarsi a favore dell'iniziativa di Marco Pannella, manifestando un significativo segnale di attenzione da parte dell'istituzione che Lei rappresenta. Caro Lenzi, la richiesta di Marco Pannella di ricordare Giovanni Paolo II, non coi manifesti celebrativi ma con un gesto concreto, nobile e giusto, mi sembra doverosa e bella. Conosci le mie opinioni e sai che sono spesso distanti da alcune delle battaglie storiche che Marco Pannella ha condotto e conduce. Ma sono pronto, nel mio piccolo, a fare la mia parte perchè la sete di giustizia che anima il leader radicale trovi una fonte soddisfacente. Aderisco, allora, alla battaglia di Pannella per l'amnistia, impegno morale, civile sociale della comunità italiana. Un caro saluto, Matteo Renzi. Ah, il tempo che passa. A questo punto, voi direte: «Ma Renzi ha detto che non bisogna fare un'altra amnistia dopo quella del 2006, mica che è pregiudizialmente contrario». Ebbene, non è passato molto tempo, invece, dal dicembre 2012, quando Renzi, insieme ad Enrico Rossi, scriveva a Marco Pannella: Le tue richieste sono giuste e legittime, nella loro immediatezza oltre che nel loro contenuto." Da dieci giorni seguiamo con seria preoccupazione i bollettini medici sul tuo stato di salute e proprio per questo vogliamo farci carico della lotta per l'amnistia, per la giustizia e per la libertà, per il ripristino della legalità e del rispetto della dignità all'interno delle nostre carceri, per interrompere una violenza che riguarda tutti i cittadini, non solo i detenuti; per ristabilire i principi della Costituzione, depredati nella loro completezza laddove prevedono che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e ne sancisce la funzione rieducativa; convinti che laddove siano stati violati o ignorati dei diritti, laddove venga meno la legalità, lo stato di diritto, esista anche, e tu lo sai bene, strage di popoli. Con grande apprensione e la piena solidarietà, da oggi introdurremo nelle nostre priorità istituzionali le necessarie misure affinché si possa limitare e riparare al collasso della giustizia e della sua appendice ultima delle "catacombe" carcerarie, luoghi di sofferenze atroci, di tortura e di morte quotidiana. Armati di nonviolenza, con i nostri corpi, con il ruolo che ricopriamo, intraprenderemo, a staffetta, uno sciopero della fame, sperando, con forza e caparbietà, che il Parlamento italiano conceda un provvedimento di amnistia e si attivi con atti urgenti per porre rimedio all'emergenza carceraria, al vergognoso sovraffollamento delle nostre strutture penitenziarie, non come soluzione ma come punto di partenza per una riforma strutturale della giustizia, con misure alternative alla carcerazione, in primis per i tossicodipendenti. Il testo è tratto da una lettera aperta a Marco Pannella scritta dal consigliere regionale della Toscana Enzo Brogi. Tra le prime adesioni quelle del presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, del sindaco di Firenze Matteo Renzi, del consigliere regionale Marco Taradash, di Sergio Staino, Alessandro Benvenuti e dei cantanti Dolcenera e Erriquez (Bandabardò). E insomma: all'epoca Renzi prometteva anche uno sciopero della fame. O tempora, o mores.

2. QUANDO BEPPE GRILLO PARLAVA DI AMNISTIA (OSPITANDO PANNELLA SUL SUO BLOG) - E FIRMAVA L'APPELLO DEL 2005 PER L'AMNISTIA, tratto da giornalettismo.it. Oggi Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle protestano con veemenza contro l'amnistia o l'indulto chiesti esplicitamente dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per risolvere la «questione scottante» dell'emergenza carceri. Alcuni esponenti del partito del comico genovese hanno prontamente bollato la proposta del capo dello Stato come un provvedimento salva-Berlusconi. Qualcuno, come il deputato Manlio Di Stefano, ha chiesto addirittura le dimissioni di Napolitano. Il vicepresidente della camera Luigi Di Maio, invece, ha sostenuto che il presidente della Repubblica «se ne frega» delle opposizioni. Eppure qualche tempo fa era proprio Grillo a difendere la battaglia di Marco Pannella contro le morti in carcere e il sovraffollamento dei penitenziari, a favore dell'amnistia. Scriveva il leader 5 Stelle sul suo blog il 24 giugno 2011: Marco Pannella si sta battendo per una causa giusta, contro le morti in carcere, ogni anno più di 150, molte di queste oscure e riportate purtroppo con regolare cadenza su questo blog. Non ci vogliono più carceri, ma meno detenuti. Va abolita la legge Fini-Giovanardi che criminalizza l'uso delle marijuana. I reati amministrativi vanno sanzionati con gli arresti domiciliari e un lavoro di carattere sociale. Inoltre, quando questo sia possibile, gli stranieri, extracomunitari o meno, devono poter scontare la pena, qualunque essa sia, nel loro Paese di origine, vicino alla famiglia. Il carcere in Italia non serve a riabilitare nessuno, ma a uccidere. E', di fatto, una scuola di criminalità. Basta nuove carceri e che le istituzioni (ma quali? questo è il problema) ascoltino Marco Pannella. Grillo, nello stesso post, pubblicava poi una lettera dello staff di Pannella in cui si faceva chiaro riferimento all'amnistia. Si leggeva tra le righe: Marco Pannella è dovuto arrivare, dopo due mesi di sciopero della fame, al digiuno totale della fame e della sete, per richiamare l'attenzione delle istituzioni su due questioni: la necessità e l'urgenza di una amnistia quale primo passo per affrontare la crisi della giustizia (tempi lunghi e prescrizioni la rendono di fatto inesistente) e l'emergenza del sovraffollamento delle carceri (solo negli ultimi 10 anni ci sono stati più di 650 suicidi in carceri che oggi contengono oltre 68 mila detenuti a fronte di 44 mila posti regolamentari!); il silenzio dell'informazione e l'assenza di ogni confronto democratico su questa come su ogni altra questione che interroghi la coscienza dei cittadini e richieda importanti decisioni politiche e gravi scelte legislative. Come si cambia, è il caso di dire. Edit: come ci fa notare Francesco nei commenti, Beppe Grillo firmò nel 2005 un appello per l'amnistia proposto dai radicali. Il suo nome figura tra gli artisti.

Segreteria Pd, i giovani di Renzi sono un'Armata Brancaleone. Gaffe, bocciature, vizi da vecchia Casta: le prime settimane della nuova segreteria democratica sono tutte da ridere...scrive di Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano”.  Sarà che con Matteo Renzi l’Italia cambia verso, ma qua si odono sempre gli stessi ragli. La nidiata di renzini giovani e carini in pochi giorni ha già dato prova del proprio valore, dimostrando di non avere nulla da invidiare ai ferrivecchi in stile Massimo D’Alema. Il Divino Matteo promette battaglia sui costi della politica e mena fendenti alla Casta? Ecco che Debora Serracchiani - presidente della Regione Friuli - Venezia Giulia, uno dei volti più noti del suo esercito - inaugura la nuova era di sobrietà salendo su un volo di Stato da Trieste a Roma. Per fare cosa? Per andare a Ballarò. Doveva accomodarsi nel salotto di Giovanni Floris e ha pensato bene di scroccare un passaggio a Enrico Letta sul suo aereo. Probabilmente, la simpatica Debora ha preso molto sul serio l’esempio di Laura Boldrini, che si è fatta accompagnare dal fidanzato ai funerali di Mandela in Sudafrica, ovviamente a bordo di un velivolo gentilmente sovvenzionato dai contribuenti. Mica si è scusata, la Serracchiani. Anzi, ha detto che le sembrava tutto normale. Brava, così si fa: nel pieno solco della grande tradizione politica italiana. A quanto pare, l’Italia cambia verso: sì, quando prende il volo di ritorno. Poi c’è Marianna Madia, a cui va il premio «Fulmine di guerra» 2013. La riccioluta signorina (ex veltroniana, ex bersaniana, ex lettiana) è da poco entrata nei magnifici dodici della segreteria del Pd. Non avendo lavorato un giorno un vita sua, giustamente le hanno affidato l’incarico di responsabile del lavoro. L’altro giorno, come rivelato dal Tempo, doveva recarsi in via Veneto per incontrare il ministro Enrico Giovannini, che appunto di lavoro si occupa. Che ha fatto la Madia? Si è presentata al cospetto di Flavio Zanonato, al ministero dello Sviluppo economico. Si è seduta e si è messa a ripetere il compitino che si era attentamente studiata. Zanonato l’ha ascoltata per parecchi minuti, poi le ha fatto timidamente notare che si era sbagliata: la sede del ministero del Lavoro, le ha detto, sta dall’altra parte della strada. Ecco la soluzione: bastava cambiare verso, guarda un po’. Già ci vuole un bel coraggio a guardare in faccia Flavio Zanonato e a pensare che sia un ministro. Ma parlargli per venti minuti pensando che sia un’altra persona è un colpo di genio. La Madia avrebbe potuto cavarsela con una scusa: «Lo so che sei Zanonato, volevo solo provare il mio discorso, adesso vado a riferirlo al ministro vero». E invece  pare che se ne sia uscita balbettando: «Ma ministro, tu non ti occupi di lavoro?». No, e  a quanto vediamo dai risultati, non se ne occupa neppure la Madia. Ma non dimentichiamo Filippo Taddei, scelto da Renzi come responsabile economico del Pd. Lauree e master come se piovesse, poi l’hanno bocciato al concorso per diventare professore associato di Politica economica. La commissione ministeriale ha stabilito che le sue pubblicazioni non erano sufficienti. Fortuna che dovrebbe essere una delle menti che ridaranno impulso all’economia italiana.  A questo punto, tanto valeva tenersi Romano Prodi. O Piero Fassino, visto che Renzi sta già pensando a come salvare il potere del Pd dentro Mps. L’Italia cambierà anche verso, ma nel Pd vanno sempre nella stessa direzione. Ci permettiamo solo un consiglio a Matteo e soci. Magari, invece di convocare le riunioni alle sette di mattina, converrebbe svegliarsi un paio d’ore più tardi onde evitare il rincoglionimento nel corso della giornata. Con un po’ di sonno in più, forse la Madia avrebbe riconosciuto Zanonato. Per la Serracchiani, invece, non ci sono problemi: se è stanca, si appisola in aereo.

I VOLTAGABBANA E GLI APPESTATI. BERLUSCONI E CRAXI.

Berlusconi: “Ho letto trenta pagine del libro su Craxi, lo finirò in galera”. Il Cavaliere ricorda l’ex leader socialista: «Buono, giusto, generoso. Non si arricchì». Poi attacca i pm: «Tolgono la libertà, in Italia niente democrazia». Silvio Berlusconi scherza nel corso del suo intervento alla presentazione del libro “Bettino Craxi dunque colpevole”, di Nicolò Amato. Ti consigliamo: «Ho letto le prime 30 pagine di questo libro, leggerò le altre quando sarò in galera...». Lo ha detto il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, in occasione della presentazione del libro di Nicolò Amato su Bettino Craxi. È una battuta, quella del Cavaliere, ma amarissima. «Solo l’ironia ci può aiutare, perché la situazione è drammatica» dice.  Poi, tornano le bordate ai magistrati. «L’Italia non è una democrazia. C’è un ordine dello stato a cui è stato conferito il terribile potere di togliere la libertà o il patrimonio ai cittadini e che da ordine dello stato si è via via trasformato in potere dello stato. Anzi, in contropotere capace di sovrastare gli altri veri poteri dello stato, il legislativo e l’esecutivo». Quella di Craxi, ragiona Berlusconi, « non è stata una latitanza ma un esilio doloroso. Non è stato un esilio dorato. Anch’io ho provato quella indignazione e quel dolore quando, il 1 agosto mi hanno condannato con sentenza ingiusta». Parlando ancora del leader socialista Berlusconi lo descrive come «buono, giusto e molto generoso» sottolineando che «non si è arricchito lasciando la sua famiglia non in una situazione agiata ma neanche nel benessere...». «Bettino - ricorda ancora Berlusconi - era il contrario di quanto veniva scritto nella stampa: non mi ha mai chiesto nessun finanziamento, anzi quando glielo offrii - stavamo passeggiando nel parco di Arcore - mi disse che se gli avessi fatto ancora un’offerta del genere non sarebbe più venuto a trovarmi», è stato distrutto dal «comunismo, una ideologia la più criminale della storia dell’uomo, aveva ragione a dirlo. Il suo non era una latitanza, ma un esilio non certo durato, ha subito un’infamia, tanto dolore e indignazione. Purtroppo da allora la storia non è cambiata».  Il Cavaliere garantisce che non pensa all’esilio: «Non farò mai una cosa del genere per evitare una carcerazione. Sarei colpevole nei confronti di chi mi ha dato il voto» dice. Ma non nasconde le preoccupazioni: c’è un «accordo Pd-Giudici per assassinarmi» .

1 - 1992: MIELI, FELTRI, BOSSI, RUTELLI, OCCHETTO, PAOLO ROSSI: DE PROFUNDIS CRAXI - BETTINO: "MI HANNO GIÀ SEPPELLITO. MENO MALE CHE HO FATTO I BUCHI NELLA BARA E CONTINUO A RESPIRARE", scrive Filippo Facci per "Libero".  Mancano cinque giorni al decennale eccetera. Paolo Mieli sul "Corriere della Sera" del 16 dicembre 1992, giorno successivo al primo avviso di garanzia a Craxi: «Ha perso la sua partita, indipendentemente da quella che sarà la sentenza dei giudici». Comunicato della Lega Nord, stesso giorno: «L'avviso a Craxi cessa di essere un fatto politico e diventa solo uno squallido episodio di cronaca nera». Achille Occhetto sulla Repubblica, stesso giorno: «Siamo alla fine del regime ». Francesco Rutelli su Repubblica del 2 dicembre 1993: «Voglio vedere Craxi consumare il rancio nelle patrie galere». Vittorio Feltri sull'Indipendente del 9 gennaio 1993: «Se è vero che anche un politico è innocente fino a prova contraria, è anche vero che questa vicenda non è un giallo e non si tratta di aspettare l'ultimo capitolo per capire chi è l'assassino». Strofa della canzone «Hammamet» cantata dal comico Paolo Rossi nel 1993: «Oh Hammamet, e la prigione mia più bella sei tu. Silvio consentimi... che prima o poi, vedrai, ci vieni anche tu». Umberto Bossi, 26 luglio 1993, mesi prima che Craxi lasciasse l'Italia: «Quando scoppiano le rivoluzioni, i re non sono mai destinati alla galera. Salgono sulla ghigliottina o muoiono in esilio. Craxi ha già scelto l'esilio». Bettino Craxi, 29 dicembre 1992: «Mi hanno già seppellito. Meno male che ho fatto i buchi nella bara e continuo a respirare. I nervi sono saldi, è del cuore che non mi fido».

2 - QUEI RAMPANTI AL POTERE - SOLO ORA SI COMINCIA A INTRAVEDERE COME I VIZI DELL´ERA DI CRAXI FOSSERO L´ALTRA FACCIA DELLE SUE VIRTÙ, scrive Filippo Ceccarelli per "la Repubblica". Per farsi un´idea del craxismo cogliendolo ai suoi albori, primavera 1981, congresso di Palermo, gigantesco garofano collocato da Panseca in cima al monte Pellegrino, primitivi giubbotti, embrioni di belle donne e di piduisti in platea, proto religione garibaldina e anticipo di culto della personalità del leader, semi-plebiscitato con opportune forzature carismatiche... Insomma: per capire quello che a quei tempi ancora non si chiamava craxismo occorre forse ricordare il pallore e la misoginia dei dorotei; così come si deve ripescare, sempre dai cassetti della memoria, l´espressione arcigna con cui nella nomenklatura comunista era accolto qualsiasi accenno al nuovo segretario socialista e ai suoi "rampanti" seguaci. Ecco. Senza le curiali mollezze democristiane e la grigia severità in vigore a Botteghe Oscure l´avventura dei craxiani sarebbe stata certamente più noiosa. Mentre invece - sia detto qui senza alcuna malignità - se la spassarono così alla grande che nessuno di loro oggi ammetterà mai di aver sbagliato. Quattrini, certo, ché in politica sono indispensabili. Ma anche balli, canti, letti, avventurieri, nobildonne, ambasciatori, zoccole, viaggi esotici, pranzi con l´Avvocato, vita d´albergo, gli asciugamani per terra, le briciole sul divano. E poi le terrazze, le griffe, il salotto di Adelina Tattilo, la Gbr di Ania Pieroni, il libro sulle discoteche del ministro De Michelis, la villa sull´Appia antica ribattezzato da Martelli "I giardini di Politeia", i casali nelle terre di Ghino di Tacco. A un certo punto si comprarono pure un cinema, il Belsito, per farne il loro tempio: è ancora lì, abbandonato. Fu una scommessa durata appena dieci anni e solo ora si comincia a intravedere come i vizi del craxismo fossero l´altra faccia delle sue virtù. Non c´entrano né il whisky, né il poker, né i primissimi lifting. È che questi irriconoscibili socialisti fecero scandalo, ruppero piatti, seppellirono la falce e martello e tagliarono la barba al profeta, cioè a Marx, per qualche mese intestandosi un Proudhon che quasi nessuno di loro aveva letto. E nel frattempo tolsero un certo numero di Casse di Risparmio alla Dc. Nel 1977 alcuni di loro continuarono a civettare con l´estremismo e anche con l´autonomia; però l´anno seguente, di punto in bianco, si misero in testa di salvare Moro; quindi fecero di tutto per segnalarsi al di là dell´oceano, erano gli anni di Reagan, offrendosi come alternativa possibile a quei conigli dei loro alleati e concorrenti democristiani. A quel punto il craxismo, misurato secondo i parametri delle già declinanti culture politiche, fece l´effetto della televisione a colori rispetto al vecchio bianco e nero. Come sia andata a finire dopo l´epopea di Palazzo Chigi lo sanno tutti: malissimo, con il vecchio e glorioso Psi cancellato dal paesaggio. Forse non fu solo Mani Pulite. Sta di fatto che il centenario venne drammaticamente ricordato fra prestanomi, fughe, voltafaccia, monetine, fratricidi, carcere, esilio - o latitanza che sia. E però. Alla sconfitta politica, che ai vecchi padri sarebbe sembrata rovinosa ed esemplare, corrisponde una vittoria che con le dovute cautele e senza nemmeno troppa ironia si potrebbe designare come "morale". E che magari se ne sta nascosta dietro l´ambigua retorica della "modernizzazione": nel senso che il craxismo, la sua gloria lampo e ritardata, hanno anticipato il presente. Concezione del comando e della politica, fiducia cieca nella comunicazione, ansia di vitalismo e conseguente stile di vita. Incertezza, infine, del futuro. Primum vivere, diceva del resto Craxi, ed era implicito che si viveva una volta sola. (Anche per questo è vano rimpiangere sia il latte bevuto che quello versato).

Io che azzannai il Cinghialone e non vidi gli orrori dei giudici. Vittorio Feltri ricorda la caduta dell'uomo politico socialista. Confessa la propria disillusione e smaschera le inchieste a senso unico. Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo uno stralcio della prefazione di Vittorio Feltri al libro di Nicolò Amato Bettino Craxi, dunque colpevole (Rubbettino, pagg. 346, euro 16) che rievoca la vicenda giudiziaria del leader socialista, ma - come scrive l'autore (magistrato, ex direttore del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria) - «senza riaprire le vecchie polemiche, bensì proponendo una riflessione serena: ora che i Tribunali degli uomini hanno esaurito il loro compito, sia il Tribunale della Storia a esprimere un giudizio obiettivo». Dico subito grazie a Nicolò Amato. È uno che ha rischiato la pelle da magistrato, con le sue indagini sul terrorismo, poi come campo del Dap (Direzione amministrazione penitenziaria); quindi ha rischiato la pelle e le palle quando da avvocato ha assunto la difesa del nemico Numero 1 (lui: Bettino), senza mai smettere di palesarsi anzitutto suo amico. E perciò pagando il prezzo dell'isolamento e dell'esclusione da quei mondi cui apparteneva: la magistratura e la sinistra. Memorabile e istruttivo l'episodio di fine 1993 rievocato nel libro, allorché Francesco Rutelli, candidato vincente a sindaco di Roma, gli pose l'aut aut: se difendi ancora Craxi, non farai l'assessore a Roma. C'est la vie. Soprattutto: c'est l'Italie. Poteva dire, italianissimamente: tengo famiglia. Scelse l'amico. Per fortuna c'è chi interpreta vita e Italia come Amato (Nicolò, non Giuliano, che apprendo essere stato oggetto di un'opera d'arte di Craxi dal titolo Becchino. E non penso fosse satira). Uno dice: ma Feltri come può c'entrare con un libro che sin dal titolo mostra la convinzione dell'autore? E cioè: Craxi era un colpevole predestinato, odiato e dunque condannato in partenza non per dei fatti criminali o perché si fosse accertato un reato, ma perché sì, perché era lui, era Bettino, aveva messo in crisi l'apparato di potere della sinistra e della magistratura, per di più pretendeva che la vera sinistra fosse il suo socialismo autonomista e non quella orfana dell'Urss, un attrezzo occidentale di tipo socialdemocratico. Era Bettino e dunque colpevole, non solo perché aveva idee diverse e pericolose per le caste rosse, ma perché era semplicemente Bettino, una cosa unica come unici sono tutti gli uomini, ma lui di più. Era fatto di una pasta da capro espiatorio ideale, gigantesco, un ariete perfetto da veder ruzzolare a terra dopo la sua inutile carica, e sgozzarlo felici. Esagero con le immagini truculente, ed è un modo anche questo per espiare il fio, introducendomi a meditare in che razza di compagnia mi fossi infilato dandogli addosso, diventando uno della banda di babbuini digrignanti e ridenti intorno al Bestione. È arcinoto. Ho partecipato alla battuta di caccia al Cinghialone. Nel 1992 stavo a fianco di Antonio Di Pietro e di altre toghe. A Bettino Craxi ho dedicato i titoli più carogna della mia vita professionale al tempo dell'Indipendente. Del resto Bettino non fece nulla per sottrarsi ai colpi. Incurante di essere considerato il simbolo della politica ladra e corrotta, circondato da ometti che non facevano nemmeno lo sforzo di togliersi la giacca da gangster, non smetteva di ergersi senza ripararsi. Non schivava i colpi, e io pensavo fosse alterigia: quindi via con le ironie, le indignazioni e i sarcasmi. Ho sbagliato. Non scriverei più festosamente davanti alla «rivolta popolare» che accolse Bettino la sera del 30 aprile del 1993 fuori dall'hotel Raphaël a un passo da piazza Navona.
Mi sento definito da quanto scrive Nicolò Amato a proposito dei magistrati di Milano: «Hanno fatto errori, ma in buona fede». I giudici non so, di certo alcuni non sono stati in buona fede quando hanno salvato i compagni del Pci e della sinistra Dc. Io sì, ero convinto di quanto scrivevo e dicevo, ero in buona fede, ma peggio mi sento. Non sono stato cinico, ma cieco. Perché avrei dovuto alzare lo sguardo. Mettere a frutto l'esperienza acquisita quando seguendo il processo contro Enzo Tortora mi accorsi della parzialità dei Pm e delle loro trombe giornalistiche e denunciai l'infamia. Nel caso di Craxi non vidi. Non avrei dovuto fidarmi di chi, con la scusa di ripulire il mondo dai mascalzoni, prenotava la propria statua del condottiero a cavallo. Se avessi fatto lavorare come si deve i miei cronisti, o anche solo applicato l'intuito, avrei accertato che il «popolo» delle monetine a Craxi era in gran parte costituito da militanti i quali stavano un attimo prima al comizio di Occhetto a piazza Navona. Avrei dovuto sospettare e denunciare subito come sarebbe finita. Un repulisti che salvava i peggiori, che oltre alle tangenti si erano divorati i rubli. Quando finivano in carcere i tesorieri sconosciuti e le mani lunghe del Pci, ma i capi mai, ci limitavamo a credere che fosse per la razza dei compagni, usi obbedir tacendo e tacendo morir, eroici come Salvo D'Acquisto. A tal punto funziona la sudditanza psicologica in questa provincia dell'Impero. Balle. Craxi non poteva non sapere, mentre per i compagni vigeva un'altra legge, fu applicata loro l'immunità della Santa Ignoranza, i leader rossi sono immacolati avendo lo sguardo perso verso il sol dell'avvenir. Altro che uguaglianza e imparzialità della giustizia. Gli Occhetto, i D'Alema furono solo sfiorati a Milano da una Pm, Tiziana Parenti, subito trattata da colleghi e stampa come una scema. Risultato: Craxi, Forlani, Gava, Darida, Pomicino, De Lorenzo, De Michelis, persino Sterpa, La Malfa e Bossi conobbero l'onta o del carcere o dei processi. I compagni di grosso calibro, mai, solo i manutengoli. Mi fidai delle promesse di Di Pietro, il quale assicurò che avrebbe provveduto anche a sinistra. Non feci bene tutto il mio mestiere. Ne interpretai solo una parte: il fiuto. Percepivo nell'aria il crollo del sistema, la voglia della gente comune di allestire tante belle pire in tante piazze per eliminare tra fiamme purificatrici una classe politica che allegramente aveva caricato l'Italia di un enorme debito pubblico, e invece di rimediare rubava non solo per i partiti ma anche ai partiti medesimi. Colpa grave di un politico è non capire cosa agita il sentimento dei cittadini. Questo non significa che per forza si debba massaggiare la pancia della marmaglia, ma prendere le contromisure sì. Invece anche Craxi non capì. Si arroccò. Questo ti rimprovero tuttora Bettino, se mi ascolti, ma non credo (a differenza tua, che sul finire della vita, tra le palme da dattero scrivesti preghiere anche in arabo a Dio, io resto per ora ateo). Un grande politico come te, come fece a non capire? Stavi troppo lontano dalla gente, frequentavi solo la tua corte. Hai fatto grandi cose, mettendo alla frusta i democristiani delle Magna Grecia, impedendo il compromesso storico, abbattendo la scala mobile che ci avrebbe condotto a un fallimento argentino già negli anni Ottanta, ti sei agitato come un leone ferito quanto i comunisti ti hanno ucciso l'amico Walter Tobagi e gli assassini comunisti dopo un battere di ciglia sono stati mandati in libertà. Ma non hai capito niente delle forche che si stavano preparando per te. E ti chi hanno appeso. Un po' per colpa di una magistratura strabica e pervenuta, ma anche per l'indignazione popolare mossa dai latrocini e dall'illegalità diffusa. Quando si sentiva odore di politica somigliava a quello della fogna, e il fiore che vi galleggiava pasciuto era il garofano. Come hai potuto lasciar fare? Il tuo discorso potente del luglio del 1992, quanto chiamasti a correi tutti i deputati presenti a Montecitorio per il finanziamento illecito alla politica, e insaponasti così la corda della tua impiccagione, nasconde un'imperdonabile colpa di omissione. Bettino, sei stato presidente del Consiglio. Non avevi da far altro che proporre norme per dare trasparenza ai finanziamenti, legalizzandoli. Invece ti sei limitato ad acconsentire a un'amnistia sul tema, in data 1989, con risultato di rendere candido come la neve il torrente insanguinato dei rubli del gulag, finito nei forzieri comunisti. Complimenti. Sono sarcastico anche se sei defunto. Ma te lo devo, per l'affetto che col tempo ho maturato per te, Bettino. Come scrive Nicolò Amato citando Voltaire: «Ai vivi si devono riguardi; ai morti di deve soltanto la verità». Non ho rispettato ai tempi la prima parte di questa massima liberale. È anche questa una verità che devo al morto. Come si sarà notato, mi sono battuto il petto, senza esagerare, sono vecchio, per il mea culpa. Questo non mi risparmierà l'esibizione dei campioni dello sport più facile e stupido dopo il curling: quello di mettere in paragone i giudizi di ieri con quelli di oggi, deducendo l'incoerenza dell'autore. La quale incoerenza viene attribuita alla vendita se non della propria anima, almeno del deretano. Amen. Non citerò la solita frase secondo cui solo i cretini non cambiano idea. Io non ho cambiato idea. Ho semplicemente aperto gli occhi. Detesto come e più di prima i ladri di ogni provenienza, destra o sinistra o centro. Non che mi ritenga superiore, semplicemente più che la forza dei precetti morali in funzione la paura dei carabinieri. Un attimo dopo però, quanto Bettino rimase ferito, costretto alla latitanza, che per uomini come lui giustamente si chiama esilio, e fu consegnato al dileggio da gente che aveva tasche e coscienze grondanti di moneta sovietica, rinunziai a bastonare lo sconfitto. Nel 1999, gli ultimi mesi della sua vita, cercai di muovere la politica italiana perché gli concedesse la grazia, o almeno la possibilità di curarsi in Italia. Chiesi a Giulio Andreotti di scrivere sul tema per il Quotidiano Nazionale che allora dirigevo. Lo fece di buon grado. Chiese la grazia e usò parole nobili per l'antico avversario, che di lui aveva sentenziato: le volpi finiscono in pellicceria. Non arrivò nulla di nulla dal Quirinale, solo ipocrisia.

Vittorio Feltri ricorda la caduta di Bettino Craxi. Confessa la propria disillusione e smaschera le inchieste a senso unico. (…) Uno dice: ma Feltri come può c’entrare con un libro che sin dal titolo mostra la convinzione dell’autore? E cioè: Craxi era un colpevole predestinato, odiato e dunque condannato in parten­za non per dei fatti criminali o perché si fosse accertato un rea­to, ma perché sì, perché era lui, era Bettino, aveva messo in crisi l’apparato di potere della sini­stra e della magistratura, per di più pretendeva che la vera sini­stra­ fosse il suo socialismo auto­nomista e non quella orfana del­l’Urss, un attrezzo occidentale di tipo socialdemocratico. Era Bettino e dunque colpevole, non solo perché aveva idee di­verse e pericolose per le caste rosse, ma perché era semplice­mente Bettino, una cosa unica come unici sono tutti gli uomi­ni, ma lui di più. Era fatto di una pasta da capro espiatorio idea­le, gigantesco, un ariete perfetto da veder ruzzolare a terra dopo la sua inutile carica, e sgozzarlo felici. Esagero con le immagini tru­culente, ed è un modo anche questo per espiare il fio, introdu­cendomi a meditare in che raz­za di compagnia mi fossi infilato dandogli addosso, diventando uno della banda di babbuini di­grignanti e ridenti intorno al Be­stione. È arcinoto. Ho partecipa­to alla battuta di caccia al Cinghialone. Nel 1992 stavo a fian­co di Antonio Di Pietro e di altre toghe. A Bettino Craxi ho dedica­to i titoli più carogna della mia vi­ta professionale al tempo del­l’Indipendente .Del resto Bettino non fece nul­la per sottrarsi ai colpi. Incuran­te di essere considerato il sim­bolo della politica ladra e cor­rotta, circondato da ometti che non facevano nemmeno lo sforzo di togliersi la giacca da gangster, non smetteva di ergersi senza ripararsi. Non schivava i colpi, e io pensavo fosse alterigia: quindi via con le ironie, le indignazioni e i sar­casmi. Ho sbagliato. Non scrive­rei più festosamente davanti al­la «rivolta popolare» che accol­se Bettino la sera del 30 aprile del 1993 fuori dall’hotel Raphaël a un passo da piazza Na­vona. Mi sento definito da quanto scrive Nicolò Amato a proposito dei magistrati di Milano: «Han­no fatto errori, ma in buona fe­de ». I giudici non so, di certo al­cuni non sono stati in buona fe­de quando hanno salvato i com­pagni del Pci e della sinistra Dc. Io sì, ero convinto di quanto scri­vevo e dicevo, ero in buona fede, ma peggio mi sento. Non sono stato cinico, ma cieco. Perché avrei dovuto alzare lo sguardo. Mettere a frutto l’esperienza ac­quisita quando se­guendo il pro­cesso contro Enzo Tortora mi ac­corsi della parzialità dei Pm e delle loro trombe giornalistiche e denunciai l’infamia. Nel caso di Craxi non vidi. Non avrei do­vuto fidarmi di chi, con la scusa di ripulire il mondo dai mascal­zoni, prenotava la propria sta­tua del condottiero a cavallo. Se avessi fatto lavorare come si deve i miei cronisti, o anche so­lo applicato l’intuito, avrei ac­certato che il «popolo»delle mo­netine a Craxi era in gran parte costituito da militanti i quali sta­vano un attimo prima al comi­zio di Occhetto a piazza Navo­na. Avrei dovuto sospettare e de­nunciare subito come sarebbe finita. Un repulisti che salvava i peggiori, che oltre alle tangenti si erano divorati i rubli. Quando finivano in carcere i tesorieri sco­nosciuti e le mani lunghe del Pci, ma i capi mai, ci limitavamo a credere che fosse per la razza dei compagni, usi obbedir ta­cendo e tacendo morir, eroici co­me Salvo D’Acquisto. A tal pun­to funziona la sudditanza psico­logica in questa provincia del­l’Impero. Balle. Craxi non pote­va non sapere, mentre per i com­pagni vigeva un’altra legge, fu applicata loro l’immunità della Santa Ignoranza, i lea­der rossi sono im­macolati aven­do lo sguar­do perso verso il sol del­l’av­venir. Altro che uguaglianza e impar­zialità della giustizia. Gli Occhet­to, i D’Alema furono solo sfiora­ti a Milano da una Pm, Tiziana Parenti, subito trattata da colle­ghi e stampa come una scema. Risultato: Craxi, Forlani, Gava, Darida, Pomicino, De Lorenzo, De Michelis, persino Sterpa, La Malfa e Bossi conobbero l’onta o del carcere o dei processi. I compagni di grosso calibro, mai, solo i manutengoli. Mi fidai delle promesse di Di Pietro, il quale assi­curò c­he avreb­be provvedu­to anche a sinistra. N o n feci bene tutto il mio mestiere. Ne in­terpretai solo una parte: il fiuto. Percepivo nell’aria il crollo del sistema, la voglia della gente co­mune di allestire tante belle pire in tante piazze per eliminare tra fiamme purificatrici una classe politica che allegramente aveva caricato l’Italia di un enorme de­bito pubblico, e invece di rime­di­are rubava non solo per i parti­ti ma anche ai partiti medesimi. Colpa grave di un politico è non capire cosa agita il sentimento dei cittadini. Questo non signifi­ca che per f­orza si debba massag­giare la pancia della marmaglia, ma prendere le contromisure sì. Invece anche Craxi non capì. Si arroccò. Questo ti rimprovero tuttora Bettino, se mi ascolti, ma non credo (a differenza tua, che sul finire della vita, tra le palme da dattero scrivesti preghiere anche in arabo a Dio, io resto per ora ateo). Un grande politi­co come te, come fece a non capi­re? Stavi troppo lontano dalla gente, frequentavi solo la tua corte. Hai fatto grandi cose, met­tendo alla frusta i democristiani delle Magna Grecia, impeden­do il compromesso storico, ab­battendo la scala mobile che ci avrebbe condotto a un fallimen­to­ argentino già negli anni Ottan­ta, ti sei agitato come un leone fe­rito quanto i comunisti ti hanno ucciso l’amico Walter Tobagi e gli assassini comunisti dopo un battere di ciglia sono stati man­dati in libertà. Ma non hai capito niente delle forche che si stava­no preparando per te. E ti chi hanno appeso. Un po’ per colpa di una magistratura strabica e pervenuta,ma anche per l’indi­gn­azione popolare mossa dai la­trocini e dall’illegalità diffusa. Quando si sentiva odore di poli­ti­ca somigliava a quello della fo­gna, e il fiore che vi galleggiava pasciuto era il garofano. Come hai potuto lasciar fare? Il tuo discorso potente del lu­glio del 1992, quanto chiamasti a correi tutti i deputati presenti a Montecitorio per il finanzia­mento illecito alla politica, e in­saponasti così la corda della tua impiccagione,nasconde un’im­perdonabile colpa di omissio­ne. Bettino, sei stato presidente del Consiglio. Non avevi da far al­tro che proporre norme per dare trasparenza ai fi­nanziamenti, le­galizzandoli. In­vece ti sei limita­to ad acconsenti­re a un’amnistia sul tema, in data 1989, con risulta­to di rendere can­dido come la ne­ve il torrente in­sanguinato dei rubli del gulag, fi­nito nei forzieri comunisti. Com­plimenti. Sono sarcastico anche se sei defunto. Ma te lo devo, per l’affetto che col tempo ho maturato per te, Bettino. Come scrive Nicolò Amato citando Voltaire: «Ai vivi si devono riguardi; ai morti di de­ve soltanto la verità». Non ho ri­spettato ai tempi la prima parte di questa massima liberale. È an­che questa una verità che devo al morto (…).

IL NUOVO CHE AVANZA.

 “Io e Marco (Travaglio) siamo stati tenaci. C’è stato un periodo in cui eravamo soli contro tutti, guardati male anche all’interno dei nostri giornali perché eravamo quelli sommersi dalla querele dei potenti e di Berlusconi in particolare“. Lo rivela Peter Gomez in un ritratto a tutto tondo reso ad Andrea Scanzi nel suo programma “Reputescion”, in onda su La3, scrive Gisella Ruccia. “Eravamo visti come dei pazzi che scrivevano libri” – continua il direttore de ilfattoquotidiano.it – “e venivamo accusati da destra e da sinistra di essere dei giustizialisti. Poi le cose sono cambiate”. Gomez nega la definizione di “house organ di Beppe Grillo” affibbiata al “Il Fatto Quotidiano”: “A differenza di altri, noi non attacchiamo Grillo a prescindere. Tutte le notizie negative sul Movimento 5 Stelle o il 90% di queste sono state date in anteprima dal fattoquotidiano.it”. E cita qualche esempio: “Dal caso Tavolazzi ai referendum sulla democrazia interna al M5S fino alla decisione di Beppe di mettere sul suo blog in maniera piuttosto maleducata il mio indirizzo email privato, sperando in un mail-bombing che poi non ci fu”. A Scanzi che gli chiede se Il Fatto sopravviverà a un’uscita di Berlusconi dalla scena politica risponde: “È scientificamente dimostrato, ci siamo occupati talmente tanto degli altri, siamo abbastanza bravi ad occuparci di tutti per cui il pubblico è in grado di accorgersene. La nostra differenza” – continua – “è che non abbiamo né padrini né padroni, L’unico modo per vendere i giornali e far frequentare i siti internet è avere le notizie. E finchè avremo le notizie, noi vivremo”. Gomez poi esprime il suo personale giudizio sui alcuni colleghi: “Santoro è un fuoriclasse, come Maradona: il più bravo di tutti. Formigli ha tanto talento, le sue ultime trasmissioni, in particolare quest’anno, sono giornalisticamente perfette, però non è Maradona. Marco Travaglio è una rockstar del giornalismo. Calcisticamente è Messi. Io sono Oriali”. E su Alessandro Sallusti svela: “E’ come Darth Fenner, l’ho conosciuto sulla strada, era uno dei più bravi cronisti che ci fossero in circolazione. Poi ha conosciuto il Lato Oscuro della Forza e si è fatto riprendere. Con Vittorio Feltri” – continua – “ho buoni rapporti. Ma entrambi hanno fatto delle scelte che sono in antitesi con il giornalismo. Sono dei grandi professionisti, Feltri è bravo a vendere i giornali, ma il giornalismo non è vendere i giornali”.

Ma proprio dal Fatto “Quotidiano arriva uni scoop: Oggi fanno i moralisti, ma ecco cosa facevano Peter Gomez e Marco Travaglio solo pochi anni fa: un filmato in Rete dimostra in maniera inequivocabile la militanza dei due cronisti fra le file di Forza Italia. Il Fatto Quotidiano non esisteva ancora e Silvio Berlusconi, come ama ripetere Daniela Santanchè, non era il loro “core business” come oggi. Ma questo video, complice la band milanese Elio e le storie tese, getta una luce inquietante sul passato del direttore del sito e del vicedirettore del giornale. Che siano sempre stati tutti d’accordo? Altro che larghe intese, altro che inciucio, Travaglio, Gomez e Berlusconi sono stati protagonisti di una trattativa ancora più indecente di quella fra lo Stato e la mafia. La redazione del fattoquotidiano.it è entrata in stato di agitazione.

Ho cominciato la mia carriera di giornalista come cronista giudiziario all'Avanti! di Milano nei primi anni Settanta, scrive Massimo Fini. Ogni giorno vedevo passare nei grandi androni del Palazzo di Giustizia non solo qualcuno in manette ma file di detenuti tenuti insieme dagli "schiavettoni" e da catene sferraglianti come dei deportati alla Cajenna. Ogni tanto quando c'era un delitto particolarmente importante, in genere rapine perché allora la classe dirigente non si era ancora così corrotta come sarebbe stato negli anni Ottanta e dimostrato nei Novanta con le inchieste di Mani Pulite, arrivavano, oltre ai fotografi, anche le Televisioni. Da neofita me ne stupivo. Non tanto delle manette, che soprattutto nei trasferimenti di più detenuti sono necessarie, ma dell'esposizione pubblica di queste persone, senza alcun rispetto, senza ritegno, senza protezione (anche quando non ci sono le tv non deve essere piacevole farsi vedere in manette dalle centinaia di persone che transitano ad ogni ora in un grande Palazzo di Giustizia qual è quello di Milano) ma allora nessuno sembrava curarsene, tantomeno i politici e gli opinionisti. In fondo la cosa non riguardava che degli stracci. Il 4 marzo del 1993, in piena Mani Pulite, ci fu l'episodio di Enzo Carra, l'ex portavoce di Forlani, fotografato in manette. I più feroci furono Bibì e Bibò, alias Vittorio Feltri e Maurizio Belpietro, direttore e vicedirettore dell'Indipendente, che spararono la foto in testa alla prima pagina, ingrandendola il più possibile e indicando Carra al ludibrio della folla inferocita di quei giorni. Il più pietoso fu il "giustizialista" Antonio Di Pietro, ai tempi pubblico ministero, che ordinò agli agenti penitenziari di togliere immediatamente le manette a Carra. Del resto allora Bibì e Bibò erano dei forcaioli assatanati, sarebbero diventati dei "garantisti" a 24 carati quando passarono nella scuderia di Silvio Berlusconi. Se la prendevano anche coi figli degli imputati. Per esempio quelli di Craxi. Toccò a me scrivere sull'Indipendente una lettera aperta a Vittorio ("Caro direttore, ti sbagli su Stefania Craxi", 11/5/1993) ricordandogli che i figli non hanno i meriti ma neanche le colpe dei padri. Così come toccò a me, nel momento della caduta, mentre una legione di improvvisati fiocinatori si accaniva sulla balena ferita a morte, scrivere, sempre sull'Indipendente, un articolo intitolato "Vi racconto il lato buono di Bettino" (17/12/92), in cui, benché tempo prima Craxi mi avesse definito, nientemeno che dagli Stati Uniti dov'era in visita, "un giornalista ignobile che scrive cose ignobili", ricordavo che oltre all'uomo sfigurato, sconciato che vedevamo, con orrore, in quei giorni drammatici, ce n'era stato anche un altro che aveva suscitato speranze in molti. Passata la stagione euforica di Mani Pulite, l'immagine di Enzo Carra in manette è passata alla storia come l'emblema della "gogna mediatica" che non avrebbe dovuto ripetersi mai più (come dopo il "caso Valpreda" si giurò che mai più nessuno sarebbe stato chiamato "mostro"). Il Garante della privacy emanò alcune regole di comportamento per i media e parve affermarsi una maggior sensibilità per il rispetto della dignità dei detenuti. Ma solo per alcuni. Lo dice il recente episodio che ha visto protagonista Fabio De Santis, l'ex provveditore alle Opere pubbliche toscane, uomo di fiducia di Angelo Balducci, insomma uno della "cricca". Con un cellulare De Santis è stato portato in manette, come gli altri quattro detenuti che erano con lui (due spacciatori di droga, un ladro, un rapinatore) dal carcere fiorentino di Sollicciano al Tribunale del Riesame. Quando è sceso dal cellulare De Santis ha dovuto percorrere una ventina di metri sotto l'occhio delle telecamere. Solo due telegiornali però hanno mandato in onda quella scena. La giustificazione più farsesca e farisaica è stata quella di Mauro Orfeo, direttore del Tg2: "Volevamo denunciare una gogna che ricorda certe immagini di Mani Pulite". Denunciava la gogna mentre lo stava mettendo alla gogna. Il Garante della privacy è intervenuto, molti politici e opinionisti si sono indignati. Molto giusto. Ma nessun Garante della privacy ha battuto ciglio e nessun politico si è indignato, nessun opinionista ha alzato il dito quando tutti i telegiornali, solo per fare, fra i tanti possibili, l'esempio ricordato ieri da Travaglio, mostrarono, con evidente compiacimento, le immagini di tre rumeni in manette accusati di stupro (e poi assolti). Molti politici, in particolare donne, dichiararono: "Per questi soggetti ci deve essere la galera subito e poi, processo o non processo, buttare via la chiave". Che cosa significa tutto ciò? Che si sta sempre più affermando in Italia un doppio diritto, di tipo feudale e peggio che feudale. Quello per i "colletti bianchi", per i vip, per "lorsignori", che oltre ad essersi inzeppati il Codice di procedura penale di leggi talmente "garantiste" da rendere quasi impossibile l'accertamento dei reati loro propri (fra poco non potranno nemmeno essere intercettati se non con mille limitazioni - parlo dei limiti posti alle indagini della polizia giudiziaria e della magistratura, non di quelli, a mio parere sacrosanti, alla loro divulgazione), van sempre trattati con i guanti. Per tutti gli altri, per coloro che commettono reati da strada, che sono quelli dei poveracci, non vale nemmeno la presunzione di innocenza. C'è la "tolleranza zero". Ma questa è la vecchia, cara e infame giustizia di classe.

Giorni a sentire di quanto è legittima la protesta della piazza, settimane a ripetere ossessivamente che anche le gente che manifesta ha le sue ragioni… e poi? E poi alla prova dei fatti tutto s’è concluso con una manciata di manifestanti che non sapevano neppure quel che volevano sullo sfondo di una Piazza Plebiscito vuota, scrive Conte Zero su “Il Movimento dei Caproni”. Secondo la questura (cito i dati riportati da Repubblica) in piazza sono circa tremila persone: per loro lo stato ha stanziato duemila agenti, in pratica ogni manifestante avrà il suo poliziotto personale. A pensarci ora viene da ridere… nel passato le proteste in Italia (ed in Italia si manifesta con una certa regolarità) sono state ben più consistenti eppure mai s’è dato così tanto peso a questo genere d’operazioni, anzi spesso e volentieri gli organizzatori si sono seccati perché le loro proteste non hanno avuto risalto mediatico mentre in questo caso c’è stata più ribalta che fatto in sé. Questa volta sembra che i giornali ed i giornalisti non avessero altro di cui discutere. Eminenti politologi, commentatori politici, talk show e tribune politiche hanno fatto a gara per accaparrarsi almeno un “forcone” da esporre e far parlare. Ovunque era il festival del “alla fine anche loro hanno le loro ragioni”… una specie di messa quotidiana in cui, girando da un canale all’altro (o da un giornale all’altro) la litania era sempre la stessa : “la gente non ce la fa più”. Andiamo ai fatti: quanti erano? Perché quando i sindacati manifestavano per motivi oggettivamente più sensati non se li filava nessuno mentre qui tizi come Calvani hanno collezionato apparizioni in TV in cui hanno ribadito fino alla nausea luoghi comuni ed ovvietà misti a discorsi che non stanno né in cielo né in terra ?

Possibile che nessuna trasmissione (da Agorà a La gabbia) si sia accorta di quanto sconclusionati, vacui ed approssimativi sono questi manifestanti e le “idee” (ma c’erano delle idee ?) che portavano avanti ? Possibile che nessuno si sia accorto che questi qua non se li filava nessuno ? Nessuno ha visto che quelli fermati per il volantinaggio tutto volevano tranne che “fraternizzare”? Il discorso va fatto seriamente perché il problema non sono solo i forconi in sé, nel computo ci sono anche e soprattutto i media che hanno provato a “montarli” come fossero qualcosa di serio e sensato (fallendo miseramente per questioni di scarsità del materiale umano). Probabilmente è credibile che qualcuno, preso alla sprovvista dall’emergere del “gentismo” (populismo becero) ora ecceda nel senso opposto ma il grosso dell’informazione non può cavarsela così a buon mercato. Qualcuno ha provato a manipolare l’opinione pubblica per far crescere l’idea del forcone, per creare il caso e per alimentare l’idea che il malessere sia diffuso e che ci fosse il rischio di ribellismo (cit.Alfano). Qualcuno voleva che i forconi fossero rilevanti ed ha provato a gonfiarli per sfruttarli per i propri fini. “Chi” possiamo immaginarlo, ma a questo punto il “chi” non ha alcuna importanza. La rivelazione, di un certo peso, è che oramai la TV non è più in grado d’incanalare e legittimare alcunché (con buona pace di quelli che ci vanno per sponsorizzare i propri referenti), oggi in pochi hanno fiducia nel messaggio televisivo e se è vero che molti ascoltano la TV è altrettanto vero che sempre meno gente è disposta ad accettare passivamente notizie ed opinioni, con buona pace di tribune politiche e talk show in cui eminenti nulla a gettone presenza vengono invitati per dare la loro inutile opinione sulle cose (nella speranza che l’elettore “fidelizzato” riconosca il membro del suo “branco” e copi il messaggio). Ci siamo francamente stufati dei vari Cacciari, degli Emiliano, dei Feltri, dei Belpietro, dei Travaglio, dei Gomez e dei Panebianco che ci dicono cosa pensano di ogni argomento dello scibile umano anche quando, è evidente oggi, ne sanno ancora meno di noi e toppano clamorosamente nel percepire gli umori ed i sentimenti della gente. Se non sono bravi neanche a rendersi conto di cosa pensa e cosa vuole l’italiano allora che senso hanno ? a chi si rivolgono sui loro giornali e nelle trasmissioni se non riescono neppure a percepire il vero stato del paese, le sue necessità, i suoi bisogni e quel che realmente pensa? La domanda sorge spontanea… erano lì a cercare d’interpretare l’opinione pubblica o cercavano di dare loro, al pubblico, un opinione che la gente avrebbe dovuto far propria? Voglio dire… io quando sentivo la signora che dice “non ce la si fa più, troppe tasse. devono andare tutti a casa, vogliamo eleggere gente pulita” lo capivo che ‘sta qua non sapeva manco di che parlava, perché non ci voleva molto ad accendere il cervello ed arrivare alla conclusione che chi sta in parlamento oggi è stato eletto da tutti (pure da lei) pochi mesi fa. Quando vedevo gente con la mimetica e lo stemmino dell’Italia (il tizio di Casapound andrebbe arrestato anche solo per le fesserie che ha osato dire indossando la bandiera del paese) che diceva “devono dimettersi, devono farsi processare, al loro posto dobbiamo metterci gente competente nei rispettivi campi” lo capivo anch’io che il tizio non aveva la benché minima idea del perché manifestava al di fuori del “annamo a menà”. Quando ho sentito la diretta TV con un tizio col megafono che se la prendeva con chi da i permessi per i parcheggi riservati ai disabili a chi disabile non è ho pensato pure io “si ma che c’azzecca ? (c) 1997 Antonio Di Pietro. Poi Calvani che parla dei cavoli suoi perché gli hanno pignorato l’impresa, quell’altro che “lavoravo. mi hanno licenziato, quindi lo stato deve dimettersi perché nessuno ci tutela”, l’inno italiano a sproposito, la bandiera italiana (poverina) trascinata suo malgrado in questa pagliacciata… troppo per una persona mentalmente normodotata. Ma dico io… non s’è accorto nessuno che questi hanno la lucidità mentale di un pesce rosso che nuota nell’olio d’oppio? Possibile che la massima parte di giornalisti, opinionisti, politologi e politici si sia fatta prendere per il naso per giorni mentre io dal basso delle mie basse capacità mentali ho subito subodorato che si trattava solo di una palese azione fatta per far casino e montata ad arte. Voglio dire, io sono un semplice cittadino seduto davanti al PC, loro (politologi, esperti televisivi e via dicendo) no, loro sono PAGATI con gettoni presenza, percepiscono lauti stipendi per scrivere su giornali a tiratura nazionale, hanno trasmissioni in prima serata e si fregiano continuamente d’avere il polso del paese… questi in un giorno prendono cifre superiori al mio stipendio di un mese per andare in TV a SPIEGARCI le cose… e non sono in stati in grado di rendersi conto di quello che a me che sono un povero terrone era evidente fin dal primo giorno? Avessero un minimo di coraggio dovrebbero restituire tutti i gettoni presenza nei vari talk (e, nel caso dei conduttori, il loro stipendio) perché, manifestatamente, guadagnati ingiustamente. Questa sarebbe una giusta restituzione: ridate i soldi che si sono presi per ammorbarci (peraltro contro la nostra volontà) di notizie false e pareri del tutto sbagliati. Tuttavia non tutti hanno sbagliato in buona fede. La verità è che almeno qualcuno un po’su queste cose cerca di viverci, è il caso di referenti di certe “entità politiche” che si presentano a tutti gli spettacoli e, fingendo di commentare una manifestazione, recitano invece precise litanie tese a favorire i propri referenti: per anni, con Berlusconi al potere, qualcuno recitava “la crisi non esiste” o “la crisi ce la siamo lasciata alle spalle”, ora invece va di moda il “va tutto male” e si campa d’ingigantimenti. Ad esempio c’era Barbara Spinelli: Ora lo vediamo faccia a faccia: è l’insurrezione formidabile, generalizzata, di chi patisce ricette economiche che piagano anziché risanare.…come c’era Marco Travaglio: Governo e partiti fanno gli stupidi e gli indignati: dopo aver trasformato un popolo tranquillo e paziente, a volte rassegnato e disperato, in una polveriera pronta ad esplodere alla prima scintilla si meravigliano se centinaia di migliaia di cittadini protestano.…beh, erano 0.02 centinaia di migliaia, un insurrezione della magnitudo di quando alla sagra del cinghiale di Chianni finisce il cinghiale (mortacci loro!). Oh, ma non sono solo loro, loro sono solo quelli più rappresentativi, ma il fenomeno è più diffuso di quanto si pensi. Li abbiamo visti, in questi giorni, perdersi in profonde discussioni sul “questo governo ha fallito” (infatti è noto che se la gente se la passa male è solo per gli eventi dall’inizio del 2013 ad oggi, prima era “tutta salute”) al “la gente sta sempre peggio”, il tutto senza uno straccio d’analisi in merito, solo il trito e ritrito ripetere gli slogan (di plastica) delle piazze, un “se ne devono andare tutti a casa” che a sua volta è riciclato dal Movimento 5 Stelle, un partito di rivoluzionari con tendenze poltroniste. Non che i commentatori siano stati i soli, anche alcuni conduttori hanno provato a montare la cosa per guidare precisi attacchi (sempre agli stessi), ed i perché sono fin troppo evidenti e riassumibili in una sola parola: audience. Questa storia dei forconi ci dice molte cose, intanto che pochi disgraziati se vogliono possono fare molti più disagi di quanti non si creda, e che spesso le forze dell’ordine per tutelare il legittimo diritto alla protesta si scordano che ci sarebbero anche i diritti di chi protestare non vuole e c’ha sicuramente di meglio da fare, a dicembre inoltrato, che essere fermato in autostrada per ricevere un volantino da chi s’immagina i colonnelli al potere. La notizia principale è comunque quella che finalmente la TV non è più in grado di polarizzare e montare l’opinione pubblica: per giorni qualcuno ha cercato di spingere la gente in piazza a manifestare con un persistente innuendo di negatività e rilanci televisivi… e nonostante tutto in piazza non c’è voluto andare nessuno (fatta eccezione per alcuni centri sociali ed i soliti universitari trentacinquenni di sinistra che, provvidenzialmente, si sono presi le manganellate diligentemente schivate da quelli di Casapound: e questa volta se le sono cercate). Dall’alto delle foto di quella piazza vuota la gente ha parlato, non vogliono più essere manipolati dai mass media e dalla volontà di danneggiare questo o quel governo… specie quando queste azioni hanno lo stampo ed i modi dell’estrema destra: se c’è da fare politica fatela in parlamento, non rompete le scatole alla gente normale che ha una vita da portare avanti. Con gli eventi di questi giorni qualcuno dovrà accettare (con buona pace di chi campa di piazze e prove canotto) che la politica non si fa nelle strade ma nei palazzi, non con urli e slogan ma con proposte di legge, discussioni ed accordi… coi FATTI e non con le URLA. La pietra dei due milioni ed ottocentomila elettori alle primarie del PD è ancora lì, monito di come non è vero che la gente non è interessata alla politica, semplicemente non è interessata alle sceneggiate ed al casinismo fine a sé stesso. Per anni ci siamo fatti condizionare da una TV che imponeva argomenti del giorno, discussioni, posizioni e soluzioni, ora non funziona più; la gente famosa ed annoiata che discute di problemi del paese che non conoscono oramai ci suggerisce solo noia, ne abbiamo piene le scatole degli emicicli delle tribune politiche in cui i rappresentanti sono chiamati secondo logiche precise e siamo francamente stufi dei tribuni che parlano senza contraddittorio e dei giornalisti chiamati perché “in quota” a questo o quel partito. Perché sì, i giornalisti vengono chiamati su indicazione dei partiti, per cercare di mantenere una specie di “par condicio” nei talk… ora sapete perché giornali con tirature striminzite hanno sempre quattro o cinque giornalisti chiamati qua e là a fare bella mostra di sé (e, in certi casi, della propria chincaglieria): perché ufficiosamente chi fa i palinsesti chiama le figure deputate dei partiti e queste indicano chi invitare, giornalista o politico. Per cui ora che vi abbiamo scoperto ed abbiamo capito chi siete e cosa volete ci siamo immunizzati dalle vostre “opinioni” e dai vostri “ragionamenti”. C’è voluto un trentennio, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. A questo punto il problema è per chi ha pensato di poter continuare a dettare l’agenda (e guadagnare consenso) sfruttando TV e giornali perché non glielo lasceremo fare di nuovo. Abbiamo capito che i media (tutti i media, anche internet) non sono fonti della verità e che bisogna ragionare anziché farsi passare la verità infusa da questo o quell’opinionista: ora se volete il nostro interesse ed i nostri voti smettetela con questo circo itinerante di gente che cerca di dirci di cosa e come pensare ed iniziate a lavorare davvero e seriamente per il paese. Non che i forconi non abbiano aiutato a riconoscere la “sola”, uno che fosse credibile in TV o nei giornali non c’era, dal sufi del “respiro consapevole” a Calvani passando per il tizio in mimetica che parla in piazza di tribunali per i politici, viene il dubbio che in questa manifestazione (il cui vero leit motif era probabilmente “ridateci Berlusconi, è per il nostro interesse”) nessuno abbia voluto metterci la faccia col risultato che hanno dovuto mandare avanti gli impresentabili. Ora però la questione è chiusa, i forconi si sono estinti (e non ne sentiremo la mancanza) ed a piangerli rimangono solo quelli della jihad via web, i tantissimi urlatori da tastiera che in queste settimane sono stati lì a tifare rivolta. Chi sono ? Sono quelli che non riescono a convivere con la loro mediocrità, gente che per non accettare il fatto che questa è la vita continua a sperare (ed in alcuni casi a pregare) che fra poco ci sarà “l’evento” che farà tabula rasa di tutto (Grillo lo profetizzava come il default, i forconi come la rivolta, a loro va bene uno qualsiasi). Sono dei poveretti insoddisfatti che trovano sollievo dalla loro grama vita semplicemente scrivendo su internet, credendosi rivoluzionari da tastiera e precursori del nuovo ordine che profetizzano dietro l’angolo… convinti che essendo i primi a profetizzarlo saranno quelli che più godranno di un eventuale “rivoluzione”. Sono convinti che la normalità come la conosciamo stia per finire, un comodo escamotage per liberarsi di una quotidianità grigia ed insipida… e non si rendono conto che il mondo che li circonda è grigio e opprimente anche perché la maggior parte della loro vita è passata davanti ad una tastiera a leggere, scrivere e sperare in cataclismi prossimi venturi. Ora questi dovranno fare i conti, un altra volta, con il fatto che il default di fine anno (il classico di Grillo) non c’è stato, il governo è ancora in carica (e pare che ci rimarrà per un bel po’) e la rivolta popolare “coi forconi” a volerla sono solo quelli collegati in streaming (lì dove le manganellate non arrivano), non sarà una bella giornata.

20 anni di studi sociologici su disfunzioni e vizi del sistema che nessuno osa sanare. Libertà e democrazia paralizzati da privilegi e poteri intoccabili di una casta fossilizzata. Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla la giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all’apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”. Pubblichiamo ampi stralci dell’intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l’Espresso e autore di Magistrati L’ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa). Livadiotti è anche l’autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L’altra casta. La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l’Espresso e autore di Magistrati-L’ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d’interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all’epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta». Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale? «L’attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall’aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all’apice dell’inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica». E come si spiega? «Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell’anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l’ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!». Tutto questo indipendentemente dagli incarichi? «Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell’Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani». Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia. «Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d’ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all’anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più». Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari? «Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano». Quali dati? «Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c’è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 – un dato che fa impressione – sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm». Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no? «Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati… nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio». Ma c’è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito! «In teoria sì, è la legge 117 dell’88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati». E com’è andata, questa legge? «Nell’arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull’ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l’8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l’1 per cento delle pochissime domande di risarcimento». Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano? «Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all’anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo». TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI. MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO. Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: “Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine”. «E’ una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo – ha proseguito la Boccassini – ha accomunato la minore “con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate – afferma il pm – si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo». Fino prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo. La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d’incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: “Non si può considerare la Tumini un cavallo di ….”, ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell’accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi. “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”. Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati. “Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”, dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. – Ricorda: riordina. – La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO’ NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL’OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA’ IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

Due indizi non fanno una prova neanche dalle parti - sbrigative - dell’Italia dei valori, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Il primo indizio l’ha raccontato ieri l’Espresso: una 31enne ha denunciato d’esser stata vittima di avances e ricatti da parte del senatore Stefano Pedica e del deputato Pierfelice Zazzera, entrambi iscritti all’Idv. Una storia che ne ricorda un’altra che Libero teneva nel cassetto da un po’: una denuncia per «mobbing e stalking» che venne mossa al senatore Stefano Pedica da parte di una ragazza che però ha un nome e un cognome: si chiama Monia Lustri ed è una 35enne originaria di Avezzano (Abruzzo) che ora vive a Roma dove milita nell’Udc, che l’ha delegata alle politiche femminili e alla sicurezza nei luoghi di lavoro, questo dopo aver ricoperto gli stessi incarichi anche per l’Udeur di Clemente Mastella. Dal febbraio 2008 e per un anno circa, però, aderì all’Italia dei valori che la candidò alla Camera (collegio Lazio 1) e in maggio la fece «responsabile organizzativa regionale». Poi, a fine marzo 2009, è successo qualcosa. «Quando cercai di rinnovare l’iscrizione all’Idv,  mi tornò indietro un fax con scritto “rifiutata”. Senza altre motivazioni».

Parliamo dell’Associazione Italia dei valori o del Partito?

«Del Partito. Ho scoperto solo in seguito che c’era una differenza tra la scatola vuota a cui venivano iscritti tutti e il soggetto economico retto dai tre soci fondatori, cosa che trovo scandalosa».

Bene, ma che problema c’era stato?

«Ho militato nell’Idv romana dal 13 febbraio 2008, invitata dall’onorevole Gabriele Cimadoro; poi diciamo che ho avuto dei problemi col senatore Pedica, col quale ho avuto un rapporto strettamente confidenziale».

Allora. Stefano Pedica è un senatore, sposato, separato con figli, che è un ex qualsiasi cosa (Dc, Ccd, Udeur, Democrazia Europea, Dc di Rotondi, ora Idv) e che è balzato agli onori delle cronache anche perché ottenne un alloggio del Vaticano tramite Angelo Balducci. Questa almeno è stata l’accusa, secondo la quale l’appartamento doveva spettare a Di Pietro - in via Paolo Emilio 57, quartiere Prati, in un palazzo umbertino che risulta nell’elenco dei lavori fatti da Diego Anemone nel 2007 - anche se alla fine ci andò Pedica, appunto.

«Pedica, sul Fatto quotidiano, ha dichiarato che in quell’appartamento non ci ha mai vissuto: ma non è vero, ci ha vissuto con certezza almeno dal marzo all’agosto 2008. Lo so perché ci sono stata un sacco di volte».

Quando avevate una relazione?

«Sì».

Si parla dell’appartamento pluri-restaurato con vetri blindati, telecamere interne ed esterne, finiture di lusso.

«Confermo. Lui mi disse che gli era stato dato completamente arredato e sistemato da uno studio di architetti, e che per spese varie, affitti e trasloco compresi, non aveva speso un centesimo. Lui poi ha cambiato casa».

Lei nel novembre 2008 ha presentato una querela, assieme al suo avvocato, contro il senatore Pedica.

«Io, ufficialmente, ho sporto una querela contro ignoti».

Sì, ma nella seconda pagina della querela lei allega l’indirizzo web del senatore Pedica dell’Idv, «cioè colui», mi ha scritto, che mi ha perseguitata perché a maggio 2008 l’ho lasciato, una sorta di mobbing con un pò di stalking».

«L’ho fatto per evitarmi una contro-querela immediata. Ho pensato che Pedica, semmai, l’avrebbero messo in mezzo i magistrati».

Senta, ma che cosa intendiamo per mobbing e stalking?

«Io sono stata insieme a Pedica appena entrata nel partito, precisamente dal 27 marzo 2008. Abbiamo cominciato a uscire insieme e a fare vari giri per il Lazio. Fu un errore mio».

Perché?

«Perché a me in realtà non interessava granché. Però pensai che, se l’avessi respinto, mi avrebbe buttata fuori dal partito. Ci siamo visti per un paio di mesi, poi a maggio ho scoperto che tipo di persona era e allora gli ho detto, per telefono: lasciamo stare la parte privata, vediamoci solo, come dire, politicamente. Lui mi disse che mi avrebbe fatto terra bruciata, che avevo finito di fare politica. Da quel giorno lui ha cominciato a spedire email con ingiurie e diffamazioni contro di me».

Tutto perché lei l’aveva lasciato ?

«Sì, ma mi risulta che non sia nuovo a certi comportamenti. Ha fatto cose del genere anche con chi gli aveva chiesto più trasparenza nella gestione del partito a livello regionale».

Da capo: e il mobbing? Lo stalking?

«Nel 2008 io ero iscritta nell’Idv, poi nel 2009 non mi hanno più voluta iscrivere: fecero un atto di sospensione “necessario e urgente” solo perché avevo proposto la mia candidatura alla regione Abruzzo. Fece tutto Pedica, dopo che l’avevo lasciato. Un venerdì sera mi arrivò un suo sms : “Ti sto diffidando”, “stai per ricevere una sospensione”. Io feci subito subito ricorso, allora lui mi convocò e mi disse che se avessi ritirato la candidatura lui avrebbe ritirato l’atto di sospensione».

E poi?

«Poi ho frequentato privatamente alcuni parlamentari dell’Idv che mi hanno avvicinata, inizialmente, con la scusa di aiutarmi a risolvere i miei problemi causati da Pedica. Risultato: mi hanno portata a letto passando da un invito a cena, poi più nemmeno da quello».

Di chi parla?

«Di due persone molto in alto, anche più in alto di Pedica. Con uno andai a cena solo la prima volta. Lo vidi altre due volte, dopodiché rifiutai i suoi inviti. L’altro, con cui andavo a cena prima di passare a casa sua, lo frequentai dalla sera del 22 dicembre 2008 sino a fine febbraio-inizio marzo 2009, quando presi atto, dopo avergli parlato degli abusi di Pedica, che non avrebbe fatto nulla. Diceva sempre che Pedica aveva molti limiti, “però lavora”. Litigammo. Mi disse che Pedica non doveva sapere di noi due, una frase che non mi piacque. Da una parte difendeva Pedica, anzi, se gli parlavo male di Pedica diventava una bestia; dall’altra frequentava di nascosto la sua ex ragazza. Alla fine decisi di dire tutto a Pedica. Fatto questo, l’altro non mi ha più chiamata, non ha più risposto agli sms, appena dicevo “Monia” chiudeva il telefono».

Chi di morale ferisce di morale perisce, questo il detto che si appropria di più al caso di giornata: i deputati  del movimento 5 stelle di Grillo, i duri e puri della politica che si sollevano indignati contro gli incalliti protagonisti della casta, aggrappati, anzi incollati ai loro privilegi, al centro di una bufera per una presunta (?) parentopoli in cui vengono assegnati incarichi e stipendi da collaboratori a compagni, fidanzati e figli di essi. Il tutto proprio adesso che i maggiori sondaggisti davano di nuovo il Movimento al di sopra del 20%, scrive Giuseppe Bini. Ma andiamo nello specifico: Barbara Lezzi e Vilma Moronese finiscono agli onori delle cronache non per qualche illuminata iniziativa parlamentare ma bensì perchè in quanto la prima assume come collaboratore la figlia del compagno, la seconda invece non va tanto per il sottile e assume direttamente il fidanzato. Ma non era stato firmato un codice etico stilato appositamente per la questione in oggetto, che vietata l'assunzione di parenti fino al quarto grado? Fatto sta che ai vecchi vizi della politica ancora rimedio efficace non è stato trovato, e il vaccino a cui i pentastellati sono stati sottoposti dal focoso leader sembra non garantire una efficiente immunità. Quindi punto e a capo, il nuovo assume le terribili incaccellabili vesti del vecchio e la politica italiana continua il suo cammino verso un imputridimento etico e morale degno delle più olezzose paludi agropontine e maremmane di fine ottocento. Chissà se ci sarà bisogno di un nuovo Mussolini per provvedere alla bonifica? Ai posteri l'ardua sentenza. Beppe Grillo intanto si infuria, grida, sbraita e avvalla la decisione di non divulgare via streaming la riunione che ha visto volare gli stracci in casa 5 stelle, con tanto di pianti, smentite e richieste di perdono. Ammissione di colpa per la senatrice Barbara Lezzi che licenzia immediatamente lo scomodo collaboratore, del resto, come qualcuno pignolamente osserva, essere fidanzato (o compagno che dir si voglia) non prefigura un legame di parentela. Senza dubbio, come senza dubbio appare la cavillosa ricerca di giustificazioni e scusanti da prima Repubblica, che ormai la travolgente onda moralizzatrice portata avanti proprio dai pentastellati non riesce più a concepire e sopportare. A noi cittadini, elettori, pennivendoli e subalterni di ogni tipo non resta che osservare e metabolizzare (o per lo meno cercare di farlo), attoniti, stupiti e disgustati. 

Lettera aperta. I Grillini in Parlamento e la restituzione del finanziamento Pubblico. L’Italia è retta da un sistema di disinformazione e di discultura che rincoglionisce gli italiani. Le lobbies finanziano la politica e la politica finanzia le lobbies. In ogni caso i canali editoriali sono in mano loro. Informazione e cultura corrotta. Poi c’è un movimento politico ad ideologia indefinita che ha solo una fonte di informazione: quella del suo “Guru” e dei suoi “Paraguru”. Quel movimento è quello dei “5 Stelle” di Beppe Grillo. Un marasma di soggetti con pensieri indotti da teorie complottistiche dedotte dai siti web del loro Guru. Soggetti provenienti dalla Rete. E la Rete si sa, che dietro l’anonimato, nasconde menti contorte ed inconsistenti, propensi alla polemica fine a se stessa, ovvero, ove anonimato non vi sia, lì si dissimula lo spirito di protagonismo. Proprio il Movimento 5 Stelle, a detta dei loro detrattori, ha posto una lista di proscrizione per i giornalisti ostili e corrotti. Bene, detto questo, parliamo del finanziamento pubblico ai partiti che i penta stellati aborrono. Finanziamento pubblico e privato che serve altresì a sostenere censura e disinformazione a vantaggio del sistema politico esistente. Solo nel 2013 sono stati già spesi 120,45 milioni di cui 40 erogati da privati e circa 80 dai rimborsi. Pdl e Pd hanno ricevuto rispettivamente 37,16 milioni e 25,34 milioni, mentre il Movimento 5 Stelle ha rifiutato i 9,29 milioni di euro cui aveva diritto. Una domanda sorge spontanea. I Grillini in Parlamento anziché restituire il finanziamento pubblico a quello Stato che molti definiscono ladrone, ovvero a quelli italioti che sperperano e spandono a danno di altri italioti ignavi, perché con quei fondi non sostengono l’informazione e la cultura libera asfittica in modo che gli italiani non siano più i coglioni che sono stati fatti diventare? O il Guru non vuole che si finanzi altra fonte che sè?

PENNIVENDOLI E DISINFORMAZIONE: DA SOCRATE A GRILLO, PASSANDO DA VANNONI DI STAMINA A DI BELLA.

La verità dei Mass-Media. tratto dal libro: "Massoneria e sette segrete: la faccia occulta della storia". Il potente e ubiquitario schieramento dei mezzi di comunicazione odierni, che ha annullato le distanze e quasi azzerato i tempi di diffusione delle notizie, funge, come è evidente, da sonora cassa di risonanza, avvertita in tutto il mondo, delle posizioni dell'Establishment dominante, vale a dire quello anglosassone, imbavagliando, di fatto, su ampia scala, qualsiasi informazione non controllata. L'influenza enorme sulla mentalità e i costumi della televisione, e prima, della cinematografia, è fatto pacifico sotto gli occhi di chiunque: verrebbe da chiedersi l'identità di questi formatori di opinione, di questi titani che da un secolo propongono stili di vita, lanciando mode, slogan, creano gusti, abitudini, modelli. "L'alleanza fra televisione e industria del cinema è sempre stata stretta, l'una alimenta l'altra. Metro-Goldwyn Mayer, 20th-Century Fox, Paramount Pictures, Columbia, Warner Bros, Universal e United Artists, queste società sono state tutte fondate, dirette e orientate da ebrei famosi come i Goldwyn, i Fox, i Laemmle, gli Schenk, i Lasky, gli Zukor, i Thalberg, i Cohen, i Mayer e i Warner. Stampa e televisione costituiscono dunque veicoli eminenti e indispensabili per la violazione delle folle. La tecnica è sperimentatissima: presentare in continuazione una colluvie di notizie, portando alla luce ogni genere di informazioni, in modo da creare una specie di rumore di fondo continuo in grado di occultare le vere informazioni, accessibili soltanto a chi ne possiede la chiave di decodifica, prestandosi così al ruolo strumentale di trasmissione di messaggi fra iniziati sotto le mentite spoglie di notizie più o meno insignificanti. Una manipolazione planetaria dell'opinione pubblica, e occidentale in particolare, che emerge con cruda chiarezza dalla attualissime parole che molti anni or sono (siamo nel 1914 e ancora non c'era la televisione!) John Swinton, redattore-capo del giornale per antonomasia del Sistema, il "New York Times", pronunciò nel discorso di congedo dai colleghi tenuto al banchetto in suo onore, presso l'American Press Association, alla vigilia del suo collocamento a riposo. Al lettore il giudizio. "Che follia fare un brindisi alla stampa indipendente! Ciascuno, qui presente questa sera, sa che la stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io: non c'è nessuno fra voi che oserebbe pubblicare le sue vere opinioni, e, se lo facesse, lo sapete in anticipo che non verrebbero mai stampate. Sono pagato 250 dollari alla settimana per tenere le mie vere opinioni al di fuori del giornale per il quale lavoro. Altri fra di noi ricevono la stessa somma per un lavoro simile. Se io autorizzassi la pubblicazione di un'opinione sincera in un numero qualunque del mio giornale, perderei il mio impiego in meno di 24 ore, come Otello. Quest'uomo sufficientemente pazzo per pubblicare un'opinione sincera si ritroverebbe tosto su una strada alla ricerca di un nuovo impiego. La funzione di un giornalista (di New York) è di distruggere la Verità, di mentire radicalmente, di pervertire, di avvilire, di strisciare ai piedi di Mammona e di vendersi egli stesso, di vendere il suo paese e la sua gente per il proprio pane quotidiano o, ma la cosa non cambia: per il suo stipendio. Voi questo lo sapete e io pure: che follia allora fare un brindisi alla stampa indipendente! Noi siamo gli utensili e i vassalli di uomini ricchi che comandano dietro le quinte. Noi siamo i loro burattini; essi tirano i loro fili e noi balliamo. Il nostro tempo, i nostri talenti, le nostre possibilità e le nostre vite sono di proprietà di questi uomini. Noi siamo delle prostitute intellettuali".

La parabola di Socrate. Antonino Antonazzo mi ha segnalato questa meraviglia di bufala letteraria che gira da tempo immemore sulla rete (ma anche prima della diffusione dei social network la si riceveva per mail, o ANCOR peggio come dedica sui diari, si fanno ancora le dediche sui diari?). Non c'è nulla di male a condividere la storiella, anzi è carina ed edificante, solo che è fuorviante, visto che leggendola si pensa che si stia parlando di Socrate il grande filosofo, mentre invece a parlare è Dan Millman scrittore inglese nato nel 1946 e che a 34 anni scrisse un libretto dove uno dei protagonisti  si chiama Socrates e accompagna il giovane Joy alla scoperta della vita. Il libro è stato successo editoriale nella linea di libri per "l'anima", crescita interiore, raggiungimento dei traguardi, questo e altro sono narrati nei libri di Millman, ma sono libri, fiction, Socrate (quello vero) non ha mai raccontato questa storiella... Per onore di cronaca qui la parabola dei tre setacci:

Socrate aveva reputazione di grande saggezza. Un giorno venne qualcuno a trovarlo e gli disse:

- Sai cosa ho appena sentito sul tuo amico?

- Un momento - rispose Socrate. - Prima che me lo racconti, vorrei farti un test, quello dei tre setacci.

- I tre setacci?

- Prima di raccontare una cosa sugli altri, è bene prendersi il tempo di filtrare ciò che si vorrebbe dire. Lo chiamo il test dei tre setacci. Il primo setaccio è la verità. Hai verificato se quello che mi dirai è vero?

- No... ne ho solo sentito parlare...

- Molto bene. Quindi non sai se è la verità. Continuiamo col secondo setaccio, quello della bontà. Quello che vuoi dirmi sul mio amico, è qualcosa di buono?

- Ah no! Al contrario....

- Dunque - continuò Socrate - vuoi raccontarmi brutte cose su di lui e non sei nemmeno certo che siano vere. Forse puoi ancora passare il test, rimane il terzo setaccio, quello dell'utilità. E' utile che io sappia cosa avrebbe fatto questo amico?

- No davvero.

- Allora - concluse Socrate - quel che volevi raccontarmi non è né vero, né buono, né utile; perché volevi dirmelo?

E qui le parole con cui Antonino me l'ha segnalata e sbufalata:

Non c'è dubbio: molto edificante. E però, omissione della fonte a parte, non c'è qualcosa che non torna? Soprattutto quel terzo setaccio lì: la valutazione e l'accertamento dell'utilità. Per Socrate?! Naaahh...Comincio così, per pura curiosità, a interrogare le fonti probabili o anche solo possibili e così di fronte al deserto sui miei mezzi provo pure una ricerca libera su google. Anche qui apparentemente niente: centinaia di occorrenze ma neppure una volta la fonte è indicata. Finché, che cosa scopro? Che si tratta di un lacerto di un libraccio di Dan Millman ("La via del guerriero di pace. Un libro che vi cambierà la vita") in cui uno dei protagonisti ha per pseudonimo nientedimeno che Socrate (il buon gusto nel titolo e nei nomi dei personaggi gli hanno garantito vendite, pare, nell'ordine delle centinaia di migliaia di copie in giro per il mondo). Ecco dunque svelato il mistero. Ora, io capisco che questi (ma da sempre e per sempre) sono vissuti come tempi grami e quindi si cercano frasi ad effetto per edificarci con poca fatica; ma per favore: almeno il concetto di utilità in bocca a Socrate no! lasciatelo nella pace della sua inutilità!

IL METODO STAMINA ED IL METODO DI BELLA. La vicenda del metodo Stamina, gli stop and go, i divieti, la richiesta dei malati nelle piazze, l'ostracismo al medico, la tanto sofferta sperimentazione ricordano quanto accadde al professor Luigi Di Bella. «L'animo mi dice che non sono vissuto inutilmente, perché ho fatto del bene ed ho gioito per il bene fatto». Così diceva il prof. Luigi Di Bella. Lo racconta il figlio Adolfo Di Bella nella corposa biografia che è stata presentata di recente a Bassano del Grappa nell'ambito degli incontri senza censura. Già perchè la vita del professore scienziato è ancora sotto censura. La vera storia del prof. Luigi Di Bella e il suo innovativo metodo per curare il cancro è ancora affare per pochi che non vogliano foderarsi gli occhi di prosciutto. Censurato da molti il Metodo Di Bella continua ad evolversi, attraverso l`impegno dei figli, con eclatanti successi dei migliaia di pazienti che ancor oggi scelgono questa cura. "Con il figlio dott. Adolfo Di Bella, abbiamo esplorato la figura del prof. Di Bella e ciò che è realmente successo" commenta Alessandro Sbarbada promotore dell'incontro. Sbarbada si riferisce alle pressioni delle multinazionali farmaceutiche, le forzature dei media, le cartelle cliniche mal gestite, la truffa del Ministero che usò sostanze scadute per non farla apparire valida. "A 10 anni dalla scomparsa ascolteremo dal vivo la verità sul genio straordinario, un vero Poeta della Scienza, l'ideatore del Metodo di Bella, le basi e le nuove sperimentazioni in atto della cura per il cancro che ancora oggi, tra mille ostacoli, salva la vita a migliaia di persone” aggiunge lo scrittore, saggista ed esperto Alessandro Sbarbada.

Vannoni a Tgcom24: "Le cartelle inviate al ministero sono parziali". Il presidente di Stamina Foundation: "La metodica non la pubblichiamo per evitare che le aziende private la rubino". Poi afferma: "Io non scappo dall'Italia, affronterò il processo". "Le cartelle cliniche di Brescia arrivate al ministero della Salute sono parziali" . Lo ha affermato a Tgcom24 il presidente di Stamina Foundation, Davide Vannoni. "I parenti hanno portato documenti di altri neurologi - ha ribadito -, che sono i loro medici curanti che dimostrano che le cure funzionano". "Testimoniano miglioramenti su malattie degenerative, che possono solo andare peggiorando", ha poi aggiunto. "Le cartelle cliniche di Brescia sono vuote - ha attaccato - perché si sono fermate alla sola valutazione di mancanza di effetti collaterali". Alla domanda sull'accusa di scarsa chiarezza del metodo, Vannoni ha risposto: "Noi lo stiamo usando in ospedali, le cellule vengono testate 5 volte prima di essere iniettate nei pazienti. E sono assolutamente certificate: ricordiamo che siamo dentro al secondo ospedale pubblico di Italia". "La metodica non la pubblichiamo per evitare che qualche azienda privata possa rubarla, come invece avrebbe voluto la Lorenzin", ha spiegato. "Sono cellule staminali - ha poi garantito - e sono vive al 95% e lo testimoniano anche i test degli Spedali di Brescia". Vannoni ha poi ribadito che il Comitato di tecnici deve essere neutrale. E invece "se si scrive il nome di Uccellacci, uno degli esperti della nuova Commissione, su Google per esempio, si possono leggere articoli contro il metodo". "Presto pubblicherò le mail tra la Molino, biologa del pool Stamina, e Ricordi, esperto di trapianti cellulari all'Università di Miami che dimostrano che le critiche che ci hanno fatto sono false". Parlando del j'accuse del vicepresidente di Stamina al ministro Lorenzin, ha affermato: "Non posso rispondere di quanto ha detto Andolina". Poi ha ribadito: "Il nostro metodo è noto agli Spedali civili di Brescia, non abbiamo mai lucrato sui malati, negli ultimi due anni le cure sono state offerte gratis". "Io non scapperò dall'Italia - ha infine concluso - affronterò tutto ciò che ci sarà da affrontare". "E' da cinque anni che mi dicono che si farà il processo, ma io ancora aspetto", ha spiegato. "Non mi sottrarrò alla giustizia, anche perché sono sicuro che i pazienti hanno avuto miglioramenti reali e non parlo di quelli clinici".

Stamina, rabbia dei familiari: "Falsità, media assassini". Assenti i genitori di Sofia, ricoverata in ospedale. Guido Ponta su Facebook attacca i media: "Oggi per i nostri figli si gioca una partita importantissima. Cercheremo di ripristinare verità calpestata dalla macchina del fango", scrive “La Repubblica”. "Vergogna, assassini": sono queste le parole piovute sui giornalisti dal palco dei relatori della conferenza stampa dei familiari e dei pazienti in cura con il metodo Stamina a Roma. L'accusa, per i giornalisti, è quella di essere scorretti nel riportare notizie false, dopo che ieri sono stati resi noti i risultati delle 36 schede di sintesi delle cartelle cliniche elaborate dagli Spedali Civili dalle quali risulta che i pazienti sottoposti al metodo non hanno avuto alcun miglioramento. ''Poiché siamo sicuri di essere dalla parte della verità, inizieremo le querele nei confronti dei giornalisti che scrivono cose false'', ha avvertito Felice Massaro, uno degli organizzatori della conferenza stampa. Massaro, poi, ha anche chiesto pubblicamente che la Procura di Torino, e in particolare il procuratore aggiunto Raffaele Guariniello, "inizia a indagare anche sulla fuga di notizie per quanto riguarda i dati contenuti nelle cartelle cliniche". "Chi ha detto che non c'è nessun risultato merita di andare sotto processo per interferenza di attività salva vita", è la posizione del medico Marino Andolina, vicepresidente di Stamina Foundation, che ipotizza l'esistenza di un complotto per bloccare la ricerca: "È un problema di criminalità organizzata, un gruppo di persone a livello molto alto ha deciso di consigliare così la ministra - ha detto -. Esiste un complotto mirante a negare anche l'evidenza pur di bloccare sia le terapie compassionevoli a Brescia che la sperimentazione votata dal Parlamento". Ma proprio contro queste parole di Andolina, il ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha annunciato azioni legali. E Davide Vannoni, presidente di Stamina Foundation, è intervenuto prontamente a difendere il suo collega: "Credo che Andolina sia in un momento di grande stress e ha fatto sicuramente affermazioni pesanti. Ma il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, valuti la provocazione come tale e pensi a tutte le volte che Stamina non ha fatto ricorso alle vie legali, nonostante le falsità diffuse da più parti". Intanto, il ministro della Salute ha selezionato i nomi che comporranno il Comitato scientifico in esecuzione dell'ordinanza del Tar del Lazio (che ha sospeso la nomina del primo comitato, giudicato non imparziale) e tenuto conto di quanto indicato dall'Avvocatura generale dello Stato. Questa la composizione: Presidente: Mauro Ferrari, Ph.D.: presidente e CEO dello Houston Methodist Research Institute; vice presidente esecutivo dello Houston Methodist Hospital; rofessore presso il  Weill Cornell  Medical College, New York;  Presidente della Alliance for NanoHealth. Componenti: Sally Temple, Ph.D.: Direttore scientifico del Neural Stem Cell Institute, NY  (esperto staminali straniero); Curt R. Freed, M.D.: Capo divisione e professore presso l'University of Colorado (School of Medicine)  (esperto staminali straniero); Vania Broccoli: Capo Unità della Divisione di Neuroscienze Stem Cell Research Institute, Ospedale San Raffaele - Milano (esperto staminali italiano); Francesco Frassoni: Direttore centro cellule staminali e terapia cellulare Ospedale Giannina Gaslini - Genova (esperto staminali italiano); Carlo Dionisi Vici: Malattie metaboliche - Dipartimento di pediatria - Ospedale pediatrico Bambino Gesù - Roma (clinico esperto terapia cellulare); Antonio Uccelli: Centro per la Sclerosi Multipla dell'Università di Genova, Neuroimmunologia del Centro di Eccellenza per la Ricerca Biomedica (CEBR) - (clinico esperto terapia cellulare). "È stata individuata la figura di un presidente garante di alto livello - spiega Lorenzin - non della materia, ma riconosciuto internazionalmente per qualità scientifica, accompagnato da due esperti di staminali stranieri, due esperti italiani più due clinici, uno di interesse metabolico e uno neurologico, entrambi noti in campo di terapia cellulare". Proprio per evitare nuove polemiche, nella scelta dei componenti del comitato, il ministero ha valutato - tra i vari requisiti - personalità che non risultino "aver preso posizione sulla sperimentazione". Inoltre, tutti sono responsabili attivi di centri o istituzioni dedicate alla ricerca sulle cellule staminali. Alla conferenza stampa di oggi non hanno partecipato Guido Ponta e Caterina Ceccuti, i genitori della piccola Sofia, la bimba di Firenze affetta da leucodistrofia metacromatica che da un anno effettua presso gli Spedali Civili di Brescia le infusioni con il metodo Stamina. Le condizioni della piccola si sono infatti aggravate nelle ultime ore e hanno richiesto un ricovero presso l'ospedale pediatrico Meyer di Firenze. Ad annunciarlo su Facebook papà Guido, che, a sua volta, attacca i media: "Oggi per i nostri figli si gioca una partita importantissima perché cercheremo, mostrando i certificati medici che attestano i miglioramenti e la totale assenza di effetti collaterali, di ripristinare almeno un po' di verità e giustizia calpestate dalla macchina del fango mediatico che in questi giorni sta cercando di sotterrare Stamina". Riescono a muovere le gambe e a tenere ferma la testa. Celeste, poi, si ruota su un fianco. Sono le immagini che compaiono in alcuni video mostrati nel corso della conferenza stampa dai genitori della piccola Celeste e di Sebastian, entrambi affetti da Sma, trattati con il metodo Stamina. "Ho scritto e parlato con medici di tutto il mondo per capire cosa potevo fare per mia figlia. Non ho avuto risposte da molti italiani. Quando ho scritto a Vannoni, mi ha risposto in 24 ore". Così Giuseppe Camiolo, papà della piccola Smeralda, gravemente disabile per un'asfissia alla nascita, oggi legata a un respiratore, in cura con il metodo Stamina, racconta la sua storia durante la conferenza stampa e mostra le carte dei miglioramenti della bambina. "Non avrò mai la presunzione di dire che è stato il metodo a far migliorare mia figlia, ma posso dire che è l'unica cura che ha fatto", dice il papà della bimba. All'incontro con la stampa è intervenuto anche il neurologo Marcello Villanova che lavora presso l'ospedale Nigrisoli di Bologna. "Quello che chiediamo - ha detto - è che si apra un dialogo sul metodo Stamina che non può essere in nessun modo paragonato al caso Di Bella. Io non lavoro per Stamina, ma sono favorevole a un approfondimento di questo metodo perché nessuno può dire di avere la verità".

Media nel mirino durante la conferenza stampa a Roma dei familiari e dei pazienti in cura con il metodo Stamina. I giornalisti sono stati accusati di essere scorretti nel riportare le notizie false, scrive “Il Corriere della Sera” . «Troppa disinformazione soprattutto negli ultimi giorni» è stato detto. «Poiché siamo sicuri di essere dalla parte della verità, inizieremo le querele nei confronti dei giornalisti che scrivono cose false». È l’avvertimento che ha fatto Felice Massaro, uno degli organizzatori della conferenza stampa a Roma in difesa del metodo Stamina. Ai giornalisti presenti qualcuno ha più volte gridato «Assassini» e «Vergogna». Massaro, che è anche nonno di Federico, uno dei piccoli pazienti in cura a Brescia, ha anche chiesto pubblicamente che la Procura di Torino, e in particolare il procuratore aggiunto Raffaele Guariniello, «indaghi anche sulla diffusione dei dati delle cartelle cliniche degli Spedali Civili di Brescia». Nel frattempo, non nell’ambito della conferenza stampa, Marino Andolina vicepresidente di Stamina Foundation si è schierato sulla stessa linea, dichiarando all’agenzia Ansa: «Chi ha detto che non c’è nessun risultato merita di andare sotto processo per interferenza di attività salva vita». «Almeno una procura sta già indagando, e non è quella di Torino», ha aggiunto. «È un problema di criminalità organizzata, un gruppo di persone a livello molto alto ha deciso di consigliare così la ministra».Ha continuato Andolina «esiste un complotto mirante a negare anche l’evidenza pur di bloccare sia le terapie compassionevoli a Brescia che la sperimentazione votata dal Parlamento». Il papà di Celeste ha precisato «Tre giornalisti che conosco bene mi hanno detto che hanno riportato quello che hanno detto a proposito di quanto è stato scritto da altri sulle cartelle clinici. Ma non si fa così. Perché non mi hanno chiamato? I certificati di miglioramento ci sono e sono stati rilasciati, fra l’altro, dagli Spedali Civili di Brescia» . «Io ho portato in ospedale mia figlia distesa in una carrozzina- ha proseguito il papà di Celeste- e l’ho riportata fuori in posizione seduta e sta seduta anche per diverse ore. Invito tutti a venire a vedere i documenti». I genitori dei piccoli pazienti affetti da malattie neurodegenerative ai quali è stato somministrato il cosiddetto metodo Stamina hanno mostrato ai giornalisti, convocati all’hotel Nazionale a Roma, video e documenti dai quali sembrano emergere dei miglioramenti. In particolare é stato mostrato anche un video di Celeste in cui viene mostrata la piccola che ruota su se stessa. Un movimento che, secondo il neurologo Marcello Villanova che ha partecipato alla conferenza stampa, «non può fare nessun soggetto colpito da questa malattia». Mostrato anche un video del piccolo Sebastian, in cui si vede il piccolo in grado di mantenere la testa ferma e di muovere, seppur leggermente, la gamba destra. In un video girato prima che venissero effettuate le infusioni messe a punto da Stamina, lo stesso Sebastian non è in grado di mantenere la testa ferma e di muovere le gambe in nessun modo. «Ho scritto e parlato con medici di tutto il mondo per capire cosa potevo fare per mia figlia. Non ho avuto risposte da molti italiani. Quando ho scritto a Vannoni, mi ha risposto in 24 ore». Lo ha raccontato Giuseppe Cammiolo, papà della piccola Smeralda, gravemente disabile per un’asfissia alla nascita, oggi legata a un respiratore, in cura con il metodo Stamina. Cammiolo ha mostrato le carte dei miglioramenti della bambina. «Non avrò mai la presunzione di dire che è stato il metodo a far migliorare mia figlia, ma posso dire che è l’unica cura che ha fatto», dice il papà della bimba. «Quando ho scritto agli esperti all’estero sono stato ascoltato. Il professor Angelo Vescovi, invece, in questi anni non ha mai trovato il tempo di rispondere a un padre italiano che chiedeva aiuto». Durante la conferenza stampa è stato mostrato anche un documento, rilasciato dall’ospedale pubblico Garibaldi di Catania. Il certificato riguarda la piccola Smeralda e riscontra un miglioramento in seguito alle infusioni di Stamina. Marcello Villanova che lavora presso l’ospedale Nigrisoli di Bologna ha detto. «Quello che chiediamo è che si apra un dialogo sul metodo Stamina che non può essere in nessun modo paragonato al caso Di Bella. Io non lavoro per Stamina ma sono favorevole a un approfondimento di questo metodo perché nessuno può dire di avere la verità». «Nessuno ha visitato i bambini - ha aggiunto - né verificato le loro condizioni, tanto più quando è stato lanciato il sospetto che ci fossero rischi di infezioni nelle cellule. Logica avrebbe voluto che si facessero verifiche sui bambini che avevano corso questi rischi. Ma nessuno se n’è occupato». «Per dare un giudizio sull’efficacia del metodo Stamina occorre anche esaminare i video dei piccoli pazienti che si sono sottoposti a questo trattamento» ha precisato Villanova durante la conferenza stampa. «Tutti si sono rifiutati di andare a guardare questi bambini - ha affermato il medico - non ci si può limitare all’esame delle cartelle cliniche. Oggi i video possono veramente dimostrare un miglioramento e quindi sono diventati fondamentali». «Fra l’altro» è stato detto durante la conferenza stampa. «I giornali hanno dato molto spazio alle affermazioni del premio Nobel Yamanaka contro Stamina, ma non hanno dato molto spazio alle affermazioni delle affermazioni dell’ultimo premio Nobel per la medicina che ha lanciato accuse molto pesanti alle principali riviste scientifiche, fra cui Nature, bollandole di condizionamenti». «Quando si dice che Vannoni non dà il protocollo è perché i giornalisti non sanno di che cosa parlano» ha sottolineato Felice Massaro. «Il protocollo non è altro che l’insieme delle fasi che si seguono per arrivare al prodotto cellulare. Bisogna poi saper che cosa c’è nel prodotto che si è realizzato e questo si può sapere con la caratterizzazione. I ricercatori hanno diritto di sapere che cosa si ottiene con la caratterizzazione ma non come si arriva alla caratterizzazione». Questa l’opinione di Massaro. «I membri della commissione che è stata bocciata dal Tar continuano a parlare nonostante il loro parere sia stato bocciato per conflitti di interesse» È stato affermato. Intanto sono stati individuati i nomi degli esperti che comporranno il nuovo comitato ministeriale che sarà chiamato a valutare il protocollo Stamina ai fini di una eventuale sperimentazione. Il nuovo provvedimento tiene conto del parere dell’Avvocatura dello Stato sull’ordinanza del Tar del Lazio che ha sospeso la nomina del primo comitato, giudicato non imparziale.

Metodo Stamina, da Roma tele-disinformazione. Rai & Mediaset, scrive Prisma News. Una querela a testa per Rai e Mediaset. Questo il probabile epilogo della conferenza stampa di Roma organizzata dalle 34 famiglie dei bambini che agli Spedali Civici di Brescia ricorrono alle staminali. Tg1 e Tg5 (?) sono stati infatti accusati di disinformazione - a causa di servizi diffusi durante lo svolgimento dei lavori - nonostante il numeroso materiale attestante i miglioramenti dei piccoli pazienti. Ma che la misura fosse colma l’aveva detto in apertura Felice Massaro, uno degli organizzatori: “Ora non si scherza più! L’argomento ha prodotto lesioni e omicidi, non siamo più disposti a tollerare manipolazioni. Per tale ragione la registrazione di questo incontro verrà consegnata alle Procure di Milano, Brescia, Torino, Cuneo, Napoli”. L’incontro romano doveva servire a fugare i dubbi ingenerati dopo le ultime notizie che hanno proposto il metodo Stamina quale veicolo di malattie come cancro, mucca pazza, Hiv oltre che di frammenti ossei. Si vede che ai colleghi non sono bastati referti, relazioni, testimonianze e riprese-video, in verità bastevoli. Soprattutto, materiale che avrebbe dovuto far capire che le staminali non sono da considerare come una cura che sfocia in guarigione; al momento esse altro non sono se non un rimedio utile a dare benessere ai pazienti e a migliorarne la qualità della vita. Al tavolo dei relatori si sono succeduti genitori come Cinzia Marcheggiani, Giuseppe Caniolo, Giampaolo Carrer e diversi altri. Dalle loro testimonianze sono emerse le storie dei vari Federico, Smeralda, Ludovica, Ginevra, Daniele, Desiree, tutte accomunate da un'unica matrice: il miglioramento delle condizioni generali successive alle infusioni con le staminali. L’hanno urlato, i genitori, ma qualcuno non ha creduto loro. Eppure riscontri come l’aumento di peso, la riduzione della salivazione, la crescita dei denti, la capacità di tossire, i miglioramenti della deglutizione e della respirazione sono stati messi a disposizione di tutti.  Tutto merito di Stamina e del metodo di Davide Vannoni? Anche a questo si è risposto, grazie alla testimonianza del dott. Marcello Villanova, neurologo. Intellettualmente onesto, ha affermato di non aver alcun legame con Stamina. “Nonostante io mi sia recato a casa Celeste e Sebastian da scettico, ho dovuto riscontrare - sulla base di test e video - che le staminali mesenchimali hanno portai la bambina a ruotare su un lato, cosa che invece mai accade in caso di patologia SMA1, quella che affligge Celeste. Il risultato ha sbalordito anche il prof. Bach di Newark (U.S.A.), luminare di livello mondiale. A chi accusa Vannoni di essere un nuovo Di Bella, io ribatto che il cocktail-Di Bella era a base di sostanze ignote, le staminali invece sono stranote e su di esse esistono lavori scientifici a bizzeffe”. La scienza è curiosità, deve andare oltre - dichiara Villanova. Che importa a chi sia venuta l’idea? Importa invece che vi sia uno screening più ampio, per dare riscontri più approfonditi. Anche su Sebastian i riscontri sono stati eccezionali. ”Adesso mantiene il capo eretto, denota tono muscolare nelle gambe, stringe il dito”. A chi si aspettasse di vedere ballare questi piccoli ammalati, tutto ciò appare irrilevante: invece sono traguardi insperati se valutati riguardo a malattie come SLA, morbo di Krabbe, leucodistrofia, traumi post-parto. Chiarissimo anche quel papà che per venire a Roma si e’ alzato alle 4 del mattino: “Ma davvero mi farei ore e ore di strada da Trento a Brescia, per far fare un’anestesia a mia figlia e correre il rischio di un’influenza o di un virus dentro l’ospedale se non avessi visti i miglioramenti? Allora io dico: venite a casa nostra, venite a trovarci, guardate di persona gli effetti delle staminali!”. l padre di Smeralda è sulla stessa lunghezza d’onda: “Io non so se sia il metodo Stamina a dare risultato, ma quello e’ l’unico rimedio che esisteva e che abbiamo dato alla bambina. Mia figlia fu a un passo dalla morte cerebrale, a gennaio e marzo 2012 fece due infusioni; notammo lacrimazione naturale, capacità di stare nel passeggio e di cambiare di posizione. Poi ci fu lo stop imposto dall’Aifa e solo nel luglio 2013 Smeralda ha potuto riprendere le infusioni. Questa pausa le ha compromesso i piccoli miglioramenti ed oggi e’ dovuta ritornare di nuovo al sondino per respirare, anche se mantiene autonomia encefalica”. La conferenza stampa è inoltre servita ai genitori per chiarire alcuni sviluppi recenti della vicenda. “Se il ministro Lorenzin (dopo il caso-Kazakistan legato ad Angelino Alfano e risolto da Emma Bonino, a Letta rimangono adesso questo oltre al Salva-Roma e alle slot-machine - N.d.A.) si chiede cosa mai sia accaduto, ebbene sappia che Stamina ha regolare autorizzazione. L’interruzione dell’Aifa nel 2012 fu dovuta alle indagini del dott. Guariniello; peccato che il dott. Luca Pani abbia ammesso che Aifa si sia mossa solo d’ufficio: nulla avrebbe fatto altrimenti, proprio in virtù dell’autorizzazione. Sarebbe interessante capire perché nessuno si sia mosso per controllare le cure somministrate ai bambini: se davvero c’era rischio di altre malattie, allora si è fatta omissione!”. Sempre alla Lorenzin è stato ricordato che “Colpevoli della vergogna da lai denunciata sono anche il Comitato Etico degli Spedali, lo stesso ministero della Sanità, l’ISS, il Centro nazionale Trapianti. Nel settembre 2011 gli Spedali e Stamina firmarono una convenzione per linee cellulari staminali per utilizzo autologo o eterologo nella medicina rigenerativa, al di fuori della sperimentazione”.

La stampa di scandalizza se la si dà alla gogna. A dare troppi meriti a Renzi alla fine si finisce alla gogna, scrive “Libero Quotidiano”. Lo ha capito a sue spese Massimo Gramellini, editorialista della Stampa nominato "giornalista del giorno" da Beppe Grillo. Gramellini si è aggiudicato il premio, riservato alle penne più invise e sbeffeggiate dal popolo del Movimento 5 Stelle, grazie alla sua performance da Fabio Fazio domenica sera a Che tempo che fa. Il sabaudo fustigatore radical chic ha ricostruito a modo suo, e un po' con l'accetta, la figuraccia fatta dal Pd in Parlamento sull'emendamento su slot machines e videopoker. "Nembo Kid Renzi - è la versione di Gramellini - è subito intervenuto, questa settimana sembrava un portiere: parava tutti gli autogol. Ha ordinato a tutti i parlamentari di mettere rimedio alla porcata e l’emendamento è stato cancellato". Peccato, ricordi Grillo, che le cose siano andate un po' diversamente: "Il 18 dicembre 2013 - scrive il comico politico - Endrizzi, cittadino portavoce del M5S al Senato, in occasione della discussione sul decreto Salva Roma ha denunciato l’emendamento vergogna del pdexmenoelle contro i comuni virtuosi che penalizzano le slot machine. Il Pd al Senato, e non alla Camera come dice Gramellini, nonostante la denuncia di Endrizzi ha votato a favore dell’emendamento, che è passato". Renzi, in qualità di segretario del Pd, sarebbe intervenuto solo in un secondo momento: "Il polverone mediatico sollevato grazie al M5S ha costretto Renzi a intervenire e il Pd ha messo una toppa dopo 3 giorni, non subito come propaganda Gramellini in diretta televisiva". Grillo, col dente avvelenato, contesta a Gramellini di "non aver citato il M5S", ricordando come "il pdexmenoelle neppure qualche mese fa ha votato contro la mozione M5S che cancellava il condono di svariati miliardi di euro ai signori delle slot". Tutto giusto, ma a onor del vero va anche ricordato che senza l'intervento di Renzi sui suoi onorevoli i 5 Stelle avrebbero potuto fare ben poco, essendo in minoranza e fuori da ogni tipo di rapporti politici con le altre forze parlamentari. Alla fine della querelle cosa resta, dunque? Grillo ha alzato la voce da par suo, sul blog, rivendicando un onorevole "date a Cesare quel che è di Cesare" che poco cambia la sostanza. E Gramellini, dal salotto progressista di Fazio, se ne esce con una bella candidatura tra i giornalisti additati al pubblico ludibrio dai grillini: dopo Maria Novella Oppo (l'Unità) e Pierluigi Battista (Corriere della Sera), tocca a lui. Non c'è che dire: un anti-pantheon sempre più largo. Beppe Grillo rilancia la crociata anti-giornalisti. Non è una novita, ma stavolta lancia anche una «rubrica segnaletica» e invita i militanti 5 stelle a indicare quegli articoli in cui movimento viene criticato. La prima segnalazione è per una giornalista dell'Unità. «Maria Novella Oppo - scrive Grillo in un post pubblicato sul suo blog - si vanta di lavorare all'Unità dalla fine del '73. Da allora non ha mai avuto un altro lavoro ed è mantenuta dai contribuenti da 40 anni grazie ai finanziamenti pubblici all'editoria che il MoVimento 5 Stelle vuole abolire subito. La Oppo appena può diffama pubblicamente il M5S...». L’iniziativa ha scatenato una grandinata di proteste anche all’interno del MoVimento. Il senatore 5 stelle, Luis Alberto Orellana, ha espresso così il suo dissenso: «Mi dissocio dall'attacco di Beppe Grillo ai giornalisti perché bisogna tollerare la critica anche se preconcetta. È pericoloso personalizzare su una giornalista con nome e cognome. Si scherza con la vita delle persone, è pericoloso. Giusto invece accusare l’Unità di avere un pregiudizio contro di noi».

Che Beppe Grillo non abbia un’alta considerazione di buona parte degli operatori italiani dell’informazione è cosa nota a tutti. Ma l’ex comico genovese ha (ben)pensato di alzare il tiro inaugurando una rubrica sul suo blog volta a segnalare i giornalisti “sgraditi”. A finire per prima nel mirino è stata Maria Novella Oppo, di cui Beppe Grillo ha fornito ieri sul suo sito un impietoso identikit, con tanto di foto segnaletica. “Si vanta di lavorare all’Unità dalla fine del ’73 - ha scritto di lei il “megafono” del M5S - Da allora non ha mai avuto un altro lavoro ed è mantenuta dai contribuenti da 40 anni, grazie ai finanziamenti pubblici all’editoria che il Movimento 5 Stelle vuole abolire subito”. “La Oppo appena può diffama pubblicamente il M5S - ha sottolineato Grillo - Il M5S abolirà il finanziamento pubblico all’editoria e la Oppo dovrà cercarsi un lavoro”. Ma a scatenare le polemiche più furiose è stato il post scriptum posto in coda al suo intervento: “Segnalate gli articoli dei ‘giornalisti’ stile Oppo per la nuova rubrica del blog: ‘Giornalista del giorno’”, ha chiesto il genovese ai visitatori del suo blog. L’”editto telematico” lanciato ieri dal fondatore del M5S ha sdegnato tutti. Da destra a sinistra, un coro di indignazione generale si è levato per condannare le parole del blogger. Tra i primi a reagire, il presidente del Consiglio, Enrico Letta: “Solidarietà per Maria Novella Oppo, schedata e lapidata verbalmente da Grillo - ha scritto su twitter il premier - Democrazia è rispetto della libertà dei giornalisti di criticarti”. A dire la sua è stata anche la presidente della Camera, Laura Boldrini: ”E’ preoccupante e pericoloso - ha scritto in una nota - stilare liste di proscrizione dei giornalisti sgraditi e sottoporli alla gogna digitale, versione 2.0 dei pestaggi di un tempo”. Tranchant anche il commento di Franco Siddi, segretario della Fnsi (Federazione nazionale stampa italiana): “Per fortuna Beppe Grillo è anche un comico e spero che questa caratteristica gli rimanga - ha dichiarato - perché altrimenti vorrebbe dire che si candida a fare la politica con l’olio di ricino e questo non farebbe bene per primo a lui stesso e al suo movimento”. Il fiume di polemiche che ha investito l’ex comico ha spinto i deputati del M5S a intervenire: “A chi ci accusa di fascismo per aver pubblicato la foto di una diffamatrice di professione - hanno scritto in una nota - rispondiamo che da oltre un anno Gianroberto Casaleggio, Beppe Grillo e tutto il Movimento vengono accusati, tra le altre cose, di essere massoni, razzisti, di agire contro i terremotati, di avere proprietà coperte all’estero, di tiranneggiare i gruppi parlamentari, di aver costruito una setta e di aver assunto parenti alle dipendenze di deputati e senatori”. “A chi dice che pubblicare una foto di una persona significa esporla a possibili atti criminali - hanno rincarato i parlamentari del M5S - rispondiamo così: la stampa lo fa ogni giorno con noi”. Considerazioni, quelle messe nere su bianco dai pentastellati, non condivise dal collega al Senato, Luis Alberto Orellana: “Mi dissocio dall’attacco di Beppe Grillo ai giornalisti perché bisogna tollerare la critica anche se preconcetta - ha messo in chiaro il “dissidente” - È pericoloso personalizzare su una giornalista con nome e cognome. Si scherza con la vita delle persone, è pericoloso”. E a prendere le distanze dall’ultimo intervento di Beppe Grillo è stato anche Dario Fo, che neanche una settimana fa ha calcato, insieme al blogger, il paco del terzo Vaffa-Day: “Non accetto un linguaggio di questo genere - ha commentato il Premio Nobel - Non bisogna scendere alla brutalità dei giornalisti. Io non sono d’accordo sul fare la polemica su questi livelli”.

Beppe Grillo non arretra di un passo nei confronti dei giornalisti tv ormai considerati apertamente nemici del Movimento 5 Stelle. E se l’opinione del leader su Ballarò e Giovanni Floris era ben nota da tempo (meno di un mese fa si chiese se fosse “un dipendente assunto dal pdmenoelle alla Rai“), continua a stupire l’accanimento contro l’ideatrice e conduttrice di Report Milena Gabanelli, fino a poche settimane fa magnificata come esempio di giornalista libera ed indipendente dal potere politico e indicata a furor di popolo dagli iscritti al Movimento come candidata alla Presidenza della Repubblica, prima che la sua rinuncia facesse emergere l’ipotesi Rodotà. Beppe Grillo non rinuncia alla sua crociata contro l’informazione televisiva e dopo aver attaccato Santoro, Gruber, i giornalisti Rai e quelli Mediaset più o meno indistintamente, torna a colpire i bersagli più frequenti delle ultime settimane. Con Ballarò i precedenti sono tanti: l’ultimo in ordine di tempo è un attacco a Floris dal suo blog in merito ai sondaggi proposti nel talk show, mentre anche i deputati 5 Stelle hanno discusso e polemizzato con gli inviati di Ballarò. Con la Gabanelli la bomba è scoppiata dopo l’ultima puntata di Report, in cui è stato trasmesso il servizio di Sabrina Giannini (la stessa giornalista che sollevò il polverone sulle case di Di Pietro) dedicato al finanziamento del Movimento 5 Stelle e del blog. Grillo è tornato sulla questione nel bel mezzo di comizio a Mascalucia, in provincia di Catania, riscuotendo gli applausi della folla accorsa ad ascoltarlo: “Non ce l’ho con i giornalisti, ma io non dimentico niente (…) Faremo i conti con i Floris e i Ballarò, con Rodotà e la Gabanelli, quelli che si sono rivoltati contro di noi (…) Faremo un culo così all’informazione collusa, che racconta balle su balle, cerca di tirare fuori cose incredibiliLoro le mani loro non le battono, le baciano…“ Beppe Grillo ha infilato nella sua invettiva contro la stampa anche il giurista Stefano Rodotà, che aveva osato fare un’analisi critica della strategia del Movimento 5 Stelle all’indomani del risultato deludente del primo turno delle amministrative di maggio. Definito in un post delirante un “ottuagenario miracolato dalla rete“, Rodotà aveva preferito non replicare. Attaccato dalla base e dagli stessi simpatizzanti 5 Stelle, Grillo ha poi ribadito che la sinistra non ha eletto Rodotà Presidente perchè avrebbe fermato Berlusconi e di non avere nulla di personale contro il giurista, che però “vuole fare una sinistra con i rossi, gli arancioni… Noi abbiamo la nostra natura, siamo sopra“.

Quanto ai giornalisti, dalle pagine del suo blog era tornato a tuonare contro il suo bersaglio preferito, la Rai lottizzata dai partiti attraverso un sistema di nomine che permette alle forse parlamentari di spartirsi le poltrone a tutti i livelli della dirigenza in Viale Mazzini. Il post, nemmeno a dirlo, si intitola Rai: la voce del padrone e attacca le reti del servizio pubblico, chiedendo ancora una volta per il Movimento 5 Stelle la presidenza della Commissione parlamentare di Vigilanza: “Rai1, Rai2 e Rai3 sono occupate dai partiti. Non è una notizia. Non è una novità. Il vero scandalo è che questo non dà più scandalo (…) una Rai lottizzata. Un non luogo dell’informazione che fa rimpiangere persino l’era socialista, quando di tre assunti uno era democristiano, l’altro socialista e il terzo bravo. Ora il terzo viene spartito tra Sel e Lega (…) Quando c’è un colpo di Stato, la prima cosa messa in atto è il controllo dei mezzi di informazione (…) Ora, il M5S è stufo di prendere schiaffi e di essere, allo stesso tempo, preso per il culo dalla Rai. O ci verrà affidata la presidenza della Rai al più presto, sono già passati tre mesi dalle elezioni, o ne trarremo le conseguenze“. A questa regola non potevano mancare i finanziamenti all’editoria passati dai 137 milioni di euro del 2013 ai 175 del 2014. E’ la famosa spending review di Capitan Findus Letta. Le regole di mercato infatti per i partiti e per i giornali non si applicano mai. Da oggi inizia un viaggio indimenticabile nei bilanci dei giornali assistiti. Il terzo quotidiano in classifica per accesso alla greppia dei soldi pubblici nel 2012 è stato L’Unità con 3.615.894 di euro. Iniziamo da questo glorioso foglio la lettura del bilancio. L’Unità, o Nuova Iniziativa Editoriale s.p.a., disponeva nel 2012 di 85 dipendenti di cui 1 dirigente, 23 impiegati e 61 giornalisti (2,6 impiegati per giornalista). La media vendite del 2012 sul 2011 è diminuita del 19% con una perdita di 7.529 copie, passando da 38.656 a 31.127. Anno su anno i ricavi delle vendite e delle prestazioni sono scesi a 12.023.088 euro rispetto a 15.189.629. La perdita, a livello di risultato netto dopo le imposte, nonostante i generosi finanziamenti pubblici, è stata di 4.637.124. L’Unità è come un calabrone, non si sa come faccia a volare, ma non fallisce mai, come qualunque società non assistita avrebbe fatto da tempo. Nella relazione sulla gestione e sull’andamento economico e finanziario dell’esercizio 2012, a scusa del disastroso bilancio, l’Unità ci svela un segreto che finora era stato taciuto ai suoi lettori da sempre illuminati dalla luce in fondo al tunnel prima di Monti, sostenuto dal pdexmenoelle, e poi da Capitan Findus Letta, c’è la crisi! “Il quadro economico del paese continua ad essere poco rassicurante. Le stime sulla crescita del PIL nel 2012 e nel 2013 sono state più volte riviste verso il basso e i provvedimenti sulle recenti manovre fiscali e finanziarie incideranno pesantemente sui consumi interni e sul mercato del lavoro”. L’Unità si è anche accorta del web:”L’era digitale, dominata dall’esplosione del web e da possibilità pressoché illimitate di veicolazione di notizie, immagini, suoni, rappresenta un cambio di paradigma sia nella produzione che nella fruizione di informazioni”. Come uscire dalla crisi? La pronta risposta dell’Unità si chiama “PD Kiosk” “rispetto alla quale è già stato concluso un accordo triennale con minimo garantito da parte del PD (con che soldi? quelli dei finanziamenti pubblici? ndr), e sono allo stato dei fatti in corso trattative con Coop, CGIL, Unipol ed altri importanti players d’area che potranno mutuare la versione dell’hub, originalmente pensata per i tesserati del Partito Democratico”. L’Unità ha del resto tutti numeri per farcela, in particolare nel mondo digitale, come riportato da Innova et Bella “Nello studio “Facebook Best Newspapers 2011″ pubblicato nel mese di giugno 2012 a cura di Innova et Bella, il sito del giornale si è posizionato al secondo posto dopo quello del Corriere della Sera nel panorama italiano e al sesto posto in termini assoluti a livello mondiale in termini di qualità, pratiche relazionali e iniziative”. Un radioso futuro aspetta l’Unità, con i minimi garantiti del PD e i massimi garantiti di Letta. Ad maiora. Beppe Grillo

" Cari colleghi giornalisti, proscritti da Beppe Grillo", scrive Luisella Costamagna. "Cari giornalisti presunti proscritti da Beppe Grillo, dico presunti perché noi che con le parole lavoriamo dobbiamo smetterla di usarle a caso, evocando scenari nefasti che nulla hanno a che vedere con la realtà. Dire che Grillo fa “liste di proscrizione” dei giornalisti sgraditi (Oppo, Merlo, Battista) è una sciocchezza. Le liste di proscrizione, nate nell’antica Roma per colpire gli avversari politici, comportavano l’esilio o la morte, e oggi indicano reale messa al bando, censura, bavaglio. Non mi risulta (e ci mancherebbe!) che abbiate subìto questo trattamento da Grillo, e il fatto che sia stato evocato nel blog nei confronti della Oppo, con il (deprecabile) “dovrà cercarsi un lavoro” dopo l’abolizione del finanziamento pubblico all’editoria – battaglia che, condivisibile o meno, Grillo conduce da anni – fa un’enorme differenza. La stessa che passa tra realtà e immaginazione. E che dire dell’improprio parallelo tra gli attacchi ai giornalisti critici e l’“editto bulgaro”? Madornale sciocchezza pure questa. L’editto del 2002 di Berlusconi – che allora era premier e controllava Mediaset e Rai – contro Biagi, Luttazzi e Santoro per l’“uso criminoso” della tv pubblica, significò la cancellazione delle loro trasmissioni e un atto intimidatorio nei confronti dell’informazione tutta, invitata (?) a stare buonina. La storia mai scritta non è solo quella dei grandi epurati ma anche dei piccoli: i tanti giornalisti e redattori precari che si sono trovati all’improvviso senza lavoro, senza stipendio e senza la possibilità di appellarsi a tribunali. Che c’entra tutto questo con Grillo? Assolutamente nulla. Ed è inaccettabile anche che si dica – come hanno fatto importanti rappresentanti del Pd, ma non solo – che i suoi metodi “portano alla memoria il peggior squadrismo”. Ma avete una vaga idea di cos’era lo “squadrismo”? Se non un libro, consultate almeno la Treccani! Troverete due parole inequivocabili: “violenza armata”. È chiara la differenza abissale tra ieri e oggi? Sia chiaro: Grillo sbaglia a prendere di mira i giornalisti che lo criticano. Siamo già al 57esimo posto al mondo per libertà di stampa, dopo Burkina Faso e Ghana: non ci si metta pure lui. Ma perché, per un attimo, non considerate anche il rovescio della medaglia? Grillo ha raccolto il 25% dei con- sensi, ma a novembre nei Tg Rai e Mediaset (dati Agcom) il “tempo di notizia” (non di parola!) dedicato al Movimento 5 Stelle è stato, rispettivamente, del 3,46 e del 2,43% (per dire, il PD ha avuto il 20 e il 25%). Spegne la tv e sui giornali gli danno dello squadrista, proscrittore bulgaro, “non ancora” terrorista, camorrista, mafioso, con eletti che non hanno “fatto niente di utile per il popolo italiano” se non “pagliacciate”, “gazzarre” e “i soldi pubblici che si sono tenuti sono comunque troppi”... Non scapperebbe anche a voi un vaffa? Un cordiale saluto", Luisella Costamagna.

Perché Beppe Grillo ha ragione sui giornalisti. Parola di giornalista non grillino. I leader del Movimento 5 Stelle intensificano la campagna di denigrazione contro giornalisti più o meno noti, tanto da aver avviato anche un sondaggio su chi è più fazioso... Ma non tutti si stracciano le vesti. Ecco perché. Un intervento contro corrente. Caro direttore, no, non ci sto. Non ci sto a stracciarmi le vesti e a difendere la corporazione giornalistica dalle randellate parolaie di Beppe Grillo. No, non ci sto. E non solo perché quegli stessi toni – aggettivo più, aggettivo meno – li abbiamo sentiti in passato da Silvio Berlusconi, Umberto Bossi e, con più glamour, anche da Massimo D’Alema (“iene dattilografe”) che auspicò in una intervista a Lucia Annunziata per Prima Comunicazione di lasciare tranquillamente i giornali nelle edicole. Preveggenza dalemiana…Non ci sto. E non perché il comico divenuto leader politico abbia ragione nei vaneggiamenti ad personam contro Milena Gabanelli, Corrado Formigli, Andrea Vianello, Giovanni Floris e altri ancora. Ma perché le difese corporative e a prescindere non mi appassionano, anche perché sono spesso false, o quanto meno parziali. Veniamo al dunque. Grillo di che cosa ci accusa? Di essere servi dei poteri, non solo di quello politico ma anche economico e finanziario. Qualcuno può dire che non è vero? Certo, ci sono le eccezioni, non mancano le inchieste sui grandi giornali (che hanno risorse da dedicare a inchiestone, se lo volessero), ma spesso si occupano della Casta politica, salvo poi scoprire – come ha rivelato Massimo Mucchetti – che erano anche ideate per discese in campo politiche, poi sfumate. Ma a parte qualche fotocopiatore di atti giudiziari magari non pubblici, buoni spesso ad allestire circuiti mediatico-giudiziari dagli esiti incerti, la grande massa dei giornalisti non può, non vuole o non ha il tempo di scavare, di chiedere, di studiare carte e bilanci, di trovare notizie. Mentre comportano minor fatica e tempo le interviste, specie quelle sdraiate che tanto piacciono ai giornalisti che vogliono piacere. Ho difeso Grillo? Rispondo, grillianamente, con un Vaffa a chi mi dà del Pentastellato.

Giornalismo e rottamazione giornalistica: sul perché sto con Grillo al 100%. E sui “soliti stronzi” al potere…, scrive Rina Brundu. Prosegue la campagna antigiornalistica grilliana (un giornalista alla gogna al giorno) e prosegue la pubblicazione, su questo o quel giornale-che-conta della filippica risentita e offesa a difesa della cosiddetta “libertà di stampa”. Come ho già scritto in altra occasione in questa particolare campagna io sto con Grillo, al 100%. Ritengo anche che per difendere le loro ragioni i giornalisti dovrebbero smetterla di tirare fuori l’artiglieria pesante e di stracciarsi le vesti nella pubblica piazza chiamando in causa la libertà di stampa (appunto) e il sacrosanto diritto della Stampa di criticare. Lo avessero usato quel diritto quando era il momento probabilmente non si sarebbe giunti alla situazione di sfascio con cui ci si deve confrontare oggi. Di fatto, mentre Renzi si affretta a rottamare i politici di sinistra e i forconi a rottamare tutti gli altri (Renzi incluso), nessuno ha pensato che occorrerebbe rottamare anche i venerati maestri di un’altra casta nefasta, quella giornalistica. Una casta il cui potere è rimasto fondamentalmente immutato ed è stato solamente sfiorato dalle cose della crisi. O, per meglio dire, a pagare la crisi editoriale sono stati i “galoppini” digitali, gli oscuri ghost-writers degli uffici stampa, i giornalistucoli di seconda categoria. Au contraire, i venerati maestri sono tutti presenti, qualcuno riciclato in qualche programma considerato meno-trendy solo pochi anni fa, ma alla fine della fiera l’importante è esserci, l’importante è magnà. L’importante è pure continuare a imbastire questi salotti mediatici buoni (presenziandovi in guisa di sessantottini incazzati e satolli), a corollario di qualsiasi scorreggia venga dai palazzi che contano, l’importante è continuare a sottolineare con la dovuta enfasi le “perle” del politico di riferimento, l’importante è continuare a sproloquiare con discorsi obsoleti (ma ci sono anche editoriali scritti e pubblicati su giornali di primo livello che sono un’apologia della banalità informazionale e comunicazionale!), ridondanti, sovente ridicoli, la maggior parte delle volte privati di un qualsiasi know-how operativo e/o appeal per il mondo che cambia, tanto ci sarà sempre un allocco col telecomando in mano che decide di restare su quel canale. E in tutta questa baraonda mediatica scadente non si sono neppure accorti che il vero giornalismo moderno lo fanno proprio i pochi che osano attaccarli, che osano mettere in dubbio la verità del verbo (con le sparate di Grillo che rientrano proprio dentro questi moderni requirements della professione!). Un poco come dire che dai tempi del grande Ennio Flaiano per il quale i giornalisti si dividevano in brillanti promesse, soliti stronzi e venerati maestri, le cose stanno forse cambiando. Che sia il tempo dei soliti stronzi al potere? Speriamo!

Grillo e il "giornalista del giorno": non equipariamo critica e linciaggio, scrive Fabio Chiusi, Giornalista, su Wired. Quando il 6 dicembre scorso sul blog di Beppe Grillo ha fatto la sua comparsa la rubrica «giornalista del giorno» si è levato il coro preoccupato e indignato di quanti vedevano nell’attacco dell’ex comico divenuto leader politico un invito al linciaggio, simile alle liste di proscrizione di poco democratica memoria. E non a torto. Basta ricordare il contenuto del post incriminato, il primo, contro Maria Novella Oppo: «si vanta di lavorare all’Unità dalla fine del ’73», si legge, e «da allora non ha mai avuto un altro lavoro ed è mantenuta dai contribuenti da 40 anni grazie ai finanziamenti pubblici all’editoria che il MoVimento 5 Stelle vuole abolire subito». Non solo: «La Oppo appena può diffama pubblicamente il M5S». Difficile sostenere sia una critica di merito. Più semplice invece pensare all’invito al tiro al bersaglio – puntualmente avvenuto tra i commenti. Ma è un errore pensare che la rubrica di per sé giustifichi paragoni con prassi squadriste. E non sempre il coro di indignazione ha ragione d’essere. Il post contro Massimo Gramellini, colpevole secondo Grillo di avere dimenticato di menzionare i Cinque Stelle nella battaglia al contestato emendamento sul gioco d’azzardo, presenta infatti toni e contenuti completamente diversi. Non si parla di «diffamazione» sistematica (per cui esistono i tribunali, Grillo, non il linciaggio digitale); non si suggerisce molto poco velatamente che la persona con cui si ha a che fare abbia campato alle spalle del contribuente senza fare nulla (o peggio, non facendo altro che diffamare) per decenni. Si prende invece un passaggio di un intervento (in questo caso, a ‘Che tempo che fa’), e si ribatte dicendo: «Vediamo cosa è successo veramente». Dall’insulto si passa a una sorta di fact-checking che, condivisibile o meno (non è questo il punto), rientra nel novero delle critiche pienamente legittime a un servizio di informazione che Grillo e i suoi ritengono scorretto. E in democrazia la critica è un segno di salute, non di malattia, del sistema. Il sistema perfettamente malato è quello in cui il dissenso è ridotto a zero, in cui ci sono gli incriticabili: e non fa molta differenza se lo sono i rappresentanti della classe politica o i giornalisti, che devono poter essere criticati proprio come tutti gli altri. Il rischio di equiparare critica e linciaggio è che i due termini diventino sinonimi. E quando ciò accade non ne viene niente di buono, per nessuno. Per questo è errato reagire negli stessi termini al trattamento subito da Oppo e alle parole contro Gramellini. Per questo è sbagliato scrivere che Gramellini finisce «nel mirino» di Grillo, proprio come Oppo. E per questo molti dei commenti letti anche dopo le segnalazioni nella rubrica di Francesco Merlo e Pierluigi Battista rischiano di essere controproducenti. Anche in questi due casi, infatti, i toni usati erano già diversi: per il primo, Grillo si è limitato a riportare un virgolettato di un pezzo in cui il giornalista di Repubblica sosteneva che i «manganelli» del leader M5S «rimandano alla ‘sgrammatica’ dei terroristi, dei camorristi, dei mafiosi» (questo invece è un pacato invito al confronto?); per il secondo, il peggiore insulto è un sarcastico «è riuscito a superarsi». Se questo è fascismo, temo che prima o poi lo siamo stati tutti. Il punto, come nota Arianna Ciccone su Facebook, è che la responsabilità di questa erosione della differenza tra critica e linciaggio è anche dello stesso Grillo. Del suo linguaggio e dei suoi modi, adatti a un comico ma non a chi debba gestire oltre il 25% dei consensi degli elettori. E se c’è una regola aurea in rete, un ambiente che delle regole auree di norma se ne infischia, è che è molto probabile che a un certo linguaggio corrispondano certi lettori. E certi commenti. Per questo non servono leggi per regolamentare odio e insulti in rete: basterebbe, per evitare il rischio che il «tribunale assoluto dei retweet» (Mantellini) si traduca in giustizia sommaria (anche fisica, la storia dimostra che è possibile), imparare a chiedere dialogo e deliberazione online offrendo dialogo e deliberazione online. Se offri insulti, ricevi insulti. Al punto di riceverne anche quando non ne dai. È il punto a cui siamo giunti oggi, e vergare editoriali indignati per poi comportarsi esattamente come i tanti deprecati in quegli stessi editoriali indignati non servirà a metterci al riparo dalle conseguenze nefaste dell’identificazione di critica e linciaggio.

La guerra tra Grillo, i media ed il sistema. In Italia abbiamo giornalisti o pennivendoli?, scrive Abate Faria su "Il Contagio". Non le lotte o le discussioni devono impaurire, ma la concordia ignava e l’unanimità dei consensi (Luigi Einaudi). Le due grandi armi impiegate dai partiti per riuscire sono i giornali e le associazioni (Alexis de Tocqueville). Sono mesi che assistiamo al confronto-scontro tra Grillo ed i nostri media. Prima di attirarmi le critiche dei giornalisti (guai a chi li tocca!!altro che casta dei politici…) faccio una premessa. Come ho sempre detto, credo che ogni critica al m5s debba essere preceduta da due cose:

- l’analisi e lo studio del movimento e le ragioni del suo successo;

- l’accettazione del movimento stesso (ha ottenuto il voto del 25% dei cittadini!)

Personalmente vedo alcune serie lacune nel movimento di Grillo:

- il personale politico non mi pare all’altezza del compito;

- la democrazia diretta non può esistere totalmente (ma è giusto e sacrosanto trovare forme nuove di partecipazione, proporre referendum senza quorum e non solo abrogativi, l’uso della rete…);

- manca di strutturazione organizzativa (la rete può supplire, certo, ma non può risolvere tutto).

Tuttavia, provo un certo fastidio crescente nelle continue critiche rivolte al m5s dalla nostra stampa. Mi urta parecchio. Io che non mi sento “grillino”, mi trovo costretto nuovamente a difendere Grillo, perchè, scusate, mi sono proprio “rotto le palle”. Credo sia un sentimento molto diffuso tra i cittadini peraltro e non è detto che non sortisca l’effetto contrario. Sono mesi che cercano in ogni modo di screditare Grillo e il Movimento. Prima il “casuale” fuori onda di Favia. Fu registrato di nascosto (il giornalista è  indagato dalla Procura di Bologna) 4 mesi prima e messo in onda da Formigli con l’avvicinarsi delle elezioni. Domando: i giornalisti hanno mai registrato di nascosto i politici come hanno fatto con Favia? Provate con D’Alema o Casini..Ne verrebbero fuori di tutti i colori! Quindi la ridicolizzazione politica di Napolitano (che non sentiva nessun boom). Grillo è stato definito: qualunquista,  terrorista, maschilista, violento, dittatore, eversivo etc, etc. Per Bersani è un “fascista” e per Berlusconi un “black block” e un “estrema sinistra”. Avete mai letto su un giornale che Napolitano da giovane fu fascista (iscritto ai guf), poi fervente comunista (a favore delle repressioni sovietiche e persino contro Berlinguer sulla “questione morale”), poi amico di Kissinger ed oggi vicino al tecnocraticismo europeo? No, quando mai. Ovviamente non è mancato Monti, che ha definito Grillo pericoloso e devastante, invitandolo ad andare nelle piazze greche (domanda: ma dopo aver detto che l’euro era un successo proprio per la Grecia, puo’ evitare riferimenti al paese ellenico che lo rendono semplicemente penoso e ridicolo?!). Dopo le elezioni, ecco che tornano i media… Solito film, schema già visto. Il Corriere e la Repubblica in primis..che “sfottono” i grillini (quelli del micro chip o quelli che non sanno dove è il parlamento)....Per carità…un po’ coglioni lo sono....Però, domanda: avete mai visto sulla home page di Corriere o Repubblica questi video? I nostri parlamentari hanno votato il Fiscal Compact senza sapere cosa sia!! Ci rendiamo conto? Ovviamente i giornalisti non hanno dedicato molto spazio per informare i cittadini su questo tema che, invece, ci interesserà molto da vicino per i prossimi 20 anni!! E la sparata di ieri del Corriere su Grillo che evoca la violenza nelle strade? Questa cosa, proprio, mi ha fatto girare le palle. Per tutta la giornata di ieri titoli e titoli, per una intervista rilasciata al Time. Dopo il Corriere, Repubblica, La Stampa, ecco gli altri…

Tempi Grillo: «Se falliamo noi scoppierà la violenza nelle strade»

Il Fatto Quotidiano Governo, Grillo: “Senza di noi la violenza”.

L’Unità Grillo: «Se falliamo noi, violenza Giornalisti? Vogliono sputtanarci».

Avvenire: Grillo: «Se falliamo violenza nelle strade».

Bersani, preoccupato che minaccia: “Grillo non evochi violenza il Paese può morire”.

Poi, interviene il giornalista del Time con un tweet per smentire.

Dice testualmente Stephan Faris: “se falliamo noi violenza in strada del Corriere.it e’ una citazione fuori contesto. Grillo è stato chiaro: lui vede sè stesso come un’alternativa alla violenza. Giusto per essere chiari, in nessun passo dell’intervista con il Time Grillo ha minacciato che ci sarebbero state violenze. Anzi, stava chiarendo che nella sua visione il M5S previene la violenza incanalando la rabbia del Paese all’interno del dibattito democratico”.

Ma ormai la frittata è fatta. Risultato raggiunto. Bel pezzo di giornalismo italiano, non c'è che dire. Vi domando: possono il Corriere e la Repubblica fare un articolo così pesante sul leader del primo partito italiano senza neanche interpellare il giornalista del Time? Ma siamo matti? Minimo ci vorrebbero due giorni in home page di scuse a Grillo. Invece, nulla o quasi. Ed il giornalista inglese aggiunge: “I quotidiani italiani, fonti di notizie inaffidabili”. E anche Petra Reski (non proprio l’ultima arrivata) denuncia: “Voi italiani fabbricate bufale su Beppe Grillo”. In sostanza denuncia come come abbia trovato sul web notizie false che sarebbero uscite in una sua intervista. Quindi mi stupisco dello stupore (e dello sdegno) dei nostri media. Perchè Grillo dovrebbe rilasciare interviste a questi giornalisti? E perchè dovrebbe mandare in tv i suoi deputati? Ormai rimangono pochi spazi in tv per il “dissenso” rispetto al “pensiero unico”. Pensate alla trasmissione “l’Ultima parola” di Paragone: infilata fino alle elezioni ad orari da film porno nel palinsesto rai. Però non manca mai Porta a Porta…o trasmissioni spazzatura, nazional-popolari-da bar sport, giochi-quiz-nani-ballerine-bravi presentatori e minchiatine simili…Ieri Barbara d’Urso (si, quella dell’intervista genuflessa a Berlusconi..) col ”finto” grillino…Risulta che questo perfetto sconosciuto, tale Matteo De Vita, si sia iscritto ad un MeetUp solo il 24 febbraio!! Come si fa a farlo passare per “grillino doc”? Vi domando: quando avete visto rai1 o canale5 intervistare un “sostenitore” del Pd o Pdl, senza la presenza di politici di Pdl e Pd? Ma stiamo scherzando? Posso capire l’intervista a Messora o a Becchi (anche se non sono portavoci del movimento), ma al primo pirla che passa per strada, no..Non passa giorno, fateci caso, che in home page non ci sia un riferimento a Grillo che sia teso o a ridicolizzare il suo movimento o ad attaccarlo sulla scarsa democrazia interna, su Casaleggio, etc, etc. E allora, vengono fuori i “lati oscuri” di Grillo e le sue società costaricane…Ci si domanda chi ci sia dietro Grillo (Casaleggio) e chi ci sia dietro al guru…Ma qualcuno si è mai domandato in home page chi c’era dietro Casini? (Caltagirone) o dietro Monti?

DOMANDA: MA DOVE CAZZO SONO STATI I NOSTRI MEDIA IN QUESTI 20 ANNI?

1) hanno mai fatto una inchiesta (una sola!!) su come le banche evadevano 5 mld di euro?!!

2) hanno mai parlato di Mps, dal momento che tutti (dico tutti) negli ambienti politici e finanziari sapevano cosa c’era dietro Antonveneta e Mussari?

3) hanno mai scassato le palle al pdl per la mancanza di democrazia interna?

4) hanno sufficientemente criticato la farsa delle primarie pd (che non sono state affatto “libere”)?

5) hanno evidenziato la natura padronale dei nostri partiti (pdl, idv, etc)?

6) hanno mai svelato i segreti sulla gestione dei soldi pubblici dei partiti?

7) hanno condannato la casta e le varie consorterie?

8) hanno mai detto la verità sulla crisi economica? (per un anno intero ad esaltare, TUTTI, Monti mentre il paese crollava…).

9) hanno mai detto chiaramente cosa voleva fare Marchionne con la sua Fiat in Italia?

10) hanno mai denunciato la mancanza di democrazia in Europa?

11) hanno fatto servizi sulla tragedia che si sta consumando In Grecia?

12) trovate mai un articolo in home page sulla drammatica situazione di Portogallo e Spagna?

13) hanno mai svelato casi come quelli di Parmalat o Cirio?

14) hanno mai aperto un serio dibattito sul nostro ingresso nella moneta unica? Qualcuno ha mai dato spazio a voci diverse rispetto a quelle del PUDE? (partito unico dell’euro)? Hanno spiegato che razza di roba è il Fiscal Compact?

15) Avete mai trovato in home page di Repubblica o del Corriere articoli sui “lati oscuri” di Monti o di Passera o di Prodi? (su Repubblica di Berlusconi, si…).

No, signori....I nostri media non hanno fatto informazione libera in questi anni. Ovvio, qualche singolo giornalista sì…Ma nel complesso un quadro desolante. Poi s’arrabbiano se vengono chiamati pennivendoli. Diceva Mussolini: “improntare il giornale a ottimismo, fiducia e sicurezza nell’avvenire. Eliminare le notizie allarmistiche, pessimistiche e deprimenti”. Ecco..è esattamente quello che ad esempio è stato spesso suggerito da Berlusconi e che i media hanno fatto nascondendo il fallimento montiano per un anno intero. Le tv nazionali sono in mano ai partiti o a uomini politici (Berlusconi). I giornali sono in mano alle solite famiglie-consorterie-clan (legati alla politica e alla finanza). Come potrebbero fare informazione libera, se poi sussidiati dallo Stato? Esiste da noi oggi un serio ”giornalismo di inchiesta”? Ogni tanto arriva qualcosa, qua e là…Persino Report della Gabbanelli, arriva sempre tardi sui fatti (vedi Mps). Gli unici canali “liberi” sono tv e giornali locali e la rete (col limite che anch’essa ha…). Oggi i media comprendono fin troppo bene che il successo del movimento 5 stelle non mette in discussione solo i partiti, ma un sistema. Lo scrivevo nel post SOROS STUDIA GRILLO, IN ITALIA CI SI DIVIDE: BLACK BLOCK O FASCISTA?…Grillo non mette in discussione solo i partiti, ma il sistema che ha guidato il paese in questi ultimi decenni: politici, giornalisti, sindacalisti, banche, imprese…Alla fine ditemi: sono sempre le stesse persone in politica, nei giornali, nelle banche, nelle imprese, nel sindacato o no? Intercambiabili, perchè tutti facenti parte dello stesso sistema di potere. Dunque, ovvio, si “tengono” insieme, si spalleggiano. Monti e Passera passano dalle banche alla politica tranquillamente. La Fornero dall’Università, alle banche, alla politica.. I politici dal Parlamento alle fondazioni bancarie allo stesso modo. I giornalisti, pure. I sindacalisti-imprenditori anche…Tutti siamo disgustati dalla politica…In molti chiedono alla politica di cambiare, di riformarsi, di fare autocritica…Ma i nostri media, i sindacati, le banche, le imprese non dovrebbero fare la stessa identica cosa? Non sono responsabili quanto i nostri politici? Sentite un direttore di giornale chiedere scusa per aver raccontato balle per un anno intero ai cittadini sulla ripresa economica (che infatti non è arrivata)? Sentite un banchiere che dice che il sistema debba essere rifondato e rivoluzionato? Sentite un segretario di Cgil, Cisl e Uil che fa autocritica? No…Come i partiti…che hanno passato anni a promettere il taglio delle province e la riduzione dei parlamentari, la revisione del finanziamento pubblico ai partiti (che gli italiani avevano bocciato con un referendum), lo svecchiamento della propria classe dirigente…Nulla…non è successo nulla. Un paese irriformabile, in mano ai soliti noti da decenni, nella politica, così come nella finanza, nelle imprese, nei media…Qualcosa si è mosso ora, proprio perchè stava montando, col malcontento delle persone, lo tsunami politico-grillino. Ora…Io non avrei alcun dubbio in un momento di crescita economica sul vincitore di questa battaglia (vincerebbe 10 a zero questo sistema marcio), ma quando le pance di molti brontolano, i portafogli sono vuoti, molti perdono la casa o il lavoro, la povertà cresce con la disperazione…beh, allora la partita è aperta. Dico soprattutto ai media: non sarebbe ora di tornare a fare informazione? Faccio mia una frase di Montanelli: “chi di voi vorrà fare il giornalista, si ricordi di scegliere il proprio padrone: il lettore”. Ora o mai più.

Grillo: quello che noi giornalisti non abbiamo capito, scrive Arianna Ciccone. Dopo l’articolo di Giuseppe Smorto (Giornali maiali), la Repubblica ha pubblicato questo intervento della direttrice del Festival Internazionale di Giornalismo di Perugia. Che succede? Succede che un meteorite si è abbattuto su giornali, partiti, democrazia. E noi abbiamo sentito solo un rumore di fondo. La mia sensazione è che ci siamo arrivati impreparati: il 25% del Movimento 5 Stelle non nasce ora, eppure in tutti questi mesi, in tutti questi anni ci siamo raccontati un Paese che non c’era. Non abbiamo avuto l’umiltà e gli strumenti per capire e ancora oggi insistiamo: testardi, arroganti, presuntuosi e forse anche un po’ disorientati, o semplicemente superficiali. Il giorno dopo i risultati elettorali, l’unico commento che mi sono sentita di fare su twitter è stato questo: “è distruption della politica e del giornalismo”. La spallata data dal Movimento 5 Stelle (che è sì Grillo/Casaleggio, ma non solo) non riguarda esclusivamente i partiti ma anche i giornali, come fino a oggi li abbiamo intesi, fatti, vissuti. Giornali e trasmissioni tv che ci hanno raccontato un paese, forse assecondando il loro desiderio di realtà, che semplicemente non esiste: la vittoria scontata di Bersani (un centrosinistra dato addirittura al 37%) e l’alleanza con Monti (WOW!). Sembrava fatto, deciso. Ed è arrivato lo tsunami. Oggi questi stessi giornali cercano di raccontarci Grillo (definito da molti politici ma anche da diversi giornalisti ‘fascista’, ‘populista’ ecc. ecc.) e c’è chi si sforza di capire, mentre altri non sentono nemmeno l’esigenza di sforzarsi, perché Grillo (c’è anche un elettorato, eh…) fa parte di un altro mondo, quindi al limite basta un’infografica sul cappuccio. Vedo giornalisti inseguire sulla spiaggia uno che corre incappucciato, chiedendo: “darà la fiducia al governo?” Pochi giorni prima dello tsunami elettorale ho letto Michele Serra – ci sono cresciuta con i suoi articoli – sostenere convintissimo che Grillo, non rispondendo ai giornalisti e non andando in tv, avrebbe perso voti. Come è possibile che giornalisti di questo spessore (ho letto anche un Ilvo Diamanti che poi ha ammesso di non aver capito) non abbiano capito cosa stesse succedendo? Non rispondere al giornalista accredita ancora di più Grillo e il Movimento agli occhi di un elettorato che vede questi giornali, i giornalisti in generale, come parte del problema. Se siamo arrivati dove siamo arrivati (recessione, debito pubblico record, disoccupazione a livelli mai visti) è ovvio che l’opinione pubblica includa “i cani da guardia del potere” nella critica al potere (cioè la casta!). Da qui la popolarità del “via i contributi pubblici all’editoria”. I media mainstream hanno perso autorevolezza ed autorità (insieme ai grandi e piccoli partiti). Sul blog di Grillo – che distingue tra giornalismo politico e locale – si reitera il frame “giornalisti=casta, politici=casta”. E il frame si infila dentro una crepa, una nostra debolezza: non nasce dal nulla. Gioca su un aspetto reale della contiguità del giornalismo al potere, in ogni caso percepito come tale. Pensiamo alla lottizzazione della Rai: possiamo davvero dire che è solo responsabilità della politica? E quindi? E quindi, arrendiamoci. Se ancora oggi tentiamo di forzare la realtà ai nostri desideri, se quello che non ci piace o non lo raccontiamo o lo raccontiamo male (creando mondi/bolle di sopravvalutazione), allora siamo inutili. Davvero si può fare appello ai ragazzi 5stelle: apritevi ai giornalisti? No, credo di no. Se non si fidano, dovremmo porci e poi rispondere a una semplice domanda: “Perché?” E invece la reazione è: scandalo, non rispondono ai giornalisti, cacciano i giornalisti! E via titoloni di apertura su tutti i siti online (esattamente come previsto da frame, purtroppo). A parte che non ci sarebbe nemmeno la notizia, visto che è dal V-Day2 del 2008 che ci mandano a fare in culo (purtroppo). Ma poi non lo hanno fatto o non lo fanno anche altri? L’ultimo episodio è firmato Rosy Bindi con il giornalista Antonino Monteleone. La mia posizione di fronte a questo è: partiamo da noi, non da loro. Anzi dovremmo sforzarci di uscire da questa contrapposizione noi/loro. Cerchiamo di capire come sia possibile che siamo arrivati così impreparati davanti a questo ‘meteorite’. Attrezziamoci, studiamo, facciamo un bagno di umiltà. Tra l’altro non so se è chiaro: la presa in giro, la derisione dei parlamentari che si presentano in una loro riunione da parte di molti giornalisti alimenta la distanza e la diffidenza. Non sono opinioni personali, ricadono inevitabilmente sulla credibilità e sull’autorevolezza della testata e dei cronisti, che tutti insieme su Twitter sono anche il giornale per cui scrivono. In questi giorni secondo me non abbiamo dato proprio un bell’esempio. Capisco la tentazione della battuta; la capisco benissimo. Ma a volte un tweet in meno è cosa saggia. Non ho mai visto i giornalisti così compatti (trasversalmente) come contro Grillo/attivisti5stelle. Anche qui torna la semplice domanda: “Perché?”. A questo aggiungiamo la nostra inadeguatezza, se scriviamo che “non serve cacciare i parlamentari dal blog”; se solo oggi scriviamo dei Meetup (attivi dal 2005) il problema è nostro, e lo è anche quando oggi è una notizia che Grillo non è social. Leggevo la scorsa settimana una bellissima analisi di Barbara Spinelli e mi chiedevo: perché è stata pubblicata ora? Andava pubblicata due mesi fa, almeno. Siamo in ritardo, ci siamo arrivati tardi e male. Mi dicono: e quindi ora che si fa? Intanto la prima fase è prenderne coscienza, esserne consapevoli e non arroccarsi. ‘È come con la Lega’. No, non è come la Lega, è peggio: oggi viviamo un contesto di discredito dei giornali che peggiora ulteriormente il quadro, rendendolo più complesso e difficile da affrontare. Noi giornalisti oggi possiamo fare solo un altro grande errore: ostinarci a voler dettare la linea, quando serve solo fare buon giornalismo al servizio del lettore. C’è chi sostiene Grillo ai limite dell’house organ, chi spinge per l’accordo Pd-Grillo, chi per il Governissimo. E intanto perdiamo di vista la nostra funzione: cercare di capire la realtà che ci circonda, raccontare la realtà sforzandoci di capire e far capire. Ripeto: non forzando la realtà adattando il nostro racconto ai nostri desideri, perché quello che vediamo non ci piace (esempio: Non posso ‘pompare’ la petizione di Viola “Sostieni Bersani” con la speranza che Grillo capitoli. Prendendo così anche una cantonata giornalistica. Base di Grillo? I grillini contro il comico? Ma di che stiamo parlando?). Questo porta solo ulteriore discredito e allontanamento dei cittadini/lettori che continueranno magari a leggerci, ma solo per avere la conferma che siamo inutili.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO. MILENA GABANELLI.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Aldo Busi è stato bocciato all'esame di giornalismo, scrive “La Repubblica”. Il celebre scrittore aveva scelto di svolgere il tema di cronaca nera: immaginare un'intervista ai genitori di un ragazzo morto per overdose. Un capolavoro secondo l'autore di Sodomie in corpo undici ambientato nel Bresciano, dove sono nato. La commissione esaminatrice, però, non lo ha giudicato così. L'articolo doveva essere lungo 60 righe, mentre Busi ne ha scritte più di 100, e non avrebbe avuto il taglio giornalistico richiesto. Se è vero che Busi ha scritto più di 100 righe quando ne venivano richieste 60 ha commesso un errore tecnico-professionale molto grave ha commentato Franco Abruzzo, presidente dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia. Chi come me viene dalla scuola del Giorno di Italo Pietra sa benissimo che non c'è notizia che non possa essere raccontata in 50 righe. Un tempo col piombo si poteva anche essere un po' più elastici, ma oggi, con le nuove tecnologie, è fondamentale che il giornalista sappia rispettare le lunghezze. L'articolo-scandalo di Busi è intanto richiestissimo da settimanali e mensili disposti a pagare cifre altissime per poterlo pubblicare. La commissione esaminatrice deve decidere, però, se consentire o meno la restituzione del tema all'autore. Sono particolarmente fiero di annunciare la mia bocciatura all' esame ha detto l'autore non appena è uscito l'elenco degli ammessi alla prova orale è una riprova che chi ama la verità e sa scriverla non può essere un giornalista, ma solo uno scrittore. La ridicola corporazione dei giornalisti in Italia una volta di più dimostra la merdina in cui sta nuotando da quando c'è. A forza di esigere protezioni particolari e benefici per meriti inesistenti ha aggiunto lo scrittore si finisce con l'essere esposti su tutti i fronti e infatti non per niente i giornalisti sono equiparati ai magistrati. Adesso posso dire: evviva, mi considero promosso con 110 e lode nell'ordine della vita. Gli è andata male, capita a tutti ha commentato Guido Guidi, presidente dell'Ordine dei giornalisti. Ma perché insulta tanto la categoria quando proprio lui ne vuole far parte?

Indro Montanelli, durante la sua permanenza al fronte aveva iniziato a scrivere un libro-reportage, che diede alle stampe all'inizio del 1936, mentre era ancora all'estero. L'opera, XX Battaglione Eritreo, in maggio fu recensita favorevolmente da Ugo Ojetti (sul Corriere della Sera) e da Goffredo Bellonci; la sua tiratura raggiunse le 30.000 copie. Il padre di Indro, Sestilio, si trovava in Africa Orientale per dirigere una commissione di esami per militari e civili dell'esercito residenti nelle colonie. Intercesse presso il direttore del quotidiano di Asmara La Nuova Eritrea, Leonardo Gana, facendolo assumere. Montanelli ottenne così la tessera di giornalista.

Interessante ricordare anche in questo caso Montanelli. Domanda: come mai non diventò mai giornalista professionista? Per sua scelta o perchè .... le commissioni di esame sono composte da commissari dall’incerta preparazione. Inadatti a correggere chi, forse, è meglio di loro e non sono all'altezza di giudicare le prove d'esame dei candidati eccellenti.

Giornalisti, tracce d'esame 2013 con errori. E la gaffe viene "sbianchettata" online. I testi distribuiti durante la prova scritta, che ha visto bocciato un candidato su due tra cui Giulia Innocenzi, presentavano varie imprecisioni: una clamorosa confusione tra pm e gip, nomi sbagliati e persino il biglietto d'addio di Carlo Lizzani trascritto male. Possibile che la commissione non se ne sia accorta? Si chiede Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Grazie a Giulia Innocenzi, conduttrice di "Servizio Pubblico", la 115esima sessione dell'esame di Stato per diventare giornalista professionista è finita sui giornali di mezza Italia. La ventinovenne è stata infatti bocciata allo scritto, e la notizia (chissà perché) ha fatto il giro del web e dei giornali, su cui si sono cimentati - con ironie e sfottò - i commentatori e i telespettatori che non hanno in grande simpatia la collaboratrice di Michele Santoro. Una campagna stampa martellante, tanto che è dovuto intervenire il presidente dell'Ordine Enzo Iacopino, spiegando che la prova d'esame può essere «falsata dalla tensione, e non fotografa certamente le reali capacità» dei candidati. «Non dovrei dirlo proprio io, ma non è il tesserino che fa di una persona un giornalista». La Innocenzi è capitata in una sessione particolarmente dura: il 44 per cento dei candidati, infatti, non è riuscita a prendere il minimo (36) per passare agli orali. In genere la media dei bocciati viaggia sul 25 per cento. Stavolta la commissione è stata severissima, falcidiando quasi la metà dei ragazzi. Tuttavia la stessa commissione - composta da 5 esperti giornalisti professionisti e da un sostituto procuratore di Frosinone - ha fatto degli errori gravissimi nelle tracce d'esame che - commessi da un candidato - ne avrebbero comportato bocciatura sicura. Errori che poi sono stati malamente corretti sui documenti pubblicati sull'Ordine dei giornalisti alla fine dell'esame. L'Espresso ha avuto il documento originale consegnato ai candidati lo scorso 15 ottobre, ossia la traccia destinata a chi avesse voluto scegliere l'articolo di cronaca, in genere il più gettonato tra gli aspiranti professionisti. Una serie di lanci di agenzia (inventati) da trasformare in un pezzo. Ebbene, se il pm protagonista della vicenda immaginaria viene chiamato prima in un modo (Galese) e poi in un altro (Galesi) - segno di un refuso non corretto - a un certo punto la traccia indica che è il pubblico ministero stesso «a decidere se convalidare o meno il fermo» di alcuni sospetti. Anche i cronisti alle prime armi sanno che - come indica il codice di procedura penale - è il giudice per le indagini preliminari a poter ordinare la convalida del fermo. Il magistrato può solo fare la richiesta. Strano - e grave - che i commissari giudicanti di un esame di Stato non conoscano la differenza tra un gip e un pm. Accortisi dell'errore, sul sito dell'Ordine dei giornalisti sono corsi ai ripari, pubblicando la traccia "sbianchettata": la frase incriminata è scomparsa, e a penna è stata aggiunta la frase «chiederà al gip». Per chi s'è preparato per mesi, sborsando 400 euro come tassa per sostenere l'esame (a cui aggiungere i soldi per raggiungere Roma e il pernottamento: L'Ergife, l'hotel dove si tiene l'esame, è convenzionato e costa 140 euro a notte) un errore di questa portata ha il sapore della beffa. «Ci si aspetterebbe professionalità assoluta», spiega una ragazza che non è passata «ma non è così. È inaccettabile». Anche perché un altro errore, meno grave, c'era anche nella prima traccia di spettacoli, sulla recente scomparsa di Carlo Lizzani. Il regista si è gettato dalla finestra un mese fa, lasciando - come segnalarono le agenzie di stampa il 5 ottobre - un criptico biglietto d'addio ai familiari: «Stacco la chiave». I commissari, chissà perché, hanno semplificato il biglietto d'addio a modo loro, e la frase s'è trasformata in: «Stacco la spina». Anche nella seconda traccia di economia c'è, infine un'imprecisione: si legge che «entro oggi (il 15 ottobre, giorno dell'esame, ndr) il governo deve presentare in Parlamento la legge di stabilità». Non è così: la Finanziaria quel giorno era solo stata approvata dal Consiglio dei ministri: solo nei prossimi giorni verrà discussa dal Parlamento.

GIULIA INNOCENZI E L’ESAME TRUCCATO DI GIORNALISMO.

Quando un esame truccato, truccabile, o comunque irregolare miete vittime illustri e scoppia la bagarre.

Tra ipergarantiti e affamati, il disordine dei giornalisti. «Mettere i giornalisti nel calderone delle liberalizzazioni è sbagliato. Senza l’Ordine sarebbe la giungla», ha detto Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti. Eppure la professione sembra già una giungla, divisa ormai tra chi ha i diritti (ma solo il 19% degli iscritti ha un contratto giornalistico) e chi lavora per poche lire ad articolo (tra i free lance, 6 su 10 hanno un reddito lordo annuo inferiore ai 5.000 euro). Tutti i dati nella nostra infografica, quinta della serie sulle liberalizzazioni. Reportage suL’Inkiestaa cura di Carlo Manzo e Paolo Stefanini. Ha collaborato Christiana Antoniou.

Come si diventa giornalista?

La professione è regolata dalla legge 69 del 1963. Non è necessaria la laurea, è sufficiente la licenza di scuola media superiore. I giornalisti si dividono in professionisti e pubblicisti. È professionista chi esercita in modo esclusivo e continuativo la professione di giornalista. È pubblicista chi svolge attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercita altre professioni o impieghi.

Giornalista professionista. Per diventare professionista e iscriversi nel relativo elenco, è necessario:

A) svolgere il praticantato (18 mesi presso una redazione giornalistica) o frequentare una scuola di giornalismo (biennale) riconosciuta dall’Ordine. Nel primo caso è necessario frequentare anche uno dei corsi di formazione o preparazione teorica (anche “a distanza”), della durata minima di 45 ore, promossi dal consiglio nazionale o dai consigli regionali dell’ordine;

B) superare l’esame di idoneità professionale. Il praticante deve sostenere la prova di idoneità professionale entro 3 anni dalla data di iscrizione nel registro dei praticanti.

Giornalista pubblicista. Per iscriversi nell’elenco dei pubblicisti è necessario aver svolto un’attività giornalistica continuativa e regolarmente retribuita, per almeno due anni e comprovarlo con elenco di articoli, giustificativi fiscali e dichiarazione del direttore responsabile su carta intestata.

I free lance. Chi è già iscritto all’albo come pubblicista e svolge attività giornalistica da almeno tre anni, con rapporti di collaborazione coordinata e continuata, con una o più testate qualificate allo svolgimento della pratica giornalistica, può chiedere al consiglio regionale dove risiede l’iscrizione al registro dei praticanti e sostenere l’esame. È obbligatoria l’iscrizione all’istituto di previdenza.

L’esame. Prevede una prova scritta e una orale.

Lo scritto (che solo dal 2009 viene svolto con il computer, in precedenza con la macchina per scrivere) consiste:
A) nella sintesi di un articolo in un massimo di 30 righe di 60 caratteri ciascuna, per un totale di 1.800 battute;
B) nello svolgimento di una prova di attualità e di cultura politico-economico-sociale riguardante l’esercizio della professione (questionari a risposta aperta);

C) nella redazione di un articolo su argomenti di attualità scelti dal candidato tra quelli, in numero non inferiore a sei (interni, esteri, economia-sindacato, cronaca, sport, cultura-spettacolo) proposti dalla commissione. L’articolo non deve superare le 45 righe da 60 caratteri ciascuna per un totale di 2.700 battute compresi gli spazi.

L’orale consiste in un colloquio diretto ad accertare la conoscenza di: elementi di storia del giornalismo; elementi di sociologia e di psicologia dell’opinione pubblica; tecnica e pratica del giornalismo; ordinamento giuridico della professione di giornalista e norme contrattuali e previdenziali; norme amministrative e penali concernenti la stampa; elementi di legislazione sul diritto di autore; etica professionale; elementi di diritto pubblico. Comprende anche la discussione di un argomento di attualità, liberamente scelto dal candidato e anticipato in forma scritta con una tesina (5500/6000 battute).

La Commissione d’esame. La commissione di esami è composta da due magistrati, designati dal presidente della Corte d’appello di Roma, e da cinque giornalisti professionisti, iscritti nel relativo elenco da non meno di dieci anni, non facenti parte del Consiglio nazionale o di Consigli regionali, dei quali almeno quattro esercitino la propria attività presso quotidiani, periodici, agenzie di stampa e presso un servizio giornalistico radiotelevisivo, in ragione di uno per ciascuno di detti settori di attività. Il segretario della commissione è scelto tra professionisti iscritti nel relativo elenco da almeno cinque anni. La commissione non può esaminare un numero di candidati superiore a 400. Se supera lo scritto un numero superiore vengono create delle sottocommissioni.

Il ruolo dell’ordine.

I Consigli.

– provvedono alle iscrizioni all’Albo professionale e alle cancellazioni;

– hanno poteri di vigilanza per la tutela del titolo di giornalista, in qualunque sede, anche giudiziaria, e contro l’esercizio abusivo della professione;

– garantiscono l’osservanza delle norme di etica professionale, «vigilando sulla condotta e sul decoro degli iscritti» e adottando provvedimenti disciplinari nei confronti di coloro che si rendano colpevoli di fatti non conformi al decoro o alla dignità professionale o di fatti che compromettano la propria reputazione e la dignità dell’ordine.

Le sanzioni sono:

l’avvertimento viene inflitto nel caso di abusi o mancanze di lieve entità e consiste nel richiamo del giornalista all’osservanza dei suoi doveri;

– la censura, è connessa ad abusi o mancanze di grave entità e consiste nel biasimo formale per la trasgressione accertata;

– la sospensione dall’esercizio professionale può essere inflitta nei casi in cui l’iscritto abbia compromesso, con la sua condotta, la propria dignità professionale;

–la radiazione è diretta a sanzionare la condotta dell’iscritto che abbia gravemente compromesso la dignità professionale sino a renderla incompatibile con la permanenza nell’Albo. La legge prevede la reiscrizione, su domanda dell’interessato, trascorsi cinque anni dal giorno della radiazione.

L’INPGI. Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani “Giovanni Amendola”. Attua la previdenza e l’assistenza in favore dei giornalisti professionisti, pubblicisti e praticanti titolari di un rapporto di lavoro subordinato di natura giornalistica e dei familiari a loro carico. È una fondazione dotata di personalità giuridica di diritto privato, soggetta alla vigilanza del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale e del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Provvede al

– trattamento di pensione di invalidità, vecchiaia, anzianità e superstiti;

– trattamento economico in caso di tubercolosi;

– trattamento in caso di disoccupazione;

– assegni per il nucleo familiare;

– trattamento in caso di infortunio;

– forme ulteriori di previdenza e assistenza.

LA CASAGIT. Cassa Autonoma di Assistenza Integrativa dei Giornalisti Italiani “Angiolo Berti”. È un’associazione di natura privata, a carattere nazionale e senza fini di lucro. È ispirata ai principi della mutualità e assicura ai soci e ai loro familiari un sistema integrativo al Servizio Sanitario Nazionale.

LA FNSI. Federazione Nazionale della Stampa Italiana. È il sindacato nazionale unitario dei giornalisti italiani (federazione fra le associazioni regionali). Stipula i contratti collettivi di lavoro e assicurare ai giornalisti l’assistenza sindacale anche in collaborazione con le Associazioni Regionali di Stampa e le strutture sindacali aziendali (Comitati e fiduciari di redazione). 

Giulia Innocenzi bocciata all’esame di giornalismo. Succede anche ai vip. Ed era già successo, ma prima che divenissero "big", a Milena Gabanelli e a Paolo Mieli. Giulia Innocenzi è stata bocciata all'esame per diventare giornalista professionista. La pupilla di Michele Santoro non ha superato la prova scritta dell'esame di Stato. Pare che abbia sviluppato la traccia su amnistia e indulto, ma non si conoscono i motivi per i quali il suo tema non ha raggiunto la sufficienza. 

L’ordine dei giornalisti va abolito? Altro che dileggi, una medaglia per la Innocenzi. Bocciata all’esame da giornalista, gestito da burocrati della notizia. Il vero test sono i lettori, scrive Luca Telese su “L’Inkiesta”. Sembra una disputa tra giornalisti ma non lo è: la presunta polemica contro Giulia Innocenzi, bocciata all’esame di giornalismo e sbeffeggiata ieri su Libero, e oggi sulla prima pagina del Giornale e poi in un coretto turbinoso di siti sciacalleschi e di parassiti dileggiatori contenti di gridare dagli al vip è il simbolo di una follia tutta italiana.

La prima insensatezza è evidente a chiunque abbia già passato l’esame di giornalismo: ovvero l’assurdo di considerare come un giudizio attendibile un concorsone taroccato per costituzione, in cui puó capitare di andare benissimo o malissimo per puro caso, una lotteria in cui si essere interrogati sullo scibile umano, perché la materia teorica di chi deve fare il giornalismo è appunto pura tuttologia: diritto, codice civile, Costituzione, storia, storia del giornalismo, titolistica, grafica, solo per citare alcuni dei tanti sterminati campi. Ricordo una meravigliosa risposta di Alberto Ronchey: «Lei è un intellettuale, uno studioso, un giornalista, ora anche un ministro: si sente un tuttologo?». E lui, magistralmente aveva risposto: «Anche». Una prova per tuttologi, dunque.

L’altro paradosso è che il concorso lo fa sia chi è già giornalista da dieci anni, sia chi non lo farà mai. Lo fanno persone che hanno già un lavoro (da giornalista) e anche persone che hanno un altro lavoro (magari collaterale, o anche diverso, ma vogliono la medaglietta). Quindi la contraddizione di questo concorso è che non garantisce nessun posto, ma al massimo una abilitazione a professionisti che poi il lavoro se lo trovano, o se lo dovrebbero trovare da soli. Per cui la prima domanda da farsi è: ma se uno fa già il giornalista da dieci anni, come può non ottenere l’abilitazione a fare quello che già fa? E se non la ottiene lo ha fatto abusivamente? Come si puó bocciare Giulia Innocenzi nello scritto? Possibile che Giulia improvvisamente non si ricordi più come si scrive? Che abbia fatto proprio all’esame errori di grammatica o di sintassi? Possibile ma improbabile.  Vero è, invece, che bocciare uno famoso da sempre soddisfazione ai burocrati designati. In altri casi bocciare dei giovani anonimi da soddisfazione allo stesso modo, perché ti fa pensare di avere un ruolo edificante.

Sembra che stia difendendo la Innocenzi, di cui parlerò tra poco, ma in realtà parlo di tante storie che conosco benissimo, compresa la mia. Sono entrato in una redazione nel 1989, ho potuto fare il sospirato concorso - ci si accede in base a requisiti previdenziali - solo nel 2001. Perché all’epoca (con ancora più rigore di oggi) a nulla valeva l’anzianità professionale, era solo quella clausola contributiva che ti abilitava alle prove scritte e orali. Quando dopo dodici anni finalmente ho potuto iscrivermi al corso di preparazione dell’ordine, scrivevo tutti i giorni sul Giornale da due anni. Prima di allora, per altri tre anni avevo lavorato al settimanale del Corriere della sera e al Corriere della sera, firmando articolesse, aperture, prime pagine. Il collega che mi aveva corretto il compito di prova, evidentemente non aveva mai letto il mio nome nemmeno per sbaglio. Meglio così. Era animato da un sano pregiudizio verso i colleghi più giovani e si ritenne libero di esprimerlo. Non dimenticherò mai quel giorno: ci riconsegnarono i compiti e ci umiliarono dicendo che eravamo una generazione che non sarebbe mai arrivata a scrivere sui giornali. Il collega designato dall’ordine mi riconsegnó il mio compito aveva costellato di appunti rossi e blu tutta la pagina. Mi disse, con un accento dialettale marcato: «L’Italiano bisogna saperlo scrivere: soggetto, predicato e complemento oggetto». Era meglio essere mediocri che eleganti, un ammonimento importante.

In sostanza andó a finire così: fui bocciato al corso dell’ordine, come un somaro, e promosso con pieni voti all’esame. Se i selezionatori fossero stati invertiti sarei stato bocciato come Giulia, all’esame, perché in due settimane non era certo cambiato il mio modo di scrivere. Se ci fossimo scambiati il compito io e un collega disoccupato che era con me in quel corso preparatorio, sicuramente mi sarei depresso, forse avrei gettato la spugna.

Infine l’ultima perla: se ci sono due quotidiani che sparano sull’ordine, in Italia, sono Libero e Giornale. Hanno sparato a palle incatenate contro questa istituzione per motivi spesso sensatissimi, ma improvvisamente se bisogna sbeffeggiare una giornalista che lavora con il "nemico" Santoro, l’Ordine diventa una Cassazione. "La maestrina bocciata", titola soddisfatto Il Giornale. Ma se una giornalista fa delle interviste ed esprime delle opinioni in tv fa il maestrino? Deve essere bocciato perché sembra presuntuoso? Perché è nemico o viene percepito come nemico da qualcuno? Secondo me, la Innocenzi, che paga il prezzo della sua visibilità sul l’altare dove di solito si preferisce la mediocrità operosa al talento, merita una sola cosa, oggi: una medaglia. 

Giulia Innocenzi bocciata all'esame di giornalismo. Ma un anno fa voleva abolire l'Ordine, scrive “Fan Page”. La star di Servizio Pubblico bocciata alla prova scritta. Fino a pochi mesi fa diceva: "Sono per l'abolizione dell'Ordine, sono praticante solo per via del contratto". Giulia Innocenzi è stata bocciata alla prova scritta prevista dall'esame di stato valido per conseguire l'iscrizione all'elenco professionisti dell'Ordine dei giornalisti. Insomma, non sarà – almeno a questo giro – giornalista professionista. Le prove sono due, scritta e orale, Giulia Innocenzi non è riuscita a superare il primo ostacolo, costituito da un articolo, da una sintesi giornalistica e da un questionario su temi attinenti la professione. La questione non è tanto la bocciatura: autorevoli colleghi prima di lei non sono riusciti a passare quest'ostacolo (a volte molto gioca l'emozione). La questione, secondo me, è un'altra. Perché Giulia Innocenzi vuole diventare giornalista professionista visto che è a favore dell'abolizione dell'Odg? Lo ha detto a più riprese lei stessa e qui c'è un eloquente post del maggio 2012. “Premesso che rispetto il pensiero di tutti, ci deve essere qualcosa che mi sfugge nel ragionamento di questa lettrice di Libero: sarebbe una battaglia di "giustizia" impedirmi di lavorare nel campo dell'informazione perché "non iscritta all'albo dei giornalisti"? Per completezza: sono per l'abolizione dell'ordine dei giornalisti, che è obsoleto, liberticida e corporativo, e attualmente risulto come praticante perché Santoro è uno dei pochi che applica contratti giornalistici.” L'aspirante collega di “Servizio pubblico”, vera star dei social network, scriveva all'epoca: “Sono per l'abolizione dell'ordine dei giornalisti, che è obsoleto, liberticida e corporativo, e attualmente risulto come praticante perché Santoro è uno dei pochi che applica contratti giornalistici”. Quindi nel 2012 la Innocenzi sosteneva di essere iscritta nel registro dei praticanti (fase di 18 mesi propedeutica all'esame da professionista) solo per garantirsi il contratto Fieg-Fnsi che Michele Santoro ha applicato ai giornalisti di Servizio Pubblico (per molti dei colleghi della redazione del programma di La7 si tratta di un patto a tempo che vale per tutta la durata della trasmissione e che può non essere rinnovato l'anno successivo). E poi, cos'è successo? Giulia Innocenzi ha cambiato idea? Ora vuol far parte della ‘casta'? O anche in questo caso è solo questione di soldi?

Quando la bocciatura a un esame diventa notizia, scrive “Rai News 24”. Incredibile polemica sul web: Giulia Innocenzi, giovane collega di Michele Santoro a "Servizio pubblico", non passa lo scritto dell'esame da giornalista. E i "nemici" della trasmissione si scatenano in sfottò. Anche la diretta interessata sbotta su Facebook. E' uno degli argomenti che da 24 ore impazzano sulla Rete: sui social network, sui siti di informazione. Giulia Innocenzi, giovane giornalista della "scuderia" di Michele Santoro a "Servizio pubblico", non ha passato l'esame da giornalista, non superando le prove scritte dell'ultima sessione. La notizia, giudicata di rilievo nazionale da Libero, è rimbalzata ovunque. Prima i critici abituali della trasmissione, cui la Innocenzi prende parte, hanno cavalcato il suo "infortunio" all'esame di abilitazione per dare a Santoro e Travaglio dei "cattivi maestri". Botta e risposta sui social network. Poi è toccato a Facebook e Twitter fare da casse di risonanza per sfottò di ogni tipo. Una notizia (?) che ha attirato l'attenzione di alcune firme importanti del giornalismo italiano: da Luca Telese a Pierluigi Battista, tutti a prodigarsi in messaggi di solidarietà alla giovane collega. Sotto esame, a questo punto, ci è finito l'ordine professionale e le sue modalità di accesso: chi difende la Innocenzi dal barbaro attacco sostiene che sia l'esame stesso ad essere inattendibile, falsato e da rivedere. Insomma, se una come Giulia Innocenzi non passa l'esame vuol dire che la prova è da rivoluzionare. La risposta di Giulia: "Siete dei poracci". E infine, tocca proprio a Giulia rispondere agli attacchi. Anche lei, che finora aveva mantenuto il controllo e un certo riserbo, sbotta su Facebook così: "Ci sono persone che si alimentano solo dei misfatti degli altri. Ragionano così: a me va di m..., a te deve andare peggio. Queste persone mi fanno pena, perché sono povere. E anche con tutto l'oro del mondo non si arricchirebbero di certo. Rimarranno sempre dei poracci".

Dopo aver criticato aspramente l'Ordine dei Giornalisti, Giulia Innocenzi ha tentato comunque di entrarne a far parte, scriveAffari Italiani”. La preferita di Michele Santoro non ha però superato la prova scritta necessaria per diventare giornalisti professionisti. A poco sembra esserle servito il praticantato da Michele Santoro e la star di Servizio Pubblico dovrà ripetere l'esame nonostante la sua fama di "maestrina". La stampa di destra si è subito scatenata contro l'aspirante giornalista indirizzandole commenti e sondaggi a risposta multipla con insinuazioni anche pesanti su questo mancato risultato ottenuto. In difesa della giovane quasi-giornalista pupilla di Michele Santoro sono scesi in campo molti, tra i quali anche il presidente dell’Ordine dei Giornalisti Enzo Iacopino che ha giustificato la defaillance di Giulia Innocenzi: "Il non aver superato la prova è solo un incidente. Scherzando con i colleghi dico loro che durante gli esami sono in una fase di semi infermità mentale. […] Il Presidente dell’Ordine non dovrebbe dirlo, ma non è il tesserino che fa di una persona un giornalista". Altri sostegni sono arrivati da ulteriori colleghi, che hanno manifestato solidarietà a Giulia Innocenzi e spostato il dibattito sull’utilità o meno del tesserino da giornalista, scagliandosi contro l’Ordine e rivendicando la stessa posizione espressa dal presidente Iacopino. Su Facebook e Twitter, ironie e sfottò, ma anche difese a spada tratta, si sono moltiplicate in un istante. Invidie e gelosie professionali, rivalse. Eccone qualcosa tra i commenti più clementi: «Giulia Innocenzi go home! Dio esiste» (steph@docst). E poi altri: «Come godo», «boriosetta», «saccente». Non mancano le polemiche sul senso dell’esame di Stato. «Una sanatoria» scrive Emiliano Liuzzi, direttore dell’edizione online del Fatto Quotidiano. Michele Ruschioni, direttore di «Noiroma», sorta di Dagospia dell’Urbe, attacca tranchant la collega sul suo profilo facebook: «Ora non è che st’esame sia indicativo di quanto uno sappia fare il mestiere. Però dal momento che è istituito tocca superarlo. Non ci vuole uno scienziato per rimediare un 36. Bisogna solo saper scrivere». Mattia Feltri, inviato della Stampa, twitta a difesa.«La bocciatura all’esame di giornalismo di @giuliainnocenzi dimostra la ridicola inutilità dell’esame medesimo ». Così anche dall’Espresso. Ecco Riccardo Bocca - «Dopo tante batoste, l’Ordine dei giornalisti recupera credibilità grazie a Giulia Innocenzi. Un gesto generoso, farsi bocciare all’esame» -e Alessandro Gilioli: «Penosi e biliosi gli attacchi a Giulia Innocenzi per l’esame non passato eh. Ripigliamoci dai. Che poi conosco colleghi “professionisti” che te li raccomando». 

Giulia Innocenzi bocciata all’esame di giornalismo, scrive  Riccardo Ghezzi, su “Quelsi”. Ci sono aspiranti giornalisti che prima di ottenere l’agognato tesserino sono costretti a superare le fasi di una lunga gavetta: collaborazioni o mansioni in redazioni sottopagate, due anni di sfruttamento, corsi talvolta costosi, master fuori portata per chi non è particolarmente facoltoso. Si arriva al primo step, quello del tesserino da pubblicista, poi c’è chi riesce a compiere l’ulteriore salto: un anno e mezzo di assunzione come praticante presso una qualsiasi redazione e poi l’esame per l’abilitazione allo status di professionista. Tutto questo dopo almeno quattro anni di sacrifici anche economici.
E poi c’è Giulia Innocenzi, che la gavetta la fa in un talk show in prima serata, davanti a milioni di spettatori. Come se fosse una giornalista già arrivata, al culmine della sua carriera, tanto da poter dispensare lezioni ai colleghi o intervistare esponenti politici in auge, come “l’odiato” Silvio Berlusconi, peraltro con esiti discutibili. Per Giulia Innocenzi quella di Annozero e Servizio Pubblico è stata una sorta di “scuola di giornalismo”. Peccato che non fosse uno stage, né una collaborazione occasionale, ma una trasmissione in prima serata, in teoria agognato approdo dopo la lunga gavetta di cui sopra. Questi però sono problemi di Santoro, essendo in capo a quest’ultimo la scelta dei profili professionali considerati più idonei e competenti al fine di garantire un’informazione di qualità.
Se Santoro ha voluto che la sua trasmissione fosse una “palestra” per una aspirante giornalista professionista, buon per lui. Ciò che stupisce, semmai, è che nonostante questo Giulia Innocenzi sia stata bocciata all’esame di giornalismo.
Ebbene sì, la pupilla del dissacrante presentatore non ce l’ha fatta. Un articolo pubblicato su liberonews di oggi, a firma Matteo Pandini, riporta la notizia in qualche modo clamorosa: Giulia Innocenzi non ha superato l’esame scritto.
Pandini ricorda anche una polemica tra Giulia Innocenzi e il giornalista Aldo Grasso. Davvero incredibile, per una ragazza che più volte aveva impartito lezioni a destra e manca. Anche a dei direttori come Maurizio Belpietro e Augusto Minzolini. Un atteggiamento che era stato notato anche da Aldo Grasso. Sul Corriere della Sera, all’indomani della puntata-show di Berlusconi da Santoro, il critico s’era chiesto: “Quell’aria di supponenza da dove le deriva? Si crede la più autorevole del reame?”. Aveva addirittura scritto, Grasso, che la Innocenzi “ha un tono così saccente che predispone al peggio il telespettatore”. Dubitare delle qualità professionali di Giulia Innocenzi non è mai stata lesa maestà. Ora, però, i dubbi rischiano di diventare certezze.

Giulia Innocenzi ko all’esame di giornalismo. Ironie e sfottò. E lei: «Mi fanno pena, poracci!». Il web si infiamma con le prese in giro scrive Alessandro fulloni su “Il Corriere della Sera”. Quel che scrive su Facebook è questo. «Ci sono persone che si alimentano solo dei misfatti degli altri. Ragionano così: a me va di m..., a te deve andare peggio. Queste persone mi fanno pena, perché sono povere. E anche con tutto l’oro del mondo non si arricchirebbero di certo. Rimarranno sempre dei poracci». Lo sfogo è quello di Giulia Innocenzi, 29 anni, riminese, giornalista di «Servizio Pubblico» e volto noto della trasmissione anche per le polemiche in diretta con direttori come Augusto Minzolini e Maurizio Belpietro. Il 15 ottobre Innocenzi non ha passato lo scritto dell’esame di Stato per l’iscrizione all’albo de i giornalisti professionisti. Prova severissima che una certa ansia la mette, figurarsi, anche alle firme eccellenti tra le quali si conteggiano, anche in tempi recenti, bocciature non pronosticabili. E appunto: il kappaò di Innocenzi è stata giudicata una notizia dal quotidiano «Libero» che ne ha dato conto con una certa perfidia. «Davvero incredibile, per una ragazza che più volte aveva impartito lezioni a destra e manca». E ancora. «Ora la fidanzata di Pif, ex Iena e applauditissimo alla Leopolda durante la recente convention renziana, dovrà ripartire da capo. D’altronde, diventare professionista non è una passeggiata. Anche se ti chiami Giulia Innocenzi e frequenti “una vera scuola di giornalismo” - così ha definito la sua esperienza di lavoro la stessa Innocenzi (ndr) - come quella di Santoro». Apriti cielo. Su Facebook e Twitter, ironie e sfottò, ma anche difese a spada tratta, si sono moltiplicate in un istante. Invidie e gelosie professionali, rivalse. Eccone alcuni tra i commenti più clementi: «Giulia Innocenzi go home! Dio esiste» (steph@docst). E poi altri: «Come godo», «boriosetta», «saccente». Non mancano le polemiche sul senso dell’esame di Stato. «Una sanatoria» è la sintesi di Emiliano Liuzzi, responsabile dell’edizione online del «Fatto Quotidiano». Michele Ruschioni, direttore di «Noiroma», sorta di Dagospia dell’Urbe, attacca tranchant la collega sul suo profilo Facebook: «Ora non è che st’esame sia indicativo di quanto uno sappia fare il mestiere. Però dal momento che è istituito tocca superarlo. Non ci vuole uno scienziato per rimediare un 36. Bisogna solo saper scrivere». Mattia Feltri, inviato della «Stampa», twitta a difesa.«La bocciatura all’esame di giornalismo di @giuliainnocenzi dimostra la ridicola inutilità dell’esame medesimo ». Così anche dall’«Espresso». Ecco Riccardo Bocca - «Dopo tante batoste, l’Ordine dei giornalisti recupera credibilità grazie a Giulia Innocenzi. Un gesto generoso, farsi bocciare all’esame» - e Alessandro Gilioli: «Penosi e biliosi gli attacchi a Giulia Innocenzi per l’esame non passato eh. Ripigliamoci dai. Che poi conosco colleghi “professionisti” che te li raccomando». A difesa della Innocenzi c’è anche il presidente dell’Ordine dei Giornalisti Enzo Iacopino. L’endorsement arrabbiato compare sulla bacheca della 115esima sessione d’esame, quella sotto tiro e che ha visto una mezza falcidie: oltre il 44 per cento rispediti a casa. L’appello - in gran parte raccolto - è proprio per i candidati, invitati a «mostrare dignità». «Sapete, per averla vissuta, che prova è l’esame. Il giudizio, positivo o negativo, è falsato dalla tensione e non fotografa certamente le vostre reali capacità. Invece perfino l’esame viene usato per delle volgarità. Mi riferisco alla campagna contro Giulia Innocenzi. Mi piacerebbe un sussulto di dignità da parte vostra - è l’esortazione di Iacopino -: un documento non di solidarietà (non conosco praticamente Giulia, ma credo abbia spalle larghe e forti) ma di denuncia di un modo di fare informazione che passa sopra la vita e i sentimenti delle persone». I «mi piace» sono stati moltissimi. Ma qualche intervento ha spostato il tiro: «Ricordatevi dei precari, e dello sfruttamento che c’è in tante redazioni».

La maestrina Innocenzi bocciata in giornalismo I colleghi esultano in rete. Passo falso della collaboratrice di Santoro all'esame di Stato, scrive Cristina Bassi  su “Il Giornale”. La «patente» di giornalista gliel'ha data nientemeno che Michele Santoro. Peccato che l'Ordine professionale non sia d'accordo. Giulia Innocenzi, fedelissima collaboratrice del teletribuno fin dai tempi di Annozero e riconfermata a Servizio Pubblico, è stata bocciata all'esame scritto per ottenere il tesserino da professionista. Un bello smacco per una che, non ancora compiuti i trent'anni, si è già cucita addosso il ruolo di maestrina del giornalismo d'inchiesta. Con un mentore del calibro di Santoro ci si aspetterebbero risultati migliori: «Quella di Michele è una vera scuola di giornalismo», aveva detto Giulia. O forse è così facile sentirsi un fenomeno da affrontare il compitino un po' pedante dell'esame dell'Ordine con una po' di puzza sotto il naso. D'altra parte l'abbiamo vista in moto con Vauro e con in braccio il sosia del cane Dudù nello spot della trasmissione su La7 e in altre occasioni impartire lezioni in studio nientemeno che a direttori di giornali. All'indomani della storica puntata con Silvio Berlusconi ospite fu il severo critico del Corriere Aldo Grasso a chiedersi: «Si crede la più autorevole del reame? Ha un tono così saccente che predispone al peggio il telespettatore». Poco più che ventenne Giulia Innocenzi si dedica alla politica con il Pd e i Radicali. Poi passa al giornalismo che - come diceva un grande di cui spesso ci si sente chiedere all'esame da professionista - «è sempre meglio che lavorare». Vola subito su Rai2 sotto l'ala protettrice del talent scout Santoro, scrive sul Fatto e la sua carriera sembra irresistibile. Non fosse per quei guastafeste dell'Ordine nazionale. Scrive il sito di Libero infatti che la giovane praticante si è presentata alla sessione qualche settimana fa, ma non compare nell'elenco degli ammessi agli orali pubblicato dal sito dell'Odg. Inutile dire che la notizia ha già fatto il giro del web e che non pochi colleghi - come Riccardo Bocca dell'Espresso - cantano vittoria al grido di «Finalmente l'Ordine riacquista credibilità...». È vero che per essere un bravo giornalista non c'è bisogno di un pezzo di carta. Lo dimostra il fatto che anche Milena Gabanelli fu bocciata all'esame. È vero anche che l'Ordine è considerato da molti un ente inutile da abolire. Ma finché esiste, chi vuole praticare il mestiere deve passare attraverso le sue maglie. Anche le allieve preferite di Santoro.

Giulia Innocenzi bocciata all'esame di giornalismo, scrive “Libero Quotidiano”. I particolari sul giorno del test a Roma: alla lettura delle tracce la maestrina di Santoro e Travaglio sorrise. Torna sulla terra, la maestrina Giulia Innocenzi. La santorina e travaglina, come una comune mortale, è stata bocciata all'esame di Stato: non è (ancora) una giornalista professionista. Semplicemente, ha stabilito la commissione capitolina, non è idonea. Non è la prima né sarà l'ultima bocciata celebre (tra gli altri, nella storia di questo mestiere, Paolo Mieli e Milena Gabanelli). Però, l'Innocenzi bocciata, fa un certo effetto: la bacchettatrice di giornalisti professionisti stroncata all'esame di abilitazione professionale. Ma tant'è, la notizia ve l'abbiamo data già qualche ora fa. Su Libero in edicola giovedì 31 ottobre, a firma di Matteo Pandini, un lungo approfondimento sulla bocciatura della maestrina di Servizio Pubblico. Alcuni particolari divertenti: Giulia, lo scorso 15 ottobre, s'era presentata all'esame di Stato con una profetica maglietta, che recitava "che ansia". Alcuni dei presenti tra gli aspiranti professionisti giurano che alla lettura delle tracce, la Innocenzi abbia sorriso, come a dire: questo è il mio pane, non avrò problemi. Invece di problemi ne ha avuti: bocciata, appunto. Nonostante la traccia che avrebbe scelto, quella su amnistia e indulto: un tema sul quale i "cattivi maestri", Michele Santoro e Marco Travaglio, non l'hanno evidentemente preparata a sufficienza.

Giulia Innocenzi insulta Libero: "Poveracci, vi nutrite dei misfatti altrui". Bocciata all'esame di giornalismo scrice “Libero Quotidiano”. Lei è Giulia Innocenzi, la fedelissima di Michele Santoro e di Marco Travaglio. Una notizia, la bocciatura: lei è un personaggio molto in vista sul piccolo schermo, molto seguita sui social network, molto disucussa, molto criticata (tanto quanto lei è sempre in prima fila a bacchettare e criticare tutti quelli che non la pensano come lei). Dunque, normale che si parli di questo fatto. E, attenzione, di questo fatto, e non "misfatto", come lo definisce lei. La risposta e l'attacco a Libero è arrivato su Facebook: "Ci sono persone che si alimentano solo dei misfatti degli altri. Ragionano così: a me va di merda, a te deve andare peggio. Queste persone mi fanno pena, perché sono povere. E anche con tutto l'oro del mondo non si arricchirebbero di certo. Rimarranno sempre dei poracci". Sorvolando sugli insulti e i giudizi morali, ci limitiamo a ribadire la differenza tra "fatto" (la sua bocciatura) e "misfatto". Le notizie, e una giornalista (seppur non professionista) lo dovrebbe sapere, devono essere date, e spesso una notizia è determinata dalla rilevanza pubblica del suo protagonista. Infine un'ultima considerazione. Premesso che nessuno si alimenta dei "misfatti" della Innocenzi, non si può non notare come Giulia, Michele Santoro e Marco Travaglio, abbiano costruito una carriera sui "misfatti" o presunti tali di Silvio Berlusconi. Partendo dalla recente condanna Mediaset, ma passando attraverso le molteplici forzature che, negli anni, si sono sprecate. Per ultima, e soltanto per pescarne una dal mazzo, la grottesca comparsata di Michelle Bonev negli studi di Servizio Pubblico. Telese, Battista, Feltri, etc: tutti a difendere la Innocenzi Piuttosto insegnatele qualcosa...

Levata di scudi pro-Giulia, finita nel mirino per la bocciatura all'esame di Stato. E la santorina diventa una scusa per abolire l'ordine, scrive “Libero Quotidiano”. Un esercito di giornalisti in campo per difendere la giornalista bocciata all'esame di Stato. Giulia Innocenzi non ha superato la prova di abilitazione professionale. Per primo Libero ha rilanciato la notizia, poi ripresa un po' ovunque. Una notizia che scatenato diverse ironie sulla "maestrina" rimandata a settembre e sui "cattivi maestri", Michele Santoro e Marco Travaglio. Di contro, in molti, sono scesi in campo in difesa della santorina (e contro l'ordine dei giornalisti). Il presidente - Tra gli alfieri schierati in difesa di Giulia c'è anche Enzo Iacopino, presidente dell'ordine nazionale dei giornalisti: "Considero la giornalista praticante Giulia Innocenzi molto brava. Il non aver superato la prova è solo un incidente", scrive su Facebook. Poi aggiunge: "Il presidente dell'Ordine non dovrebbe dirlo: ma non è il tesserino che fa di una persona un giornalista". Di fatto, Iacopino nega l'importanza dell'esame di Stato. Simile il ragionamento di Luca Telese, che sul suo blog su Linkiesta parla di "siti sciacalleschi" e "parassiti dileggiatori", ovvero quelli che hanno riportato la notizia della bocciatura. Telese si spinge più in là, parlando dell'"assurdo di considerare come un giudizio attendibile un concorsone taroccato per costituzione, in cui può capitare di andare benissimo o malissimo per puro caso". Telese - L'ex conduttore di In Onda prosegue: "La domanda da farsi è: ma se uno fa già il giornalista da dieci anni, come può non ottenere l'abilitazione a fare quello che già fa? E se non la ottiene lo ha fatto abusivamente? Come si può bocciare Giulia Innocenzi nello scritto? Possibile che Giulia improvvisamente non si ricordi più come si scrive? Che abbia fatto proprio all'esame errori di grammatica o di sintassi? Possibile ma improbabile". Non ha dubbi Telese: sbagliato bocciarla. Sembra quasi adombrare un "complottone". Per fugare i sospetti, forse, sarebbe interessante poter leggere il testo della Innocenzi, il testo che le è valso la bocciatura. La schiera dei difensori della santorina è fitta. E, come detto, nel mirino, ci finisce anche l'Ordine. Apre le danze Mattia Feltri de La Stampa, che cinguetta: La bocciatura all'esame di giornalismo di Giulia Innocenzi dimostra la ridicola inutilità dell'esame medesimo.

Gli risponde Pierlugi Battista del Corriere della Sera: E dell'Ordine dei giornalisti, residuo fascista unico in tutto il mondo democratico occidentale.

Quindi Marco Alfieri, direttore de Linkiesta, che rilancia l'intervento di Telese. Ma ha senso l'ordine dei giornalisti o l'esame è quello dei lettori?

Non poteva mancare un "aiutino" da un collega del Fatto Quotidiano, Emiliano Liuzzi: la mia solidarietà all'ottima collega Giulia Innocenzi è brava, a differenza di molti. l'esame da giornalista? solo una sanatoria.

Quindi Simone Spetia, di Radio24: A me, invece, guarda un po' Giualia Innocenzi fa simpatia, pensa tu. Di base non prenderei l'esame da giornalista come qualcosa di indicativo, né nel bene, né nel male.

Infine un intervento a sorpresa, quello di Nicola Porro, vicedirettore de Il Giornale che riportava la notizia della bocciatura della Innocenzi in prima pagina: bocciata all'esame di giornalismo? Un mondo di rosiconi che gode. Che schifezza.

Chi è Giulia Innocenzi?

Le età dell'Innocenzi. Ritratto di Giulia, pupilla di Santoro che ha cercato sponsor in tutti i partiti. Da An ai Radicali, da Montezemolo al Pd, scritto da Giovanni Florio per "Lettera 43.it". Non tutti i giornalisti o presunti tali riescono a farsi eleggere, altri sgomitano per trovare comunque un partito sponsor che ti curi la carrierina, specie in Rai dove ogni cronista ha il suo bravo cartellino, e la ricerca di santi in paradiso può essere frenetica. Prendete una come Giulia Innocenzi, scoperta non si sa bene dove da Santoro, uno che non si fa mai scappare le belle guaglione (remember le precedenti santorine, Costamagna, Simonetta Martone, Bianca Berlinguer, Rula Jebreal, Margherita Granbassi, Beatrice Borromeo e via sfilando...), in questo abbastanza simile al suo sfidante (nella diretta televisiva in agenda per il 10 gennaio), Berlusconi, altro apprezzatore di doti femminee (alla faccia delle centinaia di giornaliste precarie meno carucce della Innocenzi, catapultata in tivù dal nulla). Ebbene, la signorina si sta dando un gran da fare coi partiti. È possibile, ad un comune mortale italiano, passare rispettivamente da An, Radicali, Montezemolo, Pd di Renzi e poi Pd di Bersani, rimanendo nel frattempo anche con Santoro, Vauro e Travaglio simpatizzanti di Grillo? Ebbene sì, alla Giulia è riuscita questa giostra psichedelica. Cosa non si farebbe per avere un partito che ti sponsorizza, specie poi se sei di bell'aspetto, voce indispensabile nel curriculum di una giornalista. Lo spettatore santoriano può crederla semplicemente santoriana, ma si sbaglia, nel beauty case la Innocenzi conserva una dozzina di tessere di partito, anche opposti, non si sa mai. E' di sinistra? No perché ha iniziato nei giovani di Alleanza nazionale, come ha rivelato lei stessa in un programma: «Okay, a 16 anni mi sono iscritta ad Azione giovani, il movimento giovanile di An. Però dopo aver assistito alla prima riunione, sono andata via». Com'è noto infatti tutti noi prima ci iscriviamo ad un partito e soltanto dopo ci imbuchiamo in una riunione per vedere com'è, e se non ci piace passiamo ad altra iscrizione. Percorso logico senza dubbio interessante. Dunque, seppur insoddisfatta dai giovani di An, è di destra? Neppure. Non paga di Azione giovani, la Innocenzi in drammatica ricerca di padrini politici ci ha provato coi Radicali, che la l'hanno fatta subito presidente degli Studenti Coscioni, che - non fraintendiamo - è il cognome dello storico militante Luca Coscioni. La Innocenzi risultava ancora qualche mese fa nel comitato Radicali italiani e fidanzata «con un commercialista militante radicale». Beh allora è una radicale? La accendiamo? Ma va. In contemporanea o quasi la trottola partitica Innocenzi ci ha provato infatti pure col Pd, da radicale ex Alleanza nazionale, ma le cose gli sono andate male, mentre intanto ha cominciato a fare le domandine ai giovani da Santoro, vicino a Di Pietro e Grillo. A quel punto la ragazza a caccia di partito ha fatto l'ennesima piroetta, e si è materializzata nei capelli di Luca Cordero di Montezemolo. Costernati, l'abbiamo ritrovata infatti nel comitato di Italia Futura, cioè appunto l'associazione-partito di Montezemolo, presentata come «blogger e conduttrice tivù ed esperta di politiche giovanili». Esperta di politiche giovanili, e chi non lo è? Ma non era radicale? Ma non era di An? Ma non era del Pd? No è di Montezemolo, dove risulta ancora tra i membri dell'associazione. Anzi no, è del Pd. Ebbene sì, perché, visto che Montezemolo tentennava troppo e che ci sto a fare in un partito che poi non candida nessuno, la Innocenzi si è ributtata sul Pd. Sì ma quale, quello di Renzi o quello di Bersani? Tutti e due, che domande. A settembre, prima delle primarie, fa sapere che aspetta di vedere il programma, «ma se Renzi si candiderà a presidente del Consiglio io ne sarò felice». Lui ricambia l'interesse presentando a Firenze l'opera prima della Innocenzi, Meglio fottere. Poi però Renzi perde le primarie, e lei va da inviata di Servizio Pubblico a intervistare il candidato premier del Pd, Bersani. Con frasi durissime come: «Mi scusi se le faccio una domanda dopo la lasagna», spronandolo, da radicale di azione giovani e montezemoliana, a dire qualcosa di sinistra contro la Fiat di Marchionne (amministratore delegato nell'azienda di cui Montezemolo è stato presidente). Per il momento si è fermata sul Pd, anche perché probabilmente è il partito destinato a vincere le elezioni. Peccato perché le mancano ancora la Lista Monti, Fermare il declino, la lista Ingroia, il M5S, l'Udc, il movimento di Emilio Fede...

Pif: “Sì, sono fidanzato con Giulia Innocenzi. Ma non la sposo”, scrive “Oggi”. Il mattatore di Mtv rivela per la prima volta il legame che lo lega con la giornalista-musa di Michele Santoro. "Niente nozze", assicura. "Ma magari... un figlio sì". L'intervista esclusiva su Oggi. Pif, l’ex Iena oggi star di Mtv, ammette per la prima volta di essere fidanzato con Giulia Innocenzi, la giovane giornalista-musa di Michele Santoro. E lo fa dalle pagine di Oggi in edicola. «Giulia Innocenzi l’ho conosciuta due anni fa», spiega Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, nell’intervista esclusiva che pubblica Oggi. «Il 25 giugno è il nostro anniversario… Ci siamo conosciuti a Palermo, al corteo di un movimento giovanile che è sparito dopo un mese, il Movimento delle forchette rotte». Pif aggiunge: «Mi chiede se vogliamo metter su famiglia? Sono domande che non si fanno: sono troppo giovane per il matrimonio, ho solo 41 anni!», scherza. E poi si fa serio: «Ma se capita un bimbo, va benissimo». Così dice Pif, al secolo Pierfrancesco Diliberto, il giornalista ex Iena che con «Il Testimone» su Mtv conduce interviste e inchieste di successo, al settimanale Oggi. Dove per la prima volta emerge il suo legame con la collaboratrice di Santoro a «Servizio Pubblico» Giulia Innocenzi. Nell’intervista che Oggi pubblica nel numero in edicola, Pif parla anche di Saviano, Berlusconi, Grillo, Carmen Consoli, Jovanotti e del suo film, «La mafia uccide solo d’estate», che prende in giro Cosa Nostra. «A Palermo bisogna essere o bianchi o neri«, racconta Pif nell’intervista a Oggi, «perché la mafia è grigia, ti trascina verso di sé… Ed è dappertutto: mentre giravo, mi sono reso conto che il posto dove giocavo a pallone da piccolo era proprio di fronte alla casa di Vito Ciancimino. Ciancimino riceveva Bernardo Provenzano, magari al boss è arrivata pure qualche pallonata…». Il film non ha ricevuto finanziamenti dalla Regione Sicilia. «In realtà non volevo i soldi, ma il patrocinio: avrebbe significato che la Regione la pensa come me sulla mafia», dice Pif, che racconta: «Avevo appuntamento alle quattro con l’assessore al turismo della giunta Lombardo. Passa mezz’ora e niente. Un’ora e nulla. Poi, dopo un’ora e mezza arriva un funzionario e mi dice: “L’assessore non la può ricevere perché è arrivata la Cucinotta”».

E’ interessante conoscere i mistificatori di Stato: i difensori a spada tratta degli Ordini Professionali e dell’Esame di Stato, così come dei concorsi pubblici.

LA RAI, L’INFORMAZIONE E LA DESTRA ITALIANA.

Qual è il misfatto? Mazza: "Fini mi ossessionava col cognato". In un libro, Mauro Mazza e Adolfo Urso scrivono la storia di 20 anni di destra: fino a quando gli intrighi hanno seppellito An. © 2013 Lit Edizioni srl Per gentile concessione dell’editore di Mauro Mazza e Adolfo Urso.  Un viaggio nella destra italiana lungo vent’anni. Dal 1993, anno della candidatura di Gianfranco Fini a sindaco di Roma, al 2013. Quando si compie l’esclusione dalle liste del Pdl di gran parte degli esponenti di An. È questo l’arco di tempo preso in esame da Mauro Mazza e Adolfo Urso per raccontare la «parabola» degli eredi della Fiamma missina nel libro, edito da Castelvecchi, Vent’anni e una notte (382 pp, 19,50 euro), da oggi in libreria. La notte in cui, appunto, Silvio Berlusconi azzera di fatto la presenza degli ex An nel Pdl. Non mancano, corredati da documenti e foto, retroscena inediti sull’ascesa e il declino di Fini. Delle cui mosse entrambi gli autori - Mazza da direttore del Tg2 prima e di Raiuno dopo, Urso come parlamentare e viceministro – sono stati testimoni privilegiati. L’ex presidente della Camera non ne esce bene. Come quando, sono i giorni della rottura con il Cavaliere nel 2010, non esita a definirsi con orgoglio un «kamikaze iracheno», pronto a farsi «esplodere e a morire, pur di sancire la fine politica di Silvio Berlusconi». E questo nonostante una mediazione con l’ex premier che sembrava sul punto di essere raggiunta. Ma Fini, rivela Urso, «ogni volta alza il prezzo, perché vuole la rottura, solo la rottura». Non poteva mancare il capitolo, di cui pubblichiamo un estratto, del rapporto con il «cognato» Giancarlo Tulliani, che Fini cerca di favorire in ogni modo attraverso le pressioni sui dirigenti della Rai a lui più vicini come lo stesso Mazza e Guido Paglia, ex responsabile delle relazioni esterne di viale Mazzini. Ma Fini è solo uno dei tanti protagonisti del ventennio d’oro della destra italiana. Un’avventura che adesso, complice il fatto che An abbia perso la sua battaglia politica «nell’ultimo giro di pista», è costretta a ripartire da zero. Con «forma e leader diversi da quelli del passato». Perché «non servono reduci, ma innovatori».

MAURO MAZZA. Un anno dopo le elezioni politiche stravinte, nella primavera 2009, si decide il nuovo organigramma della Rai. Mauro Masi, già segretario generale a Palazzo Chigi, è il nuovo direttore generale. Per me si parla con insistenza della possibilità di essere nominato direttore del Tg1, dopo sette anni alla guida del Tg2. Sarebbe un passaggio naturale. Si sa bene che la linea editoriale del maggiore telegiornale del servizio pubblico è sempre in sintonia con quella del governo in carica. È un’altra verità che alcuni non ammettono, ma è un dato consolidato e immutabile.

Bene, a un certo punto, comincia a circolare la voce che mi sarà proposta la direzione di Rai Uno, la rete «ammiraglia» della Rai. Insomma, da un ruolo giornalistico a uno manageriale, sia pure di grande rilievo, il più importante nella macchina produttiva dell’azienda. Io manifesto qualche riserva. Ma è lo stesso Gianfranco Fini a rassicurarmi e a incoraggiarmi ad accettare. In fondo – penso – anche il direttore uscente Fabrizio Del Noce è un giornalista e ha fatto un buon lavoro come direttore di rete. Rifletto ancora un po’ e mi decido per il sì.  [...] Molto presto capirò anche i motivi della sponsorizzazione di Fini. Mi chiede di tornarlo a trovare a Montecitorio e, nel suo ufficio, trovo un impomatato giovane mai visto prima. Me lo presenta. È Giancarlo Tulliani, fratello di Elisabetta, la compagna di Gianfranco. Il ragazzo vuole produrre programmi per la tv. Fini mi chiede di dargli una mano. Ci tiene moltissimo e mi affida quella patata bollente. Tulliani chiede subito di realizzare trasmissioni importanti attraverso una sua società – mi dice – che conta buoni autori e ottime idee. Lo vedo un paio di volte: non ha misura, né esperienza, né buone maniere. Valuto un paio di sue proposte. Una mi pare buona per un piccolo spazio pomeridiano: una rubrica di quindici minuti sul rapporto figli-genitori. Gli ascolti sono buoni. «Per quest’anno bisogna accontentarsi, facciamo bene questo e poi si vedrà», provo a spiegargli. Ma Tulliani non si accontenta. Ha fretta e smania. Esagera. Una volta, al telefono, è addirittura sgarbato. Gli rispondo per le rime. Decido di non vederlo né sentirlo più. Mando a Fini un biglietto, gli chiedo di risparmiarmi ogni ulteriore contatto con il «cognato» e gli suggerisco di tenerlo a freno, anche perché circolano voci di altre sue smanie, con altri dirigenti Rai e con esponenti politici di governo. Sono certo che il mio rapporto trentennale con Fini non ne risentirà. Invece, da allora, non l’ho più visto né sentito. Le sue scelte politiche successive, per me scellerate, faranno il resto.

ADOLFO URSO. Questo tuo racconto conferma quello che, dal 2009, è sempre più evidente. Nelle decisioni e nelle scelte di Gianfranco Fini il fattore privato diventa prevalente, anche perché non c’è più un partito come An che, strutturalmente indirizzato, ha sempre tutelato il suo leader. Nel caso della Rai, quei suoi fattori personali mutano la politica e l’atteggiamento della Destra non berlusconiana nei confronti del servizio pubblico. Da sempre, dai tempi del vecchio Msi, si è tentato di conquistare una nostra presenza, sia pure marginale, per esercitare un’opera di moralizzazione e di controllo. Il diritto di rappresentanza all’interno della Rai è stato una battaglia storica per il Msi. Negli anni Ottanta, il missino Guglielmo Rositani venne nominato sindaco revisore dei conti e riuscì a incidere, vera spina nel fianco per amministratori allora abituati a spese facili spesso fuori controllo. All’epoca, Rositani era vicino a Franco Servello, a sua volta in relazione con l’imprenditore tv Silvio Berlusconi, ma certamente non succube dei suoi interessi. Dal 1994, con la Destra al governo, il compito istituzionale di occuparsi della Rai è assunto innanzitutto dal ministro Tatarella, che [...] considera quel ruolo assolutamente decisivo sia per la nostra proiezione pubblica sia per limitare il potere di Berlusconi. Alla sua morte, il pallino passerà di fatto a Gasparri che lo contenderà dapprima a Storace e, successivamente, a Landolfi, presidenti della commissione di vigilanza e quest’ultimo, infine, anche ministro (2005-2006). Forse attraverso questi ultimi, allora molto vicini a lui, Fini tenta di avocare al vertice del partito la questione-Rai, altrimenti appannaggio di Gasparri che Fini considera da tempo troppo allineato al Cavaliere.

MAURO MAZZA. In effetti, l’entrata in scena di Tulliani crea difficoltà, imbarazzi e rotture. È nota la vicenda che ha avuto protagonista Guido Paglia, responsabile Rai per le relazioni esterne e animatore di un centro studi che per lungo tempo ha tenuto assieme moltissimi dirigenti, giornalisti e dipendenti vicini ad An. La sua lite con Fini risale al 2008, quando gli viene presentato il neo-cognato [...]. Paglia prova a dargli una mano. Ci riesce relativamente. Fini lo chiama alla Camera e consente a Tulliani di insinuare, davanti a lui, che Paglia abbia «altri interessi» che gli impedirebbero un intervento in suo favore. Fini non apre bocca. Paglia, furioso, si alza e se ne va. Fine del rapporto. Guido racconterà l’episodio solo molto tempo dopo, saputo di un intervento personale di Fini per impedire che lui fosse nominato vicedirettore generale della Rai.

LE CONFESSIONI DI PAOLO MIELI.

Giusto per capire da che parte stanno. E per renderci conto che la sinistra non è da meno. Libero, 5 maggio 2008. LE CONFESSIONI DI PAOLO MIELI di Barbara Romano.

Giornali, zero. Libri, a non finire nello studiolo del Pontifex Rcs Maximus Paulus Secundus: così Massimo Giannelli ha vignettizzato Paolo Mieli. Più che l'ufficio del due volte direttore del Corriere della Sera, sembra la Biblioteca Ambrosiana. Volumi di ogni foggia, spessore ed età torreggiano sulla sua scrivania, dietro la quale si staglia il tradizionale armamentario enciclopedico di via Solferino: la Treccani dal 1938 a oggi. Di lato, il computer, fisso sull'homepage di Dagospia. C'è persino un'edizione del 1564 delle "Opere Morali" di Cicerone avuta in dono dalla Fallaci, che lui tiene sotto chiave nel cassetto. Assieme a un tomo di Hermann Rauschning, "Hitler mi ha detto..." (Edizioni delle Catacombe), datato 1944: altro regalo di Oriana. Mieli è così: (poco) direttore e (molto) prof. «Sarà un retaggio di mio padre», spiega, «ma mi sta molto a cuore la doppia identità: se una cade l'altra va avanti. Ecco perché considero fondamentale avere due lavori». Oltre a dirigere il Corriere, da cinque anni tiene un corso di Storia contemporanea alla Statale di Milano. «È lì che mi sento veramente arrivato», confessa. «Il giornalismo, invece, è relativo. È quando sto in cattedra o correggo una tesi e ho a che fare con gli studenti, che mi sento veramente un padreterno». Non che non gli piaccia fare il direttore. L'unica foto nell'ufficio è quella che lo ritrae assieme ai padri fondatori del Corriere, accanto a un manifesto di Mao. Ce l'ha messa tutta a risalire la china dopo l'emorragia di copie provocata dal suo editoriale dell'8 marzo 2006 in cui invitava i lettori a votare Prodi. Ora i dati Audipress lo premiano. Nell'ultima rilevazione il Corriere segna un +4,1%, contro il +1,6% di Repubblica. E addirittura un +5,6 rispetto all'autunno 2006. Letto ogni giorno da 2.722.000 persone, il quotidiano diretto da Mieli è quello che cresce di più in Italia (dopo Libero: +4,5%).

Pensa di aver riparato al danno prodotto con il suo endorsement in favore di Prodi?

«Certo. Anzi, quel 5% di lettori del Corriere che reagirono male all'endorsement li abbiamo ripresi e sono anche cresciuti di numero. Perché hanno avuto modo di interpretare il senso di quella scelta».

Lei suggerì loro di votare Prodi, non c'è molto da interpretare.

«La mia non era una scelta di schieramento. L'endorsement, per come lo intendevo io, era di tipo anglosassone: ci lasciava anche liberi di criticare il governo quando andava criticato».

Quanti elettori fece perdere al Corriere?

«In quella primavera-estate ci fu uno scostamento di qualche decina di migliaia di copie».

Il suo vicedirettore Massimo Mucchetti, nel libro "Il Baco del Corriere", racconta che furono 40mila le copie perse.

«Confermo».

Quando decise di schierare il Corriere aveva previsto simili effetti?

«Quando uno fa una scelta di quel tipo mette in conto che le conseguenze possano essere complesse. Ma quei lettori, col tempo, sono rientrati».

Sì, ma allora creò il panico in azienda. Nel Cda del 14 luglio 2006, l'ex ad di Rcs, Vittorio Colao, denunciò che il bilancio risultava gravato da 12 milioni di oneri aggiuntivi necessari per tamponare la perdita di 40 mila copie prodotta dal suo editoriale.

«In effetti, la mia scelta creò dei problemi. Ma penso di aver fatto bene».

Quindi lo rifarebbe?

«No, col senno di poi non lo rifarei».

Si è pentito dell'endorsement?

«No, perché ho fatto una scelta che rientra nei canoni del giornalismo più moderno. Ovviamente mi brucia ancora il bailamme che ne scaturì. Ma pur rimanendo una cicatrice sulla mia immagine, alla lunga sono convinto che il mio sarà considerato un precedente positivo».

Se non si è pentito, perché dice che non lo rifarebbe?

«Se tutti i lettori fossero in grado di capirne il senso, lo rifarei. Ma se c'è anche una piccola minoranza che fraintende, non ne vale la pena. I direttori degli altri grandi giornali fanno continuamente l'endorsement, ma con la mano sotto il tavolo».

I dati sulle vendite del Corriere spesso vengono contestati. Nel computo rientrano solo le copie vendute o anche quelle distribuite sugli aerei e quelle regalate?

«I dati sulle copie vendute sono forniti mese per mese dalle aziende editoriali che valutano le copie all'ingrosso, mettendoci dentro tutto: copie vendute in edicola, porta a porta, in tandem con altri giornali e quelle regalate».

Tutti hanno visto i camion distribuire gratis il Corriere...

«Tutti i giornali distribuiscono copie gratis, Libero compreso. Non è che sugli aerei non c'è Libero».

Non più. Ma è possibile sapere quante sono le copie del Corriere effettivamente vendute?

«Ogni giornale ha il suo dato sulle copie diffuse, ma quello sulle copie effettivamente vendute non è scomponibile da quello delle copie regalate».

Nell'editoriale dell'8 marzo lei si schierò con l'Unione e Berlusconi disse: «Sapete che prima delle elezioni, gli azionisti del Corriere prima e Paolo Mieli poi, vennero da me a garantirmi l'appoggio al voto?". Andò veramente così?

«Incontrai Berlusconi prima del voto e parlammo della situazione politica in generale, ma non gli garantii assolutamente nulla».

A Capri, al congresso dei giovani di Confindustria di ottobre, lei fu durissimo contro il governo: «Le cose fatele, non limitatevi a dirle». Se non è una retromarcia questa...

«Prodi ha dato una buona prova di governo. Ma la sua maggioranza si è comportata in maniera veramente disdicevole. Siccome il mio endorsement l'ho fatto nei confronti del governo Prodi e della possibilità di questa maggioranza di dimostrarsi all'altezza della prova, penso che almeno uno dei due termini del mio editoriale fosse radicalmente sbagliato».

Chi voterà questa volta?

«Devo ancora decidere se rifarò o no l'endorsement. Siccome probabilmente non lo rifarò, o almeno non nei termini in cui l'ho fatto nel 2006, se dicessi chi voto è come se lo rifacessi».

Ma non l'ha già rifatto con il suo editoriale dell'8 febbraio scorso, che benediceva la corsa solitaria di Veltroni?

«No, tant'è vero che non ha avuto l'effetto dell'endorsement. Quell'editoriale voleva essere una constatazione, che di lì a poche ore si è rivelata giusta».

Quale?

«Veltroni, con la sua scelta di andare da solo, ha messo in moto un processo virtuoso e per il centrosinistra e per il centrodestra. Quindi do un giudizio positivo di tutte e due le forze ai nastri di partenza».

Chi vincerà le elezioni?

«Mi sembra una partita tutta da giocare. Ma se fossi uno scommettitore inglese punterei tutto su Berlusconi».

Lei è stato due volte direttore del Corriere, dopo aver diretto la Stampa, passando per Repubblica e l'Espresso. Quando va a dormire la sera si sente Dio onnipotente o un uomo a corto di desideri?

«Io ho un sacco di desideri e quando vado a dormire ho un sacco di pensieri. Molti di lavoro, ma anche pensieri lieti».

Come ha fatto a inanellare una carriera così strepitosa?

«Ho cominciato a lavorare molto giovane in un'Italia che era molto diversa. Nel 1967, un diciottenne appena uscito dal liceo poteva essere assunto in un giornale prestigioso come l'Espresso, allora diretto da Eugenio Scalfari. Tutto un altro mondo il giornalismo a quei tempi. Pensi: si poteva persino licenziare. Tant'è che quattro anni dopo io fui licenziato».

Perché Scalfari la licenziò?

«Perché l'azienda viveva un momento di difficoltà economica. Ma mi tennero con un contratto di collaborazione e due anni dopo mi riassunsero».

Cosa fece nel frattempo?

«Ne approfittai per laurearmi in Storia contemporanea con Renzo De Felice, il grande storico del fascismo, e divenni suo assistente. Mi laureai nel 1972 con una tesi sul corporativismo fascista in pieno periodo di contestazione».

Come visse il '68?

«Dentro il movimento studentesco. Negli anni tra il '68 e il '72 io ero tre cose contemporaneamente. Primo: ero giornalista dell'Espresso, dove tenevo un diario sulla sinistra extraparlamentare. Secondo: militavo in un gruppo che precedette la costituzione di Potere Operaio, dove c'erano Oreste Scalzone, Franco Piperno, Toni Negri, con i quali rimanemmo amici anche negli anni successivi. Terzo: facevo lo studente applicato di De Felice».

Come mai un militante di Potere Operaio decide di fare una tesi sul fascismo?

«Perché successe la cosa più importante della mia vita: l'incontro con De Felice, la rivoluzione copernicana della mia esistenza giovanile. Me lo presentò mio padre: un ex comunista che aveva diretto l'Unità ed era poi uscito dal Pci nel '56, dopo la rivolta d'Ungheria. De Felice mi affascinò, convincendomi che il centro della vita di un individuo è interessarsi in profondità dell'altro da sé, di quella porzione di ragione che ha chi si trova nel campo opposto, politicamente e culturalmente, perché lì puoi scoprire un tesoro».

Lei è figlio d'arte. Crede che il suo destino sarebbe stato lo stesso se suo padre non fosse stato Renato Mieli?

«Mio padre era un ebreo di Alessandria d'Egitto che venne in Italia. Ma durante le leggi razziali si rifugiò in Medio Oriente. Rientrò cambiando identità, nei panni di un colonnello dell'esercito inglese di nome Ralph Merrill. Non considero mio padre un giornalista. Quindi non mi considero un figlio d'arte».

Suo padre fu anche il fondatore dell'Ansa.

«Fondò l'Ansa perché gli inglesi sapevano che era un intellettuale di spessore. Entrato nel Pci, divenne anche direttore dell'Unità nel '49, l'anno in cui nacqui io. Ma poi lasciò la direzione nel '54, per andare a Roma a dirigere la sezioni Esteri del Pci. Nei primi tempi, fummo ospitati da Maurizio e Marcella Ferrara, i genitori di Giuliano, che per me è stato un fratello per tutta l'infanzia e l'adolescenza».

Che rapporto ha lei con l'ebraismo?

«Io mi sento ebreo, anche se "tecnicamente" non lo sono, essendo figlio di padre e non di madre ebrea. Pur non professando alcuna religione, mi sento molto vicino al mondo ebraico».

Che rapporto aveva con suo padre?

«Molto forte. Anche se era più forte il rapporto con mia madre, perché da quando avevo sette anni, quando i miei si separarono, ho vissuto con lei».

Quando fu preso dal sacro fuoco del giornalismo?

«Nel 1967, l'anno in cui feci la maturità classica al Tasso, complice il papà della mia fidanzata dell'epoca, che era un giornalista dell'Espresso, Enrico Marussig. A settembre mi presentò, feci l'abusivo qualche mese e mi assunsero».

Cosa sognava di fare da bambino?

«Il professore universitario. Facevo attività politica. Mi iscrissi prestissimo alla federazione giovanile comunista. Ero dissidente da destra e poi fui travolto dal '68. Ma non sono mai stato maoista. Anche se per vezzo nel mio ufficio tengo un manifesto della rivoluzione culturale di Mao, come una citazione forzata di quello che sono stato».

Doveva essere un secchione...

«No. Fui anche rimandato in storia in quinta ginnasio. Ma ero stato malato, quindi sono giustificato. Anche all'esame di giornalista sono stato bocciato, all'orale».

Paolo Mieli bocciato all'esame di giornalista?

«Cominciarono a torchiarmi con delle domande giuridiche, ma io sapevo poco o niente perché avevo saltato quella parte del programma. Provai a bofonchiare qualcosa. Mi bocciarono».

Quando nell'85 Piero Ostellino volle assumerla al Corriere, lei disse no. Perché?

«Preferii andare a Repubblica, dove mi aveva chiamato Scalfari, con cui avevo lavorato 18 anni all'Espresso. Ma non mi trovai bene».

Perché?

«Perché il passaggio dal settimanale al quotidiano fu un trauma. Il caos e la competitività mi davano ansia e resistetti poco».

Se soffriva d'ansia, come ha fatto nel giro di pochi anni a diventare direttore di due quotidiani: prima della Stampa e poi del Corriere?

«Tutto cominciò con un'intervista che feci a Gianni Agnelli per Repubblica nell'85. Andai da lui a Torino e passammo una giornata intera insieme. Da allora mantenemmo un rapporto di amicizia. E tutte le volte che lui veniva a Roma mi invitava a cena. Ogni tanto andavamo anche in vacanza e a sciare insieme. Quando, nell'86, il direttore della Stampa, Gaetano Scardocchia, propose di assumermi, Agnelli si dichiarò molto contento e il nostro rapporto si intensificò. Nel maggio del '90, Scardocchia lasciò. E Agnelli mi chiamò a dirigere la Stampa, nonostante avessi 41 anni. Nell'autunno del '92, siccome la proprietà era la stessa, e l'Avvocato aveva grande voce in capitolo, mi mandarono a dirigere il Corriere».

Sul Corriere non compaiono quasi mai suoi editoriali. Non le piace scrivere?

«Mi piace. Non scrivo perché penso che il compito di un direttore sia di far scrivere gli altri. Io mi vedo più come direttore d'orchestra che come concertista».

Cosa pensa dei giornalisti?

«Secondo me, i direttori dei giornali fanno poco perché le persone eccezionali possano venir fuori e le meno eccezionali restino un passo indietro».

E lei cos'ha fatto per invertire la tendenza?

«Preferisco non parlare di me. Da osservatore - è un espediente retorico perché giudico anche me stesso - mi sembra che oggi i direttori abbiano le mani molto legate».

Non tutta la categoria stima il mielismo, ribattezzato "giornalismo con la minigonna".

«Come tutti i generi, il mielismo ha vissuto un momento felice all'inizio degli anni Novanta e poi un'orribile deformazione, in cui io sono il primo a non riconoscermi. Sono state messe sul mio conto cose con le quali io non c'entro nulla».

Lei fa un mestiere complicato: deve soddisfare i tanti lettori del Corriere senza contrariare una quindicina tra i più grandi centri di potere di questo Paese, tanti quanti sono i grandi azionisti del suo quotidiano. Quando si guarda allo specchio la mattina pensa di più ai lettori o ai suoi editori?

«In questo ultimo anno sono cresciuti i miei lettori, non i miei azionisti».

Quanto tempo dedica al Corriere e quanto al suo personaggio?

«Il mio tempo è interamente dedicato al giornale, alle mie letture e ai miei amici personali, gran parte dei quali non sono giornalisti».

I detrattori dicono che lei non fa giornalismo, ma politica.

«È vero. Un grande giornale che si impone con i suoi editoriali influenza la politica: è scritto per questo».

Pensa di scendere in campo prima o poi?

«Mai».

Le sarebbe piaciuto se l'avesse fatto Luca di Montezemolo?

«Sarebbe un buon presidente del Consiglio, ma siccome siamo amici non gli suggerirei mai di entrare in politica. Penso abbia fatto bene a chiarire che non intende farlo».

Che ne pensa della discesa in campo di esponenti di spicco di Confindustria, come Matteo Colaninno e Massimo Calearo, nelle file del Pd?

«Dal momento che non è sceso in campo Montezemolo, queste mi sembrano candidature fatte a titolo personale, che danno il senso dell'immagine che Veltroni vuole imprimere al Pd: un partito non delle barricate, ma delle compatibilità. Forse la candidatura più dirompente in questo senso è quella del nostro editorialista Piero Ichino. Del resto, a ogni campagna elettorale si arruola un editorialista del Corriere che poi diventerà ministro. È già successo con Tremonti e con Padoa Schioppa. Ora ricapita con Ichino».

È convinto che Ichino diventerà ministro?

«Di sicuro, se vincesse il centrosinistra, Ichino sarebbe un ottimo ministro».

Lo vedrebbe bene al ministero dell'Economia?

«Lo vedrei meglio al Welfare».

A luglio, a Cortina, lei disse: «Bisogna vedere se quando Veltroni prenderà in mano lo scettro del Pd sarà rimasto qualcosa». È rimasto qualcosa?

«Io penso che il Pd possa prendere tra il 35% e il 40%. E se accadrà, le elezioni, anche se trionferà Berlusconi, le avranno vinte in due».

Riconosce meriti a Berlusconi?

«Enormi. Innanzitutto quello di aver fondato il centrodestra. È riuscito a mettere insieme una formazione politica che resisterà anche quando lui non ci sarà più. Berlusconi è sicuramente un grandissimo personaggio della politica. E se dovesse vincere le elezioni per la terza volta, dopo essere stato sulla scena politica per 15 anni, lo spazio a lui dedicato nei libri di storia non sarà limitato alle formulette che usiamo oggi. Ci vorrà una riflessione profonda su quest'uomo che ha segnato nel bene e nel male la storia recente di questo Paese. Il male è stato ampiamente dibattuto. Ma il bene merita di essere anch'esso esaminato».

Qual è l'aggettivo che connota meglio Berlusconi?

«Grande. Discusso. Ma, soprattutto, sorprendente. Berlusconi è un uomo che ha rotto gli schemi».

La chiama spesso?

«Non spessissimo. Però ci sentiamo. Ci incontriamo».

Che rapporto avete?

«Di grande cortesia. Il mio rapporto con Berlusconi è contrassegnato da due episodi nei quali il Corriere non è stato tenero con lui. Uno risale al 1994, quando pubblicammo la notizia dell'avviso di garanzia che diede uno scossone al suo governo, che di lì a poco sarebbe caduto. E l'altro è quello dell'endorsement. Mi ha sempre stupito che questi due fatti, dei quali per un politico normale uno basterebbe, in lui non abbiano lasciato il segno».

Sicuro? Berlusconi non perde mai occasione di sparare contro «la stampa nemica», Corriere compreso...

«Certo, a ridosso di quei fatti non mi ha parlato, ha avuto delle reazioni infastidite. Ma col tempo il nostro rapporto è sempre ripreso».

Con lei, in privato, il Cavaliere si lamenta molto del Corriere?

«Mai».

Da Prodi ha subito pressioni?

«Pressioni, no. Però da parte di Prodi non ho avuto neanche grandi attestati di simpatia».

Può sopravvivere il Corriere con tutti questi azionisti?

«Certo. È evidente che si tratta di forti personalità che la pensano una diversamente dall'altra, tutte con interessi diversi. Ma la cosa che mi dà più soddisfazione è quando il Corriere della Sera viene individuato, a torto o a ragione, come portatore di una politica dei poteri forti, perché vuol dire che è riuscito questo lavoro sottile di tessere un'identità comune. Il direttore io lo vedo come un regista, un punto di equilibrio tra identità diverse. Questo vale tanto per gli editorialisti quanto per gli azionisti».

Mucchetti, invece, dice che un giornale non può avere un board editoriale che somiglia a un campo da golf.

«Sono visioni diverse. Non è che ci voglia molto a mettere insieme tutti gli amici di Berlusconi o tutti gli amici di Veltroni. Ma è molto più interessante trovare un punto d'intesa dinamico».

Quanto "paraculismo" ci vuole per dirigere un giornale con quindici padroni diversi?

«Pochissimo. È un'idea semplicistica pensare che un problema così si possa risolvere con la furbizia».

Che rapporto aveva lei con Enzo Biagi?

«Molto affettuoso, ma adulto, senza smancerie. Negli ultimi giorni della sua malattia è stato molto più lui vicino a me che non io a lui. Mi telefonava e, poiché sapeva che anch'io sono cardiopatico, si informava lui del mio stato di salute e mi dava consigli».

Lei ha avuto diversi matrimoni. Questo vuol dire che è un uomo fedele?

«Sì, ho avuto più matrimoni e figli da ogni matrimonio. Io penso che significhi qualcosa della mia vita».

L'8 marzo il suo editoriale lo dedicherà alle donne o al voto?

«Né all'uno né all'altro. E poi, nel mondo succedono cose più importanti delle elezioni del 13 e 14 aprile».

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

STAMPA E MAGISTRATURA: PAPPA E CICCIA.

Come in Italia stampa e magistratura impongono una dittatura nel nome della democrazia, scrive Giorgio Fenzi. L'analisi deve sostanzialmente partire dai media.

I giornali che detengono l'80% dei lettori, sono di proprietà e comandati dal potere finanziario di questo paese, partendo dalle banche sino ad arrivare alle più ricche famiglie italiane, es: De Benedetti Della Valle, Agnelli e altri, con orientamento SINISTRA CENTRO.

I giornali che sono schierati verso i partiti politici di CENTRO DESTRA il restante 20%.

Per le TV è ancora peggio, perché anche se le quote delle reti televisive potrebbero essere suddivise in modo più omogeneo considerando la divisione partitica delle reti di stato, le reti Mediaset covano molti giornalisti e commentatori che non sono certo di centro destra, ma di sinistra centro, quindi paradossalmente siamo alle stesse percentuali della carta stampata.

I giornalisti del FATTO QUOTIDIANO e di altre testate come LA REPUBBLICA e IL CORRIERE DELLA SERA per elencarne alcune,le più importanti, sono diventate un braccio armato, armato di una parola e una penna al servizio dei loro capi controllori, evidenziati in una parte cospicua della magistratura che paradossalmente si fa chiamare Magistratura Democratica, come se bastasse far riferimento alla parola democratica per essere democratici, come se le azioni e i comportamenti fossero poco importanti per determinare chi e cosa è democratico.

Tutto questo per controllare le menti di quel 80 % di lettori e ascoltatori.

OBIETTIVO: Conquistare consenso delle menti del popolo Italiano pronunciando alcune parole chiave che hanno un unico intento, quello di rendere puro e sacro chi le pronuncia:

PREGIUDICATO - CONDANNATO - INQUISITO.

Sopratutto se sentenziate nel nome della legge, che alcuni magistrati deliberano senza l'ombra della PROVA, ho un vago ricordo, una volta esisteva la Prova per condannare un soggetto inquisito.

Intendiamoci, queste parole dovrebbero consacrare qualsiasi fiamma democratica se non fossero usate da poteri assoluti, che da servitori delle stato si sono trasformati in lobby parassitarie con benefit, vitalizi e stipendi da veri regnanti, indipendenti da tutto e da tutti gli altri poteri, trasformando un potere di servizio in un potere di stampo dittatoriale.

Premesso che nessun politico e bello bravo e buono, anzi spesso ha qualche scheletro nell'armadio, e sin qui è chiaro a chiunque, e premesso anche che le parole sopra riportate hanno un valore giuridico importante per la società, capovolgendone i significati veri, camuffano il disegno eversivo al popolo, che deve trovar difficile vedere, capire, ragionare, in questo modo, oltretutto, se accecato da una luce fortissima che porta il nome di virus dell'ODIO, il disegno trova un suo compimento.

Specificità del Virus e soggetti del popolo predisposti ad ospitarlo.

1. Soggetto invidioso

2. Soggetto ignorante

3. Soggetto che ha senso delle istituzione quando gli pare

4. Soggetto di ideologia Comunista

5. Soggetto di base Nazista

6. Soggetto raccomandato con finti concorsi in enti statali

7. Soggetto razzista verso chi la pensa in modo diverso

8. Soggetto razzista contro gli Italiani e L'ITALIANITÀ, l'importante è comprarsi i futuri voti degli extracomunitari dopo avergli concesso la cittadinanza, vedrete, contraccambieranno il favore.

9. Soggetto egoista

10. Soggetto Opportunista, predisposto all'accusa di un peccato che anch'esso ha commesso e che sta ancora perpetrando.

11. Soggetto statalista e poco patriottico.

Il giornalista in aiuto al magistrato fa sapere al tizio che è sotto ricatto psicologico e che non è più libero, facendogli leggere su qualche giornale, qualche intercettazione, o qualche articolo dove si scrivono indiscrezioni private che solo il malcapitato può sapere e quindi preso dal panico e dalla paura capisce.

Il soggetto malcapitato si trova davanti a due scelte,

1. PROSTRARSI, INGINOCCHIARSI, (cosa che fanno tutti )

2. REAGIRE ( cosa che non fa nessuno, o almeno POCHI )

NEL CASO 1.

Il controllo è totale, il ricattato è prono, e si trasforma come per il giornalista in soggetto genuflesso, un po per paura, ma essendo anche uomo di cultura e in alcuni casi intelligente, è furbo a tal punto da sfruttare la genuflessione in business, TRASFORMANDOSI in BUSINESS MAN. L'affare del business man consiste nella propagazione del virus DELL'ODIO, che il magistrato con mezzi non liberali e poco rispettosi, ma nel nome della legge, quindi per la società considerati leciti e sopratutto di garanzia, consegna in mano al giornalista le parole chiave, PREGIUDICATO - CONDANNATO - INQUISITO.

Quindi scrive libri, articoli ben pagati su giornali, partecipa a talk show ECC. e fa un bel pacco di soldi, protetto da quel momento da ogni indagine, insomma un paradiso.

Stessa cosa per i proprietari di quei media di proprietà, partendo dalle banche sino ad arrivare alle più ricche famiglie italiane, es: De Benedetti, Della Valle , Agnelli, ECC. Insomma un paradiso, proni e genuflessi ma al contempo ripagati, vedi pagamento causa non ancora vinta, Lodo Mondadori al sig. De Benedetti.

NEL CASO 2.

Chi reagisce, se ha commesso affari o azioni illecite e facilmente condannabile, con giusta ragione mi vien da dire, che giustizia sia, se non fosse però che questo trattamento venisse fatto a tutti i soggetti indiscriminatamente e in ogni direzione, ma sappiamo bene che la storia ormai ha scritto e coniato UNA MANO SPORCA E UNA PULITA.

Se invece non ha commesso nulla, oppure, diciamo in un caso estremo e assurdo, che il soggetto imputato è stato abile non lasciando prove quindi comunque innocente per lo stato di diritto, questi rappresentanti del giudizio, giudicano lo stesso quello che gli pare a loro, come faceva Hitler, Stalin, e altri dittatori, quindi, quando si trovano un potere povero o non ricco a sufficienza per difendersi, questo viene spazzato via in tempi mediamente corti, perché con L'ACCANIMENTO giudiziario solo un potere con forti ricchezze riesce a tener testa, ma contro condanne IN ASSENZA DI PROVE, senza l'impronta digitale, senza il fatto documentale che inchioda il PRESUNTO farabutto, ecco che qui casca l'asino, nessun potere può contrastare questo potere, solo una guerra civile, e poi e poi, chissà, forse possono anche controllare le forze armate, ecco dove senza più vergogna nel modo spudorato che stiamo vivendo, manifestano il loro potere dittatoriale, ecco che qui si scoperchia il pentolone.

Pur essendo semplice da vedere per me, ma non per molti altri membri del popolo, perché infettati dal virus, esiste fortunatamente un'altra parte del popolo che sapeva già tutto ciò, che si trova davanti ad un PROBLEMA DI ORDINE DEMOCRATICO, quello vero però, perché vedendo un comportamento addirittura spudorato, che non si nasconde più dietro a falsi paraventi democratici perché obbligato al proseguimento del disegno politico, addirittura senza più vergogna e giocando a carte scoperte, questi rappresentanti dello stato vogliono dettare la politica sociale ed economica a questo paese, con la collaborazione di politici e giornalisti inginocchiati e una parte del popolo che alimenta tutto questo, responsabile anch'esso del disegno eversivo.

Molto semplice fare la parte del giornalista che interpreta la parte del Soggetto puro che inquisisce, chiaramente non è sufficiente farlo passare solo come un'inchiesta giornalistica perché fasulla, e allora ci vuole una carta bollata, un timbro sulla cera lacca che camuffi l'operazione dittatoriale in una azione democratica, a questo ci pensano i magistrati.

La storia del patto indecente tra giornali e magistrati. Ecco perchè i giudici di Mani pulite si accanirono su Gardini e ignorarono De Benedetti, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano”.

Beh, è interessante che anche un signore come Piero Ostellino - un ex direttore del Corriere della Sera, insomma non il primo scemo che passa (...) (...) - abbia messo nero su bianco quello che definisce «un pactum sceleris fra il mondo dell’informazione e la parte della magistratura interessata a sovvertire gli equilibri politici esistenti». Ostellino l’ha scritto ieri su Il Foglio e partiva essenzialmente dal periodo di Mani pulite, quando il patto, cioè, secondo lui, sarebbe stato più o meno questo: «Voi - dissero i media a magistrati - tenete fuori da Mani pulite i nostri editori e noi vi aiutiamo a mettere le mani, e a far fuori, i loro concorrenti e ad attribuire tutta la responsabilità della corruzione alla politica». Partendo da questo, dice Ostellino arrivando così all’oggi, «si realizzò la trasformazione dell’Italia in un Paese nelle mani di una magistratura inquirente e di un sistema informativo che ignoravano l’Habeas corpus e istruivano processi e comminavano condanne sulle pagine dei giornali prima ancora che a farlo fossero i tribunali». Poi Ostellino parla di un patto dei direttori, ma per ora fermiamoci qui. Anche perché, messa così, dar torto a Ostellino è davvero difficile. Nella prima parte di Mani pulite, la parzialità della magistratura nei confronti di certi grandi imprenditori e proprietari di mass media (Agnelli e Romiti, De Benedetti, ma attenzione, da principio anche Berlusconi) è riscontrabile non tanto da singoli atti giudiziari bensì dalla loro assenza. Sulla Fiat e sulla responsabilità dei vertici (Agnelli ma soprattutto Romiti) c’è tutta una letteratura probatoria pubblicata e stra-pubblicata: «Sono stati i magistrati di Mani Pulite a suggerire a Romiti di scrivere la lettera-articolo sul Corriere della Sera nella quale il 24 aprile 1993 si rivolge agli industriali invitandoli a collaborare con i giudici»: questo, per esempio, lo si legge in «Storia segreta del capitalismo italiano» (Longanesi, prefazione di Ferruccio de Bortoli) tutti i cronisti dell’epoca restano convinti, a tutt’oggi, che fu questo a evitargli l’arresto: al pari di un discorso pro-giudici pronunciato da Agnelli il 17 aprile 1993 al Teatro la Fenice di Venezia. Dopodiché il procuratore capo di Milano, Francesco Saverio Borrelli, disse che «i legali della Fiat hanno espresso disponibilità a collaborare». Nei fatti, successivamente, a Romiti fu concesso di presentarsi come semplice teste e di produrre un semplice memorialetto difensivo: ciò che non fu assolutamente permesso, ad esempio, a un Raul Gardini. Romiti, per contro, non fu arrestato neppure quando si appurerà che proprio in quei giorni aveva fatto bruciare delle carte: «A Vaduz (Liechtenstein, ndr) dovevano scegliere chi doveva attribuirsi i fatti... hanno deciso di distruggere tutto il resto del conto Sacisa, in modo da dare ai magistrati qualche informazione per farla contenta e chiudere il conto con la Procura... ritengo che tutto ciò sia stato coordinato e disposto da Romiti, in quanto fu lo stesso Romiti che dette ordine in tal senso». Questo l’avrebbe messo a verbale un manager Fiat, Antonio Mosconi. Tuttavia la maggior parte dei giornali scrisse della deposizione di Romiti definendola «una svolta»: da far impallidire il filo-berlusconismo del Tg4. La Fiat, in ogni caso, fu messa sotto torchio, sì: ma anni dopo, e dalla magistratura di Torino. Così come fu la magistratura di Roma, sfuggevolmente, a mandare Carlo De Benedetti agli arresti domiciliari in data 30 novembre 1993. A Milano, invece, De Benedetti - proprietario del gruppo Repubblica-Espresso - si presentò in Procura una domenica, il 16 maggio, con un memoriale lunghissimo nel quale sosteneva che la sua Olivetti era stata sistematicamente concussa dalle Poste italiane. «De Benedetti», scriverà Di Pietro in un suo memoriale difensivo, «si presentò spontaneamente». E tutti a crederci. Non manca una certa letteratura anche un Silvio Berlusconi lasciato miracolosamente stare dai magistrati di Milano almeno fino alla fine del 1993 - quando, ricordiamo, i suoi telegiornali sostenevano Mani pulite a spada tratta - il che è stato ammesso e documentato anche dai suoi più feroci detrattori di oggi. Ma non è certo a Berlusconi che Ostellino si riferiva nel suo articolo. Poi c’è il discorso dei direttori di giornale e dei giornali, cioè, che appartenevano ai succitati imprenditori. Ai tempi, nel 1992, si mormorava che i direttori si telefonassero per concordare spazi e titoli comuni: un pool di vertice, in pratica. Si stupirono in molti, diversi anni dopo, quando Piero Sansonetti, condirettore de l’Unità nel 1992-1993, raccontò che era tutto vero: «Nel biennio 1992-1993 nacque un’alleanza di ferro tra quattro giornali italiani: il Corriere, la Stampa, l’Unità e Repubblica. Il direttore de l’Unità era Walter Veltroni, alla Stampa c’era Ezio Mauro, il caporedattore di Repubblica era Antonio Polito. Titoli concordati - Tra i quattro giornali si stabilì un vero e proprio patto di consultazione che li rendeva fortissimi: ci si sentiva due o tre volte al giorno, si concordavano le campagne, le notizie, i titoli. Il punto di riferimento di tutti era Paolo Mieli». Paolo Mieli ed Ezio Mauro non hanno confermato, ma Antonio Polito sì:  «Le cose funzionavano pressoché come dice Sansonetti… il governo perse in pochi mesi una decina di ministri che si dimettevano subito, appena ricevuto l’avviso di garanzia, anche per via delle nostre campagne di stampa. Abbiamo interpretato e indirizzato l’opinione pubblica. Facemmo quel patto proprio perché il nostro peso era enorme… Quella scelta di federarsi fra giornali non fu buona, non la rifarei. Ma lo dico oggi». In effetti stiamo parlando di roba di decenni fa. Che cos’è cambiato, da allora? Molte cose, compreso un diluvio di intercettazioni che ai tempi non c’era, e che oggi, troppo spesso, si accompagna a procedimenti che poi non reggono il vaglio dei processi. Quelli dei tribunali, almeno: i processi imbastiti sui giornali funzionano ora come allora.

Magistrati e Stampa. Limiti agli accordi di non belligeranza. Non si può danneggiare la Casta.

Limiti alla libertà di espressione dei magistrati ma solo se manifestano il proprio pensiero alla stampa, in un contesto che danneggia il sistema giudiziario, scrive Marina Castellaneta su “Il Sole 24 Ore”. E promosso il sistema di sanzioni disciplinari del Consiglio superiore della magistratura. Con sentenza del 9 luglio 2013 la Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo si è pronunciata sui limiti alla libertà di espressione garantita dall'articolo 10 della Convenzione europea nel caso di magistrati (ricorso 51160/06). A Strasburgo si era rivolto un magistrato che, in un'intervista a un giornale, aveva espresso dubbi sull'andamento di un concorso per l'accesso alla magistratura. La donna aveva poi specificato il suo pensiero in un'altra intervista. La sezione disciplinare del Csm aveva ritenuto che la ricorrente fosse venuta meno al dovere di rispettare i colleghi e all'obbligo di riservatezza e aveva disposto la sanzione dell'ammonimento. Il magistrato si è rivolto alla Corte europea ritenendo violato l'articolo 6 della Convenzione (equo processo) e l'articolo 10 (libertà di espressione). La Corte europea ha precisato che anche ai magistrati, come ad altri funzionari pubblici, devono essere fornite le garanzie assicurate dall'articolo 6 della Convenzione. Ma, prima di agire dinanzi alla Corte, è necessario tentare i ricorsi interni, cosa che la ricorrente, almeno per le questioni sulla ricusazione dei componenti della sezione disciplinare, non aveva fatto. La Corte di Strasburgo è invece entrata nel merito del ricorso per altri profili contestati dalla ricorrente, come l'assenza di indipendenza e imparzialità della sezione disciplinare del Csm. Tesi respinta dalla Corte: la sezione disciplinare – osserva Strasburgo – rispetta i criteri dell'articolo 6 della Convenzione ed è da considerare come un organo giurisdizionale imparziale e indipendente, costituito per legge. I componenti della sezione disciplinare non sono sottoposti a un controllo gerarchico e lo svolgimento del procedimento avviene nel pieno rispetto delle norme del Codice di procedura penale, con l'acquisizione di prove e l'audizione di testi. Sulla violazione della libertà di espressione, la Corte ha precisato che, nel caso esaminato, la questione non riguardava in via generale il diritto alla libertà di espressione di cui gode ogni individuo, ma la modalità di manifestazione attraverso la stampa. A questo proposito, secondo Strasburgo, i magistrati e i funzionari del l'ordine giudiziario devono usare il proprio diritto alla libertà di espressione – che deve quindi essere garantito – con cautela ogni qualvolta «l'autorevolezza e l'imparzialità del potere giudiziario siano suscettibili di essere messi in discussione». Non solo. Nel bilanciare i diversi diritti in gioco, la Corte fa pendere l'ago della bilancia sulla necessità di garantire il prestigio del potere giudiziario e gli imperativi superiori della giustizia. Fino al punto che, secondo la Corte, che sacrifica senza dubbio la libertà di espressione, i rappresentanti dell'autorità giudiziaria «non devono utilizzare la stampa neanche per rispondere a delle provocazioni». Necessaria, in ogni caso, una valutazione del tenore delle dichiarazioni e del contesto generale. Per la Corte, inoltre, l'ingerenza nel diritto alla libertà di espressione era stata proporzionale perché la sanzione era la più tenue (ossia l'ammonimento). Di qui il rigetto del ricorso contro l'Italia.

"Impedire che l’Italia diventi una Repubblica giudiziaria", scrive Stefania Craxi, già Sottosegretario del Ministero degli Affari Esteri. La giustizia italiana è malata, gravemente malata. Dall’orrore dei 25 mila avvisi di garanzia, affidati alla stampa prima che agli interessati, con cui le Procure hanno distrutto i partiti storici dell’Italia negli anni ’92/’93, all’assurdo delle 100 mila intercettazioni dei nostri giorni, per una storia di ragazze squillo in cui è coinvolto il Presidente del Consiglio, abbiamo vissuto una continua interferenza della magistratura negli affari politici. Nella società maturano crisi che non sempre la politica riesce a sanare ed ecco la giustizia dimenticare il suo ruolo, farsi giustizia sociale (che è competenza della politica) e procedere contro presunti criminali. Chiarissimo è Marco Ramat, nel congresso del 1975 di Magistratura democratica, la corrente nata sotto l’impulso del PCI: “Il nostro compito consiste nella ricerca di una politica della magistratura e per la magistratura, che sia capace di inserirsi utilmente nella lotta difensiva e offensiva condotta dal movimento democratico nel suo complesso”. E’ tipico di un’ideologia comunista tesa ad abbattere lo Stato borghese dare la delega alla magistratura per reprimere fenomeni sociali. La sostanza dello spirito che anima la magistratura oggi è rimasta la stessa. Il ruolo di supplenza per raddrizzare le storture di uno Stato governato da un Presidente del Consiglio che vorrebbero ogni giorno nelle aule giudiziarie, è rimasto nella testa di giudici e procuratori. Siamo arrivati alla guerra fra Procure per mettere sotto accusa Berlusconi, mentre crescono le violazioni di legge che i magistrati compiono senza pagare dazio, come ha ricordato il segretario del Pdl Angelino Alfano. Carcerazione preventiva a scopo di confessione, delazione, minacce agli indagati e agli imputati, la costituzione di prove come capi d’accusa, insinuazioni, avvertimenti, un uso dei pentiti che non ha riscontro altrove, continua ribellione al governo e al Parlamento, proclami al paese, continue violazioni del segreto istruttorio per precostituire un giudizio di colpevolezza nell’opinione pubblica prima di un regolare processo: tutto è posto in essere per attribuirsi un ruolo etico e di supplenza politica. Spero quindi che una profonda riforma possa essere largamente condivisa. Il potere giudiziario deve essere rappresentato da giudici, ai quali è garantita una assoluta indipendenza dal potere politico, dalle pressioni mediatiche, da gruppi sorti all’interno del mondo delle toghe. L’accusa deve rappresentare una funzione separata da quella giudicante e dotata degli stessi diritti della difesa. Occorre che venga data attuazione al modello di organizzazione dell’accusa disegnato da Piero Calamandrei e riproposto da Giovanni Falcone prima della sua uccisione. Occorre che nel Consiglio superiore della Magistratura i componenti eletti dal Parlamento siano pari per numero ai togati. Occorre che i togati nel CSM non esprimano gruppi organizzati, ma siano scelti mediante sorteggio. Occorre che il giudizio disciplinare sia attribuito non ad un collegio del CSM, ma ad una corte di giustizia scelta dal Parlamento con gli stessi criteri con i quali viene nominata la Corte costituzionale.
Occorre la responsabilità civile dei magistrati, come decretò il referendum del 1987. Non si tratta di condannare i magistrati, i quali in grande maggioranza svolgono correttamente un lavoro difficile e prezioso, né sacrificare l’indipendenza della magistratura, che è un bene supremo. Si tratta però di impedire che l’Italia diventi una Repubblica giudiziaria, in cui i magistrati selezionano la classe di governo, trasferendo così la sovranità dalle Urne alle Toghe. Di fronte a questo rischio, il problema di tutte le forze democratiche e liberali è quello di restituire alla politica il ruolo che le compete in uno stato di diritto.

"La magistratura ha due dimensioni", scrive Luciano Violante, Ex presidente della Camera dei Deputati ed ex Presidente della Commissione Antimafia e magistrato. La magistratura ha il dovere di rendere giustizia ai cittadini. Per poterla rendere con piena indipendenza è costituita come potere della Repubblica. Da tempo ci si dibatte per la riforma della giustizia, con una distinzione rivelatrice tra le forze politiche. Il centrodestra pensa prevalentemente all'intervento sulla magistratura come potere. Il centrosinistra all'intervento sul servizio giustizia. Una regola non scritta della politica dice che nessun potere è disposto a rendere più funzionale un altro potere se non sono chiari i confini di quest'ultimo e le sue responsabilità. Per questo motivo io penso che vada affrontato senza remore il problema della dimensione di potere della magistratura, in modo da garantirne tanto l'indipendenza quanto la responsabilità, per poi passare all'efficienza. Non è facile perché politica e giustizia sono entrambe in crisi di legittimazione. Alla prima manca il consenso, come dimostra la polemica sulla “casta”. La crisi della legge, come regola generale, intellegibile e astratta, ha invece reso fragile il piedistallo della legittimazione del potere giudiziario. “I giudici sono soggetti soltanto alla legge” dice l'articolo 101 della Costituzione; ma se la legge é un ginepraio inestricabile a che cosa sono soggetti i giudici? Di qui traggono spunto i sostenitori dell'impunità della politica per chiedere in diverse forme il controllo della magistratura. Niente di più sbagliato e di più dannoso per i cittadini che sarebbero costretti, per avere ragione, a rivolgersi al politico di turno. Ma questo non esime la magistratura da una severa riflessione sul fondamento della sua indipendenza e sui limiti del suo potere. I recenti litigi tra procure che si disputano la competenza a intervenire su vicende eclatanti e gli eccessi di presenza di qualche magistrato sui mezzi di informazione rivelano la necessità di ricostituire, non nelle parole ma nei comportamenti, una figura di magistrato che deve essere e apparire rigoroso, sobrio, non incline allo spettacolo. L'associazione nazionale magistrati dovrebbe porsi con determinazione l'obbiettivo di una discussione approfondita e pubblica sul tema. A sostegno di questo indirizzo il Parlamento, appena ce ne saranno le condizioni, dovrebbe impegnarsi per almeno tre interventi diretti a consolidare la fiducia dei cittadini nella magistratura. Responsabilità disciplinare: va sottratta al CSM e attribuita per tutte le magistrature (ordinaria, amministrativa, contabile) ad un'Alta Corte composta per un terzo da eletti da tutte le magistrature, un terzo da eletti dal Parlamento e un terzo designati dal Capo dello Stato. Azione penale: il p.m. può avviare le sue indagini non per cercare una notizia di reato, ma solo quando ha una notizia di reato, pervenutagli in qualunque modo, attraverso un rapporto di polizia, una denuncia, un articolo giornalistico, una trasmissione televisiva o un atto parlamentare. Fuga di notizie: giudice competente non può essere lo stesso tribunale o la stessa procura che deteneva la notizia segreta, perché è difficile che un magistrato indaghi in modo penetrante sui suoi collaboratori o sui colleghi del suo stesso ufficio; come per i reati imputati a un magistrato o commessi in danno di un magistrato, competente a indagare a giudicare sulla fuga di notizie dev'essere il tribunale di un'altra città.

ECCO COME MI VOGLIONO FAR FUORI.

Io, Antonio Giangrande, sono uno “ScassaCazzo”, ma non per i soliti mafiosi, così come usa definirli la sinistra retrograda ed ipocrita. Il mio target è l’Istituzione, corrotta ed incapace, i media omertosi ed i cittadini emuli dell’illegalità.

Per spiegare il concetto uso le parole di Giulio Cavalli. Darò voce a chi è adulato dai comunisti, ma è come se parlasse di me. "Ecco come mi uccideranno", scrive Giulio Cavalli su “L’Espresso”. «Un falso incidente, dicono i mafiosi. Perché sono "uno scassaminchia". Con il solito copione: delegittimazione, isolamento, quindi morte. Ma questa volta parlavano di me. Un onore che è solo una metastasi della paura». Cronaca di un omicidio annunciato, per la penna di chi dovrebbe esserne la vittima: scrittore, autore, politico. All'inizio arriva lo straniamento. E' questione di qualche secondo. Sentirsi estraneo al resto del mondo, apolide, anaffettivo per difesa, come per ingoiare tutto senza lasciare briciole che possano ferire quelli che ti stanno vicino. Poi aspetti che si posi la povere. E arriva tutto il resto: cerchi che si chiudono, densi come lava. Sono anni che so che qualcuno mi vuole male, anzi, sono anni che so bene che qualcuno mi vedrebbe volentieri morto. Lo so io, lo sanno quelli che mi accompagnano con la pistola in tasca e non avrebbero mai pensato di farlo in un impolverato camerino teatrale e lo sanno quelli che ci vivono, bene o male, con me. Ma le parole del pentito Bonaventura hanno uno scatto in più: scrivono la sceneggiatura di ciò che sospettavi, fissano i luoghi, i dialoghi, i tempi e i modi; come se da anni sapessi di fare parte dello spettacolo, e in ritardo solo ieri mi è arrivato il copione e la sceneggiatura non mi piace per niente. Delegittimato prima che ucciso: questo è il comandamento laico che dovremmo tenere a mente. Totò Riina ai suoi diceva che "quello lì deve finire mascariato" quando si doveva togliere di mezzo un nemico scomodo. Mascariato, delegittimato, isolato, sospettato per essere lasciato senza le difese delle relazioni oltre che delle scorte, è il metodo che in questa italietta sempre più prepotente si usa nell'antimafia ma anche nel lavoro, nella politica e nelle relazioni sociali. Un'esibizione di prepotenza scambiata per potere che funziona grazie al mito della durezza e alle convergenze inconsapevoli degli utili idioti: così diventa facile essere intolleranti con le fragilità e al servizio del signorotto di turno. Non mi sembra solo questione di mafia, qua, no, per niente: è il federalismo delle responsabilità che ha voluto insegnarci che la solidarietà è un vezzo troppo democratico che non possiamo permetterci per non mettere in pericolo le nostre posizioni di rendita e il futuro dei nostri figli. Dietro la delegittimazione che avrebbe dovuto ammazzarmi prima di ammazzarmi c'è un vizio sociale, mica solo mafioso, e per questo alle mafie funziona perfettamente. L'ho vissuta in tutti questi miei ultimi anni, la delegittimazione, ogni mattina, che ti arriva insieme alla colazione, nel ruolo del minacciato: esposto al cannibalismo perché dovrebbe fare parte dei giochi, mi dicono. Ma forse varrebbe la pena, forse, al di là del film che in questi giorni mi hanno cucito addosso, riflettere sul metodo che prende piede solo perché intanto stiamo perdendo la capacità della critica, di costruire una chiave di lettura collettiva, di darci da fare per un'alfabetizzazione sociale sulle mafie che non stanno più al sud o lì dove ce le hanno sempre raccontate e non hanno i capi che ci propinano in tivvù ma sono nello scontrino del nostro caffè al bar sotto casa che continua a cambiare gestione, sono nella verdura degli ipermercati così vicini che non hanno abbastanza clienti eppure stanno in piedi lo stesso, stanno nel miracolo dei rifiuti che hanno trasformato la merda in oro e sono il banchetto più ricercato, stanno nelle case incessantemente costruite e desolatamente invendute che trasformano le periferie in cimiteri senza elefanti, stanno in un mercato in cui qualcuno vince sempre perché non ha bisogno di guadagnare soldi ma spenderne per ripulirli. E così intanto a perdere sono il talento, lo studio, la meritocrazia e tutte quelle altre cose che giocano con le regole che non reggono più. Poi c'è l'omicidio travestito da incidente. E anche a questo siamo abituati, no? Al Paese dei morti che sono stati suicidati e subito alla svelta tutti a chiudere il caso: come si impacchettano le verità qui da noi, nemmeno al ristorante con il pesce. L'omicidio è una conferma. Conferma dolorosa, sì, ma stava nell'aria. Dicono i De Stefano, i Papalia e i Tegano che sono uno "scassaminchia", pensa, succede che basti raccontare per scassare la minchia, così poco, sono talmente smutandati senza il loro solito silenzio tutto intorno per favorirne l'immersione che una parola dietro un sipario li rende subito stupidi e nervosi. Uno scassaminchia, sarebbe da scrivere sulla carta d'identità come professione. Professione nel senso più antico e decoroso: professare ideali nel proprio lavoro e nella propria cittadinanza, lì nei doveri dove su certi temi non esistono contratti a progetto o precariato, anche se l'hanno capito ancora in troppo pochi. Ti vogliono ammazzare, Giulio. Mi arrivano i messaggi e la solidarietà. Le preoccupazioni, i rodimenti e gli auguri (che non si dovrebbero fare ad un attore). Hai paura? No, non rispondo, gli arlecchini non devono mai prendersi troppo sul serio. Mi investiranno? Impossibile: tutta questa gente intorno è la mia isola pedonale. Mi screditeranno? Possibile, ci divertiremo un sacco a sgretolare tutto questo onore che è solo una metastasi della paura. E quindi? Quindi c'è un articolo della Costituzione (messa così male, ultimamente) che è l'articolo 4 e dice: Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Insomma non essere scassaminchia è anticostituzionale, eh.

Basta parole: adesso salvatemi, scrive ancora Giulio Cavalli su “L’espresso”. «Per un mese ho ricevuto tante pacche sulle spalle. Adesso sento il boss Bonaventura dire che ci sono dei politici tra quanti hanno deciso di uccidermi. E attorno a lui, il silenzio: che è il foyer perfetto per la tragedia». Questa mattina mi sono svegliato leggendomi nelle parole del pentito Luigi Bonaventura che parla di politici lombardi informati del piano che avrebbe dovuto uccidermi. Un'altra volta: un mese fa sempre l'ex boss della cosca Vrenna-Bonaventura di Crotone aveva descritto minuziosamente il piano che avrebbe dovuto uccidermi. Un mese fa mi era scoppiata in mano la paura, pensavo di esserci abituato e invece no: la paura ti scoppia in faccia ogni volta con una forma diversa e non riesci proprio ad abituartici, forse meglio così. Ma leggendo le parole di Bonaventura oggi (e ascoltandolo) mi si accende la rabbia. Rabbia vera, rabbia da scassaminchia nella rilettura di questo ultimo mese di solidarietà come popcorn mentre si proietta il nulla. Luigi Bonaventura è un collaboratore di giustizia ritenuto "altamente affidabile" dalle Procure di mezza Italia. Ora decide di svelare un disegno che è mafioso ma anche politico per l'eliminazione di qualcuno (lasciamo perdere che sia io, non è importante, ora) e richiama dati, persone e luoghi che sono facilmente riscontrabili davanti ad un magistrato. Oggi Bonaventura ha anche dichiarato di essere pronto a giocarsi la propria credibilità con queste sue affermazioni e si dichiara disponibile ad uscire dal programma di protezione nel caso in cui non siano riconosciute veritiere. In un Paese normale (ma noi non siamo un Paese normale) in questo ultimo mese l'ex boss sarebbe stato trascinato davanti ad un magistrato per dire tutto quello che sa (e tutto in un colpo solo, magari) e ci avrebbero già detto se è folle, sincero, manovrato o coraggiosissimo. In un Paese normale, certo: in questo ultimo mese ho incassato solidarietà, tanta, come se piovesse, e più di qualcuno mi dice che dovrebbe bastarmi così. E invece no, grazie, grazie no, la solidarietà non è affar di Stato ma è movimento di società civile che pretende risposte: rivendermela come una risposta che mi dovrebbe bastare è un gioco da pacchisti di altri tempi. Non me ne frega più niente a questo punto della solidarietà, non mi serve più avere le pacche sulla spalla come un frate missionario che ha fatto voto di 'pericolo' e va rispettato anche solo per questo, basta, no, grazie: ora voglio sapere se il ministro Alfano, la destra, la sinistra, il Movimento 5 Stelle, il governatore Maroni, il 'lombardo' Ambrosoli e tutti quelli che hanno ruolo politico in terre interessate da questa storia hanno intenzione di fare qualcosa. Qualcosa di più di una telefonata perché quella no, non mi protegge dagli attentati. Vorrei capire se ancora non abbiamo capito che il silenzio è il foyer perfetto per la tragedia e davvero non abbiamo imparato che il silenzio è complice. Se succederà qualcosa sarà colpa dei silenti. Se Bonaventura arriverà in ritardo con l'appuntamento dei riscontri dovuti o se dovrò perderci la testa dietro a questa paura. Ditemi che rischio e mi difendete o che il pentito è un bugiardo: il resto è per i ciarlatani. Non mi interessa essere un eroe, mi interessa riconoscere uno Stato organizzato, non solo organizzata la criminalità. E' troppo? Per me, i miei famigliari e i miei figli è il minimo indispensabile. "Agibilità sociale", direi, se serve un buon titolo per i giornali.

Il magistrato che cerca di zittirmi con 13 querele, scrive invece Michele Inserra, su “Il Quotidiano della Calabria”. Il singolare caso di un giornalista e delle scelte di un magistrato. «Pago la colpa di aver pubblicato le notizie e non di averle gestite, come è buona usanza in alcuni ambienti della stampa reggina, tra il silenzio accomodante di tanti. E la cosa più semplice da fare per cercare di zittire un giornalista “libero”, è querelarlo ben 13 volte». SINORA ho mantenuto un profilo basso sulla vicenda che da lunghi mesi mi vede coinvolto. Sono stato in silenzio e ho continuato a fare il mio lavoro. Ma ora sono stanco di essere vittima di una singolare anomalia. Pago la colpa di aver pubblicato le notizie e non di averle gestite, come è buona usanza in alcuni ambienti della stampa reggina, tra il silenzio accomodante di tanti. E la cosa più semplice da fare per cercare di zittire un giornalista “libero”, che non si limita a pubblicare la velina di turno, sapete quale è? Querelarlo. Mica una volta. Ben tredici querele dalla stessa persona. Caso raro, se non unico in Italia. Querelato non da una persona qualsiasi. Bensì da un magistrato: Alberto Cisterna, l'ex vice dell'allora procuratore nazionale Piero Grasso, oggi presidente del Senato, trasferito dal Csm a fare il giudice a Tivoli, provvisoriamente, per aver agito “al di fuori dei suoi doveri istituzionali”. Non entro nel merito delle varie vicende, né contesto il suo diritto di difesa, che va affrontato nelle sedi deputate a farlo, ma il metodo adottato. Cisterna si è sentito diffamato persino dalle virgole dei miei servizi.  Ebbene, delle tredici querele otto sono state archiviate dalla Procura di Cosenza, anche dopo opposizioni di Cisterna. In quattro circostanze sono stato rinviato a giudizio. Ma non finisce qui. Perché tra i quattro rinvii a giudizio ben due sono stati ottenuti su imputazione coatta richiesta da un gip di Cosenza, a fronte di richieste di archiviazione da parte del pubblico ministero. Anche questo un caso raro, se non unico in Italia. Basti pensare che nel corso dell'anno 2012 alla Procura di Reggio Calabria saranno state al massimo tre-quattro le imputazioni coatte. E tutte a persone legate ad ambienti criminali. Su una querela soltanto attendo ancora l'esito. In Italia la più recente giurisprudenza ritiene che le querele pretestuose, fatte solo per intimidire i giornalisti, possono essere soggette ad una penale per chi le presenta. Non mi fermerà di certo questa azione anomala messa in campo da Cisterna. Naturalmente della vicenda informerò l'Ordine dei giornalisti nazionale, il Consiglio superiore della Magistratura, il presidente del Consiglio Letta e il ministro della giustizia Cancellieri. E' giusto che anche il nuovo procuratore di Reggio, Federico Cafiero de Raho, sappia cosa sta accadendo da tempo. Avrei potuto farlo in camera caritatis, ma preferisco farlo pubblicamente, alla luce del sole. Mi auguro a questo punto che la Legge sia davvero uguale per tutti, e non sia questo solo uno dei tanti slogan. Ringrazio sin da ora quei pm e quei gip della Procura di Cosenza che hanno avuto la professionalità e la determinazione di ritenere tutti uguali davanti alla Legge.

Tredici querele da un magistrato. Record di Michele Inserra, Bersagliato da Alberto Cisterna, scrive Alberto Spampinato su “Trucioli”. Bilancio: una in corso, otto archiviate, quattro rinvii a giudizio, di cui due coatti. “Qualcuno intervenga”, chiede il giornalista. Inciso. Forse solo in provincia di Savona c’è stato un magistrato che poteva battere il primato, ma non contro un solo giornalista. Tredici querele per diffamazione a mezzo stampa dallo stesso magistrato  nel volgere di un anno. E’ il record italiano del giornalista Michele Inserra, capo della redazione di Reggio Calabria del Quotidiano della Calabria,  che lo ha denunciato pubblicamente con un articolo in prima persona sul suo giornale. A querelarmi, afferma il giornalista,  non è stata “una persona qualsiasi, bensì un magistrato: Alberto Cisterna”. Inserra ha raccontato le sue disavventure e l’inchiesta per corruzione in atti giudiziari in cui è stato coinvolto nel 2011 il magistrato; inchiesta per cui è stato indagato e che un anno fa ha indotto il CSM a trasferirlo in via cautelare al Tribunale di Tivoli in attesa di stabilire se effettivamente abbia agito “al di fuori dei suoi doveri istituzionali”, come sostiene l’accusa. Inserra dichiara di avere sempre e semplicemente pubblicato notizie sacrosante, di interesse pubblico, di fonte giudiziaria, verificate, attendibili. Pensa di essere stato preso di mira pretestuosamente non per inesattezze del tono o del contenuto, ma proprio per il fatto di averle pubblicate. E’ convinto di essere divenuto un bersaglio per “l’anomalia” di “non averle gestite, come è buona usanza in alcuni ambienti della stampa reggina, tra il silenzio accomodante di tanti”. A occuparsi delle 13 querele del magistrato Cisterna è la Procura di Cosenza che sta ancora esaminando l’ultima, dopo averne archiviate 8 e aver deciso il rinvio a giudizio del giornalista per altre quattro, in due casi con l’imputazione coatta disposta dal GIP dopo che il pm aveva chiesto l’archiviazione. “Non entro nel merito delle varie vicende, né – scrive Inserra – contesto il suo diritto di difesa, che va affrontato nelle sedi deputate a farlo, ma il metodo adottato. Cisterna si è sentito diffamato persino dalle virgole dei miei servizi (…)”. “Non mi fermerà di certo questa azione anomala messa in campo da Cisterna. Naturalmente della vicenda informerò l’Ordine dei giornalisti nazionale, il Consiglio superiore della Magistratura, il presidente del consiglio Letta e il ministro della giustizia Cancellieri. E’ giusto che anche il nuovo procuratore di Reggio, Federico Cafiero de Raho, sappia cosa sta accadendo da tempo. Avrei potuto farlo in camera caritatis, ma preferisco farlo pubblicamente, alla luce del sole. Mi auguro a questo punto che la Legge sia davvero uguale per tutti”. Alberto Cisterna ha un contenzioso con la Procura di Reggio Calabria, che ha recentemente accusato di avere fornito “informazioni non veritiere al CSM”. Ossigeno ha già segnalato alcuni episodi intimidatori, o presunti tali, che hanno colpito Michele Inserra. Il 24 settembre 2012 qualcuno ha sfondato il vetro della sua auto in sosta e ha prelevato dall’interno una borsa che conteneva un computer e alcuni documenti su un’inchiesta in corso. Il 27 luglio 2012 ha ricevuto una lettera di minacce, anonima. All’interno della busta una riproduzione mignon di un rotolo di carta igienica. Nel 2010, dopo alcuni articoli sulla strage di Duisburg, gli arrivò in redazione una busta contenente due bossoli.

La replica di Alberto Cisterna a Inserra. «Non cerco vendette, la vittima sono io». Il magistrato in servizio a Tivoli replica alla lettera del giornalista de Il Quotidiano della Calabria, Michele Inserra, contestando le affermazioni circa il numero di querele e di procedimenti giudiziari in atto tra i due. “OGGI sulla prima pagina del Quotidiano  il giornalista dott. Inserra si dichiara vittima di una persecuzione da parte mia. Nel tentativo di dimostrarlo, finisce per litigare con la verità e con la matematica. Sa bene che le querele da me presentate non sono 14, come ha scritto nel suo articolo, ma forse la metà; i rinvii a giudizio a suo carico sono 3 e non 4, di cui solo uno (e non due) deriva da imputazione coatta; le archiviazioni sono 2 e non 8. Era inevitabile. All’approssimarsi delle prime sentenze innanzi a giudici terzi e imparziali il dr. Inserra, si atteggia a martire della giustizia, come capita di questi tempi. Non ricordo al giornalista, che ben lo sa, quante falsità abbia scritto sul mio conto in circa due anni di articoli e pubblicazioni varie: una vera e propria campagna di stampa organizzata con l’obiettivo di colpirmi al di là dei fatti e della verità. Rammento solo l’insuperabile lezione di giornalismo contenuta in un articolo che mi attribuiva l’aver fatto indecenti «viaggi di piacere» insieme ad un soggetto in seguito accusato di gravi reati. Una macroscopica bugia ed una mascalzonata, ma il dr. Inserra fregandosene di ogni controllo l’ha “sparata” in prima pagina con centinaia di locandine affisse per le strade della mia città. Come pensa che mi sia sentito in quei giorni e come pensa si siano sentiti i miei amici e familiari e cosa avranno pensato migliaia di ignari lettori del suo giornale. O dovremmo parlare delle informative di polizia che qualche investigatore compiacente e interessato gli ha passato in questi anni, anch’esse talvolta trapuntate di menzogne. Curiosamente il dr. Inserra si lamenta perché la magistratura di Cosenza – cui dispensa nel suo articolo inammissibili pagelle di professionalità distinguendo tra giudici buoni e giudici cattivi – non gli ha riservato lo stesso trattamento che quella di Reggio ha usato al suo collega del Corriere della sera, mai indagato per la fuga di notizie a mio danno, fino a costringere la Procura generale reggina ad avocare un’indagine mai iniziata. Ho l’impressione che il giornalista, come dire, si senta abbandonato al proprio destino dopo essere stato utilizzato e quindi all’approssimarsi delle sentenze punti a ribaltare i ruoli di vittima e carnefice nel tentativo di suggestionare la magistratura chiamata a giudicare. Ma la vittima sono io e lui lo sa bene. Spedisca tutto ciò che vuole dove ritiene opportuno (ho già segnalato per tempo al CSM che avrei agito contro tutte le calunnie in circolazione, come lo stesso CSM esige in questi casi dai magistrati). Ho già detto pubblicamente che avrei denunciato tutti coloro che si sono fatti coinvolgere in una campagna di stampa, lo ripeto, tesa alla mia distruzione e cadenzata sempre con sapienza per condizionare chi avrebbe dovuto prendere decisioni a mio riguardo. Mi auguro che dinnanzi al giudice l’imputato Inserra faccia il nome di tutti quelli che gli hanno passato polpette avvelenate come quella dei «viaggi di piacere». Se lo farà gli rimetterò le querele, sorvolando sul suo comportamento deontologico. Sarà per lui l’occasione per contribuire a chiarire il disegno costruito contro di me e le sue motivazioni. Tale mio atteggiamento sarà tenuto fermo nei confronti non soltanto del dottor Inserra, con quale non ho mai ingaggiato una battaglia personale, ma con tutti i giornalisti che sono stato costretto a querelare. Cerco tutta la verità, non vendette. Lo devo alla mia famiglia, a me stesso, ai miei amici, a quanti, e non sono pochi, in questi anni si sono affidati al mio scrupolo e alla mia correttezza. Stia tranquillo, per il resto, sarò io a informare il Procuratore generale di Catanzaro competente per i procedimenti disciplinari a carico dei giornalisti calabresi. Colgo l’occasione per esprimere ad Inserra la mia solidarietà per il clamoroso furto del proprio computer subito mesi or sono a mano di ignoti delinquenti: se ben ricordo lo aveva purtroppo lasciato incustodito a bordo della propria auto in sosta. Me ne dolgo anche perché di quel computer avevo tempo prima chiesto il sequestro alla magistratura reggina, purtroppo meno tempestiva dei ladri. Un’ultima cosa, proprio ieri a Cosenza, per l’ennesima volta, il processo a carico del dr. Inserra è stato rinviato perché l’imputato è risultato irreperibile per le notifiche. Abbia la cortesia di farsi trovare Inserra, non tema la valutazione di giudici terzi, è ancora presto per farsi dichiarare irreperibile. Spero ricordi che la prossima udienza è fissata a Cosenza per il 21 maggio, quando sarò interrogato come parte offesa”. Alberto Cisterna

“Il tono saccente e offensivo di Cisterna non conosce limiti. Delle sue impressioni di fantasia poco mi importa. Ho fatto quello che fa un giornalista: pubblica le notizie derivanti da atti, informative. Se queste contengono menzogne, come lui sostiene, non è di certo responsabilità mia. Non ho mai parlato di persecuzione ma di una singolare anomalia nell’accanirsi ripetutamente contro la mia persona. Stia sereno non mi sono reso mai irreperibile (e né mi renderò irreperibile, visto che è “ancora presto” come lei presuntuosamente afferma) quando le notifiche sono giunte presso il mio domicilio o le ho ritirate direttamente al comando provinciale dei carabinieri. Io affronto le cose a testa alta, senza trovare “sponde” in sedi giudiziarie di comodo. Apprendo dalla sua replica una circostanza di inaudita gravità. Lei aveva chiesto il sequestro del mio computer alla procura. La ringrazio per la sua sarcastica solidarietà e per le insinuazioni, anche queste gravissime, sul furto del pc, che si commentano da sole”. Michele Inserra

Il giudice e il giornalista: così lavorava D'Avanzo, scrive “La Repubblica”.

Nel 2011 moriva Giuseppe D'Avanzo. In questi anni, i giovani hanno parlato molto di lui e del suo "metodo": analisi delle prove e dei documenti, verifiche multiple, approfondimento. Hanno cercato nella sua storia professionale il motivo per tentare ancora una volta la pratica di un mestiere antico e trascurato: il giornalismo di inchiesta e "controllore" del potere. Vittorio Zambardino, che ha lavorato per 23 anni nel Gruppo Espresso e che ne fu grande amico, prova a raccontare in un e-book un giornalista speciale. Qui pubblichiamo la storia del suo arresto nel 1985 in seguito a uno scoop, quando era collaboratore di Repubblica. Le fonti si proteggono, era religione professionale, e non c'era toga di magistrato che potesse fargli cambiare idea. Il suo primo scoop, i pezzi del dicembre 1985 sull'attentato con una bomba fatta esplodere sul rapido 904 Napoli-Milano (avvenuto un anno prima), gli frutta l'arresto per rivelazione di segreto istruttorio, per opera del magistrato fiorentino Piero Luigi Vigna. P. passa il Natale e le altre feste nel carcere di Carinola, in provincia di Caserta. A poche celle di distanza c'era uno dei personaggi che sarebbero poi stati condannati per quella e altre vicende. "Non era tranquillizzante stare così vicini". Il magistrato insiste, vuole sapere chi ha passato quelle informazioni e non crede alla versione del suo metodo: che sì le informazioni sono venute da una fonte ma poi sono state verificate e incrociate con altre informazioni, originate da altre fonti. Dato non trascurabile: il magistrato ha davanti un giornalista "ragazzino" di trentadue anni, non un lupo consumato della giudiziaria. Vigna vuole sapere chi sono quelle fonti, vuole vedere gli appunti di P. che però sono  -  e ci restarono per tutta la vicenda  -  nei cassetti della scrivania di P. E c'era un'altra difficoltà. P. in quel momento era solo un collaboratore di "Repubblica". Aveva quindi un altro problema sul lato dei "suoi". La credibilità o meglio la fiducia in lui del giornale, fiducia nel fatto che le cose stessero esattamente come diceva lui. Solo che le prove che le cose stessero proprio a quel modo non potevano arrivare alla direzione se lui rimaneva in carcere. Per fortuna ci furono i messaggeri giusti, più di uno tra le persone a conoscenza dei fatti, fra questi una grande giornalista, oggi scomparsa, che ha fatto storia di questo Paese prima che del giornalismo. Una persona che in qualche modo si convinse della bontà di quel lavoro e riportò quel suo convincimento "a Roma". A  questo proposito, quando ci si è rivisti nel luglio 2012 nella sala Fandango di Roma per ricordare il primo anniversario della sua morte, Eugenio Scalfari ha rivelato di essere stato lui a sciogliere la tensione con il magistrato, rivelando le fonti di P. Io ho una versione diversa. Validata negli anni tra noi amici, e nei colloqui, pochissimi sul punto, con lui. È una versione della quale possono testimoniare sia D. che M., le due compagne di vita storiche. È questa: nei lunghi e duri interrogatori di Vigna, si creò un rapporto di comprensione e stima, di "comune visione" tra il magistrato e P., in cui quest'ultimo aveva capito che l'arresto era dovuto all'idea che il magistrato si era fatto riguardo a un pericolo che l'indagine venisse sabotata. La mia convinzione, e non solo mia, è che P. seppe convincere il magistrato che il suo metodo era buono e che non c'erano state, almeno da parte sua, ingenuità professionali dovute a fame di scoop. Insomma, convinse Vigna di non essersi fatto "dirigere dalla fonte". Ma non gliela rivelò. Ovviamente, fra gli amici s'ironizzò molto su questa capacità di "capirsi fra uomini" che P. sapeva creare. Fu a lungo preso in giro a proposito della sua "sindrome di Stoccolma". Non gradiva, e chiariva un po' stizzito che non era così che erano andate le cose. Ma questa capacità di intendersi con l'interlocutore senza mollare sulla deontologia è stata strategica nella sua professione, e tornerà ancora in questo racconto.

INFORMAZIONE E CAZZEGGIOPOLI: GIORNALISTI OPINIONISTI.

Perché i giornali perdono continuamente lettori ed abbonati e devono ricorrere ai finanziamenti pubblici per sopravvivere, rendendo  grama la vita al personale? La risposta sta tutta nella "scomparsa dei fatti", ovvero paginate piene di nulla, ovvero ricche di annunci di decessi che possono interessare giusto la stretta parentela del caro estinto, quanto alla pagina politica si mettete a fuoco una fiaba tutta da ridere.

Fare il giornalista è come fare il cacciatore, d'altronde lo diceva anche McLuhan che siamo "raccoglitori di informazioni". Il cacciatore di notizie sceglie, ispeziona la nostra vita e decide se c'è un frammento interessante da raccontare, modificare, da proporre al mondo. Il giornalista ha potere. Sono i fatti quelli che un giornalista deve raccontare. Tutti devono conoscere per essere in grado di capire, ribellarsi, arrabbiarsi, manifestare o rassegnarsi. Oggi però nessuno sa e nessuno capisce, perché spesso quello che ci viene detto non corrisponde a verità , è manipolato, "pettinato", modificato per far meglio apparire il potente di turno e in molti sembrano piegarsi a questo gioco di potere. Forse sono la precarietà e la paura di perdere il posto di lavoro a rendere certi giornalisti succubi dei loro editori, ma forse lo si fa anche per raggiungere un precoce successo. Spesso poi i fatti vengono direttamente dimenticati, nel senso che non si danno più dati precisi, non si racconta semplicemente quello che è davvero successo, ma si mostra un battibecco fra esperti o finti esperti, onorevoli e senatori, opinionisti e cialtroni… Tutti vogliono dare un'opinione, anche giustamente, ma prima di esprimersi bisognerebbe sapere. Il giornalista dovrebbe raccogliere notizie ed illustrarcele, non mediare rumorosi dibattiti, lasciando a noi spettatori o lettori l'arduo compito di capirci qualcosa fra grida e insulti. Non che non siano interessanti e forse anche divertenti i dibattiti, soprattutto quelli politici e soprattutto quelli in tv, ma il rischio del non dare un' informazione univoca (quella vera!) è che gli elettori di sinistra credano all'esponente politico di sinistra e che gli elettori di destra credano all'esponente politico di destra. Probabilmente nessuno dei due elettori saprà mai la verità. E nel caso non si parli di politica il problema è lo stesso: finiremo col credere al più simpatico, brillante, bello, affascinante…Sono i fatti quelli che spesso un giornalista non racconta.

Da cane da guardia ad animale da circo dei media. Arrivano i giornalisti con l’agente, scrive Dagospia. Non solo Santoro con Lucio Presta: ecco Visverbi, l’agenzia che piazza gli opinionisti in tv. Da Cruciani e Parenzo a Paolo Mieli, da Piroso a Facci, Selvaggia Lucarelli e Andrea Scanzi; la scuderia delle ospitate monopolizza le trasmissioni. A “Reputescion” (by Scanzi) i commentatori Visverbi vanno per la maggiore. Gestire il Giornalista come un brand, un prodotto, una celebrity rientra tra gli impegni dell’IPT 2000, l’agenzia de’ sinistra di Beppe Caschetto, che schiera Daria Bignardi, Luca Telese, Nicola Porro, Cristina Parodi, Lucia Annunziata, Giovanni Floris e roberto Saviano, Ilaria D’Amico, Michele Cucuzza.

E’ interessante l’articolo di Giovanni Cocconi per "Europa Quotidiano". Il Premiolino alla Zanzara di Giuseppe Cruciani e David Parenzo ha sorpreso solo chi non li ha mai ascoltati. E' curioso, però, che il più antico premio giornalistico italiano sia arrivato nell'anno in cui il programma ha fatto parlare di sé soprattutto per il brutto scherzo giocato al "saggio" Valerio Onida con l'imitazione della falsa Margherita Hack. Una coincidenza? Forse ma la Zanzara di Cruciani & Parenzo esiste da quattro anni, la decisione di premiarlo è solo di un mese fa e dopo la beffa telefonica. «Gli scherzi si sono sempre fatti, sono la storia della radio» ha ricordato giustamente Cruciani e chissà se pensava all'Orson Welles della Guerra dei mondi. Un precedente illustre in Italia esiste, anche se non radiofonico: il falso "scoop" di Giovani Minoli sui brogli al referendum monarchia-repubblica. Correva l'anno 1990: l'autore "giustificò" il programma come un'operazione di metalinguaggio. Insomma, lo strano ibrido che da un po' di anni chiamiamo infotainment è ormai ampiamente sdoganato anche da noi. Però Striscia la notizia o Le Iene come tali non hanno mai vinto il Premiolino. Si spera non perché Antonio Ricci e Davide Parenti sono privi di tesserino dell'Ordine. Michele Serra ha definito lo scherzo della Zanzara un caso di «mobbing telefonico». Troppo severo. Personalmente trovo il gioco delle parti tra Cruciani e Parenzo perfetto e il programma molto utile per capire gli istinti (anche bassi) di un pezzo d'Italia che esiste. Il corpo a corpo con gli ascoltatori funziona, la loro capacità demiurgica di strappare notizie agli ospiti non è da tutti. Piuttosto la domanda è un'altra: se lo scherzo telefonico lo avesse fatto, chessò, un altro giornalista di Radio24 sarebbe stato "perdonato"? Intendo dire che Cruciani & Parenzo sono stati capaci di allargare le maglie del loro talk radiofonico al punto da rendere accettabile lo sconfinamento nell'intrattenimento puro e superata la distinzione tra i generi. Ma la domanda è: quanto questa capacità deriva dalla loro trasformazione in personaggi? Ho capito di essere vecchio quando ho scoperto che esistono giornalisti italiani che hanno un manager. L'agenzia (la prima del genere, che io sappia) si chiama VisVerbi, esiste da un paio d'anni, l'hanno fondata due donne (Barbara Castorina e Camilla Buzzi) e sul sito si legge che si occupa del «management e della promozione dei giornalisti e opinionisti», e della «gestione della conduzione delle ospitate». Per anni abbiamo parlato dello strapotere di Lucio Presta, Lele Mora (poi caduto in disgrazia) e Beppe Caschetto (a sua volta agente anche di giornalisti), ma non si era mai vista una scuderia solo di giornalisti trasversale rispetto alle testate e ai gruppi editoriali di appartenenza. Oltre a Cruciani e Parenzo, fanno parte di VisVerbi Paolo Mieli, Filippo Facci, Andrea Scanzi, Antonello Piroso, Selvaggia Lucarelli, i giornalisti di Radio24 Sebastiano Barisoni e Alessandro Milan. In alcuni casi, per fortuna rari, questa appartenenza arriva anche a esiti comici, come nel programma Reputescion di Scanzi il quale, su dodici puntate, è riuscito a dedicarne tre a colleghi di scuderia (Facci, Cruciani e Lucarelli). La prova che VisVerbi funziona. Anzi, l'agenzia si comporta da producer: programmi, libri, spettacoli. Nella puntata a lui dedicata Facci dice qualcosa di illuminante: «Marco Travaglio non fa più il giornalista tradizionale, è una figura in via di definizione che fa un po' satira, un po' teatro, un po' editoriali». Chissà se sapeva che l'intervistatore che gli sedeva di fronte, Scanzi, era reduce da un tournée in giro per i teatri con un monologo su Giorgio Gaber. Sul sito di VisVerbi Scanzi è definito «opinionista televisivo, ma anche monologhista satirico», oltreché giornalista del Fattoquotidiano. Il teatro è una passione anche di altri: Cruciani e Parenzo hanno da poco debuttato con il "theater talk" Goodyby Mr Capitalism? al Franco Parenti di Milano. Ai tempi de La7 anche Piroso non disdegnava i monologhi in tv. Il metodo VisVerbi è chiaro: gestire il giornalista come un brand, un prodotto, una celebrity. Un approccio che coglie un fenomeno molto noto nella società dello spettacolo ma relativamente nuovo nel giornalismo italiano, e che tende a prendere piede anche nel mondo dei social network (ma il tema meriterebbe un'analisi a parte). Provo a dirlo con una formula: il personaggio prende il posto del giornalista. Per personaggio intendo una personalizzazione spinta, un opinionismo forte, un tipo fisico, un carattere, un'immagine coerente. Un brand, appunto. E un brand non può permettersi incertezze, dubbi, domande, congetture e confutazioni sulla base dei fatti. Marco Travaglio è un buon esempio di quello che intendo: sul Fattoquotidiano, nello studio di Servizio pubblico o su un palcoscenico teatrale scrive o interpreta più o meno lo stesso pezzo, con le stesse metafore, lo stesso ritmo, lo stesso sarcasmo, le stesse idee. Piace proprio per quello anche se la sua opinione non ci sorprende. Venerdì sera, in provincia di Reggio Emilia, aprirà la festa del Fattoquotidiano con il monologo "L'inciucio". Sicuri che dirà qualcosa che non ci aspettiamo? Siamo molte oltre la tradizionale definizione di firma: Vittorio Feltri è una firma, Scanzi è un personaggio. In questo senso un'agenzia come VisVerbi sembra cogliere lo spirito del tempo, una trasformazione in atto, una mutazione del ruolo del giornalista: è un sintomo, non la causa di un fenomeno che, forse, ha già fatto egemonia. Provate ad andare in un'aula universitaria e chiedete: chi è il vostro giornalista modello?

Benvenuti a Cazzeggiopoli, scrive Riccardo Bocca su “L’Espresso”. C’è stato un tempo - assai prossimo e però anche virtualmente lontano - in cui i giornalisti nominavano la parola «agenti» quando seguivano la cronaca nera, oppure entravano in questura per un’identificazione, oppure ancora erano costretti a subire una scorta. Ora invece i giornalisti ambiscono ad altri agenti, più efficaci e solari, che li accompagnano giorno per giorno nel metamondo della (s)comunicazione. Una realtà di cui ha ben scritto “Europa quotidiano”, trionfando poi tra le pagine di madame Dagospia. Nell’articolo si spalancavano bocca ed occhioni perché l’agenzia VisVerbi gestisce - appunto - «giornalisti e opinionisti», di cui segue per dovere «promozione e management». Quant’è bastato perché i dinosauri facessero gli indignati, e condannassero l’agentomania di fuoriclasse come David Parenzo, Giuseppe Cruciani e Selvaggia Lucarelli. E perché mai, ci si dovrebbe indignare? Va invece assecondata, con entusiasmo e rispetto, la nouvelle vague del giornalismo italiano, che finalmente ha abbandonato le derive geriatriche per affacciarsi su freschi orizzonti. Bene ha fatto, in questo senso, il premiolissimo Premiolino a suicidarsi nel 2013 con il tributo a “La zanzara”, perché così ha scolpito la strada maestra: una stellare Cazzeggiopoli edificata nel tempo, in cui al fianco di nonna sostanza trionfa il diktat del commercio. Domandate a Sergio Mariotti, in arte divino Davi, com’è accaduto tutto questo; interrogatelo, senza timidezze, sul doping che riserva a bravi colleghi. Non c’è nulla di male, bimbi candidi e belli. C’è da accettare l’estasi del pensiero catodico, per definizione esile, ma anche bulimico di figurine da celebrare in corsa. Non per niente Fabio Fazio è stato eletto mister “È giornalismo”, e l’Italia intera s’è inchinata al celeberrimo Usd (l’Uomo senza domande). È il funerale di un’epoca, di una comunità che per slogan aveva bombe come “I fatti separati dalle opinioni”. Ed è perfetto così. Ora il cerone copre affettuosamente tutto: i sogni, i limiti, il gusto del pretendere il meglio da sé. Travolto dall’urgenza di format, ciascuno ha creato un jolly che vaga da un set all’altro, da una radio all’altra, da un articolo all’altro. Ispirati al verbo di Piero Chiambretti - pioniere nella contaminazione tra vero e falso, utile e inutile, credibile e incredibile - gli Agentati puntano all’effetto più che alla causa, sostituendo il senso dell’evento al vento del dissenso. Poco importa cosa facciano o dicano, in cosa credano o freghino, quanto sia solido il loro conoscere e quanto liquido il loro talento. Esistono. Agiscono. Appariscono, suonerebbe quasi bene scrivere. Dunque ottimo anche che a “Reputescion”, salottino di Andrea Scanzi sulla petit La3, sfilino i divi dell’agenzia VisVerbi, a cui è devoto lo stesso Scanzi. «Più siamo e meglio è», sembra quasi di udire. Anche perché ai funerali, si sa, la solitudine è insostenibile.

Due donne dietro il successo dei giornalisti in tv. Il caso dell'agenzia specializzata VisVerbi, scrive Antonio Prudenzano su Affari Italiani. La coppia de La Zanzara Cruciani-Parenzo (il secondo condurrà un programma in prima serata su Rai3). E poi Selvaggia Lucarelli e Andrea Scanzi. Sono solo alcuni dei clienti dell'agenzia VisVerbi, fondata un anno e mezzo fa da Camilla Buzzi e Barbara Castorina, che nella loro prima intervista raccontano ad Affaritaliani.it com'è nata l'idea di dar vita a un'agenzia specializzata in giornalisti, sempre più richiesti non solo in tv, ma anche in radio, in libreria e anche a teatro... "Stiamo lavorando a un programma tv con Sebastiano Barisoni, e stiamo cercando di convincere Selvaggia Lucarelli a scrivere un libro..." Stando ad alcune ricerche, la categoria non gode di troppa stima tra gli italiani (e non solo tra i cittadini del Movimento 5 Stelle). Eppure, i giornalisti si stanno "prendendo" la televisione (e allo stesso tempo anche l'editoria libraria). La tendenza non riguarda solo La7, dove il palinsesto praticamente si fonda sui programmi giornalistici. I nomi in ascesa sono tanti, e arrivano spesso dal mondo della radio o da quello della stampa cartacea. Un ruolo importante, ovviamente, l'ha avuto anche l'impatto del digitale terrestre, con una serie di nuove reti che si sono affacciate sul panorama televisivo conquistando nicchie significative di pubblico e puntando spesso su volti nuovi. Qualche esempio di giornalisti "emergenti"? Su tutti spicca senz'altro l'accoppiata de "La Zanzara" formata da Giuseppe Cruciani e David Parenzo (quest'ultimo, nelle prossime settimane condurrà un nuovo programma d'informazione  in prima serata su Rai3). E poi ci sono Selvaggia Lucarelli (editorialista di Libero e conduttrice di Celebrity Now su Cielo) e Andrea Scanzi (firma del Fatto, "grillologo", protagonista a teatro con uno spettacolo itinerante su Giorgio Gaber e  conduttore su La3 di "Reputescion"). Ad accomunare questi nomi non ci sono solo il successo e la passione per Twitter (dove hanno un seguito da vere Twitter-star), ma anche due donne, Camilla Buzzi e Barbara Castorina, che circa un anno e mezzo fa si sono inventate un mestiere: quello dell'agente dei giornalisti. La loro creatura si chiama VisVerbi, e nella "scuderia" non troviamo solo nomi "emergenti", ma anche un navigato direttore come Paolo Mieli. Insieme ai giornalisti già citati, segnaliamo anche, tra gli altri, Filippo Facci, Pierluigi Pardo, Domitilla Savignoni e Francesca Senette. Sul sito ufficiale VisVerbi si presenta come "un canale di collaborazione tra il giornalismo contemporaneo e le imprese che intendono avvalersi dell'informazione quale leva privilegiata dell'industria culturale", e "si fa interprete dell'evoluzione della comunicazione e del mondo dell'informazione offrendo ai committenti una struttura completa nel supporto consulenziale e operativo, che comprende: ideazione di format comunicativi con la partecipazione dei TestimonialMedia, management e promozione dei giornalisti e opinionisti, gestione della conduzione e ospitate, ufficio stampa e formazione". Barbara Castorina e Camilla Buzzi si sono formate entrambe dal mondo della comunicazione. La prima era Presidente e Ad di Itc Eventi e Comunicazione, mentre la seconda viene dal marketing, dal commerciale e dagli uffici stampa. Ora per VisVerbi Buzzi si occupa di comunicazione, mentre Castorina di management. Affaritaliani.it le ha incontrate per sapere com'è nata la loro creatura, unica in Italia: "Abbiamo volutamente deciso di concentrarci solo sui giornalisti e sull'informazione. Una crescita culturale personale, oltre che professionale. I primi entrati nella squadra sono stati Andrea Vianello,  Sebastiano Barisoni e Giuseppe Cruciani". Con i giornalisti, ci raccontano le due socie, si lavoro bene: "Hanno tutti una forte personalità, sono abituati a lavorare molto, sono concreti.  Lavoriamo con giornalisti  che ci piacciono intellettualmente, con tutti abbiamo un buon  feeling". Il mondo dei (potentissimi) agenti delle star tv è quasi esclusivamente al maschile. Due donne quindi rappresentano un'eccezione nell'ambiente: "E' anche un nostro punto di forza. Collaboriamo, ci dividiamo i compiti in base alle competenze, e siamo ben organizzate. Certo, siamo in due, oltre a un'altra ragazza, e il lavoro è sempre di più...". Ecco perché, venendo ai programmi per il futuro, "nell'immediato allargare la squadra non è una priorità. I giornalisti della scuderia sono già  un buon numero, e ci concentriamo sui loro prossimi impegni, televisivi  e non. Ad esempio, stiamo lavorando a un programma tv con Sebastiano Barisoni, in cui si raccontano storie di imprenditori poco noti al grande pubblico, l'idea è di far capire alle nuove generazione che le difficoltà non ci sono solo adesso e che la vita è sempre una sfida". Nell'Italia in recessione, la crisi si fa sentire anche in tv: "Negli ultimi anni c'è stato un generale ridimensionamento e i cachet sono stati adeguati. La verità è che si erano toccati livelli insostenibili... ovviamente quando contrattiamo con le aziende cerchiamo di ottenere il compenso più adeguato per i nostri assistiti. Allo stesso tempo, in questa fase si sono anche aperte delle opportunità, che cerchiamo di sfruttare". Per le due socie, "in questo periodo il pubblico della tv sente l'esigenza di più programmi legati all'attualità, ed ecco spiegati gli spazi crescenti che le reti riservano a certi format. A noi può solo fare piacere...". VisVerbi, insieme a Valentina Fontana, si occupa anche della comunicazione della rassegna “Ponza d’Autore”, e quest'estate tra gli ospiti dell'isola ci saranno anche molti loro assistiti. "Proprio a Ponza l'anno scorso è nata l'idea del theatre talk 'Goodbye mr capitalism?', che nei giorni scorsi è andato in scena al teatro Franco Parenti di Milano, con la coppia David Parenzo-Giuseppe Cruciani, con la regia di Andrea Soldani, grazie anche a Giorgio Arfaras, presidente di Scm, e all'Ad Antonello Sanna, che hanno voluto fortemente l'evento. Il teatro è un'atra direzione verso cui stiamo guardando". La consulenza di VisVerbi riguarda anche la pubblicazione di libri: "E' da tempo che incito Selvaggia Lucarelli a scrivere un libro. Spero davvero possa uscire presto in libreria, apprezzo molto il suo modo di scrivere", rivela Barbara Castorina. Ma fino a quando il contratto non sarà firmato, guai a chiederle chi sarà l'editore della Lucarelli...

L'onda lunga del successo, anche a scapito dei poveri abbonati rai che li pagano porta lontano.

I romanzi-bestseller? Sempre più dei giornalisti (famosi)... Dopo Gramellini nel 2012 arrivano Gruber, Di Mare e..., scrive ancora Antonio Prudenzano su “Affari Italiani”. Hemingway, Buzzati e tanti altri. Gli scrittori-giornalisti non sono certo un'invenzione del terzo millennio editoriale. Ma certamente negli ultimi anni le "firme" che si confrontano (spesso con successo) con la letteratura sono in netto aumento. Non a caso, finora, il romanzo italiano più venduto del 2012 è l'autobiografico "Fai bei sogni" (Longanesi) di Gramellini. E sono in uscita per Rizzoli "Il Paradiso dei diavoli" di Franco Di Mare (che secondo il direttore generale direzione Libri Trade di Rcs Libri Turchetta potrebbe essere "una delle sorprese dell'autunno editoriale", "Eredità - Una storia della mia famiglia tra l'Impero e il fascismo" (Rizzoli) di Lilli Gruber, e il ritorno al romanzo di Gian Antonio Stella ("I misteri di via dell’Amorino", ancora Rizzoli). Senza dimenticare Gad Lerner, Aldo Cazzullo e molti altri... Ma non solo i big del giornalismo scrivono romanzi. Lo fanno anche i giovani cronisti. E' il caso, ad esempio, dell'esordiente Stefano Piedimonte: "Nel nome dello zio" (Guanda) è un libro davvero esilarante, un gioiello da fare invidia a tanti grandi nomi della carta stampata. Il romanzo italiano più venduto del 2012? Al momento è l'autobiografico e commovente "Fai bei sogni" (Longanesi) di Massimo Gramellini (che viaggia sulle 700mila copie e che con l'effetto-Natale potrebbe superare quota un milione). Gramellini è un giornalista, oltre che un divulgatore tv (a "Che tempo che fa" di Fabio Fazio). E non è il solo, nella sua categoria, a scrivere romanzi, spesso anche riusciti e capaci di scalare la top ten. Sì perché cronisti, inviati ed editorialisti non pubblicano solo saggi o libri-inchiesta - che sono spesso dei bestseller (vedi i casi di Gianluigi Nuzzi, Giampaolo Pansa o Marco Travaglio, tanto per fare dei nomi) - ma si confrontano con sempre maggiore frequenza (purtroppo o per fortuna, per dirla alla Gaber) con la narrativa. Non è certo una novità del terzo millennio: uno dei grandi del '900 letterario italiano, Dino Buzzati, oltre che uno straordinario scrittore era anche grande inviato del Corsera. Certo, negli ultimi anni i giornalisti-narratori sono aumentati. E nelle prossime settimane sono in arrivo almeno tre uscite di punta che vanno in questa direzione... Intervistato da Affaritaliani.it, il direttore generale direzione Libri Trade di Rcs Libri Massimo Turchetta ha dichiarato che "una delle sorprese dell'autunno editoriale potrebbe essere il nuovo romanzo di Franco Di Mare, 'Il Paradiso dei diavoli'", in uscita per Rizzoli. Di Mare, inviato di guerra della Rai, ha già pubblicato  "Il cecchino e la bambina" (2009) e il romanzo-bestseller "Non chiedere perché" (2011). Quanto alla trama del nuovo libro, un brillante giovane professore universitario si lascia reclutare tra le fila della camorra, "in una storia mozzafiato che svela una Napoli bellissima e maledetta". E sempre per restare in casa Rizzoli, dove i casi di giornalisti-romanzieri certo non mancano, ecco l'uscita de "Eredità - Una storia della mia famiglia tra l'Impero e il fascismo" di Lilli Gruber (lanciato con tanto di copertina da Sette, il settimanale di casa...). Un libro autobiografico, per la tosta conduttrice di "Otto e mezzo" ed ex mezzobusto del Tg1. "Da un diario ritrovato per caso, la grande saga di una famiglia che, tra gli albori del Novecento e la Seconda guerra mondiale, attraversa – e scrive – la turbolenta storia del Sudtirolo...", si legge nella scheda di presentazione. “Non avevo mai pensato di scrivere della mia famiglia. Cosa c’era da raccontare? Finché non ho trovato il diario di Rosa, la mia bisnonna. E ho capito che tra quelle pagine c’era anche la storia di un popolo e di una regione, quella in cui sono nata. Una storia che in Italia conoscono in pochi e che potrebbe, invece, insegnarci molto", ha spiegato l'autrice. E anche Gad Lerner, nel 2009, ha pubblicato per Feltrinelli un libro autobiografico di successo: "Scintille - Una storia di anime vagabonde". Gian Antonio Stella non è solo l'autore dei bestseller sulla Casta (scritti a quattro mani con il collega Sergio Rizzo, che sta per tornare in libreria, sempre con Rizzoli, l'inchiesta "Razza stracciona - Uomini e storie di un’Italia che ha perso la rotta"). Stella ha anche pubblicato testi narrativi, come "Il maestro magro" (2005), "La bambina, il pugile, il canguro" (2007) e "Carmine Pascià" (2008). E Rizzoli nelle prossime settimane presenterà il suo ritorno al romanzo: "I misteri di via dell’Amorino", che racconta la vita avventurosa e crudelissima di un galantuomo dimenticato che sognò un’Italia diversa ma fu sconfitto dalla politica degli affari. Un'altra firma del Corriere, Aldo Cazzullo, nel 2011 (per Mondadori) ha pubblicato il suo primo romanzo, "La mia anima è ovunque tu sia". E' ambientato ad Alba, nell'aprile del '45, quando in città arrivò il tesoro della Quarta Armata. Il denaro, il frutto delle requisizioni, le ricchezze che una forza di occupazione accumula in guerra: tutto questo venne spartito tra la Curia e i partigiani... E da qui si sviluppa una storia in cui non mancano intrighi e cadaveri. Ma non solo i big del giornalismo scrivono romanzi. Lo fanno anche i giovani cronisti, e spesso sono anche molto bravi. E' il caso, ad esempio, dell'esordiente Stefano Piedimonte, napoletano classe '80: nelle scorse settimane Guanda ha pubblicato il grottesco e riuscitissimo "Nel nome dello zio". Il protagonista è uno spietato boss della camorra che ha però una fatale debolezza, il Grande Fratello. Un libro davvero esilarante, un gioiello da fare invidia a tanti grandi nomi della carta stampata...

PARLI MALE DEI MAGISTRATI? GIORNALISTI CONDANNATI.

A parlar di sé e delle proprie disgrazie si rischia di passare da mitomane o pazzo. Le mie battaglie ventennali contro le ignominie dei magistrati sono state taciute e per gli effetti sono diventato carne da macello per le toghe che in tutti i modi hanno cercato di farmela pagare, senza però riuscirci. Tutti i procedimenti penali per calunnia o diffamazione a mezzo stampa sono finiti sempre con un’assoluzione. Ma il tentativo di intimidazione è chiaro. Il fenomeno della censura indotta esiste, per questo parlo di casi eclatanti che la grande stampa ha attenzionato.

IL CASO MULE'. Condannato a otto mesi senza condizionale Giorgio Mulé, direttore di Panorama, per aver diffamato il procuratore di Palermo Francesco Messineo, scrive Alberto Custodero su “La Repubblica”. Scatta nei suoi confronti la solidarietà bipartisan del mondo politico senza dimenticare ovviamente la Mondadori, a partire dal presidente Marina Berlusconi. Ma dopo la condanna a un anno e due mesi di Alessandro Sallusti, un altro direttore che rischia il carcere ripropone il tema di una riforma del reato di diffamazione a mezzo stampa. Come nel caso del direttore del Giornale (diffamò un giudice torinese, ottenne la grazia dal Quirinale), anche per Mulé la condanna è per aver diffamato un magistrato. Il direttore risponde di omesso controllo, mentre il giornalista autore dell'articolo dal titolo "Ridateci Caselli", Andrea Marcenaro, è stato condannato a un anno per diffamazione. La sentenza è di primo grado, quindi, prima che la pena diventi definitiva dovrà superare il vaglio della Corte d'Appello di Milano e della Cassazione. La solidarietà a Mulé è arrivata da tutti i partiti, ad eccezione di Sel e M5S. Il Pdl non s'è lasciato sfuggire l'occasione per attaccare i giudici. "Evidentemente in Italia - accusa il deputato Fabrizio Cicchitto - una parte della magistratura persegue solo una parte della stampa italiana". "Altro che bavaglio - tuona il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri - si vogliono i giornalisti in carcere appena osano toccare la casta dei magistrati". Solidali anche i democratici: "Un giornalista in carcere mi mette sempre i brividi", commenta il senatore Nicola Latorre. Ma la solidarietà s'è subito spostata sul piano della riforma della legge sulla diffamazione. "Questo ennesimo attacco alla libertà di stampa - per il capogruppo dei deputati Pdl Renato Brunetta - è anche frutto del fallimento della trattativa politica per rivedere il sistema delle pene". Sulla stessa linea anche Mara Carfagna, portavoce dei deputati Pdl, che ha chiesto di abolire il carcere per la diffamazione. Preoccupati per la condanna dei colleghi, i fiduciari di Panorama si sono appellati alla Federazione Nazionale della Stampa "per una presa di posizione chiara in difesa della libertà di stampa sempre più minacciata dai poteri forti". E la Fnsi s'è fatta subito sentire, definendo la sentenza ingiusta e grave. "Bisognerebbe poterla portare subito davanti alla Corte di giustizia europea per i diritti umani di Strasburgo - scrive la Fnsi - per ottenerne il sicuro annullamento". "Una riforma urgente" della normativa che prevede il carcere per il giornalisti è invocata anche dall'Usigrai, mentre per "Articolo 21" questa sentenza "non potrà che aggravare ulteriormente la posizione dell'Italia nella classifica internazionale sulla libertà di stampa che ci vede confinati al 57esimo posto per i continui bavagli al diritto di cronaca". 

Dopo il caso di Alessandro Sallusti, arrestato e messo ai domiciliari per un articolo di Renato Farina pubblicato su Libero quando era direttore e poi graziato da Giorgio Napolitano, rischia di finire in carcere anche il direttore di Panorama Giorgio Mulè e l'autore dell'articolo Andrea Marcenaro, scrive “Libero Quotidiano”. A riportare la notizia è proprio il Giornale diretto da Sallusti. Mulè e Marcenaro sono stati condannati in primo grado per aver diffamato il giudice Francesco Messineo. Il pezzo incriminato riguardava la situazione disastrosa della Procura di Palermo. Ma quando lo stesso procuratore Messineo e il suo ex vice, Ignazio De Francisci, sono stati interrogati al riguardo, hanno riferito un quadro simile se non peggiore, visto che hanno parlato di una Procura segnata da "una funesta tradizione di divisioni", dove i magistrati devono fare "lo slalom tra le faide", tra giudici di sinistra e moderati, che bloccano l'attività dell'ufficio. Tant'è. Il giudice milanese Caterina Interlandi ha sentenziato: un anno di carcere a Marcenaro e otto mesi a Mulè per omesso controllo. Negata a entrambi la sospensione condizionale perché già condannati in passato (Mulè a una ammenda 8 anni fa). Condannato, ma con la condizionale, anche un collaboratore del settimanale. Ora la sentenza deve passare al vaglio dell'Appello e della Cassazione. 

È possibile condannare penalmente un cittadino per un reato di opinione? «In Italia, sì», spiega a Francesco Amicone su tempi.it il direttore di Panorama, Giorgio Mulè. Pochi mesi dopo la conclusione del caso Sallusti, il Tribunale di Milano ha deciso di “mandare in galera” Mulè e i due noti giornalisti Andrea Marcenaro e Riccardo Arena. È bastata l’idea di fondo di un articolo apparso sul settimanale nel 2009, sulla gestione della procura palermitana da parte del Procuratore Capo Franceso Messineo, a convincere il tribunale a comminare ai tre giornalisti pene da otto mesi a un anno di carcere. Il reato contestato ai tre giornalisti è la diffamazione a mezzo stampa e l’omesso controllo. Dall’articolo intitolato “Ridateci Caselli”, Messineo spiega di aver «ricavato una impressione complessiva di delegittimazione e di aggressione morale, nell’articolo si ridicolizza la mia figura». «Ho subito gravissimi danni in termini di immagine, quindi di sensazioni interiori, di autostima e quant’altro» afferma il magistrato. Una sua opinione personale, spiega Mulè: «Si contesta un “eccesso di critica”, non una frase diffamatoria». Inoltre, non viene contestata la falsità di alcunché. Ed è ciò che aumenta lo sconcerto per le tre condanne. «Marcenaro e Arena hanno parlato di fatti veri, dei quali già si erano occupati Corriere della Sera e Repubblica»: «L’inchiesta descrive la situazione in cui versa la procura di Palermo, illustra le divisioni interne, risapute, descrivendo i contrasti tra fazioni “moderate”, vicine ai metodi di Pietro Grasso, e i “falchi”, i cosiddetti “caselliani”. L’articolo cita anche il cognato di Messineo, accusato a Palermo di ricettazione. Ma non è stato detto nulla di lesivo nei confronti del Procura». Per quale ragione, allora, i giornalisti vengono condannati? «Marcenaro e Arena, per eccesso di critica e di opinione. Io, come direttore responsabile, per omesso controllo. La condanna impartitami, fra l’altro, è senza sospensione della pena, che, a mia memoria, è sempre stata concessa in casi come questo». Non concessa nemmeno a Marcenaro. Una lotta fra giornalisti e magistrati? «Sbaglia chi pensa che questa sia una guerra fra bande». «Ora ricorreremo in appello. Però occorre fare una battaglia di libertà». «Queste sentenze», conclude Mulè, «non interessano solo Panorama e i suoi giornalisti, ma chiunque voglia godere del suo diritto ad esprimere un’opinione. Tutti i cittadini devono essere liberi di fare una critica netta e chiara anche ai magistrati».

L’ARTICOLO INCRIMINATO: Spatuzza e le stragi del '93: aridatece Caselli. L'articolo di Andrea Marcenaro e Riccardo Arena (pubblicato su “Panorama) che ha portato alla condanna per diffamazione dei due giornalisti e del direttore di Panorama.

"Non ne voglio parlare". Soltanto un’opinione. "Non ne voglio parlare!". Anche questo silenzio si doveva sentire. Il pentito Gaspare Spatuzza stava accusando Silvio Berlusconi come un torrente in piena, lo incolpava di intrecci infami con la mafia, di montagne di denaro sporco destinate a segnare l’origine della sua Fininvest; e non solo, lo stava addirittura tacciando di stragista, tanto che i titoli di molti giornali già parlavano di un premier ridotto all’angolo, e Michele Santoro respingeva ogni commento. Proprio lui, l’anchorman che avrebbe dovuto toccare il cielo con un dito, e dunque aprirsi e infierire come non mai sul suo nemico sgominato, se ne restava muto. Qualcosa non tornava. Negli stessi istanti in cui Santoro esibiva il suo inatteso silenzio, sabato 28 novembre due procure della Repubblica molto importanti, quella di Firenze e quella di Palermo, manifestavano reazioni opposte. Il procuratore fiorentino Giuseppe Quattrocchi smentiva l’esistenza di una nuova indagine sulle stragi del 1993 nei confronti del presidente del Consiglio. Laddove una fonte della procura siciliana lasciava filtrare a Il Fatto quotidiano, giornale molto più che amico, come quella procura stesse invece valutando con attenzione l’apertura di un’indagine per mafia nei confronti del premier: "Stiamo esaminando un materiale probatorio molto ampio e complesso che ci porta a ritenere l’esistenza di un rapporto di interlocuzione tra i boss mafiosi e ambienti imprenditoriali milanesi nella stagione delle stragi tra il 1992 e il 1993". Ineffabile Palermo, grande, indomabile, sempre pronta e mai dimessa, fedele a qualsiasi inquisizione contro ogni premier passato e presente, talora a dispetto dei santi. Ce la farà? Non ce la farà questa volta? Le intenzioni ci sono tutte. Ma il fisico? Ce l’ha, il fisico? Merita una bella mappa chiarificatrice, una procura così. La comanda un brav’uomo, dicono tutti. O meglio, che il dottore Francesco Messineo comandi la procura proprio esatto non è: ne è solo formalmente al vertice. Con Gian Carlo Caselli  prima, e con Piero Grasso poi, che sedevano su sponde politiche, politico-giudiziarie, ideologiche e perfino filosofiche opposte, tutto era definito, chiaro, preciso: il carisma del capo, il gruppo dei fedelissimi, gli oppositori, i peones, quelli che se ne fregavano. Come il metodo di lavoro, gli obiettivi, le linee. Con Messineo, parlare di carisma è francamente improprio. Guai a toccarlo, intendiamoci. Se lo fai e rilevi, per esempio, la sua parentela a dir poco ingombrante con un imprenditore più volte al centro di indagini per mafia, è perché "si vuole fermare la procura di Palermo nel progredire di delicatissime indagini sulle relazioni esterne di Cosa nostra". Questa almeno è la citazione testuale di un documento di solidarietà col capo, firmato da non tutti i suoi sostituti la scorsa primavera. Ma Messineo è un procuratore a termine, e lui lo sa bene. Tutto sta nel vedere quando (e se) Antonio Ingroia e Lia Sava, due dei suoi presunti fedelissimi, decideranno di chiedere l’arresto di Sergio Maria Sacco, imprenditore della Saccoplast, sacchetti in plastica, fratello della moglie del procuratore. Che nostalgia, però. Che differenza, dai tempi splendidi del dottor Caselli, simbolo del sacrificio personale di chi lasciava Torino per battere la mafia. E il quale parecchia, in effetti, ne aveva poi abbattuta. Del Caselli che intese tagliare le unghie nientemeno che a Giulio Andreotti, quantunque quella volta sia andata com’è andata. Che vantava un meritato rapporto personale con Oscar Luigi Scalfaro, il presidente tutto per lui, con Luciano Violante, quasi un ufficio istruttorio parallelo, e un mondo intero che applaudiva e una stampa compatta che lo sosteneva. Interpellato, Violante invece dice: "Non mi occupo della situazione di Palermo, non seguo queste cose". Poi sottilizza, forse non senza autoironia: "Non mi chieda giudizi sulle inchieste. Sulle inchieste non intervengo". Perché molto tentenna e quasi tutto dipende, adesso, a Palermo. Con un procuratore tanto in ombra, non c’è dopo tutto da stupirsi dell’esistenza di un procuratore ombra. Il quale infatti esiste e si chiama Antonio Ingroia, 51 anni, allievo di Paolo Borsellino, formalmente procuratore aggiunto, acuto, ambizioso quanto basta. È lui il vero capo, proclamano i detrattori suoi. Esattamente così, confermano i detrattori di Messineo. Ingroia non se ne cruccia, dal momento che una cosa sa: se il capo di nome si allontana dal capo di fatto, l’isolamento del capo di nome è nelle cose. Ma non si può parlare di procura divisa, a Palermo. Si divide qualcosa se prima era unita. L’ufficio inquirente, qui, sembra piuttosto frantumato. Via Giuseppe Pignatone, uomo d’ordine, coordinatore dell’arresto di Bernardo Provenzano, coordinatore del pool che ottenne condanna e dimissioni di Totò Cuffaro, coordinatore del gruppo di uomini molto vicini all’attuale capo della Direzione nazionale antimafia, Piero Grasso, ormai dissolto per consunzione. Adesso Pignatone è procuratore a Reggio Calabria. Via Michele Prestipino, che ha seguito Pignatone a Reggio. Via Maurizio De Lucia, ora sostituto alla Dna. Via tra poco Roberta Buzzolani, verso il ministero della Giustizia. Via Sergio Barbera e Roberto Piscitello, approdati in via Arenula presso il ministro Angelino Alfano. Via un altro storico componente del pool, Massimo Russo, ex pm durissimo, rigidissimo e antimafiosissimo. Il quale merita però una parentesi, dal momento che incarna una sorta di metafora del rapporto tra giustizia e politica in Sicilia. Attualmente potentissimo assessore alla Sanità nel governo di Raffaele Lombardo, Russo  ha fatto campagna elettorale per l’Udc insieme con Pino Giammarinaro, esponente dc del Trapanese di cui Russo stesso aveva chiesto la condanna per mafia, quand’era pubblico ministero: "Una cosa sono le posizioni personali, altra cosa le posizioni processuali" ha cercato di spiegare poi Russo. Ma la gente di Palermo mormora, ricorda, giudica e tende a fidarsi di meno. Autorevolezza e giustizia sono termini il cui rapporto sembra andare sfarinandosi, anche in Sicilia. Renato Mannheimer non si pronuncia su tanto argomento, ma di una cosa è convinto, anzi di due. Prima convinzione del professore, molto personale: "Un’eventuale incriminazione di Berlusconi per mafia sarebbe debolissima, la procura di Palermo farebbe bene a non contare sull’appoggio dell’opinione pubblica. Qualsiasi cosa dica Spatuzza, o dicano eventualmente i fratelli Graviano, conterebbe come il due di picche". Seconda convinzione del professore, molto professionale: "Escludo che un’iniziativa della procura di Palermo possa influire sul consenso al presidente del Consiglio. O meglio, non escludo che possa influire: aumentandolo". Con Ingroia sta Nino Di Matteo, nuovo presidente distrettuale dell’Associazione nazionale magistrati, votatissimo, gran lavoratore, caparbio al punto da convincere il procuratore Messineo a firmare la richiesta di rinvio a giudizio di Totò Cuffaro anche per concorso esterno in associazione mafiosa. A tutti sembra un doppione del primo processo che ha già condannato Totò "Vasa-vasa" per favoreggiamento e rivelazione di segreti. Tant’è. È il famoso concorso esterno. Con Di Matteo, Ingroia sta conducendo indagini delicate. Sono nate dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo che ha deciso di raccontare la verità in un momento topico: mentre la corte d’appello deve decidere se confermargli o meno la condanna per riciclaggio, tentata estorsione e fittizia intestazione di beni. In altre parole, un signore sotto processo per la sparizione del tesoro del padre aveva deciso di aprirsi, non con i magistrati che l’avevano fatto condannare, bensì con Ingroia e Di Matteo. Singolare vicenda. Dopo mesi di tira e molla, Ciancimino junior ha portato il "papello" con la richiesta della mafia allo Stato per interrompere le stragi. Poi i pizzini di Provenzano a don Vito. Ora promette cassette registrate sulla trattativa, premettendo a verbale che in fondo alle cassette, in fondo non c’è niente. Con Ciancimino jr Ingroia ha mostrato una pazienza che non sarebbe stata concessa a nessun altro. Ci spera, lavora a fare il botto. Ma un punto distingue Ingroia da Caselli e non consente di rimpiangere il secondo. Tutto era "doveroso", ai tempi di Caselli. Doveroso indagare, doveroso fare i processi, doveroso usare pentiti marciti come Balduccio Di Maggio. Il contesto lo consentiva. L’andazzo lo pretendeva. Ma niente come la magistratura sa mettersi al vento dell’andazzo. "Tutto è importante, oggi, ma un po’ meno doveroso di allora" suona il commento di un avvocato palermitano che ne ha viste molte. Traduzione: forse non è più tempo di colpi di testa, forse i tempi non consentono grandi blitz, grandi procedimenti per sfidare e calpestare la politica. Facendola concorrere esternamente, poi, e tirando la pelle come quella del pollo. Forse Ingroia non ha sposato il pentito Spatuzza. Che chissà, tra l’altro, se si è davvero pentito. Educati, forse, dai colpi subiti nel passato, i magistrati del capoluogo siciliano fanno senz’altro i radicali in tv, ma non sentono più l’obbligo di caricare a testa bassa. Spatuzza glielo ha sdoganato Firenze. Il piccolo Ciancimino si è sdoganato da solo, con le conferenze stampa alla fine degli interrogatori e le interviste in tv tra Annozero e Sky. Forse la procura di Palermo si sente meno "doverosa" di un tempo. Punta ancora a riscrivere la storia d’Italia, ma senza impiccarsi all’obiettivo. Forse. Meglio un’archiviazione "pesante", dove puoi dire quello che vuoi tu, che una sentenza in cui un giudice può darti torto marcio. E allora sei costretto ad attaccarlo, come venne attaccato il collegio giudicante che assolse Andreotti nell’"Eredità scomoda" di Caselli, e appunto di Ingroia. Forse, anche sull’indagine Berlusconi-Dell’Utri l’assatanamento spettacolare dei maggiorenti della procura palermitana, a parte il discusso Messineo, non è poi così assatanato quanto lo spettacolo lascia intendere. Forse anche Santoro teme questo. Vuol dire qualcosa in proposito, signor Santoro? "Nulla. Lei non sta toccando un tema qualsiasi. Sta dicendo che tutto è cambiato". Forse. "Non solo per quanto riguarda Berlusconi. Che anche l’opposizione è cambiata". Forse. "Che prima no, ma che adesso anche l’opposizione sopporta a fatica le inchieste della magistratura libera". Forse. "Allora non voglio dire nulla al di fuori della mia trasmissione". Perché? "Non intendo che le mie dichiarazioni possano essere usate per contrastare il lavoro di alcuno". E intende dei magistrati che sogna.

I giudici vogliono silenziare "Panorama": carcere ai giornalisti. Ci risiamo. Un altro giornalista, anzi altri due in un colpo solo, sono stati condannati al carcere per un presunto reato di diffamazione, scrive Alessandro Sallusti  su “Il Giornale Ci risiamo. Un altro giornalista, anzi altri due in un colpo solo, sono stati condannati al carcere per un presunto reato di diffamazione. La sentenza, di primo grado, è stata emessa ieri dal tribunale di Milano nei confronti del direttore di Panorama, Giorgio Mulè, e del giornalista Andrea Marcenaro. La colpa? Aver scritto (Marcenaro) e pubblicato (Mulè) un articolo nel quale si sosteneva la tesi che la Procura di Palermo è politicizzata. Così come nel caso che portò al mio arresto, i querelanti sono dei magistrati e i condannati giornalisti non allineati al pensiero unico sul ruolo delle Procure, di area centrodestra e di un giornale che fa capo a società della famiglia Berlusconi. Coincidenze? Non credo. Non è possibile che tra le migliaia di querele in corso, alcune delle quali sacrosante, solo quelle fatte da magistrati contro di noi vengano sanzionate da loro colleghi con l'arresto dei giornalisti coinvolti. Nel merito non vedo dove sia la diffamazione e mi associo senza indugio alla tesi sostenuta da Panorama, al cui direttore va tutta la mia solidarietà. Siete politicizzati e la sentenza di ieri è l'ennesima prova. Basterebbe dire che un pezzo importante di quella Procura, Ingroia, era talmente politicizzato da fondare un partito e presentarsi alle elezioni. Non basta? E allora rileggiamo quello che ha dichiarato il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo: ho trovato una Procura divisa in due schieramenti di carattere ideologico, chi non era schierato doveva fare slalom tra le faide. Quella non è una sentenza, ma una provocazione. A noi giornalisti (non tutti, c'è ovviamente chi si frega le mani), al presidente della Repubblica Napolitano che ridandomi d'imperio la libertà ha bollato come ingiustificate e abnormi le sentenze di arresto per reati d'opinione. Ed è uno sberleffo alla politica inaffidabile (compresa quella del Pdl) che per evitare altri casi come il mio aveva promesso di cambiare una legge assurda e illiberale ma che passato il pericolo, ovviamente, non ha fatto nulla, come nelle sue peggiori tradizioni. Ma sì, amici deputati e senatori liberali, che ci arrestino tutti, noi che ogni giorno ci esponiamo per difendere anche la vostra libertà di fare politica. Diamogliela vinta a quei galantuomini di pm e giudici che usano il loro potere per intimorire e imbavagliare. Basta poi che alle prossime elezioni non ci chiamate per avere l'intervista di rito. Perché non so Mulè, ma io la risposta l'ho pronta, ed è da querela.

"Trattati dai giudici peggio dei delinquenti". Il direttore di Panorama Giorgio Mulé commenta così a Stefano Zurlo (per Il Giornale) la sua condanna in primo grado per diffamazione contro il pm Messineo di Otto mesi senza la condizionale.

"Sono esterrefatto. Andrea Marcenaro e Riccardo Arena, gli autori dell'articolo incriminato, hanno ricevuto una condanna ad un anno di carcere. Ci trattano peggio dei delinquenti". Giorgio Mulè, direttore di Panorama, è basito: "Sono amareggiato, ma amareggiato è poco. Leggo il dispositivo e scopro che non mi è stata data la condizionale".

Perché?

"Posso solo immaginarlo.: me la sarei giocata con una condanna precedente, una multa del 2005 che, fra parentesi, ho preso dopo la querela di un altro magistrato di cui nemmeno ricordo il nome. I criminali ricevono i benefici di legge, io e i miei giornalisti no".

Il pezzo di Panorama conteneva forse delle notizie inesatte, errori, sviste, o, peggio, falsità?

"Nulla di tutto questo. L'articolo era un viaggio documentato dentro la Procura di Palermo, come se ne fanno tanti nei giornali".

E allora?

"E allora mi chiedo dove sia la lesa maestà. Arena e Marcenaro hanno raccontato come era la procura, guidata, allora come oggi, da Francesco Messineo, che poi ci ha querelato".

E com'era?

"C'erano divisioni e contrasti. come peraltro hanno scritto e scrivono tutti i giornali. C'era chi rimpiangeva Gian Carlo Caselli e chi a un certo punto ha preferito andarsene. Una sorta di diaspora. Tutto noto e pubblicizzato dai media".

Anche i guai, chiamiaoli così, del procuratore?

"Si, abbiamo spiegato che il cognato di Messineo era sotto inchiesta. Ma c'è di più. In aula, lo stesso Messineo e Ignazio De Francisci, a lungo Procuratore aggiunto a Palermo, non hanno smentito i fatti. le faide in quel grande calderone del palazzo di giustizia di Palermo e in particolare della procura".

Forse il tono era eccessivo?

"Noi non componiamo agiografie, mettiamo in pagina i fatti e le nostre critiche. Però, mi si lasci dire, senza passare il segno. Con civiltà e misura. Invece quando abbiamo chiesto di recuperare le carte del procedimento disciplinare aperto al Csm su Messineo il giudice ha risposto picche".

Come mai?

"Non lo so, le avrà reputate superflue per la sentenza anche se, secondo noi, potrebbero arrivare ulteriori conferme alle nostre tesi. So che ormai faccio il giornalista da più di vent’anni e tutti i miei problemi con la giustizia riguardano sempre e solo loro, i magistrati. Mi fermo per carità di patria".

Ha pesato in questa storia lo scoop di Panorama sulle intercettazioni del Quirinale?

"Il pezzo della scorsa estate ha rotto le uova nel paniere ai pm. Noi abbiamo detto anche in quel caso la verità, raccontando che i pm avevano ascoltato le telefonate del Quirinale".

Messineo?

"Si difese in modo singolare, specificando che la fuga di notizie non poteva essere partita dalla procura perché la procura non aveva rapporti con Panorama. Mah".

Conclusione?

"Siamo sempre allo stesso punto. Gli strapotenti, come li abbiamo chiamati in copertina la scorsa settimana, sono sempre strapotenti, qualunque tentativo di intervenire sul potere giudiziario viene subito catalogato come legge bavaglio, minaccia alla libertà delle toghe o norma salva qualcuno. E il parlamento, a mesi di distanza dal caso Sallusti, è al palo. Non si è fatto niente: chiacchiere e ancora chiacchiere. La nuova legge sulla diffamazione è solo un fantasma evocato nei dibattiti e nei convegni".

Caso Mulé. Ancora manette per rieducare i giornalisti. Le toghe non si toccano, scrive Annalisa Chirico su Panorama. Sarà un caso che la testata si chiami “Panorama”, di proprietà della famiglia Berlusconi. Sarà pure un caso che il direttore condannato in primo grado a otto mesi di carcere (senza condizionale) per omesso controllo si chiami Giorgio Mulé, non esattamente un devoto della “strapotente” magistratura italiana. Sarà un caso, come dubitarne, che il querelante si chiami Francesco Messineo, capo della Procura di Palermo ai tempi delle intercettazioni del Presidente della Repubblica, rivelate da Panorama pochi mesi or sono e dichiarate poi illegittime dalla Consulta. Si conferma il noto assioma secondo cui magistrato-non-morde-magistrato: il giudice milanese Caterina Interlandi dà ragione al collega Messineo e condanna il direttore responsabile a otto mesi di galera e il giornalista Andrea Marcenaro, autore del delittuoso articolo, ad un anno di reclusione. Hanno ragione i magistrati: i giornalisti vanno rieducati. Si dovrebbero organizzare dei veri e propri campi di rieducazione per quei giornalisti, pochi, che osano esercitare la libertà di critica verso i nostri esimi magistrati. In fondo, se parli di politici e soubrette, è tollerato un certo linguaggio infarcito di travagliesca putrescenza. Puoi qualificare gli uni come furfanti, le altre come puttane, tutt’al più ti becchi forse, non è detto, una querela e con qualche soldo la faccenda è chiusa. Se invece ti salta in mente di toccare il terzo potere, non hai scampo. Il terzo potere è intoccabile, e così un articolo che riporta dei fatti, nessuno dei quali viene smentito, fatti già raccontati in precedenza da La Repubblica e da La Stampa, diventa l’arma diffamatoria nei confronti di un povero magistrato. Il quale, dal canto suo, subisce una grave “perdita di autostima”, ne soffre intimamente. E allora egli potrebbe accontentarsi di un lauto risarcimento, ma non gli basta. Servono le sbarre per rieducare i giornalisti. Certi giornalisti italiani – quei “pochi”, di cui sopra –  devono aver subito una sorta di mutazione genetica alla nascita, se a differenza dei loro colleghi – i tanti – osano prendersela persino con i giudici. Non si fa, non si fa, non si fa. Resta da chiedersi però perché in Italia e solo in Italia un reato, quale la diffamazione a mezzo stampa, sia punita con la galera. Non bastano forse ammende e risarcimenti pecuniari come avviene altrove? No, da noi la “giustizia” pretende i ceppi alle penne. Si tratta  innanzitutto di una violenza ingiustificata nei confronti di due professionisti, che sono anche due persone, con la propria vita e la propria dignità. E poi viene così inferta una lesione profonda dei principi basilari su cui si fonda lo Stato di diritto nella nostra, seppure scalcinata, democrazia. Ma la politica che cosa fa? Si inchina supinamente, pavidamente, ad un diktat che già lo scorso autunno aveva fatto tintinnare le manette per un altro direttore di giornale, Alessandro Sallusti, anch’egli d’area berlusconiana e non proprio tenerissimo con la magistratura italiana. Sarà una coincidenza, certamente. La politica è rimasta a guardare, non è riuscita neppure a riformare una norma del Codice, firmato dal Re e dal Duce, che sopravvive imperterrita al buonanullismo dei politici e al ricatto dei magistrati. Sallusti è stato “graziato” in extremis dal Capo dello Stato. Dovremo confidare di nuovo nel potere di clemenza del sovrano oppure è arrivato il momento di modificare quella norma fuori dal tempo per evitare i casi Guareschi, Surace, Guarino, Sparagna? Che siate lettori o meno di Panorama, che siate berlusconiani o acerrimi antiberlusconiani, questo non conta. Se pensate con la vostra testa e avete a cuore la democrazia, di cui la libertà di espressione è un caposaldo indelebile, allora la reazione non può che essere una soltanto: indignazione. Le penne non si ammanettano, mai.

''La libertà di stampa non può essere chiusa in una prigione. La critica, anche la più dura, a patto che non scada nell'insulto o nella menzogna, è il sale del confronto democratico, al quale nessuno puòpensare di sottrarsi". Sono queste le parole di Marina Berlusconi, su “Panorama”, presidente Mondadori e Fininvest alla notizia della condanna a otto mesi di reclusione inflitta dal Tribunale di Milano al direttore di Panorama Giorgio Mulè e di un anno al giornalista Andrea Marcenaro ed al collaboratore di Panorama, Riccardo Arena per diffamazione. "Panorama - sottolinea sempre Marina Berlusconi nella nota - ha ancora una volta soltanto fatto, e bene, il proprio mestiere. Anche di fronte ad una sentenza che lascia senza parole, continuerà come sempre ad esercitare la sua funzione di attento, acuto, e profondamente libero protagonista della vita del Paese. Al direttore Giorgio Mulè, agli altri colleghi condannati e all'intera redazione, tutta la solidarietà e la stima che si sono conquistati con il loro lavoro''. La condanna è scaturita in seguito alla pubblicazione di un articolo in cui si muoveva una critica sull’operato di Francesco Messineo, procuratore capo di Palermo. L’articolo risale al 2009 dal titolo “Ridateci Caselli”. Al centro della polemica di Marcenaro c’era la parentela (un cognato indagato per mafia che non pochi imbarazzi ha procurato a Messineo) e la gestione della procura al centro di una lotta intestina fra gli stessi magistrati. Una parentela evidente che aveva attirato pure le attenzioni dei cronisti de La Stampa e de La Repubblica, del Corsera ben un anno prima del servizio che ha dedicato Panorama, ma che Messineo ha preferito non denunciare. Denuncia che con un anno di ritardo presenta invece nei confronti di Panorama colpevole, a suo modo di vedere, di aver calato quel tema in un contesto di divisione che si respirava in procura e che del resto ha acclarato perfino il suo vice Ignazio De Francisci nel corso di un interrogatorio e testimoniato dai verbali pubblicati da Il Giornale dove si parla di “funesta tradizione di divisioni”, “slalom tra le faide”. A esprimere solidarietà al direttore di Panorama è l’intero gruppo Mondadori che in una nota si dice certa che l’enormità della condanna troverà riparazione in appello. “Mondadori da sempre presidio di libertà riconosce nell'operato di Panorama, del direttore Giorgio Mulè e della sua redazione i caratteri genetici che appartengono a questa casa editrice: esprimere opinioni, nel rispetto dei fatti e delle persone, ed esercitare il diritto di critica, in particolare su temi di interesse pubblico, è l'essenza del buon giornalismo”.

«Si tratta di una vicenda orribile e di una sentenza inaccettabile che colpisce due giornalisti seri come Mulè e Marcenaro, trattati come delinquenti abituali, nel momento in cui esprimono opinioni su fatti di cronaca». Peppino Caldarola, ex direttore dell’ «Unità», ex deputato ds, uomo di sinistra, è sconcertato e preoccupato di fronte alla condanna al carcere decisa dal tribunale di Milano per il direttore di Panorama Giorgio Mulè e per Andrea Marcenaro. Caldarola, dunque, per Mulè otto mesi, per Marcenaro 12, condannato per diffamazione anche il collaboratore Riccardo Arena… «È sempre sgradevole vedere magistrati giudicanti schierarsi regolarmente dalla parte dei magistrati querelanti. Non si capisce quale possa essere l’istanza terza che garantisca ai giornalisti di poter esprimere opinioni». Qui siamo al carcere e senza condizionale… «Nella sentenza c’è persino l’ignominia della carcerazione come se fossimo di fronte a delinquenti abituali».

Sta dicendo che ci vorrebbero maggiori e meno timide reazioni anche da parte del mondo di sinistra?

«Io da uomo di sinistra non posso che essere particolarmente attento alle opinioni e alla libertà di opinione di chi non vota per il mio stesso schieramento politico. No ai due pesi e alle due misure. È necessaria una reazione corale di fronte a una vicenda orribile come questa. Peraltro infastidisce che l’ex presidente della Fnsi, Roberto Natale, attuale portavoce della presidente della Camera, Laura Boldrini, che tante battaglie ha fatto in passato contro il bavaglio si dimentichi di intervenire in questa vicenda scandalosa. Non sento quel coro di proteste al quale abbiamo partecipato in passato e che è particolarmente necessario in questo momento».

"Una pagina nera per la libertà di stampa'' dice Renato Schifani, ex presidente del Senato. "Credo - sempre Schifani - che sia arrivato ormai il momento inderogabile per mettere in campo iniziative parlamentari condivise, in grado di sanare questo vulnus e di eliminare l'arresto per i reati d'opinione''.

Ancora più diretta la portavoce dei deputati del Pdl, Mara Carfagna: "L'idea di punire con il carcere una opinione, sia essa giusta o sbagliata, è incompatibile con uno Stato di diritto. La diffamazione è sì un reato, ma può e deve essere punito - anche severamente - senza ricorrere alle carceri, come si usa nelle dittature. Le condanne alla reclusione per Giorgio Mulè e per Andrea Marcenaro, così come la precedente, dimostrano che è arrivato il momento di mettere in campo iniziative parlamentari condivise per superare l'arresto per i reati d'opinione e, allo stesso tempo, regolamentare gli abusi in maniera severa, ma senza alimentare sproporzioni fra reato commesso e pena comminata".

Presa di posizione anche di un deputato del Pd come Ernesto Carbone: “La libertà di informazione è cartina tornasole dell'agibilità democratica di un Paese. A volte accade che per eccessivo amore di scoop qualche giornalista scriva cose sbagliate, imprecise e diffamanti. Esiste la rettifica a norma di legge. Quando invece si tratta di fatti accertati, dove sta la diffamazione? Al netto di opinioni spesso diverse, al direttore di Panorama Mulè e alla intera redazione va la mia totale solidarietà”. Dello stesso parere anche un altro democratico come Vannino Chiti: "ll carcere per la diffamazione a mezzo stampa è un errore che la democrazia non si può più permettere''.

«In questo paese c'è una pericolosa deriva che strozza la libertà di stampa». Lo afferma il senatore Pd, Stefano Esposito a proposito della condanna, per diffamazione a mezzo stampa, a 8 mesi di carcere per il direttore di Panorama Giorgio Mulè e a un anno di reclusione per Andrea Marcenaro. Osserva Esposito, paladino della battaglia contro i No Tav: «Evidentemente c'è un problema nella legislatura se ci sono tribunali e magistrati che possono condannare giornalisti rispetto ai quali si può avere l'opinione che si vuole addirittura al carcere peraltro senza condizionale. Non si possono usare due pesi e due misure: ci sono giornalisti iscritti all'ordine che inneggiano contro lo Stato rappresentato da poliziotti e operai del cantiere Tav che possono continuare a scrivere liberamente e giornalisti che invece sono condannati al carcere per aver scritto pezzi di commento e di analisi». Conclude: «Non vorrei che la giustizia fosse amministrata a seconda dell'orientamento politico dei giornalisti».

«Non ho letto l'articolo in questione ma mi sembra molto esagerato il carcere per i giornalisti». Lo afferma il leader dei Moderati, alleati del Pd, Giacomo Portas sulla vicenda. Portas definisce la condanna al carcere: «Una follia». Osserva: «In Italia ci sono assassini a piede libero che sono usciti per decorrenza dei termini di carcerazione . Mandare in galera i giornalisti mi sembra una follia».

Parla invece di “condanna incredibile”, l’ex ministro dell’Istruzione Maria Stella Gemini a cui fa eco il coordinatore del Pdl, Sandro Bondi:  “E’ una condanna che limita gravemente la libertà di espressione nel nostro Paese, tanto più se se pensa che si tratta di un caso purtroppo molto frequente di magistrati che si rivolgono ad altri magistrati perseguendo e condannando giornalisti per manifestazioni di pensiero che in altri Paesi sarebbero assolutamente normali”.

"Ogni volta che un giornalista viene condannato al carcere per le idee espresse tutti noi perdiamo un pezzo di libertà. Una norma che abbiamo invano tentato di cambiare già nella scorsa legislatura, certe barbarie devono scomparire dalla nostra legislazione. Noi dobbiamo tutelare la buona reputazione dei cittadini e dunque chi sbaglia e diffama a mezzo stampa è sacrosanto che paghi ma il carcere non può essere la soluzione: per questo esprimo la mia solidarietà, a di là delle idee espresse, al direttore di Panorama Giorgio Mulè e ad Andrea Marcenaro". Lo dichiara Davide Caparini, responsabile della comunicazione per la Lega Nord.

"In questo momento, tutti quelli che credono al free speech e alla libertà d'espressione dovrebbero mostrare vicinanza a Gorgio Mulè e Andrea Marcenaro. Non  in questione solo il loro caso, ma un valore più grande: la tutela di ogni opinione e la possibilità di esprimerla liberamente", fa sapere Daniele Capezzone, presente della Commissione Finanze della Camera e coordinatore dei dipartimenti Pdl.

“Quanto è avvenuto è sconcertante. E’ in atto un attacco senza precedenti alla libertà di stampa. Esso viene fatto in maniera obliqua. Si tratta di una variante estrema dell'uso politico della giustizia. Mentre quando si parla di intercettazioni, ecco allora che i presunti paladini della libertà di stampa fanno sentire la loro voce, quando ad essere nel mirino è la stampa di centrodestra, ecco che immediatamente piomba il silenzio”, così Fabrizio Cicchitto.

'Il delitto? Aver osato esprimere un parere circa la politicizzazione dei magistrati della procura di Palermo, dimenticando che lo stesso procuratore capo Messineo aveva espresso parole dure sugli schieramenti di carattere ideologico in cui è divisa la procura palermitana. E’ una condanna assurda, ancora”, aggiunge Maurizio Gasparri.

E al direttore di Panorama arriva la solidarietà del capogruppo Pdl alla Camera, Renato Brunetta: “Ci risiamo. Un giornalista scrive un articolo, il direttore lo pubblica, un magistrato querela, un altro magistrato infligge il carcere ai due giornalisti, negando le attenuanti. Non c'è bisogno certo di ergersi a paladini per scandalizzarsi di questo cortocircuito giudiziario. E' davvero grave quanto accaduto al direttore di Panorama, Giorgio Mulè, e al suo giornalista Andrea Marcenaro, condannati, rispettivamente a otto mesi e ad un anno di carcere senza condizionale, per diffamazione a mezzo stampa”. "Condivido dalla prima all'ultima le parole del presidente Renato Brunetta sulla questione della libertà di stampa ed esprimo solidarietà e amicizia a Giorgio Mulè e Andrea Marcenaro, nella speranza che la questione venga affrontata bene e nel profondo una volta per tutte, non cavalcando l'emergenza, in modo da garantire una informazione totalmente libera e allo stesso tempo impedire abusi e sproporzioni fra presunto reato commesso e pena comminata'', dice Luca d'Alessandro, segretario della commissione Giustizia della Camera.

"Una condanna che, a pochi mesi di distanza, ricorda il ben noto caso del direttore Sallusti. Ancora una volta in una sentenza, infatti, si richiama il reato di diffamazione, sempre in relazione ad articoli ritenuti accusatori nei confronti di un giudice e sempre con la grave previsione del carcere''. fa notare  Deborah Bergamini, deputato del Pdl.

In una nota anche la solidarietà del Cdr di Panorama: "Ci colpisce la condanna a Mulè e Marcenaro (rispettivamente a 8 mesi e 1 anno) a cui viene negata la sospensione condizionale della pena e nei confronti dei quali – se la sentenza dovesse essere confermata nei successivi gradi di giudizio – si potrebbero aprire le porte del carcere. Ancora una volta alcuni giornalisti pagano con una misura intimidatoria, che potrebbe privarli della libertà, per un reato di opinione visto che viene dato atto che nessuna falsità è contenuta nell’articolo incriminato. I fiduciari esprimono piena solidarietà ai colleghi Mulè, Marcenaro e Arena e si appellano alla Federazione Nazionale della Stampa per una presa di  posizione chiara in difesa della libertà di stampa sempre più minacciata dai poteri forti".

Solidarietà, ma non bipartisan, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Un coro di voci dal centrodestra, qualche solista dall'altra parte dell'emiciclo. La sentenza shock del tribunale di Milano che ha condannato a un anno di carcere i giornalisti Andrea Marcenaro e Riccardo Arena e a 8 mesi il direttore di Panorama Giorgio Mulè scuote il Palazzo. Ma unisce solo fino a un certo punto le forze che pure governano insieme il Paese. E così, ancora una volta, si deve considerare l'idea che cronisti e inviati possano finire in cella per quello che hanno scritto. Una situazione imbarazzante, già esplosa nei mesi scorsi quando a finire agli arresti domiciliari era stato il direttore del Giornale Alessandro Sallusti. In quell'occasione, sotto la pressione dell'opinione pubblica indignata, deputati e senatori di tutti gli schieramenti avevano provato a confezionare la nuova legge sulla diffamazione, attesa da anni. I parlamentari si erano divisi su questo o quel punto, ma tutti o quasi avevano sostenuto che un giornalista non può andare in prigione per i suoi articoli. E invece no: placata la tempesta si scopre che siamo esattamente al punto di prima. La norma che dovrebbe allinearci agli standard europei è incagliata nei soliti cassetti, ingolfati di disegni di legge. E così un pezzo uscito sul settimanale della Mondadori alla fine del 2009, e intitolato Ridateci Caselli, rischia di costare caro, molto caro a Mulè e Marcenaro cui il giudice di Milano Caterina Interlandi ha negato la sospensione condizionale della pena. Proprio come era capitato a Sallusti, «salvato» solo dal provvidenziale intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che aveva commutato i 14 mesi di detenzione in una pena pecuniaria. L'Italia, anche su questo versante, non fa passi in avanti. E però da Renato Schifani a Maurizio Gasparri, da Vannino Chiti a Ernesto Carbone, sono davvero tante le dichiarazioni pro Panorama. «È una pagina nera per la libertà d'informazione», afferma l'ex presidente del Senato Renato Schifani, mentre Vannino Chiti del Pd esprime ad alta voce il proprio imbarazzo: «Il carcere per la diffamazione a mezzo stampa è un errore che la democrazia non può permettersi». E il suo collega di partito Ernesto Carbone rincara la dose: «La libertà di stampa è la cartina di tornasole dell'agibilità democratica». Renato Brunetta ricostruisce la genesi della vicenda: l'uscita del servizio, una sorta di reportage dentro la procura di Palermo, le sue divisioni, i suoi veleni, le sue faide, e la successiva querela del procuratore Francesco Messineo. «Ci risiamo - dice l'ex ministro azzurro - un giornalista scrive un articolo, il direttore lo pubblica, un magistrato querela e un altro magistrato infligge il carcere ai giornalisti negando le attenuanti. Un cortocircuito giudiziario che scandalizza». E Gabriella Giammanco sottolinea come «nessuna delle grandi firme vibranti si è esposta in difesa della libertà di stampa, pilastro della democrazia. Niente. Se non fosse stato per il Giornale la condanna sarebbe passata sotto silenzio». Stupore, incredulità, disagio: il verdetto di rito ambrosiano suscita un'infinità di commenti. E non si tira indietro neppure Marina Berlusconi, presidente della Mondadori: «La libertà di stampa non può essere chiusa in una prigione. Panorama ha ancora una volta soltanto fatto, e bene, il proprio mestiere. Anche di fronte ad una sentenza che lascia senza parole, continuerà come sempre ad esercitare la sua funzione di attento, acuto e profondamente libero protagonista della vita del Paese». Il punto però è che la futuribile norma è al palo: sfumato l'accordo ad un passo dal traguardo e conclusa la legislatura, la discussione è tornata ai blocchi di partenza. In questo momento ci sono due iniziative in cantiere alla Camera: una proposta di legge targata centrosinistra e già assegnata ad un relatore, ed un'altra, sponsorizzata dal centrodestra. Nulla invece all'orizzonte del Senato. E le penne rischiano ancora la galera, come Sallusti e Giovannino Guareschi, arrestato negli anni Cinquanta. Deborah Bergamini del Pdl annuncia che «segnalerà la preoccupante sentenza al Consiglio d'Europa». Per l'Italia sarà l'ennesima figuraccia.

C’E’ CHI FA IL VERO GIORNALISTA, MA NON LO E’, C’E’ INVECE CHI GIORNALISTA LO E’, MA NON LO MERITA.

Le “Quirinarie” sul blog di Beppe Grillo hanno finalmente eletto quello che – salvo rinunce – sarà il candidato presidente della Repubblica per il Movimento 5 Stelle: Milena Gabanelli, giornalista televisiva.

Un po’ il colmo che la persona che i pentastellati andranno a votare faccia parte proprio di quella «casta» che Grillo il 29 marzo 2013 definì «peggiore di quella dei politici». Per la precisione, sul suo blog il comico divise i giornalisti in tre categorie: «gli indipendenti (pochi, eroici e spesso emarginati), gli schiavi (tantissimi, sfruttati e pagati 5/10/20 euro a pezzo) e i Grandi Trombettieri del Sistema, nominati in posizioni di comando dai partiti e dalle lobby (direttori di testata, caporedattori, grandi firme, intellettuali per meriti sul campo)». La Gabanelli inoltre, viene fuori da quella stessa televisione di Stato che Grillo ha sempre definito una struttura «morta da un pezzo» nella quale «gli unici a non saperlo sono quelli che ci vanno». Curioso che quindi una formazione politica porterà in auge un rappresentante di quello stesso universo tanto criticato. In merito si ricorda Vito Crimi, capogruppo al Senato, che il 21 marzo affermò «i giornalisti e le tv li sto rifiutando tutti perché mi stanno veramente sul cazzo» a degli studenti per Radio 24. È dunque passata molta acqua sotto ai ponti dallo scorso 22 febbraio 2013, quando Grillo concluse la campagna elettorale a Piazza San Giovanni: allora, i giornalisti furono esclusi dal backstage, ora verranno portati al Colle.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

LA LIBERTA' DI STAMPA E' PRECARIA.

La libertà di stampa è precaria? Migliaia di giornalisti muoiono di fame. Nicola Biondo è un giornalista freelance: ha lavorato nella redazione di "Blu notte" di Carlo Lucarelli e, nel 2009, ha pubblicato insieme a Sigfrido Ranucci, il libro "Il patto" (Chiarelettere). L'arguto collega ha scritto un esilarante articolo sulla "più bella professione", analizzando il concetto di libertà di stampa e lo stato di precarietà di troppi giovani: il suo "sfogo -testimonianza" è stato pubblicato sul famoso "Blog di Beppe Grillo" destando non pochi scalpori fra "gli addetti ai lavori". Dal Blog di Beppe Grillo riportato da “Lucca News”. Ve lo proponiamo pari pari, nell'intento, forse, di far riflettere, qualcuno...

"Dove vanno a finire i soldi che lo Stato da ai giornali? Di sicuro non servono a pagare i giornalisti. Anzi. Perché in Italia tranne rare eccezioni fare il giornalista significa rassegnarsi ad una vita da precario. Se c'è un microcosmo lavorativo che riassume tutti i difetti del sistema Italia è quello del giornalismo. E allora, dove finisce il finanziamento pubblico? Nei mega stipendi a direttori, capiredattori, amministratori delegati e a tutte quelle penne illustri (?) che si ergono a guide morali che da anni non portano un straccio di notizia, ma commentano, avvertono, monitano.

Vi hanno detto che la libertà di stampa è minacciata dalla mafia, da Berlusconi, dalle mille leggi bavaglio. Minchiate. La libertà di stampa è minacciata dalla miseria in cui vivono e lavorano migliaia di giornalisti sfruttati: dagli editori, dai direttori e, infine, dai loro stessi colleghi assunti con contratto a tempo indeterminato che quando scioperano, protestano, denunciano è solo per i loro privilegi di giornalisti professionisti e assunti mentre gli altri muoiono di fame.

Facciamo un esempio. Un articolo di cronaca, secondo una ricerca compiuta dall'Ordine dei giornalisti pubblicata nel 2011, viene pagato anche 5 euro lordi a 60-90 giorni dalla pubblicazione. Sono i numeri della vergogna, la cifra, vera, della censura. Ecco cosa dicono: La Repubblica a fronte di 16.186.244,00* euro di contributi dello Stato all'editoria elargisce un compenso che varia tra i 30 e i 50 euro lordi a pezzo. Il Messaggero, che riceve 1.449.995,00** euro di contributi pubblici, riconosce 9 euro di compenso per le brevi, 18 euro le notizie medie e 27 euro le aperture. Lordi, ovviamente. Il Sole 24 Ore: 19.222.767,00** euro di contributi pubblici e 0,90 euro a riga, con cessione dei diritti d'autore. Libero: 5.451.451** di finanziamenti pubblici e 18 euro lordi per un'apertura. Il Nuovo Corriere di Firenze (chiuso nel maggio 2012) riceve 2.530.638,81*** euro di contributi pubblici e paga a forfait tra i 50 e i 100 euro al mese, il Giornale di Sicilia a fronte di un finanziamento di quasi 500 mila euro (anno 2006) paga 3,10 euro.

Provate a immaginare quanti articoli servono per arrivare ad uno stipendio decente. Provate ad immaginare quale sarà la pensione di chi scrive con un simile onorario (?). Perché questi giornalisti, se iscritti all'ordine- sennò sono abusivi ed è un reato penale - i contributi devono versarli da sé, nella misura del 10 per cento del compenso netto più un due per cento di quello lordo. Che vanno a confluire nella "gestione separata" (mai nome fu più azzeccato) dell'ente pensionistico dei giornalisti, l'Inpgi. Una "serie B" della cassa principale che, invece, prevede pensioni, disoccupazione, case in affitto, mutui ipotecari, prestiti e assicurazione infortuni. Ma questa vale solo per quelli "bravi", quelli a cui viene applicato il contratto collettivo nazionale di lavoro giornalistico che, solo nel 2011, dopo 6 anni, è stato rinnovato. Insomma quelli assunti. Che ovviamente sono una piccola minoranza.

Ma, attenzione, questo solo per quanto concerne la parte economica. Perché il contratto collettivo non disciplina solo il trattamento economico ma regola a tutti gli effetti i rapporti fra datore di lavoro (editore) e lavoratore (giornalista). Fissa, insomma, diritti e doveri. Ma, ancora una volta, questo vale solo per chi il contratto ce l'ha e, quindi, tutti gli altri vivono nel far west, perché la loro posizione non è disciplinata da nulla. E si tratta della stragrande maggioranza dei giornalisti della carta stampata - da Repubblica fino al più piccolo foglio di provincia: precari, sottopagati, sfruttati, senza copertura legale, senza ferie, senza nulla. È questa moltitudine, oltre il 70% degli iscritti all'Ordine, che permette ai giornali cartacei e on-line, alle agenzie di stampa di produrre notizie 24 ore al giorno. Senza di loro le pagine bianche sarebbero molte di più di quelle scritte. La carta stampata riceve centinaia di milioni di euro di contributi dallo Stato ogni anno, ma lo Stato non chiede agli editori in cambio di garantire compensi minimi e tutele contrattuali ai collaboratori.

Poi arriva la Fornero, ministro al Lavoro (nero) e di fronte alla più elementare delle proposte di legge sull'equo compenso ai giornalisti precari dice: "Non mi sembra opportuno". Della serie siete precari, non siete figli di papà (giornalista), e allora morite. E qualcuno c'è anche morto, stufo di subire. Come Pierpaolo Faggiano, collaboratore della Gazzetta del Mezzogiorno, che nel giugno 2011 si è tolto la vita: non sopportava più, a quarantuno anni, di vivere da precario.

Chiara Baldi, da giornalista precaria ha scritto una tesi sul precariato: "i giornalisti sono "i più precari tra i precari" – scrive Baldi - "perché lo stipendio da fame li costringe anche a rinunciare ai principi deontologici a cui invece dovrebbero attenersi. Una buona informazione è possibile solo quando chi la fornisce non deve sottostare al ricatto di uno stipendio misero. Più è basso il guadagno del giornalista e più sarà alta la sua "voglia" di produrre senza professionalità, non tanto per un desiderio malato di non essere professionale, quanto per una necessità: quella di guadagnare".

Il potere, di qualsiasi colore, non ama i giornalisti e in Italia per disinnescare il problema è stato consentito che diventare giornalisti, essere assunti, sia un privilegio di pochi, così che la stampa diventi il cagnolino del regime e non il guardiano. Assumere il figlio del giornalista è come candidare il Trota, sangue vecchio sostituisce altro sangue vecchio. Altro che bavaglio. Provate voi ad essere liberi a 5 euro a pezzo (lordi)." Nicola Biondo, giornalista freelance.

LA LIBERTA' DI STAMPA E' SVENDUTA.

Giornalisti sul libro paga dell’Ilva? L’Odg chiede gli atti.

Uno scandalo nello scandalo dell'Ilva riguarda i rapporti fra la grande azienda e la stampa locale. Dalle intercettazioni, vengono fuori pratiche e connivenze disgustose. I giornalisti si dividono grosso modo in due categorie: i pochi che si ostinano a fare il proprio mestiere e vengono sottoposti a minacce e intimidazioni, e i molti che si mettono "a disposizione". Risulta avviata un'indagine da parte dell'Ordine dei giornalisti di Puglia. L’Ordine dei giornalisti della Puglia, presieduto da Paola Laforgia, ha annunciato che chiederà alla Procura della Repubblica di Taranto “l’invio degli atti dai quali emergano eventuali coinvolgimenti di colleghi in comportamenti illeciti”. Vari quotidiani nazionali, infatti, pubblicano notizie in cui si fa riferimento a intercettazioni telefoniche nell’ambito dell’inchiesta Ilva da cui risulterebbe che dirigenti dell’azienda siderurgica avrebbero progettato di pagare “tutta la stampa”.

“Taranto Oggi”, il giornale più odiato dall’Ilva, scrive Sandra Amurri inviata a Taranto (Il Fatto Quotidiano, 4 dicembre 2012). I giornalisti di Taranto Oggi, uno dei quotidiani più diffusi in città e in Provincia, informano senza svendere la loro dignità all’Ilva in cambio della pubblicità. E per questo meritano un “sacco di legnate”, parola del professor Ilvo Allegrini che il 15 luglio 2010, scrive al Gip Todisco nell’ordinanza, dice ad Archinà che “dalla rassegna stampa emerge che Taranto Oggi fa degli attacchi ad personam molto pericolosi. Allegrini dice che se gli attacchi sono rivolti a lui poco male tanto nell’eventualità parla con degli amici di San Lorenzo e gli farà dare un sacco di legnate. Allo stesso modo Girolamo Archinà dice che anche lui è in buoni rapporti con dei calabresi e quindi si può regolare di conseguenza, il problema è di chi non ha amici. Poi Girolamo Archinà dice che il problema è che Taranto Oggi fa questa campagna solo perché vuole soldi”. Invece è il solo quotidiano a non averne mai accettati in cambio della pubblicità dell’Ilva. A parlare sono il chimico di fama Allegrini, membro del Cnr e del comitato scientifico del Centro Studi Ilva, consulente della difesa nel processo del 2005 in cui Riva sono stati condannati, e Girolamo Archinà, responsabile delle relazioni esterne dell’Ilva, arrestato per una mazzetta di 10 mila euro, che ad Allegrini dice: “É così che bisogna fare, più che prendersela con il sindaco… con il procuratore che lui l’azione penale è obbligatoria … nel momento in cui ti fanno le denunce, ti fanno le sollecitazioni, trovano una sporca stampa che fanno da cassa di risonanza… cioè io ho sempre sostenuto che bisogna pagare la stampa per tagliarle la lingua !”. Allegrini : “Sì”. Ma Taranto Oggi continua a denunciare ogni iniziativa dell’Ilva che cerca di accreditare l’immagine dell’azienda responsabile che sfama 12 mila famiglie. Per esempio il convegno organizzato dal Centro Studi sulla pericolosità del fumo di sigaretta, come dire che a Taranto il problema non sono i veleni dell’Ilva. Sotto il titolo “pubblicità progresso” Taranto Oggi pubblicò la foto di una sigaretta in una ciminiera a forma di mano. E ogni volta che il giornale non veniva invitato alle conferenze stampa dell’Ilva, pubblicava una pagina in bianco. Quando l’ex vescovo non partecipò alla marcia per l’ambiente, Taranto Oggi riportò le sue sconvolgenti parole: “Quello che non dovrebbe accadere è cavalcare la giusta tematica della salvaguardia dell’ambiente non tanto perché stia veramente a cuore questo problema, ma perché dalla protesta si possa ricavare un qualche utile personale o di gruppo. Qualora dovesse accadere questo, dovrei pensare che ci sia un inquinamento spirituale che è peggiore dell’inquinamento ambientale”. I giornalisti di Taranto Oggi hanno promosso la campagna di disincentivo all’acquisto presso le aziende che accettano la pubblicità dell’Ilva : la galleria commerciale Mongolfiera di Taranto, a causa delle lamentele dei clienti, ha dovuto rescindere il contratto. Hanno denunciato con il titolo “Tutti al Luna Par ” il tour guidato allo stabilimento presentato così: “Porte Aperte é l’occasione per scoprire una realtà che da oltre 50 anni è parte della vita sociale ed economica del territorio di Taranto. Non fermarti alle apparenze, vieni a vederlo con i tuoi occhi!”. E ancora l’articolo “Il silenzio degli innocenti” per denunciare il silenzio degli amministratori sul rapporto 2011 Ambiente & Sicurezza: “Il solo a parlare è il dottor Patrizio Mazza”, scrivono, che invita a leggere su “Il Ponte, edito dal siderurgico, l’intervista al vescovo Papa che tesse le lodi di Riva e consegna il Cataldus d’argento per il volontariato ad Archinà. E l’Ilva era fra i finanziatori dell’iniziativa”.

Ilva e giornalisti. Una questione che va oltre l’acciaio, spiega Massimiliano Martucci su “Martina News”. Carlo Vulpio ci ha scritto un libro, sull’Ilva. O contro l’Ilva. Cita dati, dossier spariti, morti. Fa interviste. E non è il primo. A cercare sul web, oppure semplicemente su Youtube, di filmati di denuncia ce ne sono a decine. Oppure basterebbe parlare con un operaio, uno dei tanti che non aspetta altro di rispondere alle domande che anche lui si pone. Carlo Vulpio però ha utilizzato l’Ilva per combattere Vendola e il suo messaggio ha perso di autenticità. Però i dati citati sono veri, dimostrati, confermati…L’Ilva è lì, maestosa, inquietante: il drago continua a sputare fumo e polvere e nessuno ha mai parlato, finora. Falso. Nessuno ha mai ascoltato. La stampa locale è sempre stata troppo presa a reperire inserzionisti per potersi occupare fino in fondo di quanto accadeva. E poi, perchè farlo? Per il misero stipendio da cronista alla Gazzetta o al Quotidiano? Rischiare di essere fatto fuori dalla redazione se si preparava un grafico con il numero di morti a causa di neoplasie? Non c’è giustificazione che tenga, se non l’amore per il territorio e la passione per il proprio lavoro, la coscienza che ogni riga pubblicata, sia su carta che sul web, influisce nello scorrere della quotidianità dei lettori, li informa e per questo ne modifica, anche impercettibilmente, le opinioni, i pensieri, le idee. Basti pensare che probabilmente tra i nostri lettori ce ne sarà uno che non sa che Paola Laforgia, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Puglia ha chiesto alla Procura di acquisire gli atti per capire meglio quella frase scambiata tra dirigenti: La stampa dobbiamo pagarla tutta. Un atto dovuto, da parte dell’Ordine, che non può rimanere con le mani in mano davanti ad una sciagura del genere, considerando che, la questione Ilva potrebbe portare degli sconvolgimenti in tutti gli ambiti. Non solo nelle dirigenze dei giornali, ma nei sindacati, in politica, in città. Ma la stampa collusa (parolone), meglio “embedded“, al seguito, ce n’è non solo dalle parti dei Tamburi, ma anche nei piccoli paesini di provincia. E da queste pratiche nessuno è immune, per due motivi. Il primo è che l’oggettività non esiste. Chi vi vende oggettività vi sta fregando, alla grande. E il secondo è che la stampa e l’editoria in generale sta vivendo un momento di crisi di cui nessuno vi parla, ma che ha inizio ben prima di Lehman Brothers e che non accenna a mutare, nonostante siano cambiati i mezzi di produzione del lavoro e le generazioni. Senza tediarvi oltremodo sulle difficoltà economiche di chi fa il mestiere del cronista, senza dirvi che nella professione si accede sempre meno per merito e sempre più per credito relazionale, ovvero raccomandazione, basti guardare i cognomi delle firme di Tg e articoli dei maggiori quotidiani e settimanali, il punto è che una parte di responsabilità ce l’ha il lettore che non pretende qualità dal nostro lavoro. Anzi, che spesso non premia la qualità, ma la quantità, senza rendersi conto che si alimenta in questo modo il circolo vizioso del giornalista embedded che non parla di fatti ma riferisce solo i commenti degli interessati. Un tipo di professionalità che premia subito ma contribuisce a distruggere in seguito. Adesso, però, è facile dirci quanto facciamo schifo. Basta mandare una mail, un tweet, un commento su Facebook. Aiutateci a migliorare. Naturalmente la maggior parte della responsabilità ce l’ha il livello dirigenziale, che non ha saputo trovare un modello economico alternativo a: pubblicità+vendite+abbonamenti, un modello ormai da accantonare, soprattutto perchè con il web l’informazione è gratuita e non avrebbe senso mettere un prezzo all’articolo. Rimane la pubblicità, quindi. E proprio per questo come si fa a scontentare un inserzionista che sostiene con i suoi soldi il lavoro? E’ una domanda che trova risposta solo se si accetta di assumere il punto di vista americano sulla questione: l’informazione è servizio pubblico, tanto quanto la sanità e l’educazione. Non può essere lasciata in mano a pochi gruppi di interessi privati, ma deve essere di sostenuta dal pubblico. E per pubblico intendiamo tutti coloro che leggono. Chiedetevi chi ci paga. Noi vi risponderemo per chi lavoriamo.

I CLAN DEL GIORNALISMO.

Il clan della Rodotà family tra spintarelle e salotti chic. Papà Stefano fa il moralista ma per la figlia Maria Laura chiese aiuto agli amici giornalisti, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Sia chiaro. Quello che segue è un clamoroso conflitto di interessi. Maria Laura Rodotà, direttrice di Amica, ha cominciato a fare la giornalista, come stagista, nel giornale che allora dirigevo, Panorama Mese. Suo padre Stefano è un mio amico, e fu lui a mandarmela. Sua madre Carla ebbe da me l'incarico di curare una rubrica sulla giustizia per l'Europeo». «Clamoroso» per modo di dire, un conflittino piccolo piccolo, quello confessato da Claudio Sabelli Fioretti su Rodotà padre, autore dell'Elogio del moralismo («Mi piace definirmi moralista» ha detto Rodotà). Affettuosità giornalistiche, giuridiche e parentali, riaffiorate dagli archivi nei giorni del Quirinale, con Rodotà padre candidato grillino al Colle, Rodotà figlia interpellata dal Pd come mediatrice telefonica per far desistere il padre dal Colle, e il giornalista Sabelli Fioretti (Un giorno da pecora, Radio2) che ha preso otto voti al terzo scrutinio per il Colle, due in più di Franco Marini, e che ha questo aneddoto sulla famiglia Rodotà nel cassetto delle sue famose interviste. Un'amicizia con Rodotà padre, che le raccomandò la giovane figlia quando era direttore, e con la moglie di Rodotà padre, Carla, che ebbe una rubrica in un successivo giornale diretto da Sabelli Fioretti. Che poi ebbe una rubrica, a sua volta, dal giornale, Amica, di cui Rodotà figlia, firma del Corriere, è stata direttrice: «È un orrendo incrocio di collaborazioni, di amicizie, di assunzioni» ironizza Sabelli Fioretti nell'intervista a Rodotà figlia, che risponde, con altrettanta amabile ironia molto glamour: «Non per mettere in difficoltà quel sant'uomo del garante, mio padre, ma è un dato di fatto che mio padre mi raccomandò per fare la stagista da te, e tu hai accettato la sua raccomandazione. Però tu mi hai fatto fare una vita di inferno, mi hai sfruttata per sei mesi». La raccomandazione, specie nella Casta dei giornalisti, dove ci sono i precari sfruttati senza santi in Paradiso e i figli di Rodotà che trovano lavoro: un perfetto argomento dei grillini, no? Che però si sono ritrovati in piazza a inneggiare proprio a Ro-do-tà, tutti probabili divoratori dei suoi volumi di diritto (il più citato, ovviamente solo il titolo, è Il diritto di avere diritti). La Casta dei Rodotà? Macché, solo un'élite di persone colte e per bene. Il loro salotto televisivo ideale è quello di Fabio Fazio. Che in effetti, su Twitter, ha fatto il tifo per il giurista: «Rodotà è da sempre impegnato per l'affermazione dei diritti di tutti. E i diritti sono il fondamento di ogni gesto e pensiero». Non ha fatto nessun endorsement pro Rodotà il collaboratore di Fazio, nonché prestigiosa firma della Stampa, Massimo Gramellini, ex marito della figlia di Rodotà, mentre ha firmato appelli e amache pro Rodotà Michele Serra, firma di Repubblica e autore di Che tempo che fa di Fazio. Nemico decennale della famiglia Rodotà è invece Antonio Ricci capo di Striscia la notizia. Con Rodotà figlia Ricci si è azzuffato per la storia del velinismo e «il corpo delle donne» offeso da Striscia (La Rodotà ha lavorato in settimanali con glutei e seni in copertina, gli ha rinfacciato Ricci), ma soprattutto col padre, imitato da Ballantini anni fa («so che non è stato contentissimo»). Lo scontro era nato nel 1998, quando il Garante Rodotà giudicò lesivo della privacy un fuorionda trasmesso da Striscia, dove Frattini dava dei «cialtroni» agli alleati centristi. Ricci si infuriò contro «l'ignobile censura», appoggiato da illustri direttori di giornale (da Giulio Anselmi a Ezio Mauro a Ferruccio de Bortoli). E da lì se l'è legata al dito, come ricordano da Striscia: «Rodotà è stato indicato da Grillo come uno dei pensionati d'oro della casta e ha raccomandato la figlia Maria Laura nella sua prima avventura giornalistica. Infine, venne addirittura chiamato "garante della Telecom" perché ne difese alcune decisioni a danno degli utenti. Insomma, tutti comportamenti in netto contrasto coi principi Cinque stelle».

Moralisti, ma senza elogio. Vi ricordate  de “L’Infedele” (La7) in cui la giornalista Maria Laura Rodotà afferma che grazie alle donne nude: “Ci si paga lo stipendio”?!? La scorsa primavera 2011 Striscia ha annunciato che avrebbe cancellato il previsto concorso estivo Veline, e che avrebbe rinunciato definitivamente alle Veline in trasmissione se la Rai non avesse mandato in onda il concorso “Miss Italia” e se il Gruppo L’Espresso avesse eliminato entro settembre le sue veline, ovvero il settimanale “D – la Repubblica delle Donne” e il mensile “Velvet”, dove la dignità delle donne è ridotta da sempre ad attaccapanni. Questa provocazione è stata la risposta a uno strumentale e plateale attacco durato mesi da parte di una cricchetta di giornalisti per venti secondi di balletto delle Veline in una trasmissione impegnata quotidianamente su temi importanti e seguitissima per le sue inchieste giornalistiche, per la sua totale indipendenza e per l’impegno civile. L’offensiva di Striscia contro questa vera e propria macchina del fango si è sviluppata in maniera organica dalla fine di novembre 2010 con ben 80 servizi e diverse iniziative vincenti, tra cui: Il controdocumentario “Il Corpo delle donne 2”, fatto tradurre in francese, inglese, greco, portoghese, spagnolo e tedesco, per dimostrare l’uso strumentale del corpo delle donne da parte della stampa progressista e provarne quindi la clamorosa ipocrisia. La Velina di Montecristo, cioè l’ex Velina Elena Barolo, che sotto mentite spoglie si è rivelata devastante soprattutto raccogliendo durante la manifestazione “Se non ora quando?” le reazioni sdegnate di alcune donne impegnate in politica, di attrici e conduttrici Tv di fronte a una pagina pubblicitaria de “la Repubblica” in cui il corpo femminile veniva svilito. L’introduzione a Striscia della rubrica “Svelate”, in cui le Veline accusavano settimanalmente la stampa di sfruttare il corpo delle donne per le pagine pubblicitarie. Al termine della carrellata di foto, veniva trasmesso il frammento de “L’Infedele” (La7) in cui la giornalista Maria Laura Rodotà afferma che grazie alle donne nude: “Ci si paga lo stipendio”. All’inizio della stagione di Striscia 2011-2012, visto che il concorso “Miss Italia” è stato regolarmente trasmesso e che il Gruppo L’Espresso non ha rinunciato alle sue veline, Costanza e Federica sono state riconfermate per la quarta stagione e, in segno di ringraziamento al loro “santo protettore” San Carlone De Benedetti, vengono ribattezzate “Carline” fino a marzo.

Continua il nuovo duello a distanza tra Striscia la notizia e la stampa progressista a proposito della condizione femminile in Italia. Fresco di debutto a Matrix, il documentario di Antonio Ricci "Il corpo delle donne 2" ha riacceso il dibattito cominciato da quello che può essere un prequel di riferimento della sinistra italiana – qualora questa fastidiose etichettature siano necessarie – "Il corpo delle donne" di Lorella Zanardo. Lo scopo dell’ideatore di Striscia e delle veline è dimostrare come la donna sia mercificata non solo nelle televisioni nazionali, ma anche e soprattutto dal Gruppo Repubblica – L’Espresso, alfiere della manifestazione femminile ‘Se non ora quando’ e particolarmente attento alle vicende relative al Bunga Bunga. E la lotta intrapresa da Striscia è davvero senza esclusione di colpi visto che proprio l’8 marzo, in occasione della giornata della donna, il documentario di Ricci è stato inviato persino al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Una campagna contro la mercificazione della donna iniziata come autodifesa dalle accuse di velinismo e proseguita con vigore contro i presunti moralisti che attaccano il mondo della tv e non ultimo l’esuberante presidente del Consiglio. Non proprio una negazione di quello che si vede nel piccolo schermo – donne poco parlanti e svestite, visi femminili uniformati dalla chirurgia – ma un rincaro della dose verso la carta stampata di sinistra, non evidentemente in grado di fornire un buon esempio. E tra una schioppettata e l’altra anche questo stato di cose – senza colore politico e purtroppo per le donne radicato nella società italiana – diventa normale e almeno nella pratica non condannabile ma solo un dato di fatto. Il corpo delle donne 2, com’è possibile vedere nei filmati, mostra una lunghissima sequenza di immagini di donne ‘desnude’ pescando dal sito di Repubblica e dalle pagine dei giornali del gruppo. Il risultato è un calderone in cui filmati di cattivo gusto si associano alle pubblicità di intimo e ai consigli per il trucco, ma anche a servizi fotografici di modelle che con il corpo lavorano volontariamente. Interessante sì ma un po’ confusionario forse, il documentario si conclude con una frase – ripetuta più volte in stile Striscia la notizia – pronunciata dalla giornalista Maria Laura Rodotà: Si mettevano le copertine con le donne nude, però si diceva "vendono di più", ci si paga lo stipendio. Proprio da questo presupposto – un attacco alla casta/martiri dei giornalisti – il tg satirico di Canale 5 ha lanciato alle dipendenti dei giornali Rizzoli, Condé Nast e Mondadori un provocatorio sondaggio: E’ disposta a mettere la sua faccia nella battaglia per cambiare l’utilizzo che anche il suo giornale fa del corpo della donna?. Interessante e forte iniziativa per smuovere le acque di quella che è diventata una vera e propria palude: la condizione femminile. Se poi la classe dirigente si tenesse lontana da situazioni imbarazzanti come il caso Ruby, il dibattito sulle donne potrebbe finalmente assumere la portata che merita senza le banali strumentalizzazioni di destra e sinistra.

PARLIAMO DEGLI IDOLATRI DELL’INFORMAZIONE.

L’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE.

Qui si vi presenta Don Ciotti, che agli occhi della gente, mediaticamente strabica, è il simbolo dell’antimafia militante e partigiana. Per tutti non è Leonardo Sciascia l’icona dell’antimafia, ma è un prete venuto dal nord. Si presenta con una sua intervista resa a Fabrizio Ravelli pubblicata su “La Repubblica”. Per fare corretta informazione bisogna che all’auto biografia si presenti il contraltare della biografia non autorizzata, ossia quello che su di lui dice chi ne conosce le più nascoste virtù o i più sordidi vizi. E’ importante conoscere colui il quale, di fatto, con la sua rete di associazioni e comitati che fanno capo a “Libera” e tutti vicini alla CGIL, ha il monopolio delle assegnazioni dei beni confiscati ai cosiddetti mafiosi, quindi un bene comune da condividere anche con chi non è di sinistra e non santifica i magistrati. Tra i tanti non appartenenti all’antimafia di regime troviamo il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente, che proprio sul tema dell’antimafia truccata ha scritto un libro “Mafiopoli. La mafia vien dall’alto. L’Italia delle mafie che non ti aspetti”. Libro inserito nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. Va giù pesante Antonio Margheriti “Mastino” con un suo articolo pubblicato su “Papalepapale”. Si prendono le distanze dal tono dissacrante e satirico, a volte sprezzante, ma non diffamatorio, ma si condivide il contenuto di fondo, per questo, per diritto di critica e di cronaca, è indubbio che non si può tacere quello che altri non dicono, specialmente se lo scritto è il contraltare ad una intervista che racconta una verità personale.

Don Ciotti, prete di lotta e di governo: "Ho cominciato sui treni dei disperati". Incontro di Frabrizio Ravelli con il fondatore di Libera: "Il vescovo mi disse: affido a Luigi una parrocchia, e gli do come parrocchia la strada. Don Luigi Ciotti è uno di quei preti lottatori che non mollano mai, che trovi per strada e non in sacrestia, che dà del tu a tutti (anche nel primo incontro con l'avvocato Agnelli, che non fece una piega). Il Gruppo Abele lo conoscono tutti. La sua vita, un po' meno. Si incontrano una maestra nervosa, un medico disperato, un vescovo coraggioso, e tanti altri. Conta molto che Ciotti sia un montanaro.

Montanaro veneto, no?

«Sì sono nato a Pieve di Cadore nel '45, ed emigrato in Piemonte con mio padre, mia madre e le mie sorelle per la ragione che nel dopoguerra spinse migliaia e migliaia di persone ad andare a cercare altrove la dignità di lavoro, la speranza».

E te ne sei andato a cinque anni.

«Mi ricordo l'impatto traumatico con la città di Torino, perché mio padre aveva trovato lavoro ma non aveva trovato casa. E quindi la nostra casa è stata la baracca del cantiere del Politecnico di Torino. Mio padre lavorava nell'impresa che ha costruito la parte più vecchia. Quegli anni hanno segnato la mia vita insieme con la baracca, il cantiere, le facili etichette che la gente ti mette perché tu vivi dietro uno steccato. Un pensiero sempre sbrigativo, che generalizza, e che tuttora resta una delle ferite aperte. Mio padre era muratore, poi è diventato il capocantiere, il capomastro».

A Torino da immigrato che viveva in una baracca.

«Sì, la baracca del cantiere. Dignitosa. Una delle cose che mi ricorderò sempre come un avvenimento è di quando una volta all'anno andavamo a comprare la carta da zucchero, quella blu, poi con le asticelle di legno che papà tagliava dalle assi attaccarla al soffitto. Era festa, festa in famiglia. Certo, il gabinetto era una baracca all'esterno. Però ho alcuni dei ricordi belli della mia infanzia. Il padrino della cresima che ho fatto nella parrocchia lì vicino era il gruista, Paolo il gruista. Eri un po' coccolato dagli operai. Poi venne la drammatica sera, credo fosse proprio un tornado che buttò giù i 42 metri della Mole Antonelliana, fece saltare tutti i tetti della Grandi Motori, e ci portò via gran parte della baracca. Ricordo la mia mamma che ci teneva stretti, un po' disperata. Volò via un pezzo di tetto, e il gabinetto lì vicino, che era fatto di assi».

E com'eri tu, bambino della baracca?

«L'altro ricordo è quello legato alla mia esperienza scolastica in prima elementare. Io dovevo andare a scuola in quel territorio, nella zona ricca di Torino. E avvenne un fatto che mi ha segnato molto. Questa scuola, la Michele Coppino, aveva un regolamento: tutti con il grembiule. Mia madre andò dalla maestra a dire che non era in grado di comprare il grembiule e il fiocco per me, perché aveva dovuto comprarlo alle mie sorelle, e non c'erano soldi. Quindi disse: per un mese manderò mio figlio a scuola senza il grembiule. Sai, tu puoi essere povero ma dignitoso, la dignità di andare a dire: guardi, non ce la faccio. Quindi io mi son trovato a essere diverso, dentro una scuola dove tutti avevano questo benedetto grembiule e questo fiocco interminabile, e tutti che ti chiedevano come mai tu non avevi il grembiule. Tu ti senti diverso, ti senti etichettato, ti senti giudicato. Al punto che quando qualcuno mi chiedeva dove abitavo, io non dicevo che abitavo dietro quello steccato, ma in un palazzo».

Finisce che il diverso si ribella.

«Dopo venti giorni di prima elementare, e io che già mi sentivo diverso e in difficoltà, la maestra è arrivata a scuola quel giorno nervosa, magari aveva litigato col marito. E mentre in fondo alla classe i miei compagni ridevano e scherzavano, lei non se l'è presa con loro, ma se l'è presa con me, che ero il più vulnerabile, il più visibile, mi aveva anche messo al primo banco. E io devo averle detto: ma che cosa vuoi, non c'entro niente. Lei chissà cosa ha capito, e le è scappata un'espressione che per me è stata una ferita: ma cosa vuoi tu, montanaro? Detto quasi con disprezzo. I miei compagni tutti a ridere, e quindi mi sentivo ancora più umiliato da quella affermazione. Allora io ho tirato fuori il calamaio dal banco, uno di quei vecchi banchi di scuola, e gliel'ho tirato. L'ho colpita in pieno. Espulso subito dalla scuola, dopo venti giorni. Portato a casa da un bidello. Io non l'ho mai più incontrato, ma mi ricordo quella mano che mi portava a casa, e io piangevo perché sapevo di avere sbagliato e perché sapevo che mi aspettava una punizione, e mia madre me la diede sonora. Anche se anni dopo mia madre mi disse: Luigi, io lo sapevo che tu avevi difeso la nostra dignità, però non si fa a questo modo. Il vero problema venne quando i miei compagni uscirono di scuola alle 12,30 - io ero già espulso - e avevano qualcosa di nuovo da raccontare ai genitori o alla cameriera. Lo sai mamma cosa è successo oggi a scuola? Dimmi, cicci. Un nostro compagno ha tirato il calamaio alla maestra. Ah, povera maestra. E come si chiama quel compagno? Ciotti. Guai se ti vedo con quel compagno. Sono diventato il compagno cattivo».

Montanaro e ribelle.

«Meno male che frequentavo la parrocchia. Andavo lì, eravamo un gruppetto, nella parrocchia di questo quartiere molto ricco di Torino. E' stato per me un momento importante, quando la tua vita viene segnata da quelle etichette. L'altro episodio che mi ha segnato è successivo, io dopo le medie andrò a scuola per prendere il diploma di radiotecnico, e lì avviene l'incontro con un signore su una panchina. Un disperato, che mi aveva colpito, perché io passando col tram lo vedevo sempre lì a leggere libri, sottolineando con una matita rossa e blu. Io avevo 17 anni, con gli entusiasmi e le fantasie di quell'età. Un giorno sono sceso dal tram, sono andato lì e gli ho detto: vuole che vada a prenderle un caffé? E lui niente. Torno alla carica: vuole un té? Lui zitto. Penso, sarà sordo, ma mi accorgo che non lo è. Era un medico, amato e stimato dalla gente, ed era successa una vicenda drammatica nella sua vita, che l'aveva portato su quella panchina. Era andato ubriaco in sala operatoria, e aveva provocato la morte di una donna, la moglie di un amico. Poi era uscito di testa, stava male. Però studiava ed era curioso. Dalla panchina lui vedeva dei ragazzi al bar di fronte, che entravano e uscivano - allora non c'era l'eroina - prendevano delle amfetamine, ci bevevano dei superalcolici e sballavano, facevano la bomba. Un giorno, quando alla fine nasce un rapporto fra me e lui, anche se stentato, mi dice: vedi, dovresti fare qualcosa per quei ragazzi. Lui era un uomo disperato e sofferente, morirà pochi mesi dopo. E io mi sono detto: questo incontro non sarà un incontro qualsiasi. Mi ha indicato una strada. Anche questo episodio ha lasciato un graffio nella mia vita».

E poi?

«Poi sono andato a vivere da solo. Ho fatto un gruppetto. Poi nasce il Gruppo Abele, che a Natale ha compiuto 45 anni. Io in seminario andrò dopo, avevo già il Gruppo Abele, avevo una storia dietro. Avevamo cominciato ad andare sui treni, dove i disperati senza casa dormivano: i treni arrivavano caldi. Ho pensato, caspita io incontro questa gente fuori, facciamo delle cose insieme, non li lascio soli. A volte la mattina eravamo così stanchi che il treno partiva, e ci trovavamo a Chivasso. Passavano i controllori, te la davi a gambe. Perché sai, se parli a tavolino non capisci questi mondi. E lì nasce la storia del Gruppo Abele, nasce sulla strada, poi le prime comunità, il lavoro al Ferrante Aporti, la casa di rieducazione del Buon Pastore. Le prime comunità in alternativa a quelle strutture. Una storia che è cresciuta, e che non è un Luigi Ciotti, è un noi: ho fatto questo perché l'ho fatto con altri. Io difendo questo noi, vuol dire che non è opera di navigatori solitari. E quando verrò ordinato sacerdote dal cardinale Michele Pellegrino, grande vescovo che si faceva chiamare padre, in una chiesa zeppa di mondo di strada, alla fine di quella celebrazione non volava una mosca, lui guardò tutti questi ragazzi e disse: Luigi è nato con voi, è cresciuto con voi, e io ve lo lascio. Però affido anche a lui una parrocchia, e gli do come parrocchia la strada».

Michele Pellegrino, insigne grecista, vescovo coraggioso e innovatore.

«Lui veniva da noi. Ai nostri campi in montagna. Venne una volta e c'erano tutte le ragazze del mondo della prostituzione. Lui ascoltò e poi mi disse: quando hai una sera libera vieni a cena da me, tu mi hai aperto una finestra e io voglio capire di più questo mondo. Non giudicava, non semplificava, voleva capire. Un anno dopo andrà a celebrare il Natale con le prostitute del centro storico di Torino. Uno che non si è mai tirato indietro. E sarà lui quello che prenderà posizione quando il quotidiano La Stampa farà la grande campagna per ripulire la città dalle prostitute. La redazione si spaccò in due, per quella iniziativa di legge popolare. E lui fece quell'omelia nella notte di Natale, nel duomo di Torino, partendo dal Vangelo di Giovanni, e pose delle domande sulle cause, non solo sulle donne costrette a prostituirsi ma anche sui clienti, sulla prevenzione. Tu immagina un cardinale che fa questa omelia nel duomo, e si mette contro il quotidiano della città che raccoglieva firme. Pensa che venne Gina Lollobrigida con l'aereo per mettere la firma, e Claudio Villa il reuccio della canzone italiana. E poi la tenda di Porta Nuova, era il 1973, ti faccio vedere le foto con lui: disadattati e delinquenti non si nasce ma si diventa. Quando abbiamo preso posizione contro le carceri per minorenni, perché fossero solo l'extrema ratio, e si cercassero soluzioni diverse. Il Gruppo Abele cominciò un lavoro dentro le carceri, siamo andati dentro a vivere».

Dentro le carceri?

«Sì, a Roma al ministero c'era un direttore dell'Ufficio quarto, Umberto Radaelli, che ebbe l'intuizione e ci portò dentro. E dodici di noi hanno vissuto in carcere: fu la prima esperienza grande in Italia, di condivisione e di progetto dentro il carcere dei minorenni, qui al Ferrante Aporti. Poi a Roma qualcuno si agitò, fu costruita ad arte tutta una cosa per bloccare questa sperimentazione. Noi uscimmo facendo una denuncia, e Pellegrino verrà a quella denuncia del sistema, e con accuse false fummo messi sotto inchiesta col direttore, che fu sospeso. Noi uscimmo, ma dieci anni dopo quello diventò il grande progetto Ferrante Aporti. E una volta dimostrata la falsità delle accuse il direttore Antonio Salvatore fu promosso andò al Beccaria di Milano, e ne divenne il grande direttore. Ma la sua storia cominciò qui, con quell'atto di coraggio che abbiamo condiviso, con lui e con Umberto Radaelli».

Un momento indietro. Quando già c'era il Gruppo Abele sei andato in seminario.

«Sì, sono andato in seminario qui a Rivoli, uscivo ed entravo. Il cardinale Pellegrino capì che era un servizio per i poveri, per gli ultimi, per quelle fasce dimenticate. Il Gruppo Abele fu il primo in Italia ad aprire un centro droga sulla strada, trovando un gruppo di magistrati che avevano capito che la legge era un mostro giuridico. Noi ci siamo autodenunciati per aprire il centro droga. La legge stabiliva che tu dovevi denunciare, e le strade erano due: o il carcere o l'ospedale psichiatrico. Noi abbiamo aperto in via Giuseppe Verdi a Torino, giorno e notte, dove arrivava un sacco di gente anche per essere accudita, per mangiare e per dormire. Davamo i primi supporti in una città che negava l'esistenza di quel problema, che diceva fosse poca cosa. In due anni quattromila persone arrivarono, perché non c'era nulla, quindi si andavano ad aggrappare dove trovavano dei riferimenti. La città comincia a prendere coscienza, noi cominciamo a fare la battaglia politica per avere una legge diversa, che sfocerà nello sciopero della fame del '75 in piazza Solferino, che porterà il Parlamento italiano a far la legge con cui nascono i Sert, nascono i servizi. Pellegrino sarà presente in tutti questi momenti».

Poi quando succedono cose come la spedizione punitiva contro un campo rom ti cadono le braccia.

«Sì, io l'ho detto, sono stato lì. Mi sono stancato di sentir parlare di emergenze in questo Paese. Queste non sono emergenze, sono percorsi che si sono consolidati nel tempo. E se c'è uno sgombero da fare nel nostro Paese è lo sgombero dei pregiudizi, dell'ignoranza, della non conoscenza. Questo dei rom è un popolo che ha voglia di vivere, un popolo gioioso, un popolo poetico. Che dev'essere aiutato a poter vivere delle condizioni di legalità. Questi vivono la terra di nessuno. Non si può parlare di emergenza. Io mi arrabbio quando si scopre con un misto di sorpresa e di vergogna che la miseria, la segregazione, la discriminazione, la violenza sono un problema anche nostro. Qui a Torino è avvenuta un'aggressione razzista, spiace doverlo dire, una vendetta. Ci sono belle esperienze concrete che dimostrano come l'accoglienza e le regole possono mettersi insieme. Qui a Settimo, come a Reggio Calabria per la raccolta dei rifiuti. Noi ne abbiamo assunti alcuni: vai a rubare il rame, e allora vieni qui a lavorare il rame. Si guadagnano la pagnotta in maniera onesta».

A un certo punto hai cominciato a occuparti di terroristi che stavano in galera.

«Da me venne una figura stupenda, padre David Turoldo. E mi disse: dobbiamo fare qualche cosa per dare una mano a sbrogliare questa situazione, nel rispetto della legalità. Così ho accolto diversi di loro, alcuni sono ancora qui, a una condizione: che si mettessero in gioco, che lavorassero. Che ci fosse, nel rispetto dei percorsi della giustizia, un cambiamento dentro le persone. Il paradosso, se così si può dire, è che in questo settore lavorava come volontario il procuratore della Repubblica Gian Carlo Caselli. Coordinava un gruppo, e si trovava a lavorare con quelli che aveva mandato in galera. Cose che sono successe in questo Gruppo Abele. Come il fatto che oggi accompagniamo in grande silenzio storie di testimoni di giustizia, nella lotta alla criminalità e alle mafie».

E poi nella tua vita entra la mafia.

«E' stata una serie di tappe. A Torino è nato il coordinamento delle comunità di accoglienza. Poi quando scoppia il problema Aids nasce la Lila, la lega per la lotta all'Aids, e io sono stato il primo presidente. Dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio, mi sono chiesto: noi continuiamo a dare una mano ai giovani vittime delle dipendenze, alle ragazze sfruttate dalla prostituzione, ma chi guadagna dietro a questi? E ti dici: continuiamo a stare sulla strada, a lavorare all'accoglienza, però il problema della mafia attraversa tutto il nostro Paese. E quindi nasce Libera, per mettere insieme tante esperienze, per creare un fermento sociale. Ci chiediamo: cos'è che bisogna portare via a questi signori, i mafiosi? Il denaro, i beni, era il sogno di Pio La Torre, ma lo ammazzeranno quattro mesi prima che si facesse la legge. Però quella confisca dei beni mafiosi, che non parlava ancora di uso sociale, non funzionava, così raccogliamo un milione di firme per una legge ad hoc. E oggi ci sono più di quattrocento associazioni in Italia che gestiscono questi beni e li utilizzano. Cooperative che sono partite autofinanziandosi, tirando la cinghia, andandosi a cercare i soldi da sole. Una storia meravigliosa nata dal basso, dalla gente stufa di essere mortificata. La vendita dei beni mafiosi può esistere, ma dev'essere l'eccezione, non un dogma. Così come ho sentito che ci sono delle proposte: vendiamoli tutti e diamo il ricavato allo Stato. No, perché è uno schiaffo per il mafioso vedere i giovani che arrivano sulla tua terra, quella terra con cui hai gestito il tuo potere, la tua forza. E che sia uno schiaffo si vede dagli attentati. Quest'estate ci hanno fatto fuori trentacinque ettari di grano. Hanno bruciato olivi secolari in terra di Calabria. Distrutto impianti in provincia di Latina. Tagliate le pompe dell'acqua in un altro territorio. Eppure si è andati avanti, non s'è mai fatto un passo indietro, s'è dato lavoro a tanti giovani. Oggi qualcuno vorrebbe impossessarsene, tutti i giorni leggiamo di confische di denaro che non si sa dove finisca. Secondo me quel denaro liquido deve servire per i testimoni di giustizia, e per il risarcimento alla vittime di mafia».

Che vita fai, ti tocca correre di qua e di là come una trottola?

«Abbastanza. Ma vivo qua nel gruppo, in questa ex-fabbrica. Poi c'è il gruppo che dà lavoro a seicento persone. La mia vita è qui: stare con la gente è per me la cosa più importante e fondamentale. Poi s'è creata una rete di comunità, il lavoro di strada, il drop-in, il settore culturale, la casa editrice, la rivista Narcomafie, un centro di documentazione e ricerca, la sede dell'università della strada per la formazione degli operatori. Qui c'è tutto il lavoro per le vie di fuga che facciamo per la tratta e la prostituzione, le ragazze vengono nascoste e reinserite, in luoghi protetti perché questi le cercano. Per me l'accoglienza è fondamentale, se viene meno il faccia a faccia con le persone perdi la vita. Poi c'è Libera».

Un'ultima cosa. In questo Paese si parla del volontariato, straordinario e meritevole, come di un alibi per chi non fa niente. Non ti manda in bestia?

«Lo dico da sempre, mi auguro che ci sia meno solidarietà e più giustizia. Non verrà mai meno l'attenzione agli altri, l'accoglienza, la relazione. Però noi non possiamo diventare i delegati a occuparsi dei poveri e degli ultimi. Noi continueremo a occuparcene, perché non abbiamo mai chiuso la porta in faccia a nessuno. Ma in questo Paese, oggi, il sociale è mortificato: chiudono cooperative, chiudono associazioni. E si dimentica che la solidarietà è indivisibile dalla giustizia, non si deve dare per carità quello che spetta alla gente per giustizia. Guai se diventiamo il tappabuchi. Abbiamo anche il dovere della denuncia seria e documentata, il dovere di chiedere conto alla politica. E se è lontana dalla strada, dai problemi della gente, dalla sua fatica, allora la politica è lontana dalla politica. C'è un problema di democrazia nel nostro Paese, è una democrazia pallida che non ha senso di responsabilità».

Posizione antitetica ed aspramente critica sul personaggio pubblico è quella di Antonio Margheriti “Mastino” che, nel suo articolo,  definisce Don Ciotti come il prete da marciapiede: don Ciotti. Dolce&(volta)Gabbana e antimafia delle chiacchiere. Sottotitolo: riflessioni cattoliche a partire dall’attentato di Brindisi.

L’articolo è diviso in Paragrafi:

Siamo tutti “addolorati” col culo degli altri;

Il figlioccio di Michele Pellegrino, il cardinale rosso;

Ladri benefattori e derubati ladri. Una storiella su don Ciotti;

Il Dolce&(volta)Gabbana della Chiesa: Ciotti, il cappellaio… ops… cappellano delle mode;

Il radical-ciottismo porta infine laddove dall’inizio era stabilito dovesse portare: alla religione civile;

Diffidate dei preti pieni di patacche;

La mosca sarcofaga;

Il silenzio se non ti “uccide”, ti evita molte figure di merda;

Ciotti grida “è mafia!”. Ma i giudici chiedono aiuto proprio alla mafia;

Se per l’inchiesta Jacini al Sud “tutto è Africa” per Ciotti “tutto è mafia”;

Ciotti si scusa: gli è scappata una parolaccia: ha citato Gesù;

Dio, il Grande Sconosciuto d’Occidente;

“Ho visto pezzetti di carne sparsi”. Ma l’ha colpito solo “un quaderno di educazione civica”;

Sostituire il Decalogo con la costituzione, il confessore col magistrato;

“Non importa chi è Dio, ma da che parte sta”. Il mancato leader socialista;

Quegli studenti che marciano per marinare la scuola lecitamente: senza fantasia, senza sincerità;

E’ politicamente scorretto dire “la mafia non esiste”, anche se è vero che non esiste;

La vera mafia che pretende omertà è quella del professionismo dell’antimafia delle chiacchiere;

Dio è lui, don Ciotti. E “Libera” è il suo corpo mistico, la sua chiesa.

SIAMO TUTTI “ADDOLORATI” COL CULO DEGLI ALTRI. I fatti di Brindisi, dunque. Ognuno dice la sua, stante il fatto che gli strascichi mediatici caricaturali di stragi e delitti sono una passionaccia arcitaliana: non chiedono di meglio i teledipendenti che fare tifoseria colpevolisti-innocentisti, scoprire alla fine chi è l’assassino come in un giallo della Christie. Tanto siamo tutti “addolorati” col culo degli altri. Solo che invece di sfogliare libri gialli, fanno zapping da talk-show in talk-show nella tv delle lacrime, dei sentimentalismi, del macabro, e, subito dopo, delle sganasciate di risate mignottesche con la caccia al chi ha scopato chi, chi s’è lasciato con chi, chi ha incornato chi.

Brindisi, dunque. Napolitano e Bersani dicono: “E’ terrorismo”. Don Ciotti: “E’ mafia”. Criminologo: “Forse squilibrato”. Complottisti professionisti: “Strage di Stato” (anche se tecnicamente neppure strage c’è stata). Procura: “Non sappiamo”. Tutti insieme in comune hanno una cosa: parlano senza sapere di che parlano… e come potrebbe essere diversamente dal momento che 5 minuti dopo avevano già tutti il loro teorema buono per ogni evenienza?! Ognuno cerca di trascinare cadaveri entro la propria specializzazione e contingenze immediate, se politiche tanto meglio. Non mi meraviglierò se presto interverrà Radio Radicale a dire: “Preti pedofili”. Dopo tanti castelli costruiti sul fango di lussuose teorie politico-criminologiche, si scoprirà (come si scoprirà!) che si tratta d’un semplice sfigato di mentecatto, certamente qualche disoccupato nevrotizzato dalla mancata assunzione al bidellaggio, qualche altro che ce l’ha in modo parossistico con l’agenzia delle entrate, qualcuno che ce l’ha col prospiciente tribunale che gli ha fatto perdere o non ha mai discusso la causa che gli stava a cuore; qualche “inventore” pazzo. La banalità del male! Ma certo non è di questo che voglio parlare, non si occupa di cronaca questo sito. È un pretesto per dire d’altro.

IL FIGLIOCCIO DI MICHELE PELLEGRINO, IL CARDINALE ROSSO. Don Ciotti ha fatto tutti i suoi studi da prete, se così posso chiamarli, nel lustro peggiore della storia della Chiesa: fra il ’68 e il ’72, anni di autodemolizione, autopersecuzione, autocontestazione della Chiesa. Anni pazzi. Soprattutto anni rivoluzionari: i seminari erano diventati, in quel lustro, covi di pazzissimi sediziosi dottrinali, bordelli teologici, fucina di rivoluzionari spompati, evirati e inutili persino ai rivoluzionari al caviale laici. Ininfluenti sul mondo, ma funestissimi dentro la Chiesa. Ecco, quei cinque anni maledetti, sono tutta la formazione di Ciotti: psicologicamente, retoricamente tuttora là è fermo, non s’è mai mosso; e spesso proprio questo suo modaiolo anacronismo è travisato, in un qui pro quo ridicolo, scambiandolo per avvenirismo, futurismo. In realtà, da quaranta anni, è uno spacciatore abusivo di ricette (“salvavita”, buone parimenti per la Chiesa e per la “società”) scadute. A complicare le cose per l’allora seminarista Ciottino intervenne il fatto che il suo seminario si trovava nella Torino operaista e laicista, e per giunta il suo cardinale era il vescovo più rosso della storia d’Italia: Michele Pellegrino. Tutte le fortune, poveraccio! E allora ti spieghi tante cose. Il cardinale rosso della Torino di quel tempo infame che vide nascere proprio nelle sue fabbriche i teorici e la manovalanza del terrorismo comunista, Michele Pellegrino, definì bonariamente il suo comiziante pretino, il giovane Luigi Ciotti, “prete da strada”, e aggiunse: “la strada sarà il tuo altare”. Una permuta a tutto vantaggio non si sa bene di chi, della Chiesa dubito. Se è vero come è vero che il programma ciottesco è questo: “Non si va per la strada ad insegnare ma ad apprendere”: affascinante come slogan, bellissimo, non v’è dubbio, ideologico anche; l’apice del buonismo delle “anime belle”, di quelle che s’innamorano dell’idea già bella impacchettata e infiocchettata a prescindere da quello che c’è dentro il pacco (in questo caso: il vuoto), ignorando trasognati e poeticanti la realtà, quel sano realismo che deve essere sempre il compagno di viaggio del cattolico. Sostituito in questo caso con un tanto al chilo di sociologismo vittimistico, piagnone e melodrammatico. Che suona sempre la stessa sinfonia dagli anni ’70: “Le colpe della società!”, qualsiasi cosa uno abbia fatto, “è colpa della società”. Anche se oggi ha mutato un po’ registro: qualsiasi cosa succeda, foss’anche il crollo di Wall Street, il Nostro dice che è “colpa della mafia”. Almanacco del “clima sociale mafioso” e, va da sé, “omertoso”.

Ciotti, l’uomo che “apprendeva dalla strada”, dunque, invece che insegnare la Strada, che poi sarebbe Cristo. Senza contare che Cristo non è andato per le strade del suo tempo ad “apprendere” ma a insegnare, appunto. La stessa cosa che avrebbe dovuto fare Ciotti, insegnare le cose del Maestro, che aveva infatti detto “non chiamate nessuno maestro”, neppure una strada, “perché uno solo è il Maestro”, cioè Lui; e poi aggiunse che siccome Lui “era la via, la verità, la vita…” ai suoi toccava andare “per le strade” ad annunciarlo, a “insegnare le cose del Padre mio”. Ma siccome Ciotti è capitato in epoca materialista (infatti ripropone il “Gesù rivoluzionario” tipico degli anni ’60 e dell’agnosticismo), le cose si sono ribaltate: strada e asfalto son diventati “maestri”, Cristo un semplice passante. E uno sconosciuto. Mentre invece era Lui la Strada. E la vita. La sola salvezza possibile. Non l’antropocentrismo ideologico del Nostro. Se c’è una cosa che dalla bocca di Ciotti non s’è mai sentita è questa: “E’ peccato”. Proprio non manda giù l’idea che il singolo possa avere dei peccati, delle colpe agli occhi di Dio e che possa pagare per queste; che ci sia un Giudice Supremo diverso dal pubblico ministero. È proprio l’idea di peccato individuale che gli è estranea. Il libero arbitrio gli va bene per tutto, lo applica a tutto, ne fa uso abbondante egli stesso, è tutto un arbitrio Ciotti; però nel peccato no, l’uomo-individuo non pecca secondo “libero arbitrio”: “è la società che pecca”… anzi no (ha abolito pure la parola “peccato”) commette “ingiustizie”; è la società “che è sbagliata”, in ogni caso “è colpa della società” (quella che non vota comunista, almeno). Mai si dica che l’individuo “ha sbagliato”, peggio di peggio poi “ha peccato”, “ha scelto” liberamente di peccare.

LADRI BENEFATTORI E DERUBATI LADRI. VI RACCONTO UNA STORIELLA (PARADOSSALE E SATIRICA) SU DON CIOTTI. Se ti entra un ladro in casa, ti svuota casa, ti bastona il nonno: è colpa tua, pezzo di merda!, merdaccia che bivacchi e ti abbeveri in questo cesso di società!, sei tu che hai ridotto quel “poveraccio”, quella “vittima della società” a entrarti in casa, derubarti di tutto, bastonarti il nonnetto magari pure reduce della RSI (e un po’, quindi, se lo meritava!) e andarsi poi a ubriacare con gli amici gaglioffi, ossia le “altre vittime”. Sai che c’è di nuovo? Te lo dice un don Ciotti, uno che impara dalla strada invece che insegnare la retta via a quelli che per strada, quella sbagliata, ci stanno: sei tu il ladro, sei tu il bastonatore di tuo nonno; dovresti vergognarti e chiedere scusa al ladro bastonatore di tuo nonno, e se proprio vuoi essere perfetto, purgarti del tuo “peccato sociale” (tale perché nella società ci vivi), dovresti rendere al ladro pure quello che non ti ha ancora rubato, perché il possederlo da parte tua è un “furto”, verso tutte le altre “vittime della società”. Ossia tutti gli altri ladri. Ovvero, sei tu, in fondo, che hai rubato in casa dei ladri… perdon… delle “vittime della società”. Non è manco più il tuo un “peccato sociale”. È proprio mafia! Sei un mafioso. Cornuto e mazziato, dunque. La domanda curiosa che ti fai su questa de-forma mentis clericale ferma a sociologismi radical anni ’70, è una: perché tali principi di “vittimismo” sociale validi per qualsiasi criminale (o detta alla cattolica: peccatore), non possono valere, a sentire Ciotti, anche per la criminalità organizzata, per i mafiosi, appunto? Non sono criminali e dunque “vittime” l’uno e gli altri, il ladro e il mafioso? Perché no? Del resto, secondo dottrina cattolica entrambi violano lo stesso Decalogo, entrambi altro non sono che peccatori… e in questo il cattolicesimo è molto “democratico”. Perché no, Ciottino-ino-ino? Io un sospetto lo avrei, me che sono di natura maligna (realista): la mafia ha fama di essere anticomunista; un tempo persino d’essere “democristiana”; poi – dicono gli ex sputtanatori di Falcone vivo, ossia la sinistra al caviale che da morto ne ha fatto bandiera – divenne “berlusconiana”. Ha fama, cioè, di farsela coi “potenti”. Tutte cose che il Ciotti dovrebbe avere in gran dispitto. Dovrebbe. Ma pure lui, Ciotti, a suo modo è un “potente”: la potenza oggi non è data più solo dai soldi e dalle poltrone, ma dalla visibilità mediatica e dal servilismo plaudente (e ipocrita) dell’establishment televisivo nei tuoi confronti. È o non è il Ciotti un nuovo potente, “intoccabile” da qualsiasi schermo o palco appaia, qualunque cosa dica (ché poi: dice sempre le stesse cose)? È vero o no che per diventare un “intoccabile televisivo” del genere devi essere messo a contratto dalla sinistra radical-chic che di quella fanghiglia è padrona gelosa? È o non è sempre sotto telecamera? È o non è sempre in compagnia di potenti, purché comunisti o almeno catto-comunisti? Non sono i suoi commensali abituali ormai?

IL DOLCE & (VOLTA)GABBANA DELLA CHIESA: DON CIOTTI. IL CAPPELLAIO… OPS… IL CAPPELLANO DELLE MODE.

 Fine anni ’60. Per via dell’anarchismo “antiautoritario” e “antirepressivo” del ’68, in quegli anni era di gran moda la questione “abolizione del carcere”, da sostituire (diceva l’ideologo radical-chic) con “pene alternative”. Subito Ciotti se ne appassiona e fonda gruppi alternativi al carcere minorile per il “recupero dei piccoli carcerati” che spesso avevano un curriculum criminale poco sotto quello di Riina. Erano “vittime della società”. E fu la prima moda che condivise il suo talamo: tanto di applausi mondani e dell’intellighenzia radical ne derivarono. Poi la moda “abolizionista” decadde e Ciotti passò ad altro.

Primi anni ’70. Anni di piombo. L’ultima moda erano l’operaismo (in genere aizzato dalla ricca, balorda, annoiata borghesia radical, come eccentricità d’alta società) e le più assurde “rivendicazioni sindacali”. Torino ne era il sanguinoso epicentro. Il Ciottino si beccò la passione degli “operai”. Fondò associazioni e s’incoronò presidente. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Poi passarono di moda pure questi, e lui li abbandonò al loro destino, che era diventato terrorismo, nel frattempo.

Sul finire degli anni ’70. Dopo la sbornia anarcoide e marxista immaginaria del ’68, se ne ebbero i primi frutti fra quei giovincelli generosi “contestatori”: oltre al terrorismo portarono in Italia anche la “moda” e le abitudini “culinarie” dei figli dei fiori (oppiacei) d’oltreoceano: droga a colazione, pranzo e cena. Comparvero i primi tossici italiani, ex contestatori del sistema. L’ultimo Maritain, quello considerato “pessimista”, “e perciò rimosso”, scrive Messori, all’apparire di questo fenomeno fra la satolla (di pane e ideologie arruffone) gioventù d’Occidente, disse una cosa profonda e atroce, atroce perché vera, “profetica” direbbero i progressisti se non fosse null’altro che una constatazione: “Quel buco è il sacramento di Satana. E’ la cresima, è l’effusione dello spirito di una cultura che ha preso congedo dal Cristo per volgersi all’Ingannatore”. Tutte queste cose non disse e tantomeno pensò il Ciotti. Troppo affaccendato in chiacchiere, affari e presidenze pluripremiate, per pensare all’essenziale delle cose. L’affare era grosso, guadagnava ormai le prime pagine dei giornali, si facevano inchieste di grido, faceva notizia, insomma. Ciotti non se lo fece ripetere due volte: ci si buttò a capofitto, fondò associazioni, se ne incoronò presidente. I risultati sono dubbi, e più che altro contraddittori. Ossia al fondo c’era sempre e solo l’ideologia radical di Ciotti, il vero motore del suo chiacchierificio itinerante buonista e indignato speciale di professione; mentre tutto il resto era carrozzeria, pretesto e contorno, foglia di fico sulle vergogne. Illustrazioni di copertina del suo personale Capitale all’amatriciana. Leggo da una biografia del Nostro: “In quegli stessi anni, all’accoglienza delle persone in difficoltà l’Associazione comincia ad affiancare l’impegno culturale (con un centro studi, una casa editrice e l’“Università della strada”) e, in senso lato, politico, per costruire diritti e giustizia sociale, con mobilitazioni come quella che nel 1975 porta alla prima legge italiana non repressiva sull’uso di droghe, la 685”. Paraponziponzipò! Per aiutare i drogati, la prima cosa che questa anima bella propose, fu una “legge non repressiva” sull’uso di droghe. Pannella non avrebbe saputo fare di meglio. Come dire? Ci sono troppi malati di cancro ai polmoni in giro? Bene, abbassiamo il prezzo delle sigarette. I primi risultati di questo buonismo vittimista si videro un quinquennio dopo, quando in Italia scoppiò una vera pandemia di tossicodipendenza. Naturaliter: l’intellighenzia mondana e radical-chic, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Ciotti era ormai una star. Sulla pelle di chi lo divenne non sappiamo.

Con il primo lustro degli anni ’80 venne dopo la sbornia di “comunismo” al sangue, la sbornia di consumismo alla puttanesca. Con questo dilagarono sì i vizi tipici dei nuovi sazi e indifferenti, alcol, gioco e droghe (come risultato ultimo delle prediche “libertarie” radical post-68) e ottenevano i galloni della cronaca i “drogati” e i loro “recuperatori”. Venne pure dell’altro, però: il clima euforico e orgiastico, il culto del sesso sfrenato e promiscuo, nel quale il massimo della gloria effimera, della sbornia e quindi dell’indecente capovolgimento del mondo la raggiunsero gli omosessuali, nuova rumorosa e attivissima setta pagana. Che nel cuore di Ciotti dovevano immediatamente avere il sopravvento sui drogati. Infatti, manco fece in tempo a scoppiare, facendo un boato immane su tutti i media del mondo, la peste del XX secolo, l’Aids, che subito Ciotti ne divenne un “appassionato”, un santo patrono, la ennesima “voce dei senza voce” (con tutte le categorie sociali alle quali crede di aver dato “voce”, potrebbe doppiare l’intero cast di un film colossal del cinema muto). Qui pure, come aveva dato “voce” a tutti gli altri: con le chiacchiere e i tour di chiacchiere in giro per l’Italia. A confermare i “senza voce” nel loro errore, e, se battevano la strada, a “prendere lezioni da loro invece che insegnare”, senza mai affrontare la scaturigine di quell’epidemia mortifera. Ossia il peccato, quello contronatura in questo caso, la sessuomania di massa, che proprio i modaioli maitre a penser radical-chic avevano predicato e propiziato dal ’68. I risultati ultimi ora erano sotto gli occhi di tutti: ma Ciotti vedeva solo questi, ignorando come sempre le cause prime: un gatto che si morde la coda. E al solito fondò associazioni e se ne incoronò presidente. L’intellighenzia mondana, radical-chic, la stessa responsabile ideologica di questa strage, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte.

Poi viene il 1988. E diventa abortista. Se andaste a scovare le ciottate di quegli anni ne provereste brividi: posa il suo bacio bavoso su tutte le più infami mode ideologiche del tempo, indossa tutte le più spettrali, e melense al contempo, svergognate maschere dell’epoca, e diventa femminista, abortista, contraccettivista, divorzista. Ma sempre per “solidarietà umana”, è chiaro. Come i peggiori radicali, approfittando del dramma dell’Aids, fa sciacallaggio pro contraccezione, pro aborto, pro aborto selettivo: tutto questo, al solito, per “solidarietà”, per la “bella idea” dell’ideologo, per “buonismo”. Quella solidarietà, quella bella idea, quel buonismo che senza rimorso alcuno ora gli fanno sostenere il diritto di scelta per una donna di abortire un figlio malato; “per rispetto umano” verso i sieropositivi si mette a propugnare le più “umanitarie” teorie sull’aborto selettivo, che poi erano le stesse teorizzate e applicate dai nazisti (ché però quelli almeno ad un certo punto ebbero scrupoli, e si sottrassero: don Ciotti e gli abortisti no). Così così così arriva, con l’ambiguità tipica del Maligno che mescola la verità alla menzogna, ad ammettere che “abortire i bambini che potrebbero nascere sieropositivi è una possibilità che deve essere riconosciuta a una donna”. E poi naturalmente per “eliminare alla radice” il problema, cioè uccidere bambino e sieropositività, buttare bambino e acqua sporca. Ma non si rende conto che proprio la “radice”, proprio quella è il problema, non le fronde, la sieropositività: quella “radice” che questo prete vorrebbe “recidere” è la vita umana stessa, la maestà di Dio su di essa. Ma che prete è questo? Per chi lavora? Come fa a parlare così? Ah, non è affar suo dice lui, lui riconosce che v’è “una pluralità di vedute” e per non offenderne alcuna, non intende affermare quella della Chiesa. Che poi non è manco quella di Ciotti. Lui, intanto, “riconoscendo la pluralità di vedute” se ne sta in ogni organizzazione “umanitaria” fuori e radicale e abortista dentro: per dare “speranza”, pur nella “pluralità di vedute”. “Speranza” basata su cosa non è dato sapere. Il Nostro, racconta Luigi, un testimone di allora, “fece molte interviste pro contraccettivi e surrettiziamente pro aborto. Allora io scrissi ad Avvenire protestando: il direttore in persona mi onorò con una sua risposta in cui mi disse che ero inutilmente severo…”. Guardate, il discorso, giunti a questo punto, mi fa tanto schifo che lascio a voi la facoltà di approfondirlo cliccando sui ritagli di giornale del 1988 che l’amico Guido mi ha gentilmente mandato, sapendo che stavo affrontando questo articolo. Ma se proprio volete saperne di più sulle schifose prese di posizione su questi temi del Ciotti, nel fragore degli applausi delle sue platee di post-cristiani, post-comunisti, vetero-radicali, leggete online questo resoconto agghiacciante di Vittorio Agnoletto.

E siamo già a cavallo fra anni ’80 e ’90. Cominciò a scemare sui media l’interesse per drogati e sieropositivi, ed entrambi cominciavano a subire un “calo fisiologico”, che li rendeva ormai poco numerosi e perciò ancor meno appetibili. Dai media. Don Ciotti cercava altri stimoli mondani. Che infatti vennero sicuri come la morte. Iniziarono i primi flussi migratori, sino al botto scuro della nave che rovesciò miriadi di albanesi sulle coste di Brindisi. Che scappavano dai rottami di quel comunismo “nuovo” ossia “maoista” del quale proprio quelli come Ciotti & compagni radical-chic, qualche anno prima s’erano fatti cantori e sponsor, come “non plus ultra di civiltà” (era passata di moda la loro vecchia passione per l’Urss come paradiso terrestre e modello da imitare, anche per la Chiesa). Che ve lo dico a fa’? Ciotti subito andò in prima linea col suo solito armamentario chiacchierone: tour di convegni in giro a spiegarci quanto erano belli buoni e bravi i clandestini, e più ce n’erano meglio era; i soliti numeri verdi e telefoni amici, le solite leghe, associazioni e l’auto-incoronazione napoleonica del Ciotti a loro presidente-imperatore. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Ma dopo un po’, pure questa “moda” buonista con relativa retorica dell’accoglienza a prescindere, che aveva saturato tutti i media, i pulpiti e la bocca dei Ciotti e dei Tonino Bello, cominciò a scemare. Specie quando si vide che questa stessa retorica altro non aveva prodotto che un’infornata pazzesca di criminalità organizzata che invase tutte le città e che ancora scuote e insanguina la pacifica penisola e la sicurezza dei troppo generosi italiani. Generosità che nel frattempo, giustamente, s’era trasformata in risentimento.

Sentendo puzza di bruciato, mancando ormai di stimoli e di visibilità, don Ciotti stava col dito umido per aria per captare che altra corrente modaiola spirasse. Uomo fortunato, e contraddittorio, la trovò subito bella e pronta.

Contraddittorio, sì. Se è vero che alle sue spalle ora si lasciava la moltiplicazione di pani e pesci dell’immigrazione clandestina indiscriminata e persino aizzata; ossia un dilagare di manovalanza criminale anche al servizio delle mafie. E proprio adesso il Don, proprio lui, sta per buttarsi anema e core nell’oceano mediatico della “lotta”, a forza di mitragliate di logorrea, “alle mafie e alla criminalità” organizzate. Contraddittorio… Ma tant’è! Lo dico con un sorriso: sembra che prima di imbracciare una nuova moda solidaristica, si premuri, negli anni che la precedono, di coltivarne la potenziale clientela con cui “solidarizzare”. Fateci caso: per un tot di anni, come ogni radical, predica per una presunta “buona” cosa, poi quella cosa accade davvero e puntualmente è un disastro, dunque da predicatore diventa infermiere dello stesso male che ha coltivato (in buona fede, spero). Un ideologo consumato!

E infatti siamo nel 1992. Salta in aria il giudice Falcone e poi Borsellino: ne deriva un immane e giusto clamore, non sempre sincero (e mai da dove te l’aspetti) da parte di troppi . È l’argomento di fine secolo. E qui Ciotti darà il meglio e dunque, alla fine, il peggio di sé. Fonda Libera, e inizia allora un chiacchiericcio che dura da vent’anni. Ma siccome spesso manca di pretesti per gridare “al lupo al lupo”, alla fine è diventato una specie di don Villa dell’antimafia delle chiacchiere: come don Villa vede massoneria dappertutto foss’anche in un circo equestre, alla stessa maniera il Nostro grida “è mafia è mafia”, anche dinanzi a un petardo natalizio. Purché se ne parli. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaude e molteplici volte lo premia. Ormai è un abbonato speciale.

IL RADICAL-CIOTTISMO PORTA INFINE LADDOVE DALL’INIZIO ERA STABILITO DOVESSE PORTARE: ALLA RELIGIONE CIVILE. Tuttavia nel nuovo millennio pure la mafiologia e la mafiopolite acuta da talk-show, l’antimafia delle chiacchiere, ha cominciato a scricchiolare, almeno nell’interesse dei media. Vuoi perché i successori di Falcone e Borsellino erano palesemente indegni e marchiati a sangue di ideologia radical-comunista, e la lotta alla mafia è rimasta tale solo sulla carta diventando invece nei fatti un gioco sporco al massacro di lobby togate estremiste ai danni di Berlusconi; vuoi anche perché il fenomeno mafioso, almeno in Sicilia, per così come lo abbiamo conosciuto sta mostrando un fisiologico calo di peso, un ridimensionamento e una trasformazione, essendo prossimo a diventare qualcosa d’altro, per ragioni che non sto qui a spiegare. E allora, stante tutte queste magre vacche mediatiche, Ciotti ha rimesso il dito per aria per capire dove tirava il vento giornalistico. E in men che non si dica… l’ha indovinato.

Porta laddove sin dalle origini era stabilito dovesse portare, perché era inscritto nel suo Dna, l’ideologia radical-ciottista, fatta passare per clericato “impegnato”. Alla religione civile. Al culto del dio Stato; al feticcio della Costituzione; all’estremismo legalista; alle liturgie politiche; alla sociologia come nuova teologia. All’ideologia che è alla base della fine della civiltà cristiana: quella sorta dalla Rivoluzione Francese. Con tutto il corollario trombone ma pericoloso che ne deriva: mondialismo, ecologismo, monetarismo, pacifismo da paci-finti, umanitarismo ateo e peloso, filantropismo rapace ed esibizionista. È scritto ne Il Nome della Rosa: “Il Diavolo sa dove va, e andando va sempre da dove è venuto”. Perciò le mode del mondo, ossia le ideologie, anche clericali, sono la Sua strada e il Suo arco trionfale. E il trionfo di chi ne viene a patti. Quei “falsi trionfi” dettati dalle mode, che sono lo spirito del mondo e lo spirito del mondo è Lucifero, e che hanno la forza di far perdere la testa ai saggi ai potenti ai preti. “Trionfi” contro i quali Gesù stesso ci metteva in guardia. Lo stesso Gesù che ripetutamente nei vangeli ci ammonisce a guardarci dalla “gloria del mondo”, perché è un inganno. Soprattutto perché non è questo il destino del cristiano; poiché, ha predetto il Signore, il suo destino vero sarà sempre, fino alla fine dei tempi, la persecuzione e il martirio, l’infamia e non gli onori del mondo. “Hanno perseguitato me: perseguiteranno anche voi. Ma io vi dico: beati voi quando a causa mia diranno di voi, mentendo, ogni sorta di male”. Da questo si può discernere fra il vero e il finto cristiano, fra il vero servo di Dio e il servo del Mondo, fra l’agnello e il lupo travestito da agnello.

DIFFIDATE DEI PRETI PIENI DI PATACCHE . Io l’ho per regola. Diffido sempre di quei (rari, va detto) cattolici che sono ospiti “d’onore” ovunque, travolti da applausi, specie da parte di chi più è lontano dalla Chiesa, dai suoi nemici più spietati talora; diffido dei preti invitati a tutte le trasmissioni e a tutti i convegni, premiati con ogni patacca e in ogni circostanza pacchiana. Lì qualcuno sta barando: la gloria del mondo ha per compagna la menzogna. E poi la “tristezza”, dice l’Ecclesiaste. Mi fido dei martiri e dei perseguitati, dei preti umiliati a causa della loro fede, di coloro che parlando delle cose sante suscitano scalpore, sdegno, rifiuto, oltraggio dal mondo. Non dei pavoni che fanno sempre la ruota nel giardino zoologico dei preti da baraccone per la gioia del documentarista e per arruffianarsi la sazia apostasia di questo mondo che prima si è fatto nemico e poi estraneo a Dio. Lo spirito del mondo, le mode ideologiche, sono un’attrazione irresistibile per Ciotti. Questo intendo dire quando ribatto al suo definirsi “prete di strada” con un “prete da marciapiede”. Badate, non sono così cretino da mendicare in giro querele che a questo punto sarei io stesso a consigliare alla parte “offesa”: non intendo dire che don Ciotti è una puttana o una persona di costumi equivoci (e anzi, da quel punto di vista lì – spero di non sbagliarmi – credo sia stato sempre pulito). Niente di tutto questo. Intendo dire proprio che sta sul marciapiede ad aspettare che passino le carrozze con a bordo le nuove mode ideologiche: andrà con quella che offre di più. “La gloria del mondo ha per compagna la tristezza”, dice l’Ecclesiaste, dunque. Al momento, però, il Nostro ci pare abbastanza su di giri. Lo è da 40 anni.

LA MOSCA SARCOFAGA . Stavo vedendo uno dei brutti film horror anni ’70 di Dario Argento. In uno, un tale, una specie di sbirro, alleva delle grosse mosche sarcofaghe, o meglio: la mosca sarcophaga carnaria. Ora, chi come me s’intende di medicina legale e fenomeni cadaverici, sa che questa strana mosca è affamata di cadaveri, ne è la principale cliente e devastatrice: ci depone sopra le sue larve. Ma soprattutto ha un fiuto infallibile nello scovarli. Ecco perché lo strano sbirro le allevava: liberandole e inseguendole, riusciva a ritrovare nei boschi i corpi degli assassinati. M’è saltato in mente don Ciotti: pure lui appena succede qualche plateale e misterioso fatto di sangue, da Roma in giù, non si sa come questo qui mezz’ora dopo è già sul posto. Naturalmente, subito dopo i fotografi. Più fulmineo delle mosche sarcofaghe. E, in tutto questo macello di Brindisi, non poteva che piombare come mosca sarcofaga sul luogo della tragedia, don Ciotti, con la sua “Carovana” carioca, di post-cattolici, post-comunisti, post-femministi, post-brigatisti, post-figli dei fiori, post-conciliaristi, post-preti, post-italiani, post-tutto. Il carro variopinto degli hobbisti dell’antimafia delle chiacchiere, con i loro slogan a misura unica, unisex e buoni per tutte le stagioni: per protestare indistintamente e con la stessa disinvoltura, a suon di chiacchiere, contro la mafia immaginaria, contro i terroristi, la guerra, la pena di morte, il carcere, il capitalismo, Berlusconi, il fascismo, l’antisemitismo, per la “pace” (da quando non c’è più l’Urss a invadere paesi inermi, almeno… da quei paci-finti che sono), l’acqua, il vino, la pagnotta, la patonza… per tutti, meno pene ai carcerati, più pene ai mafiosi, più pene e basta, più marce e meno messe (e forse, visto il senso della liturgia del Nostro, è pure meglio), più “strada” e meno altare. Ma la cosa che fa più ridere di questi professionisti del carnevale permanente e di questo post-prete, don Ciotti e i suoi fratelli e fratelle, è una in particolare. Che sinistramente schiamazzanti come avvoltoi piombano in tempo reale laddove sentono odor di carne bruciata, non importa se umana o da kebab o da arrosto di fiera della porchetta. È ininfluente. Loro imperterriti ci piombano addosso, la impugnano con gli artigli, la sollevano in aria sventolandola e qualunque cosa sia, foss’anche un gatto morto, a prescindere, si mettono isterici a gracchiare “è mafia!”; e via con gli stessi slogan, le stesse sentenze apocalittiche, le stesse soluzioni ideologiche, le stesse frasi ad effetto (lassativo), gli stessi cartelli appesi al collo usati per qualsiasi altro evento negli anni passati, magari contro Berlusconi: “E adesso uccideteci tutti!”, “La mafia uccide, il silenzio anche”, per tacer dei barattolini Manzoni-style con su scritto “La mafia è merda”.

IL SILENZIO SE NON TI “UCCIDE”, TI EVITA MOLTE FIGURE DI MERDA. Tuttavia, molte volte, il silenzio se non ti “uccide” ti evita molte figure di… merda, giacché siamo in tema. E non è un caso che appena il Ciotti ha saputo che c’era “carne sul fuoco” a Brindisi, non si sa come, in pochi minuti ci è atterrato su, gridando ai quattro venti: “Mafia! È mafia! La mafia uccide! Il silenzio pure! Venite allo scoperto mafiosi!”. Ancora si dovevano spegnere le fiamme, che lui già denunciava a tutti i microfoni “l’omertà” della popolazione brindisina che, appena sveglia e stordita com’era per il botto, non riusciva a capire manco cosa fosse successo. Anche quando già da subito a tutti era evidente che la Sacra Corona non c’entrava una mazza perché non erano cose che rientrassero nel suo stile quelle, né aveva la forza politica ed economica per osare tanto, il Nostro non ha desistito: non avendo da trent’anni altri slogan, passando solo questo il convento, essendo solo quello il suo repertorio circense, lo usa indiscriminatamente ad ogni replica e in ogni situazione: “Mafia purchessia!”. Però siccome il senso del ridicolo, infine, lo ha pure lui, ha annacquato dopo 24 ore il “sola Mafia” (variante del “Sola Scriptura” di Lutero) con “e anche la massoneria”. A quel punto non restava che ridere! Se non altro perché la prassi politicamente corretta e la filantropia pelosa di Ciotti, nel quale ogni residuo di Dio cristiano scompare nel solo umano, anzi, nel solo sociale, disciolto nell’acido della “società civile” insomma, altro non è che la quintessenza, la realizzazione pratica manu sacerdotali delle più viete teorie della più classica massoneria.

CIOTTI GRIDA “E’ MAFIA!”. MA I GIUDICI CHIEDONO AIUTO PROPRIO ALLA MAFIA. La situazione diventa ancora più paradossale se si pensa che la stessa (non sai se più stravagante o imprudente) magistratura pugliese, attraverso il procuratore Cataldo Motta, che – almeno dicono – essere il “massimo esperto di questo fenomeno criminale” (la Sacra Corona Unita), cioè  ha (papale papale) chiesto alla mafietta pugliese di “collaborare” in qualche modo con la giustizia per scovare gli attentatori. Non basta. Mentre il prete con la “carovana” ancora sbraita a destra e manca, “mafia… omertà… c’è la mafia e pure un poco di massoneria”, mentre avviene tutta questa pretesca ridicola sceneggiata, avviene pure un’altra cosa. Vi leggo dal giornale: “Raffaele Brandi, ritenuto uno dei capi più rappresentativi della frangia brindisina della Sacra Corona Unita, ha avvicinato il caposcorta del pm Milto de Nozza e gli ha comunicato non solo che la SCU non c’entra ma che si muove in parallelo alla giustizia. ‘Dite al procuratore che se li prendiamo noi gli attentatori, ce li mangiamo vivi, è questo il messaggio’”. E mò? Che dire? Mentre don Ciotti straparla di “mafie”, pure il capo della Sacra Corona Unita “cerca il colpevole”. E lo va a dire direttamente al capo della scorta del procuratore di Brindisi De Nozza. Oltre a notare che dinanzi ai teledrammi (che non sono mai il dramma vero) tutte le istituzioni dello Stato italiano, mafie comprese, sono unite; oltre a capire che tutti hanno capito che il colpevole deve essere un pazzo isolato che non conta una mazza; oltre tutto questo, viene da domandare una cosa, al caro Milto de Nozza in primis: a Brindisi esiste ancora il reato di associazione mafiosa? Siamo o non siamo qui in presenza di un capomafia reo-confesso? Non è per arrestare questi qui che gli paghiamo la scorta? E allora: perché è a piede libero il capomafia di Brindisi? Dunque, dinanzi a tutto questo, a questi professionisti, a questi acchiappafantasmi dell’antimafia delle chiacchiere, che precipitano ogni tragedia in farsa e in carnevale… ma come fai a no ride’?

SE PER L’INCHIESTA JACINI AL SUD “TUTTO È AFRICA” PER CIOTTI “TUTTO È MAFIA”. Ma don Ciotti non ride. Insiste. Celebra la messa – se così posso chiamarla – a Mesagne, presente il povero padre della vittima. Dal pulpito urla, sbraiti, tempeste di slogan antimafia; sussultano ammutoliti i tabernacoli e le incolpevoli sacre statue, al gracchiare del prete “da strada”, del cappellano degli acchiappafantasmi contro l’immaginaria “omertà” (a indagini in corso) del popolo brindisino. Anche ora che è chiaro non c’entri nulla la mafia, che anzi è oltremodo, oltre la legalità persino, collaborazionista; ora che tutti cominciano a vedere chiaro che di qualche psicopatico deve essersi trattato.

Mentre accade tutto questo ti chiedi cosa centri questo post-prete con Mesagne? E quell’omelia, se così posso chiamarla, col solito bollito misto riscaldato, che c’entra con Mesagne, Brindisi, Melissa? “La malattia da sconfiggere è l’indifferenza” dice il presidente di Libera, nella piazza di Mesagne dove ha fatto tappa la Carovana contro tutte le mafie, Berlusconi compreso, è chiaro. “La forza sta in chi si rialza, e noi ci rialzeremo”. “Il problema della criminalità, della mafia, della massoneria è un problema di tutti ed ecco perché la Carovana continuerà a ‘sgrattare’ le coscienze”. Poi ha invitato tutti a “non avere paura”: “Bisogna evitare che tutto diventi terrore, paura, è necessario reagire”. Mafia? Massoneria? Omertà? Ma cosa crede questo acchiappafantasmi che Mesagne sia El Salvador? Giacché è un torinese, come tutti i torinesi dabbene per quanto “da strada”, crede che da Roma in giù, tutto quello che si incontra, fosse anche un vigile urbano, tutto è mafia. Da vero epigono dell’altro nordico, Stefano Jacini, quello dell’Inchiesta meridionale famigerata e insolente, che andando al Sud era convinto di trovarci l’Africa, e tanto ne era convinto che standoci altro non vedeva che “Africa” davvero, e dopo esserci stato, tornando a Torino, scrisse nell’Inchiesta parlamentare: “E’ Africa! Anzi, no: l’Africa al confronto è fior di civiltà”. Sono invasati da strisciante razzismo tutto torinese e dai più vieti e spocchiosi pregiudizi sebbene spacciati per compassionevoli, e non se ne rendono conto. “Omertà” poi… Se c’è mai luogo dove si fa più chiasso intorno a ‘sta roba è proprio la Puglia! Basti pensare ai casi di Avetrana, dei fratellini di Gravina, della piccola Maria Geusa, solo per citare i più noti. “Omertà”, “indifferenza”, dice: se i brindisini davvero sapessero chi è il colpevole dell’attentato, lo andrebbero a prelevare e lo squarterebbero vivo. Persino la mafietta locale ha garantito farebbe lo stesso. Tutto ‘sto solito casino parolaio, tutte queste carovanate, per una tragedia provocata da nient’altro (a quanto pare) che un matto! Se vai da don Ciotti e gli dici, “sai chi è stato? Uno psicopatico”. Sapete cosa dirà don Ciotti, appena individua una telecamera? “E’ il clima mafioso che genera questa follia!”. È un po’ come i medici ciarlatani degli anni ’30, che per qualsiasi malattia, dalla febbre alla varicella al cancro maligno, prescrivevano sempre e solo una cura: una purghetta di olio di ricino. Così come pure, qualsiasi fossero i sintomi psicosomatici, la malattia che diagnosticavano aveva un solo nome: “esaurimento nervoso”. Così Don Ciotti, qualsiasi cosa accada, ovunque accada, in qualsiasi forma accada, anche un incidente stradale, ha una sola diagnosi: “mafia!”; e una sola cura: “antimafia!”… della chiacchiere. Che permettono di fare pubblicità in ogni caso alla sua florida e ricca creatura: l’associazione Libera.

CIOTTI SI SCUSA: GLI È SCAPPATA UNA PAROLACCIA: HA CITATO GESÙ.  Mi raccontava un mio amico veneto, Federico: “E’ venuto a parlare da noi don Ciotti. Sono andato a sentirlo per curiosità. Ha fatto un sacco di chiacchiere, ha detto un sacco di parole a getto continuo e a ruota libera, cose che poteva dire qualsiasi laico, laicista persino. Ad un certo punto si è bloccato, è sembrato vacillare, incerto e ha detto timidamente: ‘Vi chiedo scusa se mi permetto di citare per una volta una frase di Gesù’”. Lui, prete, si è scusato per essersi fatto scappare una frase di Gesù invece che di Gaetano Salvemini! Sì è scusato per l’eventuale equivoco e confusione che avrebbe potuto ingenerare nella folla di comunisti trinariciuti, arcobalenisti, pacifinti, cattolici adult(erat)i e post-cattolici adult(erin)i, dicendo qualcosa di cristiano, invece che, magari, di sociologia fatta in canonica; se ha citato Cristo, invece che, chessò, il Dalai Lama. La verità è che è un uomo e un prete nato vecchio, è il seminarista sessantottino di sempre, progressista ma non aggiornato: è fermo ad arrugginiti luoghi comuni e sulfurei schematismi ideologici degli anni ’70. Quella poltiglia di “buoni sentimenti” e “sensibilità sociali”, umori viscerali e sociologismi, classisti e al contempo umanitaristi, che, proprio in quegli anni, nella Chiesa si trasmutarono in apostasia, con i preti contestatori; nella politica, in proiettili, con i terroristi: i primi volevano “liberare” la Chiesa e la “coscienza individuale”, i secondi il “popolo” e la “coscienza operaia”. Gli uni demolirono mezza Chiesa, gli altri mezzo Stato. Nel sangue molto spesso. E infatti vedi che in alcune nazioni, i primi si unirono ai secondi: ne nacquero i preti guerriglieri. E chiamarono tutto questo “teologia della liberazione”. Oggi abbiamo Libera. Dice l’amico Francesco da Bari: “Mafioso e omertoso. Per Libera questi termini equivalgono ad eretico e scomunicato, laddove invece legalitario ha preso il posto di santo, e sull’ambone invece che le Scritture trovi il codice penale. Il Padre eterno non è il Giudice, è un semplice presidente di corte d’Assise”. Sì, è vero. Come è vero che nella sua logorrea incontenibile, in questi 40 anni, c’è una sola parola che Ciotti non ha mai usato: “Cristo”. Abbiamo visto: gli è scappata una sola volta e se n’è scusato. Ma è un’altra la parola che non gli è mai “scappata”, che proprio non riesce a pronunciare, gli si blocca in gola: “peccato”! E tutto quello che ne deriva: pentimento, penitenza, conversione. E pur di non pronunciarla mai ha sostituito la parola “peccato” con quella di “reato”, “peccatori” con “mafiosi”, “colpa” con “imputato”, “confessore” con “magistrato”, “penitenza” con “pena”, “comandamenti” con “codice penale”, “legge divina” con “costituzione”, “convertito” con “pentito o collaboratore di giustizia”. Per lui, fermo com’è agli schemi arrugginiti degli anni ’70, non esiste il peccato individuale, ma solo la “colpa sociale”. Per questo, per non dover usare la parola “peccato” si è messo a marciare, ha sostituito le messe con le marce, la Chiesa con Libera, la coscienza cristiana con la coscienza civile (ridotta a farsa pure questa). Ed è così che gli sfugge la vera madre di tutti gli eccessi, l’origine d’ogni male: il Peccato. Che egli ha abolito motu proprio. Come mi scrive un mio amico, Vincenzo, riferendosi sardonico al Nostro: “Ma che confessione… non c’è bisogno: basta una chiacchierata mentre sei in un corteo!”.

DIO, IL GRANDE SCONOSCIUTO D’OCCIDENTE. Proprio adesso ascoltavo le parole del Papa, su Cristo che in Occidente è diventato il “Grande Sconosciuto”. E ho pensato al Ciotti che chiede scusa perché gli è scappato di citare Gesù. Dice Benedetto XVI: “Tanti battezzati hanno smarrito identità e appartenenza: non conoscono i contenuti essenziali della fede (…). E mentre molti guardano dubbiosi alle verità insegnate dalla Chiesa, altri riducono il Regno di Dio ad alcuni grandi valori, che hanno certamente a che vedere con il Vangelo, ma che non riguardano ancora il nucleo centrale della fede cristiana. (…) Purtroppo, è proprio Dio a restare escluso dall’orizzonte di tante persone; e quando non incontra indifferenza, chiusura o rifiuto, il discorso su Dio lo si vuole comunque relegato nell’ambito soggettivo, ridotto a un fatto intimo e privato, marginalizzato dalla coscienza pubblica. Passa da questo abbandono, da questa mancata apertura al Trascendente, il cuore della crisi che ferisce l’Europa, che è crisi spirituale e morale: l’uomo pretende di avere un’identità compiuta semplicemente in se stesso. In questo contesto, come possiamo corrispondere alla responsabilità che ci è stata affidata dal Signore? (…) In un tempo nel quale Dio è diventato per molti il grande Sconosciuto e Gesù semplicemente un grande personaggio del passato, non ci sarà rilancio dell’azione missionaria senza il rinnovamento della qualità della nostra fede e della nostra preghiera; non saremo in grado di offrire risposte adeguate senza una nuova accoglienza del dono della Grazia; non sapremo conquistare gli uomini al Vangelo se non tornando noi stessi per primi a una profonda esperienza di Dio”.

“HO VISTO PEZZETTI DI CARNE SPARSI”. MA LO HA COLPITO SOLO “UN QUADERNO DI EDUCAZIONE CIVICA”. Due giorni dopo don Ciotti è a Cecina: essendo prete “da strada” batte tutti i marciapiedi della nazione. A parlare di se stesso. Dei suoi “secondo me”. Di fantasmi. Di carovane e associazioni acchiappafantasmi. Di Costituzione. Di tutto, meno che della sola cosa della quale dovrebbe parlare: di Cristo, del peccato, della conversione. Ho spesso informatori volontari, che mi si fanno vivi con notizie fresche che non ho richiesto ma che poi mi tornano sempre utili. Un amico di Cecina, infatti – dove il Ciotti è andato dopo Mesagne a “predicare” le meraviglie del costituzionalismo – mi manda un essenziale ed espressionista quadretto della situazione. Lascio a lui la parola. “Se ti interessa ieri il Ciotti ha raccontato un aneddoto sulla sua visita a Mesagne: ‘Ho chiesto alla scientifica di sorpassare l’area che avevano recintato, mi hanno fatto passare, sono rimasto impressionato dai pezzi di carne sparsi su tutto il piazzale, ma mi sono soffermato su un particolare: un quaderno scritto da una delle ragazze coinvolte nell’attentato, ho sfogliato le pagine ho trovato che avevano fatto una lezione sulla nostra Costituzione (aria commossa), sì, avete capito bene, avevano fatto lezione di educazione civica a scuola. È proprio da qui che il nostro paese deve ripartire‘. Standing ovation.” Chi ha ucciso, non ha violato l’apposito comandamento divino, no: ha violato la Costituzione; chi uccide non è un peccatore, ma un reo; non la dottrina, ma l’educazione civica. L’uomo si salva da sé attraverso le sue leggi e i suoi organigrammi, le sole cose che possano giudicare e salvare gli uomini. Dio è un attore impotente, e anzi, è giudicabile persino attraverso quelle stesse leggi. Se quelle leggi sono contro Dio, non sono sbagliate le leggi, è “sbagliato” o è stato “malinterpretato” Dio stesso. Cosa sta strisciando nelle vene di Ciotti, oltre al peccato di orgoglio, l’archetipo dei peccati, il primordiale, il primo che fu commesso e che ha lambito persino l’arcangelo Lucifero, precipitandolo dai cieli, e Adamo ed Eva, precipitandoli dal paradiso terrestre? Che cos’è a strisciare sibilante nelle sue vene se non il riemergere di antiche eresie, soprattutto gnostiche e pelagiane?

SOSTITUIRE IL DECALOGO CON LA COSTITUZIONE, IL CONFESSORE COL MAGISTRATO. Come avrete notato da voi stessi, non sembra particolarmente interessato ai “pezzetti di carne”: sono un dettaglio secondario ai suoi fini ideologici. Ciò che gli interessa è la Costituzione, il culto di quella carta giuridica che è il totem, il sancta sanctorum, il vitello d’oro dei nuovi pagani di oggi, i laicisti con corollario di post-preti “adulti” sino al punto di essere ormai anche post-cristiani. E qui viene fuori anche tutto il cinismo inconsapevole dell’ideologo. Erano un’occasione quei “pezzetti di carne” per riflettere e far riflettere sul Decalogo, sul peccato, la morte, gli assoluti. Ma no, gl’interessava impugnare il feticcio dell’ideologo, la “Carta”, la nuova Rivelazione: la Costituzione. Ossia una banalissima lezione scolastica di educazione civica in un istituto professionale, fatta alla meno peggio nell’ora prevista, immaginiamo nella totale catalessi degli studenti col pensiero rivolto alla campanella. Ma siccome il Nostro è un ideologo fermo agli anni ’70, non gli interessa la banale e demitizzante realtà dei fatti, il tran-tran quotidiano, le cose viste nella loro reale giusta misura, no: gli interessa la “bella idea”. E così nella sua testa dal capello sempre unto, quel quaderno di svogliati appunti della lezione di educazione civica, diventa una gran cosa, immagina studenti dall’acuto senso civico, novizi ardenti del neo-costituzionalismo pendenti dalle labbra dell’insegnante precario che gli annuncia le verità rivelate e le secrete cose che da quella Carta secernono. Immagina un popolo di giovani eroi, che, Costituzione alla mano, commossi e coraggiosi marciano invitti per tutta la nazione incontro alla Città del Sole, la nuova Gerusalemme della religione civile.

NON IMPORTA CHI È DIO, MA DA CHE PARTE STA”. IL MANCATO LEADER SOCIALISTA. L’amico di Cecina, infatti, aggiunge: “Riassunto della serata: Culto della Costituzione, dello Stato, della democrazia, della legalità (tranne che per la Bossi-Fini) e soprattutto della Scuola (statale, ca va sans dire); dice cose condivisibili (no alla mafia, all’illegalità) e mi parla male di Eminenze e sottolinea che senza lavoro non si è liberi. Parla con un certo carisma e ha ottime doti di recitazione e buona oratoria: sarebbe stato un ottimo leader del Partito Socialista Italiano. Slogan della serata: Non importa sapere chi è Dio ma da che parte sta, cantato da un menestrello napoletano con voce solista di un sacerdote toscano di Libera”. Non importa chi è Dio, ma da che parte sta. Naturalmente, non avendo più nessun connotato, essendo Uno Nessuno Centomila, amorfo e sfigurato come l’hanno fatto diventare questi qui, non può che stare da qualunque parte lo si voglia portare, “trascinato da tutte le parti secondo ogni nuovo vento di dottrina”, dirà il cardinale Ratzinger alle esequie di Wojtyla. Per questo don Ciotti lo sente sempre dalla sua. Il suo dio minore non è altri che il “secondo me”, la cui rivelazione è contenuta nella carta costituzionale, nuovo libro sacro. Egli ne è il cappellano. Non è un caso che l’ultima volta che l’ho incontrato, è stato davanti alla bara del sommo pontefice della religione fatta di carta… costituzionale: Oscar Luigi Scalfaro.

QUEGLI STUDENTI CHE MARCIANO PER MARINARE LA SCUOLA LECITAMENTE: SENZA FANTASIA, SENZA SINCERITÀ.  Vedo il tg e leggo l’Ansa a una settimana dalla tragedia di Brindisi. E noto con fastidio alcune cose. La prima è la canonicissima ennesima “marcia” all’italiana: la liturgia madre, la messa cantata del politicamente corretto di piazza, negli ultimi tempi. Che naturalmente si tiene nella città che ha dato i natali a me e a Melissa: Mesagne. Chi marcia sono gli studenti. E la prima cosa che ti domandi è se non sia (siamo realisti!) più un marinare la scuola e una scampagnata, per giunta illuminata da flash e telecamere. Basta fare un calcolo: una marcia che non significava niente e che pestava acqua nel mortaio, la si tiene un mattino di un giorno scolastico. Eppure potevano farla in un giorno festivo, o meglio ancora nel pomeriggio, quando le scuole son chiuse. E invece no. Quella marcia in cui dei brufoloni berciavano e blateravano di “mafia” senza una logica, un fondamento, e anzi con già pesanti indizi che la discolpavano del tutto, quella marcia lì priva di senso, un senso lo avrebbe avuto se il marciare avesse comportato anche un sacrificio: la mattina andare a scuola, il pomeriggio invece che andare in giro a cazzeggiare, impegnarlo per marciare. Così non è stato: dunque era, a mio avviso – ché studente brufolone pure io son stato, e ben le conosco queste babbiate – , un marinare la scuola. Con l’aggravante dell’ipocrisia. E del cinismo. Ma poi. Bastava guardare i loro slogan per capire che non erano sinceri: la solita roba usata da vent’anni in tutte le salse: “Io non ho paura”, “E adesso uccideteci tutti”, “La mafia è una montagna di merda”, “La mafia uccide, il silenzio pure” e bla bla bla. Slogan senza fantasia, solita frittata parolaia, solita minestra a merenda, pranzo e cena. Da qui t’accorgi che non erano sinceri: dalla mancanza di fantasia (oltre che dall’aver marinato la scuola). E’ quando le cose ti coinvolgono, le senti veramente, che la fantasia si scatena. Ma in questa stanca parata delle vanità? Questo usare a casaccio il solito repertorio ciottesco senza fare uno sforzo d’immaginazione, metterci del proprio, adattarlo al contesto, indica che non sapevano di che stessero parlando, che avvertivano l’artificiosità della situazione. Perché non erano sinceri. Sapevano bene che era tempesta in bicchier d’acqua, simulazione a uso e consumo dei media. Che di altro non si trattava che sindrome da marcite cronica, nella variante mediterranea di chiacchierite da antimafiosite mitomane.

È POLITICAMENTE SCORRETTO DIRE “LA MAFIA NON ESISTE”, ANCHE SE È VERO CHE NON ESISTE. Naturalmente, in questa marcia, c’era pure tutto il resto dell’armamentario giornalistico standard per i casi falsi o presunti di “mafia”. C’era pure in questa occasione un’altra volta don Ciotti a sbraitare nella Mesagne che mi ha visto nascere “contro la mafia”, “l’omertà”, “la gente che ha paura della mafia” e “tace”… e tace soprattutto perché di tutte quelle porcherie sopra elencate non ce n’è manco l’ombra, e quindi che deve dire? C’era pure l’immancabile altro classico della tv italiana, il solito giornalista imbecille e, direbbe Sgarbi, “raccomandato e rottinculo”, che accosta col microfono un povero vecchio che ignaro prende il sole davanti al BarSport a domandagli d’improvviso: “La mafia a Mesagne esiste?”. E quello cade dalle nuvole, ma avvertendo subliminalmente, dinanzi alla tirannia nazista del microfono sciacallo, che è politicamente scorretto dire che la mafia non c’è anche se è vero che non c’è, nell’imbarazzo tace, tanto se dicesse la verità, che la mafia a Mesagne non c’è non solo non sarebbe creduto, ma passerebbe pure per “omertoso”, forse “colluso” e certamente un poco “fascista”. E dalla sera alla mattina un contadino ottantenne che ha lavorato onestamente la terra per una vita, si troverebbe “uomo d’onore”; e infatti, l’altro vecchio, più spigliato, dice giustamente “io non l’ho mai vista”. Risultato: giornalista Rai grida ai quattro venti: “Aveva ragione don Ciotti, ecco la città mafiosa, la gente ha paura della mafia, l’omertà dilaga”. Retorica da antimafia delle chiacchiere. E che, chiacchierando chiacchierando, calunnia. Mesagne non è la prima vittima dei professionisti dell’antimafia delle chiacchiere: le sue vittime, più numerose ormai di quelle della mafia stessa, contano nomi sempre più eccellenti: da Andreotti a Berlusconi. Tutti, naturalmente, assolti con formula piena da tribunali non certo di destra. Mentre quelli che davvero torturarono in vita giudici come Falcone, per poi farselo “amico” appena saltato in aria, quelli non li processa nessuno, anzi, sono fra i massimi notabili dell’antimafia della chiacchiere: parlo per esempio di Leoluca Orlando, o anche del giornale la Repubblica. E infatti scopri che chi ha tentato di aiutare Falcone, con leggi durissime che la mafia l’hanno messa in crisi sino a spingerla a sparargli addosso e a passare allo stragismo terrorista pur di farsele abolire; che chi ha tentato di salvare per amicizia Falcone dall’orda infame, calunniatrice e vigliacca dei suoi colleghi magistrati rossi siciliani, sino a prospettarne la candidatura al Senato per la DC, per strapparlo a quell’ambiente avvelenato di futuri professionisti dell’antimafia delle chiacchiere e dei comizi, furono proprio due personaggi a loro volta perseguitati dai persecutori di Falcone: Andreotti e Calogero Mannino. Guardacaso gli stessi che poi i professionisti dell’antimafia dichiararono “mafiosi” e trascinarono, naturalmente senza una prova, in tribunale. Per sfregio, per odio ideologico. Guardacaso i soli (insieme a Martelli) su cui Falcone potè contare.

LA VERA MAFIA CHE PRETENDE OMERTÀ È QUELLA DEL PROFESSIONISMO DELL’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE. Da oggi, quindi, per bolla pontificia di don Ciotti, sommo pontefice dell’antimafia delle chiacchiere, l’attentato di Brindisi è opera della mafia, e la Mesagne che diede i natali al Mastino, ossia a me, è città di mafia. E non lo sapevo. Per riflesso condizionato, quindi, occhio e croce dovrei essere mafioso pure io. Potrebbe essere. Ma voi ve lo immaginate un Mastino “omertoso”?! E proprio perché non sono né mafioso né omertoso, la dico tutta: l’unica mafia, l’unico atteggiamento mafioso e che pretende omertà qualunque cosa dica o faccia, è proprio il professionismo dell’antimafia delle chiacchiere, con tutte le su “Carovane” donciottesche. Dulcis in fundo, leggo l’Ansa del 29 maggio, attenti alle sottolineature: Marcia della legalità a Mesagne (Brindisi), il paese di Melissa Bassi. ”Melissa – ha detto Don Luigi Ciotti, presidente di Libera – è viva, anche se fisicamente non c’é più. Stamani al cimitero ho visto che qualcuno ha attaccato due pezzi di carta. C’era scritto: Melissa vive dentro di noi. Noi ci sentiamo un po’ tutti Melissa”. No, non è vero: i morti sono morti, morti per davvero per il mondo, fisicamente e prestissimo anche “dentro” tutti: solo i genitori si porteranno dentro un dolore che appartiene solitario allo scrigno del loro cuore. Tutto il resto sono chiacchiere. Se non sei una grande mistica, una grande leader, una maitre a penser, che ha segnato la storia, le cose stanno così: sei morta davvero. Mi fa schifo l’ipocrisia che dice le cose “che si devono dire” in determinate circostanze anche se non sono vere: l’ipocrisia sui morti, la menzogna invece della preghiera sparsa sui loro resti, sono sacrilegio e blasfemia.

DIO È LUI, DON CIOTTI. E “LIBERA” NE È IL SUO CORPO MISTICO, LA SUA CHIESA. Come vedete, Ciotti è capace di dire di tutto, persino cose tra il pagano e lo gnostico, purché abbastanza sentimentalistico e formato La Vita in Diretta; tutto, compreso che è “viva” e magari “dentro di noi”, anziché ammettere l’unica cosa che, da prete, avrebbe dovuto dire, la più semplice: “E’ morta, è risorta in Cristo, finalmente ha visto il Suo Santo Volto”. Non lo dice perché è fuori moda, perché in fondo non ci crede, perché se ne vergogna, perché in definitiva gli sembra irrilevante ai suoi fini. Soprattutto perché gli interessa il consenso dell’intellighenzia, delle platee, i galloni della cronaca. Gli applausi del mondo. E per ottenerli è necessaria l’apostasia silenziosa: che non consiste più (solo) nella negazione plateale delle verità cattoliche, quanto piuttosto nella rimozione discreta di Dio. Da ogni contesto. Dalla propria lingua, anzitutto. Perché Dio è lui, don Ciotti. E Libera ne è il suo corpo mistico, la sua chiesa. Costruita sulle sabbie mobili delle mode del mondo. Dello spirito del mondo, cioè. Che poi, come detto, è sempre Lucifero. Tra donchisciottismo e donciottismo non vedo la differenza: Don Chisciotte combatte contro tutti i mulini a vento, scambiati per mostri dalle braccia rotanti; don Ciotti pure, credendo però di combattere la mafia. Ho qui davanti a me Il Mercante di Venezia di Shakespeare. Lo sfoglio a caso e leggo, pensando immediatamente a Ciotti e a quelli come lui: “Le forme esteriori possono ingannare, sempre l’ornamento inganna il mondo. Nei processi, quale causa disonesta e corrotta che, sostenuta da una voce graziosa, non maschera il volto del male? Nella religione, quale colpa tanto maledetta che una fronte grave non la benedica e approvi usando un testo sacro, con una bella frase celando l’ignominia? Non c’è vizio elementare che non assuma qualche segno di virtù sulle sue parti esterne. Quanti codardi hanno cuori ingannevoli come gradini di sabbia, eppure portano sul mento la barba di Marte corrucciato e di Ercole, loro che, frugati dentro, hanno fegati bianchi come il latte. L’ornamento così, non è che l’insidiosa riva d’un mare periglioso, il velo sfarzoso che nasconde una bellezza barbarica: in una parola, la falsa verità che i tempi astuti indossano per intrappolare i più saggi”. Non a caso ho sotto gli occhi una frase rivelatrice di don Ciotti, a proposito della causa di beatificazione di Tonino Bello, suo omologo pugliese, con un curriculum simile: “Occorrono due miracoli per la beatificazione di don Tonino? Ci sono! Il primo è stato l’elezione di Vendola a governatore della Puglia; il secondo, la sua rielezione”. Non c’è niente da aggiungere.

Dopo il prete cosiddetto antimafia parliamo dello scrittore cosiddetto antimafia.

PARLIAMO DI ROBERTO SAVIANO.

Prima di Gomorra. Saviano: "La rivoluzione va fatta col fucile", l'audio di quando aveva 20 anni. Lotta armata, terrorismo e anni di piombo. L'intervento dell'autore di Gomorra a un convegno quando era studente universitario, scrive “Libero Quotidiano”. Pensare che oggi è il volto rassicurante della sinistra progressista: ieri era un filoterrorista marxista senza pietà che declamava: "La rivoluzione si fa con il fucile". Parliamo di Roberto Saviano, l'autore di Gomorra e coprotagonista con Fabio Fazio di Che tempo che fa. Ora siamo abituati a vederlo denunciare le ingiustizie nel mondo con prediche grondanti moralità, ma i suoi giovanili interventi in pubblico grondavano altro. Nel 2000, quando era uno studente universitario di 21 anni, Saviano prese la parola in un convegno dal titolo "Terrorismo ieri, oggi, domani?" presso la Federico II di Napoli. A un anno dall'omicidio (firmato Brigate Rosse) del giuslavorista Massimo D'Antona, il virgulto Saviano si lancia in una disanima degli anni di piombo il cui leit motiv è "la rivoluzione comunista in Italia è mancata per una questione di metodo". "I terroristi - diceva - hanno sbagliato semplicemente forma: la rivoluzione non si fa, si dirige. Loro hanno cercato come piccola cellula di individui isolati di generare un processo rivoluzionario non ancora maturo e quindi anche castrandolo". Dal momento che il convegno, cui partecipavano magistrati e cattedratici, poneva anche interrogativi sul futuro, Saviano concludeva il suo intervento con un auspicio: "Vorrei soltanto fosse focalizzato il problema sul capitalismo e sulle sue crisi che generano e genereranno rivoluzioni e di nuovo colpi di fucile nel futuro immediato”. Possiamo riascoltare il Saviano-pensiero grazie a Radio Radicale. Secondo il giovane Roberto, i terroristi “Erano parte sensibile di un grande movimento operaio che si sentiva tradito dal Pci, che aveva tradito con la sua scelta socialdemocratica le aspettative rivoluzionarie“. Gli anni di piombo sono dovuti quindi, stando al piccolo Saviano, a un naturale riequilibrarsi della lotta proletaria: "E così – prosegue – i terroristi prendono le armi per cercare in qualche modo portare avanti questo progetto che era stato tradito dal Pci”. Non era spaventato dalla scia di sangue e morte rimasta sull'asfalto: quella dei terroristi era autodifesa di classe. "Un magistrato, un poliziotto, un politico - argomentava - non fanno qualcosa di più lecito se parliamo di etica di quello che fa un rivoluzionario sparando. Certo non ho vissuto quegli anni ma non sto certo dalla parte della magistratura - incredibile a sentirsi oggi - non sto certo dalla parte di chi in qualche modo rivendica le radici democratiche di chi ha sconfitto il terrorismo". E' un combattente vero l'autore di Gomorra negli anni pre-Gomorra. “La rivoluzione - arringava la platea di studenti della sua età - è la modificazione dell'attuale stato di cose presenti diceva Marx, quindi si fa col fucile. La polizia era armata, chi faceva resistenza doveva armarsi”. L'origine dei problemi, in ogni caso, non era la repressione degli organi dello Stato: “Il problema – tagliava corto Saviano – rimane il capitalismo”.

E Saviano? Perde la causa su Peppino Impastato: Saviano non ci sta e attacca. In un articolo del 2008 l'autore di Gomorra parla di una telefonata avuta con la mamma Impastato. Persichetti, all'epoca cronista di Liberazione, la mise in dubbio e per questo fu querelato, scrive “Today”. Saviano ha perso la causa per diffamazione contro Paolo Persichetti ma lo scontro tra i due (e non solo) sembra destinato a continuare fuori dalle aule di tribunale.

Questi i fatti: in un articolo del 2008, poi pubblicato all'interno del libro del “La bellezza e l’inferno” edito da Mondadori nel 2009, l'autore di Gomorra parla di una telefonata tra lui e la mamma di Peppino Impastato, Felicia, morta nel 2004. Dichiara di averla sentita "un pomeriggio, in pieno agosto". A chiamare fu lei. "Roberto? Sono la signora Impastato" scriveva Saviano.

“Non dobbiamo dirci niente - continua l'articolo di Saviano - dico solo due cose una da madre ed una da donna. Quella da madre è stai attento, quella da donna è stai attento e continua.”

Persichetti, all'epoca cronista di Liberazione, scrisse un articolo in cui mise in dubbio che questa telefonata fosse mai avvenuta e per questo fu querelato. Sempre nello stesso pezzo era contenuto l'altro motivo di tensione tra i due. "Si parlava del libro di Saviano "La parola contro la camorra" causa di rottura anche con il Centro Peppino Impastato. Nel libro si attribuisce un ruolo importante nella riapertura del caso Impastato al film "I cento passi" di Marco Tullio Giordana senza il quale la vicenda sarebbe rimasta quasi sconosciuta. Il Centro Impastato non veniva neppure menzionato. Saviano dimostrava di non avere buone fonti e dava mostra di non essere informato correttamente cosa che scrissi nel mio pezzo", spiega Persichelli.

La sentenza del tribunale, e in particolare del Gip Barbara Callari, del gennaio 2013 che ha dato torto all'autore di Gomorra avrebbe dovuto chiudere la faccenda ma così non è stato.

Secondo il Gip Persichetti avrebbe smentito Saviano facendo uso di dichiarazioni fatte da fonti attendibili: riprese un'intervista di Umberto Santino, presidente del Centro siciliano di documentazione "G. Impastato" che a sua volta aveva ripreso Felicia Vitale, nuora di Felicia Bartolotta da sposata Impastato, e moglie di Giovanni Impastato, fratello di Peppino.

Ecco la sua testimonianza scritta inviata in aula (vedi allegato): "La madre di Peppino non aveva il telefono e faceva le telefonate tramite me. Non mi risulta che abbia telefonato a Roberto Saviano. Faccio notare che mia suocera è morta nel 2004 e il libro Gomorra è uscito nel 2006". Oltre alla sua in aula sono arrivate le testimonianze di Giovanni Impastato e di Umberto Santino. Nella sentenza del gip NON si dice che la telefonata non c'è mai stata ma semplicemente si dice che Persichetti ha esercitato correttamente il diritto di cronaca.

La sentenza è di qualche mese fa ma circola solo ora. "A gennaio quando ci fu la sentenza del gip solo Facci scrisse un articolo su Libero", racconta Persichetti. "Il 9 maggio poi, in occasione dell'anniversario dell'assassinio di Peppino la vicenda poi venne ripresa dal blog Baruda e piano piano cominciò a fare il giro del web", continua il giornalista.

E sulla sua pagina Facebook Roberto Saviano ha deciso di dire la sua scrivendo un lunghissimo post. Eccone una parte: "Di solito mi scrollo il fango di dosso, pensando che sia il prezzo da pagare, ma su questo non ce la faccio. Su questo ho deciso di non tacere, per il rispetto profondo che provo per la memoria di Felicia Impastato e per il disprezzo profondo per chi, odiando me, lorda chiunque trovi sulla sua strada".

Le celebrità dovrebbero andarci pianissimo con le querele, perché rischiano l’accusa di lesa maestà anche quando hanno ragione, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano” riportato da "Insorgenze". Figurarsi se la ragione non ce l’hanno, come nel caso che andiamo a raccontare e che riguarda un querelante di nome Roberto Saviano. Figurarsi, poi, se il giornalista querelato (e assolto) si chiama Paolo Persichetti, ex brigatista latitante in Francia, condannato a 22 anni per l’omicidio del generale Licio Giorgieri e ora in regime di semi-libertà: un personaggio, insomma, che per ottenere ragione da un giudice potrebbe faticare più di altri. Ma vediamo il caso. Persichetti, su Liberazione, nel 2010 scrisse due articoli. Il primo riguardava i contenuti del libro di Saviano «La parola contro la camorra» e, soprattutto, la disputa che ne seguì con il Centro Peppino Impastato. La polemica in effetti ci fu: il Centro rivendicava un ruolo nella riapertura del caso di Giuseppe Impastato – ucciso dalla mafia a Cinisi nel 1978 – dopo che Saviano, nel libro, aveva attribuito ogni merito al film «I cento passi» di Marco Tullio Giordana senza il quale, parole sue, la vicenda sarebbe rimasta «una storia minore confinata nelle pieghe degli anni Settanta». Il Centro non veniva neppure menzionato. Tornando all’articolo: Persichetti oltretutto forniva la ricostruzione di una presunta telefonata tra Saviano e Felicia Impastato (madre di Giuseppe) e giungeva a sostenere che la conversazione non era mai esistita: e citava, come fonti, due parenti della madre (che nel frattempo è morta, e non può confermare o smentire) ma anche Umberto Santino, direttore del Centro Impastato: «Ma lui, Saviano, non ha avuto il coraggio di querelarlo», dice ora Persichetti, «perché ha preferito rivolgere i suoi strali contro il direttore di Liberazione e me, ritenendomi forse l’anello più debole e delegittimato della catena».

Forse lo status di un brigatista condannato per assassinio, in effetti, potrebbe sembrare inferiore a quello di un mostro sacro dell’antimafia. Sta di fatto che la cosa non impedì a Persichetti, nei suoi articoli, di metterla giù molto dura: «Quando Saviano non abbevera i suoi testi alle fonti investigative», scriveva, «dà mostra di evidenti limiti informativi». La critica si faceva più stringente nel concentrarsi sul «ruolo di amministratore della memoria dell’antimafia che a Saviano è stato attribuito da potenti gruppi editoriali», qualcosa che l’ha trasformato in «un brand, un marchio, una sorta di macchina mediatica». Il contrario dell’antimafia «sociale» promossa da Giuseppe Impastato, la cui vera storia «venne a lungo tenuta nascosta anche grazie al depistaggio dei carabinieri e della magistratura. Un passato che Saviano non può raccontare». Diciamo che non le mandò a dire, Persichetti. Non bastasse, nel secondo articolo se la prese con l’impostazione autocelebrativa dello scrittore nel programma «Vieni via con me» andato in onda sui Raitre nel novembre 2010. La sua prestazione veniva definita «imbarazzante» a margine di una «memoria selettiva e arrangiata», di «pochezza culturale», di «un monologo melenso di trenta minuti, senza contraddittorio, privo di senso del ritmo… accompagnato solo da uno smisurato e pretenzioso egocentrismo». Poi l’accusa forse più sanguinosa: l’essere Saviano «un derivato speculare dell’era berlusconiana». Da qui la querela. L’avvocato di Saviano la depositava il 12 gennaio 2011 ai danni di Persichetti e del suo direttore Dino Greco, personaggi che non avrebbero fatto altro che «vomitare il proprio odio ossessivo e ossessionato». La querela è lunghissima (30 pagine) e non risparmia il tentativo di buttare nel mucchio anche la condanna a 22 anni che Persichetti sta scontando: le parole del giornalista contro Saviano, infatti, sono definite come «una condanna inappellabile, come inappellabile fu la condanna a morte che dovette subire il generale Giorgieri». Parole come proiettili, come si dice. Dulcis in fundo, le critiche di Persichetti parevano al legale «senza alcuna finalità di pubblico interesse».

Il 6 luglio 2012, tuttavia, il pm Francesco Minìsci non era dello stesso avviso: e chiedeva l’archiviazione. La notizia di reato a suo dire era «infondata» proprio perché ricorreva l’interesse pubblico del caso. E forse proprio per ravvivarlo, il caso, ecco che Saviano il 15 gennaio scorso compariva in aula a Roma: la presenza fisica, in questi casi, riveste sempre una giusta considerazione. La sua testimonianza ha un che di grave: «Intendo qui difendere la memoria della signora Impastato che ebbe con me una conversazione telefonica (negata nell’articolo querelato)… nella quale mi esprimeva la sua solidarietà… Negare l’esistenza della telefonata non costituisce una critica, ma un attacco teso a minare il mio stesso impegno sociale e civile». Lunedì scorso, tuttavia, il gip Barbara Càllari si è presa il rischio di minare l’impegno sociale e civile di Saviano: ed ha archiviato. Il giudice ha fatto propri i rilievi mossi nella richiesta di archiviazione anche a proposito della presunta telefonata: «Nessun intento diffamatorio può essere attribuito a Persichetti, che si è limitato a fornire una diversa ricostruzione della vicenda, basata su fonti attendibili… Ricorre senza dubbio l’obiettivo interesse pubblico delle questioni sollevate… Malgrado il tono dei due articoli sia a tratti aspro… le valutazioni dell’autore attengono a circostanze precise e ben definite».

E una querela è andata. Resta in ballo, per ora, la causa civile che Roberto Saviano ha promosso ai danni di Marta Herling, nipote di Benedetto Croce e segretario dell’Istituto Italiano di Studi storici: lo scrittore ha chiesto un risarcimento di quasi cinque milioni di euro (a lei e a Marco Demarco, direttore del Corriere del Mezzogiorno) per via delle contestazioni ricevute dopo la sua ricostruzione del salvataggio di Benedetto Croce durante il terremoto di Casamicciola. Questione, siamo certi, al centro dei vostri pensieri.

Santo o bugiardo? Si chiede “La Rosa Nera”. Roberto Saviano e le sue verità nascoste. Nell’incertezza di questi tempi moderni, solo uno stolto può credere che la verità stia da una parte sola. Come ci insegnano i saggi, quasi sempre la verità sta nel mezzo, in quel limbo di sottintesi e non detti, omissioni e bugie, che molto spesso sono più veritiere delle verità proclamate a gran voce.

La lezione l’abbiamo imparata un po’ tutti, soprattutto quando si tratta di personaggi pubblici. Sappiamo tutti che esiste l’altra faccia della medaglia, quella oscura, quella che non viene mostrata ai più e che molto spesso nasconde inganni, accoglie compromessi, cela menzogne che si fa di tutto per non far venire alla luce. Questa lezione sembrano averla imparata i più, ma non i fans di Roberto Saviano.

Da quando, nel 2006, Gomorra ha superato i 10 mln di copie vendute nel mondo (diventando poi anche un film di successo, girato proprio nei luoghi di camorra), di cui 2 mln 250mila solo in Italia, generando (verità o leggenda?) un’invasione mai vista prima di turisti per le strade napoletane (quelle del centro storico, sì, ma di Secondigliano; nei quartieri residenziali, sì: a Scampia), dove con libro di Saviano alla mano lo sprovveduto, impavido turista tipo “avventuroso” se ne andava in giro domandando alla gente dove potesse trovare il Terzo Mondo o visitare le fabbriche parallele, dare un’occhiata ai Visitors o fare un tour a Parco Verde, ebbene, da allora, da quando con il suo collage sul Sistema camorristico, che altro non è – e lo dicono gli esperti – una raccolta di articoli di giornale e informazioni varie reperite per vie assolutamente risapute e accessibili a chicchessia, Roberto Saviano ha fatto il botto, Roberto Saviano è diventato l’uomo simbolo della lotta alla criminalità organizzata nel mondo: l’uomo minacciato dalla camorra che paga il suo gesto di denuncia vivendo sotto scorta ma che nonostante la paura non smette di denunciare “la verità” ovunque ci sia qualcuno disposto ad ascoltare, sui giornali, nelle trasmissioni tv, in pubblici comizi nelle piazze e nelle librerie, l’indiscusso, indiscutibile paladino della giustizia e della legalità, modello di coraggio e di virtù, orgoglio partenopeo, acclamato come Maradona e rispettato come san Gennaro, un uomo senza precedenti che, da solo, ha avuto il coraggio di aprire la porta e gettare la luce sugli oscuri traffici della camorra che infetta la nostra splendida terra, oscura il sole, contagia tutti noi.

Encomiabile, certo. Che Roberto Saviano sia stato il primo a realizzare un’opera omnia sulla camorra, svelandone funzionamento e meccanismi, non è certo in discussione. Che quest’atto sia stato malvisto da alcuni esponenti della criminalità organizzata, in particolare dal clan dei casalesi, che pare l’abbia condannato a morte, salvo poi dedicarsi nell’immediato ad affari di maggiore urgenza che non fare fuori uno scrittore, come per esempio, negli anni, realizzare altre 2 o 3 esecuzioni (Domenico Noviello, per esempio, imprenditore di Baia Verde ribellatosi al pizzo e giustiziato, nonostante fosse sotto protezione, il 20 maggio del 2008; oppure Raffaele Granata, padre del sindaco di Calvizzano ucciso sempre nel 2008 e sempre perché si rifiutava di pagare il pizzo; e ancora Angelo Vassallo, il sindaco attivista e ambientalista di Pollica ucciso nel 2010, probabilmente – ma le indagini sono ancora in corso – proprio perché dava fastidio alla camorra), tutte successive alla data in cui Roberto Saviano è stato posto sotto scorta (2006).

Allo stesso modo è vero che con il suo primo libro, che è subito diventato un best-seller, Roberto Saviano ha attirato l’attenzione internazionale, dei media e della gente, su Napoli e sulla Campania, raccontandole come un far west preda della criminalità organizzata, una terra di nessuno in cui la Camorra spadroneggia a piacimento, in cui il pericolo si cela dietro l’angolo (perché è facile rimanere uccisi per sbaglio in un agguato o in un regolamento di conti), provocando di fatto con l’uscita del suo libro, in una sfortunata concomitanza con uno dei picchi dell’emergenza rifiuti, l’arresto quasi totale della macchina turistica ed economica dell’intera regione.

Tuttavia, ciò su cui mi preme puntare l’attenzione non è tanto la credibilità di quest’uomo in quanto scrittore, giornalista e denunciatore, quanto piuttosto sul modo in cui la sua presunta credibilità venga recepita e acriticamente accettata dal popolo di seguaci della legalità, che nella sua scelta di raccontare (che cosa, poi?) ha colto l’impeto sacro di un uomo illuminato dalla ragione da osannare come un profeta. Portato alla ribalta dai media, come dicevamo Roberto Saviano è diventato un guru della cultura della legalità; ma, come si rifletteva all’inizio di questo articolo, è impossibile, o comunque altamente improbabile ritenere che la verità assoluta risieda univocamente da una parte sola. Esiste sempre l’altra faccia della medaglia, e, nel caso di Roberto Saviano, l’altra faccia della medaglia è quella delle bugie. Deliberate o commesse per distrazione o imprecisione, negli anni il paladino della giustizia, imperituro oppositore dell’illegalità Roberto Saviano, ne ha collezionate un bel po’.

La discussione in merito si riapre in seguito alla recentissima notizia che ha visto Roberto Saviano perdere la causa per diffamazione intentata nei confronti di Paolo Persichetti, giornalista ed ex br, per alcuni articoli pubblicati su Liberazione. La querela risale al gennaio 2011: gli articoli firmati da Persichetti e incriminati erano 2, e contenevano alcuni fatti di “rilevanza giornalistica”. Noi ci soffermeremo su uno solo di questi fatti: ne “La bellezza e l’Inferno”, suo secondo libro, Roberto Saviano racconta di una telefonata avvenuta tra lui e la madre di Peppino Impastato, attivista e giornalista siciliano ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978, in cui la donna l’avrebbe spinto a continuare la sua azione di denuncia della criminalità organizzata, invitandolo alla prudenza.

“Non dobbiamo dirci niente, dico solo due cose, una da madre e una da donna. Quella da madre è stai attento, quella da donna è stai attento e continua”.

In uno dei suoi articoli su Liberazione, per i quali è stato poi querelato da Saviano, Paolo Persichetti afferma, documentandosi alla fonte (ovvero stando alle dichiarazioni della nuora di Felicia Impastato), che questa telefonata non è mai avvenuta. Felicia Impastato infatti non aveva il telefono. Le telefonate le faceva a casa del figlio Giovanni, fratello di Peppino, passando per la moglie di lui. Alla quale non risulta che la signora Impastato abbia mai chiamato Roberto Saviano. Anche perché Felicia è morta nel 2004, ovvero due anni prima che l’uscita di Gomorra rendesse celebre il suo autore.

Ora, questo recente avvenimento di cronaca ha portato alla ribalta altre notizie simili, risalenti agli anni passati, che riguardano quella che sembra essere una certa tendenza dell’autore di Gomorra, se non alla spudorata menzogna, quantomeno alla “rivisitazione” della verità, o (non si sa se meglio o peggio, trattandosi di un giornalista) alla mancata verifica delle fonti. Cosa che un personaggio del suo calibro non potrebbe proprio permettersi.

Un altro episodio risale al 2010, quando nel corso del suo monologo “Il terremoto a L’Aquila” andato in onda durante la quarta puntata della trasmissione “Vieni via con me” e successivamente raccolto insieme agli altri in un volume dal titolo omonimo uscito nel 2011, Roberto Saviano racconta l’esperienza di Benedetto Croce sotto le macerie, anch’egli vittima e unico superstite della sua famiglia del terremoto che colpì l’isola di Ischia nell’estate del 1883. Travisando completamente il racconto del filosofo, contenuto nelle “Memorie della mia vita”, (1902), come si legge nella lettera di protesta inviata da Marta Herling, la nipote di Benedetto Croce.

Ancora, sempre nel 2010, ospite al Festival dell’Economia di Trento, Roberto Saviano sollevò un vespaio affermando che la ‘ndrangheta calabrese aveva tentato, per fortuna senza successo, la scalata al settore della distribuzione delle mele altoatesine, tramite l’appoggio di alcuni mediatori trentini.

“C’è stata un’inchiesta, che potete studiare, partita dalla Calabria dove hanno tentato attraverso mediatori trentini di poter entrare, le organizzazioni aspromontine, nella gestione e distribuzione della mela trentina”.

Così aveva tuonato Roberto Saviano dal palco del Festival dell’Economia di Trento. Peccato che quest’inchiesta non ci sia mai stata. La smentita clamorosa di Saviano è arrivata poco dopo, quando la lettera aperta di Luigi Ortolina, rappresentante del Gruppo degli agenti ortofrutticoli della Provincia di Trento in seno all’Associazione mediatori e agenti di affari della Provincia di Trento aderente Fimaa, che chiedeva giustamente al giornalista di fare i nomi dei corrotti in seno alle organizzazioni di imprenditori locali affinché fossero espulsi, ha sollevato un’indagine (stavolta sì, che c’è stata davvero) da parte dei carabinieri del Ros di Trento, che in merito alle presunte infiltrazioni aspromontine in Trentino Alto Adige hanno voluto sentire il giornalista. In quell’occasione il Saviano nazionale se ne è uscito dicendo che le sue affermazioni, che pure parevano tanto sicure e certe e verificate, erano solo un “monito” che voleva avere un “effetto di sensibilizzazione”, insomma: non una verità confermata dai fatti, ma un’affermazione (una supposizione, potremmo dire) da prendere con le pinze. E chissà quante altre sono le affermazioni che, uscite da quella bocca da grande oratore, ammaliatore di serpenti e di folle, vanno prese con la dovuta circospezione.

Lo sappiamo noi, lo sanno quanti sfortunatamente si sono trovati, loro malgrado, implicati o travolti nella centrifuga di menzogne (lui, che soleva citare la macchina del fango!) attivata da Roberto Saviano; lo sanno quanti della sua univocità di santo hanno sempre dubitato. Chi proprio non lo sa, o non vuole saperlo, sono i suoi sfegatati seguaci. Quelli che, nonostante tutto, continuano a venerare il mito di Roberto Saviano, con la vergognosa complicità degli organi di informazione di massa che continuano a tacere queste informazioni.

Tutto ciò, per tornare alla riflessione iniziale, insegna proprio questo: che non esiste una sola verità. Così come non esiste un solo modo di fare “camorra”. La verità non sta mai da una parte sola, anzi. Quasi sempre la verità sta nel mezzo, in quel limbo di sottintesi e non detti, omissioni e bugie, sull’altra faccia della medaglia, quella oscura, che non viene mostrata ai più, e che molto spesso nasconde inganni, accoglie compromessi, cela menzogne che tutti fingono di non vedere. Il perché è semplice: chi ha provato a smascherarle è stato messo a tacere, in tutti i modi possibili, da chi non vuole che un’altra versione della verità venga a galla. La verità l’hanno uccisa sulla bocca di chi ha provato a dirla. A noi comuni mortali, per onorare quanti per amore della verità hanno pagato davvero (e con la vita), spetta almeno il compito di non smettere mai di dubitare.

Daniele Sepe scrive un rap anti Sviano: “E’ più intoccabile del Papa”. Il musicista, «comunista» napoletano, accusa lo scrittore di non accettare il contraddittorio e di essere manovrato, scrive Antonio Fiore su “Il Corriere della Sera”. Roberto Saviano bugiardo e imbroglione, costruttore del proprio mito, showman interessato più al diritto d’autore che al dovere della verità: se il libro di Dal Lago era una critica all’«eroe di carta», Cronache di Napoli di Daniele Sepe è un attacco senza precedenti all’autore di Gomorra.

Sepe, ma perché ce l’ha tanto con Saviano?

«Non c’è nessuna polemica verso di lui».

Alla faccia: nel suo testo gliene dice di tutti i colori.

«Contesto innanzitutto il fatto che Saviano sia un esperto di mafia».

Nega che a partire dal libro di Saviano sia cambiata nell’opinione pubblica non solo nazionale la percezione del fenomeno camorra?

«Ricordo una bellissima copertina di Der Spiegel negli anni Settanta, quella con la pistola sul piatto di spaghetti. Sin da allora la mafia faceva notizia».

Già, ma quella fu una trovata giornalistica, di costume.

«E anche Gomorra è un libro di costume. Con dentro tante imprecisioni e inesattezze che nessuno si è però preso la briga di verificare».

La storia del container pieno di cinesi morti, va bene. Però Saviano le risponderebbe che...

«Risponderebbe che il suo è un romanzo. D’accordo, anche Sciascia scriveva (straordinari) romanzi sulla mafia. Ma non mi risulta che fosse considerato un esperto di mafia».

Saviano, però, ha portato alla luce gli intrighi di un clan pericolosissimo eppure mediaticamente sottovalutato come quello dei casalesi. Almeno questo, glielo possiamo riconoscere?

«Perché, oltre a quello dei conosciutissimi boss ha fatto mai qualche nome? Se lui sa che i casalesi fanno affari con i grandi della politica e della finanza, perché non ci dice chi sono? Oppure i casalesi il business li fanno con i cinesi morti? Dice di sapere tutto dello scandalo-rifiuti in Campania. Ma quali aziende ha denunciato? Nessuna. Per attaccare un politico - vedi il caso Cosentino - aspetta che i giudici tirino fuori le carte. Saviano è solo una bella cortina fumogena. Se devo informarmi su che cosa è la camorra, scelgo sempre il buon vecchio Napoli fine Novecento. Politici, camorristi, imprenditori di Francesco Barbagallo».

Da un uomo di sinistra, anzi di sinistra radicale, non si sente politicamente scorretto?

«Da comunista dico: quando da decenni la politica è fatta da governi presieduti dagli editori di Saviano, e quando i provvedimenti finanziari si accaniscono sulla povera gente, sicuramente chi ci guadagna è la camorra. La povera gente qualcosa deve pur mangiare, e la legalità è una cosa bellissima, ma non si mangia. Il problema criminale, in Campania e in tutto il Sud, va analizzato tendendo conto che qui sono 20 anni che le aziende chiudono per favorirne altre al Nord, e che la malavita attecchisce per mancanza di alternative, non perché qui vivono scimmie malvage dedite al cannibalismo».

Intanto Saviano, per aver lanciato la sua sfida ai clan, è costretto a vivere sotto scorta. Ma lei ha da ridire anche su questo.

«A me risulta che, a suo tempo, il capo della Mobile dette parere negativo alla concessione della scorta. E per avere espresso questo punto di vista è stato rimbrottato addirittura dal capo della Polizia. Ma allora io mi chiedo: in Italia non c’è solo Padre Pio tra gli intoccabili? Possibile che si possa criticare il Papa, e Saviano no? Che persino Berlusconi accetti il contraddittorio, e Saviano no? Perché non posso dirgli guaglio’, stai dicenno ’na strunzata?».

Forse perché incrinerebbe un fronte di solidarietà verso una persona minacciata di morte?

«Ma chi minaccia Saviano, e perché? Da cittadino italiano avrei il diritto di saperlo: quali sono ’ste minacce? Le telefonate anonime? Non che la cosa mi scandalizzi: in Italia ci sono tante scorte inutili, una in più, una in meno...».

Ma lo sa che cose simili le ha dette Emilio Fede, uno con il quale non credo che lei sia in sintonia?

«Fede è sotto scorta da 15 anni, però continuiamo a criticarlo. E invece Saviano no, è incriticabile?».

Lei comunque non si fa pregare: nel finale della canzone definisce Berlusconi il capo burattinaio che paga l’affitto a Saviano.

«Non sono il capo dei servizi segreti e non ho prove da portare, anche se prendo atto che Saviano è sempre molto deferente verso il suo editore. Del caso Saviano io faccio un’analisi politica: ciò che sta accadendo intorno a questo autore è funzionale a una destra populista, in cui il fenomeno della camorra è ridotto alla cattiveria innata di ceti popolari dediti al malaffare e al loro desiderio di fare soldi il più in fretta possibile. Secondo questa analisi il problema si risolve con più 41 bis, con più esercito, più polizia come vuole Maroni, non a caso amatissimo da Saviano».

E ora come si aspetta che valuteranno a sinistra questa sua presa di posizione?

«Ormai il savianismo è una religione. Credo che come minimo mi scorticheranno vivo».

PARLIAMO DI MARCO TRAVAGLIO.

Ci voleva Daniela Santanché, scrive “Libero Quotidiano”, per mettere a nudo il moralismo ipocrita di Marco Travaglio e della sinistra. Nella puntata Del 16 maggio 2013 di Servizio Pubblico Michele Santoro imbastisce l'ennesima, noiosa, puntata sul processo Ruby. Nella bolgia rosso fuoco dei giustizialisti, ospite unico della serata è Daniela Santanché. Parla per primo Travaglio, che elenca, come fa da anni, i motivi della colpevolezza di Silvio Berlusconi, per poi lanciarsi in una difesa all'ultimo sangue di Ilda Boccassini e della sua requisitoria. La Santanché però non ci sta e ribatte a muso duro: "Le cose che ha detto Travaglio non mi stupiscono, ma gli sfugge una cosa: la vittima dov'è? Io sono contenta che lei abbia così tante certezze, io vivo nel dubbio: non c'è una sola ragazza che ha detto di essere stata costretta a fare qualcosa contro la loro volontà". E ancora: "Le sue parole di condanna sono una pulizia etnica contro tutti coloro che non la pensano come lei". Travaglio pare in difficoltà, ma subito giunge il soccorso rosso di Santoro, che spiattella in diretta televisiva alcune intercettazioni telefoniche che riguardano Berlusconi e Nicole Minetti. Dura, la replica della Santanché: "Siete degli uomini, avete conosciuto delle belle ragazze, siete ricchi, ma non vi è mai capitato, essendo ricchi, di fare dei regali a qualche ragazza? Non avete mai conosciuto una donna che vi frequentava per avere vantaggi?". Santoro e Travaglio, che si ritengono per definizione monopolisti della verità, però non si scompongono e ricominciano con la solita tiritera, rievocando tutte le fasi del processo, evadendo però la domande della Santanché. La chiusa della Santanché è fulminante: "Non si può processare uno stile di vita, queste ragazze non si possono definire puttane. Rischiamo di passare dal processo a Berlusconi a quello alle idee. Durante la requisitoria mi ha fatto paura l'accanimento, la voglia di scagliare dentro. Possiamo parlare di scelte di vita, di morale, etica. Ma non di reato". Una lezione di vita. La discussione scivola poi sulla grave affermazione della Boccassini su Ruby ("Furbizia orientale", aveva affermato durante la requisitoria, criticandone quindi i suoi comportamenti). Dichiarazioni che la Santanché bolla senza giri di parole come "razziste".

E Travaglio? Marco Travaglio ora rompe pure con gli amici, i magistrati, scrive “Libero Quotidiano”. Al centro della bufera tra Marco Manetta e le toghe c'è sempre il Cav e il caso Ruby. Ieri il Csm ha sanzionato con censura il pm minorile di Milano Anna Maria Fiorillo. La tirata d'orecchie per il magistrato arriva per le sue dichiarazioni alla stampa dopo la notte del 27 maggio 2010, quando Ruby fu identificata e trattenuta per accertamenti alla questura di Milano. Lo ha deciso la sezione disciplinare del Csm per violazione del riserbo. ''L'avevo messo in conto, ma lo rifarei'', ha commentato Fiorillo, aggiungendo che presenterà ricorso. Fin qui i fatti. Ma Travaglio non digerisce il buffetto del Csm al magistrato. Così con un editoriale di fuoco spara alzo zero sulle toghe. "Fate schifo. C'è un limite alla vergogna. La Fiorillo ha forse insabbiato un'indagine? Non riesco a capire perchè il Csm ha agito così. Contro di lei è stata avviata un'azione disciplinare per aver violato il dovere di riserbo. Cioè per aver osato dire la verità". Alla stampa. Travaglio è un fiume in piena e va giù duro contro i magistrati: "Il plotone di esecuzione del Csm l'ha punita con la censura. Guai a chi dice la verità in questo paese di merda". Travaglio ormai ha perso la bussola. In effetti la condanna della Fiorillo per lui è un colpo basso. Sanzionare una delle fonti principali di Travaglio è uno sgarbo senza precedenti. Ora Marco come farà a riempire il suo giornale senza gli spifferi delle procure?

Ecco il casellario giudiziario di Travaglio, il grande inquisitore, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Previti, Confalonieri, Del Noce, Schifani: ecco tutte le condanne per diffamazione subìte dal fondatore del Fatto Quotidiano e lette in tv a Servizio Pubblico sa Michele Santoro da Berlusconi. La letterina con l’elenco delle condanne di Travaglio - letto molto parzialmente da Berlusconi - rimarrà nella piccola storia della nostra televisione come una nemesi straordinaria: le sedie e le parti invertite, lui che legge e l’altro non può replicare, il clima da mattinale di questura. A chi non è piaciuta, non piace Travaglio. Il che non toglie che i contenuti della lettera siano assolutamente veri.

• Nel 2000 è stato condannato in sede civile per una causa intentata da Cesare Previti dopo un articolo su L’Indipendente del 24 novembre 1995: 79 milioni di lire, pagati in parte attraverso la cessione del quinto dello stipendio.

• Nel giugno 2004 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile a un totale di 85.000 euro (più 31.000 euro di spese processuali) per un errore contenuto nel libro «La Repubblica delle banane» scritto assieme a Peter Gomez e pubblicato nel 2001. Nel libro, a pagina 537, così si descrive «Fallica Giuseppe detto Pippo, neo deputato Forza Italia in Sicilia»: «Commerciante palermitano, braccio destro di Gianfranco Miccicché... condannato dal Tribunale di Milano a 15 mesi per false fatture di Publitalia. E subito promosso deputato nel collegio di Palermo Settecannoli». Dettaglio: non era vero. Era un caso di omonimia tuttavia spalmatosi a velocità siderale su L’Espresso, su il Venerdì di Repubblica e su La Rinascita della Sinistra: col risultato che il 4 giugno 2004 sono stati condannati tutti a un totale di 85mila euro più 31mila euro di spese processuali; 50mila euro in solido tra Travaglio, Gomez e la Editori Riuniti, gli altri sparpagliati nel gruppo Editoriale L’Espresso. Nel 2009, dopo il ricorso in appello, la pena è stata ridotta a 15.000 euro.

• Nell’aprile 2005 eccoti un’altra condanna di Travaglio per causa civile di Fedele Confalonieri contro lui e Furio Colombo, allora direttore dell’Unità. Marco aveva scritto di un coinvolgimento di Confalonieri in indagini per ricettazione e riciclaggio, reati per i quali, invece, non era inquisito per niente: 12mila euro più 4mila di spese processuali. La condanna non va confusa con quella che il 20 febbraio 2008, per querela stavolta penale di Fedele Confalonieri, il Tribunale di Torino ha riservato a Travaglio per l’articolo Mediaset «Piazzale Loreto? Magari» pubblicato sull’Unità del 16 luglio 2006: 26mila euro da pagare; né va confuso con la citata condanna a pagare 79 milioni a Cesare Previti (articolo sull’Indipendente) e neppure va confuso con la condanna riservata a Travaglio dal Tribunale di Roma (L’Espresso del 3 ottobre 2002) a otto mesi e 100 euro di multa per il reato di diffamazione aggravata ai danni sempre di Previti, reato - vedremo - caduto in prescrizione.

• Nel giugno 2008 è stato condannato civilmente dal Tribunale di Roma al pagamento di 12.000 euro più 6.000 di spese processuali per aver descritto la giornalista del Tg1 Susanna Petruni come personaggio servile verso il potere e parziale nei suoi resoconti politici: «La pubblicazione», si leggeva nella sentenza, «difetta del requisito della continenza espressiva e pertanto ha contenuto diffamatorio».

• Nell’aprile 2009 è stato condannato dal Tribunale penale di Roma (articolo pubblicato su L’Unità dell’11 maggio 2007) per il reato di diffamazione ai danni dell’allora direttore di Raiuno Fabrizio Del Noce. Il processo è pendente in Cassazione.

• Nell’ottobre ottobre 2009 è stato condannato in Cassazione (Terza sezione civile) al risarcimento di 5.000 euro nei confronti del giudice Filippo Verde, che era stato definito «più volte inquisito e condannato» nel libro «Il manuale del perfetto inquisito», affermazioni giudicate diffamatorie dalla Corte in quanto riferite «in maniera incompleta e sostanzialmente alterata».

• Nel giugno 2010 è stato condannato civilmente dal Tribunale di Torino (VII sezione civile) a risarcire 16.000 euro al Presidente del Senato Renato Schifani, avendo evocato la metafora del lombrico e della muffa a «Che tempo che fa» il 10 maggio 2008.

• Nell’ottobre 2010 è stato condannato civilmente per diffamazione dal Tribunale di Marsala: ha dovuto pagare 15mila euro perché aveva dato del «figlioccio» di un boss all’assessore regionale siciliano David Costa, arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e successivamente assolto in forma definitiva.

• Ora la condanna più significativa. Si comincia in primo grado nell’ottobre 2008: il presunto collega beccò otto mesi di prigione (pena sospesa) e 100 euro di multa in quanto diffamò Previti. L’articolo, del 2002 su l’Espresso, era sottotitolato così: «Patto scellerato tra mafia e Forza Italia. Un uomo d’onore parla a un colonnello dei rapporti di Cosa nostra e politica. E viene ucciso prima di pentirsi». Lo sviluppo era un classico copia & incolla, dove un pentito mafioso spiegava che Forza Italia fu regista di varie stragi. Chi aveva raccolto le confidenze di questo pentito era il colonnello dei carabinieri Michele Riccio, che nel 2001 venne convocato nello studio del suo avvocato Carlo Taormina assieme a Marcello Dell’Utri. In quello studio, secondo Riccio, si predisposero cose losche, tipo salvare Dell’Utri, e Travaglio nel suo articolo citava appunto un verbale reso da Riccio. E lo faceva così: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti». E così praticamente finiva l’articolo. L’ombra di Previti si allungava perciò su vari traffici giudiziari, ma soprattutto veniva associato a un grave reato: il tentativo di subornare un teste come Riccio. Il dettaglio è che Travaglio aveva completamente omesso il seguito del verbale del colonnello. Eccolo per intero: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti. Il Previti però era convenuto per altri motivi, legati alla comune attività politica con il Taormina, e non era presente al momento dei discorsi inerenti la posizione giudiziaria di Dell’Utri». Il giudice condannò Travaglio ai citati otto mesi: «Le modalità di confezionamento dell’articolo risultano sintomatiche della sussistenza, in capo all’autore, di una precisa consapevolezza dell’attitudine offensiva della condotta e della sua concreta idoneità lesiva della reputazione». In lingua corrente: Travaglio l’aveva fatto apposta, aveva diffamato sapendo di diffamare. La sentenza d’Appello è dell’8 gennaio 2010 e confermava la condanna, ma gli furono concesse attenuanti generiche e una riduzione della pena. La motivazione, per essere depositata, non impiegò i consueti sessanta giorni: impiegò un anno, dall’8 gennaio 2010 al 4 gennaio 2011. Così il reato è caduto in prescrizione. «La sentenza impugnata deve essere confermata nel merito... (vi è) prova del dolo da parte del Travaglio». Il quale, ad Annozero, ha bofonchiato di un ricorso in Cassazione: attendiamo notizie.

Filippo Facci a "Sua Vanità" Travaglio: "Nascondi ai tuoi fan i reati". Vi spiego quello che il vicedirettore del "Fatto" non spiega in tv: in particolare vi parlo di quella prescrizione di cui Marco non vuole parlare nemmeno sotto tortura, scrive su “Libero Quotidiano”.

Sua Vanità, Marco Travaglio, è tornato sul tema a lui caro (economicamente) delle sue condanne per diffamazione. L’ha fatto a Servizio Pubblico, ovviamente, parlando da solo, ovviamente.

L’ha fatto per via dei lettori e teleutenti che chiedevano chiarimenti: segno che non ne aveva mai dati. Delle condanne di Travaglio hanno appreso da Berlusconi.

Il presunto collega ha mostrato il suo casellario giudiziale - è il quarto anno di fila che lo fa - dove «c’è scritto nulla», quindi ha gongolato come se stringesse in mano un’indulgenza per l’altro mondo. Penalmente, è incensurato: esattamente come Silvio Berlusconi. Però Berlusconi è prescritto: anche Travaglio, visto che l’ultima sua condanna penale è andata in prescrizione il 4 gennaio 2011.

Nei sette minuti supplettivi da lui sequestrati a Servizio Pubblico, in sostanza, Travaglio ha spiegato di essere il migliore come sempre: migliore dei colleghi e direttori berlusconiani «condannati per diffamazione», loro sì, e migliore dei giudici che «non hanno capito» perché l’hanno condannato, migliore dell’intera stampa italiana che dopo Servizio Pubblico «la differenza tra penale e civile non l’hanno capita neanche loro». A meno che a questa differenza, più semplicemente, i giornali italiani non abbiano dato l’importanza che Travaglio le attribuisce. Il presunto collega, infatti, continua a parlare (da solo) come se le condanne civili non nascessero comunque da un illecito e da un cattivo giornalismo, e come se il primo a mischiare e pubblicare le condanne penali e civili dei colleghi, a suo tempo, non fosse stato lui. Ora che la sua stessa arma gli si ritorce contro, tuttavia, ecco fiorire distinguo su distinguo: e così giovedì sera ha cercato di separarsi dai «direttori berlusconiani, loro condannati più e più volte, loro sì diffamatori professionali», gente diversa da «noi, che non abbiamo nessuna condanna per diffamazione». Interessante. Ma una risposta a tono, purtroppo, implicherebbe l’elenco dei suoi amici e colleghi che sono incappati pure loro in condanne per diffamazione, magari con la specifica che anche il grande Indro Montanelli ne ha collezionate a bizzeffe, di condanne. E così pure tutti i grandi del giornalismo. Per rispondere a tono, cioè, dovremmo contribuire al gioco idiota e prediletto da Travaglio in tutti questi anni: sostituire la fedina penale alla carta d’identità, spiegare ai più beoti tra i suoi fans che un giornalista condannato per diffamazione sia tutta ‘sta cosa. Meglio di no. Meglio lasciare a Travaglio il suo certificato di purezza, glielo lasciamo noi e glielo lasciano tutti i suoi direttori regolarmente condannati per diffamazione.

1) Solo, ecco: si difenda un po’ meglio, almeno. Giovedì sera ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

2) Poi ha detto che una causa - persa col magistrato Filippo Verde - gli è andata male «perché il giudice ha capito» una cosa sbagliata. Colpa del giudice. Il quale, a dir il vero, nella sentenza ha scritto che Travaglio si era espresso «in maniera incompleta e sostanzialmente alterata». Ma questo non c’era bisogno di dirlo a Servizio Pubblico.

3) Però ha detto, Travaglio: «Avevo scritto che Confalonieri doveva vergognarsi di accusare la sinistra di voler espropriare Mediaset come a Piazzale Loreto», e questa semplicemente è stata ritenuta dal giudice «una critica eccessiva». Tutto qui. Agli amici di Servizio Pubblico non ha detto altre cose, però. Non ha detto che, secondo il giudice, lui - Travaglio - aveva dato per certe «ipotesi d’accusa non ancora accertate», che aveva riferito «illeciti non veritieri», che le notizie riferite da Travaglio «devono ritenersi non conformi al principio della verità e pertanto devono ritenersi sussistenti gli estremi del reato di diffamazione». Ops, scandalo, il giudice ha scritto «reato» nonostante fosse una causa civile. Un altro ignorante da segnare sul quadernino, Marco.

4) Poi Travaglio ha detto: «Ho scritto che Confalonieri era imputato assieme a Berlusconi nel processo Mediaset, ma non che era imputato per un altro reato. Il giudice ha capito che gli avessi detto che era imputato per lo stesso reato». Colpa del giudice.

5) Travaglio ha spiegato, poi, d’esser stato condannato per aver evocato «la metafora della muffa e del lombrico» riferita al presidente del Senato, Renato Schifani. Una metafora, ha detto il presunto collega, che era riferita eventualmente al successore di Schifani, non a Schifani. E però - ha detto agli amici di Servizio Pubblico - «il giudice o non ha capito o non ha apprezzato la battuta». Colpa del giudice. Non ha capito.

6) Travaglio ha poi riassunto nel seguente modo la condanna civile per causa della collega Susanna Petruni: «Una giornalista della Rai, berlusconiana di ferro, mi ha denunciato perché ho detto che è una berlusconiana di ferro. Dodicimila euro m’è costata». Eh no. Travaglio l’aveva definita «non obiettiva e asservita al potere della maggioranza di governo...», con episodi specifici di cronaca politica «narrati con evidente parzialità». Poteva dirlo.

7) Infine: Travaglio ha parlato di una condanna (penale, ma prescritta) elargita «perché avevo riassunto troppo un verbale di ottanta pagine in una pagina dell’Espresso... bastava che Previti mi mandasse una rettifica... ». Fine. E così non ha sentito il bisogno di riferire, ai gonzi di Servizio Pubblico, le parole utilizzate dal giudice: «Accostamento insinuante», «omissione evidente», «significato stravolto», «distorta rappresentazione del fatto... al precipuo scopo di insinuare sospetti sull’effettivo ruolo svolto da Previti». Questo in primo grado. In Appello: «È appena il caso di ribadire la portata diffamatoria!, «vi è prova del dolo da parte del Travaglio».

Prova. Dolo. Travaglio. 

PARLIAMO DI SANTORO.

Santoro indagato per abusi edilizi nella sua villa. Il giornalista fustigatore finisce nel mirino della Procura di Salerno per le opere di ristrutturazione della casa sul golfo di Amalfi. Tre piani vista mare con terreno, acquistata nel 2009 per 950mila euro. Gli interventi edili sarebbero stati fatti senza la necessaria denuncia e in zona sismica, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale"  «Lavori abusivi», questo dice l’articolo di legge violato dal proprietario, dal titolare della ditta esecutrice e dal direttore dei lavori in quella bella casa con vista mozzafiato sul golfo di Amalfi. Ma chi è il proprietario? Lui, il fustigatore massimo dei pubblici peccati, Michele Santoro. A lui, e agli altri due, è stato appena recapitato dalla Procura di Salerno l’avviso di conclusione delle indagini preliminari sui lavori di ristrutturazione della villa comprata nel 2009 dal conduttore di Annozero, per 950mila euro più spese. L’atto (che pubblichiamo qui a fianco) rivela qualcosa che non si sapeva fino ad oggi (né si poteva sapere, valendo il segreto istruttorio) e cioè che Santoro fosse indagato dalla procura salernitana, nella persona del sostituto procuratore Carmine Olivieri, un magistrato che tutti, da quelle parti, definiscono «uno tosto». Nel mirino della procura ci sono due ordini di fatti: una serie di opere edili realizzate nella villa senza la necessaria denuncia all’organo competente, e poi una seconda omissione che riguarda invece le specifiche indispensabili per costruire in zona sismica. Questo configurerebbe, secondo il pm, una contravvenzione ex articolo 113 del codice penale (Cooperazione nel delitto colposo) e poi da quattro diversi articoli del Testo unico dell’edilizia. Scrive il pm nell’avviso di conclusione indagini: «Cooperando colposamente il Santoro quale committente», insieme al progettista e al titolare della ditta esecutrice, «eseguivano opere edili (edificazione di un arco e di un pilastro esterno al piano terra; demolizioni di pareti trasversali interne al piano terra; apertura di un vano di passaggio in un muro al primo piano) afferenti la statica del fabbricato, senza averne fatto previa denuncia allo Sportello unico e/o all’Ufficio del Genio civile». Cioè, abusivamente. Non solo, «eseguivano i lavori indicati in zona sismica senza darne preavviso scritto, omettendo il contestuale deposito dei progetti ed omettendo di attenersi ai criteri tecnico-descrittivi prescritti per le zone sismiche». Ora, la legge prevede che l’indagato abbia venti giorni per presentare una memoria difensiva, chiedere di essere interrogato, rendere spontanee dichiarazioni, o chiedere al pm di disporre nuove indagini. Di solito, però, quando il pm non archivia ma avvisa della conclusioni indagini, è perché ravvede gli estremi per andare in giudizio. E così potrebbe essere anche per Santoro. A meno che, spiega una fonte coinvolta, «non venga depositato il progetto in sanatoria», cioè non venga sanato l’abuso in extremis. Ma sono solo ipotesi di scuola: il procedimento penale, intanto, va avanti. Anche se certamente si tratta di un fatto di poco conto, dal punto di vista giudiziario. È più la curiosità, come conferma la velocità con cui si diffonde la notizia tra Salerno e la costiera, per il coinvolgimento di un personaggio pubblico come Santoro, che da quelle parti è un grande vip. L’indagine della Procura è scattata dopo la denuncia del responsabile di un’associazione di consumatori, Cittadinanza Attiva.

Il suo coordinatore locale, Andrea Cretella, ha raccolto e analizzato una montagna di documenti su quella villa, dopo che diversi cittadini - racconta lui - avevano fatto segnalazioni in merito. L’abitazione, con annesso terreno, è «disposta su tre livelli, composta da quattro vani al piano terra, da tre vani con cucina bagno ingresso ripostiglio e terrazzo al primo piano», si legge nel rogito. Al momento dell’acquisto però la casa non era messa granché, e dunque Santoro ha avviato una serie di lavori di ristrutturazione. La maggior parte di queste opere riguardano il primo piano, i cui locali pare fossero accatastati come stalla e come cantina. Su questo il responsabile di Cittadinanza attiva ha qualcosa da aggiungere: «Apprendo con soddisfazione che tutto quello che avevo denunciato all’autorità giudiziaria è stato riscontrato a verità - commenta l’instancabile Cretella - non perché abbia qualcosa contro gli indagati, ma per un atto di giustizia. Poi nel corso delle indagini, sarebbe emerso che nei locali del primo piano, censiti al catasto come cantina e stalla, non potevano essere effettuati lavori di trasformazione urbanistica in quanto la legge non prevede il cambio di destinazione d’uso. Questa potrebbe rappresentare una sorta di speculazione edilizia». Supposizioni tutte da provare. La casa acquistata da Santoro, peraltro, ha già goduto di un condono edilizio, che ha avuto una lunga storia e un rapidissimo epilogo. La domanda di condono presso il Comune di Amalfi era sta presentata moltissimi anni prima, nel marzo 1986, senza nulla di fatto. Finché la casa non è stata comprata dal noto conduttore, e nel giro di pochi mesi l’abuso è stato sanato. Una velocità che aveva generato dei sospetti in qualcuno, prima che Santoro spiegasse che tutto era stato fatto secondo le regole.

MICHELE SANTORO INDAGATO, TRAVAGLIO TACE….IL POPOLO CONSENTE?

Strano silenzio totale dei media sul fatto che, il difensore dell’onestà, il manettaro di sinistra, il giustizialista del giovedì, il sig. Michele Santoro, è indagato per lavori abusivi nella sua villa milionaria. Ma gli abusi edilizi e l’uso del territorio a fini personali non sono spesso stati discussi nelle puntate delle trasmissioni di Santoro? Nessuno parla della sua villa (da un milione di euro), dei lavori di ristrutturazione, delle specifiche non rispettate pur trovandosi la villa in una zona sismica, delle opere che non sono state denunciate all’organo competente. Travaglio ovviamente rimane zitto, la lobby de l’Espresso-Repubblica tace. Certi sinistri signori sono sempre belli, bravi, onesti e… manettari nei confronti degli altri….

False accuse in tv adesso Santoro rischia la condanna: "Concorso in diffamazione", il conduttore di "Annozero" a giudizio ad Aosta.

L'ospite che mentì sul rivale deve già pagare 25mila euro, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Il danno peggiore l'ha subito mio figlio, ancora più di me. Era un pilota promettente, selezionato per la nazionale di automobilismo al Gp, ma dopo quell'accusa sbattuta in prima serata sulla Rai, senza verifica...

Lo sponsor del suo team era pubblico, i Monopoli di Stato, e di fronte a quel sospetto, insinuato in tv, di aver preso una tangente, è chiaro che la carriera va in pezzi» racconta Mario Gatto, ex dirigente di Forza Italia in Piemonte, ora presidente dell'associazione Globoconsumatori. L'accusa era falsa, l'accusatore, Carmelo Tomasello, ex vicesindaco forzista di Legnano, è stato condannato per diffamazione nel maggio 2012, dal Tribunale di Aosta, a sei mesi di reclusione (pena sospesa) e 25mila euro di risarcimento per danno morale. E Michele Santoro, che ha mandato in onda quel servizio nel 2008, ad Annozero, è stato rinviato a giudizio per «concorso in diffamazione», sempre dal Tribunale di Aosta, decreto emesso tre giorni fa dal gup Marco Tornatore. Nel servizio di Annozero l'ex vicesindaco fornì un piatto prelibato al menù serale di Santoro. Raccontò di aver girato parte di una mazzetta di 180mila euro (per questo è poi finito in carcere) al signor Gatto, che in cambio gli avrebbe procurato un appuntamento con l'allora ministro Claudio Scajola, uomo forte di Forza Italia nel Nord Ovest. Quei soldi dati a Gatto, spiegò l'ex vicesindaco ad Annozero, servivano a finanziare le gare automobilistiche del figlio di Gatto, pilota professionista. Un intreccio di soldi, corruzione e politica, con al centro Scajola. Un colpo da sparare in prima serata, come in effetti Santoro fece. Il servizio, peraltro, riesumava una storia già raccontata da Marco Travaglio, editorialista di Annozero, due anni prima, sull'Unità, dove riportavano le dichiarazioni di Tomasello, il quale «finanziava le gare automobilistiche del figlio di Gatto, che gli promise in cambio di lanciarlo nel firmamento parlamentare grazie alle sue entrature presso Dell'Utri, Pescante, Scajola. Infatti, intascati i primi 90mila euro, Gatto...» etc.

Una storia avvincente, con un unico problema: è falsa. «Dell'Utri non l'ho mai conosciuto, Pescante l'ho visto forse una volta come sottosegretario, Scajola sì lo conosco, e l'ho anche presentato a Tomasello, che allora era vicesindaco. Ma mai avrei chiesto un centesimo per farlo, né ho mai chiesto soldi per mio figlio, com'è stato dimostrato dai magistrati. È stata una accusa infamante, del tutto infondata - racconta Gatto, assistito dall'avvocato Andrea Serlenga del Foro di Torino - Quando vidi quel servizio ad Annozero rimasi basito, fecero parlare Tomasello, che tirava in ballo me, mio figlio e anche Scajola, senza il minimo contraddittorio, senza verifica alcuna. Ricordo che fui costretto a spegnere il cellulare per giorni. Può immaginare che problemi mi ha creato, come presidente di una associazione consumatori, essere considerato un corrotto...».

L'inizio del processo a carico di Santoro, come responsabile della testata Annozero, è previsto per il 27 giugno 2013, la parola al giudice di Aosta, Davide Paladino (non all'amico Antonio Ingroia, trasferito proprio lì, ad Aosta, controvoglia, per decreto ministeriale, ma a fare il procuratore).

Non bastavano Berlusconi e Mastella, a mettere sotto accusa Michele Santoro, scrive Varese News. Ci si è messo anche il tribunale di Varese, che ha condannato per diffamazione con il mezzo televisivo, il popolare giornalista, in un processo in cui aveva come controparte una associazione vicina alla Lega e i suoi aderenti. Santoro ha rimediato mille euro di multa, e un risarcimento stimato in 10mila euro per ognuna delle tre parti civili, l’associazione leghista “Terra insubre” , il suo fondatore Andrea Mascetti (difeso dall’avvocato Attilio Fontana) e l’ideologo del carroccio Gilberto Oneto (difeso all’avvocato Alberto Zanzi). Oltre a questo, 2500 euro di risarcimento per le spese processuali, a testa. Assolti invece i due giornalisti della Rai che in quella puntata de “Il Raggio Verde”, del 2000, realizzarono i servizi: Maurizio Torrealta, vicedirettore di Rainews24 e Paolo Mondani, oggi conduttore di inchieste nella fortunata trasmissione Report.

L’argomento della puntata in oggetto era la destra xenofoba italiana. La trasmissione aveva mostrato una serie di episodi di intolleranza contro gli stranieri e di esplicito antisemitismo, visioni di naziskin e altre ricostruzioni su una serie di fatti inquietanti accaduti nel 2000. In quel contesto, Torrealta condusse una ricostruzione in studio delle vicende accadute, dando poi la parola al servizio realizzato materialmente da Paolo Mondani. Il leghista Andrea Mascetti, nella registrazione visionata la scorsa udienza, veniva raggiunto per telefono e si poteva ascoltare la sua voce negare l’intervista a Mondani. Che, in effetti, non accusava esplicitamente i leghisti di avere tendenze xenofobe. Il giudice Chiara Valori, assolvendo i due collaboratori, ha riconosciuto che nelle parole dei due giornalisti non vi erano elementi diffamatori, ma ha lo stesso attribuito a Santoro la responsabilità di una diffamazione. Per capire esattamente il motivo, bisognerà attendere le motivazioni della sentenza, anche se, secondo i legali della parte civile, è ipotizzabile che la costruzione della puntata - la cornice cioè entro la quale hanno operato i due giornalisti e di cui era responsabile Santoro - possa essere stata percepita come diffamatoria.

Giustizia a senso unico. Santoro può svelare telefono di Silvio. Noi, scrive “Libero Quotidiano”, condannati per aver mostrato il suo.

Nel gennaio 2011 Libero replicò ad Annozero pubblicando il cellulare del teletribuno. Costretti dal tribunale a risarcirlo per "danno esistenziale". Ora c'è anche tanto di sentenza del tribunale: mostrare il numero di telefono di Silvio Berlusconi si può. Invece, se si mostra quello di Michele Santoro, si viene condannati per "danno esistenziale". A dirlo sono i giudici di Roma, che hanno condannato il nostro giornale e il collega Andrea Morigi a risarcire in solido il teletribuno di Annozero (ora di "Servizio pubblico" dei danni non patrimoniali per complessivi 8mila euro, più le spese sostenute nel procedimento di 2.500 euro.

La vicenda risale al 22 gennaio 2011, quando in una puntata di Annozero, Santoro mostrò alla telecamera il cellulare dell'allora premier Silvio Berlusconi. In risposta, Libero titolò: "Lui dà il numero del Cav. Il suo è 348/3406101". Santoro denunciò il nostro quotidiano, sostenendo di aver "subito per alcuni giorni molestie e quindi un danno da turbamento del normale svolgimento della vita".

Denominato giuridicamente come "danno esistenziale". Bastava cambiare numero di cellulare, ma a Michele non è bastato. La corte ha valutato che "Santoro, da giornalista, ha diritto alla tutela della privacy e della riservatezza". Una cosa verrebbe da chiedere ai giudici: non aveva diritto ad analoghe privacy e riservatezza anche Silvio Berlusconi?

PARLIAMO DI MILENA GABANELLI.

Cause Rai per 300 milioni. Il cavallo di viale Mazzini azzoppato dalle denunce. "Report" raccoglie il maggior numero di querele. Contenziosi anche per "Annozero" e "Chi l’ha visto?". Una richiesta danni per diffamazione anche alla "Prova del cuoco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. Circa 46 milioni di euro, accantonati per il contenzioso civile della Rai nell’ultimo anno: ecco la provvista dedicata all’eventuale risarcimento delle molte e spesso gigantesche cause che incombono sulla testa del cavallo morente di viale Mazzini (soldi pubblici). Diciamo subito che la cifra messa da parte dalla tv di Stato è molto inferiore al petitum, cioè a quanto viene richiesto da aziende o privati che si sentono diffamati dalla Rai. Lì si arriva a cifre spaventose, che sfiorano (stima nostra) i 300milioni di euro. Oltre ai 5 milioni in ballo con la Fiat (che ne chiedeva 20) per un servizio di Annozero decisi dal tribunale di Torino ma già impugnati dai legali Rai, il grosso delle cause riguarda Report di Milena Gabanelli. Il suo programma di inchieste ha il record di citazioni in tribunale (ma la Gabanelli è un drago anche in difesa, ne ha persa una sola in 15 anni, per 30mila euro), seguita dall’ex programma di Santoro (che per il giudice non c’entra nel caso Fiat, perché «non è esperto di autovetture» e non c’è «nesso psichico» col servizio di Formigli!), e quindi da cifre fisiologiche di contenzioso per Presa diretta di Iacona, Chi l’ha visto, Tg1 e il Tg3, e una causa (annunciata) persino per La prova del cuoco, per una frase della Clerici su un ristorante di Mondello («lì si mangia da schifo»).

Spiccioli in confronto alla montagna di euro chiesti alla Rai per Report. È stata la stessa Gabanelli a fornire un elenco completo delle cause che la riguardano, per un totale spaventoso di 246 milioni di euro richiesti dai presunti diffamati. Da Report, e quindi dalla Rai, chiedono più di 40 milioni di euro (per cinque diverse puntate) gli Angelucci, ramo sanità privata. Pretende 10 milioni di euro dalla Rai il «furbetto del quartierino» Stefano Ricucci, così come l’industriale delle carni Luigi Cremonini, fondatore della Cremonini Spa, che ne chiede 12 di milioni, come risarcimento per un servizio sempre della Gabanelli.

L’operatore telefonico Tre stima in 137 milioni di euro il risarcimento adeguato per una inchiesta di Report, mentre Wind si accontenta di 10 milioni, quanto chiedono sia Cesare Geronzi che il vicepresidente dell’Ansa Mario Ciancio Sanfilippo, il doppio di quanti, invece, ne voleva Ligresti (5 milioni), che però si è visto dare torto dal tribunale di Milano, condannato pure al rimborso delle spese sia della Gabanelli (10mila euro) che dell’autrice del servizio Giovanna Corsetti (7mila).

E poi un’altra decina di cause, per 246 milioni totali che si accollerebbe interamente la Rai. Anche se l’ultimo contratto della Gabanelli ha una novità non da poco, un clausola di manleva solo parziale, per cui se il tribunale riconosce il dolo o la colpa grave con sentenza passata in giudicato, l’azienda può rivalersi sull’autore della diffamazione.

Una limitazione della libertà dei giornalisti o una tutela giusta per un’azienda pubblica? È un nodo su cui il Cda dell’epoca Masi e poi con la Lei ha dibattuto molto, trovando un compromesso con la «clausola parziale». Ed ora la direzione generale - dopo la mazzata Fiat-Annozero - è decisa a portare in Cda la proposta di estendere a tutti i giornalisti Rai la formula trovata per la Gabanelli (mutuata dal contratto nazionale dei dirigenti). Ma su che basi? Per via della natura particolare della Rai, che in recenti sentenze è stata riconosciuta come soggetto di diritto pubblico (non a caso è stato designato un magistrato della Corte dei conti apposta per il Cda Rai), e quindi - come ha osservato Feltri sul Giornale e come ci confermano in termini giuridici fonti di viale Mazzini - «un danno economico alla Rai potrebbe costituire la fattispecie di un danno erariale», perché i soldi della Rai sono soldi pubblici. Resta da risolvere un problema non da poco: quale giornalista della Rai farebbe più un’inchiesta seria, se corresse il rischio di dover pagare di tasca sua l’eventuale causa civile? Si può davvero equiparare un’impresa editoriale, per quanto pubblica, ad un Comune o all’Anas? Al Cda Rai - attuale o venturo - l’ardua soluzione.

Ma una risposta serve, perché le cause in Rai proprio non mancano, anche da dentro l’azienda. Il conduttore dell’«Italia sul Due» Milo Infante fa causa alla Rai per mobbing, perché si sente oscurato dalla Bianchetti. Il Comune di Portogruaro fa causa perché non arriva bene il digitale terrestre, e poi centinaia di cause di lavoro. Azzoppato dalla cause questo povero cavallo di viale Mazzini.

60 processi, 300 milioni richiesti, una condanna (non definitiva). Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

«Ma tu come sei, davvero?», le chiese anni fa Giancarlo Perna per Amica. E lei: «Culo basso, poche tette, 48 chili, un metro e 60». Così è fatta la «Gaba»: ti spiazza sempre. Le viene così naturale, ormai, che lo fa perfino involontariamente. Come quando, dopo le «quirinarie» on-line che l'avevano vista vincere con 5.796 voti davanti a Gino Strada e a Stefano Rodotà, le hanno offerto di essere la candidata del MoVimento 5 Stelle alla Presidenza della Repubblica. Giusto il tempo di riprendersi dallo sbalordimento e rideva: «Pensa un po' che il prossimo servizio di Report è proprio sulle onorificenze distribuite dal Colle...».

Come l'hai vissuta questa candidatura?

«Sulle prime mi sono messa a ridere. L'ho trovata divertente. Dopo un quarto d'ora mi sono piombate addosso tante e tali pressioni che ho capito che la dovevo prendere sul serio».

Insomma, non era una boutade.

«Un quarto d'ora dopo c'era un'agenzia. Diceva che Grillo aveva telefonato a Bersani: "Questo è il nostro nome e se lo votiamo insieme poi possiamo metterci d'accordo sulle successive riforme". Non potevo più pensare che fosse una boutade. Solo che era molto più adatto di me Rodotà. Il mio problema era trovare il modo per declinare l'offerta con un riconoscimento adeguato a chi mi aveva scelto».

Insomma, erano voti di stima difficile da respingere...

«Il problema sono state le pressioni intorno (e non credo c'entrasse il MoVimento) del genere "non puoi tirarti indietro, non devi mostrarti vigliacca". Mi era chiara una cosa: che se fai un passo del genere anche se poi non vieni eletto non è che puoi tornare a fare quello che facevi prima. Quindi...».

Ma tu li avevi votati?

«Chi?».

I grillini...

«Per me un giornalista non deve dire cosa vota. In un altro Paese si, ma qui non si può. Perché qui tutto viene strumentalizzato. Te lo buttano addosso. È evidente che ho le mie preferenze, le mie insofferenze, il mio disgusto. Ma parlo attraverso il mio mestiere. Che è una rivendicazione d'indipendenza. Nel momento in cui dico cosa ho votato non son più indipendente. È così. Non vorrei, ma è così».

Quindi, per la delizia di chi finisce sotto i tuoi cingoli, continuerai a fare la cronista.

«Sì».

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Lo conservi ancora l'assegno con cui ti pagarono il primo articolo?

«Certo. Era di Cineforum: 5.000 lire. Lo tengo appeso in bacheca. Mai ritirato. Non puoi pagare la gente così».

Potrebbe venirti buono per rispondere di qualche querela: a quante sei arrivata con Report?

«Le querele non sono tante, le cause civili quasi una sessantina».

La più incredibile?

«H3G, la società di telefonia, ci ha chiesto 137 milioni».

Cosa è successo: li hai demoliti in Borsa?

«Io credo d'aver lavorato bene. Loro pensano, a leggere la citazione, che la diffamazione sia cominciata quando ho detto "buonasera" e sia finita quando ho detto "arrivederci". E anche questi toni, per loro, erano diffamatori. Ho accompagnato la mia memoria difensiva con una richiesta dei danni: la loro, per me, è una lite temeraria».

Ci torniamo dopo: al secondo posto?

«L'Eni, che di milioni ne vuole 25».

Perché?

«Abbiamo fatto una puntata a dicembre sulla gestione di Paolo Scaroni e "non è stata apprezzata". Non gli è andato bene niente. Ha fatto una citazione di 145 pagine: dal prezzo del gas alla campagna pubblicitaria, dalla questione ambientale in Basilicata alla busta paga dell'amministratore delegato... Centoquarantacinque pagine! Non una cosa che gli sia andata bene. Niente».

È offensivo ricordare che prende 5 milioni e mezzo di euro?

«Ho letto che sono saliti a sei...».

Quindi ricordandolo in questa intervista lo offendiamo di nuovo?

«Cosa devo dire? Quello che abbiamo raccontato è il meccanismo con cui era arrivato a queste cifre, vale a dire il pagamento delle stock option per cassa. Perché lo stipendio sarebbe più basso. A quelle cifre è arrivato perché le stock option sono state pagate con un sistema a nostro avviso discutibile. Possiamo dirlo?».

Al terzo posto?

«Le Ferrovie dello Stato ci hanno chiesto 26 milioni di euro più due che Mauro Moretti ha chiesto a me personalmente. Ma quella si è risolta bene perché hanno dovuto pagare anche le spese legali».

Poi?

«Poi ne ha chiesti dieci Cesare Geronzi, poi cinque Salvatore Ligresti...».

E Berlusconi, che aveva annunciato una causa per la puntata sulla sua villa ad Antigua?

«Mai vista. L'aveva annunciata, ma poi non l'ha fatta».

Quanti le annunciano, le querele, senza poi farle?

«Non tanti. In genere quando lo dicono, purtroppo, le fanno. Poi ci sono le lettere preventive: "Sappiamo che fate una puntata su questo, sappiamo che avete parlato con Tizio di Caio, sappiate che se intendete nominare questa cosa dando l'interpretazione che noi intuiamo che voi darete, poiché l'azienda quotata in Borsa e questa cosa ci danneggerebbe, bla-bla bla...". Poi magari vedono la puntata e capiscono che non hanno appigli e lasciano perdere. Ma ci provano sempre».

La causa più assurda?

«Una ditta olearia sosteneva che io avessi detto una determinata frase che non mi ero mai sognata di dire. C'erano le registrazioni, che senso aveva querelare?».

Per intimorire.

«Appunto».

Ma in totale a quante richieste danni sei arrivata?

«In milioni di euro?».

Certo.

«Quasi 300 milioni».

Tuo marito e tua figlia resteranno indebitati per l'eternità...

«Un po' di cause le abbiamo già vinte. Adesso saremo intorno a 200».

Ne hai persa qualcuna?

«Una: in quindici anni di Report. Per 30mila euro. C'è ancora l'appello, però. Vediamo».

Tornando alla «lite temeraria»...

«Nei Paesi anglosassoni funziona così: tu mi fai causa chiedendomi una cifra enorme per farmi perdere un sacco di tempo, spingere l'avvocato a consigliarmi a fermare altri eventuali servizi fino alla fine del processo (dieci anni!) e insomma intimorirmi? Se il giudice stabilisce che mi hai trascinato in tribunale per niente colpendo un diritto sacro come la libertà di stampa rischi di pagare il multiplo di quello che hai chiesto come risarcimento».

Tanto per capirci...

«Se il giudice accertasse che H3G ci ha chiesto 137 milioni per motivi pretestuosi e solo per intimorirci, potrebbe condannare l'azienda a pagarne 274. Stai sicuro che ci penserebbero due volte. È una battaglia da vincere. Articolo 21 ha raccolto on-line 120mila firme per chiedere d'inasprire l'articolo 96 del codice di procedura civile e punire in modo più corposo queste liti temerarie adeguandoci al rito anglosassone. Firme già consegnate alla Boldrini».

Tema particolarmente spigoloso soprattutto per le tv, le emittenti radio, i giornali più piccoli...

«Davanti alla minaccia di una causa milionaria il piccolo editore non può reggere le intimidazioni. Anche perché la legge prevede che lui debba accantonare nel fondo rischi una parte di quanto viene chiesto. Sapendo che le cause civili in Italia durano anche una dozzina di anni quanti sono a potersi permettere il lusso di passare anni sotto questa spada di Damocle per combattere fino in fondo una battaglia? Un processo sbagliato e il piccolo rischia di chiudere. Per quello è essenziale cambiare la legge. Il che non vuol dire...».

...che il giornalista può fare quello che gli pare.

«Ovvio. Io non credo che il giornalista debba godere di una particolare clemenza. Un conto è l'errore in buona fede che è sempre dimostrabile, un altro è sputtanare volontariamente qualcuno senza fare i dovuti controlli. Hai sbagliato? Devi pagare. Se colpisco uno in malafede devo essere arrestata. Perché sono pericolosa. Ciò detto non può essere che chiunque abbia la facoltà di trascinarti in tribunale chiedendoti delle cifre insensate. Questo è oggi il più grave problema della libertà d'informazione. E non va mischiato con tutto il resto, a partire dalle intercettazioni... Tutte questioni importanti, per carità. Ma quella centrale è la lite temeraria».

Sempre lì si finisce, sulle intercettazioni: tu sei per pubblicare tutto?

«No. Non credo che abbiamo il diritto assoluto di scrivere sempre comunque tutto».

Per capirci, lo scambio di Sms di coccole tra Anna Falchi e Stefano Ricucci...

«Se servono solo ad alimentare il gossip o la curiosità pruriginosa, no, non devono essere pubblicati».

E chi li pubblica va sanzionato?

«Perché no? Pensiamoci. Decidiamo come, quanto, in che forma perché poi...».

...c'è il rischio che con la scusa di tutelare la privacy sacrosanta dei messaggeri d'amore...

«...ti inventano una leggina per bloccare tutto il resto. Non si può discutere di queste cose in astratto. Va visto caso per caso. Non si può generalizzare. È sempre una questione di buon senso. Non è facile stabilire dove comincia la privacy».

Quella di Peter Arnett, il celeberrimo inviato della Cnn, finì sotto la tua telecamera mentre rimorchiava una prostituta ragazzina.

«Stavo facendo un servizio sui grandi inviati di guerra e mi aveva trascinato per le strade di Saigon fino alla zona dei bordelli. Quando ha cominciato a fare il cascamorto con una ragazzina cosa dovevo fare: spegnere la telecamera? Ho continuato a girare...»

Fu per quella serie che litigasti con Oriana Fallaci?

«Litigare? Non riuscii neanche a parlarci. Con grande fatica arrivai a recuperare il telefono della segretaria. Feci in tempo soltanto a dire: "Buongiorno, mi chiamo Milena Gabanelli, sono una collega". Rispose gelida: "La signora Fallaci non ha colleghe". Clic».

E tu?

«Ho capito che quando contatti qualcuno devi pensare prima che parole usare. Un approccio sbagliato ti brucia ogni possibilità».

Possono essere antipatici, i grandi giornalisti.

«Certo, molti sono costretti anche a difendersi dalla pletora di colleghi che dalla mattina alla sera chiedono interviste, pareri, opinioni... Anch'io posso sembrare antipatica a tanti colleghi che chiamano dalla radio privata o dei siti web di Vipiteno o di Canicattì a tutte le ore. Non è che non voglio, è che a volte proprio non ce la faccio. E magari risulto una odiosa che è arrivata...».

La cosa che ti dà più fastidio?

«Mi dà un fastidio insopportabile che qualcuno sospetti che io abbia fatto questo o quel servizio per fare un piacere alla destra o alla sinistra. Preferisco che pensino che sono una bastarda. Ma che possa essere strumento di qualcuno, no, questo no».

Magari a tua insaputa...

«Ma dai!».

A Stefano Lorenzetto, del Giornale, raccontasti di aver provato «le più grandi antipatie per uomini di sinistra» spiegando che «sono stupidi»: perché?

«Per queste cose qua. Ti telefonano: "Ma come, non me lo sarei mai aspettato da voi!". Cosa vuol dire "da voi"? In tutti questi anni abbiamo mostrato di non guardare in faccia nessuno. Nessuno».

Esempio, l'inchiesta su Di Pietro.

«Appunto».

Visto che potevi essere in lizza, come ti sono sembrate le elezioni per il Quirinale?

«Faccio fatica a trovare le parole adatte. Le hanno già usate tutte».

Hai la tentazione di pensare che un po' di questi politici siano perfino peggiori di come sono stati descritti?

«Sì. Sono interessati a loro stessi. È una battaglia per il posto. Quello che sono lo hanno già dimostrato. È ora che vadano a casa. E non vogliono andarci. Tutto quello che fanno, in troppi, lo fanno solo per restare attaccati lì».

Ce l'ha, qualche amico politico?

«Dici amico personale?».

Sì.

«Non mi pare. Ne conosco, ovvio. Ad alcuni do del tu. Con il sindaco di Bologna. O Franceschini. Ma li incontro solo per motivi di lavoro».

Napolitano se l'è presa anche con alcune campagne di stampa particolarmente sguaiate.

«Non c'è dubbio che ci siano dei giornali molto schierati che non fanno cronaca ma comizi. Ma qui il nodo è la cultura profonda di questo Paese. Se l'informazione è così schierata è difficile avere la percezione della "verità". Questa forse è la nostra maggior colpa».

Fatto sta che, per quanto critichi alcuni aspetti del giornalismo, questo è quello che vuoi fare.

«Certo. Vorrei poter rinascere per rifare esattamente quello che ho fatto».

C'è qualche inchiesta che ti dispiace non aver fatto?

«Forse sui sindacati. Ne abbiamo parlato, si capisce. Ma non come avrei voluto...».

Tema incandescente: ci si scotta?

«Non è che avrei paura di scottarmi. Ma si tratta di un tema così complesso... È un mondo dove è elevato il rischio di sporcarne la parte buona e di non riuscire a essere abbastanza duri con la parte cattiva».

V-DAY PER TUTTI.

Il V-Day di Belle Grillo è diventato argomento di discussione nazionale. A tale proposito, riceviamo e pubblichiamo un'opinione di Antonio Giangrande. Combattendo le mafie e le illegalità, con la cognizione di causa acquisita e con le ritorsioni subite, posso affermare: "il sistema Italia" è marcio in tutte le sue componenti sociali ed istituzionali, nessuna esclusa. Alle denunce penali presentate da giurista è conseguito ingiustamente il reato di calunnia e sempre l'insabbiamento giudiziario. Agli articoli di denuncia redatti da pubblicista è conseguito il reato di diffamazione e di violazione della privacy dei delinquenti. Agli articoli di denuncia redatti da giornalista è conseguito il reato di violazione del segreto istruttorio, quando la notizia non era passata sottobanco dall'ambiente giudiziario. Agli studi sociologici pubblicati da ricercatore è conseguito l'illecito civile del mancato compenso a titolo di diritto d'autore degli articoli di stampa citati. Nonostante tutti gli impedimenti citati, da mie e altre coraggiose inchieste giornalistiche e non giudiziarie, si è provato che i nostri parlamentari sono: pregiudicati, drogati, evasori fiscali, ignoranti, falsi, voltagabbana, vecchi, insabbiatori e puttanieri. Tenendo conto che il Parlamento è lo specchio della società civile italiana e che gli italiani hanno i rappresentanti che si meritano, a questo punto non farei una rivoluzione, che nessuno vuole, nemmeno la massa che prima ti applaude e poi ti lascia solo. A me basterebbe avere in Parlamento non solo tutori di lobby, caste e furbi, ma qualcuno che rappresentasse, veramente e non solo a parole, gli interessi e le aspettative dei disabili, dei disoccupati, dei carcerati e delle vittime del crimine. A me basterebbe che i partiti non fossero proprietà occulta o palese di qualcuno, ma veri strumenti di emancipazione sociale ed economica con perenne ricambio generazionale di competenze. Quindi, il "V. Day", va dedicato a tutti o a nessuno.

IL DELITTO DI SARAH SCAZZI: PROCESSO AI MISSERI; PROCESSO ALL’ITALIA.

ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

«Giusto processo in Italia. E’ solo una stronzata. E l’intercalare rende bene l’idea sull’indignazione dei giuristi con un po’ di dignità. A Taranto ci hanno messo 6 giorni per accogliere pari pari le richieste dell’accusa. Ufficio della Procura di cui la presidente Trunfio ne faceva parte. Tutti abbiamo diritto al Giusto Processo, ma a Taranto tale diritto è negato. Sabrina Misseri e Cosima Serrano colpevoli del delitto? Forse sì e forse no. Ma anche loro meritano un giusto processo. Per la morte di Sarah Scazzi una sentenza di condanna per tutti gli imputati accolta da un’Italia plaudente. E’ una vergogna. E’ disumano ed incivile rallegrarsi per le disgrazie altrui. Una sentenza di condanna così come da me ampiamente prevista anche per l’appello. Previsione pubblicata sui giornali in tempi non sospetti. E non poteva essere altrimenti. Una trappola strategica ordita dall’accusa. I Giudici sono stati obbligati ad emettere sentenza di condanna. Al contrario ci sarebbe stato il paradosso di non aver avuto nessun colpevole per quel delitto, essendo stato estromesso Michele Misseri dall’accusa di omicidio. Con un’assoluzione e senza responsabili del delitto la Procura di Taranto in Italia avrebbe fatto ridere pure i polli. Una sentenza emessa dal popolo italiano e non “in nome del popolo italiano”. Un popolo che ha giudicato non solo i protagonisti, ma tutta una comunità. Un popolo plasmato da media morbosi e gossippari. Nei film la trama ed il regista ci fanno sapere chi è l’assassino, che la polizia ed il giudice non conosce. Se il colpevole viene assolto o non indagato perché non ci sono prove, lo spettatore ci rimane male. Eppure, attraverso i comportamenti ritenuti corretti da parte dei protagonisti del film, la morale è chiara. Niente prove, niente condanna. La morte di Sarah Scazzi è realtà. Come in un film i media morbosi ci hanno indotto a credere, convincendoci, che Sabrina Misseri e Cosima Serrano fossero le colpevoli. Potrebbero esserlo, nulla è escluso, ma dobbiamo farcene una ragione: non ci sono prove. Indizi contestabili, sì, ma prove niente. Addirittura per Cosima meno di nulla. L’art. 533, primo comma, c.p.p. impone il principio di Diritto per cui si condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Questo perché in un paese civile meglio un reo in libertà, che un innocente in galera. E, a quanto pare, l’Italia pur essendo la culla del diritto, non figura tra i paesi civili.»

Intervista esclusiva al dr Antonio Giangrande, avetranese doc.  Egli, avendo vissuto la storia del delitto di Sarah Scazzi sin dall’inizio, conosce bene fatti e persone, protagonisti della vicenda. Corso degli eventi seguiti e documentati sin dal principio in un libro e con video. Un punto di vista interessante ed alternativo, sicuramente non omologato. Un personaggio che non si fa certo intimorire dalla magistratura e dall’avvocatura e che bistratta quell’informazione corrotta culturalmente. Per conoscerlo meglio basta andare su www.controtuttelemafie.it.   

Dr Antonio Giangrande sembra sicuro di quello che dice.

«Via Poma, Garlasco, Perugia, il caso Yara Gambirasio. I casi più celebri. Orrori senza fine e quando, per caso, il colpevole salta fuori, si scopre che la soluzione era a portata di mano, quasi banale, e perfino ovvia: come nella vicenda dell'Olgiata con il maggiordomo filippino. E invece la nostra giustizia e i nostri apparati investigativi continuano, spesso e volentieri, a perdersi dietro congetture dietrologiche e teoremi labirintici, ma soprattutto le troppe inchieste finite in nulla e i troppi processi impantanati. Gli esperti arrivano tardi, quando le prove sono già state compromesse, contaminate, sprecate. Polizia e carabinieri sono spesso in disaccordo fra di loro, secondo una trita consuetudine centenaria, e la polizia giudiziaria esplora le piste possibili con il guinzaglio corto impostole dalla legge che le ha messo addosso il collare della dipendenza dalla magistratura. Per restare sulla cronaca: da una parte c’è Michele Misseri, difeso dagli avvocati Luca Latanza da Taranto e Fabrizio Gallo da Roma. Quest’ultimo che accusa a Quarto Grado del 19 aprile 2013 il primo avvocato di Misseri, Daniele Galoppa, di essere stato ripreso dal GIP perché suggeriva a Michele Misseri le risposte che accusavano la figlia Sabrina in sede di Incidente Probatorio. Il contadino di Avetrana che si dichiara colpevole del delitto e della soppressione del corpo della nipote, non risparmia dichiarazioni e interviste ai vari corrispondenti delle testate televisive nazionali che presidiano costantemente la villa di via Deledda. In una di queste, al Graffio di Telenorba, prima ha spiegato per l’ennesima volta le modalità del delitto e poi ha mostrato la valigia già pronta per quando sarà trasferito in carcere al posto – così lui spera fino in Cassazione – della figlia e di sua moglie. Dall’altra parte, dopo aver rispedito alla Corte d'Appello il processo sul delitto di Meredith Kercher, la ragazza inglese assassinata a Perugia nella notte tra il primo e il due novembre 2007, la Cassazione ha annullato anche la sentenza di assoluzione di Alberto Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto il 13 agosto 2007 a Garlasco (in provincia di Pavia). Da quando Chiara Poggi venne uccisa e ritrovata senza vita il 13 agosto del 2007 nella sua casa di Garlasco, errori soprattutto nelle prime 24 ore ci sono stati. Così come a Perugia; così come ad Avetrana. Innanzitutto troppe persone sono entrate nella casa, inquinando la scena del crimine. Poi il primo interrogatorio di Alberto, che poteva essere determinante, è stato condotto prima da un maresciallo dei CC, poi interrotto, e continuato da un Capitano arrivato più tardi. Non è stata cercata immediatamente l'arma del delitto. E' stato acceso e spento troppe volte il pc di Alberto, che, per la Procura, doveva essere la prova regina. Non sono state sequestrate subito le famose scarpe di Alberto, né la bicicletta. Non è stato fatto un sopralluogo a casa sua o nell'officina del padre dove poteva nascondersi l'arma del delitto. I cellulari di alcune persone legate ai due sono stati messi sotto controllo solo dopo mesi e non immediatamente. Tutto questo davanti ad una Procura che è parsa inadeguata fin dal principio come gli investigatori. Perché solo con la parola "inadeguatezza" si può spiegare il fatto che nella casa sotto sequestro e con la "scena del crimine" ancora da analizzare (lo ricordiamo era quasi ferragosto e persino la scientifica era in ferie) venne lasciato libero di circolare il gatto di casa e qualcuno si è pure permesso di fumare, lasciare cenere sul pavimento, calpestare tracce ematiche. Il 18 aprile 2013 la Cassazione ha conferma questi dubbi ed ha deciso che il procedimento va rifatto per questioni di "metodo". L'accusa chiede la condanna a 30 di reclusione. Diversi gli indizi raccolti contro l'ex fidanzato: le scarpe “candide”, i pedali della sua bicicletta con tracce ematiche della vittima, le sue impronte miste al Dna di Chiara trovate sull'erogatore del sapone nel bagno dove l'assassino si è lavato. Nessun alibi, secondo l'accusa, per l'ex fidanzato: non era al computer mentre Chiara veniva uccisa. Innocente al di là di ogni ragionevole dubbio in primo grado ed in Appello. A questo punto mi si deve spiegare una cosa: a chi dare ragione? Ai giudici che assolvono od a quelli che condannano? Perugia, Garlasco, Avetrana: il ragionevole dubbio per motivare l’assoluzione se non sovviene in questi casi, allora quando?»

Ma chi è Antonio Giangrande. Nessuno da Avetrana ha mai parlato di lui, né, tantomeno, tv e giornali hanno richiesto i suoi commenti.

«Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Il fatto che nessuno mi ha mai interpellato sul delitto di Sarah Scazzi, nonostante che tutti ad Avetrana abbiano avuto l’occasione per farsi intervistare (alla faccia dell’omertà), non me ne cruccio, probabilmente i giornalisti non ritengono interessante il personaggio e le sue opinioni. D’altronde mi vanto proprio di essere diverso per i miei convincimenti e per il mio spirito libero e responsabile. Di parere diverso dai miei detrattori sono i miei sostenitori, che, in centinaia di migliaia, invece, seguono i miei video e leggono i miei testi,  ritenendoli importanti, alternativi e fondamentali per farsi un’opinione corretta sui fatti. Oltretutto su internet seguono più me e le mie inchieste che il lavoro di tante redazioni stereotipate e finanziate da una certa politica, che, pur pensando di essere unici, navigano nel mare dell’informazione insieme a migliaia di simili. Mi da fastidio solo una cosa: snobbare me può essere giustificato dalla codardia, ma ignorare l’associazione antimafia che rappresento, a tutto vantaggio di altri sodalizi ben sponsorizzati politicamente, descrive bene la professionalità di certi giornalisti».

Che coincidenza: nascere ad Avetrana, il paese dei Misseri, e vivere di luce riflessa!

«Ognuno di noi è nato in qualche posto che sicuramente non era voluto dal nascituro. Poi sta a noi rendere quel posto dove siamo nati degno di essere vissuto, né quel posto può essere l’alibi dei nostri fallimenti. Per dire: Chi nasce a Roma non diventa automaticamente Presidente della Repubblica. Io vivo in questa vita con dei compagni di viaggio. Qualcuno scenderà  dal treno prima, qualcun altro dopo di me. Scenderanno comunque tutti dal treno della vita, anche coloro che saliranno dopo, così come hanno fatto quelli che son saliti prima. E non osta il fatto di avere nobili natali.  Sono le fasi della vita. Io faccio di tutto per tutelare e onorare il posto dove sono nato. Località né peggio, né meglio di altre. Non vivo sotto i lampioni, per cui non rifletto né la mia, né l’altrui luce. Anche perché ognuno di noi vive il suo spazio e con il web questo mio spazio è il mondo. Solo gli ignoranti sminuiscono la forza che la mente ha nel superare lo spazio ed il tempo. Il miglior riconoscimento ricevuto è il ringraziamento da parte del Commissario Governativo per le iniziative contro la lotta alla mafia e all’usura, il quale mi ha invitato, anche, a partecipare all’incontro tenuto a Napoli con i Prefetti del Sud Italia per parlare di Sicurezza, mafia ed usura. Ciò significa considerarmi degno interlocutore, mentre le Autorità locali mi ignorano, mi emarginano, mi perseguitano. Appunto. L’avv. Santo De Prezzo, di Avetrana, conferma in una sua denuncia (in seguito alla quale per me è scaturita assoluzione più ampia perché il fatto non sussiste e di cui si è chiesto conto a lui ed anche nei confronti dei magistrati che l’hanno agevolata), che il Presidente dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie, Dr Antonio Giangrande, è considerato dalle Forze dell’Ordine di Avetrana un mitomane calunniatore. Tale affermazione spiega bene il perché degli insabbiamenti e le archiviazioni che seguivano le mie denunce, sol perché si denunciavano i reati degli intoccabili. Spiega bene altresì, l’ostracismo dei media. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.»

Dr Antonio Giangrande, con le sue opere letterarie, la sua web tv ed i suoi canali youtube ha voluto documentare in testi ed in video pregi e difetti della società italiana. Ma chi sono gli italiani?

«Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.»

A scrivere delle malefatte dei poteri forti a lei cosa ne consegue?

«Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia l’antimafia è una liturgia finanziata dallo Stato in cui vi è l’assoluto monopolio in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. La sinistra, i media, gli insegnanti ed i magistrati artatamente han fatto di Don Luigi Ciotti e di Roberto Saviano le icone a cui fare riferimento quando ci si deve riempir la bocca con il termine “legalità”. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me è stato impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo. Altra segnalazione di una mia battaglia ventennale riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti. Mi hanno condannato all’indigenza. Tenuto conto che i miei libri si leggono gratuitamente, da scrittore non ho nessun introito. A dover scrivere la verità, purtroppo, non posso essere amico di magistrati, avvocati e giornalisti. Essere amico su chi avrei da scrivere, inficerebbe la mia imparzialità di giudizio. Avendo avuto l’occasione di svolgere l’attività forense per 6 anni senza abilitazione ma con il patrocinio legale, ho sì vinto tutte le cause, ma si sono imbattuto in tutto quello che è più malsano del mondo della giustizia: la corruzione morale e materiale delle toghe, siano essi magistrati od avvocati. E nessuno ne parla. Io ne parlo e ne subisco le ritorsioni. Non mi abilitano e sono investito da processi per diffamazione. Sempre assolto, ma per esserlo sono stato costretto a denunciare e ricusare il giudice naturale. Il giudice Rita Romano di Taranto, tra le altre cose, ha assolto chi mi aveva aggredito in casa mia con l’intento di far male a me, a mia moglie ed ai miei figli, affinchè non presenziassi ad un’udienza in cui difendevo la moglie dell’aggressore, vittima di stalking. Le prove dell’aggressione non sono state prodotte dalla procura, né ammesse dal giudice. A questo punto l’assoluzione dell’aggressore fu così motivata: “la testimonianza di Antonio Giangrande non possa ritenersi pienamente attendibile”. La Procura di Taranto chiede ed ottiene l’archiviazione delle denunce contro loro stessi. La Procura di Potenza archivia tutte le mie denunce contro i magistrati di Taranto ed accoglie tutte le denunce dei loro colleghi tarantini contro di me per quanto scrivo su quello che succede a Taranto. Un modo di tacitarmi per quanto scrivo anche su quello che succede  Potenza. In virtù della mia esperienza il mio assunto è: la mafia vien dall’alto!»    

Perché parla di cortocircuito Giustizia-Informazione?

«I giornalisti ci hanno inculcato la convinzione della santità, della infallibilità e della intoccabilità della magistratura. Il mondo della comunicazione e dell’informazione fa passare il principio per il quale i magistrati, preparati, competenti ed equilibrati, non sbagliano quasi mai e per di più, quando lo fanno, non devono essere criticati, in quanto le colpe delle disfunzioni giudiziarie vanno ricondotte sempre e comunque al sistema, quindi alla politica. Insomma: i magistrati sono di un’altra razza. Gli avvocati, anche per colpa della propria viltà, anziché imprimere l’assioma della indispensabilità e della parità della loro funzione, sono fatti passare per comprimari. Agli occhi della gente incarnano coloro che con sotterfugi e raggiri fanno uscire i rei dalla galera. Il dogma che dovrebbe valere per tutti i Magistrati e tutti i Giornalisti è: non avere ideologia, né amici. Questo per dare un’apparenza di imparzialità. Invece l’ideologia non gli manca, né tantomeno gli amici. Ed ottimi amici, spesso, sono proprio tra di loro, i Magistrati con i Magistrati ed i Magistrati con i Giornalisti, in un rapporto di reciproca mutualità. Amici ed ideologia, a iosa, spesso in un rapporto vicendevole: eccome! I magistrati ed i giornalisti hanno un ego smisurato che li rende autoreferenziali, presuntuosi ed arroganti, dimenticando che il potere, che gli uni e gli altri hanno, è stato assunto in virtù di un concorso pubblico, come può essere quello italiano. I Magistrati ed i Giornalisti non vengono da Marte, pertanto senza natali e casato e con un DNA differente dal resto dei cittadini. I primi, quindi, non sono la voce della Giustizia, i secondi non sono la voce della Verità. Tutto questo crea un vulnus all’esistenza di tutti noi. Prova ne è la sorte di Pietro D’Amico. Si è tolto la vita assistito dal personale di una clinica Svizzera. Pietro D'Amico era un magistrato per bene, una «toga buona» e fuori dai giochi di potere. Messo in croce sui giornali per un sospetto suffragato da indizi labili. Pietro D'Amico, autore di saggi di Filosofia del Diritto e Diritto romano adottati come libri di testo da alcune università, era stato indagato, insieme ad altri magistrati dalla Procura di Salerno, per una fuga di notizia per la perquisizione di un parlamentare nell'ambito dell'inchiesta Poseidone sui presunti illeciti nella gestione dei fondi per la depurazione. Ne era uscito indenne, ma totalmente disgustato. Aveva deciso di abbandonare la toga commentando: "Questa magistratura non mi merita". Tutto ciò fa pensare una cosa: se è successo a lui, figuriamoci cosa succede ai poveri cristi. Non esiste un solo Paese democratico e moderno nel quale uno dei poteri che regge l’architettura dello Stato è sottratto a qualsiasi controllo e sul quale vige una sorta di impunità che si è trasformata, negli anni, in un delirio di onnipotenza senza strumenti di comparazione nell’intero mondo occidentale; uno Stato nello Stato, regolato da leggi autonome, sottratto ai più elementari controlli democratici e autoimmunizzato contro ogni critica. Guai a chi si permette di criticare un magistrato, l’operato di un giudice o la conduzione di un’indagine: il rischio automatico è quello di attirare gli strali dei “pasdaran” del giustizialismo con ondate di fango mediatico; gli stessi per i quali un magistrato in esercizio della sua funzione, e magari nel tempo libero, può criticare liberamente lo Stato suo datore di lavoro, dare giudizi estremi sul Parlamento che vota le leggi (che un magistrato dovrebbe applicare e che invece vorrebbe lui dettare) e ridurre il tutto ad un mero esercizio di presunta democrazia, mentre se è lo Stato o il Parlamento, o anche un semplice cittadino, a criticare un magistrato si grida al complotto, o, addirittura, si è condannati per diffamazione dagli stessi magistrati criticati. Ma si sa. La coerenza è il segno distintivo dei limitati encefalici.»

Perché tra le sue opere a carattere generale ha scritto il libro su una vicenda particolare “SARAH SCAZZI, QUELLO CHE NON SI OSA DIRE. IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE”?

«Avetrana, e per questo non si ha alcuna spiegazione logica, stranamente ed a differenza di altre sparizioni di persone, sin dal primo giorno della scomparsa di Sarah Scazzi è stata oggetto di attenzione mediatica morbosa. Sin dal primo momento è stata invasa dai camion con le paraboliche tv, come se una regia occulta avesse predisposto l’evento ed avesse previsto l’imponderabile, misterioso e drammatico seguito. Sin da subito sono arrivati i migliori consulenti forensi e gli eccelsi avvocati dai fori più importanti con la conseguente domanda logica: chi li paga? Per propaganda e pubblicità: chissà? Sono calati avvocati propostisi (vietato dalla deontologia; divieto che pare valga solo per l’avv. Vito Russo di Taranto), o avvocati consigliati da parenti od amici interessati. Solo per gli imputati minori si son visti avvocati riconducibili a conoscenza personale. Si son visti, addirittura, avvocati che si sono arrogati la funzione di pubblici ministeri: la ricerca della verità. In questo coinvolgendo i consulenti salottieri che alla tv, in programmi che dovevano trasparire imparzialità, invece, propinavano la loro convinzione personale ospiti di conduttrici compiacenti. Poi alle accuse di Michele di essere stato plagiato rispondevano: io non c’ero! Si son visti giornalisti vagare per Avetrana intenti ad intervistare appositamente ignoranti nullafacenti nei bar, con l’intento di estorcere delle considerazioni dotte. Si son visti giornalisti aspiranti scrittori, con il sogno di scrivere sul delitto di Avetrana un esclusivo Best Sellers, arrogandosi la elitaria genitura della verità. Generalmente da tutta Italia mi si chiede aiuto, essendo riconosciuta la mia competenza per aver seguito tutti i casi giudiziari analoghi. Ad Avetrana, da avetranese, sono stato tra i primi ad offrire la mia consulenza gratuita, dopo aver segnalato alle autorità alcuni personaggi che gironzolavano intorno alla famiglia Scazzi. Personaggi che hanno conosciuto i fatti dall’interno della famiglia nell’imminenza dell’evento, ma che non sono stati mai chiamati a testimoniare. Con Concetta e Giacomo Scazzi vi è stato un’incontro, qualche consiglio. Presente era Cosima e Valentina. Le ho viste affiatate con Concetta. Successivamente, con l’arrivo degli avvocati di Perugia (in quella fase non vi era alcun assoluto bisogno di assistenza legale) si era sottoposti al loro vaglio per parlare con la Famiglia Scazzi. Si è erto un muro. Da allora nessun incontro vi è più stato, né nessun grazie si è dato alle associazioni avetranesi che si sono attivate per la ricerca di Sarah e per la fiaccolata in suo onore. Le luci della ribalta sono un’illusione anche nel dolore, in special modo se c’è qualcuno che illude. In quei frangenti caotici si veniva a formare la trama intrigante, oscura, imperscrutabile e misteriosa di un film più che “giallo”. “Giallo” è la definizione italiana, poiché negli Stati Uniti non esiste questa parola per definire lo specifico genere cinematografico che va sotto i nominativi di “crime story”, “noir”, “mistery” e “thriller”. Avetrana è diventata, suo malgrado, l’ombelico del mondo. E’ conosciuta ormai in tutto il pianeta. Tutti parlano di Avetrana, degli avetranesi, degli Scazzi, dei Serrano e dei Misseri. E tutte le altre località se ne dovranno fare una ragione. Eppure tanta notorietà (subita) provoca immenso rancore. La sventura altrui rappresenta per l’invidioso ciò che la cioccolata è per il goloso e il sesso per il lussurioso. Il nostro cervello, infatti, tratta le esperienze sociali e quelle fisiche in modo più simile di quanto si pensi. Chi ha sete chiede acqua. Chi ha freddo, un riparo. Chi non è soddisfatto di se stesso anela a sentirsi migliore attraverso la svalutazione degli altri. Studi scientifici dimostrano come spesso l’invidioso ha la sensazione di non poter raggiungere con le proprie forze ciò che vorrebbe per sé e per riportare l’equilibrio nel confronto sociale deve passare per la distruzione materiale o simbolica dell’altro. Le ingiustizie sono ovunque anche nella nostra vita: c’è chi nasce ricco e ha la strada spianata, chi lo diventa con la spregiudicatezza, chi detiene il potere o posti di responsabilità pubblica senza averne le capacità, chi non paga le tasse, chi lavora meno di noi e ottiene di più, chi non ha arte ne parte, ma ha le luci della ribalta (come i personaggi del gossip o, come nel nostro caso, i protagonisti delle cronache giudiziarie). Infastidirsi è normale, soprattutto se il fortunato ci assomiglia: magari abita nell’appartamento vicino, ha fatto la nostra stessa scuola, ha scelto la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda quello che avremmo potuto essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato la nostra comunità di riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero di confronti sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né le pene. Per questo si odia tanto Avetrana e Sabrina Misseri. Loro malgrado hanno un successo planetario che altri (gli invidiosi) vorrebbero per sé, finanche per le stesse ragioni, ma non lo possono mai avere. Allora scatta il meccanismo di delegittimazione e di denigrazione, fino ad arrivare al vilipendio di una comunità. Quando si parla del delitto di Sarah Scazzi, non si parla del danno che il sistema banale, superficiale e poco professionale dell’informazione e della comunicazione ha arrecato alla comunità colpita. State sicuri: nessuno vuol parlarne e nemmeno può. Bisogna essere Avetranesi con dignità ed orgoglio per sentire sopra la propria pelle il disprezzo di gente stupida ed ignorante che quando sa che tu sei di Avetrana nella migliore delle ipotesi sghignazza: “ahhaaaa…., ahhaaaa…”. Oppure di gente cattiva che lancia epiteti e che ti apostrofa: “ahhaa…, siete quelli che hanno ucciso Sarah”; “ahhaaa…, il paese omertoso e mafioso che ha ucciso la bambina”. Come al solito, poi, in questa Italia dove il migliore c’ha la rogna, te lo dice gente che a parlar di loro o della loro comunità dovrebbero mettersi la maschera in faccia per coprirsi per la vergogna. Certo che ad Avetrana vi è un inspiegabile accanimento mediatico. Finanche lo sport ha parlato di Sarah Scazzi. Un servizio della “Domenica Sportiva” della Rai il 7 aprile 2013 parla, sì, di calcio ad Avetrana, ma (pure qui con retro pensiero) evidenzia anche il malessere che comporta l’essere di Avetrana in trasferta. Ma noi avetranesi ad  aver grande intelletto e ad insegnare cultura adottiamo il celebre verso della Divina Commedia del sommo poeta Dante Alighieri “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. E proprio per passare oltre, il mio compito è quello di svelare il corto circuito informazione-giustizia. In questa Italia pregna di banalità e pregiudizi, frutto di ignoranza e disinformazione, e a volte di malafede, ognuno di noi dovrebbe chiedersi. La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!" «Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio. «Dovete sapere – dice a un certo punto Salvatore Borsellino al convegno a Bari per la presentazione del libro di Giuseppe Ayala - che mio fratello Paolo dopo il 1° luglio 1992 chiese varie volte al Procuratore della Repubblica di Caltanisetta di essere ascoltato come testimone per riferire circostanze decisive per l'accertamento della verità della strage di Capaci, in cui perirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta, ma questi, il Procuratore della Repubblica di Caltanisetta, si rifiutò di ascoltarlo.» Al che Giuseppe Ayala, sorridendo, ha commentato: “Eh si! In effetti c’è anche questa!”. Sono piene le aule dei Tribunali di tesi accusatorie, spesso strampalate dei PM, imbastite in modo a dir poco criticabile, poi accolte dai loro colleghi giudici. Il caso di Salvatore Gallo è di quelli destinati a passare alla storia degli errori giudiziari più clamorosi. Fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del fratello Paolo che in realtà, sette anni dopo, si ripresenta vivo e vegeto. Ed ancora la Iena Mauro Casciari, che ha preso a cuore la vicenda della morte di Giuseppe Uva, ha ricevuto una querela per diffamazione per un servizio andato in onda ad ottobre nel 2011, che conteneva un'intervista a Lucia Uva, la sorella di Giuseppe Uva anch'essa querelata per diffamazione. Giuseppe Uva il 43enne morto a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto in caserma a Varese per alcune ore. Un’altra “vittima di Stato”, come si denuncia da anni, come Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi. Lucia Uva chiede solo giustizia e si ribella contro gli insabbiamenti delle denunce. Stessa sorte, querela per diffamazione, è toccata alla mamma di Aldrovandi, come stessa sorte è toccata ad Alfonso Frassanito, padre adottivo di Carmela, la ragazzina di Taranto morta perché stuprata e non creduta dai magistrati. In Italia devi subire e devi tacere. Da sempre, inascoltato, combatto per istituire il “Difensore Civico Giudiziario” con i poteri dei magistrati, ma senza essere uno di loro. Solo nel 2012 l’Italia ha aggiunto un nuovo record alla lista di primati negativi collezionati nel tempo a Strasburgo sul fronte della giustizia. Dopo essersi aggiudicata per anni la maglia nera come Paese, tra i 47 del Consiglio d’Europa, con il più alto numero di sentenze della Corte per i diritti dell’uomo non eseguite (arrivato ora a quota 2569, dietro di noi ci sono la Turchia con 1780 sentenze non eseguite e la Russia con 1087), l’Italia è diventata anche lo Stato che spende di più per indennizzare i propri cittadini per le violazioni dei diritti umani subite: ben 120 milioni di euro. Una cifra pari a circa cinque volte il contributo annuo versato al Consiglio d’Europa e più del doppio di quanto nel 2012 hanno pagato complessivamente, come indennizzi, tutti gli altri Stati membri dell’organizzazione. Senza parlare poi di quegli errori giudiziari che costano come una manovra. Indagini approssimative. Magistrati ed avvocati che sbagliano. Innocenti in cella. Enormi risarcimenti da pagare. Uno spreco umano ed economico insostenibile, che arriva a costare allo Stato diverse decine di milioni di euro ogni anno. L'ultimo, in arrivo, l'indennizzo per gli accusati della strage di via d'Amelio, ingiustamente condannati all'ergastolo e ora liberi dopo 18 anni di carcere in regime di 41bis. C'è già un altro cittadino italiano pronto a entrare in una classifica "poco onorevole" per il nostro Stato: si chiama Raniero Busco e ha 46 anni, assolto dalla condanna a 24 anni per l'omicidio della sua ex fidanzata, Simonetta Cesaroni, la ragazza del "delitto di via Poma" avvenuto nella capitale il 7 agosto 1990. Il caso di Busco, difeso proprio da Franco Coppi difensore anche di Sabrina Misseri nel processo sul delitto di Sara Scazzi, rientrerebbe nel nutrito elenco degli errori giudiziari. Una realtà che pesa, anche sotto il profilo economico, sull'amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Solo nel 2011, lo Stato ha pagato 46 milioni di euro per ingiuste detenzioni o errori giudiziari. L'ultima vicenda di questo tipo, forse la più eclatante nella storia della Repubblica, è quella dei sette uomini che erano stati condannati come autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta, il 19 luglio 1992. Nell'autunno 2012, sono stati liberati: dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi tra l'altro in regime di 41 bis. La strage non era cosa loro. Il risarcimento? È ancora da quantificare. Il 13 febbraio 2011, invece, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. La cosa sconcertante è che, nel 1977, fu ucciso a Ficuzza (Palermo) anche l'ufficiale che aveva condotto quell'inchiesta con modi tutt'altro che ortodossi, il colonnello Giuseppe Russo: l'indagine sul suo omicidio ha prodotto un altro errore. Per la sua morte, infatti, sono stati condannati tre pastori e, solo vent'anni dopo, si è scoperto che esecutori e mandanti erano stati invece i Corleonesi. Ma il caso forse più paradossale di abbaglio giudiziario risale al 2005. Ne fu vittima Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini: condannata a quattro anni con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Ma quanti sono, in Italia, gli errori giudiziari? Quante persone hanno scontato, da innocenti, anni e anni di carcere? Quante vite e quante famiglie sono state distrutte? "Una statistica ufficiale, ministeriale, ci dice che tra il 2003 e il 2007 ci sono stati circa ventimila errori giudiziari, un numero enorme del quale non si parla mai, se non nei casi che fanno notizia. Ci sono poi vicende famose, e sconcertanti, rilanciate ogni volta che si scoprono nuovi episodi: dal caso Tortora al caso Barillà. Ottomila richieste di risarcimento negli ultimi 10 anni. Le ingiuste detenzioni e l'enorme costo economico che comportano sono ormai al centro di una battaglia politico-legale avviata dalle associazioni contro gli errori giudiziari. Analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, Eurispes e Unione delle Camere penali italiane hanno rilevato che sarebbero cinque milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Bisogna che qualcuno dica alla gente che quello che succede ad Avetrana succede in tutta Italia. Tante le similitudini con i fatti di cronaca riportati dai media. Informazione e giustizia. Simbiosi cinica e bara, sadismo allo stato puro. Parliamo di Franco Califano. È stato arrestato due volte per cocaina, una volta nell’ambito del caso Chiari-Luttazzi (una serie di personaggi dello spettacolo messi in cella per droga nel 1970 e poi tutti assolti), un’altra all’interno del caso Tortora (l’inchiesta della magistratura napoletana che accusò falsamente il popolare presentatore di essere un boss della Camorra, uno dei più grandi scandali giudiziari degli anni Ottanta). In tutto s’è fatto per questo tre anni e mezzo di carcere. Suo commento: «Negli anni Settanta sono finito nel processo di Walter Chiari, negli anni Ottanta in quello con Tortora: possibile che alla mia età, con la mia carriera non me ne sono meritato uno tutto per me?». Stranamente, o forse no - scrive Valter Vecellio su “L’Opinione” - sarebbe stato strano il contrario, quasi tutti i giornali (non più di un paio le eccezioni), ricordando Franco Califano, hanno fatto cenno alle disavventure giudiziarie del “Califfo” limitandole alla vicenda che portò in carcere Walter Chiari e Lelio Luttazzi, per uso e spaccio di droga. E anche su questo si potrebbe dire: che ogni volta che richiama in causa Luttazzi si dovrebbe aver cura di ricordare che “el can de Trieste” era assolutamente estraneo ai fatti contestati, solo tardivamente venne riconosciuto innocente, patì una lunga e ingiusta carcerazione, e da quell’esperienza ne uscì schiantato. Luttazzi a parte, Califano venne coinvolto, ficcato a forza è il caso di dire, nella vicenda che in precedenza aveva portato in carcere Enzo Tortora, nell’ambito di quell’inchiesta che doveva essere il “venerdì nero della camorra” e fu invece un venerdì (e non solo un venerdì) nerissimo per la giustizia italiana. Califano ci raccontò che ad accusarlo erano due "pentiti": Pasquale D' Amico e Gianni Melluso, "cha-cha". Ma D' Amico poi aveva ritrattato le sue accuse. Melluso, invece le aveva reiterate, raccontando di aver consegnato droga a Califano in un paio di occasioni: nel sottoscala del "Club 84", vicino a via Veneto, a Roma; e successivamente nell'abitazione del cantante a corso Francia, sempre a Roma. Solo che nel "Club 84" il sottoscala non c’era; e Califano in vita sua non ha mai abitato a corso Francia. Infine Califano, in compagnia di camorristi, avrebbe effettuato un viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a bordo di una Citroen o di una Maserati di sua proprietà; automobili che Califano non ha mai posseduto. Califano ci raccontò che le accuse nei suoi confronti erano solo quelle di cui s’è fatto cenno; e che non si siano svolte indagini e accertamenti per verificare come stavano le cose non sorprende col senno di poi, e a ricordare come l’inchiesta in generale venne condotta. E sulle modalità investigative, può risultare illuminante un episodio in cui sono stato coinvolto. Anni fa, chi scrive venne convocato a palazzo di Giustizia di Roma, per chiarire – così si chiedeva da Napoli – come e perché in un servizio per il “Tg2”, “in concorso con pubblici ufficiali da identificare”, avevo rivelato «atti d’indagine secretati consistenti in stralci della deposizione resa in una caserma dei carabinieri dal pentito Gianni Melluso sulla vicenda Tortora». Ed ero effettivamente colpevole: avevo infatti raccontato che Melluso aveva ritrattato tutte le sue accuse; e che assieme a Giovanni Panico e Pasquale Barra aveva concordato tutto il castello di menzogne e calunnie; un segreto di Pulcinella, tutto era già stato pubblicato dal settimanale “Visto”; e il contenuto degli articoli anticipati e diffusi da “Ansa”, “Agenzia Italia” e “AdN Kronos”. Dunque, sotto inchiesta per aver ripreso notizie (vere) pubblicate da un settimanale e da agenzie di stampa. Evidentemente dava fastidio la diffusione in tv... Queste le indagini; e dato il modo di condurle, non poteva che finire in una assoluzione piena: per Tortora, per Califano, e per tantissimi di coloro che in quel blitz vennero coinvolti. Ma a prezzo di sofferenze indicibili e irrisarcibili. Indagini che la maggior parte dei cronisti spediti a Napoli, presero per buone, e furono pochi a vedere quello che poteva essere visto da tutti. È magra consolazione aver fatto parte di quei pochi; e non sorprende che questa vicenda la si preferisca occultare e ignorare. Ed ancora. Per i pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy, Stefano Cucchi «è morto di fame e di sete». "Tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi", ha accusato il pubblico ministero Vincenzo Barba. Che ha ricordato le difficoltà affrontate nel corso delle indagini a causa ''del clamore mediatico insopportabile'' e in particolare per proteggere quello che ritiene essere il testimone ''credibile'', l'immigrato Samura Yaya. "Abbiamo avuto l'esigenza di tutelarlo come fonte di prova - ha continuato Barba - A un giorno dall'incidente probatorio tutti hanno tentato di raggiungerlo, anche il senatore Stefano Pedica. Noi abbiamo dovuto fare una lotta impari per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e giornalistico, tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi. Il processo è stato difficile - ha detto il pm Barba - anche a causa di varie rappresentazioni dei fatti che sono state portate fuori dal processo. I mass media hanno influito sull'opinione pubblica. C'è chi ha voluto dare una rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo''. «Riteniamo inaccettabile e gravemente offensive le dichiarazioni del pm Barba sul conto di Stefano e di tutti noi - commenta la sorella Ilaria Cucchi - Continuo a chiedermi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. Non posso accettare che non venga riconosciuta la verità su quello che è successo a Stefano tutto il resto non mi interessa - ha aggiunto con gli occhi lucidi - La verità la sanno tutti. Io, speravo che entrasse anche nell'aula di giustizia e continuo ad avere fiducia nella Corte: ripongo in loro tutta la mia fiducia, perché ogni risposta che non sia coerente con quanto accaduto a Stefano, ogni risposta ipocrita noi non la possiamo accettare. L'atteggiamento che abbiamo notato oggi in aula è perfettamente coerente con quello che e stato l'atteggiamento della procura per tutta la durata del processo, tanto che spesso viene da chiedersi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. La responsabilità dei medici è assolutamente gravissima e innegabile, loro non sono più degni di indossare un camice, questo lo abbiamo sempre detto e continueremo a sostenerlo fino alla morte. Loro avrebbero potuto salvare mio fratello e non lo hanno fatto, si sono voltati dall'altra arte e non si può far finta di niente, come non si può far finta che Stefano sarebbe finito in quell'ospedale per cause che non c'entrano con il pestaggio. Non si può negare che Stefano fino a prima del suo arresto conduceva una vita assolutamente normale. Abbiamo discusso per anni con la procura della frattura di l3. Ora apprendo che si è concordemente riconosciuto che gli accertamenti ed i prelievi sono stati fatti sulla maggior parte della vertebra lasciando fuori proprio quella in discussione. In particolare i consulenti del Pm hanno prelevato tessuto osseo della vertebra nella parte opposta ed interna dove, guarda caso , vi era una vecchia frattura . Non solo, ma poi è emersa evidente un'altra frattura ad l4, cioè così vicina e sotto ad l3 da non poter non far pensare che entrambe siano state procurate a Stefano con un calcio od un colpo diretto proprio in quella zona. Tutti i medici che lo visitarono notarono segni evidenti e particolare dolore lamentato da mio fratello proprio lì. Gli stessi consulenti del Pm hanno fotografato abbondante sangue sui muscoli della stessa zona, che, visti al microscopio, risultano anche lacerati. Insomma la schiena di Stefano è massacrata di fratture e la procura procede per lesioni lievi. Ora, dopo aver detto che la frattura di l3 su cui i miei consulenti discutevano, era in realtà vecchia, mi aspetto che su quella di l4 si dica che se l'è procurata da morto. Siamo veramente stanchi di questo teatrino tragicomico». Ed ancora. La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia. A proposito del delitto di Sarah Scazzi e di Yara Gambirasio e gli autogol della giustizia e del giornalismo italiano. Vi ricordate il caso di Giusy Potenza, antesignano del delitto di Avetrana? Giusy Potenza viene uccisa a Manfredonia con una grossa pietra. Il suo corpo è ritrovato il pomeriggio successivo all'omicidio sulla scogliera, vicino allo stabilimento ex Enichem. In un bar del centro di Manfredonia Carlo Potenza, padre di Giusy, accoltella per vendetta Pasquale Magnini, padre di una delle ragazze arrestate con l'accusa di aver indotto Giusy alla prostituzione. Il suicidio di Grazia Rignanese madre di Giusy Potenza è l'ultimo episodio di un caso che ha sconvolto l'esistenza della famiglia Potenza e scosso la cittadina di Manfredonia, in provincia di Foggia. Il caso scuote la città del Gargano che viene assediata nei giorni successivi dalle tv nazionali e locali in cerca di risoluzioni per quello che diviene un caso di cronaca nazionale. È stato un periodo di tensione e terrore, quello che si è consumato a Manfredonia, sessantamila abitanti, una quarantina di chilometri da Foggia. Per mesi questa fetta del Gargano è stata sotto shock per la tragica fine di Giusy, uccisa a colpi di pietra da Giovanni Potenza, un pescatore di 27 anni, che 40 giorni dopo (il 23 dicembre 2004) venne arrestato dalla polizia e che confessò l'omicidio: l'uomo, un cugino del padre della ragazza, ha ammesso di aver colpito la vittima con una pietra perché tra loro c'era una relazione e lei minacciava di raccontare tutto a sua moglie se l'avesse lasciata. Il ricordo della povera Giusy è ancora vivo in tutta la comunità accusata a suo tempo di omertà come tutte le comunità che subiscono vicende analoghe. Una vicenda drammatica con molti colpi di scena seguitissima da stampa e tv. Speciali tv sono stati dedicati al caso dalla solita Rai Tre con il programma “Ombre sul giallo”, ideato, scritto e condotto da Franca Leosini. Entrano nell'inchiesta altre due ragazze: si tratta di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, che vengono arrestate con l'accusa di favoreggiamento e false dichiarazioni, oltre che di induzione e sfruttamento della prostituzione. Intanto l’8 ottobre 2011 per quel delitto il pianto liberatorio delle due amiche accompagna la lettura della sentenza del presidente della sezione “famiglia” della corte d’appello di Bari, che ribalta il verdetto di primo grado di condanna a 4 anni di carcere a testa per favoreggiamento della prostituzione emessa dal Tribunale di Foggia l’11 ottobre del 2007. Sabrina Santoro, 30 anni, e Filomena Rita (Floriana) Mangini di 25 anni, non hanno favorito la prostituzione di Giusy Potenza, la quattordicenne sipontina ammazzata a pietrate il 13 novembre del 2004 da un procugino con il quale aveva una relazione clandestina, che lei minacciava di rivelare se lui non avesse lasciato la moglie. Le due imputate sono state assolte per non aver commesso il fatto, dopo due ore di camera di consiglio; pg e parte civile chiedevano la conferma della condanna a 4 anni, la difesa l’assoluzione. Le ragazze accusate malamente in vario modo si rammaricano del fatto che i giornali e le tv pronti ad infierire con accanimento mediatico su di loro, nel momento in cui vi è stata per loro stesse una sentenza di assoluzione, omertosamente i medesimi giornalisti hanno censurato la notizia, tacitando gli errori dei magistrati. Sono loro a gridare con una testimonianza esclusiva al dr Antonio Giangrande, scrittore (autore anche del libro su Sarah Scazzi, già pubblicato sul web) e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. In sintesi il loro pensiero conferma un tema ricorrente identico a sé stesso: povero territorio e poveri protagonisti della vicenda, vittime sacrificali di un sistema mediatico che nell’orrore e nella persecuzione ha la sua linfa. Si inizia con uno strillio del citofono, con le forze dell’ordine che ti cercano. In quel momento ti casca il mondo addosso. E’ un uragano che ti investe. Ti scontri con procuratori della repubblica innamoratissimi della loro tesi di accusa, assecondati dal Tribunale della loro città e sostenuti da giornalisti che pendono dalla loro bocca o che si improvvisano investigatori. E l’opinione pubblica, influenzata dalla stampa, ti odia fino ad augurarti la morte. «Dalla sentenza che ha acclamato la nostra estraneità ai fatti, nessuno ci ha cercato per ristabilire la verità e per renderci la nostra dignità e la nostra reputazione. Chi è schiacciato dal tritasassi della giustizia, anche se innocente, è frantumato per sempre». E’ il pensiero di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, ma possono essere le affermazioni di migliaia di innocenti che da queste vicende ne sono usciti distrutti. Certo Giusy Potenza merita la nostra attenzione, ma non meritano forse analoga compassione le altre vittime di questa vicenda? Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini additate da tutti come “puttane” che hanno indotto Giusy alla prostituzione e accusate di essere state responsabili indirettamente della sua morte. Bene se nessuno lo fa, sarò io a ristabilire la verità e a dar voce a quelle vittime silenti, che oltraggiate dalla gogna mediatica, non sono mai oggetto di riabilitazione da parte di chi ha infangato il loro onore. Quei media approssimativi e cattivi che si nutrono delle disgrazie altrui. La verità si afferma dall’alto di un fatto: una sentenza definitiva di assoluzione. La verità tratta da un fatto e non dedotta da un opinione di un giornalista gossipparo. Il fenomeno Vallettopoli era appena cominciato: un tormentone mediatico che aveva trasformato la tranquilla e sonnecchiante città di Potenza in un vero e proprio “ombelico del mondo”, scriveva Stella Montano sul “Quotidiano della Basilicata”. Giornalisti, reporter, fotoreporter, cameraman di testate giornalistiche e agenzie di stampa di tutt’Italia, tutti a Potenza, per studiare da vicino quella che sarebbe stata una delle inchieste più discusse degli ultimi anni; ma anche autisti, avvocati, segretari, agenti di spettacolo al servizio di veline e soubrette, di attori e calciatori, chiamati a rispondere alle difficili domande del pm che aveva aperto le indagini sulle presunte estorsioni ai danni di vip, attività che aveva fatto la fortuna dell’agenzia “Corona’s”, il cui logo, in quel periodo era diventato uno status symbol, consolidato persino dinanzi al carcere di Potenza, il 29 marzo del 2007, giorno del suo 33esimo compleanno, festeggiato dai suoi collaboratori più fedeli con una grande torta e con tanto di candeline. Albergatori e ristoratori felici del tutto esaurito; trovare un posto libero in un pub o in una pizzeria era diventata un’impresa. Esaurite sin dalle prime ore del mattino le copie di quotidiani, settimanali e periodici: la voglia di leggere era diventata dilagante, dirompente. Per i 3 tassisti in servizio in città, spola ininterrotta dalla stazione al tribunale, dagli alberghi al carcere: un lavoro così estenuante a Potenza non si era mai visto. Come non si era mai visto che qualcuno prendesse addirittura dei giorni di ferie dal lavoro per non perdersi uno spettacolo “live” senza eguali, tra le inferriate del Tribunale. Tra flash e microfoni buttati letteralmente in aria, il passaggio super scortato di Raoul Bova, Loredana Lecciso, Diego Della Valle, Fernanda Lessa, Nina Moric, aveva mandato in visibilio anche studenti, adolescenti e ragazzine, pronte ad immortalare con un flash quel passaggio dorato di vittime/carnefici del “sistema Corona”. Girandola di starlette e paillettes che in quei giorni avevano di fatto trasformato la visione del capoluogo lucano agli occhi del mondo mediatico. Merito di quel “pm biondo che faceva impazzire il mondo” che aveva scoperchiato le malefatte di un “ragazzo insolente” di nome Fabrizio Corona. Qualcuno aveva persino proposto di far diventare Henry John Woodcock «assessore al turismo del comune di Potenza». Starlette, gossip ed inchieste giudiziarie. Le tante Ruby dell’informazione e della giustizia italiana. Guerra, Berardi, Polanco, Faggioli… Che fine hanno fatto le “olgettine”? Qualche anno fa non si parlava che di loro, oggi sono quasi dimenticate. Da Barbara Guerra a Iris Berardi, da Marysthell Polanco a Barbara Faggioli. Che fine hanno fatto le cosiddette ragazze del bunga-bunga? E quelle che abitavano nell’ormai famigerato appartamento di via Olgettina, a Milano? Non si parlava d’altro, i quotidiani erano ricchi tutti i giorni di notizie e segnalazioni sulle loro imprese e i rotocalchi si contendevano le loro immagini «rubate» durante costosissime incursioni nel quadrilatero della moda, in centro a Milano, per l’immancabile shopping quotidiano. Erano tante le ragazze in qualche modo entrate nell’elenco delle donne attribuite a Silvio Berlusconi. “Oggi” le aveva contate una a una: da Nicole Minetti a Maryshtell Garcia Polanco, da Roberta Bonasia a Barbara Faggioli, da Alessandra Sorcinelli a Iris Berardi, per non parlare di Ruby Rubacuori. L’elenco, alla fine, ne conteneva ben 131. È passato, come dicevamo, solo qualche anno. Per qualcuno il ricordo di quelle ragazze è già sbiadito. Per altri sono rimaste nella memoria collettiva. «Subisco dai giudici violenza psicologica, una vera e propria tortura, una pressione insostenibile». Lo ha detto Ruby, all’anagrafe Karima El Mahroug, la giovane marocchina al centro del processo sui festini hard nella residenza di Silvio Berlusconi ad Arcore, che il 4 aprile 2013 ha inscenato una protesta contro i magistrati davanti al Palazzo di Giustizia di Milano. La giovane ha letto un comunicato stampa lungo sei pagine sulle scale del tribunale e si è presentata con un cartello che recitava 'Caso Ruby: La verità non interessa più?'. Protesta anche contro la stampa, che a suo parere strumentalizza la sua storia: «Per colpire Berlusconi la stampa ha fatto male a me. Oggi ho capito che è in corso una guerra contro Berlusconi e io ne sono rimasta coinvolta, ma non voglio che la mia vita venga distrutta». Ruby ha letto un comunicato che ha consegnato ai giornalisti presenti. «La colpa della mia sofferenza è anche di quei magistrati che, mossi da intenti che non corrispondono a valori di giustizia, mi hanno attribuito la qualifica di prostituta, nonostante abbia sempre negato di aver avuto rapporti sessuali a pagamento e soprattutto di averne avuti con Silvio Berlusconi. Non sono una prostituta. Nessuno ha voluto ascoltare la mia verità, l’unica possibile. Voglio essere ascoltata dai magistrati per dire la verità, sono la parte lesa in questa vicenda. Voglio protestare per non essere stata sentita. Non ne capisco la ragione e intendo dirlo pubblicamente. La violenza che più mi ha segnato è stata quella del sistema investigativo. Dei ripetuti interrogatori che ho subìto, soltanto alcuni sono stati messi a verbale. Trovo sconcertante e ingiusto che nessuno voglia ascoltarmi, soprattutto perché secondo l'ipotesi accusatoria io sarei la parte lesa, secondo la ricostruzione dei pm sarei la vittima. Oggi dopo aver sopportato tante cattiverie sono qui a chiedere di essere sentita. Sono vittima di uno stile investigativo e di un metodo fatto di domande incessanti sulla mia intimità, le propensioni sessuali, le frequentazioni amorose, senza mai tenere conto del pudore e del disagio che tutto ciò provoca in una ragazza di 17 anni. A 17 anni non sapevo nemmeno chi fossero i pm, non leggevo i giornali, a malapena sapevo chi fosse Berlusconi. Oggi ho capito che è in corso una guerra nei suoi confronti che non mi appartiene, ma mi coinvolge, mi ferisce. Non voglio essere vittima di questa situazione non è giusto. Chiedo che qualcuno ascolti quello che ho da dire, voglio raccontare l'unica verità possibile e lo voglio fare in sede istituzionale. La violenza che più mi ha segnato è stata quella di essere vittima di uno stile investigativo fatto di promesse mai mantenute di aiutarmi a trovare una famiglia e di proseguire gli studi. Alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e raccontare storie inverosimili, piuttosto che farmi angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Ho deciso di parlare per rispondere a chi, magistrati e giornalisti inclusi, mi ritiene una poco di buono. Sono spiaciuta di aver fatto una cavolata dicendo che ero parente di Mubarak». E contro i magistrati: «Non c’è la prova che mi prostituissi, l’atteggiamento degli investigatori fu amichevole poi cambiò quando capirono che non avrei accusato Silvio Berlusconi. A quel punto sono iniziate le intimidazioni subliminali, gli insulti nei confronti delle persone che mi avevano aiutato...una vera e propria tortura psicologica. Una volta - ha raccontato ancora Ruby - non potendone più sono addirittura scappata dalla comunità di Genova in cui mi trovavo per non dover subire ancora quella pressione e l'unico che si preoccupò e mi convinse a rientrare è stato un amico al quale sono tuttora affezionata. Sono rientrata e di fronte alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e raccontare storie inverosimili piuttosto che farmi angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Mi sono resa conto - ha continuato - che a loro non interessava nulla di me. Ho raccontato di aver incontrato persone che conoscevo solo grazie ai rotocalchi, come Cristiano Ronaldo o Brad Pitt e dentro di me mi domandavo come fosse possibile che non si accorgessero che erano frottole. Questa è stata la peggiore delle violenze che ho subito, oltre alle costanti diffamazioni riportate dalla stampa alle quali mi pento di non aver reagito prima. Ho  raccontato tante bugie, anche ai magistrati, perché mi vergognavo di me, del posto in cui sono nata, della mia famiglia, dei piccoli lavori di fortuna che sono stata costretta a fare per racimolare qualche spicciolo. Per questo ho raccontato bugie per sentirmi diversa e per convincere anche gli altri che lo fossi davvero, diversa come avrei voluto essere sempre. Mi spiace aver raccontato queste bugie anche a Silvio Berlusconi, il quale, oggi, sono sicura, si sarebbe dimostrato rispettoso e disposto ad aiutarmi anche se avessi detto la verità. La verità è che vengo da una paesino che si chiama Letojanni e che la mia famiglia vive in condizioni di grande precarietà. La verità è che per tanto tempo volevo essere un'altra persona e adesso pago il conto: il rischio di vivere il resto della mia vita con appiccicato il marchio infamante della prostituta che qualcuno ha voluto affibbiarmi a tutti i costi. Quanto alla finta parentela, «mi spiace di aver detto altre bugie sulle mie origini, ho giocato di fantasia perché il vecchio passaporto me lo ha permesso». E, per essere ancor più credibile, la giovane marocchina ha mostrato ai giornalisti un falso passaporto nel quale compariva il nome di Mubarak. «Presentarmi come la nipote di Mubarak - ha aggiunto Ruby - mi serviva a costruire una vita parallela, diversa dalla mia. Mi serviva a mostrare un’origine diversa, lontana dalla povertà in cui sono nata e cresciuta e dalla sofferenza che ho patito prima e dopo aver lasciato la mia famiglia in Sicilia. Ho subito un ennesimo episodio di intolleranza, quando la domenica di Pasqua una persona guardando mia figlia ha detto “spero che non diventi come sua madre”. Voglio che si sappia che la colpa è di quella stampa che per colpire Silvio Berlusconi ha fatto del male a me. Parlo di quei giornalisti che mi hanno violentato pubblicando le intercettazioni telefoniche che mi riguardavano». La ragazza ha spiegato di essere stata «umiliata per troppo tempo» e, ha aggiunto, «se questo è il Palazzo di Giustizia voglio che giustizia sia fatta». «Non voglio - ha concluso Ruby - essere distrutta, non voglio che venga distrutto il futuro di mia figlia a causa di un gioco pericolosissimo molto più grande di me nel quale sono stata trascinata con violenza quando avevo solo 17 anni. Voglio che mia figlia sia fiera di me». Intanto la «strega» diventa oggi l’ultima fatica letteraria di Mario Spezi in “L’angelo dagli occhi di ghiaccio” che sarà in libreria a fine marzo 2013 ma solo in Germania, perché gli editori italiani e quelli americani non lo hanno voluto stampare. Questa volta non è una ragazza chiamata Sabrina, ma una ragazza chiamata Amanda. Lasciatasi alle spalle la drammatica esperienza del Mostro, Spezi con il suo amico Douglas Preston, scrittore americano impegnato anche lui nella controinchiesta sui delitti di Firenze, in questo libro non raccontano solo la lunga vicenda giudiziaria di Amanda e Raffaele ma stabiliscono un inquietante collegamento fra l’inchiesta sul Mostro di Firenze e l’omicidio di Meredith. Due inchieste condotte dallo stesso Pm, Giuliano Mignini: «Con gli stessi argomenti», scrivono Spezi e Preston. «Rituali osceni, riti satanici, orge di sesso e sangue, omaggi a Satana, come aveva predetto una “santona” che, con le sue rivelazioni, aveva dato un contributo importante al magistrato nelle indagini sul Mostro». Amanda sembra non avere dubbi. «Contro di lei uno stillicidio che ha influito sulle persone». «L’aveva intuito anche Raffaele Sollecito che pochi giorni dopo la sua assoluzione mi confidò: “Ho capito benissimo che la mia storia è stata solo l’apice di quella di Mignini e dell’indagine perugina sul Mostro di Firenze”», rivela Spezi. Che aggiunge: «Senza l’antefatto del Mostro non si capisce fino in fondo cosa sarebbe avvenuto a Perugia nei quattro anni successivi. Un antefatto che aprì le porte dei tribunali a una nuova versione dell’antica caccia alle streghe». Ma come è stata costruita la «strega Amanda»? Spiega Spezi: «Con uno scientifico stillicidio di notizie a senso unico iniziato poche ore dopo il suo arresto. Non dimentichiamoci che quattro giorni dopo gli inquirenti annunciarono: “Il caso è chiuso”. Oggi sappiamo che nessuno di loro è colpevole. Ma in primo grado Raffaele e Amanda furono condannati. E l’opinione pubblica era colpevolista. Per loro fortuna i giudici dell’Appello fecero fare una nuova perizia scientifica e il risultato per l’Accusa fu uno tsunami: “Tutti gli accertamenti tecnici svolti prima non sono attendibili”, stabilirono i nuovi periti. Malgrado ciò fuori dal Tribunale la sera dell’assoluzione centinaia di persone accolsero la sentenza urlando: “Vergogna”. Evidentemente erano manipolati da una falsa informazione. Per loro la strega doveva finire al rogo. Tutti i mezzi di informazione diedero il massimo risalto all’assoluzione ma ben pochi indagarono sul perché era avvenuta una storia tanto grave. E ancora oggi in America chi osa difendere Amanda rischia addirittura l’incolumità. Ne sa qualcosa il mio amico Preston che sul suo blog riceve spesso pesanti minacce». Sul delitto di Sarah Scazzi sono stati scritti fiumi di parole e mandati in onda migliaia di ore di disquisizioni giornaliere sull’argomento, in salotti con gente che si improvvisava esperta di sociologia e di diritto. Avetrana è stata invasa da orde di giornalisti, ognuno portatore di pregiudizi e luoghi comuni. Sentimenti che hanno trasbordato ai loro lettori. Io conoscitore attento delle vicende umane in Italia in tema di violazione dei diritti umani in ambito della giustizia e dell’informazione, ho voluto riportare un punto di vista oggettivo che nessuno mai ha ed avrebbe avuto il coraggio di riportare. La storia di Sarah da me riportata è intrisa di storie analoghe alla sua. Ho rapportato il comportamento di media e magistratura per poter fare un parallelismo tra le varie vicende.  Chi legge i miei libri, e quello su Sarah Scazzi in particolare, non rimarrà deluso, ma si arricchirà di informazioni mai da alcuno riportate. Per esempio nessuno ha mai parlato di Valentino Castriota, il portavoce della famiglia Scazzi, che nelle prime settimane viveva in quella casa. Il Castriota non è stato mai chiamato a riferire quanto lui avesse saputo in quei giorni. Come strano è – così come ha sottolineato Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, criticando l’operato della Procura – il perché, quando si è accertato che Sarah, uscita da casa, era arrivata in quella dei Misseri, non è stata sequestrata l’abitazione dei Misseri?» Tutto sbagliato, tutto da rifare: la disastrata malagiustizia all’italiana funziona così. E’ d’accordo con me Luca che scrive su “Menti Informatiche”. Processi che durano una vita e non concludono nulla; indagini che non finiscono mai; sentenze parziali e pasticciate che non reggono l’urto dell’analisi logica e costringono spesso a ricominciare tutto daccapo. Non a caso, nella speciale classifica redatta dalla Banca mondiale sul funzionamento della giustizia, l’Italia si piazza al 155° posto su 185 Paesi: siamo meglio dell’Afghanistan, ma peggio della Sierra Leone, del Malawi, dell’Iraq e della Bolivia. Per celebrare il più clamoroso processo penale di tutti i tempi, quello che nel 1946, a Norimberga, giudicò e condannò i crimini del Terzo Reich e dei gerarchi e militari nazisti, cioè 12 anni di storia, bastarono 11 mesi. Al 4 aprile 2013, dopo cinque anni e quattro mesi, noi ancora non sappiamo cosa successe veramente nella villetta di Perugia dove fu uccisa Meredith Kercher; dopo cinque anni e sette mesi, ignoriamo chi sia l’assassino di Chiara Poggi a Garlasco; dopo due anni e sette mesi dall’uccisione di Sarah Scazzi ad Avetrana si è ancora al primo grado; dopo due anni e quattro mesi, brancoliamo nel buio per l’omicidio di Yara Gambirasio a Brembate. Ci sono voluti 22 anni per ritrovarsi al punto di partenza sul mai risolto assassinio di Simonetta Cesaroni, in via Poma, a Roma; 20 anni per scoprire finalmente che l’omicida della contessa Alberica Filo Della Torre, all’Olgiata, è, nel la più classica tradizione giallistica, il maggiordomo filippino Manuel Winston, peraltro in chiodato da una intercettazione disponibile tre giorni dopo il delitto che però non fu mai ascoltata; 20 anni per avere la certezza che se le indagini sulla scomparsa di Elisa Claps a Potenza nel 1993 fossero state svolte con un minimo di competenza, il caso si sarebbe risolto in poche ore e forse Danilo Restivo non avrebbe ucciso nel 2002 in Inghilterra la sartina Heather Barnett. A proposito, qualcuno dovrà pur spiegare ai genitori della studentessa inglese Meredith Kercher, come mai un tribunale di Sua Maestà ha impiegato un anno e l i giorni per arrestare e condannare Restivo all’ergastolo, mentre noi siamo ancora in alto mare nel delitto di Perugia. Secondo le statistiche europee, i processi penali in Italia durano in media otto anni; negli altri Paesi dell’Unione, al massimo tre; negli Stati Uniti, invece, si va da un minimo di un giorno a un massimo di una settimana per la stragrande maggioranza dei casi. In Norvegia, sono bastate 10 settimane per processare e condannare Anders Breivik, autore della strage di Utoya (77 persone uccise a fucilate). Da noi ci sono processi, quelli privilegiati, accelerati perché illuminati dal faro mediatico, che avanzano faticosamente al ritmo di un’udienza a settimana e processi che si inceppano per fatti incredibili: a gennaio 2013 la Corte di Cassazione ha annullato per vizio di forma il deposito delle motivazioni del processo «Crimine infinito» sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia (110 persone condannate) perché la stampante si era rotta e mancavano 120 delle 900 pagine.

Da queste sue parole si evince che lei non ha remore a parlare degli errori, veri o presunti, commessi dai magistrati di Taranto.

«I magistrati di Taranto ed il loro operato. Il solo che si è ribellato allo strapotere dei magistrati tarantini in ambito locale è stato il dr. Antonio Giangrande, me medesimo. Io ho presentato svariate denunce a Potenza e presso altre procure competenti, quando Potenza non è intervenuta per abuso ed omissione commessi presso gli uffici giudiziari Tarantini. Naturalmente, lasciato solo, non potevo che subire l’onta del linciaggio, dell’accusa di mitomania o pazzia e dell’accanimento giudiziario, che nei miei confronti non ha prodotto alcuna condanna penale per reati d’opinione. Oggi non sono più solo. Anche l’Ilva con un esposto a Potenza denuncia i magistrati tarantini: "Accanimento contro di noi. Verificate se hanno commesso reati". La denuncia è stata depositata negli ultimi giorni di marzo 2013 da parte dell'avvocato Leonardo Pace per conto dello studio De Luca di Milano che segue l'azienda. Non dall’avvocato tarantino che segue gli interessi dell’azienda. Egidio Albanese, avvocato già presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto ed in buoni rapporti istituzionali con quei magistrati. D'altronde un ex prefetto e i magistrati erano fatti appositamente per lavorare a braccetto. Invece sono finiti in tribunale: il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante, noto per la sua moderazione e la stima che ha nella magistratura, ex Prefetto di Milano già candidato a Milano proprio per il centrosinistra, ha denunciato in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico e i custodi incaricati di vigilare il sequestro. A Taranto i magistrati non applicano la legge: loro SONO LA LEGGE. Questo atteggiamento li ha portati a disapplicare le leggi dello Stato, ma per la Corte Costituzionale la legge salva-Ilva è legittima. E dunque il colosso dell'acciaio può continuare a produrre. Perché quelle norme varate per permette all'azienda di restare in vita "non hanno alcuna incidenza sull'accertamento delle responsabilità nell'ambito del procedimento penale in corso davanti all'autorità giudiziaria di Taranto". Un'interpretazione che fa a pugni con quella dei giudici tarantini per il quali autorizzare la produzione equivale a una autorizzazione a inquinare. Anzi, a continuare a inquinare.  Questa la decisione presa dalla Consulta sulla legge 231/2012 varata a dicembre a stragrande maggioranza dal Parlamento, che ha convertito il decreto del governo Monti, intervenuto dopo il sequestro dell'area a caldo dello stabilimento e l'apertura della querelle giudiziaria che ha visto contrapporsi magistratura e politica nella ricerca di una soluzione per Taranto e per la salute dei suoi cittadini. L’azienda che ha anche minacciato di chiedere i danni per i mancati introiti, appellandosi proprio al via libera concesso con la salva-Ilva. Il lungo conflitto sulla legge è partito lo scorso luglio 2012: da un lato i magistrati di Taranto che indagano per disastro ambientale, dall'altro il governo e il parlamento che con la legge hanno di fatto superato quel provvedimento per evitare il blocco dell'attività del siderurgico. Per la Corte Costituzionale sono in parte inammissibili, in parte infondate le questioni di legittimità sollevate. Secondo il Tribunale, la norma con i suoi tre articoli ne viola cinque della Costituzione. Il gip Todisco, invece, ha rilevato elementi per sostenere la violazione di ben diciassette articoli della carta costituzionale. Profili di incostituzionalità - tra cui quello sul diritto alla salute e quello sull'indipendenza della Magistratura - che però non hanno retto al vaglio della Consulta, per la quale lo stabilimento tarantino può proseguire l'attività produttiva e la commercializzazione dei prodotti nonostante i provvedimenti di sequestro disposti dall'autorità giudiziaria. Una puntualizzazione di diritto al fine di spiegare l’eventuale scontato esito della denuncia a Potenza. Il diritto non prevede l’istituto dell’insabbiamento: o rinvio a giudizio per i denunciati o procedimento per calunnia contro Ferrante e Buffo. Chiaro no?!? Sono passati giorni da quando (11 novembre 2010) un magistrato della Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio è stato rinchiuso in casa agli arresti domiciliari dai Magistrati del Tribunale di Potenza. Magistrati denunciati proprio da Di Giorgio. Premettiamo che a marzo 2010 il Magistrato Matteo Di Giorgio aveva denunciato sia il Magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi (M.D.) sia l'ex maresciallo Leonardo D’Artizio alla Procura della Repubblica di Catanzaro per abusi nelle indagini contro di lui. In pratica la dott.sa Laura Triassi si serviva per le indagini contro il collega Matteo Di Giorgio del Maresciallo Leonardo D’Artizio, sottoufficiale dell’arma non più in servizio in quanto espulso dall’Arma perché imputato di maltrattamenti e di altri gravi reati, dai quali era scaturito anche un suicidio di un carabiniere, suo subalterno. La denuncia di Di Giorgio contro la dott.sa Laura Triassi e il maresciallo Leonardo D’Artizio provocò la reazione irata dei magistrati di Magistratura democratica, i quali intimarono a Di Giorgio di chiedere lui stesso il trasferimento presso la Procura della Repubblica di Pescara, dove c’era un posto libero, pena spiacevoli conseguenze per lui. Conseguenze che poi si sono puntualmente verificate. C’è una cittadina in provincia di Taranto di 17.000 anime che si chiama Castellaneta, in cui risiedono un parlamentare del P.D Rocco Loreto ed un magistrato della locale Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio, i cui parenti militano politicamente nell’area di centro-destra. Nell'anno 2000 infatti il parlamentare del P.D. dopo aver perso le elezioni comunali a Castellaneta, inoltra contro il Magistrato Matteo Di Giorgio ben tre denunce penali una di fila all’altra: 6 aprile 2000, 31 maggio 2000 e 2 giugno 2000. Le denunce però vengono dirottate a Potenza (sede competente a giudicare dei reati in cui è parte lesa un Magistrato che esercita le sue funzioni nel distretto di Taranto) e - fatto imprevisto - pervengono nelle mani di John Woodkock. Woodckock non è un Magistrato condizionabile, indaga da par suo e scopre che nel 2001 il parlamentare aveva contattato un imprenditore tal Francesco Maiorino, testimone nel processo affinché calcasse la mano su Di Giorgio e lo accusasse di fatti non veri per ipotizzare una sua possibile corruzione giudiziaria. Di fronte a fatti di questa gravità Woodckock arresta il parlamentare. Però, nonostante Woodckock, il processo per calunnia va avanti molto a rilento. Ancora nell’anno di grazia 2010 per fatti che risalgono nientedimeno che al 2001, non si è ancora concluso nemmeno il giudizio di primo grado. L'11 settembre 2009 interviene una novità. Woodckock si trasferisce a Napoli e nel Tribunale di Potenza si rafforza la presenza di M.D. Per Di Giorgio inizia presso il Tribunale di Potenza un autentico calvario. Altre denunce partano dalla penna del senatore del P.D. e l’11 novembre 2010 le parti si invertono. Di Giorgio rimane parte lesa di delitto di calunnia, ma diventa imputato di concussione in un altro processo che ha origine dalle denunce di cittadini di Castellaneta chiaramente di sinistra e viene posto lui questa volta agli arresti domiciliari. Si arriva così all’assurdo che nel processo per calunnia ancora in corso Di Giorgio magistrato e parte lesa dovrebbe comparire in catene e il parlamentare imputato di calunnia contro di lui, potrebbe irriderlo dal banco degli imputati. Uno scarno comunicato dei magistrati del Tribunale di Taranto colleghi di Matteo Di Giorgio all’indomani dell’emissione del mandato di cattura contro Di Giorgio (12 novembre 2010) esprime fiducia nell’operato dei giudici di Potenza e auspica però che la vicenda si chiarisca al più presto (ergo che in pochi giorni il collega Di Giorgio sia liberato). In un paese in cui i magistrati fanno interviste e pubblicano libri parlando delle loro inchieste ancora aperte, può sembrare surreale: eppure mercoledì 20 febbraio 2013 il Consiglio Superiore della Magistratura ha punito Clementina Forleo, giudice a Milano, negandole gli avanzamenti di carriera cui avrebbe avuto diritto non solo per anzianità ma anche per le valutazioni sulla sua professionalità («eccellente») fornite dal consiglio giudiziario di Milano e acquisite nel suo fascicolo. La colpa della Forleo è essere andata anni fa in televisione, ad Annozero, denunciando le pressioni dei «poteri forti» sull'inchiesta Bnl-Unipol, ovvero sulla scalata della assicurazione «rossa» alla Banca Nazionale del Lavoro. E l'inizio dei guai della Forleo iniziò quando chiese al Parlamento di poter trascrivere le intercettazioni delle telefonate di Massimo D'Alema e del suo compagno di partito Nicola La Torre, definendoli «complici consapevoli del disegno criminoso». La storia – si diceva una volta – è fatta di corsi e ricorsi storici. Con ciò si voleva dire che la storia è composta di vicende analoghe che di volta in volta nel tempo si ripetono. Quindi è presumibile che Clementina Forleo sia stata massacrata da una azione congiunta che ha visto convergere magistrati dalemiani di M.D. e magistrati finiani di M.I. Tra questi ultimi c’è anche quell’Alberto Santacaterina all’epoca Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Brindisi, affiliato a M.I., la corrente di destra delle toghe che fa capo a Gianfranco Fini, il quale in pratica si è clamorosamente e apertamente rifiutato di espletare indagini sulle minacce e sugli attentati subiti dalla famiglia della Forleo, non ultimo la morte dei genitori preannunciata da una lettera anonima (“i tuoi genitori moriranno e poi morirai anche tu“;) e puntualmente verificatasi venti giorni dopo a seguito di uno “strano” incidente stradale. Alberto Santacaterina finì sotto processo per questo motivo, fu a un passo dall’essere sottoposto a mandato di cattura da parte di un valoroso magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Ferdinando Esposito per associazione a delinquere, falso, omissioni di atti d’ufficio, abuso in atti d’ufficio e altri reati. Poi, a seguito di un altro strano incidente stradale il giudice Ferdinando Esposito precipitò in una scarpata. Stette lì lì per morire, dovette abbandonare l’inchiesta che passò – provvidenzialmente per Santacaterina – nelle mani di un Magistarto di M.D. Cristina Correlae e tutto si sistemò. In seguito Alberto Santacaterina si troverà in premio a fare il Sostituto Procuratore distrettuale anti-mafia presso la Procura della Repubblica di Lecce. Alcuni Magistrati della stessa Procura della Repubblica di Lecce vorrebbero incriminare i valorosi magistrati della Procura della Repubblica di Bari Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sulla base di una denuncia del magistrato sempre di Bari e di M.D. Giuseppe Scelsi. I Magistrati Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sono i magistrati i quali, meritoriamente, hanno scoperchiato il pentolone puteolento della malasanità pugliese.  Anche i magistrati del Tribunale di Taranto si son visti recapitare un messaggio inquietante attraverso l’arresto disposto dal magistrato di MD della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi del loro valoroso collega Matteo Di Giorgio già delegato su Taranto per le indagini anti-mafia dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce diretta dal valoroso magistrato Cataldo Motta. Il mandato di cattura è stato poi in gran parte annullato dalla Cassazione ma al dott. Matteo di Giorgio continua a essere imposta la misura del soggiorno obbligato e la sospensione dal servizio e dallo stipendio che dura ormai da anni. Per aver pubblicato sul mio sito web le vicende attinenti il caso di Clementina Forleo, la Procura, il GIP ed il Tribunale di Brindisi, prima, e la Procura, il GIP ed il Tribunale di Taranto, poi, hanno pensato di incriminarmi per violazione della Privacy e di oscurare l’intero sito di centinaia di pagine, con vicende estranee a quelle oggetto di processo. Ma “un giudice a Berlino” ha rimesso le cose a posto, pronunciando l’assoluzione perché il fatto non sussiste. In questo processo, ossia nel processo per il delitto di Sarah Scazzi, quel che salta agli occhi di chi ha anche poca dimestichezza con le cose di giustizia e che palesemente si evidenzia è la incoerenza assoluta del pensiero dei magistrati. I moventi del delitto secondo l’accusa: gelosia per Ivano, anzi, no; lesione dell’onore e della reputazione familiare, anzi, no; gelosia tra sorelle. Uno vale l’altro, c’è solo l’imbarazzo della scelta. La ricostruzione del delitto secondo la procura avallata dal Gip di Taranto, in base alle motivazioni delle custodie cautelari di Pompeo Carriere e Martino Rosati: 6 ottobre 2010, Michele Misseri confessa ai carabinieri, in un interrogatorio a Taranto, di aver ucciso Sarah, strangolandola nel garage di casa dopo un rifiuto alle sue avances, e di aver abusato del cadavere in campagna. Nella notte fa ritrovare il corpo, gettato in un pozzo-cisterna, anzi, no; Sabrina (d’accordo con il padre che uccide Sarah) ha trascinato con forza nel garage la cugina Sarah con il proposito di darle una lezione, al fine di evitare che la ragazzina potesse diffondere in paese la notizia delle attenzioni sessuali riservatele dallo zio, delle quali anche Sabrina era venuta a conoscenza, anzi no; l’omicidio è stato commesso esclusivamente da Sabrina, in garage, fra le 14.28.26 e le 14.35.37, anzi no; l’omicidio è stato commesso dalla sola Sabrina, in garage, prima delle ore 14.20, anzi, no; l’omicidio è stato commesso da Sabrina, in concorso con la madre, e non più in garage, ma in casa. Inoltre, i difensori degli imputati hanno lamentato di essersi trovati di fronte a una memoria di 599 pagine depositata dal pubblico ministero che, al contrario di quanto era stato assicurato, non sarebbe una mera riproduzione della requisitoria pronunciata in aula, ma conterrebbe alcuni fatti nuovi, che stravolgerebbero la stessa e presenterebbe delle contraddizioni. Quando si pensa che in un dato ufficio giudiziario giudicante vi possa essere il dubbio che il giudizio possa esser influenzato da fattori esterni al processo, la legge dà la possibilità al cittadino di presentare alla Corte di Cassazione il ricorso per rimessione in altro luogo del processo per legittimo sospetto che il giudizio non sia sereno. E’ il ricorso per legittima suspicione. Questo ricorso è stato presentato da Franco Coppi, e non poteva essere proposto se non da un avvocato estraneo al Foro di Taranto anche per ragioni di opportunità, oltre che di coraggio, così come è stato da me presentato per le mie vicissitudini ritorsive, proprio perché, io parlando senza peli sulla lingua sono molesto ai magistrati di Taranto che, da me criticati, pretendono di giudicarmi per quello che scrivo. Purtroppo la Corte di Cassazione mai ha accolto un ricorso del genere, disapplicando di fatto una legge dello Stato per tutelare i loro colleghi magistrati, a scapito della vita di un presunto innocente, dichiarato erroneamente colpevole. Condannate, in primo grado, all’ergastolo Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi. La Corte di Assise di Taranto ha disposto anche l’isolamento diurno di 6 mesi in carcere per entrambe. 8 anni a Michele Misseri per concorso nella soppressione del cadavere della nipote e per furto aggravato del telefonino della vittima. Condannati a 6 anni Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello di Michele Misseri il primo e nipote il secondo, per concorso in soppressione di cadavere. 2 anni a Vito Russo, ex avvocato di Sabrina, condannato per intralcio alla giustizia. 1 anno a Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano e 1 anno e 4 mesi a Giuseppe Nigro, tutti testimoni del processo condannati per falsa testimonianza, con pena sospesa. La Corte di assise di Taranto ha condannato anche Michele Misseri, Cosima Serrano e Sabrina Misseri al risarcimento dei danni, da stabilire in separata sede, alla famiglia Scazzi e al Comune di Avetrana. Nello stesso tempo ha stabilito una provvisionale di 50mila euro ciascuno ai genitori di Sarah, Giacomo Scazzi e Concetta Serrano, e di 30mila euro per il fratello Claudio. La sentenza è stata letta in aula dalla presidente Rina Trunfio che ha dovuto chiedere a forza il silenzio per fermare l’applauso spontaneo dei presenti in aula alla lettura della sentenza. Durissima la reazione alla sentenza della madre di Sarah Scazzi, Concetta Serrano Spagnolo: “chi uccide merita questo”. Le posizioni dei testimoni che non hanno testimoniato a favore dell’accusa saranno vagliate dallo stesso ufficio della procura. Come volevasi dimostrare e come già ampiamente anticipato a tutta la stampa e ad “Affari Italiani” del 15 novembre 2011 «posso profetizzare la condanna per gli imputati, in 1° e 2° grado, con assoluzione in Cassazione». D’altronde lo stesso Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, aveva avvertito lo stesso sentore. «Perché qui commetterete un altro omicidio, oltre quello perpetrato in danno di una povera ragazzina. E un altro omicidio è quello di mettere in galera, all’ergastolo due innocenti, una giovanissima peraltro. E’ un altro omicidio. E’ inutile per la difesa arrampicarsi sugli specchi perché tanto la Corte, attenzione, non la gente, la Corte ha già la sentenza, ha già deciso. Quando io sento queste cose mi sento mortificato come cittadino, pur sapendo che ciò non è vero. Però quando viene trasferito questo segnale, quando viene trasferito questo pensiero, noi generiamo nella gente quello che sta avvenendo: la rivolta. Non la rivolta verso la politica; la rivolta verso le istituzioni.» Per quanto preannunciato a tutta la stampa ed ad “Oggi” il 16 febbraio 2012, senza intenti diffamatori ho chiesto agli avvocati in causa ed a tutta la stampa: come è possibile che a presiedere la Corte d’Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio e collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero. Ex colleghi oggi facenti parte dell’attuale collegio accusatore nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto? Qualsiasi decisione finale sarà presa, sarà sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata influenzata dalla colleganza funzionale e territoriale. Ma avvisaglie ci erano già state. Non devono essere piaciute le risposte della testimone Liala Nigro alla giudice popolare. Troppo a favore di Sabrina Misseri? Certamente quella frase sfuggita ad alta voce e detta all’orecchio della sua collega di giuria popolare non è sembrata opportuna alla difesa, tanto che l’avvocato Nicola Marseglia ha fatto presente il fatto alla presidente Rina Trunfio chiedendo l’astensione della signora. E dopo una breve riunione la giudice ha letto la sua astensione «per motivi personali». Sarà!, commenta Maria Corbi, giornalista de “La Stampa”. E il fatto che la giudice si sia astenuta certo fa pensare. E che dire dei giudizi espressi dai giudici togati. Tutto tranquillo se non foss’altro che un fuorionda tra i giudici irrompe nel processo. Presidente Trunfio: «certo vorrei sapere, là, le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati… tra di loro e se si daranno l’uno addosso all’altro.» Giudice latere Misserini: «ah, sicuramente.» Presidente Trunfio: «bisogna un po’ vedere, no, come imposteranno… potrebbe essere mors tua via mea. Non è che negheranno in radice.» Il fuori onda semina imbarazzo al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Nelle mani della difesa è finito un dialogo, in aula, tra il giudice Rina Trunfio, presidente della Corte di Assise, e il giudice a latere Fulvia Misserini. Le due discutono delle imputate, Sabrina Misseri e sua madre Cosima, che potrebbero, secondo le supposizioni dei giudici - sembra dalla conversazione - optare per una strategia incrociata nella difesa che le porterebbe ad accusarsi a vicenda, La conversazione è stata catturata dai microfoni delle telecamere autorizzate a riprendere il dibattimento.  In particolare la frase che ha colpito gli avvocati è quella dove il presidente della corte d’assise, il giudice Cesarina Trunfio, dice: “(Non è che) negheranno in radice”. «Si evince che hanno già una ben definita opinione che non rinviene necessariamente da una valutazione attenta degli atti ma da un'idea precostituita». Spiega l'avvocato Franco De Jaco. Il professor Franco Coppi parte da solo all’attacco, e non poteva esser altrimenti, e viene seguito soltanto da un componente del collegio difensivo, Franco De Jaco, legale di Cosima, nella formulazione della richiesta di astensione dei giudici della Corte d’Assise. Ed è sulle iniziative da adottare dopo il fuorionda che si spacca l’ampio collegio difensivo. Uno degli avvocati di Cosima, Luigi Rella, dimissionario presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce, va via in netto anticipo rispetto alla fine dell’udienza. Marseglia nel corso del suo intervento spara a zero sugli inquirenti e sulla conduzione dell’inchiesta. «Vi stanno proponendo un errore giudiziario sulla base di prove acquisite in modo barbaro, in perfetto stile cubano. Sulla base di elementi forniti da testimoni che sostengono una giusta causa perché è una giusta causa, sono i metodi per sostenerla che non sono giusti, che fanno indignare e impegnano la difesa fino allo spasimo perché questo modello procedimentale, prima che processuale, non deve passare, perché questa inchiesta è stata condotta in maniera intollerabile in quanto ad acquisizione della prova. Un enorme errore giudiziario costruito su prove acquisite nel corso di deposizioni in cui gli inquirenti hanno usato metodo sbagliato che la legge vieta ». Ciò nonostante Marseglia lascia da solo il professore nell’iniziativa contro l’assise giudicante. «Non posso che invitarvi a valutare la possibilità e il dovere di astenervi», ha chiesto senza mezzi termini ai giudici. «Domani – ha aggiunto Coppi – siamo disposti a riprendere il cammino se ci verrà restituita quella serenità che in questo momento mi è stata tolta. Un difensore – spiega Coppi – non può non rappresentare ai giudici le sue perplessità e le sue preoccupazioni, il giudice ha diritto alla sua serenità ma anche il difensore ha diritto alla serenità di parlare con un giudice terzo, imparziale, che fino all’ultimo momento è disposto ad ascoltare le ragioni dell’accusa e della difesa. Con quale spirito continuiamo ad affrontare al processo? Vi chiediamo una dichiarazione che vi rassereni ma che ci chiarisca il senso di quelle frasi che suscitano preoccupazione. Ci aspettiamo dalla corte un chiarimento che ci restituisca serenità salvo decisioni diverse che potete assumere. Chiediamo che i giudici togati valutino la possibilità di astenersi». Coppi non ha gradito una frase relative a possibili strategie difensive in cui «si fa riferimento ad accordi fra i difensori, c’è cordialità ma non accordi». La presidente Trunfio, da parte sua, visibilmente contrariata, ha alzato le spalle dicendo che non dipendeva da lei tale decisione facendo così intendere di essere disposta al rischio di una ricusazione la cui ultima parola spetta, in questo caso, alla Corte d’appello del Tribunale. Medesima richiesta di astensione è stata fatta subito dopo dall’avvocato De Jaco mentre il suo collega del collegio difensivo, Luigi Rella, aveva lasciato inaspettatamente l’aula. Alla richiesta di astensione formulata dal professore si associa soltanto un componente del collegio difensivo. Ampio collegio, composto dai tantissimi avvocati, più del numero richiesto rispetto ai molti imputati. Avvocati locali, tra cui Lorenzo Bullo, difensore di Carmine Misseri e già praticante avvocato di Nicola Marseglia, di cui ha assunto il modus operandi. Franco De Jaco: «Sono frasi che ci hanno messo in allarme. E’ normale per noi che due colleghi si scambino delle opinioni ma quello che ci preoccupa è l’ultima frase, “non possono negare in radice i fatti”. Diamo la patente di buona fede a quelle dichiarazioni, non ci sono dubbi di nessun genere. Domani se noi la rivedremo qui e saremo rasserenati». Le affermazioni, che De Jaco definisce «imprudenti», anche per il difensore evidenzierebbero «una opinione già precostituita». «Non posso far finta di niente di fronte a certe affermazioni». Imbarazzante, infine, la posizione di Marseglia il quale è stato colto di sorpresa dalla mossa del professore. Da segnalare l’evidente scollamento del collegio difensivo di Sabrina Misseri. «Il mio intervento è a titolo individuale perchè non ho avuto modo e tempo di potermi consultare con l’avvocato Marseglia impegnato nella fatica della sua discussione», ha voluto precisare Coppi mentre il suo collega Marseglia dopo 7 ore di arringa lasciava il tribunale inseguito dai giornalisti ai quali ha confermato di essere all’oscuro di tutto. «Se le cose stanno come mi dite – ha poi dichiarato riferendosi al fuori onda galeotto – spero domani di sentire le spiegazioni della presidente Trunfio e di poter andare avanti con la mia arringa che è ancora impegnativa». Ma nessun avvocato del foro si associa. Solitamente sono i legali a lamentare il condizionamento ambientale dei magistrati presentando richiesta di rimessione. Evidentemente il condizionamento ambientale non vale soltanto per i magistrati. Da pensare è il fatto che un avvocato che si mette contro i giudici può rischiare di non esercitare più la professione forense (procedimenti penali pretestuosi o procedimenti disciplinari fittizi), ovvero rischia di perdere tutte le cause, ovvero rischia che i suoi protetti non passino l’esame di avvocato con i magistrati criticati nelle commissioni d’esame. Chi lo dice? Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Questo deve far riflettere i profani del diritto. Riflessione generale sul mondo forense italico. A chiacchiere son tutti bravi. I veri avvocati si distinguono dagli “azzeccagarbugli” succubi del potere di manzoniana memoria, proprio nell’adozione di certi atti. Ma come disse don Abbondio  “se il coraggio uno non ce l’ha, non se lo può dare”. Appunto e proprio per questo a Franco Coppi va il premio della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola per la Dignità dell'Avvocato”. La decisione di assegnare il premio al prof.Coppi – è detto in una nota – è “per lo stile che ha saputo dare, quale difensore in un delicatissimo processo in terra di Puglia, esempio luminoso di professionalità e di dignità dell'Avvocato”'. Il riferimento è al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, in cui Coppi difende Sabrina Misseri, cugina della vittima. Peccato però che gli avvocati vili e ignavi continuano sì ad esercitare in combutta con i magistrati, ma intanto a pagarne le pene sono i loro clienti. Per esempio in questo caso si noterà chi è molte spanne sopra ai colleghi, presunti principi del Foro.  Chi lo dice questo? Lo dice chi principe del foro lo è davvero. Franco Coppi: «Poi c’è chi ritiene di far finta di niente e chi ha il coraggio di dire alla giudice che in questo momento non si fida.» «La difesa non è spaccata. Il professor Coppi ha sempre la forza e il coraggio di assumere tutte le posizioni che deve assumere un avvocato comode o scomode che siano». Così risponde, suo malgrado, Nicola Marseglia, l’altro difensore, con Coppi, di Sabrina Misseri. Naturalmente i media stanno lì a limitare la portata della gravità delle affermazioni ed ad affannarsi ad accusare i legali di difesa di prendere la palla al balzo per bloccare un processo terminale. Esemplare è l’editoriale pro magistrati del direttore di studio 100 tv, emittente tarantina e notoriamente vicina alla Procura di Taranto. « Insomma. Naturalmente tutti usano i mezzi possibili ed immaginabili per far vincere le proprie tesi. Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Avetrana:”Humus sociale e culturale che ha prodotto il delitto; ambiente malsano scandagliato dai magistrati tarantini”, dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, diffamando il paese di Sarah Scazzi e dei Misseri, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini. Sia mai che le imputate, ancora presunte innocenti, potessero uscire di galera. In seguito di ciò la Corte d’Assise di Taranto ha deciso di astenersi nel processo sull’omicidio di Sarah Scazzi trasmettendo gli atti al presidente del Tribunale dopo la diffusione del video con fuori onda tra presidente e giudice a latere. «Abbiamo chiesto ai giudici di valutare l’opportunità o meno di astenersi, abbiamo sollevato un problema come qualsiasi altro difensore degno di questo nome avrebbe fatto. I giudici hanno dato dimostrazione di scrupolo rimettendo la valutazione dell’astensione al presidente del tribunale. Non si tratta di ottenere o non ottenere qualcosa – ha aggiunto Coppi – non era un risultato al quale noi puntavamo. Abbiamo sollevato semplicemente un problema che ci sembrava non potesse non essere sollevato in relazione a delle frasi che erano state rese pubbliche. Ci atterremo alla decisione del presidente del tribunale. Chi dice che si tratta di un attacco strumentale alla Corte si deve vergognare di dirlo perchè io ero sceso a Taranto per discutere il processo. Ieri c'è stata questa sorpresa - ha aggiunto Coppi – e io, che ho insegnato sempre ai miei allievi che bisogna avere con la toga addosso di avere il coraggio di assumere tutte le iniziative che rientrano nell’interesse del cliente, ho fatto quello che la mia coscienza mi imponeva di fare. Non vado a cercare mezzucci, che me ne importa del rinvio di un giorno o di un mese in un processo dove si discute di ergastolo. Quindi chi dice queste cose è completamente fuori strada e dovrebbe anzi vergognarsi di dirle, se sono state dette.» Comunque il presidente del Tribunale di Taranto Antonio Morelli, come è normale per quel Foro, ha respinto l'astensione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini, rispettivamente presidente e giudice a latere della Corte d'Assise chiamata a giudicare gli imputati al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. I due magistrati si erano astenuti, rimettendo la decisione nelle mani del presidente del Tribunale dopo la diffusione di un video in cui erano “intercettate” mentre si interrogavano sulle strategie difensive che di lì a poco gli avvocati avrebbero adottato al processo. Secondo il presidente del Tribunale però dai dialoghi captati non si evince alcun pregiudizio da parte dei magistrati, non c'è espressione di opinione che incrini la capacità e serenità del giudizio e quindi non sussistono le condizioni che obbligano i due giudici togati ad astenersi dal trattare il processo. Il presidente del Tribunale di Taranto ha respinto l’astensione dei giudici dopo che era stata sollecitata dalle difese per un video fuori onda con frasi imbarazzanti dei giudici sulle strategie difensive delle imputate. E adesso si va avanti con il processo. Tocca all’arringa di Franco Coppi. Posti in piedi in aula. Tutti gli avvocati del circondario si sono dati appuntamento per sentire il principe del Foro. Coppi inizia spiegando il perché della loro richiesta di astensione: «L’avvocato De Jaco ed io abbiamo sollecitato l’astensione in relazione alle frasi note. Noi difensori non avremmo potuto fare nulla di diverso. Hanno detto che era un’ancora di salvezza insperata. Chi ha detto quelle cose offende quella toga che io indosso e che forse anche lui indossa. Nulla è stato fatto per rendere più difficile il cammino della giustizia. E da un mese che studiamo per l’arringa difensiva. Sono venuto a Taranto domenica scorsa con la voglia di discutere questo processo. Abbiamo appreso di questo scambio di battute, abbiamo fatto quello che tutti gli avvocati degni di questo nome avrebbero fatto. Ci siamo rimessi esplicitamente alla coscienza dei giudici, non c’era bisogno della ricusazione. Volevamo una risposta che ci acquietasse. …abbiamo parlato alle vostre coscienze…. Abbiamo messo in gioco la simpatia presso di voi, ma la toga impone iniziative di questo tipo. Noi dovevamo fare quello che abbiamo fatto. Abbiamo avuto una risposta che viene dalle vostre coscienze e spero che la vicenda sia chiusa così. Se ci saranno altri seguiti non dipenderà da noi. Credo di essere ugualmente legittimato di porre a lei il mio saluto e la dimostrazione del mio ossequio insieme all’augurio che la sentenza che voi state per pronunciare sia quale il popolo attende, ossia solamente espressione di verità e di giustizia». «Dunque ergastolo parola tanto attesa da un’opinione imbevuta di messaggi televisivi. Questa parola è stata finalmente pronunciata, non un dubbio scuote il pm e di ciò noi non abbiamo nessun dubbio. Altrimenti la richiesta sarebbe stata diversa. Dice di essere sereno, caso mai condito con un po’ di amarezza. Non importa che Michele Misseri abbia ripetuto in questa aula di essere stato lui l’unico assassino. E questo non è sufficiente a far venire un ragionevole dubbio, nonostante la sentenze della Cassazione che sottolineano come una condanna oltre ogni ragionevole dubbio debba esserci solo quando non esiste una ipotesi alternativa. E non vediamo come si possa parlare di una tesi oltre ogni razionalità umana, quando Misseri ha confessato, ha fatto ritrovare i vestiti, il cellulare, il luogo di sepoltura. Come si può pensare che questa ipotesi sia al di la della razionalità umana? …. Non riusciamo a comprendere come l’ipotesi di Michele Misseri colpevole non sia dotata di razionalità pratica. Altrimenti seguendo il ragionamento del pm dobbiamo dire che la Cassazione è ininfluente. E dobbiamo ricordare che due volte la corte di Cassazione ha dichiarato fragile l’indizio del movente gelosia, e che non ci sono sufficienti gravi indizi a carico di Sabrina. Ma questo non ha nessuna importanza per i pm. Anzi hanno la massima serenità nel chiedere la condanna all’ergastolo per questa ragazza. Un’accusa cieca che non si rende conto delle contraddizioni delle accuse con cui chiede la condanna al’ergastolo. Ha detto o non ha detto che è stato un movente d’impeto? E per questo si chiede l’ergastolo. E’ vero che viene contestato il sequestro in cui assorbe l’omicidio. Ma questo è il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, non di sequestro. E l’omicidio è delineato come animato da un dolo d’impeto. Nonostante tutto ciò: ergastolo. Dico questo per sottolineare alcuni aspetti dell’intervento del pm, per spiegare poi tutto l’apparato critico che intendo dispiegare per dimostrare l’infondatezza dell’impostazione del pm. Ma iniziamo con il dire che la richiesta del pm coincide con una larghissima attesa dell’opinione pubblica. Nego che il pm abbia voluto compiacere all’opinione pubblica, ma certamente c’è una corrispondenza. E una corrispondenza con le sentenze emesse nei vari salotti televisivi. Non è detto che la vox populi sia anche una vox dei. Io ricordo l’ammonizione del presidente di questa corte che ci ha avvertito che a loro interessa solo quello che accade in questa aula». Il professor Coppi parla anche di conduttori, consulenti, qualche magistrato che vanno in televisione «che senza conoscere gli atti di questo processo hanno pontificato con quella sciocca sicumera che è figlia dell’ignoranza». «Abbiamo visto anche testimoni che hanno applaudito quando Cosima è stata arrestata. Voi dovreste essere solo i notai di queste sentenza di condanna popolare. Quest’aula, anche se non ha la responsabilità di quello che accade fuori di essa, ha comunque assorbito il fastidio e l’astio nei confronti dei difensori degli avvocati di Sabrina Misseri. Non abbiamo nessuna intenzione di trasformare questa discussione in una questione personale, lasciamo perdere gli insulti di cui siamo stati oggetti. Lasciamo stare le minacce. Che ci lasciano del tutto indifferenti. Lasciamo perdere tutte le sfide, tutti i paragoni, le domande impudenti volte a sapere chi è che ha retribuito la nostra attività. E quale sarebbe il tornaconto che a noi verrebbe? A tutti ricordo che io sono un vecchio avvocato innamorato della giustizia e mi sia concesso di ripetere a voce alta: solo questo m’arde e solo questo mi innamora. Sono qui soltanto per spirito di giustizia. Non accuserei mai di un omicidio Misseri sapendo che è colpevole la mia cliente. Se posso far passare sotto silenzio le offese che riguardano la mia persona non posso far passare le offese sul merito di questa causa». «Una barzelletta è stata definita la nostra ipotesi del movente sessuale. Vedremo se questa tesi è una barzelletta. Certo non posso negare che quel giudizio non sia anche una sorprendente offesa nei confronti della mia persona. Ne parleremo a lungo della responsabilità esclusiva di Michele Misseri. Il pm dice che hanno dovuto subire una istanza di remissione, come se questo costituisse un offesa. Ma vi siete chiesti signori del pm cosa abbiamo dovuto subire noi difensori? Vi siete chiesti perché l’abbiamo chiesta? Vogliamo ricordare i motivi di quella remissione? Ma vi rendete conto che quando noi abbiamo inteso svolgere investigazioni difensive, anche solo per andare in carcere a sentire Michele Misseri, che il giudice ha imposto la presenza del procuratore della Repubblica a una attività difensiva? C’è tutta l’Italia che ride. E non dovevamo proporre un’istanza di remissione? E vi siete chiesti perché la procura generale ha espresso parere favorevole alla remissione? E vogliamo ricordare le modalità con cui si è proceduto all’interrogatorio di Michele Misseri? “Ma Michele stai tranquillo, a Sabrina non succederà niente”. Vogliamo ricordare l’incidente del giudice popolare che si è dovuto dimettere? (per avere offeso una testimone della difesa). Vogliamo ricordare la lista dei testi messi sotto processo per falsa testimonianza e favoreggiamento? Non si può dire una parola a favore di Sabrina Misseri senza finire sotto processo. Vogliamo ricordare la nomina di una consulente di Michele Misseri che data la sua specializzazione non capiamo a cosa servisse, che addirittura partecipa all’interrogatorio, che sposta il difensore per procedere lei stessa a fare domande? Anche perché questa consulente si era già pronunciata dicendo che Michele era un pedofilo, l’unico responsabile del delitto. Aveva già conquistata la ribalta televisiva accusando il suo futuro cliente. Una nomina che mi porta a pensare all’articolo 64 secondo comma, all’articolo 188 … Io mi sono dovuto ben guardare di svolgere qualche attività non per paura ma per l’interesse della mia cliente. Noi abbiamo una sola speranza e per questo abbiamo valutato l’astensione. Noi vogliamo avere la fiducia che voi signori giudice saprete allontanarvi dalle suggestioni che vengono da fuori ma anche da dentro questa aula riconoscendo le ragioni della difesa. Le nostre ragioni sono basate sui fatti non alla fantasia e attingono alla logica e al buon senso. Manzoni diceva «Il buon senso c’è, ma è nascosto dal senso comune». Noi dobbiamo guardare agli atti sostituendo al senso comune il buon senso. Uno scrittore americano ha scritto che esistono quattro categorie di giudici quelli con il cuore ma senza testa, quelli con la testa ma senza cuore, quelli senza cuore e senza testa e quelli con il cuore e con la testa. Noi siamo convinti di parlare a giudici che fanno parte di quest’ultima categoria e testa e cuore significa coscienze e cuore di un giudice che ha la forza di sconfessare i pm e di assolvere un imputato per cui è stata chiesta la pena dell’ergastolo. Tutti i nostri testimoni sono sotto processo per falsa testimonianza. Brandelli di verità che sono importanti per noi. Va punita Sarah, e la prima idea che gli viene in mente per spiegare perché Sabrina porta Sarah in garage (una delle versioni di accusa) è proprio questa. Quale valore possono avere le sue dichiarazioni dopo tante versioni? La ritrattazione della ritrattazione? Potremmo dire che una ritrattazione annulla l’altra e si deve tornare alla confessione. Ma abbiamo ben altri argomenti. Iniziamo a chiederci il valore della confessione. Come si può definire prima di riscontri la sua confessione? Visto che ha fatto ritrovare telefonino, corpo, chiavi. La confessione è comunque una prova che non esige riscontri, come stabilisce la Cassazione. Non ha bisogno di riscontri esterni. Ma quanti ergastoli sono stati dati con una semplice confessione. Michele Misseri il 6 ottobre è ascoltato come persona informata sui fatti. I pm a quel punto hanno già sospetti su Sabrina, l’hanno già ascoltata il 30 e le hanno detto che sta dicendo delle falsità pazzesche. Questo è l’atteggiamento dei pm come risulta dall’interrogatorio del 30 settembre. I pm maturano l’idea che Sabrina sappia, che sia addirittura coinvolta bell’omicidio, Ma quel 6 ottobre Misseri inizia a cadere in qualche contraddizione, sugli orari, sulla raccolta dei fagiolini. E lo incitano a dire la verità. E il pm inizia a insinuare l’idea che possa essere capitato un incidente, una disgrazia. «Si liberi un po’, ci faccia capire». La confessione spiazza i pm, bisogna nominare un difensore d’ufficio, ma la pista Sabrina non viene eliminata. E i pm non hanno la capacità di eliminare una pista a cui si erano affezionati. E iniziano gli interrogatori. Michele prima coinvolge la figlia come spettatrice (papà cosa hai fatta) , poi c’è la chiamata in correità e infine la chiamata in reità. Mi chiedo se non si siano state tecniche persuasive che hanno vincolato la libera determinazione di Michele Misseri, che non aveva la forza di resistere alle domande di un pubblico inquisitore. E’ singolare, come i mutamenti di versione avvengono quasi sempre dopo una sospensione di un interrogatorio e dopo una serie di rassicurazioni e di inviti su Sabrina. «Questo per scagionare Sabrina, Miché, stai tranquillo….». Anche Nicola Marseglia per Sabrina Misseri, nonostante il suo smisurato rispetto per i magistrati tarantini  afferma che «Questo è un processo particolare, abbastanza atipico. E' il processo di Sabrina Misseri, a Sabrina Misseri. E' stato così sin dal primo momento. Il capitano Nicola Abbasciano, ex comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri, che fu posto al vertice delle indagini, l'aveva individuata fin dal primo momento insieme a Ivano Russo – dice l'avvocato Nicola Marseglia - Si coltiva questa ipotesi di lavoro dall'inizio. La confessione di Michele Misseri - ha aggiunto Marseglia - ha spiazzato l'ufficio del pubblico ministero e ha introdotto un elemento spurio di ipotesi di lavoro a cui non aveva pensato nessuno. Da qui nasce l'equivoco nei confronti di Sabrina, che subisce una serie di aggiustamenti nel corso delle indagini che non conoscono alternative.» Questo la dice tutta sul clima che si respira a Taranto e sulla conduzione dei processi. A Taranto poi, c’è il paradosso dei rei confessi in libertà e di chi, dichiarandosi innocente, senza cedimenti e da presunti innocenti nelle more del processo, rimane per anni in carcere. A Taranto sono troppi gli errori giudiziari ed i reo confessi che non sono creduti, in onore di una tesi accusatoria frutto di un personale modo di pensare proprio di un magistrato requirente, che non può pregiudicare anni d’indagine da lui condotte, ed in virtù di un appiattimento a questa tesi dovuto ad un libero convincimento di una persona normale, suo collega, che fa il magistrato giudicante avendo vinto un concorso pubblico. Magistrati inseriti in un ambiente dove si tifa per la colpevolezza di qualcuno sotto influenza mediatica locale e nazionale. La stampa, anziché riportare i fatti e concentrasi sul perché l’evento confessato sia avvenuto, si concentra a minare la credibilità del confessore. E meno male che la confessione nel codice di procedura penale è considerata una prova regina! Sembra, infatti, che la percezione che i giurati hanno della sicurezza di un testimone, sia responsabile per un 50% delle variazioni nel loro giudizio sulla credibilità del testimone e che, in ogni caso, la maggior parte delle giurie crede che la sicurezza e la precisione di un resoconto testimoniale siano tra loro correlate positivamente, reputando più attendibile la testimonianza resa dalle forze dell'ordine o di chi riferisce nel racconto molti dettagli marginali, sopravvaluta il tempo impiegato per commettere un crimine e la possibilità di riconoscere un volto a distanza di mesi. Detto questo e in riferimento alle confessioni si richiama un altro caso. Il “killer delle vecchiette”. Ma ormai il “killer delle vecchiette” è morto. E se dalla stampa era venuto questo appellativo di killer qualche omicidio doveva pur averlo commesso, sì, ma per i magistrati di Taranto era colpevole solo per quell’unico delitto per il quale non erano stati capaci di accusare qualcuno. E' morto il 15 dicembre 2012 nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Padova il detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il 'serial killer delle vecchiette', trovato impiccato il giorno prima nella sua cella del carcere di Padova. Il legale di Sebai, l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi sul fatto che il suo assistito si sia effettivamente suicidato. Secondo il legale, dopo una recente sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio una condanna per un omicidio commesso da Sebai a Lucera, il tunisino era infatti nelle condizioni di ottenere la revisione dei suoi processi in quanto non in grado di intendere e volere a causa di una lesione cerebrale subita da piccolo. Aveva quindi, secondo il legale, molte speranze di potere tornare a casa o in un centro adatto alla sua patologia. Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. Altra vergogna, altro precedente. 15 aprile 2007. Carmela volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso, il padre di Carmela - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile. Altro precedente. È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso. Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la Corte d’Appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto». In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti. Altro precedente: non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln di euro. Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Pedone, meccanico di 51 anni, da innocente ha trascorso quasi otto anni in cella prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano già parzialmente emersi nel corso del processo madre. «E’ certo - ha detto l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione. Carlo Petrone è l’avvocato di Dora Chiloiro nel processo sul delitto di Sarah Scazzi, accusata anch’essa di falsa testimonianza.»

Come si è comportata la stampa e la televisione in questa vicenda che ha colpito, sì, la famiglia Scazzi e Misseri, ma anche tutta la comunità avetranese?

«Anche Hollywood fa la sua comparsa nel processo Scazzi. L’accurata arringa dell’avv. Franco De Jaco affida al potere delle immagini di un film in bianco e nero del 1957 il destino della sua assistita. La pellicola diretta da Sidney Lumet, intitolato “Parola ai giurati” e magistralmente interpretato da un superbo Henry Fonda, racconta l’accorata difesa di un ragazzo di diciotto anni accusato di aver ucciso il padre che lo picchiava. Nella pellicola, rivolgendosi ai giurati, riuniti in Camera di Consiglio, spetta all’avvocato del giovane dimostrare che non ci può essere una condanna quando sussista quel “ragionevole dubbio” di fronte al quale è impossibile emettere un verdetto di colpevolezza. “Avetrana non è Hollywood”. L’assedio di media e curiosi. «Non è Hollywood» c’è scritto su un muretto di mattoni che si trova a poca distanza dall’abitazione della famiglia Misseri, dove è stata uccisa, il 26 agosto 2010, Sarah Scazzi. Il messaggio è indirizzato alle numerose troupes televisive e di ‘fly’ (furgoni con le antenne paraboliche montate sul tetto) che presidiano da giorni l’abitazione in cui vivono la mamma e la sorella di Sabrina Misseri. Proprio davanti alla villetta di via Grazia Deledda vanno in onda, in diretta, diversi collegamenti televisivi e si montano ogni giorno i servizi per i telegiornali e gli speciali tv. Già Valentina Misseri aveva urlato in più occasione contro i giornalisti. La sorella di Cosima, Emma,per sfuggire all’assalto dei giornalisti ha colpito con uno schiaffo al volto un operatore tv; contro gli altri ha urlato: «Andate via, che c’entriamo noi!». E continuano anche i pellegrinaggi dei “turisti dell’orrore”: alcune famiglie arrivate dal Foggiano per visitare i luoghi in cui ha vissuto, è morta e ora riposa Sarah. Ma la storia si ripete. A Newtown come Avetrana. Tutto il mondo dei media è paese. La città della strage in Usa è assalita da orde di cronisti e camion tv. Almeno 27 morti, tra cui 20 bambini, tra i 5 e i 10 anni, sono stati falciati il 14 dicembre 2012 da un giovane con problemi mentali, Adam Lanza, poco più che ventenne. Dopo la sparatoria, non c’è tempo per il dolore. La piccola città è letteralmente invasa dai media e dai giornalisti. A denunciare tutto il racconto di un cronista della BBC, Johnny Dymond. “E ‘insopportabile. Che cosa vogliono tutti? Sono quattro o cinque famiglie che hanno perso i bambini ed è troppo per loro, con tutti i media qui. Che cosa cerchi?” gli racconta nella hall dell’albergo dove dorme, uno degli abitanti, infastidito dalla troppa attenzione.  Il villaggio della scuola di Sandy Hook, è cambiato. Tra camion, microfoni e crocevia di persone, le stradine non sono più le stesse. E poi Casa Grillo come ad Avetrana. Dal giorno della certificazione del successo del Movimento 5 Stelle alle politiche 2013 , una schiera di giornalisti e fotografi stanzia di fronte alla casa di Beppe Grillo. Accampati in attesa, nella speranza di una dichiarazione o di un’immagine dell’inafferrabile leader mentre scorrono, nei tg, le immagini del cancello che si apre e da cui esce, quando va bene, un’auto. Un modus operandi, un modo di fare giornalismo e di raccontare le cose che ricorda da molto vicino le più recenti pagine di cronaca del nostro Paese, con i cronisti accampati di fronte alla casa dell’assassino o della vittima di turno. E un modello che, quando Beppe Grillo non è in casa, come in occasione della trasferta romana per l’incontro e la catechizzazione dei neo eletti, si ripete puntuale fuori dall’hotel dove il leader grillino è atteso. Un corto circuito informativo in cui i fotografi vengono fotografati, in cui i leader non dichiarano e i giornalisti non comprendono che la loro attesa a microfono spianato della dichiarazione sarà vana. E così il modello applicato è e rimane quello classico: il modello ‘Avetrana’, un modello inadeguato che genera persino dei paradossi. E’ il caso dei fotografi fotografati, i fotografi cioè che, appostati per catturare le immagini del primo conclave grillino, si sono ritrovati ad essere i soggetti degli scatti divertiti dei neoeletti che con i loro cellulari immortalavano il loro primo momento di notorietà. Come è diversa Brembate di Sopra. Il sindaco di Brembate Sopra, Diego Locatelli, dopo la richiesta di silenzio stampa avanzata dalla famiglia Gambirasio sulla scomparsa di Yara, è intervenuto sulla vicenda e attraverso un comunicato ha invitato “gli organi di informazione ad abbandonare il suolo pubblico occupato e la cessazione delle attività finora svolte sul territorio di Brembate di Sopra”».

Dal punto di vista sociologico cosa ha dedotto dal comportamento dei media e dell’influenza che questi hanno sulla gente che li segue?

«Il delitto di Sarah Scazzi ha dato vita ad un fenomeno inspiegabile e mai avvenuto prima. La gente a casa partecipa ad un reality show e con il telecomando della tv decide chi è il colpevole. Quanto più le trasmissioni tv che si interessano al caso alzano il loro share adottando la linea giustizialista, tanto più quella trasmissione viene seguita dai telespettatori e tanto più si guadagna in pubblicità. Di conseguenza la trasmissione rincara la dose, concentrandosi sugli elementi, veri o artefatti, adducenti la colpevolezza del tapino di turno. Essere garantista in tv non paga e i giornali si adeguano. Lo hanno capito bene i magistrati aprendo un processo ed adottando le tesi accusatorie che più aggradano il pubblico.»

Da esperto giuridico: a punta di Diritto cosa ha da contestare?

«Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un processo con prove certe? No! E’ un processo con indizi precisi, gravi e concordanti, tali da formare una prova? No! E’ solo un processo alle intenzioni. Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un esempio. Questo è un PROCESSO INDIZIARIO. Ossia è un processo senza prove ma solo indizi, contrastanti e contestabili. Senza prove, nonostante vi siano innumerevoli intercettazioni ambientali, anche in carcere. Nulla traspare la prova regina. Mai vi sono state confessioni carpite, ma solo le confessioni genuine di Michele Misseri: la prima e l’ultima. Da parte della magistratura tarantina vi è solo l’esigenza di accontentare la bolgia popolina che chiede il sangue degli imputati e la dimostrazione che Avetrana è omertosa e collusa. Indotti a ciò da un giornalismo approssimativo ed ignorante, oltre che pregno di pregiudizi e luoghi comuni. A ben guardare con gli occhi imparziali la ricostruzione del delitto pare che sia più frutto di illazioni, supposizioni e congetture della Pubblica accusa, mal sostenute da prove oggettive. Tale ricostruzione è facilmente attaccabile dalla difesa degli imputati. Difesa composta da vecchi ed agguerriti volponi. Da quanto desunto e dalla mancanza della pistola fumante (prova certa) appare che le imputate (Cosima e Sabrina): o sono innocenti,  o siano talmente brave, le imputate, da non lasciar alcuna traccia del loro delitto. Nessuna prova; nessuna confessione. D’altro canto colui che si professa colpevole, inascoltato, lui sì, avendo fatto trovare prima il cadavere e poi il cellulare, è solidamente riconducibile al delitto ed alla soppressione del cadavere. E non si pensi che Michele sia uno sprovveduto. Le sue comparsate in tv e le lettere e quant’altro fatto senza la presenza dei parenti induce a pensare che “Zio Michele” sa il fatto suo. Ogni sua azione non può essere frutto di induzione ed istigazione di moglie e figlia tenuto conto che esse marciscono in galera da anni e quindi nessuna possibilità di regia. Ossequiosi e  servili, poi, sono state le parti civili. E non sono mancate i riporti ai luoghi comuni ed ai pregiudizi diffamatori alla comunità: “Delitto di mafia” ha sentenziato la difesa di Concetta Serrano; “Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona”. Così si è espresso con la sua arringa l’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Amara verità per chi come lui denuncia, sì, ma non fa niente per cambiare le cose e per chi come me, invece, porta avanti una battaglia ventennale che riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato”. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti. Non solo, pur avendo già segnalato ai precedenti Parlamenti, è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 10 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me, come presidente di una associazione antimafia, è stata impedita l’iscrizione del sodalizio per mancata costituzione dell’albo. Tornando al processo sono di tutt’altro tenore le difese degli imputati: “In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Tant’è che i pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della prima. Atti che arriveranno allo stesso ufficio della Procura che ne ha chiesto la trasmissione. Poi ci sono anche altri 3 avvocati, oltre a Vito Junior Russo, che, d'altronde, il 21 novembre 2011 sono stati assolti da Pompeo Carriere: Gianluca Mongelli accusato di tentato favoreggiamento personale insieme a Vito Russo. Per Emilia Velletri, ex difensore di Sabrina con il marito Vito Russo, le accuse di intralcio alla giustizia e di soppressione di atti veri. All’avv. Francesco De Cristofaro, del foro di Roma, ex legale di fiducia di Michele Misseri, la Procura contesta invece il reato di infedele patrocinio. Velletri, Mongelli e De Cristofaro sono stati giudicati e assolti con il rito abbreviato. La Procura ha chiesto un anno di reclusione per Emilia Velletri e Francesco De Cristofaro e sei mesi per Gianluca Mongelli. Non ci dimentichiamo poi che il processo ha altri tentacoli. Tra questi c'é quello che coinvolge Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che raccontò di aver visto, il 26 agosto 2010, Cosima intimare in strada a Sarah di salire in auto (dove c'era presumibilmente, per l'accusa, anche Sabrina), salvo poi riferire due giorni dopo che si era trattato di un sogno. C’è sua cognata Anna Scredo, moglie dell’imputato Antonio Colazzo, poi prosciolta dal Gup, c’è il suo amico  Michele Galasso, c’è il funzionario di banca Angelo Milizia. E che dire della ex psicologa del carcere di Taranto Dora Chiloiro, citata come teste dalla difesa di Sabrina Misseri. La stessa, all’udienza del 10 dicembre 2012, ha dichiarato di essere stata "imprecisa" nell' udienza preliminare del 7 novembre 2011, quando riferì di aver avuto numerosi colloqui in carcere con Michele Misseri, di averlo sentito in carcere anche dopo l'incidente probatorio del 19 novembre e che Michele Misseri aveva detto di essere stato lui ad uccidere Sarah. Per questi motivi Chiloiro è stata già rinviata a giudizio per falsa testimonianza, avendo confermato le dichiarazioni dell'udienza preliminare anche nel processo dinanzi alla Corte di assise.»

Da esperto dell’informazione cosa ha da contestare?

«E la stampa cosa fa? E’ sadica e cinica. Da bollino rosso sono tg e approfondimenti giornalistici: il Comitato Media e Minori e L’Agcom hanno «bocciato» soprattutto servizi e dibattiti sui delitti con vittime minorenni: preoccupante lo stile usato nel trattare i casi di Sarah Scazzi, Yara Gambirasio ed Elisa Claps da Tg1 e Studio Aperto (sanzionati più volte); da censurare anche l’approccio di Chi l’ha visto? (Rai3) sull’omicidio Claps per le «immagini particolarmente impressionanti» o di Quarto grado (Rete4) per la «dettagliata galleria di casi criminosi». Il Comitato biasima la scelta di trattare crimini nella fascia protetta «spettacolarizzando la notizia» e «soffermandosi sugli aspetti più morbosi», come è accaduto nei contenitori pomeridiani delle principali reti. Violazioni sono state compiute da Pomeriggio Cinque e Domenica Cinque su Canale 5, e La vita in diretta (Rai1) dove si è giocato sull’«invasività e la ricerca di espressioni e filmati forti capaci di attirare l’attenzione dei telespettatori». Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi «Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. Eppure c’è stato il coinvolgimento di Ilaria Cavo, giornalista di Mediaset, l’unica insieme a Maria Corbi de “La Stampa”, a raccontare in modo corretto ed imparziale la cronaca di un processo emblematico. Ilaria Cavo, brava giornalista di Mediaset che per conto del programma Matrix si è occupata di celebri casi di cronaca nera. Decine di simili situazioni, nel suo libro “Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia”. Le vicende contenute nel volume riguardano per lo più casi che non hanno attirato su di sé l’attenzione dei media. Sono passati abbastanza in sordina. E forse per questo sono ancora più sconcertanti. Il procuratore aggiunto Pietro Argentino ha fatto notificare l’avviso di chiusura delle indagini preliminari al 34enne di Ginosa Raffaele Calabrese, ingegnere, consulente della difesa di Sabrina Misseri, e alla giornalista di Matrix Ilaria Cavo. L’episodio in questione è quello avvenuto il 26 ottobre 2010, quando Calabrese avrebbe offerto ad alcuni giornalisti televisivi che stazionavano dinanzi al tribunale, alcune foto scattate nel garage della famiglia Misseri, quello che viene indicato negli atti ufficiali come il luogo del delitto di Sarah. Il giornalista del Tg2 Valerio Cataldi riuscì a registrare il colloquio con il consulente della difesa di Sabrina, rifiutando ovviamente ogni forma di trattativa economica. La stessa sera, quelle foto poi furono mandate in onda da Matrix. A Raffaele Calabrese il procuratore aggiunto Pietro Argentino contesta l’interferenza illecita nella vita privata dei Misseri perché «mediante l’uso di una macchina digitale, si procurava indebitamente immagini relative all’interno del «garage» dell’abitazione di Cosima Serrano e Michele Misseri, scattando almeno 16 foto delle quali tre le cedeva a Ilaria Cavo. Con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di prestazione d’opera». La giornalista Ilario Cavo è indagata invece per ricettazione in quanto «a scopo di profitto acquistava e, comunque, riceveva da Raffaele Calabrese le foto del garage di sicura provenienza delittuosa». E sul fronte dell’informazione, va segnalato che la Procura ha avviato accertamenti anche sull’intervista a Michele Misseri fatta in carcere il 13 febbraio 2011  dalla giornalista di Libero Cristiana Lodi che entrò nella casa circondariale come collaboratrice di un parlamentare del Pdl, la deputata del Pdl Melania Rizzoli De Nichilo. Per Ilaria Cavo e Raffaele Calabrese il giudice monocratico Ciro Fiore il 22 maggio 2012 ha dichiarato l’assoluzione. Calabrese ha chiesto il processo con rito abbreviato, la Cavo rito abbreviato condizionato all'audizione di un altro giornalista. E poi ancora c’è il caso di Fabrizio Corona, condannato a cinque anni di detenzione per estorsione ai danni del calciatore David Trezeguet. Il 2 luglio 2013 da detenuto dovrà presentarsi al Tribunale di Manduria con l’accusa di violazione di domicilio. La denuncia è stata sporta da Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi. La vicenda risale al 26 febbraio 2011, quando l’ex re dei paparazzi era entrato in casa della famiglia Scazzi passando da una finestra e spaventando la madre della ragazza. Nonostante le scuse alla donna, in televisione Corona ha raccontato un’altra versione dei fatti: disse di essere rimasto nell’abitazione di Concetta a chiacchierare per una mezz’oretta, e che Concetta gli aveva perfino offerto il caffè. Lo scopo del fotografo era quello di realizzare delle interviste in esclusiva ai protagonisti della tragica vicenda. Concetta Serrano non ha ritirato la denuncia e, come disposto dal pm Maurizio Carbone, il paparazzo dovrà presentarsi quest’estate al Tribunale di Manduria. Per l’accusa di violazione di domicilio, Fabrizio Corona rischia altri 3 anni di carcere. A proposito di interviste non autorizzate. Concetta Serrano, la mamma della 15enne Sarah Scazzi uccisa lo scorso 26 agosto 2010, il 9 aprile 2011 ha presentato una denuncia-querela contro il giornalista Mediaset Marcello Vinonuovo per la trasmissione di un’intervista non autorizzata andata in onda venerdì 8. L’episodio, sul quale non si sono appresi particolari, è stato denunciato ai carabinieri della Stazione di Avetrana. E’ andata in onda una nuova puntata di Studio Aperto Live, lo spazio di approfondimento di Studio Aperto che su Italia 1 si occupa delle vicende di cronaca più attuali. Quindi alla luce delle nuove notizie legate alla richiesta del Dna per quattro persone implicate nel caso con diversi ruoli si è deciso di tornare ad Avetrana per parlare con Concetta Serrano ed è stata mandata in onda un’intervista alla madre di Sarah che però non era stata autorizzata dalla donna. L’argomento dell’ultima puntata era ancora il caso dell’omicidio di Sarah Scazzi: tracce di Dna riaprono le indagini. E proprio questo particolare ha spinto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, a presentare una querela contro il giornalista di Mediaset Marcello Vinonuovo presso i carabinieri della Stazione di Avetrana. Subito sono arrivate le repliche di Giovanni Toti, direttore di Studio Aperto, e Mario Giordano, direttore di News Mediaset: i due hanno subito detto che quella realizzata da Vinonuovo non è un’intervista rubata, Toti dice: “Il cronista si è qualificato come tale, aveva il microfono in mano e accanto l’operatore con la telecamera in spalla. Le domande erano assolutamente rispettose: non c’era nulla che potesse ledere la dignità della madre di una vittima, anzi la signora Concetta ha avuto la possibilità di esprimere il suo punto di vista. La conversazione si è svolta senza alcuna tensione nè fraintendimento, nè sui contenuti nè sul ruolo di entrambi. Non vedo perchè non avremmo dovuto mandarla in onda”. Anche Giordano interviene sulla vicenda dicendo: “L’intervista è stata realizzata in luogo pubblico, da un giornalista che si è dichiarato tale, con il microfono ben in vista come dimostrano le immagini. La signora Concetta ha espresso ragionamenti sensati e condivisibili rispetto a un tema di interesse pubblico. Una persona può legittimamente non rispondere, ma se risponde e c’è interesse pubblico a quello che dice, non vedo perchè non lo si debba trasmettere”. Non turba a nessuno il fatto di sapere che Concetta Serrano, pur quasi ogni giorno sulla cronaca con la sua famiglia, rilasci interviste a iosa e, nonostante tutti i media siano con lei e artatamente contro sua sorella Cosima Serrano e sua nipote Sabrina Misseri, pretende di autorizzare o meno le interviste scomode e di denunciare Marcello Vinonuovo di Italia 1, forse perché collega di Ilaria Cavo. Ilaria Cavo è con Maria Corbi l’unica ad aver dato notizie con un minimo di imparzialità. Ad Avetrana non c’è modo di palesare la verità nonostante la multa per 400 programmi tv che si sono occupati in maniera morbosa del caso di Avetrana. L’Agcom ha voluto porre un freno a questa continua ricerca di fare ascolti in televisione sfruttando il dolore delle persone ed ha comunicato all’Ordine dei giornalisti l’intenzione di multare 400 trasmissioni che si sono occupate del caso Scazzi violando le norme. Ma secondo il presidente dell’Ordine, Enzo Iacopino i giornalisti sono stati trattati come burattini da burattinai: “Seminavano tutto e tutto noi giornalisti mandavamo in onda o pubblicavamo sui giornali”

A questo punto cosa vorrebbe che si sapesse?

«Ora basta!!! Bisogna far conoscere la verità. La verità storica alternativa a quella mediatico-giudiziaria. Il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi non è contro i Misseri, ma contro Avetrana, anzi, contro il Sud Italia. Gelosia e Reputazione sono i traballanti moventi inquadrati da stampa e magistratura. La magistratura sin da subito è stata incapace di sbrogliare la matassa fino a quando la soluzione gli è stata offerta sul piatto d’argento proprio da Michele Misseri. Ed ancora si continua ad insinuare che Avetrana non ha collaborato. Ipotesi fomentate da giornalisti ignoranti e prezzolati da padroni senza scrupoli e dal finanziamento pubblico. Pennivendoli che alimentano stereotipi datati. Nel contesto territoriale (per loro omertoso e retrogrado) non emerge più il cafone con coppola e con lupara che per gelosia spara a destra ed a manca. Oggi ci rapportiamo con l’evoluzione del pregiudizio: donne baffute in nero nascoste da gonne lunghe e fazzoletto in testa che con il sangue lavano l’onta del tradimento e della maldicenza. Poco si parla dell’Avetrana tecnologica con i suoi giovani a navigare sul web ed a rapportarsi sui social network ed a passare il tempo libero fino a notte inoltrata nei Pub all’inglese maniere. No! Bisogna far immaginare Avetrana con i carretti trainati dai muli o meglio dagli asini di Martina Franca. Quante volte si è sentito nei salotti trash della tv italiana da improvvisati commentatori: “…non siamo a Milano o a Roma, siamo lì. Qui si parla di Avetrana, un piccolo paese del sud. Lì..un paese così…dove tutti si conoscono, dove tutti stanno a sparlare…un paese del profondo mezzogiorno. Mi sa tanto che quando si parla dei cervelli in fuga non ci si riferisce alle nostre eccellenze che sono costrette ad emigrare, ma ci si riferisca agli encefali fuggiti dai crani dei giornalisti che sono stati ospitati ad Avetrana, anziché cacciati così come hanno fatto a Brembate di Sopra. Giornalai, e non giornalisti, che per dare la loro verità sono stati pronti ad intervistare nullafacenti ed ubriaconi nei bar del paese. Nel film “Benvenuti al Sud” la frase ricorrente è che chi viene al sud piange due volte: nel venire e nell’andar via. Bisogna dire che, invece, è proprio certa stampa che fa venir da piangere, ma per la loro condizione professionale. Mi sa che fa bene Beppe Grillo a non voler rapportarsi con tutti loro, così come aveva ragione Malcom X. Disse Malcolm X, «Se non state attenti, e dico questo perché ho visto qualcuno di voi cascare nella trappola, se non state attenti finirete con l'odiare voi stessi e con l'amare il bianco che vi procura tanti guai. Se gli consentite di persuadervi, vi spingerà a credere che non è giusto usar violenza contro di lui quando lui la usa contro di voi. Se non state attenti i media vi faranno amare gli oppressori e odiare quelli che vengono oppressi. La stampa è capace di farvi amare gli assassini ed odiare le vittime». Giorgio Bocca (notoriamente antimeridionale) su “L’Espresso” se la prende anche con i giornalisti locali: «Ne esce male anche l'informazione, Avetrana è un villaggio del profondo Sud nella campagna di Taranto, i primi ad accorrere sono i corrispondenti locali che mandano fiumi di parole confuse, di rivelazioni contraddittorie che si aggiungono alla difficoltà di trovare una minima ragione nella caotica e irragionevole vicenda.» Avetrana, invece, ha capito da subito che le luci della ribalta volevano un paese maledetto, omertoso. «Ma quale omertà, qui è il contrario, nessuno si fa i fatti suoi» dicono ora che il virtuale è più forte della realtà. Adesso che i programmi televisivi si sono inseguiti in una corvée instancabile e ormai quasi mancano le comparse, a Sabrina tocca apparire a reti unificate: piange a Matrix e nello stesso tempo è a Porta a porta con la riedizione di un suo intervento a La vita in diretta. La prima a capire che solo la tv poteva salvarla è stata la madre di Sarah, Concetta. Da subito ha intuito che spalancando la porta ai media avrebbe conosciuto la sorte di sua figlia. E così è stato. Sospira il procuratore capo di Taranto Francesco Sebastio: «Ditemi un momento nel quale non era in televisione a dirci come condurre le indagini, come dovevamo fare... Non si poteva neppure dire all’assassino: aspetta a confessare che finisca la trasmissione. Ne sarebbe iniziata un’altra». E per 42 giorni, come nota un investigatore, «lei davanti alle telecamere si è fatta sempre trovare pronta e in ordine». Senza un filo di ricrescita, notano i maligni, «i capelli rossi, come se ogni giorno si rifacesse l’henné». Una famiglia diabolica, i Misseri, decimata dalle accuse ed Avetrana, bollata come omertosa, bugiarda, depistante. Questo il ritratto che il pm del caso Sarah Scazzi ha tracciato in quattro giorni di requisitoria chiedendo l’ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, madre e figlia, zia e cugina della vittima accusate di concorso in omicidio e sequestro di persona. Non solo. I pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della prima.  Ivano Russo in collegamento da Avetrana con “La Vita In Diretta” con Marco Liorni si è lamentato del fatto che lui ha rischiato di essere arrestato perché sospettato del delitto o comunque di essere reticente o falso, oggi verrebbe indagato, pur inquadrate le responsabilità del delitto, per essere stato reticente e falso. Il movente per i Pubblici Ministeri di Taranto? «La possibile rivelazione dei rapporti intimi con Ivano (amico delle due cugine) che avrebbe potuto compromettere l'immagine della famiglia Misseri in un piccolo centro provinciale come Avetrana». Come se la gente del piccolo centro come Avetrana non ha null’altro da fare che stare dietro alle vicende sessuali di una ragazza che non conosce e che non interessa conoscere tenuto conto di tutti i problemi che attanagliano i cittadini italiani. Naturalmente qui si parla di magistrati che, dai dati pubblici rilevabili da siti istituzionali, risultano essere anche loro del posto che degradano. Si parla  di BUCCOLIERO dott. Mariano Evangelista Nato a Sava il 7.4.1965 e di Argentino dott. Pietro di Torricella. Ma contro i pregiudizi non ci sono limiti. Da ultimo e non sarà l’ultima volta, un sedicente giornalista, tal Paolo Ojetti, il  7 marzo 2013 in riferimento al delitto di Sarah Scazzi ha scritto su “Il Fatto Quotidiano”: «Quello che alla fine lascia pensosi è il “contesto”, una alchimia di arcaico e ipermoderno, di barbarie da profondo sud e di spregiudicato uso dei media da parte di assassini e di comprimari…E il movente? Messaggini erotici da tenere segreti. Ricatti sessuali adolescenziali. Difesa della purezza familiare, valore dalla cintola in giù che giustifica tuttora violenza, stupro, incesto, femminicidio. Può anche darsi che la cronaca nera punti solo all’Auditel. Ma, almeno in questo caso, è stato uno schiaffo benefico che riporta con i piedi sulla terra di un paese arretrato». In riferimento al gruppo di Sarah Scazzi il sedicente giornale “padano” di Taranto, “Taranto Sera”, scrive «Un gruppo in cui non si sarebbe disdegnata qualche pratica parecchio ‘spinta’, inconfessabile, a maggior ragione in un contesto come quello di un piccolo paese del profondo Mezzogiorno, quale Avetrana.» Altra sedicente giornalista, tal Annalisa Latartara, non nuova ad exploit del genere (si pensi viene dalla nordica Taranto), lo stesso giorno e sempre a proposito ha scritto su “Il Corriere del Giorno” di Taranto: «Ma l’opera di depistaggio della famiglia Misseri è stata agevolata dall’omertà di chi ha visto e non ha raccontato nulla, né di sua spontanea iniziativa, né dinanzi agli investigatori. Di chi chiamato a deporre in aula non ha detto tutto quello che sapeva.» Ed ancora altro sedicente giornalista, tal Pasquale Amoruso e sempre a riguardo su “Il Quotidiano Italiano” (padano anch’esso) di Bari ha scritto: «L’omertà è il vero strumento di contrasto alla Giustizia nel caso Scazzi. L’omertà di Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che dichiarò di aver visto zia e cugina costringere Sara in lacrime salire in macchina, salvo poi ritrattare la sua versione, dicendo di non aver visto effettivamente la scena, ma piuttosto, di averla sognata, e l’omertà di tre suoi parenti, indagati per favoreggiamento personale e intralcio alla Giustizia. L’omertà dei nove testimoni le cui dichiarazioni contrastano con le prove in mano agli inquirenti e l’omertà di chi, pur sapendo come stanno le cose, perché qualcuno c’è, non parla per preservare, non so cosa sia peggio, un assassino o una rispettabilità ormai perduta. Insomma, quante persone occorrono per uccidere una ragazzina? Tutte quelle che non parlano.» Ed ancora. «Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini.»

Va bene, ma gli amministratori locali e con essi l’opposizione consiliare cosa hanno fatto?

«Nonostante lo smacco giudiziario e l’offesa mediatica a tutta la popolazione avetranese il sindaco della ridente località, Mario De Marco, del Popolo delle Libertà, e la sua giunta cosa fanno? Anziché prendersela con chi ci sputtana, le loro ire si rivolgono alle parti più deboli, forse responsabili di delitti che, però, niente hanno a che fare con le insinuazioni o le vere e proprie accuse di omertà ed arretratezza sociale e culturale della comunità. «Avetrana - si legge nell'atto di parte civile - si è guadagnata la triste fama di cittadina quasi omertosa, simbolo di un profondo sud, vittima ancora oggi di troppi luoghi comuni. Sono note le spedizioni dei cosiddetti turisti dell'orrore - continua l'avvocato Corleto - che si sono avventurati nei luoghi simbolo della vicenda: le vie in cui si trovano le abitazioni della famiglia di Sarah e della famiglia Misseri, lo stesso cimitero che ospita la tomba di Sarah, nonché il pozzo di campagna nel quale è stato rinvenuto il cadavere della ragazzina sono stati meta di veri e propri pellegrinaggi. In questa dolorosa vicenda ci sono due vittime. La prima è certamente Sarah, l'altra è la città di Avetrana». «Gli Avetranesi hanno nel cuore Sarah e sono offesi dal comportamento della famiglia Misseri. Perché a prescindere dalle singole responsabilità che saranno accertate nel dibattimento, sono stati loro a innescare la morbosa attenzione dei media su questo caso e la conseguente ripercussione negativa per l'immagine della nostra comunità»,  rincara la dose il vicesindaco Alessandro Scarciglia.  «In tutta questa situazione la popolazione di Avetrana è rimasta letteralmente disorientata, privata della propria serenità, impossibilitata ad osservare il dovuto silenzio e rispetto nei confronti della giovane vittima, nonché violentata in ogni aspetto della quotidianità, oltre che letteralmente assediata dai mezzi di informazione». Una «sete di giustizia», continua il documento della costituzione di parte civile, per «un’offesa enorme, una ferita profonda che merita di essere valutata e adeguatamente riparata in sede giudiziaria». Per gli amministratori che si dichiarano parte offesa, quindi, «il nome di Avetrana è ormai tristemente associato al crimine del quale sono chiamati a rispondere gli imputati» che dovrebbero così, se condannati, rifondere la somma «che sarà poi quantificata - ha spiegato il penalista Corleto - in un secondo tempo e in sede civilistica». Lo stesso avvocato che dovrebbe difendere la reputazione di Avetrana afferma inopinatamente  «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli Avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! L’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. Difendendo a suo parere subito la «parte sana» della comunità avetranese (e meno male se fosse stato il contrario?), per il cui danno all’immagine ha chiesto 300 mila euro di risarcimento danni, il penalista leccese ha esordito dicendo che «la popolazione di Avetrana non è omertosa, è fatta di persone buone», fatta eccezione, ha aggiunto diffamando gratuitamente, prima con un’intervista a Blustar TV e poi in aula, coloro che in giudizio non sono. «Il collegio dei Falsi, cioè Valentina (Misseri) e compagni, che buttando a mare tutti gli avvocati precedenti, hanno imposto questa linea  della banda del falso che come Ivano Russo sono i giganti del turpiloquio e del depistaggio: una serpe. E’ il soggetto più turpe, più viscido. La serpe che entra nel processo. Che parla fuori, dentro le aule, le interviste, alle telecamere e tutto ciò che sapete, quando deve dire qualcosa di concreto, è questo il vangelo dettato dalla regia. Quando si sono visti con le mani al collo non potevano più dire chiacchiere a gente con la toga e dicono non ricordo». Avetrana: omertà e mafia, luoghi comuni che si rincorrono. «Un massacro gestito con metodi mafiosi. Sarah Scazzi è stata massacrata ed è un massacro peggiore per le condotte successive al delitto che denotano un metodo mafioso, da 416 bis. Sarah non doveva essere solo uccisa - ha spiegato Nicodemo Gentile, l’avvocato degli Scazzi - ma doveva sparire ed essere annientata. Non doveva esistere più. Doveva diventare uno di quei tanti volti che fanno parte dell'esercito di scomparsi.» Chi rappresentava Avetrana avrebbe fatto meglio a cercare e catalogare in questi anni ogni articolo di stampa ed avrebbe dovuto registrare ogni intervento delle miriadi trasmissioni tv per far rendere il conto delle loro denigrazioni ai rispettivi responsabili, siano essi ignoranti giornalisti o che siano pseudo esperti improvvisati. Come non dar ragione all’altra parte politica di Avetrana: «Sono Cinzia Fronda, cittadina del paese di Avetrana e segretaria sezionale del Partito Democratico. Scrivo da cittadina di un paese devastato, maltrattato, violentato da tanto orrore. Ovviamente mi riferisco al caso Scazzi che da qualche giorno è tornato prepotentemente alla ribalta. Ho sentito diversi giornalisti che con una facilità pericolosa e poco professionale, secondo la mia opinione, continuano a denigrare Avetrana e i suoi abitanti facendoci passare per quelli omertosi, ignoranti e, perché no?, cittadini di serie C2! Sono veramente stanca di questo continuo maltrattamento mediatico, vorrei fare presente che la maggior parte dei cittadini di Avetrana sono persone normali, con una cultura normale, con una vita normale e che non mi sembra assolutamente giusto che si faccia di tutta l'erba un fascio. Con tutto il rispetto per gli abitanti di Brembate, che hanno anche amministratori di rispetto che ben si sono guardati dall'esporsi in maniera esagerata, non cedendo al fascino mediatico, vorrei far presente che lì la famiglia di Yara ha chiesto il silenzio stampa e allora tutti a parlarne bene mentre per il caso di Avetrana si continua a dare addosso agli abitanti perchè molti continuano ad amare intrattenersi con i giornalisti, anche quando sarebbe il caso di smettere di parlare a vanvera e lasciare che gli inquirenti facciano serenamente il loro lavoro. Basta violenze mediatiche, Avetrana non è il paese dei mostri, è un paese che ha voglia di riprendere a vivere normalmente e serenamente». Peccato che anche lei si è limitata a dire parole, parole, parole…..»

Va bene. Allora presenti lei Avetrana.

«Sorge su quella che era chiamata la “Via Sallentina”, Avetrana, l’antico tratto viario che in epoca messapica, e successivamente in quella romana, collegava Taranto, Manduria, Nardò, Leuca e Otranto. Con le sue 8.300 anime, il paese vanta origini antiche, ma sono in particolare le tracce di epoca romana a risaltare come il “canale romano”, che raccoglieva e faceva confluire le acque in quello naturale di San Martino. Sono numerose le ipotesi del suo toponimo, tra cui quella che lo fa derivare da “habet rana”, per via delle massiccia presenza di rane nella zona ricca di paludi o, ancora e forse più attendibile, l’ipotesi che risalga ad una distorsione di “terra veterana”, ovvero non coltivata. Certo è che Avetrana custodisce e mostra le sue vestigia con orgoglio a cominciare dal suo piccolo ma prezioso centro storico, nel quale ogni nobile e feudatario del suo tempo ha lasciato la propria firma: dai Pagano agli Albrizi fino agli Imperiale ed i Filo. Di quello che doveva essere un imponente castello si scorge oggi il torrione circolare e parte delle mura mentre i vezzi decorativi di alcuni palazzi come palazzo Torricelli e palazzo Imperiale, accanto alle architetture più modeste tra i viottoli del centro lasciano oggi intuire il potere della nobiltà nel piccolo e operoso borgo. Zona di grotte e depressioni carsiche dalle quali sono emersi anche resti del Neolitico, Avetrana, in epoche sicuramente più recenti, vanta un’ammirabile tradizione di resistenza: nel 1929 fu il centro di una rivolta dei contadini poi repressa dal regime fascista, mentre negli anni Ottanta si oppose strenuamente alla costruzione nel suo territorio di una centrale nucleare. Il paese dista dal mare appena quattro chilometri e dalla zona denominata “Urmo Belsito”, località marina abitata da moltissimi cittadini extraregionali e comunitari scelta da loro come dimora di relax, lo sguardo può spaziare dal mare all’orizzonte alla rigogliosa macchia mediterranea che la fa da padrone nell’entroterra. Il patrono di Avetrana è San Biagio e viene festeggiato il 29 aprile. Il comune dista 43 chilometri dal capoluogo,Taranto, e 37 chilometri da Lecce. Rispetto ad altri paesi Avetrana si è fatta sempre notare per la sua intraprendenza, emancipazione ed apertura mentale e per le indiscusse virtù di alcuni suoi concittadini. Si ricorda Antonio Giangrande, noto scrittore letto in tutto il mondo o suo figlio Mirko divenuto a 25 anni e con due lauree l’avvocato più giovane d’Italia. Ed ancora Biagio Saracino, Cavaliere della Repubblica; Leonardo Laserra, Tenente Colonnello, maestro della Banda della Guardia di Finanza nota in tutto il mondo. E poi Antonio Iazzi, professore dell’università del Salento, e Leonardo Giangrande, già vice presidente della Camera di Commercio di Taranto. Ed ancora Rita Rinaldi, soubrette e cantante o i duo artistico musicale Mimma e Giusy Giannini (in arte Emme e gy) con Miriana Minonne e Valentina Iaia (in arte Miry e Viky). Ed ancora Vito Mancini, concorrente del Grande Fratello 12. E tanti altri talenti ancora. Ma di questo i media ignoranti ed in malafede non ne parlano.»

La stampa. L’informazione cartacea e video come hanno riportato i fatti storici e giudiziari?

«Con la loro verità mediatica. Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi ad Anna Gaudenzi su Affari Italiani, « Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. Sono passate sotto silenzio le udienze dedicate agli imputati. Addirittura le tv locali, a turno, hanno ignorato l’evento. Poche righe dedicate e servizi assenti o striminziti. Rimasugli dedicati a Michele Misseri. Solo la malasorte difende Avetrana. Tempi duri per gli operatori dell’informazione. Rovinose cadute, strani malori, telecamere che si spengono, fari che esplodono, cassette inceppate. E ancora serrature d’auto che s’inchiodano, incidenti stradali e bucature multiple delle ruote. Una sospetta concentrazione d’infortuni scuote il popolo dei media che ha preso domicilio ad Avetrana per documentare il giallo dell’uccisione della piccola Sarah Scazzi. Nella graduatoria della iella, la categoria che ha avuto la peggio è quella dei giornalisti. Le donne sono più sfigate dei loro colleghi. Sono molti, anzi troppi i processi sotto la lente mediatica. Si parla troppo spesso di processo mediatico, di quanto possa influenzare quello giudiziario, soprattutto quando l'opinione pubblica non accetta i fatti e le sentenze. Il problema, secondo alcuni, è che anche nei processi si preferisce soffermarsi sugli aspetti scandalistici o curiosi delle vicende anziché addentrarsi sul merito dei reati. Il processo del terzo millennio si offre oramai senza veli allo sguardo mediatico che imbastisce processi paralleli fuori dalle aule di giustizia e dai suoi riti, i cui improvvisasti ed imperiti pubblici ministeri sono i giornalisti od i conduttori di trasmissioni trash tv ed i giudici sono i loro lettori o telespettatori, godenti peccatori delle altrui disgrazie. Nessuno spazio alla difesa dei malcapitati. Fa niente se poi i tapini sono prosciolti nei processi veri. Ha ragione Massimo Prati quando dice che questo fa capire in maniera netta come tanti nostri magistrati non sappiano, o per diversi motivi non vogliano, leggere allo stesso modo le “'tavole” dei codici penali e come tanti di loro si sentano ancora parte attiva di un'altra epoca storica. Fa capire come i nostri magistrati non siano stati preparati, da chi doveva insegnargli ed aiutarli mentalmente, ad entrare da uomini giusti negli anni duemila. Fa capire come siano rimasti ancorati agli albori della giustizia, a quando chi giudicava comminava pene in base alle possibilità economiche ed al ceto sociale. Nella Babilonia di quasi quattromila anni fa, durante il regno di Hammurabi, il povero, a parità di reato, era obbligato alla morte, mentre chi aveva possibilità economiche, per tornare un “uomo libero” si limitava a pagare un'ammenda. Nel basso Medioevo, nella futura italica terra, si procedeva con un trattamento simile, trattamento che teneva conto non solo dei beni posseduti, ma anche delle amicizie altolocate e del ruolo che il reo ricopriva nella sua comunità. Ad oggi nel terzo millennio pare proprio che nulla sia cambiato. Da anni la nostra “giustizia” è divisa in tronconi colorati. E sempre più spesso capiamo di avere a che fare con enormi disparità di trattamento. Già nel '71 con il film “In nome del popolo italiano” ci fu chi puntò il dito (Dino Risi) contro quei magistrati, allora idealisti e squattrinati, che abusavano del potere concesso loro dal popolo italiano. Qualcosa è cambiato da allora? Difficile rispondere sì, visto che fra il “certo colpevole” e chi si dichiara innocente la disparità di trattamento è enorme e tutta in favore del “certo colpevole”, visto che i trattamenti cambiano da procura a procura, da tribunale a tribunale, visto che con alcuni imputati c'è chi usa il guanto di velluto mentre, per reati simili se non identici, da altre parti c'è chi usa il pugno di ferro. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono rimasti quattro anni in carcere in attesa di un verdetto “giusto”. Sabrina Misseri e sua madre sono chiuse in galera da anni senza essere dichiarate colpevoli in modo definitivo. Sabrina Misseri è stata arrestata perché non ha ammesso di amare e di essere gelosa del “Delon di Avetrana”, perché non ha ritenuto di aver litigato con la cugina la sera precedente la scomparsa. Questo è bastato ad impedire si facesse un minimo di indagine che convalidasse i sospetti. Di logica le accuse, siano di estranei o di un “caro genitore”, vanno verificate prima di mandare i carabinieri ad eseguire un ordine di arresto... non si dovrebbe arrestare e sperare di trovar prove successivamente, si dovrebbero trovar prove e poi arrestare. Sua madre ha subìto la stessa sorte: ha seguito la figlia in carcere perché un fiorista l'ha sognata e perché c'è chi ha notato un'ombra grigia sfrecciare per Avetrana. Un sogno ed un'ombra possono giustificare il carcere in canili umani? Non inserirò altre storie di presunti colpevoli, arrestati e carcerati preventivamente e senza prove, basta cercare in internet per trovare migliaia di innocenti risarciti della reclusione ingiusta con soldi statali... e non con quelli privati di chi ha sbagliato a chiudere in carcere, senza avere prove, un incensurato. Rovinare la vita delle persone comuni è fin troppo facile, questo è quanto l'italiano, che non ha mai avuto guai con la giustizia, deve capire. Non deve credere di essere immune perché onesto, e non deve pensare che a lui ed ai suoi figli non capiterà mai quanto capitato ad altri. Lo sbaglio è sempre dietro l'angolo. Lo sa bene Giuseppe Gullotta, che di anni in galera ne ha fatti ventuno, compresi i preventivi, a causa delle torture riservate a chi lo ha accusato (poi impiccatosi in carcere seppure avesse un solo braccio). Ed anche se un domani il danno verrà scoperto e riparato, non ci sarà mai un risarcimento che possa compensare la psiche, che possa riportare in vita i genitori morti dal dolore, che possa ridare la “salute” alle mogli che per la vergogna e il dispiacere sono invecchiate anzitempo (sempre siano restate accanto ad un marito che non c'era), che possa far tornare l'infanzia e l'adolescenza nei figli cresciuti senza un padre accanto, cresciuti col marchio dell'infamia che porta il dover parlare di un genitore non presente perché in carcere. Non inserirò altre vergogne italiche, non le inserirò perché anche se narrassi mille e una storia, nulla cambierebbe e nessuno modificherebbe il proprio modo di operare e di giudicare gli altri, siano essi giudici o pubblico di talk show. Per questo servirà tempo e una buona capacità di insegnamento da parte di chi formerà i nuovi giudici ed i nuovi magistrati. Ma non c'è da stupirsi, in fondo la nostra giustizia rispecchia la maggioranza del popolo italiano... quella maggioranza che succhia la notizia senza accorgersi che il gusto lascia l'amaro in bocca. A un mese dalla sentenza di primo grado sull'omicidio di Avetrana, Michele Misseri torna ad autoaccusarsi. Ospite in collegamento di Barbara D'Urso a Domenica Live, zio Michele ha nuovamente confessato la sua colpevolezza scagionando la moglie Cosima e la figlia Sabrina. “Loro sono innocenti – ha ripetuto più volte Misseri – io sono l’assassino, ma nessuno mi vuole credere. Ho i rimorsi e devo pagare per quello che ho fatto.” L'uomo ha poi minacciato il suicidio se la moglie e la nipote verranno condannate in via definitiva. Per chi se lo fosse perso: Barbara D'Urso e le sue faccette il 3 marzo 2013 hanno intervistato Michele Misseri a Domenica Live su Canale 5. Tempo concesso all'occultatore del cadavere di Sarah Scazzi e reo confesso del delitto: un'ora circa, nemmeno fosse Silvio Berlusconi. Senza lasciare nulla al caso, la D'Urso si è vestita a righe per l'occasione e lo ha intervistato per la seconda volta nel giro di pochi mesi (la prima era stata a dicembre 2012); da Avetrana, collegata in diretta, Ilaria Cavo. Perché a Michele Misseri, nello spazio domenicale che un tempo era rivolto alle famiglie, si concede la diretta. Ma lo scandalo è la piega che prendono certe trasmissioni trash e disinformative: Quarto Grado, La Vita in Diretta, Porta a Porta, Chi la Visto? ecc. E' interessante notare l'evoluzione della figura di Michele Misseri; all'inizio era lo “zio orco”, poi è diventato - per i giornalisti - la povera vittima di moglie e figlia, e allora la sua immagine è stata in parte ripulita. Così per i tg è tornato semplicemente ad essere un uomo: lo zio Michele. Contemporaneamente il processo sull'omicidio di Avetrana si era spostato dalle aule giudiziarie in televisione; la sovraesposizione delle persone coinvolte era stata tale da renderli personaggi televisivi, Sabrina e Michele Misseri in particolare. La voglia di sangue del pubblico. Il Colosseo come gli studi televisivi. La parzialità dei conduttori è spudorata e non fanno niente affinchè non prevalga la voglia di giustizialismo a danno di Sabrina Misseri e Cosima Serrano: Mara Venier e tutti gli altri, compreso l’ipocrisia di Barbara D’Urso che si dichiara  “vicina a Concetta e alla sua battaglia”. Mai nessuno di loro, però, a raccontare la verità. La verità storica ed incontestabile è che il processo è ancora al primo grado, manca il certo appello e la Cassazione e, cosa che rimarca un certo senso di malessere nei confronti di certi magistrati, è che Michele Misseri si dichiara colpevole ma è libero, mentre la moglie e la figlia che si professano innocenti sono in carcere. Si dichiarano colpevoli l’uno ed innocenti le altre da sempre e con coerenza, come se fossero criminali esperti ed incalliti. Non solo: prima la D'Urso lo invita per impennare lo share (e per cos'altro sennò?), poi lo cazzia per quello che ha fatto, (confessare il delitto che secondo lei non ha commesso o aver commesso il delitto?). “I padri non diventano assassini” dice la D’Urso, giusto per appagare le voglie del pubblico guardone e schierarsi dalla parte di chi pensa che Michele menta per coprire Sabrina.»

La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo Scazzi, come si è comportata?

«Comunque, per colpevoli che possano essere agli occhi dei giustizialisti, è pur vero che la colpevolezza va provata e nessuno, dico nessuno, può essere condannato senza prove che adducano ad una colpa al di là di ogni ragionevole dubbio. Eppure c’è chi si ostina a tener ferma la sua posizione, senza ombra di dubbio, mossa da sentimenti prosaici e poco religiosi. Eppure nessuno, oltre al sottoscritto, osa parlare contro il sentimento comune, se non Ilaria Cavo con i suoi atteggiamenti, la giornalista Mediaset indagata proprio dalla procura di Taranto, e Maria Corbi con i suoi articoli, giornalista del “La Stampa” di Torino. La nostra colpa è vedere le cose con imparzialità senza essere genuflessi e succubi ai magistrati tarantini. Il processo al delitto di Sarah Scazzi è il processo ad Avetrana. Alla richiesta da parte di Argentino e Buccoliero della condanna per tutti gli imputati, specialmente per l’ergastolo a Sabrina Misseri ed alla madre Cosima Serrano, tutta l’Italia forcaiola ha applaudito. Si sentono ancora gli applausi registrati nello studio di “La vita in diretta” con Marco Liorni e di “Pomeriggio cinque” con Barbara D’Urso. A tutti i testimoni che hanno testimoniato contro la tesi accusatoria si prospetta la condanna per falsa testimonianza. L’Italia forcaiola che per soddisfare l’aspettativa di vendetta pretende la tortura e l’omicidio di Stato per lavare l’onta di un efferato delitto. A scanso di essere lapidati da falsi moralisti si tiene a precisare che si può essere d’accordo, ma non bisogna mai emettere giudizi affrettati e sommari, prima di ascoltare cosa ha da dire la difesa, tenuto conto che nei processi italiani, fino a che non tocchi ai difensori la parola, hanno voce solo i pubblici ministeri ben ammanicati con giornalisti approssimativi e parziali. Per chi conosce bene il sistema della giustizia in Italia ed i magistrati italiani prima di emettere sentenze popolari bisogna essere cauti e con cognizione piena di causa. La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo, ha accolto le richieste di ergastolo con mezza soddisfazione. «Sono cose che non fanno gioire nessuno e che non servono a ridare la vita strappata di una bambina. Chi uccide merita l'ergastolo - ha dichiarato la mamma di Sarah, Concetta - è stato il processo delle menzogne ed è anche giusto che coloro che hanno detto tutte queste menzogne paghino per quello che hanno detto. Non hanno avuto pietà per una bambina che stava anche piangendo». «Ho sempre detto che il movente della gelosia di Ivano non mi convinceva, che c'era qualcosa di losco e quello che è emerso ieri lo conferma». Lo ha detto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi. Concetta ha fatto riferimento, con quel 'losco', alle abitudini a sfondo sessuale che aveva la comitiva di cui faceva parte Sabrina Misseri, come fare spogliarelli o andare a vedere le coppiette, coinvolgendo presumibilmente anche Sarah. Certo che ognuno di noi ci si potrebbe anche chiedere cosa facesse una ragazza di 15 anni insieme ad una comitiva di maggiorenni ed avere orari di rientro non compatibili per una ragazza della sua età. Concetta ha aggiunto che «è possibile» che Cosima abbia inseguito Sarah e abbia partecipato al delitto, secondo la tesi dell’accusa, perchè «lei è di altra tradizione, di altra generazione e non accettava questo stile di vita di Sabrina». «Non è vero, come hanno detto – ha aggiunto – che io odio Sabrina e Cosima. Mi fa rabbia che loro ce l’abbiano ancora con Sarah e continuino a dire che sono innocenti nonostante l'evidenza».» Un giornalista chiede a Concetta: “Signora Concetta Serrano (madre di Sarah Scazzi), dopo trentasette udienze e tanti testimoni, quali cose ha capito di questo processo? E che cosa si aspetta?” «Ho trovato eccellente la presidente della Corte d’Assise Rina Trunfio, bravi anche i pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Pietro Argentino che hanno condotto indagini puntuali e puntigliose. Come andrà a finire non lo so, non ho molta fiducia nella giustizia degli uomini. I magistrati, anche loro, si devono attenere a certi dettami di legge che non ci proteggono. Anche se gli imputati prenderanno il massimo della pena, tra indulti e buona condotta li rivedremo in giro dopo pochi anni. Così, tanti sacrifici, tanto lavoro e tanti soldi di noi cittadini a che cosa saranno serviti? A niente. Ieri sono andata a comprare delle caramelle e il negoziante mi ha fatto notare la stranezza delle leggi: Fabrizio Corona deve stare in carcere cinque anni per reati tutto sommato banali, mentre mio cognato Michele, che ha gettato il corpo di una bambina in un pozzo, lo vediamo girare libero in paese come se niente fosse. Non solo io, ma tutto il paese è indignato per questo». Critiche alla giustizia in senso lato ed apprezzamenti ai magistrati, che poi non sono altro che il corpo e l’anima della giustizia e per gli effetti gli unici responsabili dell’ingiustizia e della malagiustizia. La ricerca di un colpevole e non del colpevole e la pena dura e certa da far scontare in canili umani per soddisfare il bisogno di vendetta e non di giustizia, pare che sia l’opinione di Concetta Serrano. Le convinzioni di Concetta Serrano sui magistrati italiani non sono certo condivise da altre mamme come lei, certo non traviate dal turbinio mediatico, ma artatamente i media usati da quest’ultime come strumento per una lotta dura e costante mirante alla ricerca della verità. «Ci sono in Italia "inefficienze gravi" nelle indagini che riguardano i sequestri dei bambini, "qualcosa che non funziona" su cui il governo deve intervenire, altrimenti "i bambini continueranno a sparire e non verranno mai trovati".» L’accusa arriva da Piera Maggio e Maria Celentano, rispettivamente la madre di Denise Pipitone  – scomparsa a Mazara del Vallo il 1 settembre del 2004 – e di Angela Celentano, sparita sul Monte Faito il 10 agosto 1996. Intervenute a ‘Buona Domenica’ su Canale 5 del 1 marzo 2008 le due madri hanno preso spunto dalla vicenda di Ciccio e Tore. «Il mio pensiero va a quei due bambini che purtroppo non ci sono più. Ringrazio Dio perché ho ancora la speranza di riabbracciare Angela e invece quei due bambini sono lassù - dice Maria Celentano per attaccare investigatori e inquirenti. «C’é in Italia un’inefficienza grave nelle indagini sui sequestri di bambini – afferma Piera Maggio – Nel 2007 abbiamo scoperto una cosa allucinante. Ci sarebbe stata la risoluzione del caso di Denise, e nessuno se ne era accorto. La sfortuna maggiore di mia figlia è stata quella di avere delle persone che la cercavano che forse non avevano le competenze per svolgere determinate indagini. Ho perso e mi hanno fatto perdere la fiducia nella giustizia italiana. Le famiglie - aggiunge la mamma di Denise - possono fare poco e niente, non hanno mezzi, aiuti necessari. Sono sole psicologicamente e moralmente e a pagare sono sempre i bambini». Parole simili arrivano da Maria e Catello Celentano. «Forse dodici anni fa non c’erano i mezzi che ci sono oggi – dice Maria – ma la realtà e sempre quella: i bambini spariti non si trovano. Non so perché, forse c’é poco impegno e poca responsabilità da parte degli adulti, ma qualcosa che non funziona c’é perché i bambini continuano a sparire. E poi si ritrovano in questo modo qua che è una cosa veramente atroce». «In Italia - aggiunge il marito - ogni volta che scompare un bambino si impiegano persone che non sono attrezzate, non hanno capacità e mezzi. E invece bisogna fare di più per loro». La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia.  Il mio libro “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese. Tutto quello che non si osa dire”, fa parte integrante della collana editoriale “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo” composta da 50 opere trattanti, appunto, la sociologia storica, di cui io sono profondo cultore: ossia rappresentare e studiare il presente, rapportandolo al passato e riportandolo al futuro. Il libro su Sarah Scazzi è la vicenda soggettiva ed oggettiva che rappresenta l’Italia. Sarah Scazzi può essere Yara Gambirasio, Elisa Claps, Ciccio e Tore, Denise Pipitone, e tutte quelle vicende misteriose che hanno interessato i media. Se l’Italia dei media ha giudicato Avetrana, influenzando il pensiero dei più, un Avetranese giudica l’Italia dei media e le sue patologie: omertà, censura, disinformazione. E lo fa con una certa e non indifferente perizia, adottando un sistema inoppugnabile. Non riportare le proprie opinioni, che non interessano a nessuno ed a scanso di accuse di mitomania o pazzia, ma affidarsi ai fatti certi ed incontestabili, citandone la fonte. Il libro work in progress aggiornato periodicamente come tutti gli altri libri si può trovare da leggere gratuitamente sul sito dell’associazione di cui sono presidente nazionale www.controtuttelemafie.it in cui vi sono pure i filmati di riferimento, ovvero a minimo costo su Google libri, su Amazon per l’E-Book o su Lulu per il cartaceo.»

E sui magistrati in generale cosa ha da dire?

«Toghe rosse, toghe nere, toghe rotte. I giudici come le seppie e i polpi: cambiano colore a seconda degli imputati?

Il problema forse non è tanto nel colore delle toghe ma nella loro insita incapacità di cogliere la verità storica nelle vicende umane. La loro presunta superiorità morale e culturale rispetto alla massa, avallata dal concorso truccato che li abilita, li pone talmente in alto che miseri loro non riescono a leggere bene la realtà che li circonda. Insomma loro son loro e noi “non siamo un c….”. Le strade italiane, oramai, sono diventate molto più transitabili, quasi deserte, non perché le persone son diventate improvvisamente più casalinghe e pantofolaie, ma semplicemente perché certuni PM e Giudici di casa nostra amano sbattere nelle patrie galere chiunque gli giri intorno: quindi, tutti dentro appassionatamente! La Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo accusa ad alta voce il nostro Paese, che viene giustamente condannato per il trattamento inumano e degradante dei carcerati detenuti nelle infernali galere italiche. Pensate che tale richiamo abbia minimamente scosso gli uomini dalla galera facile? I pubblici ministeri, i Gip, i Gup e i Procuratori Capo? I giudici monocratici o riuniti in assise. Neanche per idea! Al minimo dubbio, al fresco, nei Grand Hotel Italiani a -7 stelle; le cui stanze di meno di 3 metri quadrati possono contenere anche tre o quattro detenuti. Ma, a loro cosa può interessare; per le tenebrose toghe nere ciò che conta è apporre tacche su tacche alle loro pistole fumanti. Tanto chi paga quest’ammasso di carne sovrapposta in loculi invivibili è il cittadino italiano. I tantissimi processi, indagini, rinvii a giudizio per chi non ha fatto un emerito c…., e i tantissimi suicidi che si verificano settimanalmente in tali luoghi di tortura, non contano niente. L’importante è che di fronte a una ridottissima controversia ci si copra le spalle, ammanettando coloro che - di fatto - potrebbero a tutti gli effetti, e molti lo sono, essere innocenti. Tanto i Giudici, i PM e compagnia bella non verranno mai toccati, né verranno mai chiamati a rispondere in solido (pecuniariamente, moralmente, penalmente) dei misfatti compiuti. Solo nei casi eclatanti di magistrati pedofili, di giudici che usano il proprio ufficio per ricattare sessualmente viados o donne della mala, o di quelli conniventi con le varie mafie, si arriva a arrestarli, sed post breve tempus tutto viene subdolamente fatto passare nel dimenticatoio. Questa, purtroppo, è la disperata situazione della legge italiana, a voler continuare a non separare le carriere, a rimandare da tempo immemore la riforma della giustizia, e all’equiparare reati inferiori, quello, per esempio, di Fabrizio Corona, a reati gravissimi come l’omicidio, altro esempio la sentenza vergognosa del macellaio Jucker che si è fatto solo 10 anni per aver trucidato la fidanzata. In campagna elettorale si parla di tutto, meno della libertà del cittadino italiano che sta scomparendo, terrorizzato dalle cupe toghe nere. Il rischio della rappresentanza politica è sbagliare il rappresentante, perché questi signori nominati dall’alto si presentano in un modo e poi si comportano al contrario.»

Che rapporto ha lei con i magistrati locali e se ha fiducia nel loro operato, tenendo conto anche dell’esito del processo sul delitto di Sarah Scazzi?

«C’E’ SEMPRE UN GIUDICE A BERLINO. IL FUTURO AFFIDATO ALLA SORTE PER CHI RACCONTA LA VITA SENZA PARAOCCHI. La condanna o l’assoluzione affidata alla fortuna per la quale ti viene assegnato un magistrato dedito alla giustizia e non al culto della propria personalità. Quando, per poter esercitare il diritto di critica e di cronaca, senza pagare fio, ti tocca essere giudicato dal giusto giudice assegnato per sorte (e non per normalità come dovrebbe essere). «Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Questa premessa per raccontare le mie e l’altrui vicissitudini giudiziarie per aver scritto la verità  e l’esito differenziato dei processi  in virtù del giudice che ha deciso sulle cause.  Per raccontare come può cambiare il senso della vita dell’imputato le cui sorti sono pendenti dal volere  di una persona,  il cui giudizio può essere falsato da un criticabile modus operandi. E’ un giorno come gli altri in quel Tribunale. Tribunale di Manduria, sezione staccata di Taranto. Ma è come se fossi in qualunque Tribunale d’Italia. E’ il 21 febbraio 2013, ma può essere qualsiasi altro giorno dell’anno che fu o che sarà. Sono lì da imputato per l’ennesimo processo per diffamazione a mezzo stampa, uno dei tanti senza soluzione di continuità. E’ il prezzo da pagare per non essere pecora in un immenso gregge. In attesa del mio turno, tra i tanti procedimenti chiamati, seguo il processo a carico dei dirigenti della Banca di Credito Cooperativo di Avetrana ed a carico di un noto politico dello stesso paese, la cui moglie si presenta alle elezioni per la Camera dei Deputati. Sono molteplici i reati contestati, in riferimento ad un assegno incassato ante datato e firmato per somme di denaro riferibili ad un defunto. La stessa banca è coinvolta, tramite il suo funzionario, anche nella vicenda di Sarah Scazzi. Nel proseguo dei procedimenti penali sento il nome dell’imputato di un altro processo, Giovanni Caforio, anche lui perseguito per diffamazione a mezzo stampa. Anche lui una mosca bianca nel sistema disinformativo locale. Accusato e giudicato per aver scritto sul suo giornale di Sava, Viva Voce, il resoconto critico della mal amministrazione cittadina a vantaggio personale, facendo riferimento ad un procedimento penale a carico di un amministratore, avvocato. L’avvocato Romoaldo  Claudio Leone, sentendosi diffamato, ha querelato il direttore del giornale. Nel processo è stato difeso come parte civile dall’avv. Gianluigi De Donno. Il giudice titolare Rita Romano non è lei a decidere ed allora in quel processo accade una cosa che non ti aspetti: il suo sostituto, il giudice togato Simone Orazio, dopo un’attenta ed approfondita analisi della questione giuridica, assolve l’imputato, visibilmente commosso. Strano quel che è successo in quel giorno in quell’aula. In precedenti udienze il direttore Giovanni Caforio era già stato più volte condannato per lo stesso reato, ma per altri fatti, proprio dal Giudice Rita Romano. Sentenze naturalmente appellate. Per la Corte di Appello di Taranto, che assolve Giovanni Caforio perché il fatto non costituisce reato, è da assolvere "perchè nella critica, la verità esprime un giudizio che, in quanto tale, è sì, l’elaborazione soggettiva di un avvenimento ma non può del tutto essere scollegata dalla realtà". Ancora mi rimbomba in testa quel che accadde il 12 luglio 2012: assolto con la formula più ampia nel Tribunale di Manduria dove è titolare Rita Romano, ma da lei non giudicato: per non aver commesso il fatto. Assolto dal giudice onorario della sezione distaccata di Manduria, avv. Frida Mazzuti, su richiesta del Pubblico Ministero Onorario avv. Gioacchino Argentino. Nulla di che, se non si trattasse dell’epilogo di un atto persecutorio da parte della magistratura tarantina. Questa è una esperienza che insegna e che va raccontata. L’oscuramento del sito web effettuato con reiterati atti nulli di sequestro penale preventivo emessi dal Pubblico Ministero togato Adele Ferraro e convalidati dal GIP Katia Pinto. Lo stesso GIP che poi diventa giudice togato del dibattimento e che alla fine del processo proclamerà la sua incompetenza territoriale. Dopo anni il caso passa al competente Tribunale di Taranto. Qui il Gip Martino Rosati adotta direttamente l’atto di reiterazione del sequestro del sito web, senza che vi sia stata la richiesta del PM. Il reato ipotizzato è: violazione della Privacy. Non diffamazione a mezzo stampa, poco punitiva, ma addirittura violazione della privacy, reato con pena più grave. E dire che gli atti pubblicati non erano altro che notizie di stampa riportate dai maggiori quotidiani nazionali. Era solo un pretesto. Di fatto hanno chiuso un portale web di informazione e d’inchiesta di centinaia di pagine che riguardava fatti di malagiustizia, tra cui il caso di Clementina Forleo a Brindisi e una serie di casi giudiziari a Taranto, oggetto di interrogazioni parlamentari. Tra questi il caso di un Pubblico Ministero che archivia le accuse contro la stessa procura presso cui lavora; che archivia le accuse contro sé stesso come commissario d’esame del concorso di avvocato ed archivia le accuse contro la sua compagna avvocato, dalla cui relazione è nato un figlio. Fatti di malagiustizia conosciuti e scaturiti da esperienze vissute personalmente o raccontate dalle vittime, fino a quando mi hanno permesso di svolgere la professione di avvocato e successivamente in qualità di presidente di un’associazione antimafia. Dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, nonostante i più noti avvocati di quel foro abbiano rifiutato di difendermi e sebbene tutti i miei avvocati difensori mi abbiano abbandonato, eccetto l’avv. Pietro DeNuzzo del Foro di Brindisi. Qualcuno si è fatto addirittura pagare da me, nonostante abbia percepito i compensi per il mio patrocinio a spese dello Stato. Ed ancora dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, anche in virtù del fatto che il giudice naturale, Rita Romano, sia stata ricusata in questo processo, perché non si era astenuta malgrado sia stata da me denunciata. A dispetto di tutte le circostanze avverse vi è stata l’assoluzione, ma i magistrati togati hanno ottenuto comunque l’oscuramento di una voce dell’informazione. Voce che in loco è deleteria al sistema giudiziario e forense tarantino e contrastante con la verità mediatica locale. Da rimarcare è il fatto che tutte, dico tutte, le mie denunce od esposti presentati agli organi competenti sono state regolarmente insabbiati: archiviati o di cui non si è più avuto notizia pur chiedendo esplicitamente l’esito. Far passare per mitomane o pazzo chi è controcorrente è la prassi, per denigrarne nome ed attività. Nonostante non vi sia mai stata condanna per calunnia.»

Quindi ritiene che, nonostante la sua opera moralizzatrice, alcuni magistrati del posto la perseguitano?

«Non  dimentico il 18 aprile 2013. Due processi a Manduria, sezione staccata del tribunale di Taranto. In quei processi scomodi, che nessuno vuol fare, più giudici togati di Taranto si avvicendano: Rita Romano, Vilma Gilli, Maria Christina De Tommasi; oltre a 2 giudici onorari: Frida Mazzuti e Giovanni Pomarico. Processi a mio carico costruiti ad arte senza che vi sia stata la querela necessaria o la denuncia di attivazione. Alla prima giudice, Rita Romano, si è presentata ricusazione per la denuncia presentata contro di lei. In seguito di ciò l’avv. Gianluigi De Donno rinuncia alla mia difesa. Ha avuto le stesse remore di Nicola Marseglia nel momento in cui Franco Coppi ha presentato istanza di astensione alla Misserini ed alla Trunfio, i giudici di Sabrina Misseri. Per il primo sono accusato di calunnia in concorso con mia sorella, per aver presentato una denuncia contro un sinistro truffa, in cui era coinvolta un’avvocatessa stimata dai magistrati di Taranto, compreso  un sostituto procuratore della Repubblica dello stesso Foro in cui esercitava, e sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato un esposto penale ed amministrativo a varie istituzioni denunciando questo ed altri casi di malagiustizia. Per l’altro processo sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato una denuncia contro le perizie false in Tribunale, da chi, Giuseppe Dimitri, mio cliente che ho difeso da avvocato fino all’estremo, mancava di legittimazione a farlo, in quanto il presunto diffamato era altra persona, cioè il denunciato. In udienza il danneggiato ha confermato che non ha mai presentato querela contro di me, né aveva avuto mai intenzione di farlo. Per quella denuncia il giudice Rita Romano ha condannato per calunnia Dimitri, nonostante il Consulente Tecnico del Tribunale, proprio per il reato di cui era accusato, era già stato depennato dalla lista tribunalizia dei CTU. Nel primo processo mi si accusa di aver calunniato, in concorso con mia sorella, un avvocato, Nadia Cavallo, accusandola, sapendola innocente, di aver chiesto ed ottenuto illecitamente i danni per un sinistro truffa e con testimoni falsi in suo atto di citazione che indicava come responsabile esclusiva Monica Giangrande. In effetti Monica Giangrande non era responsabile di quel sinistro. Eppure è stata condannata dal giudice Rita Romano. La condanna per calunnia a carico di mia sorella inopinatamente non è stata appellata dai suoi avvocati, pur sussistendone i validi motivi. La giudice, Rita Romano, è stata da me denunciata, così come Salvatore Cosentino, sostituto procuratore a Taranto e poi trasferito a Locri . Salvatore Cosentino, come tutti i magistrati di Taranto aveva molta stima per Nadia Cavallo. Rita Romano ha condannato mia sorella pur indicando in sentenza che altra persona era responsabile esclusiva del sinistro, così come mia sorella andava attestando. Va da sé che tale sentenza contenente illogicità e contraddizioni sarebbe dovuta essere appellata. Salvatore Cosentino era il Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto che ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione della denuncia contro la Procura di Taranto. Procura che ha archiviato le denunce presentate riguardo proprio a quel sinistro truffa. I processi civili inerenti il sinistro sono stati tutti soccombenti, nonostante le prove indicassero palesemente il contrario. La Nadia Cavallo ha ottenuto il risarcimento danni del sinistro dall’assicurazione, oltre che 25,000 mila euro di danni morali da Monica Giangrande proprio per la condanna di calunnia. Per questo procedimento la mia posizione sin dall’inizio è strana. Non sono convocato nella prima udienza preliminare con mia sorella, quindi è nullo il mio rinvio a giudizio. Dopo anni, nella seconda udienza preliminare, il GUP chiede al PM gli atti di prova a mio carico, in tale sede mancanti. Alla risposta negativa gli concede ulteriore termine di 6 mesi per trovare la prova della mia colpa, al termine dei quali, durante la terza udienza preliminare vi è comunque il Rinvio a Giudizio. All’ultima giudice devo provare se il fatto sussiste, se l’ho commesso, se è previsto come reato. Ebbene. Io, come mia sorella sapevamo benissimo che l’avvocato era colpevole: perché non era attendibile la versione fornita dell’evento. Ma questo non lo dicevamo solo noi, io e mia sorella, ma anche l’avvocato della compagnia assicurativa costituita nei vari giudizi. Eppure questi non è stato perseguito dello stesso reato. Per la compagnia non era verosimile il fatto che un signore che tocca lo sportello di un’auto non identificata e condotta da signora diversa dalla Monica Giangrande, si alzi e se ne vada, per poi chiamare un’ambulanza per farsi portare a casa e non in ospedale. Eppure negli atti di citazione non viene chiamata in causa la vera responsabile del presunto sinistro ed il vero proprietario dell’auto. Ciò nonostante si conoscesse il responsabile esclusivo del sinistro, veniva chiamata in causa mia sorella che acclamava a gran voce la sua estraneità. Ma il fatto eclatante è che sono stato accusato di calunnia io che quella denuncia non l’ho mai presentata, né ho indotto mia sorella a farlo, non essendo il suo avvocato. Sono stato accusato di calunnia io, che se l’avessi fatto, sapevo benissimo che la denuncia era fondata. Per quanto riguarda la seconda accusa, di diffamazione a mezzo stampa, c’è da dire che il sito web, su cui vi era l’articolo che faceva riferimento ai fatti, non era mio, né l’articolo era a me riferibile. Io per scrivere le mie inchieste ho moltissimi miei canali di divulgazione facilmente riconducibili a me e di quelli io ne rispondo. Né tantomeno la Polizia Postale si è prodigata sotto gli ordini del PM di sapere dall’azienda web provider che gestisce il server di pubblicazione chi fosse il vero proprietario del sito web e quindi responsabile delle pubblicazioni. E bene sapere, comunque, al di là di questo, che è lecita la pubblicazione delle denunce penali, così come stabilito dalla Corte di Cassazione. Per questi processi, come volevasi dimostrare, con il giusto giudice l’esito è scontato: Assoluzione piena da parte del Giudice Togato Maria Christina De Tommasi e da parte del GOT Giovanni Pomarico. Anzi, meglio ancora. Giovanni Pomarico, nel processo della presunta diffamazione per le perizie false, non ha fatto altro che registrare la remissione della querela delle parti. Di chi non aveva legittimazione a presentarla contro di me e di chi addirittura non l’aveva presentata affatto. Con il giudice naturale, se non vi fosse stata la ricusazione, sarebbe stata condanna certa. Quanto successo a Caforio mi conforta di un fatto: aver adottato i rimedi giusti per potermi salvare da sicura condanna. Il giudice titolare Rita romano è stata da me denunciata per fatti attinenti l’attività giudiziaria, scaturenti condanne per me, che nel proseguo si sono estinti, e per i miei familiari, e per tale denuncia è stata ricusata. Le ricusazioni presentate contro il giudice nei successivi processi che mi riguardavano, ha permesso a me di cambiare il mio destino e comunque di essere giudicato da giudici diversi e per gli effetti di essere dichiarato assolto. Per le ricusazioni presentate per palese mio interesse, però, lo stesso avvocato Gianluigi De Donno, mio difensore, ha rimesso il suo mandato. Motivo: la Ricusazione non si doveva fare. C’è da sottolineare che successivamente il Giudice Rita Romano, ogni qualvolta era investita dei miei procedimenti,  si asteneva,  tacendo della mia denuncia contro di lei, non mancando, però, di sottolineare ad alta voce nelle udienze affollate che l’astensione era dovuta al fatto che io ero stato da lei denunciato per calunnia. Denuncia che avrebbe scaturito un procedimento, di cui io non avevo avuto notizia. Non solo. Il 18 febbraio 2013 il Pm Ida Perrone, sostituta di Pietro Argentino (entrambi denunciati a Potenza) nella sua requisitoria in un procedimento per il reato di usura a carico di un Giangrande (poi non condannato) ha pensato di dichiarare: «i Giangrande sono ben noti in Avetrana per essere considerati usurai e per aver io stessa trattato alcuni procedimenti». In quello stesso collegio giudicante la medesima Rita Romano ha dovuto astenersi per grave inimicizia con il sottoscritto per i suddetti motivi riferiti. Le stesse affermazioni diffamatorie sono state proferite in altro procedimento penale in sede di conclusioni dall’avvocato Pasquale De Laurentiis, difensore di un individuo giudicato e condannato proprio per diffamazione in udienza ed anche lui per aver pronunciato proprio la stessa frase. Evidentemente questi signori lo possono fare, legittimati a farlo dal loro ruolo ed agevolati dal farlo da chi in toga lo permette, senza alcun controllo alcuno, tanto meno se le vittime in tale sede non possono alcunchè obbiettare, né tali dichiarazioni offensive, denigratorie e diffamatorie rese in udienza, vengono verbalizzate dai cancellieri per poter querelare i responsabili, sempre che si trovi un loro collega disposto a perseguirli. E’ chiaro che i magistrati e gli avvocati di Taranto e provincia hanno il dente avvelenato contro di me. L’intento è colpire i Giangrande per colpire il Giangrande, ossia me. Ma una cosa è certa. In Avetrana vi sono centinaia di persone con il cognome Giangrande. Nessuno di loro è stato mai condannato in via definitiva per il reato di usura. Quindi nulla si può dire sul nome Giangrande, ne tanto meno si può dire qualcosa su di me, Antonio Giangrande, che, oltretutto, sono il presidente nazionale proprio di una associazione antiracket ed antiusura, il quale ha fatto l’errore di battersi contro l’usura bancaria e l’usura di Stato. E’ quello che a Taranto è stato il primo ad attivarsi contro le bufale dei titoli MyWay e 4you della Banca 121 poi Banca Monte Paschi di Siena. Quello che ha lottato a tutela degli incapaci e delle perizie false. Quello che ha denunciato i concorsi pubblici truccati e i sinistri stradali falsi. Denunce regolarmente archiviate. Certo è che io, sì, invece, ho scritto libri sui miei detrattori. Specialmente quelli operanti sul foro di Taranto. Che sia per questo il motivo di tanto astio? Ed è questo il motivo che non vogliono che faccia l’avvocato e da decenni non mi abilitano alla professione forense? Ed è questo il modo di collaborare con chi ha il coraggio di mettersi contro la mafia e di affermare che comunque la mafia vien dall’alto e per gli effetti aver denunciato le malefatte dei poteri forti e presentato altresì a Potenza le denunce contro i magistrati di Taranto, che tra l’altro si son archiviati una denuncia a loro carico anziché girarla proprio a Potenza? Per questo forse non vi è alcuna collaborazione istituzionale e sostegno morale e finanziario, per il modo di pormi nei confronti dei poteri forti? Ed è per tutto questo che i loro amici giornalisti ignorano e denigrano me così come fanno con Beppe Grillo?»

Lei ha altri esempi di contrastanti giudizi riferibili all’attività dell’informazione?

«Certo. Il 21 febbraio 2013, un altro fatto. Dopo la richiesta di assoluzione da parte dell'accusa, il giudice del Tribunale di Casarano dott. Sergio Tosi, ha assolto Maria Luisa Mastrogiovanni per tutti e 12 i capi di imputazione. Il fatto non sussiste. E' la sentenza con la quale è stata assolta dall'accusa di diffamazione a mezzo stampa la giornalista Maria Luisa Mastrogiovanni, direttore del Tacco d'Italia. A portarla davanti al Tribunale penale di Casarano, presidente Sergio M. Tosi, è strato Paolo Pagliaro, editore televisivo salentino molto noto di Tele Rama, a sua volta protagonista di alcune vicissitudini giudiziarie, ma come imputato. Proprio queste vicende (l'uomo subì anche gli arresti domiciliari per un'inchiesta della procura barese, il cui processo è stato stralciato dal troncone principale nel quale è stato invece condannato l'ex ministro Fitto), insieme ad una serie di irregolarità e stranezze nella conduzione della sua azienda, costituirono l'oggetto di una corposa inchiesta di copertina de Il Tacco d'Italia, andato in edicola nel dicembre 2005. La stessa sorte non è toccata per Enzo Magistà e Antonio Procacci. Il gip di Bari Gianluca Anglana ha disposto l’imputazione coatta per i giornalisti di Telenorba Enzò Magistà e Antonio Procacci coinvolti nell’inchiesta scaturita dalla messa in onda del filmato girato dalla polizia scientifica di Perugia che mostrava il cadavere di Meredith Kercher. Meredith Kercher fu uccisa nel novembre del 2007 a Perugia e, nella casa in cui viveva, fu girato un video dalle forze dell’ordine per esaminare la scena del crimine che in seguito fu mostrato da Telenorba, una emittente pugliese. Il gip ha invece archiviato le posizioni dei familiari di Raffaele Sollecito, assolto in secondo grado dall’accusa di omicidio volontario insieme ad Amanda Knox. Il pm di Bari aveva chiesto l’archiviazione per tutti gli indagati perché «la diffusione di alcune parti del filmato relativo al sopralluogo effettuato dalla polizia scientifica nell’abitazione in cui venne rinvenuto il cadavere di Meredith Kercher – è stato scritto nella richiesta di archiviazione – , nel quale viene ripreso il corpo denudato della vittima, è avvenuto nell’ambito dell’esercizio del diritto di cronaca senza alcun intento offensivo della reputazione della studentessa uccisa». “Leso il diritto alla riservatezza ed alla tutela dell’immagine della ragazza e, per lei, dei suoi familiari”. E’ scritto, invece, in un passaggio dell’ordinanza con cui il gip del Tribunale di Bari Gianluca Anglana ha accolto l'opposizione proposta dalla famiglia di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa a Perugia la notte tra il primo e il 2 novembre 2007, con riferimento alla richiesta di archiviazione per due giornalisti pugliesi che nel marzo 2008 mandarono in onda le immagini del corpo nudo della vittima.  Il giudice, nel disporre l’imputazione coatta per Enzo Magistà, direttore di Telenorba, e per il giornalista Antonio Procacci, ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Bari in relazione ai reati di diffamazione a mezzo stampa e violazione del codice della privacy. In particolare è “pacifica la sussistenza dei requisiti della verità dei fatti rappresentati”, secondo il gip, e “non sembra rispettato il requisito della continenza nella esposizione del servizio”. Per il giudice, “risultano obiettivamente raccapriccianti le immagini delle ferite” e “tali da turbare il comune sentimento della morale”. L'inchiesta, nata dalla denuncia della famiglia Kercher, è approdata a Bari dopo che, in udienza preliminare, il gup di Perugia ha dichiarato la propria incompetenza territoriale. Il procuratore di Bari, Antonio Laudati, nel luglio 2012, aveva chiesto l’archiviazione del procedimento per tutti gli indagati (oltre Magistà e Procacci, anche i familiari di Raffaele Sollecito), ritenendo per i giornalisti “che gli stessi avessero agito nel legittimo esercizio del diritto di cronaca” e per gli altri l’insufficienza di elementi per sostenere l'accusa a dibattimento. Il giudice ha accolto la richiesta di archiviazione per padre, madre, sorella e due zii di Sollecito, condividendo le conclusioni della procura.»

Per le mie battaglie di civiltà e giustizia, che nonostante tutto creano un certo seguito nazionale, non potrei mai trovare una candidatura in qualsiasi partito tradizionale, reazionario e conservatore, da destra a sinistra. Eppure, in questa situazione di emarginazione e persecuzione, neanche in un movimento come quello di Grillo ho potuto trovare un posto in Parlamento per battermi per quello che so e per quello che sono a vantaggio dei più. Motivo? Perché i nuovi giustizialisti e moralisti della domenica hanno pensato bene di inibire le candidature a chi è indagato o condannato. Fa niente se trattasi di ritorsione giudiziaria al diritto sacrosanto di critica al malgoverno ed alla corruzione. Nel 2013 i grillini, primo partito a Taranto e secondo in provincia, catapultano a Roma ben due deputati. Oltre al più noto Alessandro Furnari, c’è anche Vincenza Labriola. La neo deputata 32 anni, mamma, laureata in Scienze della Comunicazione, prima delle politiche è stata già candidata al Consiglio comunale. Nel 2012 raccolse un solo voto di preferenza, oggi invece lo ‘tsunami’ di Grillo che ha investito il paese, l’ha lanciata in Parlamento. Precedenti risultati elettorali? Un voto. Sì, proprio così. Un solo voto di preferenza alle comunali di maggio 2012. È questo il «precedente» elettorale della neodeputata del Movimento Cinque Stelle, Vincenza Labriola, che insieme ad Alessandro Furnari, rappresenta i «grillini» parlamentari della provincia ionica. Ma se Alessandro Furnari, ex candidato sindaco alle comunali (prese l’1.6 per cento), bene o male lo si conosce, chi è mai Labriola? Alla «Gazzetta» lei si presenta così: «Sono laureata in Scienze della comunicazione ed ho discusso una tesi sullo sviluppo dell’arco ionico. E poi, trovare un lavoro confacente al titolo acquisito è risultata un'impresa praticamente impossibile nella mia città. Sono sposata - continua - ed ho scelto di rimanere nella mia città per amore». Quell’unico voto (anche se, un anno fa era diventata madre per la seconda volta e non aveva tempo per fare campagna elettorale) conferma, in maniera plastica, le tante contraddizioni del Porcellum. Ovvero, di una legge elettorale che (nonostante le primarie «democratiche e le parlamentarie degli stessi grillini) premia comunque i «nominati». Mandando a Montecitorio e a Palazzo Madama chi, di fatto, non ottiene un solo voto dagli elettori ma conquista il seggio in virtù della posizione in lista. Anzi, no. Labriola, un voto (ma proprio uno) l’ha comunque avuto...

LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO

Signore Onorevole Cittadino Parlamentare,

avrei bisogno per un attimo della sua attenzione. Dedichi a me un suo momento,così come io dedico le mie giornate alle vittime di mafia e delle ingiustizie. Questa mia segnalazione non è spam, né tantomeno l’istanza di un mitomane o di un pazzo e quindi da cestinare.

Sono il dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, riconosciuta dal Ministero dell’Interno come associazione antiracket ed antiusura, e scrittore-editore dissidente, che proprio sulle varie tematiche sociali ha scritto 50 libri letti in tutto il mondo facenti parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.

Mi rivolgo a voi perché nuovi, in quanto i parlamentari delle legislature precedenti non si sono mai degnati di dare dovuto  riscontro alle mie segnalazioni di interesse pubblico. Nell’ambito della mia attività sempre io ho dato risposte ai miei interlocutori pur se a volte erano persone disperate e fuori di testa e quindi pretendenti risposte che io, senza potere, potessi dare.

Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me è stato impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo.

Altra segnalazione di una mia battaglia ventennale riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti.

Il sistema di abilitazione truccato riguarda tutte le professioni intellettuali: magistrati, avvocati, professori universitari, giornalisti, ecc. La domanda che ci si dovrebbe porre è: dov’è il trucco?

COMMISSIONI D’ESAME: con la riforma del 2003, (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180), dopo gli scandali e le condanne sono stati esclusi dalle commissioni d’esame i Consiglieri dell'Ordine degli Avvocati, competenti per territorio, mentre i Magistrati e i Professori universitari non possono correggere gli scritti del loro Distretto. Le commissioni locali fanno gli orali e vigilano sullo scritto, mentre gli elaborati sono corretti da altre commissioni estratti a sorte. Questa riforma, di fatto, mina la credibilità delle categorie coinvolte. Le Commissioni  e le sottocommissioni hanno un diverso metro di giudizio, quindi alla fine bisogna affidarsi anche alla buona sorte per avere una commissione più benevola. Naturalmente, le Commissioni del nord continuano ad avere un atteggiamento pro lobby, limitando l’accesso all’avvocatura al 30% circa dei candidati, per paura che i futuri avvocati del sud emigrino al nord. A riguardo ci sono state interrogazioni scritte al Ministro della Giustizia da parte di deputati (n. 4-10247, presentata da Pietro Fontanini mercoledì 16 giugno 2004 nella seduta n. 478 e n. 4-01000 presentata da Silvio Crapolicchio mercoledì 20 settembre 2006 nella seduta n. 038). Dubbi sono sorti anche sul modo di abbinare le commissioni. Il deputato lucano Vincenzo Taddei (PdL) ha presentato un’interrogazione scritta al Ministro della Giustizia. Il motivo della richiesta di intervento è preciso: per ben tre anni consecutivi, nel 2005, 2006 e 2007, da quando sono entrate in vigore le modifiche sullo svolgimento dell’esame di avvocato, le prove scritte dei candidati della Corte d’Appello di Potenza stranamente sono state sempre corrette presso la Corte d’Appello di Trento con percentuali di ammessi all’orale sempre molto basse (nel 2007 circa il 18%).

LE TRACCE: sono conosciute giorni prima la sessione, tant’è che il senatore Alfredo Mantovano ha presentato una denuncia penale ed una interrogazione al Ministro della Giustizia (n. 4-03278 presentata il 15 gennaio 2008 Seduta n. 274).

INIZIO DELLE PROVE: la lettura delle tracce avviene secondo le voglie del Presidente della Corte d’Appello, che variano da città a città. Nel 2006 la lettura delle tracce a Lecce è stata effettuata alle ore 11,45 circa, anziché alle 09,00 come altre città. In questo modo i candidati hanno tempo di farsi dettare le tracce e i pareri sui palmari e cellulari, molto prima della lettura ufficiale.

IL MATERIALE CONSULTABILE: nel 2008, tra novembre e dicembre il caos. Se al concorso di magistratura succede di tutto, a quello di avvocatura è ancora peggio. Due concorsi diversi, stessa sorte. Niente male per essere un concorso per futuri magistrati ed avvocati. Niente male, poi, per un concorso organizzato dal ministero della Giustizia. Dentro le aule di tutta Italia, per il concorso di avvocati che si svolge in ogni Corte d'Appello italiana, è entrato di tutto: fotocopie, bigliettini con possibili tracce e, soprattutto, palmari e cellulari. Ma sul concorso in magistratura svolto a Milano c’è ne da parlare. Sopra i banchi i codici «commentati» vietati, con il timbro del ministero che ne autorizzava l'utilizzo. Relazione pubblicata sul sito del Ministero della Giustizia e protocollata con il n. 19178/2588 del 24/11/2008, in cui il presidente denuncia l'atteggiamento «obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore della Polizia di Stato, trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima». Eppure le regole dovevano essere più rigide. Dovevano esserci più controlli. Era stato assicurato dal ministero della Giustizia. Con tanto di sanzioni e espulsioni.

IL MATERIALE CONSEGNATO: per norma si dovrebbe consegnare ogni parere in una busta, contenente anche una busta più piccola con i dati del candidato. Ma non è così. Le buste con i dati si possono aprire prima della lettura degli elaborati. A Roma, venerdì 13 marzo 2009, alla fine è dovuta intervenire la polizia penitenziaria. Al grido di “Buffoni! Buffoni!” centinaia di esaminandi del padiglione 6 al concorso di notaio si sono scagliati contro la commissione. “Questo esame è una farsa – hanno gridato – ci sono gli estremi per poterlo annullare”. Si è visto “gente che infilava un nastro rosso nella busta” per farsi riconoscere, gente che “aveva le tracce già svolte” e gente che, dopo aver chiacchierato con i commissari, “si faceva firmare la busta in modo diverso”.

CORREZIONE DEGLI ELABORATI: la legge 241/90 e il Ministero della Giustizia dettano le regole in base alle quali si deve svolgere la correzione, per dare i giudizi. Essi attengono alla rappresentanza delle categorie degli avvocati, magistrati e professori universitari, oltre all’attenzione data alla sintassi, grammatica, ortografia e sui principi di diritto del parere dato.

Cosa fondamentale, la legge regola la trasparenza dei giudizi e la Costituzione garantisce legalità, imparzialità ed efficienza.

Di fatto, le commissioni da sempre adottano una percentuale di ammissibilità, che contrasta con un concorso a numero aperto: 30% al nord, 60% al sud.

Di fatto, le commissioni sono illegittime, perché mancanti, spesso, di una componente necessaria.

Di fatto, i tre compiti non sono corretti, ma falsamente dichiarati tali, perché sono immacolati e perché non vi è stato tempo sufficiente a leggerli. (3/5 minuti per elaborato: per aprire la busta con il nome e la busta con l’elaborato, lettura del parere di 4/6 pagine, correzione degli errori, consultazione dei commissari per l’attinenza ai principi di diritto, verbalizzazione, voto e motivazione).

Di fatto, i voti dei tre elaborati sono identici e le motivazioni sono mancanti o infondate. Su tutti questi notori rilievi vi è stata interrogazione presentata dal deputato Giorgia Meloni (n. 4-01638 mercoledì 15 novembre 2006 nella seduta n.072). Oltre che quella n. 4-01126 presentata da Giampaolo Fogliardi mercoledì 24 settembre 2008, seduta n.054, e quella n. 4-07953 presentata da Augusto di Stanislao mercoledì 7 luglio 2010, seduta n.349. Illegale ed illegittimo è anche il ritardo con cui sono consegnate dalle commissioni di esame le copie degli elaborati, al fine di impedire la presentazione in termini dei ricorsi al Tar, in quanto la maggior parte di questi ricorsi sono accolti dalla giustizia amministrativa. Solo, però, se presentati in modo ordinario, in quanto le commissioni impediscono l’accesso al beneficio del gratuito patrocinio.

Di fatto, il Ministero non risponde alle interrogazioni parlamentari, né ai ricorsi dei candidati. Le denunce penali contro gli abusi e le omissioni, poi, sono gestite dai magistrati, componenti delle stesse commissioni contestate, per cui le stesse rimangono lettera morta.

Di fatto, gli ispettori in loco del Ministero della Giustizia sono componenti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, che come tali non possono far parte delle Commissioni, in quanto dalla riforma del 2003 sono stati esautorati per il loro comportamento.

Di fatto, alcuni candidati superano l’esame al primo tentativo. Chi presenta le denunce penali circostanziate e provate, invece, deve rinunciare a causa delle ritorsioni. Sulla home page di www.controtuttelemafie.it al link dossier vi sono tutti gli atti giudiziari di riferimento.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? 

Questa è la denuncia penale, così come richiesta in sede di avocazioni delle indagini alla procura Generale della Corte di Appello di Potenza, e per la quale è stata presentata (a dire di Rita Romano) denuncia per calunnia.

DENUNCIA ALLA S.V.

Rita Romano, giudice monocratico del Tribunale di Taranto, sezione staccata di Manduria,

domiciliata in viale Piceno a Manduria,

per i reati di cui agli artt. 81, 323, 476, 479 c.p., con applicazione delle circostanze aggravanti, comuni e speciali ed esclusione di tutte le attenuanti,

IN QUANTO

Essa, abusando del suo ufficio, ha adottato continuamente atti del suo ufficio, con “INTENTO PERSECUTORIO”, lesivi degli interessi, dell’immagine e della persona del sottoscritto, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove.

Nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha condannato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza, o essa ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza.

PREMESSO CHE:

Giangrande Antonio, da difensore, è stato vittima di un aggressione in casa da parte del marito di una sua assistita in un procedimento di separazione, al fine di impedirgli la presenza all’udienza del giorno successivo. Nel processo penale n. 10354/03 RGD, in data 14 febbraio 2006,  la Romano assolveva l’aggressore Mancini Salvatore. In un processo istruito, in cui il PM non ha richiesto l’ammissione di alcun testimone, pur indicanti in denuncia Giangrande Antonio, sua moglie Petarra Cosima e il figlio Giangrande Mirko, la Romano sente solo i coniugi ai sensi del’art. 507 c.p.p. su indicazione del Giangrande, ma rinuncia alla testimonianza di Mirko, il vero testimone. Tale abnorme decisione di assoluzione è stata assunta disattendendo i fatti, ossia le lesioni e le testimonianze, e definendo testimoni inattendibili il Giangrande e la Petarra.

Giangrande Antonio era accusato di esercizio abusivo della professione forense e per gli effetti di circonvenzione di incapace. Nel processo penale n. 7612/01 RGPM, in data 06/03/2007, nonostante lo stesso PM riteneva il reato di esercizio abusivo della professione forense infondato e inesistente, essendovi regolare abilitazione al patrocinio legale, chiedendone l’assoluzione, la Romano condannava il Giangrande per circonvenzione di incapace. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante le tariffe forensi prevedevano l’obbligatorietà dell’onorario per il mandato svolto. Tale abnorme decisione è stata assunta nonostante più volte si sia denunciata la violazione del diritto di difesa per mancata nomina del difensore, per impedimento illegittimo all’accesso al gratuito patrocinio. E’ seguito appello. Da notare che il giorno della sentenza era l’ultimo processo ed erano presenti solo il PM, il giudice Romano, il cancelliere e il difensore dell’imputato. Dagli uffici giudiziari è partita la velina. Il giorno dopo i giornali portavano la notizia evidenziando il fatto che il condannato Giangrande Antonio era il presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Era la prima volte che le vicende del Tribunale di Manduria avevano degna attenzione.

Giangrande Antonio era difensore di Natale Cosimo in una causa civile di sinistro stradale. Il testimone Fasiello Mario dichiara di non sapere nulla del sinistro. Esso era denunciato per falsa testimonianza. Nel processo penale n. 1879/02 PM , 1231/04 GIP, 10438/05 RGD, in data 27 novembre 2007, la Romano lo assolveva. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante lo stesso rendeva testimonianza contrastante a quella contestata. Lo assolveva nonostante affermava il vero e quindi il contrario di quanto falsamente dichiarato in separata causa. Lo assolveva nonostante a difenderlo ci fosse un difensore, Mario De Marco, impedito a farlo in quanto Sindaco pro tempore di Avetrana. Il De Marco e Nadia Cavallo hanno uno studio legale condiviso.

Giangrande Antonio e Giangrande Monica erano accusati di calunnia, per aver denunciato l’avv. Cavallo Nadia per un sinistro truffa, in cui definiva, in reiterati atti di citazione, Monica “RESPONSABILE ESCLUSIVA” del sinistro. Atti presentati due anni dopo la richiesta di risarcimento danni, che la compagnia di assicurazione ha ritenuto non evadere. Il Giangrande Antonio non aveva mai presentato denuncia. Antonio era fratello e difensore in causa di Monica. La posizione del Giangrande Antonio era stralciata per lesione del diritto di difesa e il fascicolo rinviato al GIP. Nel processo penale n. 10306/06 RGD, in data 18 dicembre 2007, la Romano condannava Giangrande Monica e rinviava al PM la testimonianza di Nigro Giuseppa per falsità. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante la presunta vittima del sinistro non abbia riconosciuto l’auto investitrice, si sia contraddetto sulla posizione del guidatore, abbia riconosciuto Nigro Giuseppa quale responsabile del sinistro, anziché Giangrande Monica. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante Nigro Giuseppa abbia testimoniato che la presunta vittima sia caduta da sola con la bicicletta e che con le sue gambe sia andato via, affermando di stare bene. E’ seguito appello.

Giangrande Antonio era difensore di Erroi Cosimo, marito di Giangrande Monica, sorella di Antonio. In causa civile, in cui difensore della contro parte era sempre Cavallo Nadia, tal Gioia Vincenzo ebbe a testimoniare sullo stato dei luoghi, oggetto di causa. Il Gioia, in chiara falsità, palesava uno stato dei luoghi, oggetto di causa, diverso da quello che con rappresentazione fotografica si è dimostrato in sede civile e penale. Il Gioia, denunciato per falsa testimonianza veniva rinviato a giudizio in proc. 24/6681/04 R.G./mod 21.  Difeso da Cavallo Nadia in proc. 10040/06 RGD. In data 16 aprile 2008 il giudice Rita Romano, pur evidenti le prove della colpevolezza, assolveva il Gioia Vincenzo.

"La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Rigetta, App. L'Aquila, 10 Marzo 2006)". (Cass. civ. Sez. III Sent., 22-02-2008, n. 4603; FONTI Mass. Giur. It., 2008).

UNA CONDANNA E UNA SANZIONE ECONOMICA. QUESTO HA DECISO IL GIUDICE DI MANDURIA, scriveva al momento della condanna da parte di Rita Romano il direttore Giovanni CaforioArrivati alla fine gli ultimi due processi che mi vedevano imputato per il reato di “diffamazione a mezzo stampa” e quindi il Giudice, martedì 3 luglio, con sentenza di primo grado mi ha ritenuto colpevole del reato sopra citato. La prima, quella che mi vedeva accusato dall’ex sindaco Aldo Maggi è stata alquanto severa: un anno e due mesi di reclusione (con i benefici di legge, ndr), la seconda quella intentata dall’ex delegato amministrativo Claudio Leone è stata sanzionata con 900 euro di multa. Certo entrambi i verdetti di primo grado verranno appellati e quindi aspetteremo intanto le motivazioni della sentenza che mi verranno date entro i classici 90 giorni. E poi si riparte presso la Corte d’appello di Lecce. E in questo appello avremo la possibilità di ribaltare queste due sentenze, cosa che è avvenuta diverse volte. E’ normale che si accusa il colpo, e questo è innegabile, ma subito dopo mi sono rialzato e credo che nella vita a tutto si paga un prezzo e in questo prezzo c’è tutta la consapevolezza di aver fatto, e anche scritto, tutto ciò che ho ritenuto giusto. Poi le aule di Tribunale sono un altro aspetto, certo non trascurabile. Ma sono un altro aspetto. Credo fortemente nella ragione delle cose, nell’indagare sui fatti, nello scrutare i comportamenti di chi ha amministrato questo paese solo ed esclusivamente per ciò che gli era affine. Non mi sento ne un Masaniello e tanto meno un Robespierre ma mi sento un giornalista che ha fatto, e lo sta facendo tutt’ora, ciò che giustamente ritiene importante per mettere a conoscenza del lettore tutti i fatti che sono avvenuti nella nostra Casa comunale in questi ultimi passati 5 anni. Leggendo le classiche carte e messo in moto il meccanismo della legalità che, questo è scontato, è sul tavolo della Procura della Repubblica di Taranto con sorprese che stupiranno moltissimo i nostri lettori e i savesi in genere, a brevissimo tempo. Non ho mai voluto aureole o encomi per quello che ho fatto, e che sto facendo, ho solo creduto che fare questo mestiere è stato dettato solo dalla passione e dall’amore verso questo paese. Credo che il giornalista somigli molto ad un maratoneta e quindi il suo lavoro di indagine, e di inchiesta, non si vede subito. Ma si vede comunque. L’ex sindaco Aldo Maggi ha dalla sua una posizione processuale per nulla invidiabile: rinviato a giudizio, proposte di rinvio a giudizio e diversi avvisi di garanzia. L’altro, Leone Claudio Romualdo, è indagato per Truffa aggravata e abuso e omissione di atti in ufficio. La posizione processuale di entrambi sta per arrivare alla fine e credo che quanto prima avremo le risposte a tutto questo. Oggi, per me, è andata così. Non mi scoraggio affatto. Anzi, mi metto a ridere pure quando “qualcuno” a mò di sfottò, appena ha saputo della sentenza di condanna in primo grado, telefonandomi mi ha detto testualmente: “Giovanni? Devo portarti le arance?” Io sempre sulla stessa linea. Dello sfottò, gli ho detto: “Grazie per l’offerta. Mancano solo le torte nella lista delle cose che mi mancano. Quanto alle arance, faresti bene a portale a qualcuno che ti è caro e che ti è stato vicino nella passata competizione elettorale”. Vado avanti, con audacia, con coraggio e senza paura. Senza guardare in faccia a nessuno. Questo sono io. Posso non piacere a più di qualcuno, normale questo. Ma sono così …

PROFONDO SUD: IL SOGNATORE E L’AVVOCATICCHIO … scrive Giovanni Caforio su “Viva Voce Web”. Russia. Ottobre 1917. Viene demolito l’impero dello zar Nicola II, i bolscevichi prendono il potere e vengono impiantati i soviet. I soviet rappresentano, nell’ideologia socialista di Trotski e di Lenin il primo passaggio che prevede la dittatura del proletariato, nella dottrina marxista, il quale deve portare dopo questa transizione all’anarchia. Impiantati i soviet nei quartieri russi e subito iniziano a ed emergere le prime figura politiche, socialiste, le quali si sentono già in grado di saper amministrare una nazione che ha appena lasciato un impero e che, faticosamente, dovrebbe avviarsi a un nuovo modello sociale, o meglio alla dittatura del proletariato.  Un rampate avvocato bolscevico, un autentico felino, crede di già che può fare tutto ciò che crede. Eletto in uno dei diversissimi soviet moscoviti gli viene dato l’incarico della gestione del bene comune. Il felino, o fellone, comincia già a capire che la sua vocazione sono i soldi, se pur nelle casse del nuovo regime erano quasi scarsi. Convinto di saper fare tutto si appropriò, direttamente o indirettamente, di tutte quelle agevolazioni economiche che il suo incarico poteva dare. Oltre il felino, però, c’era un sognatore, il quale lo teneva a debita distanza e lo controllava nel suo operato all’interno del soviet. Il sognatore collezionò ben diverse notizie su di lui e le diffuse nel quartiere. L’avvocaticchiò si arrabbiò di brutto e convocò immediatamente l’organo centrale del soviet.

Viene fissato l’incontro collegiale tra l’avvocaticchio e il sognatore con i giudici supremi del soviet a valutare l’accusa del sognatore. I giudici moscoviti ascoltano l’avvocaticchio, il quale dice: ”Compagni, è innegabile la mia vocazione socialista. Sono nato socialista e continuo in quest’opera ideologica come hanno insegnato i nostri padri comunisti. Il sognatore ha parlato di me, rappresentante del popolo, in modo ignobile e denigrandomi davanti a tutti in un incontro pubblico. Chiedo che codesto organo popolare espelli, e lo condanni in modo esemplare, dalla nostra comunità il sognatore”. Dopo l’arringa dell’avvocaticchio, ecco quella del sognatore: “Giurati popolari, sapete benissimo che il mio credo comunista era solo in giovane età. Poi sono cresciuto, come è normale per ogni essere umano. Ho visto le cose in modo diverso e da come le ho viste le ho narrate ai miei conoscenti e amici, quindi non credo di avere colpe alcune sul diritto di parlare. Se voi credete all’avvocaticchio condannatemi. Lo accetto, seppur controvoglia. Ma sappiate che l’operato dell’avvocaticchio è stato alquanto scabroso”. I giudici, dopo aver ascoltato entrambi, si ritirano nelle loro stanze. Rientrano nell’aula del soviet e decretato l’assoluzione per il sognatore. L’avvocaticchio, sentito il verdetto delle toghe rosse, si mette le mani nei capelli e comincia a strapparsi quei pochi capelli che gli sono rimasti. E’ nervoso e al passaggio casuale del sognatore davanti a lui gli batte le mani in segno di sfottò. Il sognatore è calmo e di rimando, al battito della mani provocatorio, gli risponde: ”Li mani và battili an facci a mammta. Pizzarroni cà nò se otru!”. Il 21 febbraio 2013, presso il Tribunale di Manduria, sezione staccata di Taranto, il giudice Orazio Simone mi ha assolto perchè il fatto non costituisce reato, scrive il direttore di Viva Voce Web di Sava. I fatti: nell’inverno del 2009 il Consiglio comunale savese concorda, con l’opposizione, la formazione di una Commissione bipartisan, la quale vuole indagare sulla voragine economica che si è aperta nell’Ufficio Contenzioso del nostro Comune. Il delegato amministrativo è l’avvocato Claudio Romualdo Leone, in quota PSI nella passata amministrazione Maggi. Nel 2007 il Contenzioso savese aveva sborsato, quindi dalle nostre casse comunali, la cifra di 80 mila euro ma nell’anno successivo si registrò un esborso del nostro Ente comunale di qualcosa come 500 mila euro. Alla luce di questa esorbitante differenza, l’opposizione chiese alla maggioranza del centrosinistra savese di far luce su questo enorme sbalzo economico. Costituita la Commissione, la quale si mette subito al lavoro o meglio a leggere le classiche carte e di seguito i vari pagamenti fatti dal nostro Comune a chi batte cassa per buche stradali o, in ultima ipotesi, per danni fisici derivati proprio da queste buche. Un paio di mesi di lavoro ed ecco redatto il lavoro della Commissione comunale. Detto lavoro viene consegnato direttamente all’ex presidente del Consiglio comunale Giuseppe Brigante il quale preso atto di ciò non invia tutto il carteggio alla Procura della Repubblica di Taranto. L’opposizione di allora, attuale Sindaco in testa, invia direttamente tutto il lavoro di inchiesta al Magistrato, e in questo caso si registra il defilarsi vergognoso del Partito Democratico savese, comunisti compresi, i quali non mettono la loro firma nell’Esposto che viene inviato alla Procura! Il magistrato, una volta ricevuto il carteggio, mette immediatamente in evidenza due reati: Truffa aggravata e abuso e omissione di atti in ufficio contro l’avvocato Claudio Romualdo Leone. Il nostro giornale riceve il lavoro di inchiesta e si accerta che effettivamente stanno così le cose, ovvero le indagini del magistrato che riguardano il delegato amministrativo sopra citato. Ora, cosa dicevano queste carte ricevute dalla Procura tarantina? Andiamo per ordine: il delegato amministrativo Claudio Leone aveva liquidato danni derivati dalle buche in diverse situazioni. Una buca riparata, con rilievo fotografico esibito dal pretendente, il giorno ics veniva liquidata, per il danno “subito” il giorno zeta. Quindi se la buca veniva riparata ad esempio il giorno 15 di un determinato mese ecco pronta la richiesta di danno subito il giorno 25 sulla stessa buca, la quale risultava di fatto già riparata! E su questo caso, e non era solo un caso, il magistrato ha puntato la sua indagine. In altri casi sono stati liquidati danni, sempre in virtù di stè maledette buche stradali, vedendo l’avvocato Claudio Leone sia avvocato dell’accusa (cliente) sia avvocato della difesa (nostro Comune) e questo deontologicamente non si può fare, o meglio non si è mai visto che un avvocato difende sia l’accusatore che l’accusato. Mai! Andiamo avanti, ma divento riduttivo in quanto di esempi nel lavoro della Commissione sono tantissimi, risulta anche che la figlia dell’avvocato Leone, sempre in virtù di una buca stradale, si fa male (forse andando in bicicletta o altro) e chiama ai danni il nostro Comune. Bene, o meglio vediamo bene come funziona questo. Il padre, Claudio Leone, liquida il danno subito dalla figlia in diverse migliaia di euro e in questa liquidazione è compresa anche la percentuale di invalidità (o di danno fisico subito). Voi vi direte: siamo d’accordo con quanto sopra, ma che centra questa ultima citazione? Certo tutti i nostri figli possono cadere in una buca stradale, e Sava è la regina delle buche, e quindi può farsi male anche la figlia del Leone. Ma nella liquidazione dei danni fisici subiti dalla ragazza, i quali corrispondono a diverse migliaia di euro, non è consentito il solo parere del delegato amministrativo (e qui credo che ci sarebbe anche un conflitto evidentissimo di interessi, in quanto il padre liquida un danno subito dalla figlia) ma ben sì il parere di una Commissione medica la quale è la sola in grado di valutare se c’è un danno fisico o meno e di che portata pure. Finita questa descrizione, sommaria per la verità, il nostro giornale riportò in prima pagina la notizia delle indagini che vertevano su Claudio Leone. Chiedevamo le dimissioni del Leone in attesa che il magistrato facesse luce sul suo operato amministrativo. Il nostro giornale appone un dazebao in Piazza San Giovanni (incriminato in questo mio rinvio a giudizio). Apriti cielo! Fioccano denunce! Andiamo a questa assoluzione: sono stato difeso egregiamente dall’avvocato Salvatore De Felice (il quale spesso scherzosamente, e volentieri, mi dice, che oltre a tagliarmi la lingua sono le mani che devono esserlo per prima cosa!) il quale nella sua arringa ha posto in prima battuta il diritto di cronaca, seppur con toni forti ma correlati dai fatti, o meglio delle indagini in corso che vedevano il Leone indagato per Truffa aggravata e Abuso ed omissione di atti in ufficio. La difesa del Leone ha voluto a tutti i costi voler dimostrare che la data del dazebao era antecedente alla decisione del magistrato sul carteggio inviato dall’opposizione savese di allora. Il giudice Orazio Simone ha sospeso il dibattimento chiedendo al Cancelliere la richiesta da inviare immediatamente, via fax, alla Procura di Taranto, per accertarsi di questo. Richiesta avvenuta: il dazebao aveva data maggio 2010, la Procura di Taranto aveva già iscritto nel registro degli indagati il Leone nel settembre del 2009. E’ stata una bella assoluzione ma, ricordo ai nostri lettori, che nelle cose ci vuole coraggio, solo coraggio. E non dobbiamo mai abbassare la testa quando vediamo che in genere, chi è stato designato al bene comune, di seguito ne fa un bene proprio. Destra o sinistra non ci importa affatto! E non ci dobbiamo lamentare sempre con il classico”tutti sono uguali, tutti sono alla stessa maniera”. No, non ci dobbiamo mai abituare a questo concetto. Altrimenti la nostra democrazia perde punti e quando una democrazia perde punti non li perde soltanto un direttore garibaldino come me, ma li perdete tutti e tutti saremo meno liberi. Pensateci bene …

E non è tutto: lo stesso giorno anche Maria Luisa Mastrogiovanni è assolta. Casarano. 'Il fatto non sussiste'. Il giudice Sergio M. Tosi ha assolto con formula piena la direttora del Tacco dall'accusa di diffamazione verso Paolo Pagliaro. Dopo la richiesta di assoluzione da parte dell'accusa, il giudice del Tribunale di Casarano dott. Sergio Tosi, ha assolto Maria Luisa Mastrogiovanni per tutti e 12 i capi di imputazione. Il fatto non sussiste. E' la sentenza con la quale è stata assolta dall'accusa di diffamazione a mezzo stampa la giornalista Maria Luisa Mastrogiovanni, direttore del Tacco d'Italia. A portarla davanti al Tribunale penale di Casarano, presidente Sergio M. Tosi, è strato Paolo Pagliaro, editore televisivo salentino molto noto, a sua volta protagonista di alcune vicissitudini giudiziarie, ma come imputato. Proprio queste vicende (l'uomo subì anche gli arresti domiciliari per un'inchiesta della procura barese, il cui processo è stato stralciato dal troncone principale nel quale è stato invece condannato l'ex ministro Fitto), insieme ad una serie di irregolarità e stranezze nella conduzione della sua azienda, costituirono l'oggetto di una corposa inchiesta di copertina de Il Tacco d'Italia, andato in edicola nel dicembre 2005. Un servizio molto ampio, dettagliato e documentato come bella consuetudine di questa testata, corroborato anche da autorevoli testimonianze, come quelle del giornalista Marco Travaglio e dell'allora presidente dell'Ordine dei giornalisti di Milano, Franco Abruzzo. Nell'udienza odierna il pm ha chiesto l'assoluzione dell'imputata, non avendo ravvisato nel dibattimento gli elementi che avevano invece indotto il pm dell'istruttoria, dottor Antonio De Donno, ad individuare ben 12 punti sui quale chiedere (e poi ottenere) il rinvio a giudizio di Mastrogiovanni. La parte civile, rappresentata dall'avvocato Angelo Pallara, ha chiesto la condanna della giornalista, sostenendo il suo reiterato intento "persecutorio" nei confronti del suo assistito; la difesa, rappresentata dall'avvocato Massimo Manfreda, ha invece rivendicato non soltanto la correttezza dell'impianto giornalistico dell'inchiesta su Pagliaro (il cui titolo era "L'impero virtuale") ma, soprattutto, il sacrosanto diritto dell'informazione a dare notizie ed elaborare critiche. "Specialmente quando l'oggetto dell'attenzione professionale è un uomo pubblico", ha sottolineato Manfreda. Oggi, più di ieri, Pagliaro è "pubblico" essendo addirittura candidato alla Camera con un partito di destra, dopo essere stato candidato nelle primarie per diventare sindaco di Lecce.
Massimo Manfreda ha concluso con la famosissima battuta di Humphrey Bogart, giornalista nel film L'ultima minaccia, del 1952. "E' la stampa, bellezza".

SPECIALE PAOLO PAGLIARO E TELERAMA

L'impero virtuale

SPECIALE PAGLIARO STORY. Le inchieste incriminate e assolte, le 20 (suppergiù) querele e diffide. Il dovere d'informazione e il diritto di sapere. Gli scheletri nell'armadio e le ombre di un uomo politico che è anche un editore. Da Il Tacco d'Italia n.21. Pubblichiamo la prima parte dell'inchiesta su Paolo Pagliaro, uscita sul numero 21 del Tacco d'Italia. Pagliaro: l'impero virtuale. Il gruppo Mixer Media Management, i suoi paraventi e i suoi problemi. Un impero di facciata. Cioè maestoso nella sua struttura, ridondante nell'autoreferenzialità, ma fragile nelle sue fondamenta cartacee. Fragile, perché virtuale, perché parte di ciò che è dichiarato essere vero, vero non è. E quello che sembra a posto contiene elementi di dubbio. Proponiamo subito il sommario di quest'inchiesta che, probabilmente, non riusciremo ad esaurire in una sola puntata, avvertendo che quanto abbiamo scritto siamo in grado di documentarlo: i direttori dei telegiornali di Paolo Pagliaro non sono responsabili davanti alla legge ma soltanto, nella migliore delle ipotesi, coordinatori e organizzatori del lavoro giornalistico; una delle due testate televisive (leggi Tg) addirittura non esiste in base alle norme; la proprietà effettiva di una televisione è messa in discussione in un processo in corso che si annuncia molto complicato per l'attuale editore; la cooperativa dei giornalisti e di quasi tutti i dipendenti è controllata dall'editore-cliente tramite le nomine dei suoi vertici, la pattuizione e l'erogazione dei compensi individuali; i locali di una rete tv e di tutte le radio del gruppo non rispettano le basilari norme sulla sicurezza del lavoro, sono subissate da carte bollate e sono l'obiettivo di prossime ispezioni da parte della Asl e dei Vigili del Fuoco, perché in odore di "inagibilità"; le società che costituiscono il "Gruppo Mixer Media Management" - che comunque non risulta da una "visura Cerved" - sono riconducibili tutte ad un unico soggetto: Paolo Pagliaro. Proprietario, editore e, tramite l'amico e sodale Max Persano, controllore diretto di tutte le testate, televisive e radiofoniche, persino una di "agenzia giornalistica", la "Comunication" (con una sola "m"). Il Gruppo. Paolo Pagliaro è un imprenditore che deve parte del successo alla sua fantasiosità. Molte delle intuizioni di marketing sono diventate dei veri e propri brand; alcuni sono innocui, come il roboante "Gruppo Mixer Media Management", e la concessionaria di pubblicità "K.&C.". Sono entrambe sigle, tecnicamente si chiamano "insegne", che è facile trovare su carte e buste intestate, modulari di contratti, perfino negli spot autopromozionali. Altri sembrano meno innocui. Queste le società che la cosiddetta "visura Cerved" (accessibile via Internet molto facilmente) attribuisce a Paolo Pagliaro in quanto amministratore unico, socio unico o presidente del Consiglio di amministrazione: Telerama (srl con socio unico, capitale sociale 998mila euro, ricavi per un milione e mezzo di euro, una perdita d'esercizio di quasi 100mila euro al 31/12/03. In quel 2003 nessun dipendente dichiarato, nel 2001 ne risultavano 4. Un indice di liquidità del 106,5%); Radiosalento (srl, amministratore unico); Radiorama (srl, amministratore unico); Broker p.r. (srl, amministratore unico); Techno (srl socio unico); Comunicazione & servizi (srl socio unico); Consorzio circuito Top Tv Puglia (presidente del consiglio di amministrazione); Sestante (srl, amministratore unico); Editoriale Il Corsivo spa (Presidente del consiglio di amministrazione. Dichiarata fallita). Telerama ha un capitale sociale di quasi un milione di euro. Nell'ultimo esercizio ha perso oltre 97mila euro. I direttori irresponsabili. L'emittente Rts fa informazione giornaliera tramite tg ogni ora e il programma "Talk Sciò" è condotto con grande successo dal direttore Giuseppe Vernaleone. Entrambi, emittente e direttore, andrebbero catalogati nelle categorie dei Sedicenti o dei Virtuali, perché né Rts né questo collega sono registrati presso il Tribunale di Lecce. Almeno fino alla tarda mattinata del 17 novembre 2005. Rts nasce sulle spoglie di Telesalento, il cui direttore era (ed è, dal 2003) quel Massimo (Max) Persano, amico di sempre di Pagliaro, l'unico della vecchia guardia di professionisti e collaboratori (insieme a Titti Carratu e a pochissimi altri, due o tre che incontreremo più avanti con incarichi "sociali" di una certa rilevanza). A sua volta Telesalento è rinominata così dopo essere stata acquistata con il nome Tv 10. Come e da chi? Più avanti i divertenti dettagli, anch'essi "incartati" in un processo civile in corso di celebrazione. Qui proseguiamo con l'elenco dei Sedicenti o Virtuali perché dobbiamo tirar dentro anche una collega che stimiamo, Gabriella Della Monaca che non è, purtroppo per lei e per i telespettatori che ogni sera ne hanno letto il nome con questa qualifica sul "gobbo" di chiusura di ogni edizione (nella nuova impaginazione è stranamente scomparso), il direttore responsabile di TeleRama, la maggiore testata televisiva locale del Salento, ma al più, il facente funzioni. Ed anche in questo caso, fatta la verifica di rito, abbiamo scoperto che: per il Tribunale, "direttore responsabile" è Max Persano. Da ben 12 anni. Scopriamo che neanche il compianto Domenico Faivre, benché potesse insegnare giornalismo, ha mai avuto questa qualifica. Il vero direttore responsabile di Telerama non è Gabriella Della Monaca, ma Max Persano. Da 12 anni. Quindi, concludendo, è Paolo Pagliaro per interposte persone ad avere il controllo delle sue due emittenti, pur poggiandosi su due figure "tecnico-professionali", una giuridica del suo amico più caro Persano che firma entrambe le Testate, l'altra bicefala: i due giornalisti che dirigono quel che al padrone non interessa dirigere. Le controlla anche visivamente, le sue emittenti, l'attento padrone: di fronte alla sua scrivania ha un pannello di otto o dieci monitor sintonizzati sulle sue e sulle tv concorrenti e nazionali. Per far capire meglio, lettori e avvocati: se qualcuno querela per diffamazione TeleRama, a risponderne è, in solido con l'azienda, Massimo Persano non Gabriella Della Monaca; se la querela arriva a Rts non ne risponde nessuno, a meno che il diffamato non si dia da fare a ricostruire, a ritroso, tutto il percorso che Pagliaro ha fatto compiere alla vecchia Tv 10, poi Telesalento, infine Rts. Tanto meno, in tal caso, ne risponderebbe lo zelante Vernaleone che è davvero il più virtuale del mazzo. Per completezza d'informazione, abbiamo sentito il dovere di documentarci anche in questo caso. Da due presidenti regionali dell'Ordine dei Giornalisti ci è stato risposto che l'editore non può nel modo più assoluto trasmettere un tg non registrato, quindi clandestino a tutti gli effetti. Rischia la sospensione o addirittura la revoca della concessione e una serie di sanzioni pecuniarie che, presumibilmente, terranno anche conto delle movimentazioni economiche legate a questa tv, che si vede benissimo, ha successo eppure non è improprio definire "virtuale"; come "virtuale" è il direttore responsabile, il quale, a parte la brutta figura, rischia molto meno: un procedimento disciplinare se il caso viene sollevato anche davanti all'Ordine professionale, lievi sanzioni pecuniarie se viene individuato come soggetto agente in concorso con l'editore. Se veramente l'editore pubblica la dicitura "direttore responsabile" e questo fosse certamente dimostrabile, potrebbe andare incontro anche all'accusa di falso in atto pubblico e alla violazione delle norme relative alla registrazione dei giornali e alla dichiarazione dei mutamenti, previste dagli art. 5 e 6 della legge sulla stampa (n. 47 del 1948). Vale per Gabriella (finché è stata qualificata così), non per Vernaleone. Il giornalista ripetiamo non va incontro ad alcuna sanzione, del falso potrebbe essere chiamato a rispondere disciplinarmente davanti all'Ordine o potrebbe rispondere di concorso nel momento in cui si accerti che il collega era d'accordo con l'editore. Tutto molto tecnico, vero? Forse addirittura fastidioso, ma se si vuole informazione non truccata occorre stare nelle regole, di forma e di sostanza: e qui c'è molto cattivo odore di illegalità. Saremmo curiosi di sapere come reagirebbe Pagliaro se un suo concorrente fosse giuridicamente così male attrezzato, come è la sua RTS. Cioè: noi lo sappiamo bene (sappiamo di un tentativo posto in essere ad altissimo livello per far cessare l'attività di un competitore salentino), ma lo lasciamo immaginare ai lettori. E a proposito di regole, ecco un'altra perla. La Cooperativa C.C.C. Per i giornalisti, così come per quasi tutti i dipendenti di Pagliaro, il rapporto di lavoro è gestito da una Cooperativa, la seconda nella storia del "virtuale" Gruppo Mixer Media Management, perché la prima fu dichiarata fallita in seguito a vicende di cui sappiamo molto ma che, per ragioni di spazio, anche in questo caso non approfondiamo, perché lontane nel tempo (ché, se dovessimo andare indietro, troveremmo, ben più importante, lo scandalo delle false fatturazioni di Telerama, per cui andò in galera una mezza dozzina di personaggi eccellenti). Le Cooperative giornalistiche sono spesso un escamotage, sono attaccabili solo da qualcuno dotato di autorità ispettiva (come l'Inps, l'Inpgi, l'Ispettorato del Lavoro, eccetera) o dai lavoratori, ciò non di meno moralmente riprovevole; serve a sottopagare il lavoro, non avere doveri contrattuali rispetto ad orari e carichi, non riconoscere i diritti sindacali, non garantire pienamente e puntualmente le contribuzioni previdenziali. I ragazzi della C.C.C., nessun professionista e non tutti pubblicisti, che vivono l'effimera soddisfazione della notorietà televisiva (la formidabile leva che Pagliaro sa brandire con grande e riconosciuta sagacia, anche all'esterno), producono la materia prima della fortuna imprenditoriale del capo, ben sapendo, costoro, che hanno un futuro personale e previdenziale solo se se ne vanno da lì. Molti l'hanno fatto, molti vorrebbero farlo ma non possono perché non c'è mercato, e debbono accettare tutto. Siamo rimasti colpiti dalla posizione assunta dalla collega Della Monaca (che si firmava in calce "direttore responsabile") in occasione dello sciopero generale dei giornalisti: la redazione di TeleRama aderiva non perché la categoria è sfruttata dagli editori, come in tutta Italia, con lavoro precario, sommerso e senza garanzie, ma perché c'è il rischio che la Finanziaria tolga un po' di finanziamenti delle emittenti private! La Cooperativa funziona così: ciascun dipendente-collaboratore (cioè i giornalisti delle varie testate, i tecnici, i registi, tutto il personale che ruota attorno al Gruppo) stipula con essa un contratto per la prestazione di servizi. La C.C.C. a sua volta, per il tramite dei suoi vertici, stringe accordi con l'editore per l'erogazione di quei servizi (non solo giornalistici ma anche tecnici, amministrativi, ecc.). Tra i vertici, con la carica di vicepresidente del CdA, il solito Max Persano il quale aveva a suo carico, nel 2004, pignoramenti esattoriali e ipoteche legali per più di 800mila euro (non sappiamo se collegabili alla Cooperativa o ad altre aziende) che nel 2005 spariscono. Evidentemente pagati. Persano sta al timone effettivo del polmone lavorativo del Gruppo, decide praticamente tutto insieme a Pagliaro. E' direttore responsabile di ben cinque testate giornalistiche: Telerama, Telesalento (ovvero Rts), Comunication-agenzia d'informazione quotidiana, Caribe news, Jet Radio (tanto risulta al Tribunale al 17 novembre). Uno stress pazzesco. TeleRama. E' l'ammiraglia che va a gonfie vele, è il punto di riferimento assoluto e riconosciuto dell'informazione locale, blandita e temuta dal potere politico, arma letale ("Telearma", è rinominata dagli addetti ai lavori: ne sanno qualcosa in questo periodo importanti amministratori del Comune di Lecce) se qualcuno si mette di traverso, possente macchina di consenso e amplificatore di ogni iniziativa se qualcun altro va d'accordo con Pagliaro (dalla Provincia invece non ci sono giunte lamentazioni). La società è per il 100% di Pagliaro, il suo capitale sociale depositato sfiora il milione di euro. Drena migliaia di ore di pubblicità ogni anno, tabellare e di favore, palese e indiretta perfino negli spazi dell'informazione. Insomma è una potenza totale, perfetta e bellissima. Eppure è in perdita. Non tanto, ma quanto basta per tenere in vita gli altri parametri. Guardiamo dentro alle cifre ufficiali, sia pure parzialmente per non annoiare il lettore, ed anche perché parte delle risorse vengono permutate in beni e servizi, secondo la formula del "cambio merce", una tecnica triangolare di fatturazioni che Pagliaro utilizza appena può per pagare con pubblicità e non con denaro sonante fornitori, consulenti, prestatori d'opera, negozi, concessionarie d'auto eccetera. Dal conto economico, ultimo per noi disponibile, risulta che al 31/12/2003 la perdita di esercizio è stata di 97.807 euro; il suo Roe, return on equity, cioè il rapporto fra utile d'esercizio e patrimonio netto, cioè la redditività dell'azienda in relazione all'investimento è di -8,2 %, mentre l'indice di liquidità, il coefficiente che mette in relazione l'attivo e le rimanenze con il passivo, è 106, 5 %. Piccola perdita, né infamia né lode sugli altri fronti. Uno dei collaboratori di rango defenestrati da Pagliaro in questi ultimi anni, ci ha detto che nel solo 2004, al lordo dei costi di gestione, il Gruppo Pagliaro ha prodotto pubblicità e servizi per oltre sei milioni. Detratti i costi, quasi tutti conglobati in favore della cooperativa C.C.C. (bollette, oneri vari e affitti a parte), come abbiamo visto, l'emittente-corazzata non riesce a fare attivo. RTS. Si vede ma non c'è. Come già detto, per il Tribunale di Lecce-Registro della stampa, questa testata giornalistica che va in onda quotidianamente con programmi di informazione e pubblicità non esiste. Il presidente dell'Ordine di Lombardia, il mitico Ciccio Abruzzo, la definisce "clandestina" (rammentiamo che la legge istitutiva dell'Ordine dei giornalisti italiani è legge dello Stato). Esiste però "Studio 10 News TS Telegiornale Salento" (di fatto si tratta di TeleSalento, ex Tv 10); direttore responsabile del telegiornale è dal 2003 Max Persano, proprietario è "Il Circolo srl", oggi "Comunicazione & Servizi srl" di cui è amministratore Massimo Pezzuto, un collaboratore factotum di Pagliaro. Rts trasmette sulle frequenze dell'ex Tv10, che la "Punto casa servizi immobiliari" di Lecce ha acquistato da Antonio Fasano e Carmine Mosticchio per una cifra pattuita di un miliardo e 400 milioni di lire. La "Punto casa" ha ceduto tutte le quote de "Il Circolo" alla Broker srl di Pagliaro che, tramite Maria Antonietta Carratu (la fida Titti) e Massimo Pezzuto, diventa il vero proprietario e amministratore unico. RTS trasmette, fa informazione e profitti, ma per la legge non esiste. Direttore responsabile? Persano. Da notare che queste due persone sono qualificate "prestanome" in un atto depositato. E' tuttora in corso presso il Tribunale civile di Lecce un processo per la riappropriazione di tutte le quote de "Il Circolo", e dunque di Telesalento, da parte della "Punto casa": motivo? Il più scolastico: Pagliaro non ha pagato con la puntualità prevista le rate. Ma, nel frattempo, il nostro, sempre secondo documenti in nostro possesso, ha venduto una preziosissima frequenza su Otranto (un'area molto appetita per le difficoltà di irradiazione che presenta), che era nella disponibilità della società che possedeva Tv10. Insomma un guazzabuglio cui il Tribunale metterà ordine ripristinando diritti e doveri. La 488. Pagliaro fa lavorare anche i penalisti, non solo i civilisti, i fiscalisti e gli amministrativisti. Tutti di gran nome. E' imputato di concorso in truffa aggravata ai danni dello Stato, in seguito ad indagini di p.g. condotte dal pm Imerio Tramis dopo l'arresto di G. Napolitano, il noto consulente aziendale accusato di essere al crocevia di una serie di truffe milionarie (all'epoca erano miliardarie) messe in atto grazie alla Legge 488 che erogava finanziamenti alle imprese; l'inchiesta, partita all'inizio dell'estate 2004, ha già portato all'arresto di una decina di persone, tra imprenditori, dipendenti e funzionari di varie zone d'Italia, naturalmente oltre alla cattura di Napolitano che ha fatto due periodi di detenzione a San Nicola: dopo il primo, durato meno di dieci giorni, ha scritto un libretto leggero ed autoironico, dopo il secondo ha dettato pagine e pagine di verbale alla Procura, avendo deciso di collaborare quando ha capito, definitivamente, che il cosiddetto impianto accusatorio di Tramis era inattaccabile. Per capire meglio il contesto, è bene soffermarsi in breve su quest'inchiesta, la mamma di tutte le truffe recenti, una vicenda che non sta certamente aiutando l'immagine del Salento. Per venire a capo della montagna di informazioni contenute nella preziosa memoria del personal computer dell'avvocato Napolitano (il consulente non è dottore commercialista), la Procura ha ingaggiato un perito, tra i più stimati e preparati in circolazione, il quale è stato praticamente precettato, insieme ad una squadra di p.g. della Guardia di Finanza, fino al 2011, tale essendo la data-limite stimata entro la quale il lavoro dovrebbe essere completato. Non si tratta, infatti, soltanto di verificare l'elenco delle pratiche 488 istruite dallo Studio Napolitano, ma di accertare quali di esse contengano "fumus" di irregolarità, poi entrare in ciascuna di esse, disporre perizie sulle attrezzature, verificare ed incrociare le fatture fra acquirenti e fornitori, gli anni di produzione eccetera. Ecco come l'obiettivo prescrizione, come vedremo fra poco, non è più un miraggio per gli imputati. Lo schema della linea difensiva di Pagliaro (Studio Corleto), per come l'ha ricostruita il Tacco d'Italia, sembra semplice quanto concreta. Abbandonata ogni ipotesi di "resistenza" si è percorsa quella più ragionevole dell'ammissione delle responsabilità contestate e della collaborazione con il giudice dell'accusa, il cui primo passaggio, "dolorosissimo" per l'editore Pagliaro (il cui attaccamento al denaro è proverbiale), non poteva essere che restituire il malloppo nell'esatta misura in cui è stato incassato: la conversione in euro di 2.050.000.000 di lire. Può essere il primo passo verso il patteggiamento ma non è detto, quel che è certo, rifondere lo Stato serve ad alleggerire la propria posizione ed evitare il rischio delle manette. Per la verità l'accordo bonario doveva essere perfezionato in tempi solleciti, come è accaduto per altri, ma, tardando l'oblazione pattuita, il pm si è visto costretto alla prova di forza ordinando l'apposizione dei sigilli su macchinari ed attrezzature di TeleRama e RadioRama, lasciandone all'editore l'uso, fino a quando il Pagliaro non ha, appunto, risarcito lo Stato (del maldestro quanto grave tentativo di soffocare questa grossa notizia, per altri casi trattata con il dovuto risalto dai mezzi di Pagliaro, il Tacco ha dato conto il mese scorso nel commento di Adolfo Maffei). Truffa in ambito 488. Per evitare il carcere Pagliaro ha restituito i soldi del finanziamento: un milione di euro. Primo passaggio si diceva. Gli altri saranno calibrati per raggiungere l'obiettivo dell'agognata prescrizione e ritmati dal calendario e dal carico di lavoro del dottor Tramis il quale ha la completa potestà, per "motivi di giustizia" che sono nella sua esclusiva competenza, di decidere se dare impulso maggiore alle indagini in cui non vi è la collaborazione degli indagati. Per dirla con un'immagine giornalistica, pensiamo che i fascicoli delle truffe per la 488 compongano una pila: più in basso sarà, meno propulsione riceverà e più tempo sarà disponibile all'imputato per raggiungere la prescrizione prevista dall'art.157 del codice penale. Se lo scenario è verosimile, a conti fatti, l'editore di Telerama non corre eccessivi rischi di vedersi alla sbarra di un dibattimento imbarazzante accanto all'ex amico G. Napolitano. Per una questione di tempi tecnici: se lo aiuta il carico di lavoro del dottor Tramis (la collocazione nella famosa "pila") se si va al processo, se l'editore viene condannato in primo grado, in Appello ed infine in Cassazione, tutta questa storia sarà vicina al limite della prescrizione. A meno che il diavolo non rimetta la coda dove non dovrebbe e si materializzi sotto forma di qualcuna delle altre grane che l'editore ha qua e là. Come il decreto ingiuntivo che gli ha spedito a mezzo ufficiale giudiziario una società riferibile a G. Napolitano per un compenso di 30mila euro di parcella per la pratica 488 dello scandalo, mai pagata (Pagliaro, ovviamente, ha opposto il decreto stesso). Locazioni. Un'altra di queste grane, finora solo civilistica, è legata al complesso rapporto di Pagliaro con l'avvocato Fabio Chiarelli, già consulente del nostro, nonché proprietario degli immobili di via Marugi, sede storica delle aziende dell'editore. Lì è rimasta TeleRama dalla nascita al recente trasferimento alla zona industriale, lì si trovano ancora tutte le radio e gli studi di RTS. Lunghi anni di locazione non sempre facile (primo contratto intestato alla prima moglie di Pagliaro, per la Publipi, la concessionaria di allora: 1/12/1989, 300mila lire mensili), rapporti che s'incrinano sino ad interrompersi in maniera brusca contemporaneamente alla fragorosa rottura di Pagliaro con un altro dei suoi storici collaboratori e soci (diretti o indiretti): Antonio Bruno, amministratore unico della sas "J&B", il ramo del gruppo che si occupa di eventi, sfilate di moda e spettacoli. Dall'oggi al domani alla sua scrivania gli fa trovare Ezio Candido; in pratica lo mette in mezzo ad una strada. Bruno non se ne starà con le mani in mano, naturalmente. E' un professionista affermato, il suo valore è riconosciuto ed è già al lavoro. Inoltre si sta tutelando a dovere. Questa vicenda sembra la fotocopia di tantissimi altri rapporti personali e professionali interrotti, alcuni brutalmente, da Pagliaro. Basti citare i più importanti: Pompilio Guerrieri, Renato Gorgoni, Adolfo Maffei, Pino Fasanelli, Giovanni Rizzo, Giuseppe Dell'Anna, Ennio De Leo, Sileno Bray e, l'ultimissimo in ordine di tempo, il direttore generale Ezio Candido. Ma nella vicenda dei contratti d'affitto, apparentemente banale, c'è un piccolo baco che non è insignificante come sembra: è il contratto d'affitto della sede della società di cui Antonio Bruno è amministratore, al primo piano di via Marugi, dove si trovano anche l'ufficio del presidente Pagliaro, la sede della concessionaria di pubblicità (che nel frattempo ha cambiato nome e si chiama Broker p.r., amministratore unico Pagliaro), lo studiolo del direttore generale e altri ufficietti e stanzini vari, alcuni dei quali ricavati da lavori di copertura di terrazzi e terrazzini effettuati abusivamente da Pagliaro e, solo in parte, condonati da Chiarelli. I locali di via Marugi che ospitano la redazione e gli studi di RTS, nonché le radio del Gruppo, sono fuori legge. Che cosa è accaduto? Che Bruno, allontanato in malomodo e senza preavviso, ovviamente non paga più l'affitto dei locali e Chiarelli sfratta l'inquilino moroso, cioè il legale rappresentante della sas "J&B", con sede legale in via Marugi 32. Il proprietario non esegue materialmente lo sfratto perché si trova di fronte ad una difficoltà oggettiva: il possessore del suo immobile (una società di Pagliaro) è diverso dal conduttore (Antonio Bruno). Infatti, alcuni mesi dopo, il 18 giugno 2003, si presenta un ufficiale giudiziario che pretende la restituzione dei locali per conto dell'avvocato Chiarelli, e vi trova Maria Antonietta Carratu (la Titti, 46 anni, segretaria particolare e custode di quasi tutti i segreti del capo) la quale afferma che il possessore dell'immobile è la concessionaria di pubblicità del gruppo radiotelevisivo, la Broker p.r., che possiede anche gli impianti di condizionamento, di illuminazione, i computer eccetera. Il relativo verbale di sfratto contiene anche la rilevazione di "un vano cucina abusivo"; l'ufficiale giudiziario prende nota, effettua un sopralluogo stanza per stanza per verificarne le buone condizioni generali e se ne va. Quindici giorni dopo lo stesso funzionario si ripresenta e trova l'immobile svuotato di tutto e quasi completamente devastato al suo interno: annota e fotografa buchi nel pavimento, nei muri, serrature divelte e stima i danni in circa 20mila euro che entrano nella denuncia penale dettagliata che l'avvocato Chiarelli, presente ad entrambi i sopralluoghi, sporge contro Paolo Pagliaro pochissimi giorni dopo, chiedendo l'imputazione dell'editore per appropriazione indebita e danneggiamenti. Collateralmente la polizia giudiziaria compie una perquisizione nella villa dell'editore, a due passi dagli uffici nel Complesso Marugi, e vi trova un paio di serrature che non dovevano stare là. Nell'ottobre 2003 il Tribunale civile dispone un accertamento tecnico preventivo sulle condizioni dell'immobile che conferma la stima di circa 20 mila euro di danni. E la pratica va. Due anni dopo, ecco un'accelerazione inopinata. Il pomeriggio dell'11 ottobre 2005 una squadra del Nucleo di vigilanza edilizia del Comune di Lecce, sezione di Polizia giudiziaria, bussa alla porta degli studi di RTS, RadioRama e altre radio, al piano interrato di via Marugi e al primo piano dove hanno sede gli uffici della Broker. Allarme generale e panico incontrollato: il grancapo è fuori città, il "direttore" Vernaleone ordina ad un cameraman di riprendere gli ufficiali che si apprestano a fare l'accertamento, accompagnati da un tenente della Polizia municipale, contro la loro volontà, si convoca il (nuovo) legale di fiducia avvocato Fabio Valenti, noto volto televisivo, il quale non può far altro che assistere al sopralluogo per conto del suo cliente e verbalizzare alcune precisazioni in favore del suo assistito. La squadra della Vigilanza rileva alcune irregolarità: chiusura di balconi non condonati, costruzione di un vano di quasi 25 metri quadrati abusivo, altezza dei locali dei seminterrati di soli due metri e mezzo, unificazione degli studi televisivi con box e sottonegozi in difformità delle licenze edilizie originarie, modificazioni con strutture murarie, opere verticali in cartongesso e vetro. Non è competente questo organismo a sanzionare il mancato rispetto degli standard di sicurezza per le persone che lavorano in quella specie di bunker sotterraneo che, nelle ore di maggior impegno, supera le 12/15 unità, tra giornalisti, tecnici, operatori radiofonici: tutti collegati con l'esterno da una sola via di fuga, passando per un'angusta scala a chiocciola della larghezza di un metro. Ma può segnalarlo a chi di dovere e tre giorni dopo, il 14 ottobre scorso, parte una segnalazione "d'urgenza" alla Asl-Dipartimento di prevenzione e ai Vigili del Fuoco in cui, tra l'altro, si denuncia che le attività degli studi radiotelevisivi si svolgono al piano terra e nel seminterrato senza "le più elementari misure di sicurezza ed in violazione delle più elementari normative sulla salubrità degli ambienti". Inoltre i locali sono privi di certificato di agibilità per uso studio radiotelevisivo. L'ultima tegola di questa frana è di pochissimi giorni fa. Il 21 novembre il Settore urbanistica del Comune di Lecce invia a Radiorama, a Pagliaro, quindi, all'avvocato Chiarelli, proprietario degli immobili e al Nucleo di vigilanza dello stesso Comune di Lecce, un rapporto dettagliatissimo in cui si evidenzia una lunga serie di motivi per i quali l'ordinanza dell'allora sindaco Corvaglia, che autorizzava la società Radiorama a svolgere attività radiotelevisiva, viene annullata d'ufficio. Quella nota sindacale, depositata senza data presso un notaio a suo tempo, "si caratterizza per l'atipicità dei suoi contenuti, il suo carattere sommario, l'assenza di data e di riferimenti a qualsivoglia attività istruttoria, ed in ogni caso, per la sua inidoneità sia formale sia sostanziale, a disciplinare in maniera definitiva i rapporti giuridici sottesi". Insomma, secondo questa relazione, il buon don Ciccio Corvaglia, firmò una cosa che non doveva firmare. La signorina Carratu dichiarò a verbale che comunque, il 31 gennaio 2006, tutti i locali sarebbero stati lasciati liberi. Nel frattempo le radio vanno e RTS pure. Cuore amico. Come la vendemmia, l'iniziativa solidaristica del gruppo Pagliaro è stagionale: inizia in sordina a fine settembre e si conclude con uno sforzo concentrato ai primi di dicembre. Siamo già alla quinta edizione. Funziona così: c'è un Comitato scientifico che prende in esame le richieste di aiuto di bambini portatori di handicap (concorso nelle spese per interventi, protesi, carrozzine, automobili speciali, eccetera), parallelamente inizia la raccolta di fondi tramite salvadanaio, donazioni e iniziative collaterali organizzate in tutto il Salento e finalizzate allo stesso, nobile scopo. Ogni anno si toccano cifre importanti e i risultati sono veramente encomiabili. Poi ci sono i main sponsor, un gruppetto di aziende che garantisce molte decine di migliaia di euro per far andare la "macchina". Ma, mentre le cifre delle donazioni per i bambini sono monitorate e, sostanzialmente, controllate da tre "garanti" (che prestano anche la loro faccia per gli spot), quelle per l'organizzazione no. Il Tacco, anche in questo caso, ha cercato di documentarsi; abbiamo chiesto informazioni al Comitato di Cuore amico su incassi, spese, personale utilizzato. Non abbiamo avuto risposta in tempo utile per la stampa di questo numero, nonostante l'abbiamo sollecitata, se arriverà la utilizzeremo per il prossimo. Cuore amico è un'operazione trasparente, tranne per la voce "costi di gestione". Gli spot sono gratuiti? In particolare ci interessa sapere, per quel dovere di trasparenza che Pagliaro non manca mai di sottolineare: a quanto ammonta il contributo totale degli sponsor; se gli spot su radio e tv del gruppo sono gratuiti, come dovrebbe essere, essendo il Gruppo mixer media management la "casa" di Cuore amico, ovvero (Dio non voglia) a pagamento: cioè le aziende di cui Pagliaro è amministratore unico (Telerama e Broker pr) traggono profitto dagli spot di Cuore Amico o quanto percepiscano in più i collaboratori per dirette, non-stop, ecc.; quante sono le persone che vengono aggiunte ai dipendenti soci della cooperativa C.C.C. per prestare la loro opera professionale per Cuore Amico; infine se i garanti sono a conoscenza delle cifre suddette o se il loro apporto di "garanzia" è richiesto solo per i salvadanai e il resto, esplicitamente destinato ai bambini. Insomma, caro Pagliaro, quel Cuore è Amico solo dei bambini con handicap o anche suo?

"RTS è clandestina".

SPECIALE PAGLIARO STORY. Pubblichiamo la seconda parte dell'inchiesta, al centro del procedimento penale per diffamazione intentato dall'editore nei confronti della direttora del Tacco. Assolta perché il fatto non sussiste. Da Il Tacco d'Italia n.22.  "Rts è clandestina". Abbiamo chiesto a Franco Abruzzo, presidente dell'Ordine dei Giornalisti di Lombardia, un parere tecnico su quello che il Tacco d'Italia ha scoperto a proposito di due reti televisive locali, Telerama ed RTS, delle cui irregolarità abbiamo dato conto all'interno dell'inchiesta "Pagliaro, l'impero virtuale", pubblicata sullo scorso numero. Quell'inchiesta ha fatto il tutto esaurito in tutta la provincia, dando spunti alle conversazioni per strada, sotto l'albero di Natale, intorno ai tavoli di baccarà, man mano che si spargeva la voce… e le fotocopie. Le confidenze, le rivelazioni, i grazie accorati, hanno riempito le nostre orecchie fino a coprire i toni sinistri di alcune telefonate, quando ci sono giunte. La domanda più frequente è stata: "Perché un'inchiesta sul Gruppo Mixer media management"? La risposta: "Perché no? Non dovrebbe essere ‘normale' che un giornale scavi dietro la facciata"? E' ciò che abbiamo fatto nell'inchiesta sull'Edisu di Lecce, quando abbiamo denunciato le irregolarità nella lunga "prorogatio" del Consiglio di amministrazione presieduto da Giovanni Garrisi: a causa della prorogatio diventavano "nulli" per legge tutti gli atti del Consiglio degli ultimi due anni, quantificabili in 12 milioni di euro. Nessuno si è chiesto perché lo abbiamo scritto. Nell'inchiesta sul futuro parco regionale di Ugento uscita in quattro puntate (a pagina 12 la quinta) abbiamo denunciato l'avvio di lavori infrastrutturali finalizzati alla costruzione di un complesso turistico da 800 posti letto, senza concessione edilizia, in piena zona umida e sotto tutela ambientale. Nessuno si è chiesto perché lo abbiamo scritto. Nell'inchiesta sul Gruppo di Paolo Pagliaro, tra le altre cose, denunciavamo il fatto che RTS da due anni manda in onda un telegiornale non registrato al Tribunale di Lecce, mentre Telerama in innumerevoli occasioni pubbliche, durante le trasmissioni, nel gobbo di chiusura del telegiornale, scriveva (ora non più) che il direttore è Gabriella Della Monaca mentre in realtà, da ben 12 anni, è Max Persano (tanto risultava al Tribunale di Lecce il 17 novembre scorso). La domanda posta a Franco Abruzzo era: "RTS è fuori legge"? La risposta è arrivata concisa e inequivocabile, lontana, anche geograficamente, da qualunque influenza. M.L.M. "Cara Marilù, la risposta è nell'articolo 32 del dlgs 177/2005. C'è un obbligo di legge dal 1990 (legge 223), che impone la registrazione anche delle testate radiotelevisive. Ed è ineludibile. In caso contrario, la testata tv è fuori legge ed è assimilabile alla stampa clandestina (art. 16 della legge n. 47/1948 sulla stampa). Cordiali saluti". prof. Franco Abruzzo presidente Ordine Giornalisti Lombardia. La Legge. Legge 8 febbraio 1948, n. 47 Disposizioni sulla stampa art. 5. Registrazione. Nessun giornale o periodico può essere pubblicato se non sia stato registrato presso la cancelleria del tribunale, nella cui circoscrizione la pubblicazione deve effettuarsi. Art. 16. Stampa clandestina. Chiunque intraprenda la pubblicazione di un giornale o altro periodico senza che sia stata eseguita la registrazione prescritta dall'art. 5, è punito con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a lire 500.000 (la valuta delle 500mila lire è del 1948, anno della legge. ). Pubblichiamo solo alcune delle lettere, o parti di esse, giunte in redazione. Tutte firmate. Avete fatto quello che un "normale" giornale dovrebbe solitamente fare. Ma adesso ci aspettiamo lo facciate con tutti. E con tutto. Ci serve. Perché avete fatto una cosa che "normale" non è. Avete scritto l'Inchiesta. Nomi, cognomi, date, tutto quanto. L'Inchiesta, parola che ammutolisce nessuno se pronunciata nei corridoi di una procura. Ma che non sarebbe presa nemmeno in considerazione dentro un comune giornale di provincia lasciato blindato dai papà fuori per affari. Di questa provincia parliamo. L'Inchiesta, a Lecce, e oltre le mura, a saperla fare, ti mette in cattiva luce con gli editori, imbarazza il direttore che non vuole guai e poi ci sono gli inserzionisti. Da queste parti l'Inchiesta rischia di farti diventare il rompicoglioni di turno, un po' andato, sfigato, sempre squattrinato, mai saputo cosa è lo stipendio fisso, che si incatena sotto la colonna di Sant'Oronzo e che come nel film "Nuovo cinema paradiso" si lascia andare a "la piazza è mia, la piazza è mia". Uno così, a Lecce, cosa vuoi che valga? Quanto una Panda. E chi sale dentro una Panda? Invece avete fatto tutto questo. Siete saliti sulla Panda. E siete andati in giro. Va bene così. Avete risposto alle domande che in tanti, in questi anni, si sono poste, ma solo tra i pensieri o al massimo biascicandole. Perché poi? Una tra tutte va dritta verso "Cuore amico", per esempio, e il suo indotto. Domanda blasfema: è possibile quantificare l'introito pubblicitario televisivo marciante e il suo trend legati alla lodevole campagna a sostegno di chi soffre? Eppure è una domanda semplice, che non è diffamatoria e che ci abitua a dirci le cose così come stanno, che serve a fare chiarezza, a smentire le nostre cattiverie e che aiuta soprattutto a nominarci fuori dalle citazioni inutili perbeniste. Tutto questo avete fatto. Con dovizia di particolari, riferimenti, dati. Un lavoro lungo e difficilissimo, immaginiamo, che prelude ad altre inchieste coraggiose nel rispetto del Giornalismo-Inchiesta e della libertà di stampa d'altri tempi. Grazie. Lettera firmata da un "cronista provinciale". Vorrei fare i complimenti per l'inchiesta su Pagliaro. Mancavano queste inchieste nella nostra terra, che fanno luce su punti oscuri che molti fanno finta di non vedere. Lettera firmata. Ce l'ho. L'ultimo numero del Tacco è qui e sto leggendo l'inchiesta. FANTASTICA!!!!! C'è da saltare sulla sedia. Avanti con le inchieste, ne vogliamo ancora, ancora, ancora... Lettera firmata. Ho visto l'inchiesta su Tele Rama e gruppo. Io che sono stato dentro vi dico che corrisponde al vero. Complimenti per il coraggio. Lettera firmata. Cara Marilù, ti prendo pochissimo spazio per rendere pubblica la circostanza che tanto ci ha fatto divertire in queste settimane. Molti leccesi che non conoscevano il Tacco d'Italia hanno pensato che dietro la tua inchiesta ci fosse la mia penna. Non è vero, anche se la cosa mi ha inorgoglito perché vuol dire che i lettori non hanno colto troppa differenza stilistica fra noi due ed io, come sai, ho un'alta considerazione professionale di me stesso! Confermo pubblicamente che, per ovvie ragioni di competenza e di conoscenza del personaggio, sono stato tra le fonti da cui hai attinto il tuo materiale. E che potevo fare: negarmi? Adolfo Maffei.

SPECIALE CANALE 8 TV.

Basta col precariato. Dimissioni in diretta per il direttore di Canale 8, scrive “Lecce Sette”. Dimissioni in diretta per il direttore di Canale 8, Gaetano Gorgoni. Con un gesto pubblico, nell'edizione serale del Tg8 del 26 settembre 2012, Gorgoni ha infatti denunciato pubblicamente le condizioni lavorative dell'emittente che nell'ultimo anno ha gradualmente svuotato la redazione televisiva ritardando anche di 8 mesi gli stipendi di coloro che erano rimasti al loro posto. Le dimissioni del direttore arrivano come ultimo atto di una vicenda iniziata già durante le elezioni di maggio dalla denuncia del coraggioso cameramen Vincenzo Siciliano che su Facebook propose di boicottare le dirette televisive delle amministrative in segno di protesta e per questo venne immediatamente licenziato. Da quel momento nel Salento le coscienze dei molti giornalisti e operatori di tv,carta stampata, siti di notizie e web tv, si sono unite nel gruppo chiamato Informazione Precaria, che si batte per sensibilizzare l'opinione pubblica e la politica sul precariato in ambito giornalistico, piaga troppo spesso taciuta.  La solidarietà di Assostampa. "La denuncia del direttore di Canale 8, che nel rassegnare in diretta le dimissioni ha evidenziato la situazione di illegalità in cui continua a navigare l’azienda, non può non avere un seguito", scrive Nico Lorusso da Assostampa. "Quanto succede nella tv salentina Canale 8 è il sintomo evidente della patologia del sistema dell’emittenza locale in cui, a fronte di poche realtà editoriali degne di questo nome, continuano a imperversare imprenditori senza scrupoli, il cui unico scopo è accedere ai contributi pubblici destinati al settore. Ristabilire la legalità, nel caso di Canale 8, significa perseguire la violazione delle leggi sul lavoro, l’esercizio abusivo della professione giornalistica e fare luce su strani e fantasiosi intrecci societari, attivandosi per la revoca dei contributi e delle frequenze di cui – a giudizio del sindacato dei giornalisti pugliesi – sussistono da tempo i presupposti. Soltanto in questo modo si potrà iniziare a mettere ordine in cui la presenza di aziende-zavorra minaccia la sopravvivenza di chi rispetta le regole, dei giornalisti e di tutti i lavoratori, a discapito della qualità e della credibilità dell’informazione".

SPECIALE ANTENNA SUD

Continua l’azione di protesta dei giornalisti di Antenna Sud che, dopo i cinque giorni di sciopero già proclamati prima di Natale, hanno deciso di incrociare le braccia, con uno sciopero a oltranza, per lamentare il mancato pagamento delle mensilità (l’ultimo stipendio percepito è quello di agosto) e stigmatizzare la decisione dell’Editore, che il 31 dicembre 2012 ha ufficialmente avviato le procedure di mobilità per tutto il personale dell’emittente. La redazione si scusa con i telespettatori, privati della consueta informazione quotidiana che, ne siamo certi, comprenderanno le ragioni che hanno spinto i giornalisti a fermarsi per difendere il loro futuro e il sacrosanto diritto alla retribuzioni. I giornalisti dell’emittente televisiva regionale pugliese “Antenna Sud” sono in sciopero ad oltranza per la “assoluta mancanza di chiarezza sulle strategie aziendali” e l’“incapacità dell’editore di assicurare il pagamento degli stipendi”. Lo rende noto l’Associazione della Stampa di Puglia. “Il sindacato dei giornalisti è al fianco dei colleghi di Antenna Sud e ne sosterrà la vertenza in ogni sede”, assicura il presidente dell’Assostampa di Puglia, Raffaele Lorusso, intervenuto ieri, 31 dicembre, ad un’assemblea dei lavoratori in lotta. “Non è accettabile – prosegue Lorusso – il comportamento di un editore che, anteponendo gli interessi delle banche a quelli dei lavoratori della propria azienda, continua da mesi a non pagare gli stipendi, nella speranza di evitare il fallimento. Dopo lunghi mesi di sacrifici, con retribuzioni decurtate e cassa integrazione, i giornalisti rischiano ora di perdere tutto a causa di una situazione che non può essere addebitata soltanto alla crisi economica generale”. L’Assostampa respinge, di conseguenza, il piano annunciato dall’azienda “che da un lato – sostiene Lorusso – pretende di fare dell’informazione il ‘core business’ dell’emittente e dall’altro porta l’editore ad avviare le procedure di mobilità per otto giornalisti su undici in organico”. Il presidente dell’Assostampa auspica quindi che, “nel prendere in esame la richiesta di concordato preventivo, i giudici della sezione fallimentare tengano conto anche delle sacrosante rivendicazioni dei lavoratori, vittime incolpevoli di un editore che, al netto delle criticità del sistema dell’emittenza radiotelevisiva locale e della congiuntura negativa globale, mentre afferma di aver accumulato sette milioni di debiti, si pone alla testa di nuove iniziative imprenditoriali in altri settori”.

A PROPOSITO DI GIORNALISTI

Alessandro Camilli su “Blitz Quotidiano” dice la sua a proposito del tema. A Casa Grillo come ad Avetrana. Dal giorno della certificazione del successo del Movimento 5 Stelle alle politiche 2013 , una schiera di giornalisti e fotografi stanzia di fronte alla casa di Beppe Grillo. Accampati in attesa, nella speranza di una dichiarazione o di un’immagine dell’inafferrabile leader mentre scorrono, nei tg, le immagini del cancello che si apre e da cui esce, quando va bene, un’auto. Un modus operandi, un modo di fare giornalismo e di raccontare le cose che ricorda da molto vicino le più recenti pagine di cronaca del nostro Paese, con i cronisti accampati di fronte alla casa dell’assassino o della vittima di turno. E un modello che, quando Beppe Grillo non è in casa, come in occasione della trasferta romana per l’incontro e la catechizzazione dei neo eletti, si ripete puntuale fuori dall’hotel dove il leader grillino è atteso. Un corto circuito informativo in cui i fotografi vengono fotografati, in cui i leader non dichiarano e i giornalisti non comprendono che la loro attesa a microfono spianato della dichiarazione sarà vana. Per la cronaca, sia detto per la cronaca, il circo e il circuito dell’informazione italiana di Grillo, di M5S e del “grillismo” non capiscono un sacco di cose. Si ostinano a pensare a Grillo e al suo M5S come a un Bettino Craxi e a un Psi, oppure ad una Lega e a un Bossi, comunque un qualcuno e un qualcosa che risponde alla logica del “retroscena” giornalistico e della “manovra” politica. Che Grillo e M5S siano una rivolta, letteralmente una eversione dell’assetto esistente circo e circuito dell’informazione non ce la fanno neanche a pensarlo, non dispongono delle categorie concettuali per pensarlo ed eventualmente esprimerlo. Per cui stanno…come ad Avetrana. A mendicar frasi, a rubare immagini, a inventare sceneggiature…Qualcosa tra il lavavetri al semaforo, il piazzista ambulante di calzini, i cantastorie di strada. Che Grillo non ami i giornalisti, soprattutto quelli italiani, è cosa nota. L’esclusione, temporanea grazie ai carabinieri, dei giornalisti dal palco del comizio di San Giovanni è cronaca recente. Così come fresca nella memoria è la cacciata del cameraman Rai dal palco di un altro comizio. Un’antipatia antica ma non antichissima, dichiarava tempo fa anche Grillo, e concedeva anche lui le sue interviste. Tutto prima di scoprire il web che è diventato il suo veicolo principe di comunicazione, più globale, più diretto ma anche senza contraddittorio. Veicolo insomma ma anche nascondiglio. Ricorda non a caso Pierluigi Battista sul Corriere della Sera una serie di ‘grillinate’ da Grillo sparate e dal mondo dell’informazione rilanciate. Grillinate qui elencate: “Un florilegio che non può non cominciare con una nefandezza che oggi si dimentica con troppo facilità e cioè con la ‘vecchia puttana’ con cui il sempre elegante Grillo insultò Rita Levi Montalcini, accusata di aver ottenuto il Nobel ‘grazie a una ditta farmaceutica amica che le aveva comprato il Nobel’ (condannato per diffamazione). Si passa alla negazione dell’esistenza dell’Aids, considerata una creatura delle case farmaceutiche interessate a fare dell’allarmismo per incrementare i loro profitti. Si continua con il ‘Cancronesi’ con cui Grillo, paladino della cosiddetta ‘cura Di Bella’, bollò con disprezzo Umberto Veronesi, accusato di boicottare non meglio precisate cure alternative nella guerra contro i tumori. Ci si inoltra poi nei meandri di uno spettacolo in cui Grillo esorta a trattare con ‘due schiaffetti’ in caserma, lontano da occhi indiscreti ‘i marocchini che rompono i coglioni’ (…) Radio Radicale ha appena mandato in onda un’intervista dei primi anni Novanta in cui Grillo demonizzava le bottiglie di vetro per magnificare quelle in plastica: tutto il contrario di ciò che si dice oggi. In uno spettacolo propose di distruggere i computer. In Sicilia esorta il suo movimento a scatenare la guerra santa contro il latte di mucca per favorire con apposite politiche il latte d’asina. Naturalmente è contro il latte pastorizzato, e chissà quale nomignolo Grillo vorrebbe affibbiare a quel bugiardo di Pasteur. E le donne saranno contente di sapere (ha scritto Serena Sileoni dell’istituto Bruno Leoni) che nell’ideologia grillina gli assorbenti femminili sono il demonio che inquina il mondo mentre si dovrebbe imporre l’uso della ‘mooncup’ da lavare ogni volta e prestare alle amiche per risparmiare. Grillo ha anche detto che la stampa mondiale è controllata da una ‘lobby ebraica’ e che tifa per Ahmadinejad”. Motivi comprensibili dunque quelli per cui Grillo evita il tradizionale mondo dell’informazione dedicandosi al web e riassumibili nel “voi giornalisti non capite”. Motivi però anche di mascheramento nel negarsi, nel tuffarsi nel “silenzio stampa”. Perché un circo e circuito dell’informazione meno isterici e più autocoscienti farebbero uso, parlando con Grillo, della memoria, della plausibilità e di tanti altri parametri che a Grillo e M5S stanno scomodi.  Quali che siano i motivi però, per così dire, i media non riescono a farsi una ragione dell’antipatia che Grillo nutre nei loro confronti e, cosa più grave, non riescono a comprendere di dover sviluppare un modello differente per raccontare e per rapportarsi ai grillini. E così il modello applicato è e rimane quello classico: il modello ‘Avetrana’, un modello inadeguato che genera persino dei paradossi. E’ il caso dei fotografi fotografati, i fotografi cioè che, appostati per catturare le immagini del primo conclave grillino, si sono ritrovati ad essere i soggetti degli scatti divertiti dei neoeletti che con i loro cellulari immortalavano il loro primo momento di notorietà. O ancora i take d’agenzia apparsi nei giorni scorsi, lanci con titoli a volte esilaranti come ‘Grillo: la colf ‘non è in casa’, il racconto cioè della dichiarazione della collaboratrice domestica che, beccata con la busta della spazzatura in mano, risponde alle pressanti domande dei cronisti ‘no, il signore è uscito’, come ad un qualsiasi testimone di Geova. Grillo non fa poi mistero della sua voglia di non comunicare tramite i canali tradizionali, non vuole che il suo movimento sia un partito, aborre l’idea di leader o leaderini che di volta in volta rilasciano la dichiarazione al microfono in attesa, e ha, in questo, anche qualche ragione. Ha in mente altro Grillo, e lo dimostra anche quando per non aver niente a che fare con quel manipolo che di fronte alla sua casa è accampato, si rende irriconoscibile con piumino ed occhialoni, in una sorta di fantasioso incrocio tra il subcomandante Marcos che non ha identità e un ‘discotecaro’ un po’ su di giri. Ma Grillo è così: non ama avere a che fare con i giornalisti e sa che, nel migliore dei casi, non ha nulla da guadagnare nel parlare con loro. Ma il bisogno di dichiarazione del mondo dell’informazione italiana, non riuscendo ad essere placato, sta trasformando Sant’Ilario nella nuova Avetrana.

IL COSTO DELL’ONESTA’ E DEL MORALISMO DELLA RAI E DEI SUOI GIORNALISTI.

Questa non è (più) la Rai. Chi ricorda il programma “Balls of steel”? Probabilmente nessuno, dato che gli ascolti furono pessimi. Eppure è costato 2 milioni 900 mila euro. Chi, invece, “Wild West”? È costato 2.722 euro al minuto, pari a un milione 470 mila euro complessivi per sole tre puntate andate in onda. Chi ancora “Votantonio”, costato un milione 350 mila euro nonostante sia andato in onda una sola volta? Sono questi gli sprechi della Rai segnalati in un dossier dal Codacons e consegnato alla Corte dei Conti, per un totale di 62 milioni di euro. E poi i cachet delle varie edizioni dei Festival (incredibili anche quelli degli ospiti), le fregature del televoto per i telespettatori. E due episodi che gettano pesanti ombre sul servizio pubblico. A Radio Rai 1 si è fatta fuori una giornalista per far posto ad un’altra conduttrice “molto vicina” al direttore del Gr (nonostante gli ascolti pessimi rispetto ai precedenti). E, infine, il caso di concussione: il costo di un programma sarebbe stato gonfiato fino a 100 mila euro perché 30 mila era la fetta da spartirsi. Così scrive Carmine Gazzanni su “L’infiltrato”. Un danno da 62 milioni, euro più euro meno. Questo è quello che si evince dall’esposto presentato dal Codacons pochi giorni fa alla Corte dei Conti contro la Rai per danno erariale. Una nuova pesante tegola sul servizio pubblico dopo l’’indagine avviata dalla stessa Corte sul programma di Milly Carlucci Ballando con le stelle sul compenso stellare destinato a Christian Vieri: 800 mila euro inizialmente pattuiti, che poi sarebbero scesi a 600 mila. Ma l’azienda parla di una cifra inferiore, circa 450 mila euro per il suo impegno a cavallo tra il 2011 e 2012.  Secondo l’accusa, però, “la cifra sarebbe comunque eccessiva”. Quanto oggi viene denunciato dal Codacons, però, è ancora più grave. Nel fascicolo – che Infiltrato.it è riuscito a recuperare – si trova di tutto: dagli incredibili cachet delle varie edizioni del Festival di Sanremo, agli impressionanti costi dei tanti flop confezionati dalla Rai; dai format esterni costati un occhio della testa (invece di servirsi delle strutture interne) ai danni derivanti dal televoto per programmi poi abbandonati (cosa che peraltro andrebbe contro una sentenza della Cassazione). Fino ad altri due particolari che, se dovessero essere accertati, butterebbero la Rai in acque più che torbide: a Radio Rai 1 si è fatta fuori una giornalista per far posto ad un’altra conduttrice “molto vicina” al direttore del Gr (nonostante gli ascolti pessimi rispetto ai precedenti).  E, infine, il caso di concussione (provato da una mail consegnata alla Corte) tra un produttore e un direttore: il costo di un programma sarebbe stato gonfiato fino a 100 mila euro perché 30 mila era la fetta da spartirsi. LE STRANE SPARTIZIONI TRA PRODUTTORI E DIRETTORI. CONCUSSIONE? - Una segnalazione molto particolare riguarda, come si legge nel rapporto, “strane spartizioni di proventi Rai tra produttori e direttori”. È il caso di un “produttore onesto” (il nome è tenuto segreto per privacy) il quale si sente proporre da un direttore una spartizione del compenso previsto per un programma televisivo. Questi, incredulo, tende una trappola al direttore e gli invia una mail fingendo di non aver capito (sebbene avesse coscienza di essere stato vittima di quello che nei fatti era un tentativo di concussione). Nella mail – che il Codacons ha consegnato alla Corte - il “produttore onesto” chiede come ripartire i 100.000 euro previsti per il programma da produrre. E scrive l’assurdo: “7 me 3 altri???”. La trappola funziona. E il direttore – che peraltro, informa il Codacons, è ancora nel pieno delle sue funzioni – abbocca. “Ovviamente c’è un errore. A te 3. Fammi sapere….”, scrive. La concussione è evidente. Ma non finisce qui. Il produttore, infatti, sdegnato, rifiuta la proposta. Per tutta risposta, il direttore gli dice: “tanto c’è la fila fuori della mia porta per accettare…”. Insomma, l’usus è proprio questo: c’è sempre un fetta per tutti. E i conti, ovviamente, si ingrossano. A tal proposito il Codacons ha fatto i suoi calcoli: “il costo per l’erario delle somme distratte con questo metodo si può calcolare al 70% dell’introito”. Cosa vuol dire questo? Settecentomila euro ogni milione di spesa, ovvero 70.000 euro ogni contratto da 100.000 euro pagato dall’azienda. Una bella sommetta, insomma.

FLOP TELEVISIVI: MILIONI DI EURO PER PROGRAMMI ANDATI IN ONDA UNA SOLA VOLTA - Il capitolo flop televisivi è immenso. Le cifre sono incredibili. Tutte pesantissime per la Rai che nell’epoca pre-Gubitosi non avrebbe badato a spese (tanto, come si sa, sono spese del cittadino contribuente). Prendiamo il caso di Balls of steel (Palle d’acciaio), costato al minuto 1.611,11 euro, per una somma totale di 2 milioni 900 mila euro. Il tutto con un risultato di share descritto, dagli stessi dirigenti della rete, come “deludente”. Ancora, la trasmissione Stile Libero Max che, con il suo share medio di 6.39, è costato alla Rai ben 1 milione 607 mila euro. Ovvero, sottolinea il Codacons, 178.600 euro a puntata e 2.551 euro al minuto. L’elenco è infinito. Wild West, con il suo costo di 2.722 euro al minuto, pari a 490.000 euro a puntata e un milione 470 mila euro complessivi, ha totalizzato, durante le tre puntate andate in onda, uno share inferiore al 10%. Non differenti risultano i dati relativi alla trasmissione Donne, costato alla rete 489 mila euro a puntata per uno share del 9%. Per arrivare poi alla trasmissione Votantonio, costato ben 450 mila euro per ognuna delle 3 puntate realizzate, per un totale di un milione 350 mila euro eassurdità delle assurdità andato in onda una sola volta. Sotto la lente d’ingrandimento, poi, anche gli appalti esterni di format o programmi che potrebbero invece essere realizzati senza il concorso esterno. Come nel caso di Che tempo che fa di Endemol. O in quello de I Soliti ignoti, “profumatamente pagato dalla Rai” (si stima 27 milioni di euro) nonostante, come segnalato anche da Striscia la Notizia, fosse sostanzialmente simile a un’idea che Gianni Ippoliti ebbe oltre vent’anni fa con il programma La Vela d’Oro (a cui peraltro, ironia della sorte, partecipò lo stesso Fabrizio Frizzi come conduttore).  In più, nel fascicolo si fa riferimento ad arricchimenti indebiti con il televoto, come nel caso di Star Academy, sospeso dopo tre puntate. Scrive il Codacons: non possono considerarsi valide le singole sessioni di televoto se poi non si raggiunge lo scopo finale. Quanto di più vero dato che il telespettatore vota da casa – versando un euro a sms e/o chiamata – sperando che il suo beniamino arrivi alla vittoria finale. In altre parole, il Coordinamento per la difesa dei diritti dei consumatori si chiede che fine abbiano fatto quei soldi. La questione del televoto, per il Codacons, è tutt’altro che secondaria. “L’obbligazione di natura restitutoria a vantaggio dei consumatori e utenti che hanno mandato sms digitando da telefonia fissa o mobile la numerazione ad hoc abilitata – si legge nel fascicolo - dovrebbe costituire un must, valevole quale rimedio successivo che avrebbe lo scopo di tutelare l’utente”. Oggi non è così. Nonostante una sentenza della Cassazione (la numero 27092 del 22.12.2009) chiarisca che un ente pubblico come la Rai abbia l’obbligo di trasparenza ed efficienza nei confronti dei telespettatori quando manda in onda programmi nei quali i consumatori e utenti – a determinate conosciute e chiare condizioni – corrispondono prestazioni economiche in cambio della certezza di poter concorrere alla formazione del finale esito di quel programma televisivo. E sull'ipotesi “Affari Tuoi” che sia «pilotato» vengono disposti accertamenti: gli inquirenti esaminano tutti i passaggi del programma. Il risultato delle verifiche è chiaro: per la Procura nel periodo preso in esame «il meccanismo di predisposizione dei pacchi era stato modificato, consentendo ad alcuni concorrenti di individuare dove fossero nascosti i premi in denaro». Circostanza confermata da qualche concorrente: tra gli altri, Annalisa Luzzi che - ricorda il pm - «affermava di aver appreso il meccanismo attraverso il quale, in alcune occasioni, sarebbe stato possibile individuare i pacchi contenenti i premi più sostanziosi». Secondo la Procura, però, «dimostrare il dolo non è possibile» e, pertanto, viene chiesta l'archiviazione. Nel 2010 il gup accoglie la richiesta, allungando però molte ombre sulla regolarità della trasmissione: per il giudice Valerio Savio, però, «non è possibile ricostruire in quale segmento delle operazioni di gioco, puntata per puntata, può essersi verificata l'alterazione della sua alea». Ma la sua censura è inequivocabile: sottolinea «i difetti di un gioco che, per garantire trasparenza, avrebbe dovuto avere ben altre modalità di svolgimento».

RADIO RAI1: FACCIO FUORI LA GIORNALISTA PER METTERE LA FIDANZATA. E GLI ASCOLTI? PESSIMI - La questione riguarda la storica trasmissione di Radio Rai1 Italia: Istruzioni per l’uso di Emanuela Falcetti. Ebbene, la giornalista, dopo trent’anni di lavoro precario, è stata licenziata con un avviso in bacheca. Ma prescindiamo per un attimo dai metodi vergognosi utilizzati. Perché mai la sua trasmissione sarà stata cancellata? Ascolti bassi? Pare proprio di no. In base ad alcune rilevazioni erano un milione e trecento mila gli ascoltatori, pari al 28% di share. E allora? Cos’è successo? Secondo il Codacons la questione sarebbe per così dire amorosa. Al posto di Italia: Istruzioni per l’uso, infatti, viene inserito in scaletta il programma Prima di tutto, “all’interno del quale lavorerebbe una giornalista (Susanna Lemma, ndr) secondo alcuni troppo vicina al Direttore Antonio Preziosi”. Le perplessità sono più che fondate dato che da 1,3 milioni di ascoltatori pari al 28% di share si è scesi a 642mila ascoltatori con uno share del 15,42%. Denuncia pertanto l’associazione: da tale accadimento vi è il serio timore che ne sia derivato un danno, non solo al servizio pubblico, ma anche erariale, imputabile a chi ha deciso la sostituzione del programma facendo crollare ascolti e introiti pubblicitari. Soprattutto se si dovesse accertare “se esistano rapporti personali che travalichino quelli professionali tra la sig.ra Susanna Lemma che ha sostituito la Falcetti e il direttore del GR Antonio Preziosi”.

LA STORIA DI SPRECHI DELLE EDIZIONI DEI FESTIVAL: TUTTI I CACHET DI CONDUTTORI E OSPITI - Non potevano non finire nel fascicolo gli incredibili stipendi che assicura la Rai – spesso “in maniera immotivata” – ad alcuni conduttori. È il caso, ad esempio, dei compensi elargiti a Paolo Bonolis e Roberto Benigni per il Festival di Sanremo 2009 (secondo indiscrezioni riferite dal Codacons 1 milione di euro al primo e per Benigni la cessione dei diritti delle sue partecipazioni sulla rete pubblica, valutati tra i 350mila euro e i 2 milioni di euro). Tutti compensi che non dipendono in alcun modo dall’andamento degli ascolti. Ma, d’altronde, non è una novità: il Festival è sempre costato tanto. Nel 2006 500 mila euro andarono a Ilary Blasi , una delle donne del Festival di Giorgio Panariello - peraltro tra i più negativi sotto il profilo dell’audience – il quale a sua volta portò a casa un milione di euro. E se Simona Ventura nel 2004 si accontentò di 320 mila euro (in un’edizione, anche questa, segnata da scarsi ascolti) e Tony Renis, direttore artistico, di 500 mila euro, un milione di euro fu il compenso record per Paolo Bonolis nel 2009. Un po’ meno di un milione di euro si disse che fu la cifra presa anche da Michelle Hunziker nel 2007, al fianco di Pippo Baudo (800 mila euro). E poi gli ospiti. Nel 2004 180 mila dollari furono dati a Dustin Hoffman per due performance imbarazzanti, compresa una in cui parlò della “cacca”; 250 mila euro vennero elargiti a Sharon Stone che si esibì al cospetto di Pippo Baudo; tra i 400 e i 500 mila euro furono dati nel 2006 a John Travolta in una partecipazione criticata dallo stesso conduttore del Festival, Panariello. Addirittura 800 mila furono quelli elargiti a Jennifer Lopez nel 2010, anno in cui Antonio Cassano prese 150 mila euro per farsi intervistare da Antonella Clerici. Un vero e proprio scandalo lo provocarono poi i 90 mila euro dati al condannato per violenza carnale Mike Tyson , per un’intervista concessa nel Festival 2006 di Paolo Bonolis. Per non parlare dei 500 mila euro dati nel 2005 a Hugh Grant per prendere un tè sul palco dell’Ariston e rivelarsi anche piuttosto infastidito durante un brevissimo scambio di battute a monosillabi. Le cose non sono cambiate con l’ultimo Festival (come Infiltrato.it ha già documentato): 600mila euro a Fazio e 350mila alla Littizzetto. Certamente non un buon biglietto da visita per il risparmio.

Rai, falsi notturni: giornalisti intoccabili, ci vuole la Procura. La notizia apparsa su “Giornalettismo” l’11 marzo 2013 è che agenti della Polizia hanno perquisito gli uffici della sede Rai a Viale Mazzini, prelevando le carte sugli stipendi dei giornalisti direttamente all’Ufficio Personale. Il corollario inquietante è che per venire a capo dell’incresciosa ipotesi (è un reato) secondo cui un nutrito gruppo di “stelle” del servizio pubblico barava sui turni per guadagnare di più, l’audit, l’indagine imposta dal direttore generale, non è servito a niente. Pure in presenza di elementi fondati sul raggiro. Non c’è niente da fare: il contratto giornalistico parla chiaro, le garanzie sindacali anche, contro i “furbetti” è impossibile procedere. Di qui, per disperazione, la trovata finale, il ricorso al magistrato. “I giornalisti onesti del Tg1″. E’ la strana firma del mittente di una lettera anonima che il 21 novembre 2012 viene recapitata ai vertici della Rai, alla Corte dei Conti e alla Procura di Roma. Dice l’anonimo: 35 grandi firme si assegnano presenze inesistenti per lucrare stipendi più alti. La notizia arriva anche alla stampa, il dg Gubitosi avvia l’indagine interna. Si scopre che sui 10 dei 35 giornalisti su cui ci si è concentrati, i sospetti si rivelano più che fondati. Per esempio (apprendiamo da Repubblica dell’11 aprile) un volto molto noto della tv avrebbe lavorato 78 giornate in tre mesi, delle quali 76 con il benefit del lavoro notturno (se entri prima delle 5 e 30 prendi il 25% in più al giorno, se esci dopo le 23 e 30 il 20% in più, 16 notturni valgono un mensile parecchio più pesante). Il badge del giornalista dice cose molto diverse: al momento dello scatto del surplus, sovente il titolare se ne stava a casa o da qualche altra parte, ma non in Rai. Le prove raccolte durante i tre mesi di audit interno descrivono un malcostume radicato. Ma i risultati non possono essere resi pubblici senza infrangere una miriade di codici a tutela dei giornalisti incriminati. Che fare? Il dg Gubitosi si rivolge all’avvocato, in particolare allo Studio Severino, quello del ministro della Giustizia e fra i papabili al Quirinale. L’avvocato Maurizio Bellacosa consiglia di rompere gli indugi e contrattaccare coinvolgendo la Procura di Roma, la stessa che aveva già aperto un fascicolo. Solo che prima l’indagine era circoscritta a 35 nomi. Adesso, l’irruzione della Polizia negli uffici Rai sembra preludere a una catastrofe imminente: tutti i giornalisti Rai sono finiti sotto osservazione. Occhio al badge. Secondo Giancarlo Cologgi sul sito del Codacons la Rai è nel mirino di due inchieste da parte della Procura di Roma e della Corte dei Conti per stipendi gonfiati e sprechi. E il Codacons annuncia di costituirsi parte civile nelle due inchieste. La procura di Roma ha aperto un' inchiesta sui presunti pagamenti della Rai ad alcuni giornalisti del Tg1 per turni notturni, giornate festive e straordinari mai svolti. Il fascicolo è intestato "atti relativi a", senza ipotesi di reato e indagati. Gli accertamenti sono partiti da una denuncia anonima indirizzata sia ai vertici della Rai sia a varie autorità, tra cui la procura. Sulla vicenda è in corso anche un' indagine interna di viale Mazzini. Secondo l' anonimo le irregolarità si sarebbero verificate in gran parte quando a dirigere il Tg1 era Alberto Maccari (dicembre 2011-novembre 2012) e, in misura minore, durante la gestione di Augusto Minzolini (giugno 2009-dicembre 2011). Il reato che potrebbe configurarsi è la truffa. «Siamo allibiti e sconcertati - dice il presidente del Codacons Carlo Rienzi -. Se saranno confermati i fatti contestati ci troveremmo di fronte ad una gravissima truffa a danno della Rai e quindi degli utenti. Il servizio pubblico, infatti, è finanziato dai cittadini attraverso il pagamento del canone e un utilizzo scorretto delle risorse Rai, come il pagamento di turni mai svolti, danneggia in primis la rete di Stato, e subito dopo i teleutenti che la finanziano». Il comitato di redazione del Tg1, la rappresentanza sindacale, fa sapere di aver sempre sposato «la linea della trasparenza, della correttezza e del rigore nel rispetto delle regole, ma anche della salvaguardia di tutti i colleghi». E l' Usigrai, ribadendo la richiesta di «correttezza e trasparenza», si dice però contraria alla «macchina del fango». Codacons e Associazione Utenti hanno anche presentato un esposto che, secondo quanto anticipato dal Corriere della Sera, ha portato altri problemi alla Rai. La Corte dei Conti ha infatti aperto un' inchiesta sulle spese per i palinsesti, in particolare sul maxi-compenso per il calciatore Bobo Vieri (si parla di 600mila euro) per la partecipazione al programma Ballando con le stelle . Oggi «porteremo al Procuratore Generale della Corte dei Conti un corposo dossier e chiederemo di estendere l' inchiesta a 360 gradi», ha detto al riguardo Rienzi. Nel mirino dell' associazione, episodi a giudizio del Codacons «emblematici»: tra questi, il caso della trasmissione di Radio 1 Italia: Istruzioni per l' uso di Emanuela Falcetti, «chiusa nel 2011 senza alcun motivo e sostituita con il programma Prima di tutto con conseguente crollo degli ascolti». Il Codacons cita anche «il caso dei compensi elargiti a Paolo Bonolis e Roberto Benigni per il Festival di Sanremo 2009 (secondo indiscrezioni, un milione di euro al primo e al secondo la cessione dei diritti delle sue partecipazioni sulla rete pubblica, valutati tra i 350 mila euro e i 2 milioni). Nel dossier anche Balls of steel (Palle d' acciaio), Votantonio , Wild West , Star Academy , «trasmessi e chiusi dopo poche puntate» e trasmissioni come Che tempo che fa o In mezz' ora , «appaltate a società esterne nonostante la Rai abbia tutte le risorse per realizzarle internamente». Ma In mezz' ora , precisa Lucia Annunziata, da circa sei anni è prodotto dalla Rai. 12/03/2013.

Il vizietto cronico, però, viene da lontano. A pagina 11 (20 luglio 1995) il “Corriere della Sera” scriveva: Chiesta l'archiviazione per Carmen Lasorella e altri due inviati.  Note spese gonfiate, giornalisti quasi "assolti". Tutto regolare, nessuna ruberia sulle trasferte ad alto rischio nelle zone di guerra. Per i magistrati, lo scandalo delle note spese gonfiate da giornalisti e tecnici inviati in prima linea dalla Rai sarebbe stato un'autentica bolla di sapone. E il senso della decisione del pm Maria Teresa Covatta che, al termine della prima fase dell'inchiesta messa in moto oltre un anno prima dal collega Francesco Misiani, ha chiesto l'archiviazione della posizione di altri tre reporter dopo quella di Maria Giovanna Maglie. Il nome più illustre fra quelli che dovrebbero uscire definitivamente di scena nel giro di qualche mese è quello di Carmen Lasorella. Nel minielenco ci sono anche il cronista Romano Gennaro Cervone e l'operatore Mauro Maurizi. Il gip ha inoltre già archiviato il fascicolo su Enrico Massidda, il giornalista che per la vicenda fu licenziato dalla Rai. L'accusa contestata inizialmente a tutti era quella di truffa. Nessuna indiscrezione sui motivi per i quali il pm Covatta ha deciso di mettere la parola fine sul capitolo istruttorio riguardante questi quattro inviati. "La situazione di Carmen Lasorella, per esempio, è estremamente chiara ed è stata accertata in ogni suo aspetto - ha spiegato l'avvocato Domenico D'Amati, difensore di buona parte dei giornalisti Rai finiti sotto inchiesta per le note spese presentate al ritorno dalle trasferte in Bosnia e in Somalia. - E stato verificato che le ricevute da lei allegate alle note spese erano state emesse per servizi effettivamente goduti, come i pasti o l'alloggio". Conclude l' avvocato D' Amati: "Mi auguro che il gip sia dello stesso parere del pubblico ministero e che quest'ultimo arrivi alle stesse conclusioni anche per tutti gli altri indagati". Gli accertamenti non sono ancora conclusi per un'altra trentina di persone. Nel dicembre del '93 l'allora direttore generale della Rai, Gianni Locatelli, si presentò in Procura con un elenco di cento rimborsi sui quali c'erano forti sospetti. Nel calderone dell'inchiesta finirono nomi noti del giornalismo televisivo, inviati molto conosciuti dal pubblico ai quali l'azienda contestava le somme di denaro sborsate per affittare auto e assoldare interpreti. Fra le altre, finirono sotto accusa le ricevute esibite per giustificare l'ingaggio delle scorte armate e, addirittura, per sminare le strade dove dovevano passare le troupe. E alcuni ispettori furono spediti a Mogadiscio e a Sarajevo per cercare di verificare le spese. In alcuni casi i controlli sono stati possibili, in altri no.

Ed ancora Daniele Mastrogiacomo il 4 febbraio 1993 su “La Repubblica”. Orchestre ingaggiate a suon di decine di milioni, registi presi all' esterno, programmi realizzati in sedi distanti centinaia di chilometri con lucrose trasferte di personale. E poi comodi servizi esterni con spese folli e del tutto ingiustificate. Esplode lo scandalo Rai e sull' onda dell' inchiesta avviata dal giudice Antonino Vinci, escono allo scoperto piccole e grandi storie dello spreco e del malcostume quotidiano. Protagonista dell' ultima denuncia è lo Snater, il sindacato nazionale autonomo Telecomunicazioni radiotelevisioni da tempo in prima fila nella battaglia contro lo spinoso tema degli appalti esterni gestiti in casa Rai. Ore dieci di ieri mattina. Piazzale Clodio, quarto piano della Procura della Repubblica. Il segretario generale dello Snater, Antonio Lovato e l'avvocato Carlo d' Inzillo si presentano davanti alla stanza del giudice Antonino Vinci. In mano stringono una grossa borsa zeppa di documenti. Si fanno annunciare e vengono ricevuti. Resteranno chiusi per oltre un'ora. Escono tranquilli e soddisfatti. Distribuiscono un comunicato ai giornalisti presenti a Palazzo di Giustizia. Una cartellina e mezza per esprimere gratitudine a quello che stanno facendo i magistrati romani: "Lo Snater-Cisal palude all' iniziativa del Pm Vinci che ha già acquisito un primo risultato e merito: quello cioè di spazzare via definitivamente l'impunità di cui ha goduto gran parte della dirigenza Rai che in questi anni ha compromesso la salute economica e morale dell' azienda coinvolgendo nello sfascio". Aggiunge l' avvocato Carlo d' Inzillo: "Abbiamo discusso a lungo sulla questione degli appalti. Sono il cuore della corruzione e del malcostume. Da anni denunciamo la filosofia assurda che regola la gestione di questo settore". Non è la prima visita che i rappresentanti del forte sindacato interno Rai si presenta a Palazzo di giustizia. Già in passato, sin dall' insediamento del Procuratore capo, d'Inzillo e Lovato avevano chiesto e ottenuto un colloquio con Vittorio Mele. L'alto magistrato si era fatto consegnare la documentazione raccolta dall' organizzazione di categoria impegnandosi a riunificare la diverse inchieste già avviate in passato. Ieri si è infatti scoperto che da tre mesi erano stati aperti tre procedimenti, nati proprio sulla base delle denunce del sindacato Snater. Il primo era stato affidato al giudice Roselli, il secondo e il terzo al giudice Geremia. Riguardano episodi illuminanti del sistema degli appalti esterni alla Rai. Vediamoli. Il dossier avviato dal pm Roselli apre i riflettori sulla trasmissione "Scommettiamo che", condotta da Fabrizio Frizzi e Milly Carlucci. Secondo gli accertamenti svolti dal magistrato, la rete uno della Rai avrebbe ingaggiato un'orchestra esterna pagata fior di quattrini. Tre milioni e 500 mila lire a musicista per ogni puntata del sabato sera. Roselli ha voluto scavare più a fondo e ha scoperto che l’ingaggio era avvenuto attraverso una licitazione privata. Niente gara, solo un contatto e l'assegnazione definitiva. Questo in palese contrasto con una circolare più volte diffusa all'interno della Tv di Stato che invitava a usufruire del personale dipendente. Ed è noto che la Rai dispone di orchestre qualificate, piene di professionisti affermati ma inutilizzati. Il giudice ha indagato e ha scoperto un altro particolare. Curioso ed esemplificativo di come vanno le cose nel mondo degli appalti esterni: gli orchestrali gravitavano nel giro del maestro Mazza, apparso nella trasmissione di Renzo Arbore "Indietro tutta", e ogni sabato sera alla tastiera del piano proprio nella trasmissione di Frizzi e Carlucci. Il giudice Geremia si dedica invece ad un'altra trasmissione di punta di Rai uno: "Domenica in". Secondo gli accertamenti, la regia è stata affidata a Riccardo Donna, esterno alla Tv di Stato. Nulla di strano, anche se è noto che ci sono decine e decine di registi interni senza impegni e che si lamentano di questa loro sottoutilizzazione. Condotto da Toto Cotugno e Alba Parietti, il programma si svolge nella sede Rai di Napoli. E si scopre che per attrezzare l' ufficio stampa di "Domenica in", si spostano da Milano ben 40 persone, ovviamente ben retribuite e spesate. E ancora: gli arrangiamenti musicali della trasmissione vengono registrati presso uno studio di Milano che risulta essere di proprietà di una società dello stesso Toto Cotugno. L'ultimo e terzo caso riguarda invece la trasferta di un giornalista sportivo Rai. Per seguire la partita Bari-Brescia avrebbe noleggiato una macchina con autista per la modica somma di 7 milioni. Dagli incartamenti risulterebbe averlo fatto più volte. Sempre con lo stesso autista e la stessa autonoleggio. Tutto questo quando a Milano, a pochi chilometri da Brescia, ci sono oltre cento giornalisti Rai.

Il contraltare ai giornalisti truffatori o presunti tali ci sono i giornalisti precari in Rai con contratti truffa e "clausole di gravidanza, scrive Fabia Scanisich su “Mainfatti”. Il coordinamento "Errori di stampa", giornalisti precari che lavorano in Rai, attraverso il loro blog scrivono una lettera aperta al direttore generale Lorenza Lei chiedendole "non solo di eliminare i contratti-truffa di consulenza, ma anche di cancellare l'insopportabile 'clausola gravidanza' ". Lavoratori assunti con "contratti-truffa", in questo caso giornalisti con contratti da "consulente", "presentatore-regista" o "programmista-regista". Mentre il governo Monti con il suo ministro del Lavoro Elsa Fornero discute come aumentare la flessibilità, non solo in entrata ma anche in uscita, un gruppo di giornalisti precari riuniti nel coordinamento "Errori di stampa" denuncia l'ennesimo sopruso nei confronti non solo della categoria ma in generale di tutti quei giovani e meno giovani costretti, pur di lavorare, a sottoscrivere contratti "capestro". Lo scandalo questa volta investe la Rai, visto che il coordinamento "Errori di stampa" denuncia non solo che il servizio pubblico fa firmare dei contratti che indicano una mansione che non corrisponde "nella gran parte dei casi" al lavoro che invece si andrà a svolgere, e cioè "redattori che svolgono attività puramente giornalistica, assunti però senza uno straccio di tutela, pagati a partita IVA e a puntata, a fronte di fatture in cui è vietata inserire la voce Inpgi, l'istituto di previdenza sociale giornalistica". A questo si aggiunge la "penosa 'clausola gravidanza' contenuta al punto 10 del contratto di consulenza", che come da immagine pubblicata sul blog del coordinamento "Errori di stampa" stabilisce: "Nel caso di Sua malattia, infortunio, gravidanza, causa di forza maggiore od oltre altre cause di impedimento insorte durante l'esecuzione del contratto, Ella dovrà darcene tempestiva comunicazione. Resta inteso che, qualora per tali fatti Ella non adempia alle prestazioni convenute, fermo restando il diritto della RAI di utilizzare le prestazioni già acquisite, Le saranno dedotti i compensi relativi alle prestazioni non effettuate. Comunque, ove i fatti richiamati impedissero, a nostro parere, il regolare e continuativo adempimento delle obbligazioni convenute nella presente, quest'ultima potrà essere da noi risoluta di diritto, senza alcun compenso o indennizzo a Suo favore".  "In Rai, quindi, - continua il coordinamento "Errori di stampa" nella lettera aperta al direttore generale Lorenza Lei - l’azienda editoriale che lei dirige, non solo i giornalisti sono 'consulenti', pagati a cottimo e costretti a versare Inps o Enpals al posto dell'Inpgi. Ma hanno anche l’umiliazione di sapere che scegliere un figlio potrebbe implicare la rinuncia coatta al lavoro". I giornalisti del coordinamento "Errori di stampa" chiedono quindi al direttore Lorenza Lei "non solo di eliminare i contratti-truffa di consulenza, ma anche di cancellare da tutti i contratti Rai l’insopportabile 'clausola gravidanza' " perché "retrograda e illegale" nonché "ostacolo formale vergognoso al raggiungimento di condizioni di reale eguaglianza fra lavoratori (precari) e lavoratrici (precarie): una palese violazione dell’articolo 3 della Costituzione". La notizia è rimbalzata su tutti gli organi di stampa, anche se molti di questi, soprattutto quelli più mainstream (e nonostante si parlasse di colleghi), hanno evidenziato solo il problema della "clausola gravidanza", tanto che anche il dg Lorenza Lei in una nota si limita ad affrontare questo problema: "Ho dato agli uffici competenti l’incarico di valutare interventi sulla clausola, anche se tengo a sottolineare che in Rai non c’è mai stata alcuna discriminazione o rivendicazione in merito, né certamente sono mai emersi, fin qui, dubbi di legittimità". Nessun accenno ai "contratti-truffa", che sembrano simili, come potrebbe forse notare qualcuno, a quelli adottati in tante altre aziende (pubbliche e private) per evitare assunzioni a tempo indeterminato come anche il pagamento dei contributi previdenziali. Anche la nota della Rai conferma solamente di "essersi sempre scrupolosamente attenuta al rispetto delle norme a tutela della maternità" sostenendo che "non esiste quindi alcuna clausola che possa consentire la risoluzione anticipata dei rapporti lavorativi del personale con contratto, anche a termine, di natura subordinata". "Quanto ai contratti di lavoro autonomo, ai quali come noto non si applica lo Statuto dei Lavoratori né le relative tutele, la RAI precisa di non essersi mai sognata di interrompere unilateralmente contratti di collaborazione a causa di maternità, a meno che questo non sia stato richiesto dalle collaboratrici interessate per ragioni attinenti allo stato di salute o alla loro sfera personale - conclude la nota - Ogni qualvolta si sia determinata l’esigenza di interrompere i contratti, si ripete su richiesta delle collaboratrici, RAI si è sempre adoperata per assicurare loro futuri impegni professionali al venir meno della ragione impeditiva pur senza aver alcun obbligo di legge al riguardo". Forse nel prossimo futuro in Rai verrà eliminata la parola "gravidanza" al "punto 10 del contratto di consulenza", ma il problema del giornalista assunto come "programmista-regista" sembra essere destinato a perdurare.

SUBISCI E TACI.

OGGI CHI PERQUISIAMO? I GIORNALISTI - La libertà di stampa è il cassetto della biancheria rovesciato sul pavimento. È l’agente in divisa che fruga tra i giocattoli di tuo figlio. È il guanto di lattice agitato per minacciare un’ispezione corporale - È nitido l’affresco che emerge dal quaderno dell’Ordine dei giornalisti - Si chiama “Le mani nel cassetto (e a volte anche addosso)”…

"Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano".

E' il titolo dell'interessante volume edito dall'Ordine dei giornalisti, che ospita le testimonianze dirette di numerosi colleghi di tutta Italia, i quali raccontano la propria esperienza di perquisizioni e sequestri subiti a seguito di articoli e inchieste pubblicate. Il libro ospita anche gli interventi di due giornalisti veneti, Carlo Mion (Nuova Venezia) ed Enzo Bordin (Mattino di Padova). Prefazione del presidente dell'Odg, Enzo Iacopino. Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Spiati, indagati, denudati Se anche i giornalisti sono vittime della casta. Vietato disturbare i potenti: le firme scomode finiscono nella rete delle procure. Ora un libro denuncia gli attentati alla libertà di stampa. Prima vittima: il Giornale. Un trattamento speciale: "Chi ti perquisisce si comporta come se avesse di fronte Riina", scrive Giacomo Susca su “Il Giornale”. La libertà di stampa è il cassetto della biancheria rovesciato sul pavimento. È l’agente in divisa che fruga tra i giocattoli di tuo figlio. È il guanto di lattice agitato per minacciare un’ispezione corporale. Elementare la professione del giornalista, si tratta «solo» di cercare e pubblicare notizie. A patto di non toccare i fili. Allora scrivere si trasforma in un’avventura, in certi casi in disavventure. È nitido l’affresco che emerge dal quaderno dell’Ordine dei giornalisti Le mani nel cassetto - (e talvolta anche addosso). I giornalisti perquisiti raccontano. Chi dà fastidio ai poteri forti finisce nella rete, da Fiorenza Sarzanini del Corriere della Sera a Emiliano Fittipaldi dell’Espresso. Tante le firme del Giornale: forse un quotidiano un po’ più uguale (cioè più scomodo) degli altri, visto che nel libro torna almeno cinque volte nei racconti in prima persona di Vittorio Feltri, Nicola Porro, Gian Marco Chiocci, Anna Maria Greco e Stefano Zurlo. Il Grande fratello giudiziario si materializza in via Negri 4 nel settembre 2010. Ricorda Feltri: «Un imprecisato numero di militari irruppe negli uffici del Giornale su mandato della Procura di Napoli. Cercava un dossier sulla Marcegaglia, presidente di Confindustria». Ma «si dà il caso che Porro fosse stato indebitamente intercettato. La sua conversazione con il collaboratore della Marcegaglia era stata interpretata non già come un cazzeggio tra amici, bensì quale minaccia alla presidente. Sicché la Procura di Napoli era partita lancia in resta contro la supposta macchina del fango da me diretta. (...) Non venni nemmeno interrogato. Perquisito anche Nicola Porro. Fisicamente. Carabinieri dappertutto: al Giornale e nelle abitazioni dei reprobi. Roba da matti. Ventiquattr’ore dopo pubblicammo davvero un dossier sulla Marcegaglia: si trattava di una raccolta di servizi denigratori sulla famiglia Marcegaglia recuperati in archivio; tutti pubblicati su impeccabili quotidiani e settimanali progressisti. Dell’inchiesta - conclude Feltri - non s’è saputo più niente». Quella mattina d’inizio autunno la ripercorre lo stesso Porro: «Una dozzina di carabinieri vengono a trovarti nei due tre posti dove hai messo piede e frugano dappertutto (...). Prendono in consegna i tuoi computer, e per sovra mercato anche quelli non tuoi: mio padre, mia madre, e mia moglie sono stati un paio di mesetti senza pc. E poi, alla ricerca di prove, non si fanno negare nulla: dal portafoglio, alla doccia che non può essere fatta dal sospettato se non in compagnia». La morale è immediata. «Intercettateci tutti, perquisiteci tutti, indagateci tutti. Sì buonanotte. In un mondo perfetto. A casa nostra - osserva Porro -, un giornalista che venga perquisito si trova nudo di fronte a una dozzina di carabinieri o poliziotti che hanno il mandato di comportarsi con le stesse procedure che adotterebbero di fronte a Totò Riina». Il Giornale, si diceva, per i pm è un posto dove andar a ficcare il naso alla ricerca di chissà quali comportamenti illeciti. L’inviato Gian Marco Chiocci lo sa bene. La prima e l’ultima volta gli è toccata per questioni di... case, dall’inchiesta su Affittopoli nella metà degli anni Novanta al recentissimo scoop sull’appartamento di Montecarlo. «Mi è costato una perquisizione in albergo, due interrogatori a distanza di poche ore, foto-segnalamento nella caserma della polizia monegasca con invito a lasciare immediatamente il Principato...». All’estero o a Roma, il trauma è lo stesso. Pochi mesi fa se n’è resa conto la nostra cronista Anna Maria Greco. «Da me cercavano gli atti di un vecchio procedimento disciplinare del Csm nei confronti del procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini. Ne avevo scritto sul Giornale il 27 gennaio 2011 e quella, evidentemente, era la mia colpa grave. Mi hanno detto che dovevano procedere alla perquisizione personale. Non volevo capire, ma mi sono preoccupata seriamente quando la donna carabiniere ha infilato i guanti di lattice. Mi ha fatto entrare in bagno e mi ha detto di spogliarmi. “Anche la biancheria intima”, ha precisato. Non volevo crederci...». Ma i danni maggiori li senti a «controllo» passato. Testimonia la Greco: «Molti di quelli che prima mi parlavano liberamente, ora non rispondono nemmeno più al cellulare; c’è chi si preoccupa se mi incontra e addirittura finge di non conoscermi». Delle toghe di Milano è anche la regia del blitz a casa di Stefano Zurlo, il 28 settembre 1996. «La perquisizione fu ordinata da Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo, due celebri pm del Pool, anche se Mani pulite è finita da un pezzo. A mio figlio Giacomo, 4 anni, qualcuno in un impeto di zelo chiede: “Papà dove nasconde le carte?”». La pena per lesa maestà. Zurlo aveva scritto che «Antonio Funetta, l’autista di Chicchi Pacini Battaglia, era anche lo chaffeur dell’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Imbarazzante». Come lo è il diritto di cronaca per troppi potenti. Vietato disturbare i manovratori.

Lettera aperta al presidente dell'Ordine nazionale dei giornalisti, Enzo Iacopino, da parte di Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Questa è una lettera aperta al presidente dell'Ordine nazionale dei giornalisti, Enzo Iacopino. I fatti. Lo scorso anno il Consiglio nazionale dell'Ordine decise di editare un libro con le testimonianze di numerosi giornalisti che hanno subìto in carriera perquisizioni giudiziarie. Il volume si intitola: «Le mani nel cassetto, e talvolta anche addosso». Lo stesso Iacopino nella prefazione scrive: ma se non trova mai nulla, perché la magistratura le fa? Intimidazione, bavaglio? È bene che i cittadini sappiano. Opera meritoria, ma ora, caro presidente, c'è un problema. Due ex magistrati del pool Mani pulite, ora signori ricchi e potenti, Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo, mi hanno denunciato in sede penale. E uno zelante loro collega, il pm Vincenzo Fiorillo, ha deciso di chiedere il mio rinvio a giudizio. Ci sarà un processo (la condanna la diamo per già scritta, tra magistrati funziona così) spese legali e quant'altro. Lei, Presidente, dirà: e che c'entra Sallusti? Nulla, questo è il bello. Mi sono limitato a pubblicare, anche per cortesia a lei, una recensione del libro, compreso stralci della pagina con la testimonianza del mio collega Stefano Zurlo che ricordava come nel 1996 venne perquisito, su ordine dei due suddetti pm, per uno scoop che riguardava l'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Le assicuro: quella pagina del libro, e la recensione, non contengono il benché minimo insulto o falso. È un racconto che corre sul filo della memoria, ricco di aneddoti e autoironia. Leggere per credere. E allora le chiedo, presidente Iacopino: a che serve l'Ordine dei giornalisti se ci è pure impedito di ricordare? Io le dico che cosa farei d'istinto. Primo: denunciare in sede civile i pm Davigo e Colombo per causa temeraria. Secondo: denunciare in sede penale i pm Davigo e Colombo per tentata estorsione. Terzo, stracciare per protesta la tessera di un Ordine dei giornalisti che sta inerme di fronte a magistrati arroganti e boriosi e non difende tutti noi che non saremo santi ma almeno paghiamo le quote associative. Quarto: denunciare al Csm il pm che ha firmato la richiesta di rinvio a giudizio per spreco di denaro pubblico (le motivazioni dell'avviso di garanzia sono ridicole oltre che incomprensibili). Mi dicono che sono tutte ipotesi non previste dai codici, mi limiterò quindi a fare come sempre il mio lavoro, ma mi creda, come dimostrano le note e recenti vicende, è sempre più dura. Non è che lei può darmi una mano, visto che nei pasticci sono finito un po' per colpa sua, magari non al telefono ma pubblicamente?

"Perquisito anche l'Ordine: dai pm attacchi inquietanti". Il presidente dei giornalisti Enzo Iacopino si dice sconcertato dopo l'ultima querela contro il Giornale, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”.

Enzo Iacopino, presidente dell'Ordine dei giornalisti, che ne dice? Ci siamo attirati un'altra querela per diffamazione recensendo il libro di testimonianze dell'Ordine dei giornalisti, Le mani nel cassetto (e talvolta anche addosso), proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

«Sono sconcertato. Leggo, parola per parola, l'articolo del Giornale sulla perquisizione del 1996 a Stefano Zurlo e non trovo nulla che mi sembri diffamatorio. Vogliamo una spiegazione. E non so se stavolta siete soli o in buona compagnia».

Perché dice questo?
«Perché pochi giorni fa è venuta nella nostra sede la polizia giudiziaria e ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, me compreso che dell'Ordine sono il rappresentante legale. Il nostro avvocato è andato ad informarsi, ma gli hanno detto che sugli atti c'era il segreto. Ha appreso solo che tutto partiva da Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. Abbiamo pensato ad un'iniziativa di risposta, ma non avevamo ancora gli elementi. Non ho saputo più nulla, finché non è uscita sul Giornale la lettera aperta di Sallusti, indirizzata a me. Speriamo che sia il vostro legale a darci qualche informazione».

Per ora, c'è l'avviso del tribunale di Monza al direttore Alessandro Sallusti e all'autore del pezzo, Giacomo Susca, che sono indagati per aver offeso la reputazione di Davigo e Colombo.
«Vogliamo conoscere i fatti, ne abbiamo il diritto e il dovere. Ma intanto, a Sallusti che mi chiede di dargli una mano assicuro che l'Ordine non lascerà il direttore e Il Giornale soli in questa vicenda, anche se non ci sarà un coinvolgimento diretto contro di noi. D'altronde, il libro è nostro, pubblicato con il logo dell'Ordine e la mia prefazione. E ce ne assumiamo la responsabilità».

La visita all'Ordine fa pensare che l'obiettivo, prima dell'articolo, sia il libro stesso. O no?
«In tutti i casi non ci gireremo dall'altra parte fingendo di non sapere, come ha fatto qualcun'altro».

Parla di Renato Farina, autore sotto pseudonimo del pezzo per cui Sallusti è stato condannato a 14 mesi di carcere?
«Sì di lui, che ora dice ai giornalisti di non aver saputo niente su una notizia pubblicata in prima pagina dai giornali, diffusa da tv e radio. Se si fosse autodenunciato prima, per Sallusti sarebbe stato tutto diverso».

Che quest'ultima querela venga da due ex toghe del pool di Mani pulite, che impressione le fa?
«Mi inquieta, soprattutto, che a querelare un giornale, senza prima cercare un chiarimento o sollecitare una rettifica, sia uno come Colombo, che siede nel consiglio d'amministrazione della Rai, la maggiore azienda d'informazione del Paese».

Tutto questo succede mentre in Senato non si riesce a migliorare la legge sulla diffamazione.
«Questo ddl è una pistola puntata alla nuca dei giornalisti, soprattutto i più deboli e non contrattualizzati, all'inizio di una campagna elettorale che sarà carica di tensioni. Ha il fine di tenere sotto ricatto permanente decine di migliaia di colleghi proprio quando è prevedibile che riprenda l'onda di notizie devastanti per la Casta dei politici».

Andrà avanti o no?
«Il Senato non recupererà la dignità e finirà con l'approvarla, per responsabilità diffuse di tutti i partiti. Confido che la uccida la Camera».

Intanto, Sallusti andrà in galera.
«Ci andrebbe anche con le nuove norme, che non risolvono il suo problema. D'altronde, sono contro la grazia che sarebbe una formidabile via di fuga per il Parlamento».

Perché da noi non si viene condannati per querela temeraria, come in altri Paesi?
«Nel ddl la proposta c'era, ma è stata accantonata. Per centinaia di querele si chiede la remissione alla vigilia della prima udienza. Ma per 2 anni il giornalista scrive azzoppato. Forse, proprio questo vuole una certa politica. E quante ville al mare si sono fatte con le querele».

GUAI A FARE SCOOP SULLE NEFANDEZZE DEI GIUDICI.

Fa uno scoop sui giudici: indagato e perquisito per ore. Il cronista di Repubblica si era occupato della lettera dei pm scritta ai superiori. Accusato di ricettazione scrive Massimo Malpica su “Il Giornale”. Quelli in toga litigano, e chi dà le notizie si ritrova indagato e perquisito. Stavolta succede a Bari, dove la polizia venerdì sera ha bussato alla redazione locale di Repubblica e a casa di un redattore del quotidiano, Giuliano Foschini, «reo» di aver rivelato il contenuto di una lettera scritta da due pm baresi alla stessa procura per chiedere lumi sul perché il gip che a fine ottobre ha assolto Vendola, Susanna De Felice, non si sia astenuta, visto che sarebbe amica della sorella del governatore, Patrizia. La storia è vera, la lettera c'è e denuncia esattamente quello che Repubblica, e altri quotidiani tra cui questo, hanno scritto. Però mentre i veleni spaccano la procura, il primo a intossicarsi è il malcapitato Foschini, che adesso è iscritto nel registro degli indagati della procura di Lecce (che si occupa della vicenda) addirittura per ricettazione, e l'altra sera s'è sorbito a domicilio lo spiacevolissimo rito del setaccio di armadi, cassetti e computer da parte dei poliziotti. Proprio l'ipotesi di reato è il dettaglio più odioso dell'intera vicenda, e fa pensare a scenari di vendetta più che di giustizia. Invece di capire in che modo, e grazie a chi, il contenuto di quella missiva - vera, val la pena di ribadire - è finito fuori dalla procura, ci si accanisce su chi di quella lettera è venuto a conoscenza, e che poi ha fatto nient'altro che il proprio dovere: raccontare un fatto che aveva tutti i crismi della notizia. Una notizia, appunto, non un'autoradio rubata. Anche se di fronte alla possibilità per i giornalisti di opporre il segreto professionale e tutelare le fonti, e in mancanza di qualsiasi elemento anche lontanamente diffamatorio (reato per il quale come è noto il Senato ha ora reintrodotto l'arresto), qualcuno avrà pensato che dare del ricettatore (di notizie) a un cronista era un'ideona, abbassando ancora un po' l'asticella del sistema giustizia nel nostro Paese. Un giornalista che dà conto di un documento ufficiale dal quale emergono con chiarezza le spaccature interne a una procura, ovviamente, non sta ricettando proprio niente. Semmai sta solo alzando meritoriamente il tappeto sotto al quale qualcun altro ha nascosto la polvere. Sta solo informando. Indagarlo per questo, accusandolo per di più di ricettazione, sembra una reazione muscolare e invasiva, un tentativo nemmeno velato di intimidire, lasciando lo spazio aperto ad altri metodi di indagine, intercettazioni comprese, in grado di disarmare una penna. Un dubbio sollevato anche dal segretario della Fnsi, Franco Siddi, che si dice «interdetto», e ricorda come un cronista abbia «il dovere del segreto professionale e di rendere noto ai cittadini le notizie di pubblico interesse»: «Immaginare che un giornalista possa essere messo sotto inchiesta per ricettazione - aggiunge Siddi - è un'operazione che, ancorché proceduralmente legittima, appare impropria e incomprensibile». Anche perché, conclude il segretario Fnsi, «i cittadini debbono sapere che in casi del genere l'indagato può essere messo anche sotto intercettazione e, nel caso del giornalista, vulnerato nelle sue fonti». Duro anche il commento del presidente dell'assostampa pugliese Raffaele Lorusso, che quanto alla ricettazione parla di «situazione inquietante e intollerabile»: «L'approccio nei confronti dei giornalisti da parte una certa magistratura inquirente non può non destare preoccupazione perché le passerelle delle forze di polizia nelle redazioni nascondono sempre il tentativo di mettere il bavaglio alla stampa».

Secondo “La Gazzetta del Mezzogiorno” Il pretesto è una indagine aperta a tempo di record con le ipotesi di violazione della corrispondenza e rivelazione di segreto. Ma è un modo per individuare chi ha passato alla stampa la lettera in cui i pm Francesco Bretone e Desiree Digeronimo hanno formulato accuse al giudice che ha assolto Vendola. I veleni della procura di Bari non si fermano, e stavolta ci vanno di mezzo i giornalisti: venerdì sera, su ordine del procuratore di Lecce, Cataldo Motta, la polizia ha perquisito per alcune ore Giuliano Foschini, di «Repubblica», che per aver pubblicato quella lettera dovrà rispondere di ricettazione. Un pretesto, appunto. A sporgere querela a Lecce è stato Bretone: dopo la pubblicazione della lettera sono piovute le critiche degli altri pm baresi, del presidente del Tribunale, della Anm e della camera penale. Nella missiva, datata 8 novembre, Bretone e Digeronimo sollevavano dubbi sull'imparzialità del giudice Susanna De Felice, che essendo amica della sorella di Vendola avrebbe dovuto astenersi nel processo per abuso d’ufficio contro il governatore concluso con l’assoluzione. I due pm avevano scritto al pg Antonio Pizzi, al procuratore Antonio Laudati e all’aggiunto Giorgio Lino Bruno. La perquisizione a Foschini, svolta - dice il giornalista - «con estrema cortesia», si è conclusa con esito negativo. L’atto - spiega il decreto firmato da Motta - era «necessario a fini probatori e per tentare di identificare da quale originale sia stata estratta ed eventualmente sottoporla ad accertamenti tecnici che consentano di ricondurla ad uno dei tre originali». Va sottolineato che al giornalista non è contestato il furto e che la lettera aveva tra i destinatari solo tre magistrati: ecco perché anche questo episodio va ascritto alla guerra interna al palazzo di giustizia barese, che vede il procuratore Laudati indagato a Lecce e la Digeronimo parte offesa. Mercoledì 14 novenbre 2012 la missiva non è stata pubblicata solo da «Repubblica». Ma Foschini (secondo la denuncia) aveva telefonato a Bretone informandolo «di essere in possesso» della missiva e chiedendogli un commento: da qui l’accusa di ricettazione, che consente ai magistrati di effettuare intercettazioni per tentare di scoprire le eventuali fonti.

E’ la stessa “La Repubblica” a parlarne. Perquisizioni sono state compiute dalla polizia, nella tarda serata di venerdì, nella redazione barese di Repubblica e nell'abitazione del cronista giudiziario Giuliano Foschini, indagato per ricettazione dalla Procura di Lecce in relazione ad articoli sui 'veleni' al palazzo di giustizia di Bari. Ne dà notizia il presidente dell'Assostampa di Puglia, Raffaele Lorusso. L'inchiesta è stata aperta dopo una denuncia presentata dal pm Francesco Bretone che assieme alla collega Desirèe Digeronimo, aveva scritto la lettera contenente le accuse mosse dai due pm al gup di Bari che ha assolto il governatore pugliese, Nichi Vendola, dall'accusa di abuso d'ufficio, sostenendo che il giudice è amico della sorella del leader di Sel. La perquisizione è avvenuta nell'ambito della massima correttezza da parte degli agenti e con la totale collaborazione del cronista. L'Associazione della Stampa di Puglia esprime "sconcerto e preoccupazione per la decisione della Procura della Repubblica di Lecce di sottoporre a perquisizione il collega Giuliano Foschini, giornalista di Repubblica". Lo afferma in una nota il presidente, Raffaele Lorusso. "Con un tempismo raramente riscontrabile in analoghe vicende in cui sono cittadini comuni a rivolgersi alla magistratura - prosegue - la Procura di Lecce, poche ore dopo la denuncia di uno dei sostituti procuratori della Repubblica di Bari protagonisti dello scontro, ha disposto la perquisizione da parte della polizia nell'abitazione del collega Foschini e nella redazione barese di Repubblica, dove lavora. Il collega Foschini, cui va la piena solidarietà del sindacato dei giornalisti pugliesi, ha fatto soltanto il proprio dovere, informando i cittadini su una vicenda che, indipendentemente da come andrà a finire, non contribuisce a rafforzare nell'opinione pubblica la fiducia nella giustizia e in coloro che l'amministrano. L'approccio nei confronti dei giornalisti da parte una certa magistratura inquirente non può non destare preoccupazione perché le passerelle delle forze di polizia nelle redazioni nascondono sempre il tentativo di mettere il bavaglio alla stampa. Ancor più grave, in questo caso, appare la contestazione al collega Foschini del reato di ricettazione". "Essendone poco chiari, se non fantasiosi i contorni - prosegue Lorusso - sarebbe grave se l'ipotesi di reato fosse stata formulata soltanto per risalire alle fonti del giornalista, attraverso perquisizioni e intercettazioni, e quindi per impedire a quest'ultimo di lavorare e di dare notizie scomode". "Quello di indagare per ricettazione i giornalisti in presenza di fughe di notizie chiaramente ascrivibili ad altri e non a chi ha il dovere di divulgarle nell'interesse esclusivo dei cittadini ad essere informati - conclude - è ormai uno schema cui la magistratura inquirente ricorre con sempre maggiore frequenza e verso il quale non si può restare inermi e silenti. Si tratta di una situazione inquietante e intollerabile, che riporta ai tempi della censura di cui, evidentemente, in tanti, non soltanto in Parlamento, sentono la nostalgia".

Ma non è tutto. Le nefandezze giudiziarie non solo non vanno pubblicate, ma nemmeno criticate. Assoluzione Vendola, veleni in Procura: «Csm valuti se trasferire Digeronimo», scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La guerra tra toghe non conosce pause. Dopo il Procuratore della Repubblica di Bari Antonio Laudati (su di lui, dopo una prima archiviazione pende un nuovo fascicolo), nel mirino del Consiglio superiore della magistratura potrebbe finire un altro magistrato barese. Nel Palazzo dei Marescialli, infatti, c’è chi vorrebbe trasferire d’ufficio il Pm antimafia Desirèe Digeronimo per «incompatibilità ambientale» dagli uffici giudiziari baresi. A chiedere l’avvio della procedura per verificare se sussistano i presupposti previsti dalla legge, i consiglieri togati di Area (Magistratura Democratica e Movimenti). Tempi duri, dunque, per il Pm in qualche modo isolata anche dai suoi colleghi baresi che hanno inviato all’Associazione nazionale magistrati una lettera indirettamente critica nei suoi confronti e nei confronti del Pm Francesco Bretone. Pomo della discordia la «riservata» personale in cui Digeronimo e Bretone avevano fatto riferimento all’amicizia che esisterebbe tra il giudice Susanna De Felice e la sorella del governatore Nichi Vendola, Patrizia. Una missiva che, dopo avere scatenato le dure reazioni e le critiche del presidente del Tribunale di Bari Vito Savino, dell’Anm distrettuale e della Camera Penale, dunque, potrebbe avere un pesante strascico disciplinare. Il giudice De Felice, nel settembre scorso, prima di decidere a proposito del reato per il quale Vendola era imputato (un presunto abuso d’ufficio in relazione alla riapertura per un concorso da primario nell’ospedale San Paolo di Bari), aveva scritto al presidente facente funzioni del suo ufficio, Antonio Diella, dicendogli di conoscere Patrizia Vendola per averla incontrata ad alcune cene a casa di amici, una delle quali organizzata nell’abitazione del Pm Digeronimo. E il presidente ad interim della sezione le aveva confermato l’assegnazione del fascicolo. Digeronimo, Bretone e l’aggiunto Lino Giorgio Bruno avevano chiesto una condanna per Vendola e per l’ex direttore generale dell’Asl di Bari Lea Cosentino a 20 mesi di reclusione. Il giudice De Felice ha invece assolto entrambi con la formula più ampia («perché il fatto non sussiste»). La lettera «riservata» a firma di Digeronimo e Bretone e inviata a Laudati, al Procuratore generale Antonio Pizzi e all’aggiunto Bruno, non è l’unico elemento su cui poggia la richiesta di avviare l’iter per un trasferimento d’ufficio. I consiglieri del Csm, infatti, intendono chiedere l’apertura del procedimento a carico del solo Pm Digeronimo (escludendo quindi il Pm Bretone) anche per approfondire eventuali altri aspetti emersi dagli atti dell’inchiesta della Procura di Lecce che, nelle scorse settimane, ha fatto notificare a Laudati, un avviso di conclusione delle indagini per abuso d’ufficio e favoreggiamento personale. Dopo un lungo interrogatorio in cui si è difeso dalle accuse, il Procuratore salentino Cataldo Motta sta valutando se chiedere il rinvio a giudizio. Spetterà al comitato di presidenza del Csm decidere se aprire oppure no una pratica davanti alla prima Commissione. A «pesare» potrebbero essere anche le dure dichiarazioni dell’Anm distrettuale e, chissà, la lettera di solidarietà al giudice De Felice inviata al sindacato delle toghe e firmata da tutto l’ufficio inquirente barese, fatta eccezione per Bruno (cotitolare del fascicolo su Vendola) e Laudati. Nella missiva i 26 Pubblici ministeri esprimono «fiducia» nell’operato degli uffici giudicanti, «la stessa fiducia che chiediamo ai cittadini di nutrire in tutta la magistratura». «Crediamo fermamente – prosegue il documento – che i magistrati abbiano il dovere di utilizzare esclusivamente nella sede processuale, nei tempi e nelle forme stabilite dalla legge, le informazioni di cui dispongono, così come di promuovere, nei tempi e nelle forme previste, ogni contestazione che abbia ad oggetto le decisioni giudiziarie. Soltanto il rispetto delle regole costituisce garanzia irrinunciabile dei diritti di ogni cittadino e fonda la legittimazione delle istituzioni». Un Pm - dicono in sostanza - ha a disposizione altri strumenti giuridici se sospetta che un giudice non sia imparziale o se non condivide un provvedimento. Quanto basta per confermare, qualora ce ne fosse bisogno, che negli uffici giudiziari il clima è davvero pesante.

Le mani della giustizia sull'informazione. Non è la prima volta che succede.

SE SI DENUNCIANO ERRORI DEI MAGISTRATI: SCATTA LA REAZIONE.

Si sono concluse il 5 aprile 2008 le perquisizioni operate dalla Polizia nella sede di Telenorba, a Conversano, in provincia di Bari, nell'ambito delle indagini sull'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher e sulla trasmissione "Il Graffio", che ha mostrato le immagini girate dalla Polizia Scientifica subito dopo il ritrovamento del corpo della vittima. Secondo quanto si apprende, oltre a un'indagine della procura del capoluogo umbro per violazione della privacy (sarebbero indagati il direttore responsabile della testata giornalistica e conduttore della trasmissione Enzo Magistà e un altro giornalista impegnato in alcuni servizi per "il Graffio"), sarebbe stata aperta un'azione penale anche da parte della Procura di Bari per pubblicazione di atti osceni (articolo 528 del Codice Penale). “Abbiamo dato tutta la nostra disponibilità, perché non abbiamo nulla da nascondere”: è il commento del direttore del TgNorba, Enzo Magistà, alla perquisizione a Telenorba fatta dalla polizia su disposizione della procura della Repubblica di Perugia in relazione alla trasmissione, il 31 marzo scorso, delle immagini dei sopralluoghi della scientifica nella casa dove venne uccisa Meredith Kaercher: nel filmato si mostrava tra l'altro il corpo della studentessa inglese. Alla perquisizione Magistà non ha assistito: in risposta a una domanda su quanto sia stato acquisito nella perquisizione, ha detto di ritenere che siano stati acquisiti i filmati andati in onda.

RADIO PADANIA, RADIO VERGOGNA.

Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. In attesa del giusto premio, ecco una gallery delle ultime dieci perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali. Dopo il tentativo di "invadere" Alessano, in provincia di Lecce, Radio Padania ci riprova con Brindisi, dove sembra che l'emittente radiofonica della Lega abbia "occupato" le frequenze di Idea Radio. L'allarme è lanciato proprio dal legale rappresentante di Idea Radio, Tommaso D'Angeli. «Radio Padania sbarca e colonizza quella che ancora risulta essere la provincia di Brindisi, occupando e fortemente disturbando le trasmissioni di Idea Radio nel comune di Brindisi sulla frequenza dei 97.800 Mhz. Per l'ennesima volta Radio Padania attiva un impianto nel Salento per le proprie trasmissioni». D'Angeli spiega che «questa volta l'emissione parte dal comune di Villa Castelli, noto per la grande concentrazione di impianti radiotelevisivi e di telefonia». L'emittente della Lega Nord, osservano ancora da Idea Radio, «trasmette in qualità di radio comunitaria nazionale, che le permette, in virtù di un decreto legge creato dal governo Berlusconi, di attivare impianti su tutto il territorio nazionale senza acquistarli, ma semplicemente comunicandone l'attivazione al competente ministero dello Sviluppo Economico». Unica prerogativa, spiegano, è di non interferire con altre emittenti. Una prerogativa che sembra sia stata però disattesa. La protesta dell'emittente brindisina è partita, indirizzata sia al sindaco di Villa Castelli che al direttore dei Servizi territoriali di Arpa Puglia. In attesa di sviluppi, i brindisini potranno ascoltare Radio Padania tranquillamente seduti in poltrona. Così facendo disturba le frequenze di Idea Radio, che prende posizione pubblicamente attraverso questo comunicato del legale rappresentante di Idea Radio, Tommaso D'Angeli. «Mentre si discute sul riordino delle province, se appartenere a Lecce, Taranto o Bari, mentre si discute se realizzare un'unica macro provincia o la Regione Salento, il partito di Bossi, dalla Padania per mezzo della sua espressione più diretta “RADIO PADANIA” sbarca e colonizza quella che ancora risulta essere la provincia di Brindisi, occupando e fortemente disturbando le trasmissioni di Idea Radio nel comune di Brindisi sulla frequenza dei 97.800 Mhz. Per l’ennesima volta Radio Padania attiva un impianto nel Salento per le proprie trasmissioni. Questa volta l’emissione parte dal Comune di Villa Castelli, noto per la grande concentrazione di impianti radiotelevisivi, di telefonia e di altri soggetti, anche militari, già in passato oggetto di proteste da parte della città per la difesa ambientale e della popolazione soggetta alle emissioni elettromagnetiche. Radio Padania trasmette in qualità di Radio Comunitaria Nazionale che le permette in virtù di un Decreto Legge creato dal governo Berlusconi di attivare impianti su tutto il territorio nazionale senza acquistarli, ma semplicemente comunicandone l’attivazione al competente Ministero dello Sviluppo Economico-Comunicazioni. Unica prerogativa concessa è quella di non interferire con altri legittimi utilizzatori dello spettro radioelettrico. E così sorgono i problemi per le emittenti interferite, le quali dovranno, con notevole aggravio di spese, documentare con campagne di misure radioelettriche e perizie, le interferenze subite nell'ascolto delle proprie trasmissioni. Idea radio si è già attivata presso il competente Ministero dello Sviluppo Economico-Comunicazioni per tutelare le proprie trasmissioni. Al contempo con la presente si invitano il Sindaco di Villa Castelli e l’Arpa Puglia sezione di Brindisi a voler verificare se Radio Padania abbia mai inoltrato istanza ai sensi di quanto disposto dal D.L. n.259/03, L.R. 05/92 e dal R.R. 14/06, per l'installazione delle antenne e dell'impianto nel comune di Villa Castelli, diversamente si prega di intervenire con urgenza secondo la propria autorità per la rimozione dell’impianto».

“Radio Padania, colonizzatori per interesse”. E’ questo quello che i brindisini potranno ascoltare… e sì, perchè Radio Padania ci riprova a colonizzare il Salento, questa volta attraverso l’installazione di un’antenna a Villa Castelli, un po’ più a nord. Ci avevano già provato, ricorderete, partendo da Alessano. Ed anche in quell’occasione si scatenarono le proteste contro l’occupazione abusiva delle frequenze e, soprattutto, contro gli insulti ai meridionali nei quali potrebbero imbattersi i brindisini che si troveranno ad ascoltare l’emittente radiofonica che fa capo al partito politico fondato dal Senatùr Umberto Bossi. La scoperta è avvenuta quando una radio locale, Radio Idea, ha notato delle interferenze sulle frequenze, da lì all’infelice scoperta il passo è stato breve. Ed, ovviamente, Radio Idea si è già attivata per tutelare i propri spazi seguendo l’iter indicato dalla legge, ma ora l’appello è al territorio ed alle sue istituzioni anche perchè, molto probabilmente, e su questo in molti si troveranno d’accordo, il discorso è più economico che politico. Immediatamente si è scagliato contro quest’ennesimo tentativo di colonizzare il Salento, il Presidente del Movimento Regione Salento Paolo Pagliaro “Basta con questo sopruso! Radio Padania spenga l’impianto e rispetti questa terra!”. La sua opinione trasmessa e pubblicata sulla sua emittente “Tele Rama” e su youtube. «Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo. Violenti, perché hanno ottenuto grazie alla gestione del potere con una legge ‘ad personam’ del Governo Berlusconi a trazione leghista, l’opportunità di un sopruso-abuso: accendono la frequenza che desiderano e questa diventa di loro proprietà se ‘non disturba’ e se entro 90 giorno non vi sono reclami. Voraci ed arraffoni, perché intendono invadere un mercato scavalcandone le regole. Illiberali, perché i contenuti di questa Radio Padania sono volgarmente e qualunquisticamente anti-meridionali, perdendo così l’occasione del confronto positivo e costruttivo. Sono furbacchioni perché, in qualche caso, pare che abbiano acquisito gratuitamente le frequenze (con le complicità romane) per poi rivenderle ai privati. Solidarietà a Idea Radio, basta con questi soprusi!».

NAVIGATE PER INFORMARVI E NAVIGATE INFORMATI. In nome della «Polizia di Stato» c’è un virus truffa che terrorizza gli internauti e blocca i pc, questo è l'avviso lanciato da Antonio Giangrande su "Il Corriere della Sera". La richiesta: Cento euro per sbloccare il pc «infetto». Questa richiesta potrebbe apparire sul monitor del vostro computer se nelle calde serate estive per «sbaglio» navigherete sui svariati siti hard, ma non solo. E quindi provare lo stesso tuffo al cuore delle migliaia di persone a cui la cosa è successa. Sullo schermo appare nientemeno un avviso della polizia di Stato di cui non riuscirete più a liberarvi. «Sgamati», colpiti e affondati «con materiale pedopornografico», dice l'avviso, rischiate fino ad otto anni di carcere e multe di centinaia di migliaia di euro. Ma se pagate subito non vi succede niente e tutto si risolve in 72 ore. Superate i primi momenti di smarrimento... siete davanti all'ennesima truffa informatica. Già, perché non di polizia di Stato si tratta ma dell'ennesimo virus truffa che ha mutato le sembianze dopo aver indossato anche la finta divisa della Guardia Finanza e il cappello dei carabinieri.

LA MINACCIA - Sebbene non sia ancora diffuso, la Polizia Postale invita gli utenti a munirsi di software antivirus aggiornato e consiglia di navigare sul web con un account utente senza diritti amministrativi sulla macchina, per limitare l’effetto del malware. Antonio Giangrande, presidente dell’ «Associazione Contro Tutte le Mafie» spiega in un comunicato stampa che la schermata intestata alla “Polizia di Stato” richiama la violazione di un fantomatico e non qualificato reato telematico (spam, violazione diritto d’autore, violazione privacy, ecc.) ed intima di pagare 100 euro entro 72 ore, con la minaccia dell’attivazione di un procedimento penale da parte della Polizia Postale di Stato con aggravio di pena. Il documento poi avvisa che se si paga 100 euro con una carta prepagata (il codice da inserire nel documento) il funzionamento del pc verrà riattivato».

LA TRUFFA - Ma bisogna pagare? «Ovviamente no. Il consiglio - afferma l'Associazione Contro Tutte le Mafie - è quello di rivolgersi al proprio assistente telematico di fiducia per debellare il virus dal proprio pc e di informare, chi ha tempo e voglia, la Polizia Postale (quella vera) del tentato reato di estorsione, minaccia e truffa perché a quanto pare molti malcapitati vi sono incappati». Per i più bravi a smanettare col pc basta seguire le procedure a questo link oppure provare i consigli di chiccheinformatiche. L'importante è farlo presto. Prima che vostra moglie torni dalle vacanze e accenda il computer.

Cultura, Informazione e Società. A proposito di Wikipedia, l’enciclopedia censoria.

Wikipedia, secondo la presentazione contenuta sulla sua home page web, è un'enciclopedia online, collaborativa e gratuita. Disponibile in 280 lingue, Wikipedia affronta sia gli argomenti tipici delle enciclopedie tradizionali sia quelli presenti in almanacchi, dizionari geografici e pubblicazioni specialistiche. Wikipedia, a suo dire, è liberamente modificabile: chiunque può contribuire alle voci esistenti o crearne di nuove. Ogni contenuto è pubblicato sotto licenza Creative Commons CC BY-SA e può pertanto essere copiato e riutilizzato adottando la medesima licenza. La comunità di Wikipedia in lingua italiana è composta da 771.190 utenti registrati, dei quali 8.511 hanno contribuito con almeno una modifica nell'ultimo mese e 105 hanno un ruolo di servizio. Gli utenti costituiscono una comunità collaborativa, in cui tutti i membri, grazie anche ai progetti tematici e ai rispettivi luoghi di discussione, coordinano i propri sforzi nella redazione delle voci. Quello che non si dice di Wikipedia, però, è che, pur lagnandosi essa stessa del pericolo della censura, i suoi utenti con ruolo di servizio svolgono proprio un’attività censoria. Non tutti i contenuti inseriti, nuovi o di rettifica, sono pubblicati sulla cosiddetta enciclopedia libera. Wikipedia ha una serie di regole e di linee guida per la pubblicazione, ma poi ti accorgi che sono puri accorgimenti per censurare contenuti e personaggi non aggradi all’utente di turno con mansioni di servizio. Censura dovuta ad ignoranza o mala fede. Un esempio: provate a cercare Antonio Giangrande, o i suoi 40 libri, o Associazione Contro Tutte le Mafie. Non troverete nessuna pagina a loro dedicata, e si potrebbe capire non reputandoli degni di attenzione, ma non troverete anche alcun riferimento a contenuti attinenti ed esistenti ed inclusi in altre pagine. Per esempio, alla voce mafia tra le associazioni antimafia non vi è l’Associazione Contro Tutte le Mafie. Addirittura hanno tolto il riferimento bibliografico al libro con il titolo “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese”, scritto da Antonio Giangrande ed inserito alla pagina “Il Delitto di Avetrana”. Ognuno, comunque, può verificare da sé con i propri contenuti. Alla fine ti accorgi che, mancando alcune opere, fatti, personaggi o contenuti nuovi o di rettifica, proprio perché vi è impedimento al loro inserimento, Wikipedia proprio un’enciclopedia libera non è.

Ma tutto ciò è avvalorato da quanto scrive su “Il Giornale” Alessandro Gnocchi.

Wikipedia come Mao: fa censura per cercare di riscrivere la storia. La popolare enciclopedia on line cancella gli interventi degli utenti che non si attengono alla "linea politica". «L’egemonia culturale è un concetto che descrive il dominio culturale di un gruppo o di una classe che “sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo”». La definizione, con ampia citazione di Gramsci, è prelevata da Wikipedia, l’enciclopedia on line ormai egemone nel fornire informazioni a navigatori, studenti, giornalisti e perfino studiosi. Nel mondo di Wikipedia le gerarchie sono quasi inesistenti. Chiunque può contribuire a creare o modificare una voce. La garanzia dell’accuratezza poggia su una doppia convinzione: il sapere collettivo è superiore a quello individuale; la quantità, superata una certa soglia di informazioni, si trasforma in qualità. Molto discutibile, e non solo in linea di principio. Infatti in Wikipedia esiste un problema di manipolazione del consenso, in altre parole è attivo un «sistema di controllo» simil-gramsciano (in sedicesimo, si intende). Le posizioni faziose passano quindi per neutrali, e il collaboratore che obietta può andare incontro a sanzioni che vanno dalla sospensione alla radiazione. Di recente, ad esempio, è stato espulso Emanuele Mastrangelo, caporedattore di Storiainrete.com, sito specialistico, e autore di alcuni studi sul fascismo. La pena «all’utente problematico» è stata comminata, dopo processo non troppo regolare, per un «reato» d’opinione gravissimo: aver affermato che in Italia la fine della Seconda guerra mondiale assunse anche il carattere di una «guerra civile». Opinione, quest’ultima, largamente maggioritaria tra gli storici di ogni orientamento, salvo forse quelli che hanno ancora il mitragliatore del nonno sepolto in giardino. «Guerra civile», per Wikipedia.it, non merita neppure una voce a sé: l’espressione è citata di passaggio all’interno di «Resistenza». Stesso trattamento è riservato alle forze armate che rifiutarono di aderire alla Rsi, facendosi deportare dai tedeschi: un accenno e via. Quanto alle «esecuzioni post conflitto» operate dai partigiani, si sfiora il giustificazionismo. Il paragrafo è preceduto da una imparzialissima (si fa per dire) dichiarazione di Ermanno Gorrieri, sociologo attivo nella Resistenza: «I fascisti non hanno titolo per fare le vittime». E accompagnato da una precisazione imparzialissima (si fa per dire) di Luciano Lama: «Nessuno vuole giustificare i delitti del dopoguerra. Prima di giudicare però si deve sapere cosa accadde davvero. Una guerra qualunque può forse finire con il “cessate il fuoco”. Quella no». Ecco, questo si può dire, è super partes al contrario di «guerra civile», definizione «non enciclopedica» solo per caso usata da una tonnellata o due di studiosi e scrittori di sinistra da Pavone a Pansa. Di conseguenza, dopo qualche giorno di discussione on line, arriva la sentenza: «A un utente che è stato bloccato sei mesi e non ha ancora compreso che la comunità non tollera atteggiamenti di questo tipo, è il momento di dire basta. Con tanto dispiacere, ci mancherebbe, né ho “corda e sapone pronta da lunga pezza”». In effetti l’impiccagione sarebbe stato troppo anche per un revisionista come Mastrangelo. «Pertanto - prosegue il giudice - procedo a bloccare per un periodo infinito l’utente». Al di là di questo caso personale, sono parecchie le voci contestate per una certa parzialità. Da quella sulla malga di Porzûs (dove nel febbraio 1945 i partigiani comunisti massacrarono quelli cattolici dell’Osoppo) a quella sull’attentato di via Rasella, che i wikipediani preferiscono chiamare «attacco», piena di lacune, a esempio sulle polemiche scatenate dall’azione gappista anche all’interno del Pci e degli altri partiti del Comitato di Liberazione a Roma. Oggetto di accese discussioni anche Cefalonia, Pio XII, l’Olocausto, la religione cattolica in generale. Anche in voci meno calde come quelle inerenti il liberalismo, il libero mercato, il neoliberismo emerge nettamente una visione assai orientata contro il capitalismo. Nella voce dedicata all’economista Milton Friedman si legge addirittura un giudizio morale: «Pur ricordando che né Milton Friedman né José Piñera sono stati coinvolti con le torture ed i crimini commessi dal governo Pinochet, la loro correità morale non viene per questo diminuita di fronte alla gravità dei crimini commessi contro l’umanità». Non si direbbe una valutazione «enciclopedica». Il sapere «democratico» di Wikipedia sembra un aggiornamento digitale del maoismo.

GIOCA CON I FANTI, MA LASCIA STARE I SANTI. DELLA SERIE: SUBISCI E TACI, SE NO TI TACCIO. MA IN CHE MANI SIAMO?

«Silvia mia carissima, mi regge feroce la certezza della mia onestà totale. Lo sbigottimento per questa mascalzonata, o errore, o macchinazione, o non so cosa. L’unica cosa che so è che sono innocente. Voglio, devo vivere fino a sentirlo dire. Dopo non mi importerà più di nulla. Mia dolcissima Silvia aspetto con tanta ansia in questo zoo di disperati un tuo scritto. Qui non faccio che vedere gente che da sette mesi od un anno aspetta un interrogatorio. Questo te lo confermo è un paese infame. Se c’è un posto dove sorge automatico il disgusto per questo Italia, beh questo posto è proprio la galera. Sai qui si vive come i malati di un ospedale lugubre. O come scoiattoli che girano sempre alla stessa ruota. Sento la radio e non ho più colpi al cuore quando mi accorgo che il mio nome è diventato il grottesco pretesto per una macabra pulcinellata. Così è, Silvia. Così è andata. Mai come adesso ho fatto appello a quel poco che so di filosofia e di stoici. Io sono, certe volte, proprio disperato. In questo paese non succede nulla. E’ questo che mi avvelena e mi dispera. Una ad una le speranze di una rigenerazione morale se ne vanno. Una Stampa stupida, serva, incline solo al pettegolezzo ed ai circensi. Aliena ai problemi veri e reali. Uno spettacolo immondo. Quanto dovrà passare per la riforma dei codici e per la riduzione della carcerazione preventiva? Sono deluso Silvia. Mi pare di aver gettato via la mia vita e debbo fare anche autocritica. Credevo nella legge, nei magistrati e nelle istituzioni. Non promettete mai una lettera, una visita, se poi non mantenete. Il carcere corrompe anche i sogni. Ho sognato di far parte, comportandomi benissimo, di una banda di svaligiatori di appartamenti. Quello che non si sa è che una volta gettati in galera non si è più cittadini, ma pietre. Pietre senza suoni, senza voce, che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce indifferenza. Ed il mondo gira: indifferente a quest’infamia.» Questa, per chi non lo sapesse è la testimonianza di Enzo Tortora alla figlia Silvia. La testimonianza di un innocente sbattuto in quell’inferno auspicato dai tanti benpensanti. Questi sono coloro che, quando le disgrazie capitano agli altri godono, se non che sbraitano quando gli altri sono loro.

Prendendo spunto dalla parole di chi è diventato la luce per gli innocenti in carcere ed al fine di contestualizzare il processo di Taranto sul delitto di Sarah Scazzi in un quadro nazionale e locale, evidenziando l'ignominia dei giornalisti sulla tv e la carta stampata nei rapporti con la verità e con la sudditanza all'alterigia dei magistrati permalosi, è utile conoscere alcuni risvolti riguardanti i magistrati ed i giornalisti con cui ci rapportiamo ogni giorno. Si legge sul “Il Corriere della Sera” che sono stati notificati gli avvisi di conclusione delle indagini per abuso d'ufficio al procuratore di Bari, Antonio Laudati, e al suo ex sostituto Giuseppe Scelsi. Il caso riguarda il procedimento penale sulle escort che l'ex imprenditore barese, Gianpaolo Tarantini, ha portato dall'ex premier Silvio Berlusconi a Palazzo Grazioli. Lo stesso atto, che solitamente prelude alla richiesta di rinvio a giudizio, è stato notificato anche a sei giornalisti accusati di diffamazione. L'inchiesta a carico del procuratore di Bari è stata avviata dopo che Laudati è stato accusato da un suo ex pm, Scelsi (ora sostituto procuratore presso la Corte d'appello di Bari), di aver di fatto rallentato l'indagine sulle escort. Dopo i primi accertamenti, la procura di Lecce aveva indagato Laudati per favoreggiamento personale, abuso d'ufficio e tentativo di violenza privata. I sei giornalisti indagati per diffamazione sono stati invece denunciati dal procuratore Laudati nel corso del tempo. A proposito del procuratore di Bari, Antonio Laudati, la procura di Lecce ipotizzando il reato di abuso d'ufficio scrive: «Nello svolgimento delle funzioni di procuratore avrebbe intenzionalmente arrecato ingiusto danno ai magistrati Giuseppe Scelsi e Desirèe Digeronimo consistito nella indebita aggressione alla sfera della personalità per essere stati i due magistrati illecitamente sottoposti da parte della guardia di finanza ad investigazioni e ad abusivo controllo della loro attività professionale e della loro immagine». Ed ancora è scritto nell'avviso di conclusione delle indagini Laudati avrebbe «delegato, senza alcun atto scritto, al personale di polizia giudiziaria della guardia di finanza attività d'indagine - seguendone personalmente gli sviluppi - sulle modalità di conduzione delle indagini sulla sanità pubblica pugliese svolta dai sostituti procuratori Giuseppe Scelsi e Desirèe Digeronimo e sulle irregolarità e criticità di esse in violazione sia dell'articolo 11 del codice di procedura penale, sia delle disposizioni del decreto legislativo n. 109/2006 in materia di accertamento della responsabilità disciplinare nonché della relativa normativa secondaria del Csm che non consentivano di avviare di iniziativa indagini per accertare eventuali profili di legittimità svolte dai magistrati del suo ufficio». Il procuratore di Bari, Antonio Laudati, è anche accusato di favoreggiamento personale per aver aiutato sia «Gianpaolo Tarantini ed altri indagati» ad eludere le indagini sulle escort, sia «aiutato» Silvio Berlusconi ad eludere le stesse indagini «dirette ad accertare anche l'eventuale suo concorso nei suddetti reati». A Laudati viene contestato di aver disposto «arbitrariamente», il 26 giugno 2009, due mesi e mezzo prima di insediarsi nell'incarico di procuratore di Bari, che le indagini sulle escort portate da Tarantini nelle residenze di Berlusconi «venissero sospese e non si adottasse alcuna iniziativa fino a quando non avesse assunto le funzioni» di capo della procura. L'incontro avvenne nella scuola allievi della Guardia di finanza di Bari alla presenza del pm inquirente, Giuseppe Scelsi, e di ufficiali della Gdf a cui erano state delegate le indagini. L'insediamento di Laudati avvenne il 9 settembre 2009. Dando quelle disposizioni - secondo l'accusa - «con abuso dei poteri e violazione dei doveri di magistrato» Laudati, tra l'altro, ha impedito «l'assunzione di sommarie informazioni dalle altre escort non ancora ascoltate» e ha causato «ritardo ed intralcio nello svolgimento delle investigazioni per la maggiore difficoltà di accertamento di fatti e circostanze conseguente alla maggiore distanza temporale del momento investigativo dal loro verificarsi». In questo si è concretizzato - secondo i magistrati salentini - il reato di favoreggiamento personale aggravato contestato al procuratore di Bari. Laudati avrebbe quindi - è scritto nell'avviso di conclusione delle indagini - «aiutato Gianpaolo Tarantini e gli altri indagati» ad «eludere le indagini» nel procedimento per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione delle «cosiddette escort» avviato dal pm Giuseppe Scelsi «nel quale era coinvolto quale fruitore delle prestazioni sessuali il presidente del Consiglio dei ministri, on. Silvio Berlusconi (al fine di favorire indirettamente quest'ultimo preservandone l'immagine istituzionale) ed aiutato anche quest'ultimo ad eludere le suddette indagini, dirette ad accertare anche l'eventuale suo concorso nei suddetti reati». Avrebbe «intenzionalmente arrecato ingiusto danno» ad un altro pm della procura di Bari, Desirèe Digeronimo, e a un'amica di quest'ultima, Paola D'Aprile, attuando una «indebita aggressione alla sfera della loro personalità» intercettandone le conversazioni «per fini estranei alla funzione giurisdizionale»: è con questa motivazione che la procura di Lecce contesta al pm barese Giuseppe Scelsi (ora sostituto procuratore generale) il reato di abuso di ufficio nell'avviso di conclusione delle indagini a suo carico e a carico del procuratore di Bari, Antonio Laudati. La vicenda attribuita a Scelsi nel capo di imputazione è estranea alle indagini escort che riguardano il suo ex capo Antonio Laudati. La contestazione del reato all'ex pm riguarda invece le inchieste sulla sanità della Regione Puglia che tra il 2008 e il 2009 conducevano sia Digeronimo (che aveva tra gli indagati l'ex assessore Alberto Tedesco) sia Scelsi stesso, che avrebbe agito per «ripicca», secondo la procura di Lecce, e per «costringere» la collega ad astenersi. Per perseguire le proprie finalità «estranee alla funzione giurisdizionale», Scelsi, infatti, avrebbe più volte usato «surrettiziamente» elementi acquisiti durante altre intercettazioni, che lui stesso alcuni mesi prima aveva ritenuto penalmente irrilevanti. Sempre per perseguire il proprio intento, avrebbe anche coinvolto la guardia di finanza chiedendo informative che giustificassero le sue richieste di intercettazione di D'Aprile, che sapeva amica di Digeronimo. L'accusa dei confronti di Antonio Laudati per abuso di ufficio è invece legata alla costituzione di un'aliquota di finanzieri voluta dallo stesso procuratore e che aveva l'incarico di lavorare esclusivamente ai suoi ordini. Secondo la denuncia presentata a suo tempo da Scelsi quei finanzieri avrebbero però svolto una sorta di indagine parallela sul modo in cui veniva condotta l'indagine su Tarantini. La Procura di Lecce sostiene oggi che di fatto Laudati "spiò" il pm Scelsi e la collega Desierè Digeronimo eseritando nei loro confronti una vera e propria violenza privata, deleggitimandone anche la funzione agli occhi dei finanzieri incaricati di controllarli. Sul caso era intervenuta anche la commissione disciplinare del Csm che aveva tuttavia archiviato il fascicolo. L'avviso di conclusione delle indagini è stato notificato anche a sei giornalisti accusati di diffamazione a mezzo stampa al procuratore di Bari, Antonio Laudati. I cronisti indagati sono di Massimiliano Scagliarini de "La Gazzetta del Mezzogiorno" per un articolo che riguarda la stessa materia per la quale oggi la procura ha indagato Laudati. Poi Gianni Lannes, accusato di aver offeso in un articolo la reputazione di Laudati, del presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, e dell’allora capo di gabinetto di quest’ultimo, Francesco Manna. L’articolo faceva riferimento ad un finanziamento concesso dalla Regione ad un convegno sulla giustizia organizzato a Bari da Laudati. Gli altri 'pezzi' ritenuti diffamatori per la reputazione del procuratore Laudati sono quelli della cronista di "Repubblica-Bari", Mara Chiarelli, (di omesso controllo risponde il direttore del quotidiano Ezio Mauro), e di Nazareno Dinoi del "Corriere del Mezzogiorno-Puglia" e direttore de “La Voce di Manduria” (di omesso controllo è accusato il direttore della testata, Marco De Marco).

Quando si dice la legge del contrappasso. Nazareno Dinoi, citato pocanzi è il giornalista di Manduria ben informato sulle carte del processo Scazzi, tant’è che ha pubblicato le famose foto della ragazza morta. Lui come i suoi colleghi non disdegna di sbattere il mostro in prima pagina. E’ incline a pubblicare le disgrazie degli altri. Oggi tocca a lui essere il mostro di turno sbattuto sulle prime pagine dei giornali nazionali: un po’ poco su quelli locali, molto attenti al rispetto della colleganza ed al rispetto per i magistrati. In loco la notizia è apparsa sul tg di Antenna Sud e sul tg di Tele Norba (con critiche del direttore ai magistrati di Lecce), niente di niente su TRNews, il tg di Tele Rama di Lecce. Nazareno Dinoi non ha avuto alcuno scrupolo nel scrivere, sui giornali che gli consentivano di farlo, della condanna in primo grado per abusivo esercizio della professione e per circonvenzione d’incapace a carico del sottoscritto dr Antonio Giangrande, per aver difeso una sua cliente nell’esercizio della professione forense, con regolare abilitazione. Condanna infondata e che non poteva essere altrimenti né in cielo, né in terra. Condanna generata dalla grave inimicizia con i magistrati di Taranto per non aver adottato la comune omertà in riferimento ai grossolani errori ed abusi che questi commettono. Non solo ha scritto della condanna, ma ha evidenziato il fatto che il Giangrande fosse il Presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, sodalizio notoriamente non di sinistra. Questo per creare nocumento al Giangrande ed ancor di più alla sua associazione. Il Giangrande era lo stesso che ha denunciato magagne ai concorsi pubblici quando Manduria era sostenuta da una Giunta di Sinistra. Denuncie ben censurate sulla stampa di Manduria. Certamente Nazareno Dinoi ha pensato bene di non scrivere, però, sullo stesso giornale in cui ha dato la notizia a caratteri cubitali della condanna, che in appello la condanna non è stata confermata e che il magistrato del primo grado è stato denunciato a Potenza perché non nuova a sentenze ritorsive contro lo stesso Giangrande. Ha pensato bene di non scrivere di questa assoluzione come di tutte le altre assoluzioni per non aver commesso il fatto riguardo alle incriminazioni del reato di diffamazione a mezzo stampa. Reato che tocca proprio i giornalisti e che è il loro spauracchio. Oggi tocca a lui e di questo mi dispiace, perché non si augura a nessuno quello che si prova ad essere vittima di gogna mediatica.

Ma i giornalisti sono vittime od artefici di questo sistema informativo-giudiziario censorio od omertoso. «Con un’informazione libera l’Italia cambierebbe in 24 ore. I giornalisti italiani si suddividono in tre categorie: gli indipendenti (pochi, eroici e spesso emarginati), gli schiavi (tantissimi, sfruttati e pagati 5/10/20 euro a pezzo) e i Grandi Trombettieri del Sistema, nominati in posizioni di comando dai partiti e dalle lobby (direttori di testata, caporedattori, grandi firme, intellettuali per meriti sul campo). - E’ quanto scrive Beppe Grillo sul proprio blog, nell’iniziativa "Intervistiamo i giornalisti". - Il conflitto di interessi tra informazione e potere economico e politico è diventato insopportabile - sottolinea il comico - Siamo manipolati dai partiti, dalle banche e dalle industrie che, attraverso i media, stravolgono la realtà. L'Italia è un'Isola dei Famosi, un reality show di sessanta milioni di persone che ascoltano favole, racconti fantastici in dosi così massicce e da così lungo tempo da aver trasformato il Paese in un gigantesco Truman Show in cui la verità è menzogna e la menzogna è verità. Più il Sistema si decompone, più i media ne diventano l'ultimo feroce baluardo (dopo infatti non c'é più alcuna difesa) perdendo ogni ritegno e vergogna. La maggior parte degli italiani è informata da sette televisioni e tre giornali. Rai1, Rai 2 e Rai 3 sono occupate dai partiti, Canale 5, Italia 1 e Retequattro sono di proprietà di Berlusconi, a capo di un partito, la7 appartiene a Telecom Italia. La Repubblica è di De Benedetti, tessera numero uno del Pdmenoelle, La Stampa è della famiglia Agnelli, gli azionisti di riferimento del Corriere della Sera sono le banche e Confindustria. Siamo manipolati dai partiti, dalle banche e dalle industrie che, attraverso i media, stravolgono la realtà - aggiunge il fondatore del Movimento 5 Stelle. - Vorremmo però sapere qualche cosa di più su chi ci informa. Una questione di reciprocità. Il perché talvolta non riportano i fatti, se sono costretti o se è una loro attitudine. Vorremmo sapere quali direttive ricevono da parte dei loro giornali o telegiornali. Perché fanno le domande che fanno (talvolta tendenziose per dimostrare una tesi a priori). Vorremmo conoscerli più da vicino: i loro nomi, il loro curriculum, i loro pensieri» conclude Grillo.

Riguardo alla violazione del diritto di cronaca su “Il Giornale” c’è un appunto di Filippo Facci Quando una campagna tipo «Sallusti libero» mette d’accordo praticamente tutti (destra e sinistra, da Libero a Ingroia, dal Giornale a Di Pietro) vien voglia di rimettere qualche puntino sulle i e di sforzare la memoria prima di rincoglionire del tutto. Allora:

1) Non è vero che il caso Sallusti accomuna tutti i giornalisti nello stesso modo: il cosiddetto «omesso controllo» riguarda solo i direttori della carta stampata ed esclude invece i direttori delle testate online e delle testate televisive.

2) Non è vero che siano finiti in galera per diffamazione solo Giovanni Guareschi e Lino Jannuzzi. A parte che Jannuzzi finì solo ai domiciliari (prima di essere graziato) finirono dentro altri colleghi tra i quali ricordiamo solo Stefano Surace (che finì dentro a 70 anni per una diffamazione di trent’anni prima: Libero ci fece una campagna) e poi Gianluigi Guarino (direttore del Giornale di Caserta) per non parlare dei casi di Vincenzo Sparagna e Calogero Venezia del periodico Il Male.

3) Non è vero che Sallusti mercoledì potrebbe finire in carcere: in caso di conferma della condanna, essendo la sua pena inferiore ai 3 anni e non essendo quindi immediatamente esecutiva, occorrerebbe attendere che la Cassazione notifichi la sua decisione alla procura di Milano (e già qui passa del tempo) e poi che la Procura faccia eguale notifica ai legali di Sallusti (altro tempo che passa) sinché da quel momento, cioè dalla ricezione, gli avvocati avrebbero altri 30 giorni di tempo per proporre delle pene alternative come per esempio il classico affidamento ai servizi sociali. La semi-libertà no, perché la pena supera i sei mesi. Insomma, tempo per fare qualcosa ce n’è.

4) Non è vero che i giudici si sono limitati ad applicare la legge. Il tribunale può giostrarsi tra sospensione della pena e riconoscimento delle attenuanti generiche, e, anche se la pena non fosse sospesa, possono decidere se infliggere il carcere in totale discrezionalità: in genere infatti si limitano a una pena pecuniaria. Così non è stato.

5) Non è vero, purtroppo, che le cause intentate dai magistrati corrano in corsia di sorpasso surrettiziamente: l’hanno addirittura codificato e previsto da una circolare del Csm (la n. 5245 dell’11 giugno 1981) che teorizza «la trattazione più sollecita» dei procedimenti riguardanti i magistrati. Chi l’ha deciso? I magistrati.

6) Non è vero, o pare strano, che i legali del giudice diffamato, ora, dicano che ingabbiare Sallusti non gli interessa e che a fronte di un «equo risarcimento» ritirerebbero la querela: la sentenza della Corte d’Appello ha già previsto multe e quantificazione del danno (5000 Sallusti, 4000 Montinone, altri 30mila generici) e quindi non è chiaro perché la querela non la ritirino subito, visto che il pagamento è obbligato. Se ingabbiare Sallusti non fosse stato tra gli obiettivi, dunque, non è chiaro perché non si siano limitati ad un’azione civile (che puntasse solo ai soldi) e perché il pm che rappresenta l'accusa, soprattutto, abbia formulato Appello e dunque richiesto che carcere fosse.

7) È vero che molti giornalisti e molti giornali, ormai, tendono a considerare le cause per querela come un costo ordinario da mettere a bilancio: i tempi e i costi della giustizia portano a transigere (si paga una cifra e buonanotte) e si rinuncia a far valere le proprie ragioni. Qui le colpe sono da ripartire tra la lentezza della giustizia e una certa pigrizia di qualche avvocato e giornalista, non c’è dubbio.

8) È vero che la situazione di Sallusti è stata peggiorata da recenti decisioni dei governi di centrodestra: anche se è vero che tutti i governi, negli ultimi lustri, se ne sono fottuti. Per diffamazione semplice non si può finire in carcere, ma per quella «a mezzo stampa» sì in quanto è quasi sempre «aggravata» dall’attribuzione di un fatto determinato. Dalla famigerata «ex Cirielli» del 2005 in poi, peraltro, è impedito ai recidivi (come Sallusti, colpevole di altri «omessi controlli») di ottenere la sospensione del carcere per le pene che non superino i tre anni; non bastasse, sono state introdotte delle restrizioni nell’accedere alle pene alternative per chi abbia dei precedenti come i citati «omessi controlli». Nel caso di Sallusti, tuttavia, va detto che di precedenti che prevedano la carcerazione non ce ne sono: il direttore ha solo delle condanne indultate o trasformate in pena pecuniaria, nessuna delle quali per articoli scritti da lui.

9) È vero che la solidarietà tra penne d’ogni bandiera è una buona cosa, ma certi toni di sufficienza fanno prudere la penna. Il Giornale - direttore Maurizio Belpietro - nell’estate 1998 pubblicò la prima inchiesta in assoluto sul tema della diffamazione a mezzo stampa: 9 puntate, 60.277 battute a cura dello scrivente. Seguirono pochi servizi di Panorama e del Foglio mentre la Fnsi, sollecitata, fece solo sapere che: «Abbiamo chiesto agli editori l’istituzione di un fondo per coprire le spese legali». Traduzione: per risolvere il problema delle querele, basta pagare; come a dire che per risolvere il problema della malagiustizia basta andare in galera. Fu il Giornale a pubblicare regolarmente i monitoraggi del professor Vincenzo Zeno-Zencovich (anche qui, silenzio) e furono giornalisti di centrodestra o comunque non di sinistra (Roberto Martinelli, Alessandro Caprettini) a promuovere incontri e convegni. Di una fantomatica proposta di legge annunciata da Luciano Violante non si seppe più nulla, di un’altra presentata dal senatore radicale Pietro Milio, pure ispirata dalle inchieste del Giornale, pure nulla. Analogo destino ebbe una proposta del senatore Marcello Pera di Forza Italia. Tutto questo sempre nel silenzio: tranne un paio di casi (forse uno solo, nel 2009) in cui il condannato era di sinistra e allora c’è stato un po’ di baccano.

10) È vero che Antonio Di Pietro ora fa il buono e invoca un decreto per salvare Sallusti. Ma andrebbe ricordato che un suo progetto di legge prevedeva il «decreto cautelare di rettifica» oltreché la rilettura obbligatoria dei virgolettati agli intervistati, nonché - inevitabile - un inasprimento delle pene per il reato di diffamazione: alle testate che di tale diffamazione si macchiassero, a suo dire, doveva appunto essere imposta un’esponenziale sospensione delle pubblicazioni: più diffamazioni ergo più sospensioni, ogni volta più prolungate. Se per salvare Sallusti finiamo nelle mani del molisano, uh, siamo a posto.

A questo punto ci tocca dare la parola all'indagato. Cosa che nè i giornali fanno, nè i magistrati consentono. Laudati contrattacca con una intervista a di Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Mi accingo a chiedere formalmente alla Procura di Lecce di essere sentito. Non si possono condurre indagini sull'attività di un procuratore senza ascoltarlo». Amareggiato, ma al tempo stesso combattivo. Il Procuratore della Repubblica di Bari Antonio Laudati, indagato dalla Procura di Lecce, respinge le accuse e fa quadrato intorno all’ufficio inquirente che dirige da tre anni. L’inchiesta è quella partita dalla denuncia del Pm Giuseppe Scelsi (oggi alla Procura generale), il magistrato che per primo ha indagato sulle escort reclutate da Gianpaolo Tarantini per partecipare a feste esclusive in residenze private dell’ex premier Silvio Berlusconi.

Procuratore, due giorni fa alcuni suoi sostituti sono stati sentiti come persone informate sui fatti dal procuratore di Lecce Cataldo Motta. Come commenta la notizia?

«Ho il massimo rispetto delle procedure istituzionali e sono convinto che chi svolge una funzione come la mia pubblica e di rilievo deve essere sottoposto a ogni forma di controllo. Sono sicuro di non avere nulla da temere perché ho improntato il mio comportamento al rispetto della legge, all’imparzialità della mia funzione e al perseguimento della giustizia».

Prima il Csm, poi gli ispettori ministeriali (i cui accertamenti al momento sono finiti con un nulla di fatto), infine la Procura di Lecce. Le verifiche sul suo operato non finiscono mai?

«Non posso non rilevare che questo tipo di accertamenti è iniziato un anno fa, ma un’indagine a carico di un procuratore non può durare tanto. Occorre dare risposte rapide sia che siano stati commessi reati, sia che non siano stati commessi, soprattutto per la credibilità dell’ufficio».

La pensano allo stesso modo migliaia di persone indagate che vivono in un «limbo» e che chiedono senza fortuna di potere dire la loro. La giustizia non è uguale per tutti?

«Capita a me quello che accade a tanti cittadini. Rappresento, però, che, indipendentemente dalla vicenda personale, la questione si riverbera sull'intero ufficio. Non sostengo che la mia posizione è diversa, ma lamento che così si mette a rischio la credibilità della giustizia e delle istituzioni. Una situazione che deve essere definita in tempi rapidi. Per questo voglio subito essere interrogato».

In realtà l’inchiesta di Lecce sembra volere accendere un faro non tanto o non solo sulla sua attività, ma anche su quella di alcuni suoi sostituti. Qual è il clima che si respira nel Palagiustizia?

«Non so se la vicenda riguarda altri magistrati, e comunque, leggendo i giornali, si tratta di cose avvenute prima del mio arrivo a Bari. Sono dispiaciuto della rappresentazione che viene data del nostro ufficio. In questi tre anni abbiamo svolto una grande mole di lavoro in rapporto all’organico e alle scarse risorse disponibili. Occorrerebbe guardare quello che facciamo tutti i giorni e mandare in soffitta tutti i veleni».

Eppure proprio l’indagine più delicata sarebbe stata rallentata. E poi ci sono l’aliquota e la banca dati volute da lei.

«Al mio arrivo mi sono posto due obiettivi: trasparenza ed efficienza. Ho istituito pool di magistrati, un coordinatore, è stata potenziata la polizia giudiziaria, ho applicato alla Procura di Bari quanto ho imparato in Antimafia: si lavorava in pool per garantire maggiore correttezza possibile delle decisioni (sei occhi guardano meglio di due) e per evitare la sovraesposizione di un singolo Pm».

Alla luce delle accuse che le vengono mosse, considera gli obiettivi raggiunti?

«L’inchiesta Tarantini è stata divisa in sette tronconi tutti a processo, prima che arrivassi non era stato neanche arrestato. Il processo Tedesco è all’udienza preliminare, prima del mio arrivo non era stata notificata neanche un’informazione di garanzia. Per tutti questi processi c'è la valutazione di Gip, del Riesame e della Cassazione. Trovo una certa amarezza nel fatto che il lavoro dei miei colleghi, al prezzo di grandi sacrifici anche personali, passi in secondo piano. Nessun rallentamento, dunque, per non parlare della fantomatica ricostruzione della “aliquota”. Sono solo stati creati gruppi “ad hoc” di Carabinieri (per Tedesco) Gdf (per Tarantini) e Polizia (per le fughe di notizie) decisi dai vertici della forze di polizia. L’accusa è smentita dai fatti».

Pensa di avere commesso qualche errore?

«Sì, per esempio, con il senno di poi, non avrei trasmesso al Procuratore generale presso la Cassazione la “relazione Sportelli”, in cui venivano evidenziate tutte le anomalie commesse prima del mio arrivo. Pensavo fosse mio dovere segnalarle, e, invece, la relazione si è ritorta contro di me».

Prima dello scandalo si parlava di lei come possibile Procuratore di Napoli o Roma o come prossimo Procuratore nazionale antimafia. Tutto sfumato? Pentito, oggi, di avere scelto Bari?

«Chi assume un ruolo come il mio in un distretto importante come Bari accetta anche il rischio della sovraesposizione. Sono stati anni pesanti, ma ho fatto una scelta di cui non mi pento. Sono convinto che il tempo è galantuomo e mi darà ragione».

Tra un anno scade il suo primo «mandato». Ne seguirà un altro? Cosa farà da grande?

«Chi fa il Procuratore ha incarichi a termine, indipendentemente dalla propria volontà. La legge stabilisce quanto devo rimanere, ma è un problema che non mi pongo adesso anche perché fino a quando non avrò dimostrato ai cittadini l'assoluta infondatezza di tutte le questioni sollevate nei miei confronti, mai penserò di cambiare incarico. Credo di dovere dare ai cittadini la sicurezza che hanno avuto un Procuratore al di sopra di ogni sospetto e che non ha commesso alcun reato».

Perquisizioni e spogliarelli: le intimidazioni ai cronisti, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. Uno studio rivela i metodi dei magistrati, dai blitz alle ispezioni "personali". Scrivere per il Giornale, o per qualsiasi altro giornale, sta diventando rischioso. Se adesso si va dritti in galera non è che fino a ieri la magistratura ci andasse leggera e non avesse altri strumenti per renderti la vita e la professione impossibili. Utilizzava (e utilizza) intercettazioni a strascico e soprattutto si avvale di uno strumento invasivo, ritorsivo, intimidatorio: quello della perquisizione-sfregio, a casa e in ufficio, nelle stanze dei tuoi bimbi o in redazione, a ficcare il naso nelle tue agende, aprendo i libri, i cd, tra la biancheria, in garage o in frigorifero, nell'appartamento di mamma e papà, perfino dai tuoi nonni. Tutto per scoprire la «fonte» e sequestrare il documento - che non trovano mai - all'origine di quella rappresaglia. Ormai è routine: si presentano all'alba, ti sequestrano fisicamente spesso fino a notte fonda, con decine di sbirri a mettere Le mani nel cassetto (e talvolta anche addosso), come titola uno studio del Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti rintracciabile su internet sui cronisti perquisiti. Storie drammatiche e paradossali. Il Giornale ovviamente la fa da padrone con Vittorio Feltri e Nicola Porro a raccontare la violenza del blitz che colpì anche Sallusti, sulla farsa del ricatto all'ex presidente di Confindustria. «La Procura di Napoli era partita lancia in resta contro la supposta macchina del fango da me diretta - racconta Feltri - nel frattempo però mi ero dimesso, cedendo il comando a Sallusti (...) e al mio posto fu perquisito lui che non c'entrava nulla, al tempo dei fatti, salvo aver firmato il pezzo. Fu perquisito anche Nicola Porro. Fisicamente. Carabinieri dappertutto: al Giornale e nelle abitazioni dei reprobi. Roba da matti. Ventiquattr'ore dopo pubblicammo davvero un dossier sulla Marcegaglia». Era un falso, collezionato con gli articoli dei giornali illuminati e progressisti. Porro non se lo scorderà più quel giorno. Nudo davanti ai carabinieri come un boss mafioso. «Sono stato perquisito per un'intercettazione telefonica. Il sottoscritto all'epoca dell'intercettazione non era indagato. Il reato di cui mi sarei macchiato (violenza privata) non è di quelli per cui il codice prevede le intercettazioni. Con questi criteri anche Babbo Natale sarà presto messo sotto controllo (...)».Tra i racconti dei cronisti del Giornale inseriti nel pamphlet anche quello di chi scrive, recordman del triste settore (una ventina di perquisizioni all'attivo, l'ultima in albergo a Montecarlo per la casa Fini-Tulliani). Poi c'è il nostro Stefano Zurlo, anzi suo figlio Giacomo (all'epoca aveva 4 anni) a cui le forze dell'ordine piombate in cameretta chiesero dove papà nascondesse le carte di uno scoop su Pacini Battaglia. E che dire di Anna Maria Greco «colpevole» di aver recentemente pubblicato su questo quotidiano un atto sulla pm Boccassini: perquisita davanti alla famiglia schierata, invitata a spogliarsi e sottoporsi a ispezione personale («...Mi dicono: "ci dia i documenti, così la finiamo qui: dove li ha nascosti?". Ho risposto: "Non ce li ho". Mi hanno detto che dovevano procedere anche alla perquisizione "personale". Mi sono preoccupata seriamente quando la donna carabiniere ha infilato i guanti di lattice. Mi ha fatto entrare in un bagno e mi ha detto di spogliarmi. "Anche la biancheria intima", ha precisato. Non volevo crederci. "E che, nascondo documenti segreti nelle mutande?"». Sull'onda del trattamento-Greco passiamo ai perquisiti degli altri giornali, come Roberta Catania di Libero, anche lei invitata a togliersi tutto per accertare che non nascondesse una chiavetta-dati coi segreti dell'inchiesta sul G8. Idem Carlo Mion de la Nuova Venezia che a quattro mesi dalla pubblicazione di un video dell'inchiesta Unabomber, è sollecitato a denudarsi: «Eh no, mi offendete! Ma pensate che per quattro mesi vado in giro col dischetto infilato da qualche parte?». Lo spogliarello è evitato, la perquisizione no. A Fabio Amendolara della Gazzetta del Mezzogiorno, per il caso Claps, e ad Enzo Bordin del Mattino di Padova, per una storia di trafficanti di droga, in assenza della pistola fumante sequestrarono interi archivi e fascicoli estranei al caso. Quanto capitato nel 2008 a Emiliano Fittipaldi e a Gianluca Di Feo de l'Espresso, per inchieste su camorra e politica, non ha eguali: «Ho subito due perquisizioni a una settimana l'una dall'altra su due inchieste differenti», racconta il primo. Anche Fiorenza Sarzanini del Corriere della Sera è stata perquisita due volte in una settimana, nel 2002, «perché nel primo controllo non era stata trovata la mia agenda personale». Nella casetta delle Barbie delle figlie della brava Alessandra Ziniti di Repubblica il Ros cercò l'identikit del capomafia Provenzano. L'appartamentino venne smontato, senza alcun riguardo per i vestitini, le scarpe e le borse delle bambole. La faccia del boss non saltò fuori. Quella della figlia Giulia, arrabbiatissima per il mini guardaroba in disordine, i carabinieri non la scorderanno. Le pagine del rapporto curato dall'Ordine dei giornalisti nel 2011 sui cronisti fatti perquisire dai magistrati è sotto gli occhi di tutti.

Direttori plurindagati in tutte le redazioni: non solo al Giornale, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Anche a carico di chi guida "Corriere" e "Repubblica" decine di inchieste per diffamazione. La pena più dura? Sotto i sei mesi. Ventisei nell'arco di due anni. E solo al tribunale di Milano.  È il numero degli articoli del Corriere della sera finiti sotto processo insieme ai giornalisti che li hanno scritti e al direttore della testata. Un record, ma in una graduatoria affollata di imputati. Il Giorno è a quota 17, Panorama segue a ruota a 15, poi via via tutti gli altri. Fa parte del mestiere, una professione che si svolge su un confine difficile, mai fissato con chiarezza. Basta poco e scatta l'accusa di diffamazione. L'avvocato Sabrina Peron ha sviluppato nel 2007 uno studio approfondito, uno dei pochi sul tema, per conto dell'allora presidente dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia Franco Abruzzo. La fotografia è un po' datata ma molto interessante perché al setaccio del legale sono passate tutte la cause arrivate al tribunale di Milano fra il 2003 e il 2004 e poi tutti i procedimenti definiti dalla corte d'appello del capoluogo lombardo nel triennio 2003-2005. Le cifre del contenzioso sono imponenti: un flusso continuo di carte bollate che ritorna nelle aule in cui si discutono i procedimenti di secondo grado. Qua troviamo il Giornale che sfuggiva al rilevamento precedente perché gran parte delle sentenze che lo riguardano arriva dal tribunale di Monza. E il Giornale è al vertice di questa poco invidiabile classifica con 55 processi, ma gli altri vengono dietro, sia pure a distanza: Panorama è a 19, Repubblica a 16, il Corriere della sera a 13, la Padania a 8, le tv di Mediaset a 7. Non è possibile generalizzare, ma si può affermare che i processi per diffamazione sono all'ordine del giorno, per non parlare di quelli civili che richiedono alti conteggi. Attenzione: una sentenza come quella che riguarda Alessandro Sallusti si fa però fatica a trovarla. In tribunale, nel giro di 24 mesi, la punizione più dura è sempre sotto i 6 mesi. E in corte d'appello si scende ancora, anche se su un calendario spalmato su tre anni: il massimo della pena è di 4 mesi e 15 giorni, a correzione di un verdetto precedente, non di matrice ambrosiana, che aveva appioppato al giornalista una pena pesantissima di 24 mesi di carcere. In secondo grado, come si vede, la punizione è stata mitigata, il contrario di quel che è accaduto ad Alessandro Sallusti che in prima battuta era stato condannato a pagare 5mila euro, ovvero una pena pecuniaria. La multa è la pena standard di questi processi, il carcere l'eccezione. Si è chiuso a colpi di euro il 94 per cento dei processi in tribunale, solo il 6 per cento delle querele è finito con la condanna al carcere, ma sempre con una pena poco più che simbolica. In corte d'appello le proporzioni cambiano ma non di molto: il 72 per cento delle condanne non va oltre la multa e solo il 20 per cento si traduce in una condanna detentiva. Insomma, il caso Sallusti è in controtendenza: è raro che la pena salga passando dal primo al secondo grado. È ancora più difficile trovare una condanna a 14 mesi e, anche se mancano dati specifici, sembra davvero un unicum la mancata concessione della condizionale. Non sorprende invece il fatto che a querelare il direttore dimissionario del Giornale sia stato un magistrato. In tribunale, dove già sono di casa, i giudici sono parte offesa nel 18 per cento dei procedimenti per diffamazione. Le persone giuridiche, quindi società e associazioni, rappresentano il 14 per cento del totale, contro il 9 per cento dei politici. In appello i magistrati svettano con il 19 per cento delle querele, ma i politici li appaiano con la stessa percentuale, mentre gli amministratori delle persone giuridiche si fermano al 9 per cento. I custodi della legge sono dunque fra le categorie più attente nel non farsi pestare i piedi. L'alluvione di numeri può anche risultare indigesta, ma aiuta a far capire lo guerriglia che si combatte su quel confine inquieto. In particolare sul terreno della cronaca dove spesso si accende la scintilla della disputa: nel 46 per cento dei casi in tribunale, un po' meno in secondo grado. Certo, nove sentenze su dieci puniscono l'assenza del criterio di verità, insomma la pubblicazione di notizie false. Patacche. Ma in appello emerge un altro fenomeno allarmante che rischia di mandare al macero tutti gli altri numeri: un quarto dei processi svanisce nella nuvola della prescrizione. Le cancellerie sono ingolfate, ma col passare del tempo le accuse si assottigliano e le pene scendono. Con Sallusti è successo tutto il contrario. Ma, si sa, le statistiche non hanno la faccia del direttore del Giornale.

A CHI CREDERE E DA CHI DIFENDERSI?

LIBERTA’ DI CRONACA E LIBERTA’ DI CRITICA.

“Taranto: non solo Scazzi, Serrano e Misseri. Quel Tribunale è il Foro dell’ingiustizia.” Libertà di stampa violata ed adozione di atti intimidatori e persecutori per chi ha il coraggio di raccontare la verità. Antonio Giangrande, il noto scrittore di Avetrana, accusato di violazione della Privacy, il 12 luglio 2012 è stato assolto con la formula più ampia: per non aver commesso il fatto. Una sentenza che crea un precedente nel campo della libera informazione. E’ stato assolto dal giudice onorario della sezione distaccata di Manduria, avv. Frida Mazzuti, su richiesta del Pubblico Ministero Onorario avv. Gioacchino Argentino. E’ stato disposto, altresì, il dissequestro del sito web d’informazione inopinabilmente oscurato per anni dalla magistratura brindisina e tarantina. Nulla di che, se non si trattasse dell’epilogo di un atto persecutorio da parte della magistratura tarantina. E la notizia dell’assoluzione si deve dare senza remore, così come si fa se, invece, fosse stata una condanna. «Questa è una esperienza che insegna e che va raccontata – dice il dr Antonio Giangrande, autore di 40 libri pubblicati su “Amazon” e su “Lulu” - Il fatto risale al 2006 quando improvvisamente la Procura di Brindisi chiude completamente il portale web d’informazione dell’ “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Sodalizio nazionale antimafia non allineato a sinistra. L’oscuramento del sito web effettuato con reiterati atti nulli di sequestro penale preventivo emessi dal Pubblico Ministero togato Adele Ferraro e convalidati dal GIP Katia Pinto. Lo stesso GIP che poi diventa giudice togato del dibattimento e che alla fine del processo proclamerà la sua incompetenza territoriale. Dopo anni il caso passa al competente Tribunale di Taranto. Qui il Gip Martino Rosati adotta direttamente l’atto di reiterazione del sequestro del sito web, senza che vi sia stata la richiesta del PM. Il reato ipotizzato è: violazione della Privacy. Non diffamazione a mezzo stampa, poco punitiva, ma addirittura violazione della privacy, reato con pena più grave. E dire che gli atti pubblicati non erano altro che notizie di stampa riportate dai maggiori quotidiani nazionali. Era solo un pretesto. Di fatto hanno chiuso un portale web di informazione e d’inchiesta di centinaia di pagine che riguardava fatti di malagiustizia, tra cui il caso di Clementina Forleo a Brindisi e una serie di casi giudiziari a Taranto, oggetto di interrogazioni parlamentari. Tra questi il caso di un Pubblico Ministero che archivia le accuse contro la stessa procura presso cui lavora; che archivia le accuse contro sé stesso come commissario d’esame del concorso di avvocato ed archivia le accuse contro la sua compagna avvocato, dalla cui relazione è nato un figlio. Fatti di malagiustizia conosciuti e scaturiti da esperienze vissute personalmente o raccontate dalle vittime, fino a quando mi hanno permesso di svolgere la professione di avvocato e successivamente in qualità di presidente di un’associazione antimafia. Dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, nonostante i più noti avvocati di quel foro abbiano rifiutato di difendermi e sebbene tutti i miei avvocati difensori mi abbiano abbandonato, eccetto l’avv. Pietro DeNuzzo del Foro di Brindisi. Qualcuno si è fatto addirittura pagare da me, nonostante abbia percepito i compensi per il mio patrocinio a spese dello Stato. Ed ancora dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, anche in virtù del fatto che il giudice naturale, Rita Romano, sia stata ricusata in questo processo, perché non si era astenuta malgrado sia stata da me denunciata. A dispetto di tutte le circostanze avverse vi è stata l’assoluzione, ma i magistrati togati hanno ottenuto comunque l’oscuramento di una voce dell’informazione. Voce che in loco è deleteria al sistema giudiziario e forense tarantino e contrastante con la verità mediatica locale. A tutti coloro, che in apparenza gridano alla libertà di stampa, direi di essere meno ipocriti, codardi, collusi  e partigiani, perché i giornalisti e gli operatori dell’informazione locale, anziché esprimere solidarietà ad un collega, hanno pensato bene di trattarmi come appestato e recidere quelle collaborazioni che avevo con loro. A tutti quelli che spesso rappresentano un potere criminogeno e ciò nonostante proclamano “fuori i condannati dal Parlamento” direi: se i condannati sono coloro i quali sono perseguitati per le opinioni espresse, allora direi fuori le caste e le lobbies e le mafie e le massonerie dal Parlamento, che a quanto a pericolosità sociale non sono seconde a nessuno».

A PROPOSITO DI LIBERTA’ DI STAMPA

MAFIA, MALA POLITICA, MALA GIUSTIZIA: ECCO COME TI IMBAVAGLIO!!

Regione Puglia, Lazio, Sicilia e tutte le altre. Per favore non chiamatele Mafia.

«Un certo tipo di giornalismo, che va per la maggiore, produce un certo tipo di politica imperante. Questi promuovono un certo tipo di antimafia monopolista: di parte e di facciata. - spiega il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it , scrittore dissidente che proprio sul tema della mafia e della mala politica e della mala amministrazione ha scritto dei libri, tra i tanti libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. - I soliti giornalisti promuovono ed i soliti politici finanziano iniziative della solita antimafia monopolista. Iniziative volte a dare un’immagine della mafia come la manovalanza del crimine organizzato. Per loro la mafia deve essere il cafone analfabeta con la lupara in mano che chiede soldi a strozzo o denaro in cambio di sicurezza. Come dire: affidati allo Stato che con i soldi estorti con le tasse esso sì ti presta i soldi e ti assicura benessere, istruzione, cultura, salute, giustizia e sicurezza (sic).  Invece per me la mafia siamo tutti noi: omertosi, emulatori, collusi e codardi. Questo tipo di giornalismo e questo tipo di antimafia, che addita gli avversari politici o la manovalanza criminale come mafiosi, è foraggiato da questo tipo di politica, spesso regionale. Ed è foraggiato con i nostri soldi estorti con le tasse. Invece di denunciare lo sperpero di denaro pubblico per amicarsi un certo sistema d’informazione ed un discutibile sistema antimafia, ai consiglieri ed agli assessori regionali si dà la colpa di dilapidare i nostri soldi. Ed i cittadini lì ad imprecare. Però si fa finta di non sapere che quei soldi, di cui a volte facciamo finta di chieder conto, non sono altro che quelli usati (per voto di scambio) per attirare favori e benevolenza da parte di quell’elettorato, che oggi è indignato. Quei soldi servono per comprare il consenso per la rielezione di quei politici che oggi si manda all’inferno. Fa niente se per mantenere lor signori si chiudono ospedali e tribunali. Ma tanto per il sistema tutto ciò non è racket, anche perché è omertosamente taciuto. Sulle emittenti tv vi sono sempre servizi di parte, se non servizi che raccontano altre realtà (su Studio Aperto alle 12.47 circa di tutti i giorni vi è un servizio sulla famiglia reale inglese). Certo che a fare vera informazione si rischia l’oscuramento del portale web o la galera (ma solo per il direttore de “Il Giornale”, Alessandro Sallusti, vi è stato il polverone). Anche di questo una certa politica si deve fare carico. Sul nostro canale Youtube MALAGIUSTIZIA abbiamo dovuto montare e produrre un video sugli scandali alle Regioni. Un video tratto da servizi caricati sul web dal TG3, dal 884c25tv e dal TRnews di Tele Rama. Un video che è bene far vedere a tutti perché si dimostra che tutte le regioni sono uguali. Spezzoni video di tv anche locali. Vi è anche una parte riferita alla Regione Puglia di Nicola Vendola (dispensatore di sogni e di speranze), affinchè ci si renda conto con che tipo di informazione e di antimafia e di politica il cittadino si deve confrontare e che con questo sistema informativo è dura debellare.»

QUERELOPOLI. TI SPIEGO COME TI TACCIO. Sono le toghe la categoria che fa aprire più procedimenti per diffamazione. In Italia nessun cronista è in cella. Alessandro Sallusti sarebbe il primo. Qui l’inchiesta di Paolo Bracalini su “Il Giornale”. Occhio a scrivere di magistrati, moderare il tono, calibrare bene gli aggettivi, misurare ogni sillaba, omettere critiche al loro operato, attenersi rigidamente al fatto, non esprimere valutazioni se non generiche, sennò arriva la querela e si rischia il carcere come un delinquente abituale. Sono loro la categoria che querela di più in Italia, dove peraltro la citazione per danni ai giornali è sport nazionale e una speranza di introiti facili per parecchie migliaia di presunti diffamati (a cui poi viene dato torto una volta su due). Nelle indagini dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia commissionate fino al 2007, presidente Franco Abruzzo, si analizzano le sentenze emesse dai Tribunali civile e penale e dalla Corte di Appello di Milano. Parliamo solo di Milano, e parliamo solo di diffamazione a mezzo stampa, e parliamo soltanto delle cause che arrivano in giudizio, ma parliamo lo stesso di una quantità enorme, da vera «Querelopoli»: 116 sentenze penali nel biennio 2003-2004, 216 sentenze civili, 195 in Appello nei due anni successivi. Chiedono montagne di soldi e punizioni, galera compresa, per semplici giornalisti (ma se non sono direttori la cosa non fa notizia) per tornare a una vita serena dopo i turbamenti della presunta diffamazione: in media 9 milioni di euro (!) di petitum per ristabilire l'onore offeso (contro una media di 15mila euro liquidati per davvero, fortunatamente). In quei dossier ci sono le tipologie di articoli incriminati (soprattutto cronaca, ma anche commenti e interviste), la tempistica, l'esito, e soprattutto le tipologie dei querelanti, divise per categorie professionali. E qui, appunto, si vede che non è la casta politica (che pure è la più presa di mira dalla stampa, anche violentemente) quella più permalosa e intollerante alle critiche, ma la magistratura, che al minimo graffio ti porta in tribunale. Nelle 157 sentenze emesse dal Tribunale Civile di Milano nel 2001-2002, la professione della «parte attrice» è quella di magistrato nel 18% dei casi, la percentuale più alta tra le categorie, seguita da politici (12%), imprenditori/manager (8%), artisti (6%) e infine, curiosamente, gli stessi giornalisti (4%). La percentuale di magistrati sale nel secondo grado di giudizio. Se restiamo al biennio 2001-2002 ma passiamo alla Corte d'Appello di Milano, troviamo 46 sentenze di diffamazione a mezzo stampa. E qui ci sono di mezzo magistrati, come parte offesa, nel 45,6%, contro un misero 7% di politici, 7% di manager, 3,5% di amministratori di enti pubblici. Quanto chiedono? Riportano gli avvocati Sabrina Peron ed Emilio Galbiati, consulenti dell'Odg: «Media delle richieste di risarcimento danni (morali e patrimoniali) della parte appellante attrice in primo grado: 9.563.089,50». Passiamo al penale, articolo 595 del codice, «diffamazione», che prevede multa ma anche reclusione. Qui vengono prese in considerazione 116 sentenze Tribunale Penale di Milano, tra il 2003 e il 2004. Anche in questo caso i magistrati sono la fetta più ampia tra le categorie querelanti, il 18%. Il doppio dei politici (9%), più del quadruplo di avvocati e medici (4%), di sindacalisti (3%), militari (3%), imprenditori (2%), artisti e uomini di spettacolo (2%). Dato allarmante: nel 17% dei casi il Pm ha chiesto la reclusione per il giornalista (da sei mesi a un anno, tre volte su quattro), e non soltanto della multa. Domanda che è stata accolta, a Milano, il 6% delle volte (in un caso si è tradotta in condanna a 4 mesi di carcere), anche se nessun giornalista è attualmente nelle carceri italiane (statistica di «Reporter senza frontiere»). L'avvocato Roberto Martinelli ha fatto la stessa ricerca ma a livello nazionale, passando in rassegna citazioni civili e querele presentate contro quotidiani e settimanali dal 1997 al 2004. Ebbene, su un totale di 657 cause civili, 133 sono proposte da magistrati, mentre su 402 penali sono 91 i magistrati (la maggioranza). «Le domande di risarcimento - commenta Martinelli - trovano una buona accoglienza nelle aule dei tribunali, i magistrati decidono di altri magistrati e spesso emanano sentenze in favore dei loro colleghi. Siamo di fronte a una giustizia domestica». Se guardiamo alle statistiche sugli esiti dei procedimenti penali a Milano, non sembra confermato il sospetto che i magistrati si diano più facilmente ragione tra di loro. Ad avere più percentuale di successo sono gli imprenditori e gli amministratori di aziende (75%) e i politici (67%), meno i magistrati (43%). Cosa che può significare l'imparzialità del collega che li giudica. O che le loro querele sono spesso infondate.

«Potrei difendermi dalle accuse sostenendo che quell’articolo non l’ho scritto io. Non lo farò, perché sono convinto che nessuno debba andare in carcere per una opinione - scrive su “Il Giornale Alessandro Sallusti. - Eccomi. Sono quel soggetto «socialmente pericoloso », così è scritto nella sentenza, che mercoledì 26 settembre 2012 sarà arrestato se la Cassazione confermerà il verdetto emesso contro di me da un giudice di Milano. Un anno e due mesi di carcere per aver pubblicato, anni fa su Libero che allora dirigevo, un articolo critico nei confronti di un magistrato che aveva autorizzato una tredicenne ad abortire. Non ho precedenti penali (come tutti i direttori, che in base a una assurda legge rispondono personalmente di tutto ciò che è scritto, sono stato condannato più volte a risarcimenti pecuniari), non ho mai fatto male volontariamente a una mosca né mai lo farei. Combatto da oltre trent’anni su quel magnifico ed esaltante ring democratico che è l’informazione. Ne ho più prese che date ma non mi lamento, mai ho risposto con querele a insulti e minacce. Ho lavorato al fianco di grandi giornalisti, da Indro Montanelli a Paolo Mieli, da Giulio Anselmi a Giuliano Ferrara. A ognuno ho rubato qualcosa. Uno di loro, Vittorio Feltri, da tredici anni è anche un fratello maggiore che mi aiuta e protegge e di questo gli sarò per sempre grato. Ho combattuto anche con durezza le idee di tante persone potenti e famose, ma non ho alcun nemico personale. A volte ho sbagliato? Certo che sì, e ho sempre pagato in tutti i sensi. Sono un liberale, amo e mi batto per la libertà mia e di tutti, e per questo sono orgoglioso di dirigere oggi il quotidiano della famiglia di Paolo Berlusconi, famiglia che la libertà ce l'ha nel sangue, fin troppo direbbero alcuni. Potrei difendermi dalle accuse sostenendo, come è vero, che quell’articolo non l’ho scritto io, o cose del genere. Non lo farò perché ho la profonda convinzione che nessuno, dico nessuno, debba andare in carcere per una opinione, neppure la più assurda. Se danno c’è stato che venga quantificato e liquidato. Ma nulla di più è dovuto. L’errore ha un prezzo, un principio no. E il principio che non ha prezzo è che nessun giudice può mandare in carcere qualcuno per le sue idee. Se accettassimo questo sarebbe la fine della democrazia, tutti noi saremmo in balia di pazzi, di uomini di Stato in malafede, di ricattatori. Io sono disposto a pagare un equo indennizzo, ma non baratto la mia libertà. Per questo ho detto no a scorciatoie che i miei nuovi e bravissimi avvocati mi hanno proposto. La classe dei magistrati che ha partorito questo obbrobrio abbia il coraggio di correggersi o l’impudenza di andare fino in fondo. Non ho paura. Io sono un nulla rispetto al problema in questione. Vogliono fare concludere il settennato di Napolitano (l’ho aspramente criticato in passato, se sarà il caso lo rifarò ma lo rispetto e ringrazio per l'interessamento annunciato ieri) che dei magistrati è anche il capo, con una macchia indelebile per le libertà fondamentali? Vogliono mandare Monti in giro per l’Europa come il premier del Paese più illiberale dell'Occidente? Lo facciano, se ne hanno il coraggio. Per questo, non per il mio destino personale, sarebbero dei criminali alla pari di chi ha stilato la sentenza che vuole impedirmi di scrivere ciò che penso per il resto della mia vita. Rinuncio al salvacondotto per rispetto alle persone con le quali condivido la vita, ai lettori, ai miei tre vicedirettori che si fidano di me, dei cento giornalisti che dirigo e che hanno il diritto di lavorare in un giornale secondo i principi non negoziabili stabiliti dal suo fondatore Indro Montanelli.»   

Certo è che finchè si parla di Antonio Giangrande, non gliene fotte (l’intercalare ci sta) niente a nessuno. Giangrande come tutti i pinchi pallini liberi e coraggiosi che decidono di denunciare verità sottaciute e di questo ne pagano le conseguenze. Ma poi quanto tocca ai grandi papaveri tutti si indignano, per poi finire tutto là e lasciare in mano ai magistrati il potere di decidere quanto e cosa scrivere, e cosa più importante, a discapito di chi.

Vogliono arrestare Sallusti: democrazia negata per legge scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. Stanno per arrestare il direttore de il Giornale: Alessandro Sallusti rischia 14 mesi in cella per un articolo neppure firmato. La corte d'Appello di Milano lo ha condannato in tempi record per diffamazione aggravata e non solo per omesso controllo. Nel testo non appariva nemmeno il nome del magistrato che si è sentito offeso. Il 26 la Cassazione decide se dovrà andare in carcere. La colpa? Non è dei giudici, ma dei politici che non hanno mai cambiato una legge antidemocratica. Un giornalista in carcere per motivi professionali è la negazione della democrazia. Infatti l'Italia non è un Paese democratico né liberale: l'unico in Occidente a non esserlo. Noi siamo uguali alla Corea del Nord, simili alla fallita Unione Sovietica. Tutto dalla vita mi sarei aspettato, tranne che di scrivere questo articolo. Mi tremano le mani sulla tastiera della Olivetti. Vi racconto ciò che sta per accadere: il nostro direttore responsabile, Alessandro Sallusti, è sul punto di essere arrestato. Ha ucciso un persona, premeditando il delitto? Ha rapinato una banca? Ha violentato una bambina? Ha scritto un articolo contro Gesù o contro Maometto? Nossignori. Nel 2007, in quanto gerente di Libero, aveva la responsabilità oggettiva di quanto quel quotidiano pubblicava. Poiché un dì vennero stampati sul medesimo foglio un pezzo e un commento su una vicenda giudiziaria, nei quali era citato un giudice tutelare, Giuseppe Cocilovo, questi, ritenendosi diffamato, sporse querela. Il commento in questione non era stato vergato da Sallusti, ma da un altro autore che lo aveva firmato con uno pseudonimo. Non importa. La legge considera responsabile di ogni riga storta (uscita sul giornale) il direttore. Il quale pertanto è stato processato a sua insaputa. Perché a sua insaputa? L'avvocato dell'azienda editoriale si era distratto e non aveva tutelato l'imputato. Che, in primo grado, fu condannato a una pena pecuniaria: 5mila euro. Routine. Si paga, di solito, e buona notte. Incidenti di percorso. La sentenza però fu appellata dalla parte lesa. Trascorre un po' di tempo, e si celebra il processo di secondo grado, ancora senza l'avvocato di fiducia, assente ingiustificato: ha disertato l'aula per smemoratezza o altro, non si sa; lui non è più rintracciabile. Automaticamente, gli subentra un legale d'ufficio che forse non si prende molto a cuore la storia, cosicché il verdetto è micidiale. La pena pecuniaria di 5mila euro, e sottolineo 5mila euro, viene trasformata in pena detentiva: un anno e due mesi di prigione. Uno pensa: vabbè, c'è la condizionale. Col cavolo. Niente condizionale, perché i direttori di giornale - tutti - sono pieni di cause, ne perdono molte, quindi accumulano precedenti su precedenti, e addio sospensione della pena. Mercoledì 19 settembre 2012 di sera, a Sallusti - che cade dalle nuvole - comunicano che il 26 settembre, cioè mercoledì venturo, la Cassazione esaminerà il caso; non entrerà nel merito, ma controllerà la regolarità formale del giudizio di secondo grado. Se non avrà nulla da eccepire, la sentenza sarà immediatamente esecutiva. E il nostro direttore verrà arrestato e chiuso in una cella come un delinquente e dovrà scontare il castigo. Inammissibile, assurdo. Segnalo ai lettori che l'Italia è l'unico Paese europeo - che dico? occidentale - in cui i reati a mezzo stampa sono valutati dalla giustizia penale anziché da quella civile. Solo le dittature più efferate usano sistemi di questo tipo: un modo violento allo scopo di reprimere ogni tentativo di criticare il regime. Nelle democrazie appena appena decenti, la persona offesa da un giornale si rivolge al tribunale civile e chiede un congruo risarcimento, poi, eventualmente, accordato dal giudice. D'altronde - esemplifico - se qualcuno mi dà gratuitamente del cretino, o mi attribuisce un'azione cattiva che non ho commesso, non ho interesse che chi mi ha insultato o diffamato vada in galera; mi preme piuttosto che egli paghi in soldoni il suo errore. In effetti, ripeto, succede così in tutto il mondo civile, o quasi, tranne che nella nostra piangente penisola. Ma non per colpa dei magistrati, che si limitano ad applicare la legge. A volte la applicano con mano lieve, altre con mano pesante. Ma non si inventano nulla. Applicano il codice e basta. La legge fornisce loro dei mezzi e delle armi, che vanno dal temperino al mitra. In alcune circostanze adoperano il primo, in altre il secondo. Ma non si tratta di abusi. Essi rimangono nell'ambito del consentito. Non è con loro che noi (io) polemizziamo. Ma con i dementi che, dopo 60 e passa anni di finta democrazia, mantengono in vita, per accidia e menefreghismo, alcune pagine del codice fascista. Sì, fascista. Non vanno linciati i giudici «esagerati», che agiscono comunque in base alle regole, ma chi quelle regole non ha mai avuto il coraggio, e la sensibilità civile, di modificare, adeguandole ai canoni della democrazia liberale. Tra costoro metto anche Silvio Berlusconi che, incoscientemente, non ha provveduto quando avrebbe potuto farlo, imponendosi sui fetenti da cui era circondato, a revisionare il succitato codice. Giuro: a me aveva promesso che avrebbe depenalizzato i reati di opinione. Invece non è riuscito a combinare niente perché la lobby degli avvocati, potente e massiccia in Parlamento, si è opposta. Già: cause che pendono, cause che rendono. Risultato. I giornalisti vanno in galera perché i rischi del mestiere sono questi in Italia: non di pagare con i risarcimenti, come sarebbe giusto, ma di pagare con la detenzione. Vergognatevi tutti, politici dei miei stivali. Si vergognino Berlusconi, Prodi, D'Alema, Amato, Ciampi, Fanfani (anche se è morto), Andreotti, Emilio Colombo, Craxi (anche se è morto), De Mita. Tutti i governi, di destra, di centro e di sinistra. Non solo hanno mandato in malora il Paese: hanno anche ucciso la libertà di stampa nella culla. Io me ne frego. Mi ribello a questa gente che ha pensato solo ai fatti propri, e ha abbandonato i giornalisti, lasciandoli alla mercé di una legge iniqua, fascista e tirannica, pur pretendendo che continuino a fare il loro mestiere. Ma quale mestiere? Come si fa a lavorare serenamente se uno di noi, Alessandro Sallusti, per un articolo che neppure ha scritto, è in procinto di finire dietro le sbarre per un anno e due mesi? Qui non c'entrano le posizioni politiche di ciascuno di noi. Possiamo essere nel giusto o no, possiamo essere simpatici o antipatici, ben retribuiti o ridotti alla fame: non è questo che conta. Conta piuttosto che si distingua fra criminali e gente che nella propria attività, pur sbagliando, non merita il carcere. Cari politici del menga, svegliatevi. Date un segnale che non siete lì a difendere l'indifendibile, e se non potete salvare l'Italia dalla crisi, salvatela almeno da certi obbrobri. Cambiare una legge odiosa non costa niente: due righe da depennare comportano sì e no l'investimento di 20 euro. Non c'è più un centesimo perché avete già raschiato il fondo della cassa? Ve li do io. Attenzione: se Sallusti sarà associato alle carceri, non la passerete liscia. Oltre a non fare bella figura, rischierete gli sputi di tutti noi. P.S.: caro Alessandro, siamo solidali con te, e come te ci sentiamo vittime di una classe politica capace di tutto e buona a nulla (Leo Longanesi).

Alessandro Sallusti è pericoloso. Se il direttore del Giornale venisse lasciato in circolazione potrebbe commettere altri reati. Così è l’articolo di Luca Fazzo su “Il Giornale”. Per questo, per impedirgli di continuare a diffamare il prossimo, l'unica soluzione è chiuderlo in carcere. È questo il ragionamento in base al quale la Corte d'appello di Milano ha stabilito che Sallusti deve finire in galera. Quattordici mesi, senza condizionale. Solo la decisione della Cassazione, fissata per mercoledì 26 settembre 2012, separa ormai Sallusti da una cella. La sentenza che candida il giornalista alla galera è stringata. Sette pagine firmate dal giudice Pierangelo Guerriero per dare ragione ad altri due giudici: il suo collega Giuseppe Cocilovo, in servizio a Torino, che si era sentito diffamato da un corsivo di Libero (diretto allora da Sallusti) in cui il suo nome nemmeno compariva; e il sostituto procuratore generale Lucilla Tontodonati, che aveva fatto ricorso contro la sentenza di primo grado, che aveva condannato Sallusti ad appena cinquemila euro di ammenda. La procura generale milanese fa appello, invocando per Sallusti la pena detentiva. E la Corte d'appello le dà ragione. Anche se negli atti non c'è nulla che dica che il corsivo firmato “Dreyfus” sia stato scritto da Sallusti, scatta la condanna: e non per «omesso controllo», ma proprio come supposto autore dell'articolo. Articolo polemico, duro, in cui si contestava la decisione del tribunale di Torino di autorizzare una tredicenne ad abortire: e la ragazzina, come aveva scritto il giorno prima La Stampa, era poi finita in manicomio. «Con riferimento alla posizione di Sallusti - scrive la Corte d'appello - va riaffermata non solo la natura diffamatoria dell'articolo a firma Dreyfus, ma anche la falsità della ricostruzione dei fatti». Secondo la querela, a decidere di abortire sarebbe stata la ragazzina, e il giudice si sarebbe limitato a ratificarne la decisione: in questo consisterebbe la falsità. «E - aggiunge la sentenza - gli altri organi di stampa si erano affrettati a correggersi ben prima dell'uscita degli articoli» di Libero. La difesa di Sallusti ha sottolineato la incongruità di questo passaggio: il primo articolo della Stampa sul caso della ragazzina è del 17 febbraio 2007, il corsivo di Dreyfus è del 18, il giorno successivo. Quando sarebbe avvenuta la rettifica? La sentenza risolve sinteticamente un altro tema importante del processo, e cioè il fatto che l'articolo incriminato non porti la firma di Sallusti, e che Sallusti non ne sia l'autore: il direttore viene condannato «per avere, in qualità di direttore responsabile del quotidiano Libero e quindi da intendersi autore dell'articolo redazionale a firma Dreyfus, offeso la reputazione di Cocilovo Giuseppe». Per la Corte d'appello è del tutto irrilevante che il giudice Cocilovo non venga mai citato nell'articolo, neanche velatamente: «il suo nome era stato indicato in precedenza in varie sedi, cosicché era facile leggendo gli articoli di cui è processo ricollegare alla sua persona il giudice indicato in maniera anonima negli stessi». D'altronde al corsivo firmato Dreyfus viene attribuita anche la colpa delle «minacce ricevute dalla parte civile nei giorni seguenti alla pubblicazione degli articoli (...) proprio quest'ultima circostanza evidenzia in maniera incontrovertibile la facile riconoscibilità del giudice di cui si parla negli articoli, anche se non ne è esplicitamente indicato il nome». La severità della sentenza viene motivata anche col fatto che la presunta vittima è un magistrato: «La soglia di lesività si presenta molto elevata ove si consideri che la parte civile svolgeva all'epoca dei fatti la funzione di giudice tutelare, figura professionalmente volta alla tutela degli interessi dei soggetti deboli». Infine la questione cruciale, che rende questa sentenza diversa da ogni altra in materia di reati a mezzo stampa: la decisione di negare a Sallusti le attenuanti generiche e la sospensione condizionale della pena, ordinando (Cassazione permettendo) la sua carcerazione. «Le attenuanti vanno concesse in presenza di elementi positivi quali la giovane età, una condotta processuale improntata a particolare lealtà o qualunque altra condizione personale o sociale meritevole di attenzione. Nel caso di specie non si ravvisa alcuna circostanza che possa essere in tal modo valutata (...) Pena equa sembra alla Corte per Sallusti quella di anni uno e mesi due di reclusione e di euro 5mila di multa alla luce dei criteri di cui all'articolo 133 c.p. (quello che fa riferimento della “capacità a delinquere del colpevole”) avuto riguardo alla gravità dei fatti nonché alla personalità dell'appellante, non incensurato come risulta dal certificato penale». La condizionale viene negata perché sostanzialmente i giudici lo considerano socialmente pericoloso: «Per Sallusti non è possibile formulare una prognosi favorevole e ritenere che egli si asterrà dal commettere in futuro ulteriori episodi criminosi avuto riguardo alle numerose condanne da lui già riportate per reati della stessa specie».

Sentiamo il parere di Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. "Vediamo di aprirlo bene, il ventaglio delle responsabilità che potrebbero portare in galera Alessandro Sallusti. Riassunto per i disinformati, cioè quasi tutti: nel febbraio 2007 su Libero uscirono un articolo e un commento in cui si parlava indirettamente - nel senso che non veniva neppure nominato - del giudice tutelare Giuseppe Cocilovo; la vicenda, rivelata da La Stampa e commentata il giorno dopo da molti giornali, riguardava una 13enne che il tribunale di Torino aveva autorizzato ad abortire ma che poi era finita in una clinica psichiatrica per le conseguenze della vicenda. L’articolo di Libero era firmato da Andrea Monticone mentre il commento era firmato dallo pseudonimo «Dreyfus», il quale concludeva scrivendo che «se ci fosse la pena di morte e se mai fosse applicabile in una circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, il ginecologo, il giudice». Un’esagerazione? Si può pensarlo", spiega Filippo Facci su Libero. Sallusti venne querelato per diffamazione da un magistrato torinese. In primo grado il direttore viene condannato a un'ammenda di 5mila euro. Dopo il ricorso in Appello, la condanna diventa di un anno e due mesi di reclusione. Mercoledì 26 settembre 2012 è atteso il verdetto della Cassazione: Sallusti rischia di andare in galera. Per un articolo che non ha scritto. Sallusti pericolo pubblico? Una vergogna italiana.

Sentiamo il parere di Giovanni Valentini su “La Repubblica”, giornale antagonista de "Il Giornale" di Sallusti e definito da molti "giustizialista e pro magistrati". Per commentare l'inverosimile caso di Alessandro Sallusti, ultima vittima designata di una giustizia ingiusta, basterebbe citare una celebre frase: "Non condivido le tue idee, ma mi batterò fino alla morte affinché tu possa esprimerle". Qui però non si tratta soltanto di una divergenza d'opinioni, di un dissenso politico o culturale. Né tantomeno di una malintesa solidarietà professionale, da manifestare a un collega come un obbligo di categoria o una difesa d'ufficio. La vicenda tocca un nervo scoperto del rapporto fra giustizia e informazione, coinvolgendo tutti noi cittadini di questa Repubblica. Il rischio che mercoledì 26 settembre 2012 il direttore del "Giornale" possa finire in carcere per un articolo scritto da un altro giornalista nel 2007, quando lo stesso Sallusti era reggente di "Libero" e ne aveva quindi la cosiddetta responsabilità oggettiva, rappresenta un'aberrazione giuridica che non può appartenere alla civiltà del Diritto. Non è solo malata una giustizia in grado di produrre una tale mostruosità. È una giustizia che contraddice e nega se stessa, la propria legittimazione democratica, la propria autorevolezza e credibilità. Rispetto al principio fondamentale per cui la responsabilità penale è necessariamente personale, appare già di per sé mostruoso l'istituto della responsabilità oggettiva che incombe sul direttore di un giornale, per tutto ciò che viene scritto e pubblicato,  anche indipendentemente dalla sua impossibilità fisica o materiale di controllarne il contenuto. È una presunzione giuridica ormai inaccettabile, un automatismo intimidatorio e vessatorio, che configura una forma indiretta di censura preventiva. E rappresenta perciò una grave limitazione - questa sì, davvero oggettiva - alla libertà di stampa. Anche il diritto d'informazione, inteso come diritto dei cittadini a essere informati più che dei giornalisti a informare, dev'essere sottoposto naturalmente a regole e limiti. A cominciare dal rispetto dell'onore e della reputazione altrui. E quando la pubblicazione di una notizia o di un articolo supera indebitamente questo confine, il Codice contempla il reato di diffamazione, con la possibilità di comminare pene pecuniarie o anche di stabilire un risarcimento sul piano civile. Ma in un Paese democratico non è ammissibile che nel caso di un reato d'opinione, cioè di un reato che si realizza attraverso la manifestazione di una tesi o di un giudizio, si arrivi a sanzionare tali comportamenti addirittura con il carcere. C'è un'evidente sproporzione tra l'offesa e la difesa, tra il danno prodotto da un'azione diffamatoria e la privazione ancorché temporanea della libertà personale. Oltre a ripristinare l'onore e la reputazione altrui, la "giustizia giusta" è tenuta a punire il responsabile con rigore ed equità, senza spirito di vendetta o di persecuzione. Sono dunque norme liberticide quelle che ora minacciano di mandare in cella Sallusti, per un reato che lui non ha commesso o peggio ancora per un disguido procedurale in cui sarebbero incorsi i suoi difensori. Già in un'altra occasione è dovuto intervenire il Capo dello Stato con un provvedimento di grazia, per evitare il carcere al collega Lino Jannuzzi. Ma nel frattempo il Parlamento non è stato ancora capace di riformare questa assurda disciplina che minaccia l'esercizio della libertà di stampa. Tocca perciò al ministro della Giustizia, Paola Severino, penalista di grande esperienza e prestigio, trovare adesso una soluzione corretta e ragionevole, per impedire che "in nome del popolo italiano" un cittadino giornalista venga condannato alla reclusione. Il "caso Sallusti" ripropone però all'attenzione un altro aspetto delicato del rapporto fra giustizia e informazione, troppo a lungo trascurato, ma non meno grave e preoccupante. Quello del trattamento privilegiato di cui spesso godono i magistrati da parte dei loro stessi colleghi, quando ritengono di difendersi in tribunale dalle critiche o dalle accuse dei giornali. Processi con "corsie preferenziali", sentenze-lampo ed esemplari, risarcimenti abnormi. Anche questa è una forma di intimidazione, tanto più inquietante perché subdola e occulta. Non risulta, invece, che i magistrati siano mai condannati a risarcire direttamente qualcuno, neppure quando sbagliano nello svolgimento delle loro funzioni o vengono riconosciuti colpevoli addirittura di "dolo soggettivo". Al posto loro, semmai, paga il ministero di Grazia e Giustizia. Cioè noi stessi, cittadini e contribuenti, che dovremmo essere il "popolo sovrano". Nel nostro sciagurato Paese, collocato non a caso agli ultimi posti nelle graduatorie mondiali della libertà d'informazione, sono già troppi i vincoli e i condizionamenti che gravano sulla stampa. Non c'è bisogno di mandare in galera i giornalisti per difendere l'onore e la reputazione di nessuno. E neppure di riservare trattamenti di favore ai magistrati, come se fossero una casta di intoccabili, per tutelare le prerogative di una categoria composta da tanti rispettabili servitori dello Stato.

Ora il parere di Valerio Cattano su “Il Fatto Quotidiano”, giornale additati dai più come “manettaro” e “pro magistrati”. L’Italia è l’unico Paese europeo dove un giornalista rischia il carcere per ciò che scrive. Nelle democrazie occidentali, e negli Stati Uniti, il reato di diffamazione è regolato dal codice civile. Nel Regno Unito, è stata approvata una riforma, tre anni fa, a conclusione di un dibattito acceso; un confronto duro fra opposte fazioni, ma alla fine, la legge è passata. In Italia un giornalista può andare in galera anche per vicende surreali come quella che sta vivendo Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, per una vicenda che risale al 2007. All’epoca Sallusti era direttore responsabile del quotidiano Libero (Vittorio Feltri, invece, era direttore editoriale); in qualità di responsabile Sallusti fu querelato da un magistrato di Torino, Giuseppe Cocilovo, per un articolo che non era stato firmato dal professionista. In primo grado il direttore fu condannato a una sanzione pecuniaria di 5.000 euro e a un risarcimento di 30.000. Il 26 settembre 2012 saranno i giudici della Cassazione a occuparsi della condanna di Sallusti. La Suprema Corte entra nel merito di possibili vizi procedurali, non può certo riformulare la condanna. La sorte del giornalista è dunque legata a possibili storture giuridiche; se non ve ne fossero, la Cassazione non potrà che confermare la sentenza d’appello. Si dirà: cosa volete che siano un anno e due mesi, da scontare ai domiciliari, per un professionista? Non è così facile, perché le conseguenze per il giornalista sarebbero gravi. E il caso è emblematico per riportare sotto i riflettori il fatto che l’Italia è l’unico paese occidentale dove i reati a mezzo stampa si perseguono in via penale. I giudici fanno il loro mestiere: ci sono le norme e loro le applicano. Il punto sta in una riforma mai fatta, che doveva essere un punto fermo di qualsiasi governo, di destra, di centro o di sinistra. A chi ritiene che depenalizzare significa dare carta bianca ai giornalisti, che così potranno scrivere qualsiasi nefandezza, si può portare ad esempio ciò che è avvenuto proprio in Gran Bretagna con i tabloid di Murdoch. Nelle democrazie moderne la libertà di stampa è requisito fondamentale: l’Onu e il Consiglio d’Europa hanno più volte sottolineato l’anomalia italiana, l’ennesima che fa dello Stivale una nazione di serie B.

Un altro messaggio di solidarietà. Da un mittente inaspettato, questa volta. Da Marco Travaglio così come riportato da "Il Corriere della Sera". Già, perché Marco Travaglio, vicedirettore de Il Fatto Quotidiano, additato come "il manettaro per eccellenza" ed uno dei più acerrimi critici di Sallusti e della linea politica del suo giornale, gli ha dedicato un editoriale. Titolo «Salvate il soldato Sallusti». «Che cosa pensiamo di Sallusti i lettori lo sanno benissimo perché l'abbiamo scritto e mille volte lo scriveremo», attacca Travaglio. Che spiega: «Si dirà: i giornalisti sono cittadini come gli altri (eccetto i politici, si capisce) e non c'è nulla di strano se, in caso di condanna, la scontano. Vero: ma questo dovrebbe valere per delitti dolosi. Cioè per reati gravi e intenzionali. Sallusti è stato condannato per aver diffamato su Libero un giudice tutelare di Torino, Giuseppe Cocilovo, in un articolo del 2007 scritto da un altro sotto pseudonimo, ma di cui gli è stato attribuito l'"omesso controllo" in veste di direttore responsabile. Non so cosa fosse scritto in quell'articolo, ma non dubito che fosse diffamatorio, vista la normale linea Sallusti. Però ora non m'interessa, perché ciò che conta è il principio». Poi Travaglio ricorda di essere incappato in un episodio simile nel 2001 per un articolo scritto per l'Espresso. È una difesa a tutto campo, dunque quella di Travaglio. E se Sallusti commenta così la condanna: «Ho paura di vivere in un paese dove ci si permette di arrestare le idee, di metterle in carcere», l'oggetto di tante difese non fu però altrettanto generoso nei confronti di Travaglio. Nel marzo del 2011 Sallusti pubblicò proprio su Il Giornale il casellario giudiziario dell'allievo di Montanelli, accusandolo di essere un professorino del giornalismo. E celebri sono le schermaglie televisive nelle tribune politiche, a base di accuse reciproche («Inciti all'odio», «Sei un cretino», sono solo alcuni dei complimenti che i due si sono rivolti in passato) evidentemente tra i due pare essere stata fatta la pace. O, meglio, un armistizio.

No al carcere per Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, e sì al diritto alla libertà di informazione. A lanciare l'appello sono la Federazione Nazionale della Stampa e l'Ordine dei giornalisti. «È inaccettabile che un giornalista per fare il suo lavoro e per le sue opinioni rischi la galera - si legge in una nota diffusa dall'Fnsi -. Non è da Paese civile. Succede solo in Italia e questa è una delle ragioni principali per cui siamo così in basso nelle graduatorie mondiali sulla libertà di stampa. La condanna al carcere, senza condizionale, per il direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti, è mostruosa e non può essere accettata come atto di giustizia giusta, ancorché dovesse risultare coerente con il codice penale italiano».

L'Ordine dei Giornalisti, dal canto suo, invoca l'intervento del ministro della Giustizia Paola Severino per capire come sia possibile che una sanzione passi nei due gradi di giudizio da 5.000 euro di multa al carcere e - si legge in un comunicato - «viene da domandarsi se era davvero impossibile differire quell'udienza per riconoscere a Sallusti il sacrosanto diritto ad una difesa non rituale. In un mondo, quello della giustizia, che accumula ritardi di anni, che cosa ha impedito un rinvio?». "L'ipotesi che il direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti, finisca in carcere per diffamazione induce a chiedersi se l'Italia è davvero la culla del diritto". E' quanto si legge in una nota dell'ordine dei giornalisti. "In quale Paese al mondo si può essere condannati a 14 mesi di detenzione per omesso controllo, in relazione ad un articolo scritto da altri, con una sanzione che passa nei due gradi di giudizio da 5.000 euro di multa al carcere?". "Gli è stato impedito di difendersi" - "Emerge poi, a quanto si legge, che in Appello Sallusti non è neanche stato assistito dal suo difensore di fiducia, che non sarebbe stato reperibile. Prima ancora di chiedersi che fine abbia fatto quel legale e se il suo Ordine professionale ne sa qualcosa - si legge ancora nel documento - viene da domandarsi se era davvero impossibile differire quell'udienza per riconoscere a Sallusti il sacrosanto diritto ad una difesa non rituale. In un mondo, quello della giustizia, che accumula ritardi di anni, che cosa ha impedito un breve rinvio? Qualcuno risponderà? Ad esempio il ministro della Giustizia, Paola Severino".

DIFFAMAZIONI MEDIATICHE STRUMENTALI.

I nostri giornalisti/imbonitori sono soliti ingiuriare, diffamare, calunniare, dileggiare, irridere impunemente i poveri cristi. Anche se il nostro codice penale ha una matrice fascista, storicamente datata e sciovinista, si tratta di capire se reati sistematici di questo tipo possano essere perseguiti e denunciati da chi li subisce. Le ingiurie, le diffamazioni, le calunnie, il dileggio e le irrisioni mediatiche a danno dei più deboli si susseguono impuniti senza che i responsabili – giornalisti, testate, gestori di canali radio e TV, autori  – siano sanzionati o perseguiti. Tali reati – più gravi se commessi da pubblici ufficiali incaricati di servizio pubblico (es. RAI) - tendono a indurre disprezzo, criminalizzazione, ripudio popolare contro persone senza potere o che lo hanno già perduto. Tali reati sono contemplati nel nostro codice penale, come ingiuria (art. 594), falsità (art.493), abuso della credibilità popolare (art.661), diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose (art. 656),diffamazione, più grave se attuata contro “un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una Autorità costituita in collegio” (art.595). La diffamazione è perseguibile a querela della parte offesa e condannabile se basata su falsità e bugie.

Già ma la diffamazione non è uguale per tutti.

Berlusconi: “Diffamazione senza limiti contro di me”. Così riporta il “Fatto Quotidiano”. Prima su "Il Giornale", poi a "La Telefonata" di Maurizio Belpietro: l'ex premier si scaglia contro i magistrati di Milano, a suo dire colpevoli di una "persecuzione giudiziaria" che ha come obiettivo la sua "distruzione". Accuse ai magistrati che lo ‘vogliono distruggere’, plauso a Napolitano che ha invitato i giudici a moderare le loro esternazioni pubbliche. E’ un Silvio Berlusconi "vecchio stile" quello che è tornato ad attaccare la magistratura del Paese. Lo ha fatto prima con una lettera a Il Giornale, poi ribadendo a La Telefonata di Canale5 i concetti espressi nella missiva pubblicata dal quotidiano del direttore Sallusti. ”Ho la coscienza di avere servito in questi anni con tutte le mie forze il Paese e ne sono ripagato con un accanimento da parte di alcuni magistrati che non ha eguali nella storia” ha scritto l’ex presidente del Consiglio sul giornale di famiglia. Berlusconi, inoltre, ha detto di soffrire per essere finito “nell’ingranaggio disumano di una giustizia che sembra non rispondere più alle leggi”, sottolineando la “speranza” che “giudici integerrimi e devoti unicamente alla legge e alla verità decidano in piena coscienza e nel pieno rispetto della realtà dei fatti” dopo che il pm ha chiesto per lui una condanna a 5 anni per il caso Mills. E poi ancora, in ordine sparso: “Si vuole distruggere la mia immagine di uomo, di imprenditore e di politico” e “sono trattato peggio di un delinquente, con accuse che non trovano corrispondenza nei fatti e che sono state smentite nel corso del processo dibattimentale”. “Quello che più mi amareggia in questo momento” ha sottolineato Berlusconi, ribadendo la sua “totale estraneità” a quanto gli viene addebitato, è “constatare fino a che punto la giustizia può essere piegata a pregiudizi di carattere politico e ideologico”. Per motivare questa presa di posizione, l’ex premier ha collegato l’accanimento giudiziario nei suoi confronti dalla decisione di impegnarsi nella vita pubblica, “cercando di trasformare questo Paese”. Decisione che “non mi è mai stata perdonata da tutti quei poteri che si sono visti insidiati nei loro interessi e nelle loro ambizioni”. Per quanto riguarda il processo Mills, poi, l’ex capo del governo a La Telefonata di Belpietro ha parlato di ”persecuzione giudiziaria”, ovvero di una “operazione di diffamazione senza limiti che ha fatto del Tribunale di Milano un tribunale speciale che vuole far fuori Berlusconi dalla politica e distruggerlo come persona”. ”Tutte le prove dimostrano il contrario – ha proseguito il fondatore del Pdl a proposito del processo milanese – perché mai avrei dovuto ringraziare e compensare un signore che proprio per le sue deposizioni è stato determinante per due condanne in primo grado; perché – ha continuato – avrei dovuto pagare seicento milioni di dollari a chi aveva testimoniato contro di me, tutto questo fa a pugni con la logica e le stesse dichiarazioni di Mills”. Poi il ringraziamento a Napolitano, con Berlusconi che ha plaudito all’intervento del Presidente della Repubblica al Csm, il quale ha invitato i giudici ad esternare di meno. 

PARLIAMO DEI TG SATIRICI E DEI PROGRAMMI D'INCHIESTA. FORTI CON I DEBOLI E DEBOLI CON I FORTI?

Partiamo da Striscia la Notizia". Secondo Giovanni Panunzio, fondatore dell'Osservatorio Antiplagio, il programma satirico va a caccia di astrologi, senza però toccare chi compra spazi pubblicitari sul teletex di Mediaset. Condannato in primo grado per diffamazione, è stato assolto in appello. E ora finisce nei guai il Gabibbo: per un giudice il pupazzo è uguale a una mascotte americana. Questo è quanto racconta “Il Fatto Quotidiano”. Affollamento di tapiri in tribunale. Sembrava scontato l’epilogo della telenovela tra cacciatori di ciarlatani che va in onda nelle aule di giustizia di mezza Italia a suon di querele e richieste di risarcimento esorbitanti. Da una parte Giovanni Panunzio, insegnante di religione e fondatore dell’associazione Osservatorio Antiplagio che dal 1994 dichiara guerra a sedicenti maghi, astrologi, cartomanti e satanisti. Dall’altra Antonio Ricci e un plotone di avvocati del Biscione mobilitato in difesa del buon nome di Striscia la Notizia, prodotto di punta delle reti di Silvio Berlusconi non meno impegnato sullo stesso fronte. Panunzio e Ricci da dieci anni si fronteggiano in tribunale per stabilire il curioso primato su chi combatte di più i parolai nostrani dell’occultismo. Golia che fa poltiglie di Davide. Stava andando proprio così, con l’insegnante rimasto senza un soldo per far fronte alle spese delle cause piovute da Segrate, ben dieci in dieci anni, e con il quinto dello stipendio (260 euro) pignorato per sette anni su richiesta dei legali del Biscione in attesa della sentenza definitiva in Cassazione. Pochi giorni fa, però, la corte d’Appello di Milano ha segnato un punto a favore del professore. I giudici in primo grado lo avevano condannato per diffamazione aggravata a pagare 500 euro di multa e 5mila euro di risarcimento. Il 15 giugno 2012 i giudici della Prima sezione penale hanno ribaltato quella sentenza e lo hanno assolto con formula piena, provocando lo sgomento della controparte che ha subito annunciato ricorso. La vicenda risale al lontano 16 febbraio 2006. A Milano è in corso il processo a Vanna Marchi. Panunzio è chiamato a deporre perché fin dal 1995 ha presentato 21 esposti in altrettante procure contro la teleimbonitrice più famosa d’Italia che sarà condannata dieci anni dopo, soprattutto grazie al clamore mediatico sollevato dai servizi del programma di Ricci. Durante il suo intervento il professore rivendica la primogenitura sul caso Marchi e si scaglia contro Ricci e la sua squadra accusandoli di usare due pesi e due misure, di perseguitare cioè tutti i ciarlatani d’Italia tranne quelli che fanno inserzioni a pagamento su Mediavideo, pubblicizzati in otre 200 pagine del teletex di Mediaset. “Durante il processo – spiega Panunzio – Ricci ha dichiarato di non essere mai stato a conoscenza di quelle inserzioni commerciali e questo ha indotto il pubblico ministero a darmi ragione”. E ora la guerra riparte, ma ad attaccare è l’ex insegnante che tramite l’avvocato Vittorio Amedeo Marinelli annuncia una rivalsa legale per abuso del diritto, lite temeraria, stalking giudiziario e calunnia. Ricci, contattato da ilfattoquotidiano.it, preferisce non commentare, convinto che il professore sia animato solo dal desiderio di ottenere visibilità. Ma precisa che Striscia non ha fatto sconti a nessuno, che ha messo nel mirino anche la holding più forte di sensitivi e guaritori d’Italia (“Grandi veggenti italiani”) anche quando era pubblicizzata su Pagine Utili, la directory telefonica che fino al 2008 faceva parte di Fininvest. Il programma poi – spiegano i legali di Striscia – non va a caccia di ciarlatani, quando se ne occupa lo fa seguendo circostanziate segnalazioni dei telespettatori. E in ogni caso il ricavato degli asseriti danni, in caso di condanna, sarà devoluto in beneficenza. Ma per Striscia non è l’unica spina giudiziaria conficcata nel fianco dall’ex insegnante. In tribunale infatti continua l’Sos Gabibbo. Panunzio segnalò per primo la straordinaria somiglianza tra il pupazzo di Ricci e la mascotte Usa “Big Red”, attirando così la curiosità degli americani che da tempo ne rivendicano paternità e diritti (intorno al suo personaggio è nato un vero e proprio mercato che spazia dalla linea di oggetti per la scuola, ai gioielli “Mondo Gabibbo” sino ad arrivare ai costumi di carnevale che lo raffigurano). Nel 2003 la Western Kentucky University ha fatto causa a Mediaset-RTI e a Giochi Preziosi per 250 milioni di dollari, sostenendo che il pupazzo fosse copiato dalla mascotte dell’università. In due gradi di giudizio Ricci l’aveva spuntata, ma il 6 aprile 2012 il giudice Paola Maria Gandolfi di Milano ha dato ragione, in un’altra causa, all’ex studente americano che avrebbe creato il vero Gabibbo nel 1979, ben 11 anni prima che la mascotte calcasse gli studi di Cologno Monzese con la sua inconfondibile inflessione genovese. Mediaset ha annunciato appello d’urgenza contro la sentenza chiedendo (e ottenendo) la “sospensione immediata dei suoi effetti”. Il giudice, contattato nelle scorse settimane, non ha voluto fornire notizie sullo sviluppo del procedimento in corso né confermare il valore del contenzioso. C’è un ultimo risvolto curioso nella strana guerra tra cacciatori di maghi. Per avere ragione in tribunale Rti e Mediaset hanno schierato i migliori legali sulla piazza (che poi sono quelli di Silvio Berlusconi). Spiccano, su tutti, Leandro Cantamessa Stefano Longhini. Quando Cantamessa chiede il quinto dello stipendio al Panunzio, ad esempio, mette in calce i nomi di ben dieci colleghi associati allo studio di via Montenapoleone 3. Da 27 anni lui è il legale del Milan e si occupa di questioni milionarie legate ai contratti dei calciatori rossoneri. Si materializza però personalmente anche nell’aula del Tribunale di Arezzo pur di avere ragione di Panunzio in un procedimento civile da 50mila euro. Cantamessa nel suo ambiente è soprannominato “l’avvocato del Diavolo”, non solo per il Milan ma anche per via della sua personalissima passione per l’astrologia: a 12 anni collezionava volumi rari e oggi ne ha oltre 5mila; nel 2007 ha scritto perfino un’opera omnia su 500 anni di culto astrologico (dal 1472 al 1900). Insomma, un esperto e bibliofilo della materia. Così il cacciatore pubblico di astrologi e il loro massimo cultore privato si sono trovati insieme in un’aula di tribunale. Uno contro l’altro. Se non è magia questa. D'altronde sul portale dell’Associazione European Consumers, di cui  è proprio presidente l’avvocato Vittorio Amedeo Marinelli che difende Panunzio  per la rivalsa legale si leggono le motivazione della sentenza di assoluzione. La Corte d'Appello di Milano ha reso pubbliche le motivazioni della sentenza di secondo grado del 15 giugno 2012 che, accogliendo totalmente le richieste della difesa, rappresentata dall'avv. Stefania Farnetani, ha assolto Giovanni Panunzio, fondatore di Osservatorio Antiplagio, dall'accusa di aver diffamato Antonio Ricci, assistito dall'avv. Salvatore Pino. Il 16 febbraio 2006 Panunzio aveva affermato, riferendosi all'autore di Striscia la notizia e alle sue battaglie contro i ciarlatani: "Bisogna bacchettare anche quelli di Mediaset, di Mediavideo. Bisogna bacchettarli, quelli voi non li bacchettate mai. I maghi di Mediavideo non li toccate mai. Tu sei scorretto. Usi due pesi e due misure". E in un successivo comunicato il fondatore di Osservatorio Antiplagio aveva aggiunto: "La trasmissione Striscia si dimentica di denunciare i ciarlatani appartenenti alla sua parrocchia, pubblicizzati in ben 200 pagine di teletext di Mediaset. Non è azzardato affermare che parte dei compensi degli autori e conduttori di Striscia la notizia deriva dai proventi dei sedicenti maghi". Per i giudici dell'appello il fatto non costituisce reato. "In relazione alla prima frase - scrive la Corte - la stessa non ha la minima valenza diffamatoria. Essa indica come la trasmissione televisiva, oggetto del giudizio del Panunzio, segua un criterio nella scelta dei propri obiettivi non del tutto uniforme, essendo evidente ed incontestabile che la medesima aggressività usata da "Striscia" nei confronti di alcuni obiettivi (tra cui, appunto, Vanna Marchi), non è stata usata nei confronti di altre situazioni e/o persone non meno suscettibili del medesimo interesse". In relazione alla seconda frase, la Corte d'Appello ritiene che: "L'espressione "non è azzardato affermare che parte dei compensi degli autori e conduttori di Striscia la notizia deriva dai proventi dei sedicenti maghi" è stata scritta a conclusione di un ragionamento, ove si dà conto dell'immenso ammontare degli introiti dei proventi pubblicitari derivanti dagli annunci di centinaia di soggetti del medesimo livello e "rango" della Marchi e soci, proventi che oggettivamente vanno ad integrare i bilanci dell'impresa da cui dipendono gli odierni querelanti o, comunque, dalla quale questi ricevono i loro compensi: si che l'associazione tra questi compensi e le varie "fonti", tra cui anche quella rappresentata dalla pubblicità dei "ciarlatani" - che, peraltro, non risulta "Striscia" abbia mai censurato - appare tutt'altro che diffamatoria, ed espressa all'interno di un giudizio critico corretto per continenza e pertinenza, in relazione ai principi elaborati dalla Giurisprudenza in materia di libertà di espressione". Secondo la Corte, inoltre: "Appare decisamente temeraria la querela proposta e contraddittoria nel suo "animus", rispetto a quella "aggressività" nei metodi, ed estrema libertà di opinioni, che l'autore di Striscia la notizia ed i suoi collaboratori hanno sempre ritenuto doveroso rivendicare a se stessi, come se però metodi analoghi e contenuti non meno critici fossero preclusi a soggetti diversi da loro". Per i giudici di secondo grado: "Se l'argomento rispetta il criterio della verità del fatto da cui muove la critica e se sussiste l'interesse sociale a conoscerla, è consentita dall'ordinamento l'esposizione di opinioni personali lesive dell'altrui reputazione una volta che l'agente abbia esposto il suo pensiero con linguaggio misurato. Nel caso di specie il Panunzio si è sicuramente mosso all'interno di tale perimetro". Nella sentenza infine si dice che il Gip, d.ssa Clementina Forleo, aveva imposto "del tutto immotivatamente" al PM, che aveva chiesto l'archiviazione, l'imputazione a carico del Panunzio, e che l'espressione "venduto e prezzolato" riferita al Ricci non era del Panunzio, che non l'ha mai pronunciata, ma del Giudice di primo grado, d.ssa Paola Braggion, che l'ha riportata "inopinatamente" nella sentenza. E dire che proprio per aver pubblicato notizie riferite al complotto ordito nei confronti del giudice Clementina Forleo i suoi colleghi brindisini hanno perseguito io dr Antonio Giangrande per violazione della Privacy ed oscurato il sito web dell'Associazione Contro Tutte le Mafie.

Proprio quella Clementina Forleo che scriveva a Luigi De Magistris. Lettera aperta di Clementina Forleo, gip di Cremona, all’ex pm di Catanzaro ora eurodeputato IdV rinviato a giudizio per omissione di atti d’ufficio (non aver indagato su altri magistrati di Lecce e di Potenza denunciati da una vittima dell’usura). Carlo Vulpio pubblica questa lettera aperta di Clementina Forleo, apparsa anche sul blog del destinatario della medesima, seminascosta tra una decina di commenti, perché aiuta tutti, ma proprio tutti, a capire molte, ma molte cose. A parte il “Caro Luigi”, sono naturalmente d’accordo sull’intero contenuto della lettera della dottoressa Forleo. "Caro Luigi, non scendo nel merito della vicenda processuale che ti riguarda. Mi auguro che tu possa uscirne indenne e sono d’accordo con te – a prescindere da tale accadimento – nel concludere che quando si pestano, per amore del proprio dovere, troppi calli ci si espone a ritorsioni di ogni tipo. Ti chiedo:

1) quanto vale per te, non credi debba valere per tutti? O la tesi, giusta o errata che sia, del complotto o della mera individuale ritorsione di qualche magistrato “poco serio” vale solo per alcuni?

2) sono solo i magistrati massoni o ufficialmente (ossia per la cronaca) “incriccati” ad essere i nemici delle persone perbene?

Come ben sai, dopo averti disinteressatamente difeso ad Annozero – ma in realtà dopo aver pestato i calli di signorotti che ben conosci – non solo sono stata esiliata in quel di Cremona (bella cittadina, per carità) e privata di ogni forma di protezione personale nonostante numerosissime minacce seguite puntualmente da episodi inquietanti, ma sono anch’io stata oggetto di procedimenti disciplinari e penali (che mai mi avevano sfiorato nella mia vita e nella mia carriera, sempre definita da “ottimo magistrato”), nei quali mi sono difesa e mi sto difendendo con non pochi disagi anche economici per me e per la mia famiglia. Nel mio caso la massoneria purtroppo, se c’entra, c’entra poco o quantomeno c’entra in parte (diciamo anche a metà). A volere la mia morte civile e il mio isolamento – come del resto quelli di Carlo Vulpio (che continuo a difendere disinteressatamente, sperando di non venire anche in tal caso delusa) – non sono state o non sono solo state – le cricche e cricchette cui ti riferisci. Sai bene chi mi ha voluto infliggere il colpo mortale:

squallidi personaggi politici che si oppongono al Caimano solo per brama di potere, ma che per la loro ipocrisia mi fanno ancora più paura;

insigni magistrati di correnti di “sinistra” che non sono diversi – lo sai bene – di quelli di “destra”, con la differenza che non si vergognano a sventolare la Costituzione che calpestano ogni giorno quando tocca inaugurare l’anno giudiziario, con farse che dovrebbero riguardare altre categorie. Basti pensare al dottor Bruti Liberati, ad esempio, leader della corrente Magistratura Democratica (si chiama ancora così?). Quello stesso Bruti Liberati nominato Procuratore di Milano con voti bipartisan, come “profetizzato” dalla signora Tinelli (Pd) in una nota telefonata, che è sempre lo stesso Bruti Liberati per il quale giorni fa in Questura non è successo nulla, e che dovrà prima o poi anche spiegare ufficialmente, qualunque sia la mia sorte:

a) da chi ricevette nel marzo 2008 le carte che arrivarono dal Parlamento relative al senatore Latorre;

b) perchè non me le si trasmise nell’immediatezza;

c) perchè le rispolverò, unitamente agli altri membri del pool proprio il 29.7.2008, trasmettendole al mio ufficio per decidere “con urgenza” quando casualmente ero assente per pochi giorni e – guarda caso – il giorno prima che venisse depositato il parere sulla mia professionalità, in cui un altro magistrato della stessa corrente (dopo essere stato peraltro pescato con le mani nella marmellata nell’interferire con le mie funzioni) dava atto del mio “deficit di equilibrio”, venendo subito promosso a Presidente di Sezione. Seguivano, inutile dirlo, promozioni di tutti i protagonisti della rocambolesca vicenda, con la quale, effettivamente, ero e sono – per la mia serietà e il mio rigore – “incompatibile”. Come vedi, dunque, non è solo un problema “tuo” quello di difendersi a vita per essere stati “scomodi”. Con l’amara differenza che nel mio caso, come nel caso di Carlo Vulpio, gli attacchi di cui parli – come i vergognosi e omertosi silenzi sugli stessi – vengono proprio da persone con cui hai preso ad accompagnarti e da ambienti che hai preso a reputare “amici”. Clementina"

Altra chicca su come si fa giornalismo d’inchiesta viene dalla polemica tra Paolo Barnard e Milena Gabanelli entrambi cofondatori di “Report” su Rai 3. Posizioni riportare sul sito web di Paolo Barnard.

"Cari amici e amiche impegnati a dare una pennellata di decenza al nostro Paese, eccovi una forma di censura nell'informazione di cui non si parla mai. E' la peggiore, poiché non proviene frontalmente dal Sistema, ma prende il giornalista alle spalle. Il risultato è che, avvolti dal silenzio e privi dell'appoggio dell'indignazione pubblica, non ci si può difendere. Questa censura sta di fatto paralizzando l'opera di denuncia dei misfatti sia italiani che internazionali da parte di tanti giornalisti 'fuori dal coro'. Si tratta, in sintesi, dell'abbandono in cui i nostri editori spesso ci gettano al primo insorgere di contenziosi legali derivanti delle nostre inchieste 'scomode'. Come funziona e quanto sia pericoloso questo fenomeno per la libertà d'informazione ve lo illustro citando il mio caso. Si tratta di un fenomeno dalle ampie e gravissime implicazioni per la società civile italiana, per cui vi prego di leggere fino in fondo il breve racconto. Per la trasmissione Report di Milena Gabanelli, cui ho lavorato dando tutto me stesso fin dal primo minuto della sua messa in onda nel 1994, feci fra le altre un'inchiesta contro la criminosa pratica del comparaggio farmaceutico, trasmessa l'11/10/2001 ("Little Pharma & Big Pharma"). Col comparaggio (reato da art.170 leggi pubblica sicurezza) alcune case farmaceutiche tentano di corrompere i medici con regali e congressi di lusso in posti esotici per ottenere maggiori prescrizioni dei loro farmaci, e questo avviene ovviamente con gravissime ripercussioni sulla comunità (il prof. Silvio Garattini ha dichiarato: "Dal 30 al 50% di medicine prescritte non necessarie") e spesso anche sulla nostra salute (uno dei tanti esempi è il farmaco Vioxx, prescritto a man bassa e a cui sono stati attribuiti da 35 a 55.000 morti nei soli USA). L'inchiesta fu giudicata talmente essenziale per il pubblico interesse che la RAI la replicò il 15/2/2003. Per quella inchiesta io, la RAI e Milena Gabanelli fummo citati in giudizio il 16/11/2004 da un informatore farmaceutico che si ritenne danneggiato dalle rivelazioni da noi fatte. Il lavoro era stato accuratamente visionato da uno dei più alti avvocati della RAI prima della messa in onda, il quale aveva dato il suo pieno benestare. Ok, siamo nei guai e trascinati in tribunale. Per 10 anni Milena Gabanelli mi aveva assicurato che in questi casi io (come gli altri redattori) sarei stato difeso dalla RAI, e dunque di non preoccuparmi. La natura dirompente delle nostre inchieste giustificava la mia preoccupazione. Mi fidai, e per anni non mi risparmiai nei rischi. All'atto di citazione in giudizio, la RAI e Milena Gabanelli mi abbandonano al mio destino. Non sarò affatto difeso, mi dovrò arrangiare. La Gabanelli sarà invece ampiamente difesa da uno degli studi legali più prestigiosi di Roma, lo stesso che difende la RAI in questa controversia legale. Ma non solo. La linea difensiva dell'azienda di viale Mazzini e di Milena Gabanelli sarà di chiedere ai giudici di imputare a me, e solo a me (sic), ogni eventuale misfatto, e perciò ogni eventuale risarcimento in caso di sentenza avversa. E questo per un'inchiesta di pubblico interesse da loro (RAI-Gabanelli) voluta, approvata, trasmessa e replicata. (la RAI può tecnicamente fare questo in virtù di una clausola contenuta nei contratti che noi collaboratori siamo costretti a firmare per poter lavorare, la clausola cosiddetta di manleva, dove è sancita la sollevazione dell'editore da qualsiasi responsabilità legale che gli possa venir contestata a causa di un nostro lavoro. Noi giornalisti non abbiamo scelta, dobbiamo firmarla pena la perdita del lavoro commissionatoci, ma come ho già detto l'accordo con Milena Gabanelli era moralmente ben altro, né è moralmente giustificabile l'operato della RAI in questi casi). Sono sconcertato. Ma come? Lavoro per RAI e Report per 10 anni, sono anima e corpo con l'impresa della Gabanelli, faccio in questo caso un'inchiesta che la RAI stessa esibisce come esemplare, e ora nel momento del bisogno mi voltano le spalle con assoluta indifferenza. E non solo: lavorano compatti contro di me. La prospettiva di dover sostenere spese legali per anni, e se condannato di dover pagare cifre a quattro o cinque zeri in risarcimenti, mi è angosciante, poiché non sono facoltoso e rischio perdite che non mi posso permettere. Ma al peggio non c'è limite. Il 18 ottobre 2005 ricevo una raccomandata. La apro. E' un atto di costituzione in mora della RAI contro di me. Significa che la RAI si rifarà su di me nel caso perdessimo la causa. Recita il testo: "La presente pertanto vale come formale costituzione in mora del dott. Paolo Barnard per tutto quanto la RAI s.p.a. dovesse pagare in conseguenza dell'eventuale accoglimento della domanda posta dal dott. Xxxx (colui che ci citò in giudizio) nei confronti della RAI medesima". Nel leggere quella raccomandata provai un dolore denso, nell'incredulità. Interpello Milena Gabanelli, che si dichiara estranea alla cosa. La sollecito a intervenire presso la RAI, e magari anche pubblicamente, contro questa vicenda. Dopo poche settimane e messa di fronte all'evidenza, la Gabanelli tenta di rassicurarmi dicendo che "la rivalsa che ti era stata fatta (dalla RAI contro di me) è stata lasciata morire in giudizio... è una lettera extragiudiziale dovuta, ma che sarà lasciata morire nel giudizio in corso... Finirà tutto in nulla." Non sarà così, e non è così oggi: giuridicamente parlando, quell'atto di costituzione in mora è ancora valido, eccome. Non solo, Milena Gabanelli non ha mai preso posizione pubblicamente contro quell'atto, né si è mai dissociata dalla linea di difesa della RAI che è interamente contro di me, come sopra descritto, e come dimostrano gli ultimi atti del processo in corso. Non mi dilungo. All'epoca di questi fatti avevo appena lasciato Report, da allora ho lasciato anche la RAI. Non ci sarà mai più un'inchiesta da me firmata sull'emittente di Stato, e non mi fido più di alcun editore. Non mi posso permette di perdere l'unica casa che posseggo o di vedere il mio incerto reddito di freelance decimato dalle spese legali, poiché abbandonato a me stesso da coloro che si fregiavano delle mie inchieste 'coraggiose'. Questa non è una mia mancanza di coraggio, è realismo e senso di responsabilità nei confronti soprattutto dei miei cari. Così la mia voce d'inchiesta è stata messa a tacere. E qui vengo al punto cruciale: siamo già in tanti colleghi abbandonati e zittiti in questo modo. Ecco come funziona la vera "scomparsa dei fatti", quella che voi non conoscete, oggi diffusissima, quella dove per mettere a tacere si usano, invece degli 'editti bulgari', i tribunali in una collusione di fatto con i comportamenti di coloro di cui ti fidavi; comportamenti tecnicamente ineccepibili, ma moralmente assai meno. Questa è censura contro la tenacia e il coraggio dei pochi giornalisti ancora disposti a dire il vero, operata da parte di chiunque venga colto nel malaffare, attuata da costoro per mezzo delle minacce legali e di fatto permessa dal comportamento degli editori. Gli editori devono difendere i loro giornalisti che rischiano per il pubblico interesse, e devono impegnarsi a togliere le clausole di manleva dai contratti che, lo ribadisco, siamo obbligati a firmare per poter lavorare. Infatti oggi in Italia sono gli avvocati dei gaglioffi, e gli uffici affari legali dei media, che di fatto decidono quello che voi verrete a sapere, giocando sulla giusta paura di tanti giornalisti che rischiano di rovinare le proprie famiglie se raccontano la verità. Questo bavaglio ha e avrà sempre più un potere paralizzante sulla denuncia dei misfatti italiani a mezzo stampa o tv, di molto superiore a quello di qualsiasi politico o servo del Sistema. Posso solo chiedervi di diffondere con tutta l'energia possibile questa realtà, via mailing lists, siti, blogs, parlandone. Ma ancor più accorato è il mio appello affinché voi non la sottovalutiate. In ultimo. E' assai probabile che verrò querelato dalla RAI e dalla signora Gabanelli per questo mio grido d'allarme, e ciò non sarà piacevole per me. Hanno imbavagliato la mia libertà professionale, ma non imbavaglieranno mai la mia coscienza, perché quello che sto facendo in queste righe è dire la verità per il bene di tutti. Spero solo che serva. Grazie di avermi letto. Paolo Barnard"

Replica la Gabanelli. "Ogni azienda, giornale o tv fornisce l'assistenza legale (ovvero paga l'avvocato) ai propri dipendenti, non ai collaboratori. Quando abbiamo iniziato (1997)nessuno di noi si era posto il problema, che invece abbiamo affrontato quando sono arrivate le prime cause (2000). Si trattava di querele per diffamazione. La sottoscritta e il direttore di allora chiedemmo assistenza legale e ci fu concessa. Fatto che si verificò in tutti i successivi procedimenti penali. Le prime cause civili arrivarono nel 2004, e lì scoprimmo che invece non ci sarebbe stata copertura legale. La tutela veniva fornita a me in virtù del contratto di collaborazione con la rai, ma "a discrezione", ovvero dovevo presentare una memoria difensiva con la quale dimostravo, punto per punto, di aver agito bene. Non avendo l'autore del servizio nessun contratto di collaborazione con la rai (poichè vende il pezzo), si assume i rischi in caso di richiesta di risarcimento danni. La realtà era questa: o prendere, o lasciare. Gli autori furono messi a conoscenza della questione e tutti decisero di continuare "l'avventura" con Report. Con tutte le angosce del caso, ma a dominare è stata la convinzione di tutti noi che lavorando bene alla fine le cause si vincono e il soccombente dovrà pure pagare le spese. Da parte mia ho iniziato una lunga battaglia per poter avere ciò che nessuna azienda normalmente fornisce ai non dipendenti: l'assistenza di un avvocato in caso di causa civile (nel penale, come ho già detto, ci è stata fornita fin dall'inizio). Dal 2004 in poi la tendenza è stata quella di farci prevalentemente cause civili, con tutto quel che ne consegue in termini di stress, tempo che perdi, e paure che ti assalgono. E' bene sapere che quando si va in giudizio ognuno risponde per la parte che gli compete: gli autori rispondono del loro pezzo, la sottoscritta per tutti i pezzi (in qualità di responsabile del programma), la rai in quanto network che diffonde la messa in onda. Qualora il giudice dovesse stabilire che c'è stato dolo da parte dell'autore, a pagare saranno tutti i soggetti coinvolti (la rai, la sottoscritta, l'autore). E questo vale per tutti, anche i dipendenti. La differenza è che prima di arrivare alla sentenza nessuno ti paga l'avvocato. Nel 2007 le cause arrivano ad un numero talmente elevato che passo più tempo a difendere me e i miei colleghi che non a lavorare. Ma a luglio 2007 il direttore generale Cappon chiede all'ufficio legale della rai di garantire la piena assistenza legale a tutti gli autori di Report. Questo non ci toglie le ansie (finchè non c'è una sentenza non sai di che morte muori), però almeno sai che alle tue spalle c'è un'azienda che ha riconosciuto il valore del tuo lavoro e ti paga l'avvocato. E' stato difficile ottenere questo risultato, ma c'è stato e questo è oggi quello che conta. Certo, se su ogni puntata vieni trascinato in tribunale, alla fine può darsi che lasci la partita perchè non riesci più a reggere fisicamente. Ma questo non è colpa della rai di turno, bensì di un sistema giudiziario che permette a chiunque di fare cause pretestuose, senza che ci sia a monte un filtro (come avviene invece nelle cause penali) che valuti l'eventuale inconsistenza della causa stessa. Paolo Barnard. E' un professionista che stimo molto, ma purtroppo l'incompatibilità ad un certo punto era diventata ingestibile, e così a fine 2003 le strade si sono separate. Per quel che riguarda la questione legale che lo coinvolge, sono convinta della bontà della sua inchiesta e penso che alla fine ci sarà una sentenza favorevole. Ci credo al punto tale da aver firmato a suo tempo un atto (che lui possiede e pure il suo avvocato) nel quale mi impegno a pagare di tasca mia anche la parte sua in caso di soccombenza. Non saprei che altro fare. Non ho il potere di cambiare le regole di un'azienda come la Rai, credo di aver fatto tutto quello che è nelle mie modeste capacità. Il lavoro che io e gli altri colleghi di report abbiamo deciso fin qui di fare non ce lo ha imposto nessuno. E' un mestiere complesso che comporta molti rischi, anche sul piano personale. Si può decidere di correrli oppure no, dipende dalla capacità di tenuta, dal carattere e dagli obiettivi che ognuno di noi si da nella vita. Il resto sono polemiche che non portano da nessuna parte e sottraggono inutilmente energie. Un caro saluto a tutti. Milena Gabanelli".

La storia vera delle finte radio di partito raccontata da Paolo Soglia su “Il Corriere della Sera”. Ucciderne mille per mantenerne sei: il Governo ha tagliato i rimborsi previsti per le radio locali ma continua a regalare milioni alle cosiddette radio “di partito”. Contributi diretti, che arrivano al 70% delle spese messe a bilancio. Molto si è parlato delle ruberie perpetrate dai finti giornali di partito: per accedere ai contributi bastavano uno o due parlamentari compiacenti che dichiarassero (solo sulla carta) di rappresentare un movimento fittizio poi, come per incanto, compariva un giornale che ne diventava “organo” intascando i rimborsi. La legge editoria però prevede che i contributi possano essere: “corrisposti alternativamente per un quotidiano, un periodico o un'impresa radiofonica..”. Quando per i giornali venne abrogata la possibilità di ricevere i contributi col giochino del deputato disponibile, ci si dimenticò di fare lo stesso per il settore radio-tv. Nel 2007 il claudicante Governo Prodi pensò di intervenire stabilendo che anche le radio dovevano quantomeno: “essere organi di partiti politici che abbiano il proprio gruppo parlamentare in una delle Camere o due rappresentanti nel Parlamento europeo, eletti nelle liste di movimento…”. Subito dopo, però, ecco arrivare il salvagente per i furbetti. Nella stessa legge si stabilisce infatti che le emittenti “di partito” già inserite in graduatoria: “continuano a percepire in via transitoria con le medesime procedure i contributi stessi, fino alla ridefinizione dei requisiti di accesso”. Insomma, per chi ha già intascato continua la cuccagna e sparisce addirittura la scocciatura di cercarsi un onorevole che di anno in anno firmi la dichiarazione da allegare alla domanda.
In via transitoria, si capisce, d’altronde in Italia nulla è più stabile del transitorio…Dal 2004 al 2009 i contribuenti italiani hanno versato nelle casse di sei radio “di partito” circa 60 milioni di euro. In cima al podio, tra i fortunati vincitori della lotteria (sempre gli stessi) c’è Radio Radicale, voce della lista di “Marco Pannella”. Oltre alle decine di milioni erogati per un servizio di diretta parlamentare che fa pure la Rai, riceverà anche quest’anno più di 4 milioni di euro. Le radio di partito “verosimili", diciamo così, sarebbero finite qui: esiste anche Radio Padania ma i leghisti, gente accorta, preferiscono incassare i contributi per il giornale “La Padania” che costa ben di più… A seguire troviamo Ecoradio, un’invenzione dei Verdi di Pecoraro Scanio che entra nel club grazie alle firme dei deputati ambientalisti Cento e Lion a nome del “Movimento politico Italia e libertà”. I verdi si sfaldano, non così la scatola da soldi che passa a tal Marco Lamonica, proprietario di Ecomedia Spa, “voce” del movimento “ComunicAmbiente” (e chi non lo conosce…) che sta per incassare 3 milioni e 274 mila euro. Tra i deputati che si sono alternati negli anni a metter la firma per garantire i finanziamenti a Ecoradio troviamo Massimo Fundarò (Verdi), Cinzia Dato (Ulivo), Mauro Libè (Udc) e Sandro Gozi (Pd). In sei anni Ecomedia Spa ha portato a casa ben 18 milioni e 445 mila euro. Le spese di Ecoradio sono aumentate negli anni a dismisura: non così gli occupati che anzi son calati drasticamente. Dulcis in fundo, l’anno scorso il giudice del Lavoro ha condannato Ecomedia per comportamento antisindacale. Insomma, soldi spesi bene…Ottima performance anche per Radio Città Futura di Roma. L’ex emittente della sinistra extraparlamentare dopo tante vicissitudini è finita da alcuni anni nell’orbita di una nota agenzia di stampa radiofonica, storicamente vicina al Pd. Magicamente è diventata anche organo del movimento “Roma idee”. I rimborsi sono lievitati dai 366 mila euro del 2004 ai 2 milioni e 182 mila euro nel 2009. Tutto reso possibile dalle firme pesanti date a suo tempo da due nomi grossi del Pd, Goffredo Bettini e Nicola Zingaretti. La rappresentanza del movimento “Roma Idee” ha fruttato a Rcf in sei anni oltre 10 milioni di euro. Quel movimento ovviamente esiste solo sulla carta, ma come idea per intascare soldi dallo Stato non è niente male…A metà classifica, con 496 mila euro, troviamo Radio Veneto 1 di Treviso di proprietà di Tr.ad Sas di tal Roberto Ghizzo, rappresentante del movimento “Liga fronte veneto nord-est Europa”. A “garantire” in questo caso sono prima il parlamentare leghista Antonio Serena e poi Simonetta Rubinato (Pd). Quasi lo stesso importo prende Radio Galileo di Terni, gestita dall’omonima cooperativa, che si è dichiarata "organo" di “Cittaperta” per gentile concessione del senatore Pd Leopoldo Di Girolamo. I contribuenti per finanziare questi famosissimi movimenti politici hanno già staccato un assegno rispettivamente di 3 milioni 227 mila euro e 2 milioni 412 mila euro. L’ultima ruota del carro è Radiondaverde di Cremona diventata organo del movimento “A viva voce” grazie alle firme dei deputati ulivisti Lucia Codurelli e Daniele Marantelli. Per il 2009 prenderà 170 mila euro. Poveretti, una vera e propria elemosina, che comunque negli anni ha fruttato un gruzzoletto di quasi un milione di euro. Piccolo neo: a dicembre 2010 il Gip Guido Salvini, nell’ambito di un’inchiesta su una megatruffa perpetrata da alcuni editori emiliani e lombardi sui contributi editoria, ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare anche per l’amministratrice di Radiondaverde Raffaella Storti. Accusa successivamente archiviata e i soldi continuano ad arrivare…Ora il Governo Monti ha abbassato la percentuale del rimborso alle (finte) radio di partito dal 70% al 40% (che può però arrivare al 50% se hanno poca pubblicità). Bene, anzi male, malissimo. Vorrà dire che invece di regalare dieci milioni di euro all’anno ne regaleranno "solo" sette. Altro che spending review, i tecnici adottano la stessa linea di Tremonti: tagli lineari che limano i contributi a questi sedicenti “organi”, ma non mettono minimamente in discussione la legittimità a riceverli. Sarebbe invece il momento di presentare il conto, destinando risorse solo agli aventi diritto e non a chi prospera sfruttando amicizie politiche, costi quel che costi, anche al prezzo di ambiguità, compromessi, o veri e propri sotterfugi.

Roma, 10 maggio 2012. “La Corte di Cassazione annulla senza rinvio perchè il fatto non sussiste”. Alle ore 19 e 30 le Parole del Presidente della terza sezione della Cassazione risuonano nell’aula oramai vuota del Palazzaccio. Il Supremo Collegio emette cosi una sentenza molto attesa e pone cosi fine a cinque anni di dispute dottrinarie ed infuocati, dibattiti sulla natura dei blog giornalistici  e sulla loro clandestinità in caso di non registrazione presso l’apposito registro delle testate editoriali del Tribunale, assolvendo lo storico e giornalista siciliano Carlo Ruta accusato di diffamazione a mezzo stampa e stampa clandestina. Dunque i blog (anche giornalistici)  non rientrano nei prodotti editoriali della legge sull’editoria, non devono essere registrati e non sono stampa clandestina, quindi non rientrano nemmeno nell'aggravante della diffamazione a mezzo stampa.

La III Sezione della Corte di Cassazione presieduta da Saverio Felice Mannino, con la relazione del magistrato Santi Gazzara e la presenza del sostituto procuratore generale Policastro, ha deciso in udienza pubblica sullo scottante caso degli obblighi di registrazione come testata telematica dei blog e sulla natura di stampa clandestina dei blog non registrati.

No, i blog non sono stampa clandestina. Parola della Cassazione, che con un «rinvio perché il fatto non sussiste» ha raso al suolo una sentenza che se confermata avrebbe potuto distruggere l'Internet italiano. La Corte di Cassazione con sentenza del 10 Maggio 2012 ha sancito che i blog non possono essere «colpevoli» del reato stampa clandestina. Semplicemente perché non sono «stampa». E’ una conclusione ovvia, scontata, normale per chiunque sia figlio di questo secolo ed abbia chiaro che fare informazione non è un privilegio di pochi, né una concessione dello Stato ma una libertà fondamentale di tutti, sancita sin dal 1789 nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è del cittadino. Storica sentenza della Cassazione che sancisce che i blog non sono da considerarsi "stampa clandestina". «È una sentenza che fissa un principio», dice Guido Scorza, avvocato e docente di diritto delle nuove tecnologie. La sentenza dice che non serve procedere alla registrazione della “testata” presso il Tribunale della Stampa per gestire un blog di informazione con la conseguenza che non si configura il reato di “stampa clandestina” previsto dalla vecchia legge sulla stampa.

LIBERTA' - «È una conclusione ovvia, scontata, normale», dice Guido Scorza. In pratica dicendo che non c'è obbligo di registrazione dice che ai blog non sarebbero applicabili le discipline sulla stampa. Prima fra tutti, l'obbligo alla rettifica. Un mannaia sulla libertà dei blogger. Ma in quanto a libertà di informazione, c'è poco da brindare. La sentenza che di certo pone oggi un paletto, potrebbe esse superata da nuove leggi, di cui si parla da mesi. «Questa sentenza, soprattutto non convalidando le precedenti, sgretola l’ennesimo tentativo di imbrigliare l’informazione sul web nella burocrazia pensata oltre mezzo secolo fa per i giornali di carta», dice Guido Scorza.

LA SENTENZA - Il "caso" è quello di un giornalista siciliano, Carlo Ruta, condannato nel 2008 dal tribunale di Modica per il reato di stampa clandestina (pronuncia confermata poi nel 2011 dalla Corte di appello di Catania). Il giornalista curava saltuariamente "Accade in Sicilia", blog impegnato a informare sui fenomeni mafiosi. Ed è proprio per un post pubblicato su "Accade in Sicilia" che un magistrato si era sentito offeso. Tocca tutti ma non toccare loro: lesa maestà, i magistrati. Soggetti che poi trovano sponda nei loro colleghi. E aveva querelato per diffamazione Carlo Ruta. L'uomo, storico, giornalista e autore del blog "Accade in Sicilia", era stato accusato dal procuratore della Repubblica di Ragusa Agostino Fera, che si era dichiarato anche parte lesa sentendosi danneggiato da certi interventi online di Ruta. Il tribunale di Modica, considerando il blog una vera e proprio testata giornalistica (e cioè un “prodotto editoriale” per la legge n. 62/2001, e in quanto “stampa periodica, avrebbe dovuto essere registrato presso il Tribunale competente) lo aveva condannato. Ora la Cassazione, con una sentenza dal valore storico, ha stabilito che un blog non è di per sé un prodotto editoriale e la figura del blogger non è sovrapponibile con quella del giornalista. Nella pratica significa che i blog, e i loro animatori (giornalisti e no), potranno continuare l'attività, senza obbligo di registrare la testa. Un primo passo per una maggiore libertà. Anche se le leggi che riguardano i nuovi media digitali sono tutt'altro che chiare. Il reato di "stampa clandestina" è previsto dalla legge sulla stampa, legge n. 47 dell'8 febbraio 1948, ma era da trent'anni che non portava ad una condanna: nonostante questo il primo(risalente al 2008) e secondo grado di giudizio avevano finora ritenuto colpevole Carlo Ruta, che era stato condannato a pagare un'ammenda di 150 euro e a subire il sequestro del suo blog, chiuso nel 2004.

Scherza con i fanti e lascia stare i Santi.

Mai dimenticare la saggezza dei proverbi! Come quello che dice «scherza coi fanti ma lascia stare i santi» e che dovrebbe mettere in guardia dalla difficoltà di raccontare (e rappresentare) adeguatamente la verità storica sui fatti di cronaca che diventeranno storia. Da piccolo mia madre mi ripeteva spesso questa massima popolare “Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi” e come tutte le massime anche questa contiene una filosofia spicciola, ma vitale; ciò che è “Santo” deve essere rispettato.

Vuoi fare satira sul Presidente del Consiglio o sui parlamentari o sui politici eletti dal popolo? Lo puoi fare.

Vuoi offendere a piacimento il Presidente del Consiglio ed i parlamentari o i politici eletti dal popolo? Lo puoi fare.

Puoi criticare l'operato del magistrato, che palesa pecche ed illogicità, foriero di errori giudiziari, ingiuste detenzioni, omessa giustizia e comunque evidente ingiustizia, esercitato nella veste di funzionario pubblico che ha vinto un concorso all'italiana? No. E' lesa maestà!!

Per questo chi santifica i magistrati e pende dalle loro labbra o dalle loro veline, vigendo l’impunità per loro riguardo la violazione del segreto di ufficio, è immune da qualsivoglia ritorsione.

Non è così per chi, invece, decide di raccontare i fatti al di là della verità giudiziaria e della cultura ideologica imperante. Esercitare in Italia il diritto di critica e di cronaca è pericoloso.

Antonio Giangrande, scrittore ed autore della collana editoriale “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo” è subissato di denunce per diffamazione a mezzo stampa e qualcuna, anche, per calunnia da parte di quei magistrati un po’ permalosi e megalomani che si sentono lesi nella loro maestà. Diffamazione attribuita al Giangrande per articoli scritti da altri e pubblicati autonomamente anche da giornali esteri (fino in Sud Africa) riferiti all'orinaria malagiustizia italiana o a risibili motivazioni di archiviazioni di denunce penali. Molti di questi magistrati sono gli stessi che hanno insabbiato le denunce di Giangrande contro i loro colleghi magistrati che insabbiano in terra di mafia. Peccato però che nessuna condanna sia conseguita, in quanto i medesimi denuncianti mai si sono presentati in udienza, causando il naturale proscioglimento.

Ma questo non è un fatto isolato e riferibile esclusivamente a chi è emarginato per il sol fatto che racconta ciò che vede e per questo accusato di mitomania o pazzia.

In giro ci sono altri mitomani o pazzi.

Da “La Stampa”: Rinviata a giudizio per aver criticato il primo pm che indagò sulla morte violenta del figlio. Eppure, non fosse stato per la sua ostinazione di madre, forse le indagini sulla fine di Federico Aldrovandi si sarebbero impantanate in quell’incredibile versione ufficiale per cui il ragazzo era deceduto in seguito all’assunzione di droghe, durante un controllo di polizia particolarmente movimentato. Invece Patrizia Moretti non si arrese, aprì un blog che attirò l’attenzione di tutta l’Italia sulla vicenda e di fatto riuscì a imprimere una svolta decisiva all’inchiesta: quattro poliziotti furono poi condannati in primo grado per eccesso colposo in omicidio colposo del giovane 18enne, morto per le botte prese mentre era ammanettato a terra. Non solo, lo Stato ha riconosciuto alla famiglia un risarcimento danni da due milioni di euro in cambio dell’impegno a non costituirsi parte civile.

Ma ora, il gup del tribunale di Mantova ha deciso di processare la madre di Federico per diffamazione a mezzo stampa. Insieme a lei sono stati rinviati a giudizio due giornalisti e il direttore del quotidiano La Nuova Ferrara. E così, con una capriola che ha il sapore del paradosso giudiziario la donna che era riuscita a ottenere giustizia per suo figlio ora si ritrova lei a subire un processo. La frase che le è costata l’incriminazione, pronunciata nel gennaio 2006 quattro mesi dopo la morte di Federico, quando le indagini ancora languivano, è questa: «È un fascicolo ancora vuoto». Patrizia Moretti si prepara a una nuova battaglia in tribunale: «Non avrei mai immaginato di ritrovarmi imputata per aver criticato chi non aveva fatto le prime indagini sulla morte di mio figlio. I giudici hanno deciso per il processo e noi lo faremo, e così come lo avevano fatto a Ferrara a Federico ora lo faremo noi al magistrato che mi ha denunciata». Si chiama Maria Emanuela Guerra la pm che condusse la prima parte dell’inchiesta prima di rinunciare all’incarico e che ha ritenuto lesive quelle dichiarazioni. La Moretti da parte sua non si aspettava né che il magistrato andasse a fondo nella querela né, tantomeno, che ieri il gup decidesse per il rinvio a giudizio: «Abbiamo prodotto documenti che dimostrano che le mie parole sono state dette in tribunale, durante due dei processi per l’omicidio di Federico, e che sono sancite in due sentenze. Eppure il Gup ha disposto il rinvio a giudizio». E’ addolorata ma non ha perde la sua determinazione: «Non mi tiro indietro. Io della dottoressa Guerra non volevo più sentir parlare, ma se mi tira per i capelli ci sarò, e allora dovrà dire lei perché ha aperto il fascicolo solo il 16 gennaio, perché non è andata sul posto e perché non ha sequestrato i manganelli». Il legale della Moretti, Fabio Anselmo, aggiunge che la pm «sarà il nostro principale teste a discarico” e ricorda come, stranamente, il docufilm del giornalista Rai Filippo Vendemmiati – «E’ stato morto un ragazzo», che a maggio sarà anche premiato dal presidente Napolitano -, pur riportando le stesse parole non sia stato oggetto di alcuna denuncia. «Tutto ciò è pazzesco ma a questo punto non vedo l’ora di andare a processo, così verrà fuori tutto quanto – aggiunge la madre di Federico – La cosa che mi dispiace è che l’udienza è stata fissata per il 1˚ marzo 2012…».

Aldrovandi, stampa alla sbarra. Ricordate il ragazzo di 18 anni ucciso da tre poliziotti a Ferrara nel 2005? Il giornale della città aveva sostenuto quella che poi è emersa come la verità, criticando il giudice che aveva fatto le prime, inconcludenti, indagini. E ora il suo direttore è sotto processo. Ecco che cosa scrive al “L’Espresso”.

Dal direttore del quotidiano “La Nuova Ferrara” riceviamo e volentieri pubblichiamo:

Caro direttore, è sempre bello tornare nella propria città. Non sarà così, però, il primo marzo: in Tribunale a Mantova, con alcuni colleghi, sono imputato in un processo per diffamazione. Dove sta la notizia? Il fatto è che siamo alla sbarra per aver dato voce a Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi. Una donna coraggiosa che, grazie al suo blog, ha fatto emergere la verità sulla morte del figlio di 18 anni: non per un'overdose, ma per le conseguenze di un fermo di polizia. Quattro poliziotti sono stati condannati in primo e secondo grado. Ma questa è una guerra che non finisce mai, perché dall'altra parte della barricata c'è una pm, Maria Emanuela Guerra, che ci ha mitragliato di querele ogni volta che la Moretti parlava dell'inchiesta e dei suoi lati oscuri. Ne ho collezionato un pacco, che conservo sulla scrivania. Alla Guerra, prima titolare delle indagini, è stato rimproverato da più parti di non essere andata sul luogo in cui morì Federico il 25 settembre 2005 fidandosi della versione dei poliziotti. Poi abbandonò l'inchiesta, che in mano ad un altro pm, Nicola Proto, subì un'accelerazione decisiva. Nella motivazione della sentenza d'appello di Bologna, il giudice Luca Ghedini scrive tra l'altro:«...Le indagini preliminari? Iniziate nella sostanza vari mesi dopo i fatti e in seguito alla sostituzione del primo pm (la Guerra)». Ma gli aspetti oscuri sono tanti. Tanti giornali e televisioni hanno raccolto le stesse testimonianze, sul caso Aldrovandi è uscito un documentario ("E' stato morto un ragazzo", di Filippo Vendemmiati) che ha vinto il David di Donatello. Ma la Guerra ha querelato sempre e solo noi. Inoltre, in vista dell'udienza penale del primo marzo a Mantova, si è costituita parte civile chiedendo al nostro giornale almeno 300 mila euro per i gravi danni al suo onore e al suo prestigio. Somma che si aggiunge al milione e mezzo di euro che chiede nel processo civile in calendario il 21 marzo al Tribunale di Ancona. Non manca la beffa: oltre al sottoscritto sono imputati il collega Daniele Predieri e un nostro ex collaboratore, Marco Zavagli, che non è l'autore dell'articolo contestato, scritto invece dalla giornalista Alessandra Mura. Un grossolano errore che abbiamo fatto notare nell'udienza preliminare a Mantova, senza successo. Per la Procura è uno pseudonimo. Ma nel mio giornale nessuno ne fa uso, semplicemente hanno scambiato gli autori di due articoli. Il legale della Guerra ha chiesto un rinvio dell'udienza: il primo marzo l'avvocato Flora ha una lezione all'Università di Firenze. Non sappiamo ancora se sarà accolta. Mi chiedo cosa succederebbe in caso di condanna: quello che per due Tribunali (Ferrara e Bologna) è verità, per un altro (Mantova) sarebbe diffamazione. Per la giustizia e la libertà d'espressione sarebbe la fine. Paolo Boldrini, direttore della 'Nuova Ferrara'.

DELLA SERIE: SUBISCI E TACI, SIAMO IN ITALIA, TERRA DI POETI, NAVIGATORI E TIRANNI!!

A proposito di giustizia (omertà) ed informazione (censura), ossia della morale di magistrati e giornalisti, io Antonio Giangrande a chi mi legge non racconto la mia opinione o scrivo delle mie esperienze, in riferimento alle ritorsioni e le censure subite combattendo in prima linea contro i poteri forti. Poteri resi impuniti e coperti da cricche autoreferenziali. Processi senza condanna per diffamazione a mezzo stampa e archiviazioni delle mie denunce. Appunto. A proposito di giustizia ed informazione mi immedesimo nell’esperienza di Carlo Vulpio, che come me si batte in prima linea senza peli sulla penna e faccio mia la sua storia, identica in tutto e per tutto a quello che avrei potuto dire io, ma che proprio i media mi impediscono di farlo. Quei giornalisti che sono amici dei magistrati (e guai a parlar male di loro), o che quando parlo o scrivo di raccomandazioni in generale, quei giornalisti ti dicono: "io non sono raccomandato". Si pensi un po', questi poi con che spirito  scrivono articoli o formano trasmissioni tv in tema di giustizia o di lavoro. Vulpio si rivolge al Direttore de “Il Giornale”, il quale pubblica la lettera, non per lo scandalo in sé, ma solo perché è notoriamente antagonista della sinistra.

“Ecco la cricca di carta che "protegge" Nichi Vendola”. Il racconto di un giornalista attaccato e diffamato dal governatore. Tutte le sue querele contro il presidente pugliese sono state archiviate. «Caro direttore, il vostro articolo che denunciava la «cricca di Vendola», è solo uno dei tanti «incroci pericolosi» che vedono protagonista il governatore pugliese. A me è capitato diverse volte, mio malgrado, di finire al centro di questo incrocio. Due vicende esemplari aiuteranno a capire meglio. La prima. Per il mio giornale, il Corriere della Sera, scrivo che la giunta Vendola incarica un consorzio guidato dal gruppo Marcegaglia di realizzare in Puglia alcune discariche, tra le quali una a ridosso di un sito neolitico. Non vengo querelato, né smentito. Ma quando sul litorale di Brindisi viene trovata una finta bomba con un messaggio di protesta per un depuratore non realizzato, Vendola coglie al balzo l’occasione e a reti (Rai) unificate pronuncia una «fatwa » gravissima: dice in sostanza che il mandante morale di quella bomba sono io. Lo querelo. Ma passano due anni e mezzo e non succede nulla. Presento un esposto alla procura generale di Bari, chiedendo che, come vuole la legge, il caso venga avocato dal procuratore generale a causa dell’inerzia nell’esercizio dell’azione penale da parte del pm a cui era stato assegnato. Improvvisamente, quel pm si fa vivo, tira fuori dal cassetto la querela e dice che deve astenersi perché lei (è una signora) è molto amica di Vendola. Il pm è Romana Pirrelli in Carofiglio (pm anch’egli e senatore Pd). La vicenda finisce dunque sulla scrivania del procuratore capo, Emilio Marzano (ora in pensione, di area Ds), il quale chiede l’archiviazione (ma va?) con una motivazione a dir poco fantastica: «È vero che Vendola ha gravemente diffamato Vulpio dice il procuratore - ma Vulpio lo ha provocato». Sì, hai capito bene, pur non avendo ricevuto querele e smentite, il mio diritto di cronaca e di critica garantito dalla Costituzione è diventato «provocazione». La seconda vicenda si svolge nel pieno dell’inchiesta sui disastri della Sanità pugliese. A Vendola non erano piaciute le cose che avevo scritto sull’argomento. Ma poiché erano cose vere non ha potuto querelarmi, né smentirmi. E allora, interrogato dal pm Desireé Digeronimo, mi tira in ballo senza ragione e con un livore senza eguali, e nonostante sappia bene che sono incensurato, mi definisce «noto diffamatore professionale». L’atto giudiziario viene pubblicato da quasi tutti i giornali e finisce su tutti i siti web. Questa volta, oltre a querelarlo, poiché pure lui è un giornalista, lo deferisco anche all’Ordine dei giornalisti della Puglia. Sì, lo stesso di cui parlate nel vostro articolo, proprio quello presieduto dalla moglie del capo di gabinetto di Vendola. L’Ordine,esaminati gli atti, archivia. Avrebbe fatto lo stesso a parti invertite, se fossi stato io a definire Vendola «noto diffamatore professionale »? Ah, saperlo... In ogni caso, c’è sempre la querela. Di cui si occupa il procuratore aggiunto di Bari, Annamaria Tosto. La quale chiede l’archiviazione con un’altra, meravigliosa motivazione: sostiene, la pm, che le parole di Vendola non possono considerarsi diffamatorie, poiché il sottoscritto ha subito molti procedimenti per diffamazione (che poi non sia mai stato condannato, è per la pm un dettaglio), dando così a Vendola «licenza di uccidere» con tutte le parole che vuole. Adesso, attendo la pronuncia della Camera di consiglio sulla mia opposizione all’archiviazione. Intanto, tacciono tutti. Dai «paladini » della libertà di stampa e di espressione alle ronde anti-bavaglio, dall’Ordine dei giornalisti nazionale alla Federazione nazionale della stampa, il cui presidente, Roberto Natali, ha recentemente fatto passerella accanto a Vendola, elogiando i giornalisti che ne elogiano le gesta: l’Istituto Luce , al confronto, è il New York Times .»

GIORNALISTA PREZZOLATO (MALE), CITTADINO DISINFORMATO 1/2/3/4/5/6/7/8/9/10/11/12/13/14

 

Dal sito di LSDI (Libertà di Stampa e Diritto all’Informazione) questa testimonianza. La videoregistrazione completa di ”Se cinque euro vi sembrano pochi, per un futuro radiosissimo”, l’incontro sul tema del precariato nel mondo dell’editoria giornalistica tenutosi domenica 17 aprile in occasione del Festival del Giornalismo di Perugia nell’ ambito del Journalism Lab curato da Lsdi. (la playlist dei 14 video, curati da Vittorio Pasteris con la collaborazione di Roberto Favini, è a questo indirizzo: http://bit.ly/midNMw ).

Ora pubblichiamo la trascrizione (ragionata e sintetica) degli interventi, a cura di Marco Renzi.

All’incontro, moderato da Roberto Zarriello (giornalista, autore di ‘’Penne Digitali 2.0’’) partecipavano: Paola Caruso (giornalista precaria), Raffaella Cosentino (giornalista freelance), Francesca Ferrara (giornalista e blogger freelance), Cristiano Tassinari (giornalista, autore di “Volevo solo fare il giornalista”), Roberto Natale (presidente Federazione Nazionale della Stampa Italiana), Enzo Iacopino (presidente Ordine Nazionale dei Giornalisti).

Dopo l’introduzione di Vittorio Pasteris e la presentazione dell’attività di Lsdi a cura di Marco Renzi, il dibattito entra immediatamente nel vivo quando il moderatore Roberto Zarriello passa il microfono al primo ospite in scaletta: Cristiano Tassinari, che, invitato da Zarriello a prendere la parola per presentare il suo libro “Volevo fare solo il giornalista”, glissa elegantemente, ed entra a piedi uniti sulle scottanti questioni all’ordine del giorno: «….una ricerca fatta in Italia tra i tanti collaboratori di quotidiani e non solo, – dice Tassinari – ha evidenziato come il prezzo medio di un articolo pagato ad un collaboratore free lance sia mediamente 5, e dico 5, euro! Se in Italia ci sono circa 90.000 giornalisti, quelli famosi – continua Cristiano Tassinari – sono pochi, pochissimi. Io sono riuscito a trovare uno straccio di contratto a più di 40 anni e dopo aver girato in lungo e in largo l’Italia e l’Europa. Vi voglio raccontare alcune piccole storie che mi sono accadute cercando di svolgere al meglio la mia professione. Io lavoro in una tv locale a Torino, mi hanno offerto di fare il testimonial per la pubblicità, mi davano 1.200 euro, per mezz’ora di riprese. Non si può! Mi han detto all’Ordine: deontologia professionale. Mi hanno chiesto di fare il doppiaggio per un documentario, mi davano 1.000 euro. Non si può! Mi hanno confermato all’Ordine: deontologia professionale! I responsabili del Co.recom del Piemonte, comitato regionale delle comunicazioni, mi hanno chiesto di presentare un convegno sul giornalismo, mi davano 300 euro. Non si può! Hanno tuonato ancora dall’Ordine: deontologia professionale! Allora la mia domanda è: ci volete puri, duri, cristallini e trasparenti, ma morti di fame?»

La domanda, tutt’altro che retorica di Cristiano Tassinari per il momento resta inevasa, e il dibattito riprende con un nuovo intervento del moderatore Zarriello che serve si a smistare e ordinare gli interventi degli altri ospiti dell’evento, ma che ci sembra doveroso riportare integralmente perchè solleva una problematica molto precisa in tema di precarietà e sfruttamento nel mondo del giornalismo, dice Zarriello: «Devo dirvi che il filo comune che lega tutte le esperienze che vi stiamo presentando è sicuramente una grande passione e un grande amore per questo mestiere. Ma…..! Il dato concreto è che questo purtroppo non basta! Qualcuno dice deve emergere la qualità. Certamente! Ma devono soprattutto esserci le condizioni, le opportunità affinchè si possa lavorare con dignità e professionalità.»

Prende la parola Francesca Ferrara, napoletana, giornalista e blogger free lance, 12 anni di lavoro alle spalle. Il curriculum di Francesca assomiglia al percorso professionale della maggior parte dei “giovani” con il pallino del giornalismo. 24 mesi di collaborazioni e tantissimi pezzi pagati pochi euro, per raccogliere la documentazione per diventare pubblicista, e poi subito alla ricerca di un editore che ti assuma, o alla peggio che ti assicuri il praticantato per poter avere accesso all’esame di Stato e diventare professionista. «Oramai – dice Francesca – lo spauracchio del praticantato d’ufficio è così presente nelle redazioni che anche quelli con cui collaboro e che mi pubblicano, non mi chiedono i miei dati bancari. Io ho quasi 37 anni – continua Francesca – e fino a tre anni fa c’era qualcuno, un collega con tanto di contratto, che si permetteva di chiamarmi “piccirella”, dall’alto del suo posto fisso. Questo non può e non deve succedere più. Una donna di 33 anni deve poter campare con i proventi del proprio lavoro, deve potersi fare una famiglia, deve potersi sentire orgogliosa di quello che fa. Per poter inserire nel mio curriculum determinate esperienze in redazioni diverse, sono stata costretta a pagare di tasca mia corsi di formazione. In realtà non ho acquistato l’accesso alla professione, bensì lo stage non retribuito presso il quotidiano o il settimanale. Io faccio parte – conclude Francesca Ferrara – del coordinamento dei giornalisti precari campani, negli anni, in tutta Italia, sono nati numerosi coordinamenti come il nostro: Presidente – rivolgendosi a Iacopino e Natale – se il Paese intero si è riempito di coordinamenti di giornalisti precari, credo sia perchè la Federazione e l’Ordine dei Giornalisti un buon lavoro non l’hanno fatto, c’è malcontento!»

La parola passa a Raffaella Cosentino, una delle giornaliste free lance più attive sul fronte della denuncia dello sfruttamento professionale. Dopo aver ringraziato gli organizzatori e aver premesso che il suo intervento al dibattito non sarà rivolto ai “pezzi grossi del giornalismo” che conoscono bene la drammaticità della situazione in cui versa la professione, ma al pubblico in sala che forse la conosce un poco meno, dice: «La situazione editoriale italiana in questo momento è una gigantesca macchina dello sfruttamento. I dati sono contenuti in un e-book da me stessa realizzato, che si intitola “4 per 5” pubblicato da terrelibere.org. Io non sono qui per parlare di precariato, ma di illegalità vera e propria in ambito giornalistico. In Calabria ad esempio la situazione è così grave che non occorre essere un giornalista famoso per ricevere minacce pesanti e subire intimidazioni dalla criminalità organizzata. Basta svolgere normalmente il proprio lavoro per dare fastidio. Gli editori calabresi hanno creato un “cartello” per poter pagare gli articoli dei collaboratori 4 centesimi a riga. Ma il fenomeno del mancato riconoscimento professionale è diffuso ovunque e ad ogni livello. Io stessa – prosegue Raffaella – ho seguito la vicenda di Rosarno in Calabria per il Manifesto, e poi ho dovuto lottare non poco per essere pagata per il lavoro svolto. Secondo loro, io non avevo preso accordi economici in precedenza. Abbiamo testate che fanno battaglie ipocrite contro il precariato di tutti gli altri, e poi non parlano di noi! Il collaboratore – prosegue la Cosentino – è cambiato nel suo ruolo, una volta era l’ultima ruota del carro, adesso è l’ingranaggio, è la macchina, è lui che fa il giornale. Il problema nostro – conclude Raffaella - è che siamo isolati, non riusciamo a risolvere il problema individuale come un problema collettivo, qualunque tema personale esponga un giornalista, crea un cortocircuito nel sistema dell’informazione. Quando il giornalista diventa lui stesso notizia, viene visto con diffidenza dalla categoria e si ritrova molto presto isolato. I coordinamenti fra colleghi nati dentro o fuori dal sindacato e/o dall’ordine, servono a vincere questo isolamento che causa debolezza e anche omertà.»

Paola Caruso è la quarta collega coinvolta nel dibattito. L’esempio di Paola precaria al Corriere della Sera, entrata in sciopero della fame per difendere il diritto al posto di lavoro, ha fatto balzare improvvisamente agli onori delle cronache il fenomeno del precariato anche nel “dorato” mondo del giornalismo. «Collaboro con il Corriere della Sera da quasi 8 anni – esordisce Paola – la mia storia è semplice. Ho chiesto di essere assunta e mi è stato detto che il giornale era in stato di crisi e non avrebbero assunto nessuno. Qualche giorno dopo ho visto una persona nuova prendere dimestichezza con il sistema editoriale del Corriere alla postazione di un collega che si era appena licenziato. Ho chiesto spiegazioni e nessuno me le ha date. Allora mi sono confrontata con i colleghi che mi hanno detto: “tu non sarai mai assunta”. Mi sono detta che faccio? Accetto di essere pagata a pezzo a vita, soprattutto dopo aver visto che comunque qualcuno riesce a entrare? Ho deciso di protestare e ho iniziato uno sciopero della fame, una protesta forte per denunciare un’ingiustizia. Ho avvisato tutti i miei capi prima di intraprendere la protesta per e-mail. Qualcuno mi ha chiamato prima dell’inizio della mia azione minacciandomi: “se inizi questa protesta non lavorerai mai più con noi!” Ho rischiato sulla mia testa, ho messo in gioco la mia carriera, la mia salute. Speravo che la mia azione potesse essere l’inizio di un qualcosa di più grande. La fiamma per alimentare un fuoco. In realtà non è andata così. L’unico modo per ottenere qualcosa – prosegue Paola – è quello di protestare. Io ho protestato e sono riuscita a conservare il posto. Mi terranno sempre come collaboratrice probabilmente, non importa. Avrò contratti annuali, niente tredicesima, ne quattordicesima, niente ferie pagate. Ok ci sto! Io sono bassa manovalanza, faccio quello che mi chiedono, faccio i pezzi scomodi che nessuno vuol fare, va benissimo. Il problema non è quello che faccio o i pezzi che scrivo. Io sono una collaboratrice e la mia figura professionale non è inquadrata da nessuna parte. Ogni editore per ogni collaboratore fa un contratto diverso, quello che gli conviene di più. Quello che vorrei sapere dal sindacato è: c’è la volontà di inquadrare all’interno del contratto nazionale della stampa la figura del collaboratore? Noi siamo una categoria. I precari, in tutte le categorie, salvo forse la scuola, sono coloro che, prima vengono assunti con un contrattino a tempo determinato, magari rinnovabile, e poi scatta il tempo indeterminato. C’è un percorso anche nel precariato, prima i contratti non tanto buoni e poi l’assunzione. Nel giornalismo non è così, i collaboratori che arrivano all’art.1 sono pochissimi, tutti gli altri rimangono collaboratori, e questa figura professionale non è tutelata da nessuno.»

Sul banco dei relatori sale il presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino che viene introdotto dalla domanda del moderatore Roberto Zarriello: «…. chiederei al Presidente dell’Odg Iacopino: le storie raccontate sono queste, il mondo del giornalismo è sicuramente in difficoltà! E’ anche vero però che piangersi addosso e dire non si può fare più questo mestiere non serve a nulla. Che cosa possiamo fare, che cosa possiamo iniziare a fare, Presidente?»

Il Presidente inizia il suo intervento precisando che l’Odg non ha lasciato sola Paola Caruso durante la sua battaglia, «…la tentazione – dice Iacopino – che sento serpeggiare è come di creare quasi una figura del nemico tra di noi. Il nemico non è tra di noi, il nemico ha delle caratteristiche precise, io lo continuo a chiamare ladro, il nemico è fatto e rappresentato dagli editori. Se noi non ci chiariamo questa cosa e continuiamo a punzecchiare ora la Fnsi, ora l’Odg, perdiamo di vista quello che è il problema vero.» L’intervento del Presidente dell’Odg prosegue con un attacco a Giulio Anselmi in risposta alle dichiarazioni che il Presidente dell’Ansa aveva reso durante la sua lectio magistralis al Festival Internazionale del Giornalismo il giorno prima. Dopo i commenti alle dichiarazioni di Anselmi del giorno prima, Iacopino riprende: «Non voglio parlare io ma voglio far parlare voi, perchè noi – indicando se stesso e Roberto Natale – dobbiamo avere un quadro chiaro della situazione.»

A questo punto del suo intervento il Presidente Iacopino comincia ad illustrare leggendo da un copioso fascicolo che porta in grembo una serie di casi di sfruttamento del lavoro segnalati all’Ordine Nazionale:

1) faceva le pagine di cultura e spettacolo per il Domani della Calabria 150 euro per 2 mesi di lavoro;

2) 2 mesi di lavoro al Mattino di Napoli 325 euro lordi;

3) La Finanziaria editoriale quotidiano della Calabria 6 euro e 50 lordi al pezzo, tale compenso non potrà in ogni caso superare i 195 euro lordi mensili;

4) Il Giornale di Sicilia più di un mese di lavoro 422 euro;

5) Ciociaria Oggi ogni mese 150, 200 euro;

6) Finegil mese di marzo 119 pezzi 512 euro media di 4 euro e 30 lordi.

Interrompendo brevemente l’illustrazione dei casi di sfruttamento raccolti dall’Ordine il Presidente riferendosi all’intervento di De Benedetti all’ultimo Congresso Nazionale della Fnsi di Bergamo del gennaio scorso, stigmatizza: «… ha avuto l’impudenza di dire che lui non capiva perchè mai dovesse pagare un giornalista di Repubblica che collabora con l’on line : “non gli diamo forse maggiore visibilità?” , il passo successivo – prosegue Iacopino – sarà che vi daranno visibilità e li dovrete pagare voi! Io ho qui l’elenco delle aziende partecipate dall’Ing. Carlo De Benedetti, che fa milioni di euro di utili l’anno grazie all’azione che con i suoi giornali e le sue televisioni riesce a fare inevitabilmente ….»

L’intervento del Presidente dell’Odg prosegue con la citazione di nuovi esempi di episodi di sfruttamento:

7) una tv di Bergamo con un editore costretto a patteggiare una condanna per mobbing;

8) una emittente fa dei servizi li vende a Rai 3 che glieli paga 300 euro l’uno;

9) il Gazzettino di Venezia ci sono tre fasce: 4 euro per 999 caratteri, 9 euro e 50 tra 1000 e 2000 caratteri, 15 euro per 2000/3000 caratteri che nessuno scrive più, non so di che cosa stiano parlando;

10) ancora il Gazzettino 214 euro per una serie di pezzi scritti dal 2 al 30 gennaio;

11) la Voce della Romagna un giornale che riceve dallo Stato 2 milioni e 500 mila euro di contributo l’anno che dice di pagare 2 euro i pezzi a far data di un anno dalla pubblicazione;

12) un collega che viene dall’Ifc di Urbino quindi viene dalla scuola; il Quotidiano della Calabria lo ha pagato 6 euro e 50 lordi al pezzo per un massimo di 200 euro lordi al mese;

13) la Provincia Pavese 7 euro lordi per più di 40 righe, 5 euro lordi al di sotto, 3 euro per le brevi anche questo collega viene dall’Ifg di Urbino;

14) il Messaggero Veneto edizione di Gorizia cancellata da un giorno all’altro, il collega che segnala il caso stava in redazione scriveva una media di 6 pezzi al giorno per 200 euro mensili di media;

15) La Città di Salerno 1 euro e 55 al pezzo.

«Posso continuare fino a quando volete – sottolinea Iacopino – perchè io ho fatto questo appello e nel giro di 48 ore ho ricevuto più di 800 segnalazioni. Noi ci continuiamo a raccontare che il problema della libertà di stampa in questo Paese è dato dal conflitto di interesse, è una menzogna! Il conflitto di interesse c’è, non c’è ne uno solo, non c’è solo quello di Berlusconi, c’è quello di De Benedetti, c’è quello di Caltagirone con le sue attività nell’edilizia e i giornali! Guardateli i giornali: un indice di volumetria che cambia significa milioni di euro di incasso! Il problema principale, il vero attentato alla libertà di stampa nel nostro Paese è rappresentato da quei ladri che ci sono tra gli editori! Vi rubano la vita in questo modo e vi tengono in una condizione sistematica di schiavitù e quando tu dipendi solo da questi rettili non hai la possibilità di fare il tuo lavoro in maniera assolutamente libera responsabile….Rubano i vostri sogni e rubano la verità ai cittadini…»

«Allora Presidente – interviene Zarriello – siccome lì dietro c’è tanta gente che questo mestiere al di là di queste storie lo vuole fare lo stesso, io le chiedo e allora che si fa? Facciamo soltanto il rosario delle storie negative, oppure cerchiamo di fare una domanda cui noi tutti vogliamo una risposta: l’Odg e la Fnsi che hanno intenzione di fare?»

«Per quello che riguarda me – risponde Iacopino – noi abbiamo già in Parlamento 2 proposte di legge. C’è un impegno formale del Presidente Fini e della Presidente Aprea di incardinare in legislativa una proposta che è stata firmata da 42 deputati, mi pare anche di più, che specularmente è stata presentata in Senato a firma Vita-Lannutti. Gli tolgono i soldi, se non ricevono un bollino blu che certifichi che pagano in maniera dignitosa, questo prevede questa proposta di legge, gli tolgono i finanziamenti pubblici. Sono milioni di euro credetemi, dobbiamo colpirli nei soldi! E’ l’unica nostra speranza che abbiamo! E’ l’unico discorso che gli editori capiscono, devono essere toccati nel portafoglio!»

«Forse però – interviene il moderatore – le cose potevano essere fatte anche prima in questi anni…»

«Io non voglio cavarmela – replica Iacopino – dicendo che sono stato eletto a giugno del 2010 perchè non significa niente, però allo stesso modo non significa niente continuare a dirsi lo potevamo fare prima….Cerchiamo di capire che il nemico non è qui tra di noi, il nemico è fuori …»

A questo punto Marco Renzi di Lsdi sbotta dal pubblico e rivolto al Presidente dice: « Non c’è nessun nemico Presidente …..»

Dopo un breve attimo di tensione in sala è Zarriello a riprendere la parola per cercare di rimettere ordine fra gli interventi del seminario. «Noi non siamo qui – dice l’autore di Penne Digitali 2.0 – per dire alla gente lasciate stare il giornalismo perchè non ci sono le risorse, dobbiamo anzi affermare l’esatto contrario. Vogliamo dall’Odg e dalla Fnsi un momento di confronto pacato, per cercare di capire, siccome le cose non sono state fatte, in questi anni e ci sono sicuramente associazioni come la vostra che se ne sono occupate più volte! Però più che dire non le avete fatte, quindi puntiamo il dito contro di loro! Dobbiamo capire che cosa si può fare altrimenti andiamo in una direzione in cui non c’è un’uscita.» E passa la parola a Renzi.

«Mi dispiace molto – dice Marco Renzi – che l’intervento del Presidente Iacopino sia teso a demonizzare qualcun altro, non va bene! Presidente ci dica che cosa fa l’Odg, ci metta in condizione di lavorare, perchè siete voi i nostri referenti. Non solo di fatto, ma giuridicamente. Lo Stato italiano, ed è uno dei pochi stati nel mondo, ha un Ordine dei Giornalisti giuridicamente, noi per essere giornalisti siamo obbligati a pagare ogni anno un obolo, come lo vogliamo chiamare. Il mio obolo, l’obolo di tutti noi dove viene investito nella nostra professione? Che cosa viene fatto per valorizzare la nostra professione? Non voglio demonizzare nessuno, sono contento di fare il giornalista, purtroppo non lo faccio quasi mai. Ho 50 anni, non 5 minuti, ma solo per 5 minuti della mia vita ho fatto il giornalista il resto del tempo l’ho passato arrabattandomi come fanno quasi tutti……..»

Prende la parola Roberto Natale Presidente della Fnsi : «Non trovo motivi per essere in polemica con il Presidente dell’Odg – esordisce Natale – abbiamo grossissimi problemi nel rapporto con gli editori, abbiamo grossissimi problemi di libertà. C’è un conflitto di interessi monumentale che riguarda Berlusconi, ci stanno tanti altri conflitti di interessi – De Benedetti, Caltagirone – ne parliamo da anni sempre al plurale, e credo che mettere insieme i problemi drammatici di lavoro e i problemi drammatici di libertà…..«C’è la faccia di quel ragazzo – lo interrompe Zarriello indicando una persona del pubblico – che dice ne parliamo solo? » «Seconda premessa – riprende Natale – non ho nessuna intenzione di dire a chicchessia qui dentro “non fare il giornalista”, ma non mi sentirei nemmeno di non dirvi come Presidente della Fnsi cosa sta facendo il sindacato….»

A questo punto l’alto esponente sindacale legge all’assemblea alcune delle dichiarazioni rilasciate da Giulio Anselmi e riportate dalle agenzie di stampa: «L’unico modo per allargare l’accesso alla professione giornalistica è abolire l’Odg uno sbarramento senza senso e castale. Gli stipendi medi dei giornalisti non sono eccessivamente alti anche se all’interno della categoria ci sono differenze abissali. Ma è vero i giornalisti sono iper garantiti e troppi e anche il sindacato è responsabile di aver gonfiato gli organici. In media dalle redazioni in stato di crisi sono usciti 50/60 giornalisti ma avrebbero dovuto uscirne di più. Tuttavia fra i giovani giornalisti vedo emergere più il desiderio di far parte dei privilegiati piuttosto che di cambiare le cose, può darsi che mi sbagli».

«Riforma radicale dell’accesso alla professione – riprende Natale – questo è uno dei temi di cui siamo convinti come sindacato in sostegno all’azione dell’ordine. Martedì 19 aprile, dopodomani, ore 12,00 andiamo da Bonaiuti sottosegretario all’editoria. E’ il primo incontro che facciamo con il Governo dopo il Congresso di Bergamo della Fnsi del gennaio scorso. C’è un solo tema all’ordine del giorno, questo: la tutela del lavoro autonomo, la tutela dei free lance, la tutela dei collaboratori, un piano straordinario per l’uscita dal precariato. Le rappresentanze di categoria, forse tardi, ma l’hanno capito che qui si gioca una partita decisiva. E a Bonaiuti parleremo della proposta di legge cui faceva riferimento Iacopino: la legge sull’equo compenso. L’editore che non rispetta i livelli minimi di decenza – l’art. 36 della Costituzione – deve perdere il diritto ad avere contributi. Dobbiamo cercare di ottenere, come organismi di categoria, queste leggi che vincolino gli editori a uscire da forme di caporalato quali sono autenticamente quelle che praticano. Servono leggi di tipo diverso altrimenti gli editori non li vincoli. Serve insieme a questo: migliorare i contratti e dunque ottenere, come stiamo cominciando a ottenere, che finalmente il lavoro autonomo entri nella contrattazione …..»

Interviene Paola Caruso: «…siamo noi, è il nostro interesse parlare, è il nostro interesse denunciare, se quando ci sono i controlli dell’Inpgi in redazione il capo ti dice non devi venire perchè oggi ci sono i controlli, tu non ci vai…non ci vai (applausi)..è questo il punto! Siamo noi i primi a dover denunciare…»

Riprende Natale: «Che tu lo dica è cosa nobile e giusta, io non me la sento di buttare la croce su colleghi e colleghe chiamandoli ad atti di eroismo, c’è in sala un collega veneto che, scoperto dall’editore a far azione di coordinamento sui collaboratori è stato licenziato. Il sindacato e l’ordine servono ad evitare che ci sia necessità di atti di eroismo, che quando ci sono, sono apprezzabilissimi, ma noi dobbiamo dirvi quello che stiamo facendo per impedire che ci sia bisogno di questi atti. Ci troviamo in una fase nuova. Grazie alla vs. insistenza (precari, coordinamenti, free lance, autonomi), la situazione sta cambiando. Le cose che sono state fatte a Roma al Messaggero e in Veneto al Gazzettino, testimonianze di solidarietà concreta delle redazioni dei garantiti nei confronti dei collaboratori; questo è il livello essenziale, insieme alle leggi e ai contratti. Fino a che di fronte a forme di sfruttamento, di schiavismo, di caporalato, noi garantiti facciamo finta che non succeda nulla, la situazione non potrà cambiare. Quello che sta cambiando è: che finalmente c’è una categoria che comincia a capire. Concludendo due cose: metteteci alla prova; ed evitiamo di creare al nostro interno contrapposizioni.»

La parola va a Vittorio Pasteris, creatore dei Journalism Lab del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia: «Devo dire che i due rappresentanti delle Istituzioni giornalistiche presenti in sala meritano tutta la nostra stima e rispetto, non vi do i loro indirizzi e-mail per motivi di privacy – alla voce di Pasteris si sovrappone quella di Natale che scandisce i due indirizzi: roberto.natale@fnsi.it – enzo.iacopino@odg.it , – il problema non siete voi – riprende Pasteris – e io penso anche, che non siano solo gli editori. E’ un sistema complesso che va riveduto. Il problema sta in una parte della categoria giornalistica che sfrutta gli altri. La difficoltà delle persone che stanno dentro/fuori delle redazioni è quella di avere protezione come quelli che lottano contro la mafia. Chi si mette contro il sistema si trova da solo. Io propongo da oggi l’istituzione di un ufficio di pronto soccorso presso Odg e Fnsi cui potersi rivolgere direttamente per denunciare vessazioni, mobbing, sfruttamento, ed avere accesso ad una task force di Inpgi, e quant’altro per esercitare le opportune pressioni nei confronti degli editori inadempienti senza rischiare il posto. Se un quarto dei precari, sfruttati, vessati dell’editoria italiana si presentassero a testa bassa contro gli editori adeguatamente supportati dalle istituzioni giornalistiche scoppierebbe un pandemonio. Però si farebbe un poco di pulizia.»

Riprende brevemente la parola Iacopino, che torna a polemizzare contro gli editori e in particolare contro Giulio Anselmi, presidente dell’Ansa, accusandolo espressamente di rimettere sotto contratto i pensionati all’Ansa invece di assumere nuovi giornalisti, pratica diffusa fra tutti gli editori, precisa lo stesso Presidente. «Siamo diventati troppi – conclude il Presidente dell’Odg – adesso nell’ultimo anno 2010 sul 2009 il calo dei nuovi professionisti è stato significativo. Per la prima volta nella sessione d’esami dello scorso 5 aprile i partecipanti sono stati 190 contro i 400/800 della media delle ultime sessioni».

Torna a parlare Raffaella Cosentino per raccontare l’ennesimo esempio di sfruttamento: «Dice Raffaella: giornalista professionista, laurea, master in comunicazione, corsi di perfezionamento, due lingue parlate, in dieci anni migliaia di pezzi all’Ansa (cronaca nera, bianca, emergenze, politica, sanità), lavorato notte e giorno, pagato 3 euro lordi a pezzo, 2 euro e 50 in busta paga, subiamo ritorsioni e minacce ogni giorno solo per dire che siamo precari e vogliamo essere regolarizzati – e prosegue rivolta alla platea – Non ci credete che se scrivete due anni gratis o a 3 euro, qui abbiamo l’esempio della collega che per 10 anni ha collaborato con l’Ansa, non si va da nessuna parte. O si riesce a farsi pagare onestamente o non si va da nessuna parte. Il punto è proprio che non ci sono regole certe e a questo servono il Sindacato e l’Ordine. Io lavoro per l’on line di Repubblica e vengo pagata 50 euro a pezzo, ma se un pezzo che ho scritto salta, solo il buon cuore del collega che mi “passa” il pezzo e che si impegna a farmelo pagare ugualmente, mi può garantire, non ci sono regole certe. Si può fare questo lavoro però, tenete a mente queste esperienze; non lavorate sottopagati, e se avete notizie, state sicuri che all’editore servono, e quindi vi deve pagare di conseguenza se le vuole pubblicare.»

Torna a prendere brevemente la parola il Presidente della Fnsi auspicando che i coordinamenti dei giornalisti nati fuori dal sindacato possano far tesoro delle loro esperienze sul campo e le riconducano al più presto in seno al sindacato unico dei giornalisti per far fronte comune. Rispetto alla domanda sul “pronto soccorso” auspicato da Pasteris, Natale risponde citando il lavoro della commissione lavoro autonomo della Fnsi. «Tutti i riferimenti sono sul sito della Federazione Nazionale della Stampa Italiana – conclude Natale – e alla commissione si possono segnalare casi anche in perfetto anonimato. Le testimonianze individuali sono importantissime ma sono i Cdr che devono svolgere l’azione sindacale assieme al sindacato stesso».

Parla il pubblico: «36 anni provengo dalla scuola del giornalismo. Se dietro gli editori c’è la classe politica, come tutti sappiamo, come pensiamo di far passare una legge dalla politica se poi sappiamo che ci sono gli editori a spalleggiare gli stessi politici, bisognerebbe fare un’azione più pesante fra Odg e Sindacato?» «Non si può proporre che una parte dei finanziamenti all’editoria siano vincolati alla retribuzione adeguata dei collaboratori? Provando a costituire una sorta di reddito minimo per i collaboratori».

Parla il collega citato da Natale che per aver fatto azione di coordinamento dei collaboratori al Gazzettino Veneto è stato mandato via. «Ringrazio Roberto, non mi ritengo un martire. Volevo citare un episodio di tre settimane fa al Gazzettino: i collaboratori di Padova parasubordinati hanno fatto 3 giorni di sciopero, ma al giornale che la notizia ci sia o non ci sia non importa. Io conosco colleghi sotto contratto che hanno lottato per i collaboratori e sono stati ghettizzati e vittime di mobbing. Il mio capo servizio con una malattia grave ha dovuto andare dal medico e poi dall’avvocato per rivendicare i suoi diritti. Gli editori sono il nemico. Ci vorrebbe una specie di osservatorio all’interno della redazione per far vedere come si comportano i capi redattori e i capi servizio con i collaboratori. E’ possibile fare qualcosa contro i colleghi che si comportano male nei confronti di quelli che non hanno un contratto?»

Risponde Iacopino: «Il giorno 10 maggio io chiederò ai presidenti di tutti gli ordini regionali riuniti a Torino di aprire procedimenti disciplinari nei confronti dei capi delle testate che pagano i colleghi pochi spiccioli, so che poi la magistratura ci darà torto, ma le cose vanno fatte per un’esigenza morale. Non so che conseguenze avrà questa mia azione ma se riusciremo a far capire che non è senza rischio continuare a comportarsi così, forse produrremo qualche risultato. Evitiamo di fare la guerra fra di noi. Noi dobbiamo creare condizioni che consentano a chi vuole fare questo mestiere di vivere in maniera dignitosa».

Risponde Natale: «Fare azioni di lobbing? Sì è quello che stiamo facendo. Finanziamenti all’editoria legati ad un compenso dignitoso per i collaboratori? Sì, fa già parte del testo della proposta di legge in discussione fra Camera e Senato. Vigilanza sui casi di sfruttamento nelle redazioni? Dovrebbero esercitarla i Comitati di redazione.»

Nuova domanda del pubblico da un ricercatore dell’università della Sapienza di Roma ed editorialista di “informare per esistere” una testata on line, (con oltre 300 mila iscritti in tutto il mondo): «Io credo che Fnsi e Odg combattano tutti i giorni per la libertà di stampa; è altrettanto vero che voi non fate abbastanza per combattere la precarietà. A quando una manifestazione nazionale contro la precarietà?»

Altra domanda: «Sono d’accordo con Iacopino, i discorsi che facciamo tra di noi non sono discorsi tra nemici e non devono esserlo, però non dobbiamo neanche nasconderci dietro ad un dito. Metteteci alla prova dice Natale, sabato scorso a Roma alla manifestazione dei precari non c’era nessuno dell’Fnsi; io mi aspetto da un sindacato una capacità di mobilitazione maggiore. Inviterei ad una riflessione sullo scollamento pericolosissimo fra sindacato e coordinamenti autonomi».

Nuova domanda: «Perchè a livello centrale Odg e Fnsi non creano uffici per denunciare tanti conflitti di interesse che a livello locale esistono, ovvero sindacalisti che non si mettono contro l’editore per non creare difficoltà a parenti che lavorano con questo stesso editore…»

Altra domanda: «Una domanda all’Odg: un giovane italiano che avesse le potenzialità per diventare il migliore giornalista sulla piazza e non avesse i mezzi, non può diventare giornalista? In Italia se non hai qualche santo in paradiso l’iter è passare per le scuole di giornalismo, che costano molti soldi e poi fare anni e anni di stage gratuiti. E’ questo un sistema meritocratico o profondamente discriminatorio? Un altra domanda alla Federazione: gli articoli che pubblichiamo noi delle scuole vengono ripresi sistematicamente anche da giornali molto importanti senza citare la fonte, visto che si va sempre più verso un ampliamento del lavoro giornalistico svolto on line cosa fa il sindacato per porre delle regole precise in questo senso?»

Risponde Iacopino all’ultima domanda portando ad esempio Mario Calabresi e Aldo Cazzullo in qualità di giornalisti di grido provenienti entrambi dalle scuole di giornalismo e conclude: «Non cerchiamoci alibi, non è facile lo sappiamo, è più difficile ora che 10 anni fa, però gli spazi ci sono. Non vi fate scoraggiare dalle difficoltà, senza le scuole, credetemi, l’unica strada è il riconoscimento d’ufficio o l’espediente che abbiamo trovato che è: il praticantato free lance, che è stato un modo per dare a centinai e centinai di sfruttati l’accesso all’esame di Stato. I posti ci sono, 800 colleghi sono andati in pensione solo lo scorso anno».

Risponde Natale: «La riforma disturba innanzitutto gli editori, la riforma dell’accesso serve a togliere agli editori il potere smisurato che ancora oggi hanno di decidere chi sia giornalista. Ci sono settori della professione che oppongono resistenza alla riforma tipo alcune categorie di pubblicisti. C’è un avvocato che non vuole la riforma dell’ordine dei giornalisti….»

"Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani" (Rizzoli, pagg. 412) di Giampaolo Pansa. Nel saggio sull’informazione del grande giornalista, un capitolo devastante sui conduttori-divi dei talk targati Rai (e dintorni). Da Santoro alla Dandini, da Gruber a Lerner, dalla Annunziata a Floris, Pansa ne ha per tutti. Peccato che la faziosità politica di costoro è stata pagata da tutti con il canone obbligatorio, anche da coloro che odiavano quella ideologia politica.

Un ritratto impietoso del mondo dell’informazione, dalla carta stampata alla televisione. I giornali, nessuno escluso, sono sempre più faziosi. Eppure c’è chi non vuole ammetterlo e si presenta come immune da ogni partigianeria. È il caso di testate come la Repubblica, L’espresso e, talvolta, del Corriere della Sera. Spesso, dietro alla millantata obiettività si cela l’ossessione anti-Cavaliere, la volontà di distruggerlo con ogni mezzo, incluse le inchieste scandalistiche sulla vita privata (cinicamente tirate fuori per motivi di tirature: il gossip «politico» ha risollevato le vendite di Repubblica). Storia personale (Pansa è uno dei più grandi giornalisti italiani) e pubblica si intrecciano in un affresco accurato. Non mancano parti esilaranti, come l’incredibile rassegna delle smentite pubblicate dai quotidiani colti in castagna. Presentiamo, in queste pagine, due stralci dal libro, il primo dedicato ai telepredicatori di sinistra, il secondo a Carlo De Benedetti, editore di Repubblica ed Espresso, giornali nei quali Pansa ha lavorato per molti anni, ricoprendo cariche importantissime.

"Michele Santoro si era sempre fatto notare per lo stile e le qualità del leader politico. Per cominciare, risultava il più anziano dei sultani rossi. Nel luglio 2011 quella parte d’Italia che lo ama festeggerà a dovere il suo sessantesimo compleanno. Poi era il televisionista rosso di più lunga durata. Stava sugli altari dal 1987, quando aveva 36 anni e ancora esisteva la Prima Repubblica. Il successo iniziale fu Samarcanda, seguito da Il rosso e il nero del 1992, entrambi su Rai 3. In quel tempo Michele era magro, astuto e ambiguo quanto occorreva. Nell’ottobre del 1991 andai a intervistarlo per l’Espresso. E mi resi conto che era sicuramente di sinistra, ma la sua fedeltà andava a un solo partito rosso: quello di Santoro. Con un timbro anarco-populista, forse derivato dalla militanza giovanile in un gruppo maoista: Servire il popolo. Per la Prima repubblica erano tempi tragici. I politici apparivano stremati e si trovavano sull’orlo dell’abisso di Tangentopoli. Santoro me li descrisse con la sicurezza del ras televisivo che si sente sempre più forte. Disse: «I partiti non saranno così stupidi da tagliare la lingua a Samarcanda. Noi siamo matti, imprevedibili e liberi. E continueremo a rompere. Io rompo o sto zitto: non vedo vie di mezzo». Poi mi spiegò: «Non è vero che il successo di Samarcanda mi abbia dato alla testa. Io sono un topo in mezzo agli elefanti dei partiti. Saltello per evitare che le loro zampe mi schiaccino. Se mi salvo, continuerò a rompere. I politici possono starne sicuri». Santoro si sentiva il capo di una forza personale che poteva decidere con chi allearsi o no. Per questo, all’improvviso, scelse di passare sul fronte opposto alla Rai: Mediaset, la corazzata di Berlusconi. Anche nel fortino del Cavaliere mise in mostra un’invidiabile capacità nel trattare gli affari. Ottenne uno stipendio da nababbo, più l’assunzione di tutta la sua squadra con il massimo dei compensi. E costruì un altro talk show di successo: Moby Dick nel 1996. Ma al Cavaliere, più furbo di tanti suoi dirigenti, Michele non piaceva. In lui fiutava l’avversario, ben piazzato su un terreno insidioso: la televisione. Per di più, gli stava sui santissimi per la sua aria da padrone. Lo liquidò. E Santoro divenne il primo dei Grandi epurati, messi fuori dalla tv grazie agli editti del Cavaliere. Michele ritornò in Rai. Poi la sinistra, sempre generosa con i divi della tv, gli offrì una exit strategy di lusso: il 14 giugno 2004 lo fece eleggere deputato europeo. Ma il Parlamento di Strasburgo era il posto più noioso del mondo per una star da battaglia come lui. Santoro sopportò per meno di due anni il fastidio di doverlo frequentare. Poi si dimise. E nel 2006 decise di rincasare in viale Mazzini. E diede vita a un nuovo programma: Annozero. Sotto questa bandiera, Santoro inaugurò un’altra stagione personale: il conduttore da guerra. Contro chi? Ma che domanda! Contro il suo vecchio padrone privato: Berlusconi. Il nemico da sconfiggere, il demonio da scacciare, il caimano da uccidere. Divenne il più mussoliniano fra i sultani rossi dei talk show. E ogni giovedì, in prima serata su Rai 2, riprese a imporci il proprio comandamento: credere, obbedire e combattere. Sempre con lo stesso obiettivo: mandare a gambe all’aria il tiranno di Arcore. Il pubblico di sinistra continuò ad adorarlo. Santoro era la prova vivente che il regime fascista del Cavaliere esisteva, ma poteva essere battuto. Nella scala gerarchica della Rai, Michele iniziò a contare più di dieci Paolo Garimberti, il presidente. E più di Mauro Masi, un direttore generale senza un potere reale nei confronti di Annozero. Ma nel paese dei balocchi televisivi, tutto è volatile. La forza di un programma e di un conduttore può sparire di colpo, o attenuarsi a ritmi terrificanti. È quel che accadde a Santoro verso la metà del novembre 2010. Quando il nuovo spettacolo di Fazio & Saviano cominciò a fare ascolti mirabolanti, confinando Annozero nell’angolo dei perdenti, sia pure provvisori. [...]

Giovanni Floris, il conduttore di Ballarò, mi appariva il Santoro dei poveri, formato Festa dell’Unità, quella del tempo che fu. Aveva di continuo l’ansia di non poter risultare abbastanza rosso. Ma ci riusciva ogni volta. La scelta degli ospiti era bipartisan. Non così il suo atteggiamento. Il compagnone di Ballarò si mostrava sempre amichevole nei confronti degli invitati di sinistra. Nei momenti di difficoltà, costoro sapevano di poter contare sul suo aiuto, offerto con lo zelo di un croce-rossino fedele nei secoli. Ma con gli interlocutori di destra, la musica cambiava di colpo. Con loro Floris sfoderava l’altro lato di se stesso. Diventava gelido e spesso scioccamente irridente. Li interrompeva, li silenziava, li metteva alle strette. Insomma, un capoclasse perfetto: buono con i buoni, cattivo con i cattivi. E in molti casi pomposo. Con il vezzo ridicolo di celebrare se stesso: lo vedete quanto sono imparziale, liberale, democratico?

Una sua gemella era Lucia Annunziata, la regina di In mezz’ora. Di lei rammento l’affanno di mandare al tappeto l’ospite che aveva di fronte per trenta minuti filati. Se chi s’azzardava a sedersi davanti a lei apparteneva al giro politico opposto al suo, anche un bambino avrebbe subito intravisto il difetto di Lucia. A lei non interessavano le risposte dell’interlocutore, ma soltanto le proprie domande. Che dovevano sempre risultare aggressive, grintose, insomma cazzute, se posso usare per una signora questo lessico da bettola. Una sola volta toccò a Lucia di andare ko. Accadde con quel satanasso di Berlusconi. Il Caimano si alzò e la piantò in asso, sola e abbandonata in piena diretta tv.

Un’altra dama sinistra era Serena Dandini, la regina di Parla con me , famosa per il divano rosso. E dal martedì al venerdì sempre disposta ad accogliere chiappe eccellenti dell’opposizione al cavaliere. Da lei erano passati Eugenio Scalfari, Ezio Mauro, Bill Emmott, l’ex direttore dell’ Economist, Stefano Rodotà, Massimo Cacciari, Carlo Azeglio Ciampi, Guglielmo Epifani, Sabrina Ferilli, Antonio Tabucchi, Corrado Augias e tanti altri avversari del Berlusca. Davanti a Scalfari e alla sua sacra barba bianca, Serena cadde in deliquio. Era seduta accanto a lui, ma sembrava in ginocchio. Pronta a incoronare ogni risposta, anche la più banale, con la sua entusiastica risata. Un giorno, Pietrangelo Buttafuoco disse di lei:«Ha l’espressione un po’ così, di quelli che ridono pure in un cimitero». Aldo Grasso, il critico televisivo del Corriere della Sera, il più acuto tra quelli a disposizione dei lettori di quotidiani, fu spietato con madama Dandini. Scrisse: «Ride in continuazione per sottolineare la sua ironia e la sua intelligenza, caso mai fossero sfuggite». Poi aggiunse: «Da un programma che impiega tredici autori e la consulenza di altri quattro, ci si aspetterebbe qualcosa di più di una mini fiction dopolavoristica». Risultato? Un continuo calo d’ascolti.

A Santoro & C. si potevano aggiungere altre eccellenze rosse che non dipendevano dalla Rai. Consideriamo il caso di La7, una rete privata e senza obbligo di canone per l’utente. Qui a dominare era Lilli Gruber, già parlamentare europea di sinistra, che ogni sera metteva in mostra la propria militanza. Sempre piacevole a vedersi, ma soltanto per la sua bellezza e per l’eleganza by Armani. Confesso che ad affascinarmi era l’eterna giovinezza della conturbante Dietlinde, con quel viso di porcellana senza età, un’attrazione irresistibile per un maschio dai capelli bianchi. Anche per questo dettaglio, mi domandavo perché mai dimenticasse il proprio ruolo. Per tramutarsi da conduttrice in uno dei litiganti inviati al suo Otto e mezzo. Con il risultato di far scrivere all’implacabile Grasso del Corrierone: «La Gruber rappresenta un vecchio modo di fare giornalismo. Nel suo programma non c’è mai un percorso di conoscenza, ma solo uno scontro di opinioni, una parata di idee contrastanti». In questo scontro, Lilli voleva sempre vincere. Per arrivare a questo risultato, adottava spesso il sistema del due contro uno. I due, tutti anti-Cav, erano lei e uno degli invitati, entrambi nemici giurati del Caimano. L’uno era un ospite di centrodestra, destinato fatalmente a soccombere. E non metto nel conto il filmato di Paolo Pagliaro che, ogni sera, offriva il proprio soccorso rosso.

Più o meno lo stesso era quel che pensavo a proposito di un altro programma di La7: L’Infedele di Gad Lerner. Ecco l’ennesimo talk show da combattimento. Sempre contro il maledetto Cavaliere. E per questo noioso e banale, da non guardare. Mai una sorpresa né un guizzo di genialità imprevista. Ma in fondo era il ritratto del suo autore. Da tempo Lerner stava immerso in una fantastica regressione politica. Che lo aveva sospinto all’indietro nel tempo. Ossia agli anni Settanta, quando Gad s’illudeva di fare la rivoluzione proletaria nelle file di Lotta continua. Allora aveva perso e la sconfitta si era mutata in un incubo destinato a perseguitarlo. Come una condanna a cercare di continuo una vittoria che l’ascolto ridotto seguitava a negargli. [...]

Molto più interessante di Serra ( Michele, ndr ), risultava il personaggio di Fabio Fazio, la cui presa di posizione a vantaggio della sinistra era scoperta, scopertissima. Nonostante questo, amava interpretare il ruolo opposto al televisionista settario. Era quello dell’abatino estraneo a qualsiasi parrocchia, amico di tutti e nemico di nessuno. Con l’aria dimessa, l’espressione sempre stupita, il vestito strafugnato del ragazzo di provincia capitato per caso in un posto e in una funzione che non ritiene di meritare. In realtà, nella Rai odierna frantumata in sultanati, Fazio era il più sultano di tutti. Un signore gelido, capace di muoversi senza guardare in faccia nessuno, curatore attento dei propri comodi. E all’occorrenza anche cattivo. Con la manina avvolta nella flanella grigia e lo stiletto avvelenato ben nascosto. Era con questa lama che Fazio, nel suo programma abituale, Che tempo che fa, praticava una censura inflessibile. Truccata da libertà di scelta, quella che spetta a tutti i conduttori di talk show. In realtà, il pallido Fabio non sceglieva, ma discriminava. Gestendo in modo autoritario il potere di promuovere libri e autori. Un regime accettabile in una tv privata, però non alla Rai. Che è pur sempre pagata dal canone sborsato dai «tutti» ai quali Saviano voleva parlare."

PARLIAMO DI LIBERTA' RICONOSCIUTA SOLO AI GIORNALISTI.

I giornalisti, professionisti abilitati come sistema comanda. Lo scandalo all’esame per giornalisti, salta fuori la lista dei raccomandati.

Da Repubblica — 07 novembre 1991   pagina 23   sezione CRONACA: Tre interrogazioni parlamentari, un'indagine della magistratura e il licenziamento in tronco di un caposervizio si sono abbattuti come una tempesta sugli esami di idoneità professionale per giornalisti che si sono tenuti a Roma. Il fatto è rimbalzato nelle redazioni quando, probabilmente per colpa di un errore telematico, è stata diffusa dalle stampanti del Senato l'elenco di 27 esaminandi con a fianco il nome di esponenti del giornalismo nelle vesti di sponsor: si va da Guidi (presidente dell' ordine nazionale) a Morello (presidente dell' ordine del Lazio), da Signoretti (vicepresidente dell' istituto di previdenza, Inpgi) a Artizzu (dell'ordine della Sardegna), a Bartoloni, il più ricorrente nella lista (capo cronista del quotidiano il Popolo) a Tucci (inviato del Corriere della Sera). Inoltre, figurano altri padrini i cui nomi, però, non sono attribuibili con certezza. Fatto sta che sotto ai raccomandati ci sono poi trascritte le prime 5-6 righe dei temi svolti, ovvero l'inizio dell'articolo dal quale risalire all'autore, che invece dovrebbe rimanere rigorosamente anonimo fino a dopo la correzione. Evidente il sospetto che quella lista servisse per facilitare la promozione dei candidati segnalati. Immediato l'inferno di voci scatenate dalla notizia: un coro d'indignazione certamente, ma anche di curiosità, per il modo con il quale è venuta fuori la storia. La lista, infatti, è "comparsa", sembra per caso, nella sala stampa di Palazzo Madama, dove un cronista parlamentare cercando sul proprio computer delle notizie, si è imbattuto nell'insolito dispaccio memorizzato nel cervellone dell'agenzia giornalistica Agi. Il dubbio su chi potesse aver inserito delle informazioni così delicate nella rete accessibile a tutti gli altri colleghi anziché nel proprio archivio elettronico è durato pochi minuti. Sia perché c'è un solo giornalista dell'Agi nella commissione esaminatrice, sia perché lo stesso ha diffuso un comunicato con il quale si è subito dimesso dall'incarico. Antonio Amoroso, prima di ricevere la lettera di licenziamento, aveva tentato di difendersi: "Ho appreso - ha detto Amoroso - che qualcuno, introducendosi negli archivi interni dell'agenzia Italia ha riprodotto alcuni miei appunti personali... si trattava di una serie di segnalazioni di candidati provenienti da diverse fonti, che mi erano pervenute nei giorni scorsi. Solo per mia memoria avevo incluso le segnalazioni ricevute nel 'privato' del mio archivio. Mi riservo naturalmente - aggiunge - ogni azione nei confronti di chi, con atto fraudolento, ha voluto diffondere informazioni che erano destinate ad uso solo ed esclusivamente personale".

La libertà di manifestazione del pensiero è una delle principali libertà e diritto fondamentale dell’era moderna. Tanto più se è mirata allo sviluppo socio-economico-culturale della comunità. Questa libertà è riconosciuta da tutte le moderne costituzioni. Ad essa è dedicato l’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, come l'art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dall'Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848. L'art. 21 della Costituzione italiana stabilisce che: Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

Tale libertà è, tra le altre, considerata come corollario dell'articolo 13 della stessa Costituzione della Repubblica italiana, che prevede l'inviolabilità della libertà personale, tanto fisica quanto psichica.

L'interpretazione dell'art. 21 dà vita a dei principi: Il diritto di critica e di cronaca, oltre alla libertà di informare e la libertà di essere informati.

Costituendo al tempo stesso espressione della libertà di pensiero ed insostituibile strumento di informazione al servizio esclusivo della collettività, il diritto di cronaca vanta una tutela rafforzata. E finisce per prevalere sul diritto del singolo individuo, anche se “inviolabile”. Il reato di diffamazione, l’illecito civile, qui non sorgono, pur in presenza di una obiettiva lesione, perché è lo stesso ordinamento giuridico a permetterla (art. 51 c.p.: “L’esercizio di un diritto […] esclude la punibilità”). Nel linguaggio giuridico in questo caso si dice che il comportamento illecito è scriminato, e la lesione non dà luogo ad alcuna responsabilità.

Tutela rafforzata, ma non assoluta. Il diritto inviolabile del singolo individuo soccombe di fronte all’esigenza informativa, ma nel rispetto di alcune precise condizioni. Di stabilire quali siano queste condizioni si è incaricata la giurisprudenza, a partire dalla storica sentenza che scrisse il cosiddetto decalogo del giornalista (Cass. 18 ottobre 1984 n. 5259). Secondo tutti i giudici che, a partire da quella storica sentenza, si sono ritrovati a dover affrontare problematiche relative al diritto di cronaca, quest’ultima si configura correttamente soltanto quando concorrono i seguenti tre requisiti: a) la verità dei fatti (oggettiva o “putativa”); b) l’interesse pubblico alla notizia; c) la continenza formale, ossia la corretta e civile esposizione dei fatti.

In assenza anche di uno solo di questi requisiti, il diritto inviolabile risorge in tutta la sua pienezza, rendendo illecita la manifestazione di pensiero.

Un’ultima considerazione va fatta riguardo ai soggetti che possono beneficiare del diritto di cronaca. Sarebbe errato sostenere che il privilegio di informare è riservato al giornalista. L’art. 21 Cost. non può riguardare una ristretta categoria. In realtà, l’ambito di applicazione del diritto di cronaca non è riferito al soggetto che lo esercita, ma al mezzo attraverso il quale viene diffuso il pensiero.

Così, il diritto di cronaca va riconosciuto a chi narra fatti o esprime un pensiero utilizzando un mezzo tecnicamente idoneo ad informare una cerchia indeterminata di persone. Quindi, non solo al giornalista, ma anche a chi scrive sul giornalino della scuola o dell’università, su un volantino poi distribuito al pubblico, a chi interviene in un forum o tiene un blog su internet. Persino chi scrive sui muri della città può invocare il diritto di cronaca, se vengono rispettati gli altri requisiti (interesse pubblico e continenza formale), anche se il più delle volte i messaggi scritti sui muri, non riportando fatti ma giudizi, risultano meglio riconducibili alla problematica della critica.

Il Testo unico sulla privacy  (D.lgs. 196/2003) non ha abolito la legge n. 633/1941 sul diritto d'autore e in particolare l'articolo 97 di questa legge, che afferma: "Non occorre il consenso della persona ritratta quando la riproduzione dell'immagine è giustificata dalla notorietà o dall'ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico". Sul risvolto di tale norma si suole articolare l'ampiezza del diritto di cronaca: si può pubblicare tutto ciò che è collegato a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico. Nel concetto di pubblicazione lecita è compresa anche la fotografia di persone che godano di notorietà o che ricoprano uffici pubblici. Il giudice può autorizzare la pubblicazione della foto di un minore sequestrato o scomparso: in  questi casi prevale "la necessità di giustizia o di polizia".

Il diritto della stampa di informare su indagini in corso e quello del pubblico di ricevere notizie su inchieste scottanti prevalgono sulle esigenze di segretezza: lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell'uomo che, nella sentenza del 7 giugno 2007, ha condannato la Francia per violazione della libertà di espressione (ricorso n. 1914/02). Questo perché i tribunali interni avevano condannato due giornalisti che avevano pubblicato un libro sul sistema di intercettazioni illegali attuato durante la Presidenza Mitterand.

La Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo, inoltre, con tre sentenze (Goodwin, Roemen e Tillack) ha dichiarato  che i giornalisti non possono essere indagati e perquisiti per  violazione del segreto istruttorio. La Convenzione europea dei diritti dell'uomo, con l'articolo 10, protegge le fonti dei giornalisti. Il segreto è funzionale al diritto dei cittadini a conoscere tutto quel  che accade nei palazzi del potere. Le decisioni di Strasburgo sono vincolanti per i giudici italiani.

Il nostro Codice di procedura penale, in base alla relativa legge-delega, "deve adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale".

La Costituzione italiana del 1948 supera l'esigua visione fornita un secolo prima dallo Statuto Albertino, che all'art. 28 prevedeva che “La Stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi”. Saranno proprio delle leggi dello Stato, infatti, a consentire nell’epoca repubblicana le censure tipiche del periodo fascista.

L'art. 21 della Costituzione stabilisce che: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.

La Corte di Cassazione italiana ha recentemente stabilito una serie di requisiti affinché una manifestazione del pensiero possa essere considerata rientrante nel diritto di critica e di cronaca: veridicità (non è possibile accusare una persona sulla base di notizie false), continenza ed interesse pubblico. Se si tratta di fatti personali, anche se veri e continenti, non dovrebbero essere pubblicati. Al riguardo operano i limiti previsti dai reati di diffamazione ed ingiuria. In generale costituiscono un evidente limite al diritto di cronaca anche l'onorabilità e la dignità della persona. Tutto ciò è diventato sempre più vero dopo la legge sulla privacy del 1996. Chi è coinvolto in procedimenti giudiziari non potrebbe essere fotografato in un momento in cui è sottoposto a carcerazione. Allo stesso modo il nome e le immagini di minori sono oscurati dal 1996.

Quindi, il diritto di manifestare il proprio pensiero si concretizza nella libertà di critica, di informare ed essere informati.

Libertà di informare, o libertà "attiva" di informazione: la dottrina considera garantita dalla Cost. anche la diffusione di informazioni (oltre che del proprio pensiero). Diritto di cronaca è un particolare caso di libertà di informare.

Libertà di essere informati, o libertà "passiva" di informazione; non è esplicitata in Costituzione, ma è ravvisabile in diversi testi normativi. Diritto di accesso ai documenti amministrativi è un importante caso del diritto ad essere informati.

Per mezzo s'intende non solo il mezzo di espressione, ma anche le modalità di divulgazione del pensiero a un certo numero di destinatari; non è la disponibilità dei mezzi ad essere garantita, bensì la loro libertà di utilizzo.

La libertà di informare e la libertà di essere informati danno luogo al c.d. diritto all’informazione.

Circa le modalità di esternazione del pensiero, anche critico, la Cassazione ha affermato che esso può manifestarsi anche in maniera estemporanea, non essendo necessario che si esprima nelle sedi, ritenute più appropriate, istituzionali o mediatiche, ove si svolgano dibattiti fra i rappresentanti della politica ed i commentatori. Diversamente, verrebbe indebitamente limitato, se non conculcato, il diritto di manifestazione del pensiero che spetta al comune cittadino.

Inoltre, sempre la Cassazione, ha affermato che la critica può esplicarsi in forma tanto più incisiva e penetrante, utilizzando anche espressioni suggestive, quanto più elevata è la posizione pubblica della persona che ne è destinataria.

Questo è quanto scritto nelle norme superiori, ma di fatto, poi, il sistema ti dà e il sistema ti toglie.

Carlo Ruta è uno storico siciliano che l'8 maggio 2008 è stato condannato per "stampa clandestina" perché proprietario di un sito internet, che faceva informazione civile senza che fosse stata eseguita la registrazione presso la cancelleria del Tribunale di Modica. La violazione è quella dell'art. 16 della legge 47 del 1948 che riguarda principalmente i giornali cartacei, ma che è stata in questo caso applicata al web e ai blog. Negli Stati Uniti d'America, il primo emendamento della Costituzione, che protegge la libertà di stampa, tutela anche blog e altri website "amatoriali". In Italia i blogger, come ultimo baluardo di verità,  rischiano ogni giorno di essere querelati o addirittura incriminati per diffamazione a mezzo stampa, processo che può essere chiesto anche, pretestuosamente, da personaggi dichiarati colpevoli in sede penale e condannati a lunghe pene detentive anche per fatti gravissimi.

Questo cosa vuol dire?

Vuol dire che nell’Italia repubblicana “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” solo se si manifesta sulla stampa periodica.

La stampa periodica e gli altri strumenti di informazione vengono imbrigliati dalla legge sulla stampa (L. n. 47 dell'8 febbraio 1948), nella quale i due cardini sono la creazione del direttore responsabile e l'istituzione dell'Ordine dei giornalisti ( L. n. 69 del 1963). I criteri ispiratori della legge sono quel «senso altissimo di responsabilità» di cui ha parlato Mussolini alla prima riunione dei giornalisti fascisti, e la «prevalenza della libertà dello Stato su quella del cittadino» sbandierata da Amicucci, segretario del sindacato nazionale fascista dei giornalisti, che prende il posto della disciolta Federazione della stampa.

Altro problema si è posto con la nascita dell'emittenza privata e con le radio e telegiornali diffusi dai privati e per questo la legge 14 aprile 1975 "Nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva" ha sancito con l'articolo 7: “Ai telegiornali ed ai giornali radio si applicano le norme sulla registrazione dei giornali e periodici contenute negli articoli 5 e 6 della legge 8 febbraio 1948 n. 47, i direttori dei telegiornali e dei giornali radio sono, a questo fine, considerati direttori responsabili”. Con il programma radiotelevisivo di approfondimento informativo si analizza una notizia che ha già formato oggetto di cronaca, quindi acquisita dal telespettatore, allo scopo di garantirgli un’adeguata informazione su un fatto di indubbio interesse pubblico. Un contenitore molto gradito al grande pubblico è il talk show, dove il conduttore, generalmente in piedi, è idealmente circondato dai partecipanti. Introdotto il tema della trasmissione, il conduttore dà via al dibattito, ponendo domande alle quali i partecipanti rispondono esponendo le loro tesi.

Nel programma di approfondimento informativo l’obiettivo primario del giornalista conduttore è dissipare ogni dubbio facendo emergere la verità. Di conseguenza, presenterà il fatto così come accertato attraverso inchieste, testimonianze, provvedimenti giudiziari, documenti, fonti ufficiali, etc. Ricorrerà all’ausilio di soggetti dotati di una particolare competenza sul tema da trattare. Insomma, dovrà favorire la relazione del telespettatore al fatto.

Qui il giornalista conduttore produce informazione. Ha un ruolo attivo nel programma e ne è il protagonista, parte essenziale del contraddittorio. Può, anzi, deve interrompere, contraddire l’ospite, che fa affermazioni non rispondenti al vero, avendo unicamente la funzione di relazionare il telespettatore alla realtà. Quando il suo atteggiamento è a ciò finalizzato, il giornalista conduttore non può mai essere tacciato di “faziosità”, perché garantisce l’obiettività dell’informazione.

Ma negli ultimi anni è andata manifestandosi la tendenza a far prevalere sull’accertamento della verità il punto di vista, la valutazione, la posizione soggettiva di chi partecipa al programma. Tendenza marcata nei programmi informativi a contenuto politico. Qui l’aspetto dell’inchiesta giornalistica è marginale, a volte assente. I protagonisti del programma sono i soggetti politici, rappresentati nel rispetto del principio del pluralismo, ma che nella maggior parte dei casi sono, per ovvi motivi, portatori di un interesse incompatibile con l’interesse della collettività ad acquisire il fatto nella sua completezza ed obiettività.

Da più parti si attribuisce il fenomeno ad una precisa scelta delle testate e degli stessi giornalisti conduttori, che volutamente rinunciano ad approfondire il fatto per dare spazio alle voci dei politici. E’ anche vero, però, che una simile conduzione è sostanzialmente imposta dalle norme che negli ultimi periodi si sono incaricate di disciplinare il sistema radiotelevisivo, in gran parte emanate dalla Commissione Parlamentare di Vigilanza, organo di natura indiscutibilmente politica, visto come sono nominati i suoi 40 membri (pariteticamente dai presidenti di Camera e Senato, ma scelti tra tutti i gruppi parlamentari).

Quindi, per manifestare il proprio pensiero bisogna essere giornalisti. Inoltre, la maggior parte delle agenzie di stampa, dei giornali e delle televisioni sono di proprietà editoriale privata. Molto spesso questo proprietario è un partito, oppure sono gestiti da grandi gruppi economici e finanziari che esercitano ogni tipo di influenza. Quando la proprietà è pubblica, essa è in mano agli schieramenti politici. Da qui l’espressione di lottizzazione del sistema informativo pubblico: fazioso e disinformativo.

Quale libera informazione può essere fornita da soggetti prezzolati dall’economia (proprietà o pubblicità) o genuflessi alla politica o all’Ordine che ne detiene l’Albo.

“All'albo siam fascisti” è un contributo sul tema di  Rinaldo Boggiani.

Furono i Gesuiti, nell'Ottocento, a proporre che i giornalisti fossero obbligati ad iscriversi ad un Albo professionale. Da allora...

Perché in Italia c'è l'albo dei giornalisti? A chi mai è venuta l'idea di schedare chi scrive? Una gran bella idea se ci pensiamo un pò: facciamo l'esame a chi vuole esercitare la prima delle libertà, quindi commissioni, programmi, temi da fare in un certo modo, libri da scrivere, libri da consigliare, corsi, esami, raccomandazioni, restituzione di favori; costruiamo un elenco dei promossi e, una volta promossi, in riga e ben allineati. Insomma perché e da chi l'idea della tessera?

Nel primo editoriale del 1850 di Civiltà Cattolica (la rivista dei gesuiti istituita nel 1850 per volere di Pio IX) si legge: "per insegnar grammatica ai putti ci vogliono non so quanti anni di stage e quanti brevetti di capacità; ma a timoneggiare la pubblica opinione basta... basta che? Io non saprei definire il minimum della capacità richiesta per essere giornalista, in quanto se, per impossibile potesse esercitarsi questo mestiere senza saper leggere e scrivere, l'essere analfabeta non ne sarebbe per certo un impedimento". "Ed è cosa così indifferente" scrive ancora la rivista in un editoriale del 1856, "che sia onesto o malvagio, dotto od ignorante colui che ogni mattina manda in giro per tutta Europa dodici, sedici, venti colonne, che attossicate vi porteranno la morte? Oh se premesse davvero l'educazione del popolo, allora sì che costoro dovrebbero subire un esame che a più d'uno farebbe passare il ruzzo di sputar sentenze".

L'istituzione di un sistema che selezioni coloro che possono scrivere sulla stampa periodica, è nei programmi politici dei gesuiti.

"Il giornalismo non ha nessuna garanzia" scrive ancora Civiltà Cattolica il 4 dicembre 1883: "Mentre ad insegnar l'abbiccì in una scoletta di bambinelli si vogliono studi lunghi, esami, difficili e costose patenti; per fondare una gazzetta, ossia piantar cattedra di filosofia, diritto, storia, scienze naturali, d'ogni cosa insomma, ed influire nei destini d'uno Stato basta che il cittadino sia maggiore d'età e goda del libero esercizio dei diritti civili. Quindi l'avvocato senza clienti, il professore senza scolari, il medico senza ammalati, il bocciato agli esami di laurea, l'impresario fallito, l'impiegato a spasso e tutta siffatta roba che non ha nulla da perdere e nulla da guadagnare, trova sempre spalancata la porta del giornalismo".

E ancora nel 1913: "Il peggio è che la professione di giornalista è libera nel suo esercizio da qualunque impaccio, non richiedendosi né prova d'idoneità, né abilitazione, né garanzie di moralità, Insomma di tanti esami e patenti, la stampa n'è affatto immune. In nome del popolo sovrano ogni educatore deve possedere il suo certificato in carta bollata, dal dotto universitario al sottomaestro di villaggio. N'è fornita perfino la suora che vigila sui marmocchi nei giardini d'infanzia; solo il grande pulpito della pubblicità è libero; qualunque mestatore o farabutto può salirvi in veste da profeta per esprimere la sua opinione".

"Con l'istituzione dell'Albo professionale" scriverà Ermanno Amicucci, il proponente della legge che istituisce Ordine e Scuola di giornalismo, futuro Segretario Generale del Sindacato Nazionale Giornalisti, ultimo direttore del Corriere della Sera dell'era fascista, "il Fascismo ha risolto questo problema: che usurpatori non autorizzati s'impadroniscano d'un potere. Non sarà più possibile d'ora innanzi fare del giornalismo, l'agognato refugium peccatorum, il comodo asilo di tutti i profughi, il ricorrevo di molti spostati; per esercitare la professione di giornalista, a norma delle disposizioni contenute nel regolamento per l'Albo, occorrerà possedere ben determinati titoli culturali e morali".

Art. 7 legge 31 dicembre 1925, n. 2307: "È istituito un ordine dei giornalisti che avrà le sue sedi nelle città ove esiste corte d'appello". L'albo risponde a un'ideologia di vertice, di controllo, di comando, di pianificazione quindi, che i fascisti accolgano l'idea dei gesuiti, non fa certo meraviglia, anzi è la conferma che un'organizzazione dall'alto non può rinunciare a un tale controllo.

Con la caduta del fascismo, la neonata democrazia avrebbe dovuto abolire l'albo, metterlo fra i tristi ricordi della follia totalitaria: quelli da far studiare ai ragazzi per alimentare la memoria storica.

Ma gli obiettivi politici della nuova classe dirigente, erano altri. Come cancellare un tale strumento di potere? Un veloce maquillage e voilà, il gioco è fatto. I giuristi, quelli che vivono all'ombra della sedia del principe, si misero al lavoro cambiando alcune parole.

Così l'art. 4 del regio decreto del 26 febbraio 1928, n. 384: "L'albo dei giornalisti è composto di tre elenchi, uno dei professionisti, l'altro di praticanti, il terzo di pubblicisti", diventò l'art. 1 della legge repubblicana del 3 febbraio 1963, n. 69: "È istituito l'ordine dei giornalisti. A esso appartengono i giornalisti professionisti e i pubblicisti, iscritti nei rispettivi elenchi dell'albo".

E ancora: Regio decreto 26 febbraio 1928, a. 1: "Presso ogni sindacato regionale fascista dei giornalisti esistente nel regno è istituito l'albo professionale per i giornalisti. I giornalisti che siano residenti nelle colonie, sono iscritti nell'albo professionale di Roma". Legge repubblicana del 3 febbraio 1963, n. 69, a. 26: "Presso ogni Consiglio dell'Ordine regionale o interregionale è istituito l'albo dei giornalisti. I giornalisti che abbiano la loro abituale residenza fuori del territorio della Repubblica sono iscritti nell'albo di Roma".

Ecco fatto: tutto come prima. Oggi ci ritroviamo a rimpiangere le libertà del ‘800.

"Albi di giornalisti!" ha detto Luigi Einaudi, "Idea da pedanti, da falsi professori, da giornalisti mancati, da gente vogliosa di impedire agli altri di pensare con la propria testa. L'albo è un comico non senso, è immorale perché tende a porre un limite a quel che limiti non ha e non deve avere, alla libera espressione del pensiero".

Arnaldo Mussolini, suo fratello, Rocco e Amicucci vollero il vertice di controllo dell'organizzazione giornalistica al Ministero. La legge repubblicana del 3 febbraio 1963, n. 69, dispone: "È istituito, con sede presso il Ministero di Grazia e Giustizia, il Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti"; "Il Ministro per la grazia e giustizia esercita l'alta vigilanza sui Consigli dell'Ordine".

Una questione di legittimità costituzionale in merito alle attribuzioni del Ministro di grazia e giustizia sull'Ordine, è stata dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale (sentenza del 23 marzo 1968, n. 11).

Ritorniamo sul problema: non si sa mai che ci sfugga qualcosa. Si può giustificare l'Ordine dei giornalisti in un sistema democratico?

Può continuare in democrazia un istituto voluto da un regime totalitario perché, con quello, perfettamente logico, necessario?

Se un istituto risponde a un'organizzazione dall'alto (fascista, cattolica), come giustificarlo in un'organizzazione dal basso (democratica, pluralista)?

Come si può giustificare un Ordine dove logicamente non può esserci che disordine?

Una organizzazione sociale dove ognuno può dire ciò che pensa, non può che essere disordinata.

"L'agitazione e l'instabilità" ha scritto Boggiani, "sono naturali nelle repubbliche democratiche".

Il sistema democratico vuole ordine fra i soggetti pubblici attraverso un meccanismo di pesi e contrappesi, di checks and balances, cioè di controlli incrociati dove la libera stampa funziona da controllore principale, da cane da guardia della democrazia; e naturale disordine fra i soggetti privati. In Italia, vige ancora la formula inversa. Ordine fra i cittadini, tenuti in soggezione da una scomposta miriade di leggi; e disordine fra i soggetti pubblici, slegati dall'elettore perché così vogliono le nostre regole legate al passato.

In merito all'Ordine dei giornalisti, cosa ne pensa la Corte Costituzionale?

"La legge istitutiva dell'Ordine", ha detto il giudice che doveva ripulire l'ordinamento dalle invenzioni fasciste, "disciplina l'esercizio professionale giornalistico e non l'uso del giornale come mezzo di manifestazione del pensiero, sicché, esso non tocca il diritto di manifestare liberamente il pensiero che l'articolo 21 della Costituzione riconosce a tutti" (sentenza n. 11 del 1968). Neanche un ubriaco scriverebbe un concetto così scombinato: da una parte l'esercizio professionale dall'altra l'uso del giornale.

Se l'Ordine dei giornalisti non ha alcuna legittimazione democratica; se la sua istituzione è storicamente e logicamente fascista, quale giustificazione danno, a quali argomentazioni affidano la propria difesa i vertici dell'Ordine stesso?

Le argomentazioni sono di questo tenore: "L'Ordine significa il riconoscimento giuridico della professione di giornalista. L'esame di Stato è prescritto dall'articolo 33 della Costituzione. Senza esami e senza titolo chi lavora nelle redazioni si riduce a essere un impiegato o un mestierante. Senza la legge istitutiva dell'Ordine verrebbe meno, inoltre, l'obbligatorietà giuridica di osservare regole etiche".

Primo: sono argomentazioni già sentite. "Il Sindacato Nazionale Fascista dei Giornalisti si propone di tutelare gli interessi morali e materiali dei professionisti della categoria".

Secondo: l'art. 33 della Costituzione al comma 5 dice: "È prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale". Non dice altro. Dal testo della dichiarazione, detta e scritta in più occasioni, sembra che la Costituzione legittimi l'Ordine.

Terzo: "l'obbligatorietà giuridica di osservare regole etiche", risponde solo a un'ideologia totalizzante; è un ossimoro, cioè un serpente logico che si mangia la coda, del tipo libertà obbligatoria. "La libertà di stampa" dichiarò infatti il Duce, al primo Congresso del Sindacato Nazionale Fascista dei giornalisti in Campidoglio nel gennaio 1924, "non è soltanto un diritto, è un dovere".

L'Ordine, insomma, è a tutela della moralità e professionalità del giornalista.

"L'Ordine dei giornalisti" dicono i vertici istituzionali dell'Ordine "è a garanzia dell'indipendenza".

Secondo il rapporto del maggio 1994 della organizzazione privata americana Freedom House sulla libertà di stampa nel mondo, l'Italia figura all'ultimo posto tra i paesi industrializzati a causa dell'intreccio fra media, potere economico e potere politico.

Mettere i giornalisti davanti al fenomeno Tangentopoli è come sparare a un morto: dove erano i giornalisti mentre il sistema imputridiva? Cosa scrivevano quando tutti sapevano tutto? In un sistema democratico il giornalista controlla tutti. In Italia tutti controllano i giornalisti.

E veniamo, per chiudere il cerchio, ai circoli della stampa. "Ciascun Sindacato regionale fascista" scrive l'on. Amicucci "ha istituito uno o più Circoli della Stampa, luoghi di riunione in cui i giornalisti raccolgono intorno a sé la parte più eletta del mondo intellettuale della città".

E così ancora oggi. "L'episodio più vergognoso dell'intera vicenda Tortora è forse rappresentato dall'accorrere della Napoli bene al Circolo della Stampa per la presentazione del libro “Gianni il bello”, autobiografia di Giovanni Melluso (uno dei pentiti autoaccusatosi di traffico di droga per poter accusare Tortora) dettata da questo ineffabile personaggio a una signora, congiunta di un alto magistrato. Attorno alla depositaria della preziosa narrazione fecero ressa magistrati, consorti dei medesimi, direttori di giornali, uomini di mondo e di affari, cortigiani vari".

"I Circoli della Stampa" scrisse l'on. Ermanno Amicucci, "hanno una funzione ricreativa e culturale".

PARLIAMO DI CENSURA: VERA O PRESUNTA

LIBERTA’ DI STAMPA E COERENZA

Con le note dell'Orchestra di piazza Vittorio si è aperta alle 15.30 del 3 ottobre 2009 la manifestazione per la libertà di informazione convocata dalla Federazione nazionale della stampa. Solo bandiere della Cgil e dei partiti di opposizione. Molti slogan, cartelli, manifesti e striscioni antiberlusconi.

"Mi spiace non aver potuto partecipare all’iniziativa della Fnsi sulla libertà di stampa. Ho semplicemente sbagliato piazza e mi sono ritrovato in una manifestazione del Pd, di Rifondazione Comunista con la partecipazione di Cgil e di tanti esponenti dello spettacolo", ha dichiarato alle agenzie stampa il segretario del consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino. "C’era anche il sosia dell’onorevole Antonio Di Pietro, perché non poteva certo essere il leader dell’Italia dei valori, primatista tra i politici delle cause contro i giornalisti", ha concluso Iacopino.

Alla manifestazione e all’appello di “La Repubblica” per la libertà di stampa ha partecipato Saviano. “Verità e potere non coincidono mai”: così Roberto Saviano ha chiuso il suo intervento alla manifestazione per la libertà dell'informazione. “La libertà che vogliamo difendere - ha detto l'autore di Gomorra – è la possibilità di raccontare senza doversi aspettare ritorsioni”.

Nota bene: “Gomorra” edito dalla Mondadori di Berlusconi.

Molti dei manifestanti e dei firmatari dell’appello contro Berlusconi, però, non disdegnano di lavorare con le sue aziende: Mondadori (editoria), Medusa (film), Mediaset (televisione). E si arrabbiano se glielo rammenti.

La manifestazione si è svolta  quando Bianca Berlinguer, primogenita dei quattro figli del leader del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer e di Letizia Laurenti (con una sorella giornalista a Studio Aperto di Mediaset), era direttore del TG3 RAI e quando le settimane prima erano in onda su RAI 2 “Anno Zero” di Santoro e Travaglio, su Rai3 “Ballarò” di Floris, “Parla con me” della Dandini,  e da ultimo “Che tempo che fa” di Fazio, programmi monotematici antiberlusconiani.

Il mondo dell'informazione non si è presentato compatto all'iniziativa di protesta di Roma. Dalla manifestazione si è dissociata, ad esempio, la componente sindacale della Fnsi "L'Alternativa" e l'associazione di giornalisti "Lettera22".

L'Alternativa, in una nota, sottolinea: "I giornalisti, si sa, hanno un solo sindacato, l'Fnsi, un sindacato unitario dicono, un sindacato unico diciamo. Noi della componente sindacale 'L'Alternativa' ci abbiamo provato per anni a, come dice il "Che", 'combattere le istituzioni dall'interno': presentando liste, entrando negli organismi, facendo accordi ampi anche con chi da noi era lontano, culturalmente, idealmente e politicamente. Lo abbiamo fatto nel nome di quello che secondo noi dovrebbe fare un sindacato: tutelare i posti di lavoro, le buste paga e le condizioni di lavoro dei colleghi. Tutti i colleghi. Purtroppo chi gestisce da anni il sindacato dei giornalisti preferisce fare politica, anziché fare sindacato". Ennesima conferma di ciò, dopo i vari scioperi 'politici' indetti o annunciati in questi anni, è "la pseudo manifestazione per al libertà di stampa, che si configura - secondo L'Alternativa - per quella che è: la difesa della 'loro' libertà di usare il sindacato per parlare a nome dell'intera categoria dei giornalisti a fini di propaganda politica. L'Alternativa conclude: "E' evidente, a questo punto, che questo sindacato non ritiene di tutelare tutti coloro che fanno questo mestiere, ma solo chi lavora a Repubblica o all'Unita'.

Netto il no alla manifestazione anche da parte dell'associazione "Lettera22": E' evidente che la manifestazione indetta dall'Fnsi, formalmente in “difesa della libertà di stampa” (e a cui aderisce la Cgil) è in realtà una manifestazione a fini di propaganda politica. Una strumentalizzazione alla quale purtroppo presteranno il fianco molti colleghi e molte testate vicine all'opposizione e alla quale è arrivato, purtroppo, anche l'avallo dell'Ordine dei giornalisti". "Lettera22" indica quattro motivi di dissociazione: "Primo, perché a noi la piazza non piace, perché con le manifestazioni si pretende di spacciare la volontà di pochi, a volte anche molti, per la volontà di tutti. Le adunate oceaniche è meglio lasciarle alla politica, e le manifestazioni a chi è all'angolo e non ha altre strade: ha perso il lavoro, è sfruttato, non ha diritti civili. Secondo, perché se è vero che esistono molti problemi e molte minacce alla libertà d'informazione in Italia, questo non accade da oggi: perdurano e si sono aggravati sotto i governi (di centrosinistra come di centrodestra). Ma crediamo che sia ridicolo, se non pretestuoso, identificarli con le querele del premier all'Unità e a Repubblica o con il cosiddetto 'caso Boffo' lanciato dal Giornale". Terzo elemento di dissociazione, "perché si chiede il 'diritto di essere informati da parte di tutti i cittadini per avere tutti gli elementi necessari a formarsi un'opinione', ma in realtà si vuole solo l'impunità per ripetere alla nausea un elemento, tralasciandone tanti altri, per condizionarla l'opinione. Dire una cosa vera infatti, occultandone altre, non significa dire la verità. Quarto, infine - conclude Lettera22 – perché non si può affermare di avere fiducia nella magistratura e pretendere che i processi si svolgano regolarmente e, contemporaneamente, affermare che ricorrere ai tribunali, soprattutto in procedimenti civili, chiedendo risarcimenti per milioni di euro, si configura oggettivamente come un tentativo di intimidazione e di ricatto morale. E' evidente che le parate come quella di Roma sono organizzate da quelli che, se potessero, la libertà di stampa la imbavaglierebbero. La libertà di stampa non manca, insomma, manca la stampa libera".

Nell'edizione delle 20 del Tg1 il direttore Augusto Minzolini è intervenuto con un editoriale per esprimere forte dissenso sulla manifestazione sulla libertà di stampa. "Negli ultimi 10 anni sono 430 le querele dei politici, per il 68% di esponenti di sinistra. E' possibile che la libertà di stampa venga messa in pericolo solo da due querele di Berlusconi contro L’Unità e contro La Repubblica?", ha detto.

Allergici al guinzaglio del governo e difensori del collare a strozzo democratico. Indignati dal ricorso alla cause civili contro i giornali amici, salvo intasare le aule di giustizia con richieste di risarcimento e azioni penali contro il nemico di classe. Le contraddizioni non hanno mai fatto paura alla sinistra italiana e la tradizione è stata rinverdita con la manifestazione - in diretta su Sky e sul Tg4 - dei querelanti contro le querele.

Come ha salmodiato Marco Travaglio ad Annozero, «negli Usa un giornalista deve controllare una cosa sola, che la notizia sia vera. In Italia ci sono denunce civili e penali ed esposti all’Ordine...». Eppure ha trascurato che su 6.745 cause penali e civili intentate alla stampa dal 1994 all’ottobre 2009, le richieste di esponenti del centrosinistra ammontavano a 312 milioni su un totale di 486 milioni di euro.

Sì, proprio da quel fiume composito, con facce vecchie e nuove, che era in piazza con Travaglio e i mille rivoli della galassia giustizialista. Tutti habitué della querela. A partire dalla Cgil, con i suoi sempre numerosissimi pensionati, che potrebbe dare qualche buon consiglio agli avvocati del premier su come farle (e anche vincerle). L’epoca d’oro è stata quella di Sergio Cofferati promotore di diverse azioni penali e civili contro il Giornale e Libero. Poi anche contro ministri della Repubblica, Roberto Maroni, allora responsabile del Lavoro, e Gianni Alemanno.

Ma, soprattutto, ci saranno loro i protagonisti della politique politicienne di centrosinistra. Sempre pronti ad innalzare i loro vessilli quando si tratta di andar contro Berlusconi, ma che non esitano a dar contro le «iene dattilografe» quando scrivono o dicono qualcosa che non garba.

È il caso di Antonio Di Pietro, uno dei primi ad appoggiare la manifestazione. Un vero recordman della querela con oltre 300 cause (357 secondo Repubblica) contro la stampa e ben 700mila euro incassati. Con buona pace del diritto di critica. Non ci sarà, ma ha formalmente aderito, l’ex premier Massimo D’Alema. Tutti lo ricordano per la maxi-richiesta di risarcimento da 3 miliardi di vecchie lire ai danni del povero Forattini per una vignetta su Repubblica sulla lista Mitrokhin, ma ne ritirò anche un’altra da 2 miliardi al Corriere che aveva osato criticarlo sulla sua strategia sindacale. La richiesta di risarcimento da 500mila euro alla Stampa per un articolo che lo citava in riferimento a un dossier dell’agenzia investigativa Kroll. E nel 2002 querelò Repubblica per un’intervista a Maurizio Gasparri che lo tacciò di «spregiudicatezza» per la sua passione nautica. Non è solo il Giornale a essere nel centro del mirino, ma anche la cosiddetta stampa democratica.

Ne sa qualcosa il professor Giovanni Sartori, editorialista del Corriere, che si beccò una querela da Rosy Bindi quand’era ministro della Salute. Incarico istituzionale dal quale non esitò a far causa a destra e a manca ai tempi del dibattito sulla «cura Di Bella». E che dire della sinistra più o meno radicale? In piazza ci sarà anche Nichi Vendola. Lui non ha mai avuto la querela facile, ma alcuni suoi ex-assessori sì, ogniqualvolta quotidiani locali e nazionali denunciavano alcune irregolarità amministrative. E in piazza dovrebbe esserci pure Oliviero Diliberto, il segretario del Pdci, che querelò Libero per la pubblicazione di un verbale del comitato centrale nel 2006 al grido di: «Ci hanno già finanziato la campagna per le politiche con 100mila euro». E proseguì chiedendo un milione al portavoce della comunità ebraica di Milano per un’intervista a Repubblica in cui stigmatizzava le sue posizioni anti-israeliane.

Non sorprenda, in questo mare magnum della sinistra, come la piazza possa mettere assieme tutto e il suo contrario. Il vignettista Vauro con i suoi colleghi del Manifesto si ritroveranno assieme ai cigiellini, immemori di quando nel 1997 l’allora direttore Parlato censurò un disegno anti-Cofferati. Così come Milena Gabanelli, di Report, potrebbe incrociare il candidato segretario Pd del Lazio, Roberto Morassut, che querelò la trasmissione per una puntata di fuoco sul piano regolatore della giunta Veltroni del quale era assessore.

La mobilitazione è tale che ci si potrebbe dimenticare che a promuovere l’iniziativa è stata la Federazione della stampa. E che sia un’agitazione contro il governo lo ha ammesso anche L’Altro, il quotidiano della sinistra diretto da Piero Sansonetti, che il giorno prima ha pubblicato lo sfogo di una lettrice, Daniela Greco, nel quale si denunciava il «dissenso a comando». Quello di chi dice che «c’è un nemico dell’informazione e la società civile deve scendere in piazza». Argomenti che costringono Sansonetti a prendere atto che quella di oggi è una manifestazione contro il governo, «contro Berlusconi». Il resto è secondario.

Ma il rito manifestarolo è rispettato in tutto. Anche nel mescolare proteste diverse in un unico minestrone, organico alla battaglia del momento. Il peggio questa volta è toccato ai precari della scuola. Dovevano fare la loro manifestazione, ma la Cgil, secondo tradizione, ha fatto confluire il suo corteo dentro quello dell’informazione.

Si usa denominare quarto potere la capacità dei mass media di influenzare le opinioni e le scelte dell'elettorato. È questo un uso metaforico del termine potere, distinguendolo da quello legislativo, esecutivo e giudiziario.

In Italia ogni notizia diffusa dalla stampa sembra la lettura pedissequa della velina passata dalle segreterie politiche o, peggio ancora, dalle  autorità giudiziarie o di pubblica sicurezza. Il gergo è quello dell’accusa.

Nessuno spazio è dato alla difesa. Nessuna remora a pubblicare l’immagine e i dati delle persone.

Naturalmente le fughe di notizie, per fatti sottoposti a segreto istruttorio, dovrebbero essere perseguite, incriminando i magistrati che ne sono i custodi. Invece la punizione è parziale.

Carlo Vulpio, già inviato del Corriere della Sera, è uno tra quelli che ha seguito passo passo le inchieste della procura di Catanzaro portate avanti dal Pm Luigi De Magistris. Le ha seguite così da vicino che è stato incriminato assieme al Pm e ad altri giornalisti per associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa. Lui, in particolare, per concorso morale. Capi d’accusa mai ipotizzati da quando esiste la Repubblica. Non solo è stato incriminato, ma è stato anche rimosso dal giornale. Ma torniamo all’oggetto dell’inchiesta.

I giornalisti, senza che vi sia intervento disciplinare da un ordine elevato a casta, continuano ad attentare alla reputazione dei cittadini indifesi, coprendosi dietro il diritto di critica o di cronaca. D’altro canto, invece, tacciono le malefatte dei poteri forti, per collusione o per codardia. Da anni si denuncia il sistema dei concorsi pubblici truccati nell’avvocatura, magistratura, notariato. Da anni si segnalano gli insabbiamenti delle denunce scomode o la violazione del diritto di difesa. Risultato: indifferenza, insofferenza, indisponenza.

Per fare sensazione e nocumento si redigono i pezzi, improntandoli in modo tale da anticipare giudizi di condanna: giudizi che sono propri di un procedimento giudiziario in contraddittorio e, come ben si sa, già di per sé inattendibili con un “sistema giustizia” allo sfascio.

Neanche, poi, che i giornalisti venissero dalla luna, senza macchia e senza peccato. Invece si scopre che le modalità di accesso alla professione sono identiche a quelle degli avvocati, magistrati, notai, professori universitari, ecc..(con inchieste che ne hanno inficiato la credibilità), o che i media sono foraggiati dalla politica e dall’economia. Fatti, questi, che ne minano l’attendibilità.

Poi, spesso, si scopre, anche, che chi vorrebbe imporre a noi la morale, invece è peggio del mostro sbattuto in prima pagina. Però questo non si può dire. Vittorio Feltri è stato attaccato da tutto il sistema di potere per aver pubblicato il curriculum morale del direttore di “L’Avvenire”.

E che dire della presa di posizione del nostro “apparato informativo”, libero di denigrare la reputazione di un Premier (e del Paese che rappresenta), ma insofferente a ricevere le sue citazioni per danni.

In difesa della libertà di stampa (libertà di diffamare o di censurare) si sono raccolte firme e organizzate manifestazioni, come quella del 3 ottobre 2009 della Fnsi, il sindacato dei giornalisti.

Silvio Berlusconi ha presentato a “Porta a Porta” del 15 settembre 2009, in diretta TV, i risultati dei frenetici lavori del suo Governo che hanno permesso di consegnare una casa ai primi dei tanti sfollati vittime del terremoto in Abruzzo di cinque mesi prima. In quella sede ha parlato di libertà di informazione. La Rai «è l’unica televisione al mondo che è contro una sola parte politica». E via elencando, da Anno Zero a Ballarò, passando per Report. Insomma, «manifestare contro la libertà di stampa è contrario alla realtà» visto che «nella tv e nella stampa ci sono troppi farabutti». Con una digressione su la Repubblica, «non un giornale ma un super-partito con un editore svizzero e un direttore dichiaratamente evasore fiscale».

Ecco alcuni stralci degli articoli ed editoriali che il giorno dopo i quotidiani hanno dedicato alla trasmissione. Lasciamo a voi lettori decidere se la libertà di stampa sia in pericolo o meno. E quali sono i limiti di questa libertà.

Repubblica

“Un monologo con insulti e menzogne nel salotto del servizio pubblico”, di Curzio Maltese: “Dopo mezz’ora si capisce qual è il vero scopo della trasmissione a reti unificate. Un attacco frontale alla stampa, anzi per dirla tutta a Repubblica. Noi giornalisti di Repubblica siamo «delinquenti», «farabutti» che ci ostiniamo a fargli domande alle quali il premier non risponde da mesi. Se non con questo impasto di minacce e menzogne, con la favola della «perdita di lettori e copie»: un’affermazione smentita dalle vendite del giornale in edicola che sono in costante ascesa.”

Corriere della Sera

“La tv dell’obbligo. Così un evento diventa rituale a reti unificate” di Aldo Grasso: “Perché, in questo modo, anche una cerimonia importante come l’inaugurazione delle casette antisismiche ha dato adito a ogni sospetto. E soprattutto è parso uno di quei rituali sovietici a reti unificate, in stile Putin, a metà strada tra populismo demagogico e culto della personalità.”

La Stampa

“Nel salotto di Porta a Porta lo show senza concorrenza” di Mattia Feltri: “Il farfallone amoroso gode del suo giorno dell’orgoglio e si riabilita - sempre che ne avesse bisogno - vestendosi e rivestendosi come Leopoldo Fregoli. Occhi lucidi e respiro lungo: tutti felici.”

Il Manifesto

“La Porta dei Miracoli” di Micaela Bongi: “A inizio giornata, il conduttore unico è pronto per scortare il Cavaliere tra le nuove casette di legno (che non sono arrivate in Abruzzo grazie al governo), per poi beatificarlo nel suo studio alle 9 di sera, in diretta TV.”

Bene. In questo stato di cose, però, nessuno si accorge che sono i grossi gruppi editoriali  ad aizzare alla lotta, solo con intento politico e/o economico.

La loro libertà, non quella di migliaia di giornalisti perseguitati o sfruttati. Per questi ultimi solo silenzio ed indifferenza.

L'Unione nazionale cronisti italiani e il Sindacato cronisti romani denunciano un ennesimo attacco della magistratura alla libertà di informazione avvenuto a Latina: il livello di allarme per la difesa di uno dei valori fondanti della democrazia è elevato.

La Procura di Latina ha aperto un'inchiesta contro Franco Matricardi, direttore di un portale internet, per violazione del segreto di indagine su un episodio di stupro e rapina, avendo pubblicato l'ordinanza del tribunale del riesame (regolarmente depositata in cancelleria e, quindi, di dominio pubblico!) sull'innocenza dei presunti responsabili, peraltro confermata dal successivo processo.

L'Unci denuncia che l'attacco al diritto-dovere di cronaca  è ormai divenuto sistematico, e nella maggior parte dei casi non solo è privo di giustificazioni, ma in aperto e palese contrasto con  la lettera e la sostanza del codice di procedura penale, delle sentenze della Corte di Strasburgo, della Costituzione e delle leggi.

Da Venezia ad Ancona, da Perugia a Latina, da Palermo a Genova, per parlare solo degli ultimi mesi, i Pm sono entrati - contemporaneamente  e, sembra, in modo coordinato - in azione contro i cronisti,  il diritto di cronaca e la libera informazione al servizio dell'opinione pubblica.

Davanti a questa offensiva, che non trova precedenti nella storia democratica  del paese, l'Unci ha deciso di comporre un "Bestiario" con i casi più gravi,  un dossier da inviare al Presidente del Csm.

Poi c’è la censura contro chi si batte per svelare le verità taciute dai media.

Il Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, dr Antonio Giangrande, ha presentato, inutilmente alla magistratura di Potenza una denuncia penale contro un magistrato della Procura di Brindisi che, per la pubblicazione di un singolo atto pubblico contenuto in una pagina del sito web dell’associazione, ha adottato, con incompetenza territoriale e non convalidati, reiterati decreti nulli di sequestro del medesimo sito arrecando grave danno d’immagine e interrompendone l’attività.

Il Magistrato negli atti di sequestro e in atti di indagine presentati al GIP ha omesso ogni riferimento e menzione della stessa associazione e ha indicato ragioni di urgenza, per un procedimento iscritto un anno prima.

Il sito web oscurato conteneva migliaia di pagine di notizie di informazione locale estrapolate da articoli di stampa. Alcune inchieste riguardano la stessa Procura di Brindisi coinvolta nel caso Forleo.

Ogni tentativo di impugnazione è stato vano.

Poi è la stessa Rai che censura le associazioni scomode. Questa è l’interrogazione parlamentare.

Atto n. 4-03178 Pubblicato il 6 dicembre 2007 Seduta n. 263

RUSSO SPENA - Al Ministro delle comunicazioni. - Premesso che:

"il 20 giugno 2007 la Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi accoglieva una domanda di accesso al palinsesto RAI da parte dell'associazione "Contro tutte le mafie", associazione tra l'altro riconosciuta dal Ministero dell'interno;

successivamente, il 17 ottobre 2007, la RAI revocava l'autorizzazione ad insaputa dell'associazione;

l'8 novembre la RAI inviava una squadra e un regista per le riprese del servizio sull'associazione, facendo pertanto presumere il superamento di ogni perplessità e l'accettazione della messa in onda del servizio;

considerato che:

il 15 novembre l'associazione chiedeva di conoscere la data di messa in onda e riceveva risposta certa indicante un servizio della durata di dieci minuti nella trasmissione di RAI1 del 23 novembre 2007 alle ore 10.40;

di fatto, il 23 novembre la trasmissione veniva cancellata ed il palinsesto di RAI1 stravolto;

immediatamente l'associazione si attivava per chiedere la motivazione dell'oscuramento del servizio telefonando alla redazione del programma di RAI1, che però negava risposta e annunciava una futura lettera di motivazione (in palese violazione della legge 241/1990 che prevede la risposta immediata in seguito a domanda d'accesso ad un servizio);

solo il 3 dicembre 2007 l'associazione riceveva uno scarno comunicato in cui si rilevava che l'autorizzazione era stata rilasciata il 20 giugno e poi revocata il 17 ottobre in seguito a proposta della RAI che non reputava degna l'associazione, adducendo addirittura perplessità circa la sua organizzazione,

si chiede di sapere:

per quale motivo si sia intervenuto a censurare una trasmissione programmata, nonostante vi sia stato parere favorevole della Commissione di vigilanza alla divulgazione;

perché la redazione abbia inviato una motivazione "postuma" ed evitato di rispondere alle domande poste nella stessa data di mancata messa in onda."

C’è da dire che l'art. 21 della Costituzione italiana stabilisce che: Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

Tale libertà è, tra le altre, considerata come corollario dell'articolo 13 della stessa Costituzione della Repubblica italiana, che prevede l'inviolabilità della libertà personale, tanto fisica quanto psichica.

L'interpretazione dell'art. 21 dà vita a dei principi: Il diritto di critica e di cronaca, oltre alla libertà di informare e la libertà di essere informati.

Il pensiero per essere manifestato ha bisogno di formarsi come merce accessibile a tutti, quindi essere pubblicato e distribuito. Ciò avviene in proprio o con l’editore.

La produzione in proprio con distribuzione porta a porta, è un’ipotesi fallimentare. L’opera non essendo sostenuta dalle istituzioni e non pubblicizzata dai media, non è acquistata da una moltitudine di utenti finali.

La produzione tramite un editore può avvenire, in modo improprio con la compartecipazione alle spese, ovvero senza oneri per l’autore. Naturalmente l’editore vaglia, corregge e censura le bozze dell’opera, oltre che valutarne la commerciabilità. Spesso non è importante l’opera, ma che l’autore sia un personaggio noto alle cronache, o che sia seguito dal pubblico, per usufruire dei benefici di visibilità. Spesso si privilegiano argomenti fatui e non di approfondimento e di denuncia, perché la società contemporanea sente l’esigenza di estraniarsi dalla realtà quotidiana.

L’editore, acquisendo i diritti dell’opera, la distribuisce e la vende, riconoscendo una minima parte dei proventi all’autore, per di più dopo molto tempo.

Paradosso: l’impedimento alla libertà di manifestare il pensiero è posto proprio dal sistema che ne prevede l’esistenza.

L’autore autoprodotto non ha benefici, né sovvenzionamenti, né visibilità.

L’editoria, quindi un’attività economica privata, ha finanziamenti pubblici e pubblicitari, benefici postali, regime speciale IVA, sostegno dei media e delle istituzioni.

A questo punto, per manifestare liberamente il proprio pensiero, si è costretti a rivolgersi ad apparati: che conformano l’opera alle proprie aspettative; che sono omologati, in quanto foraggiati dalla politica e dall’economia ed intimoriti dalla magistratura; che hanno distribuzione esclusiva e rapporti promozionali poco trasparenti. A riguardo è impossibile essere invitati o premiati a manifestazioni culturali, se non si è tutorati da qualche editore, pur avendo scritto un capolavoro. Spesso gli editori sono proprietari di testate d’informazione o di emittenti radiotelevisive, quindi si parla dell’opera o dell’autore solo se si fa parte dell’enturage.

Inoltre per poter pubblicare un articolo d’informazione si è costretti a far parte di un’altra casta: quella dei giornalisti.

C’è da dire che non tutti gli editori sono parigrado. C’è prevaricazione dei più forti a danno dei più deboli. Alcuni di loro, operanti nel campo radiotelevisivo, sono vittime di tentativi di acquisizione illegale delle frequenze assegnatele, con mancanza di tutela reale.

Qualcuno spera che le opportunità tecnologiche, social network o blog,  superino la censura mediatica. Poveri illusi. Non basta una piattaforma d’elite, chiusa ed autoreferenziale, con tecnologie non accessibili alla massa, oltretutto soggetta a sequestro ed ad oscuramento giudiziario.

Nulla, oggi, per arrivare a tutti, può soppiantare un buon articolo, un buon libro, una buona canzone, un buon film, o una buona trasmissione radiotelevisiva.

In conclusione. Con questo sistema si può ben dire che il libero pensiero, pur lecito e meritevole di attenzione, è tale solo quando è chiuso in una mente destinata all’oblio, altrimenti deve essere per forza conformato al sistema: quindi non più libero. 

PARLIAMO DI “MOSTRI IN PRIMA PAGINA” E “BUFALE” GIORNALISTICHE

“Quando la notizia non si dà, ma si fa”, dice il dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. 

Sbatti il mostro in prima pagina……e se il mostro fosse totalmente estraneo al reato imputatogli e assolutamente innocente, come successe a Enzo Tortora e ad altri 5 milioni di cittadini innocenti, vittime di errori giudiziari negli ultimi decenni ?

Sbatti il mostro in prima pagina è un film del 1972 diretto da Marco Bellocchio ed interpretato da Gian Maria Volontà. La trama definisce la Milano degli anni ’70. Nel clima teso della contrapposizione politica, nella redazione del quotidiano fittizio “Il Giornale” (l'omonimo verrà fondato 2 anni dopo, nel 1974) il redattore capo, su invito della proprietà, segue gli sviluppi di un omicidio a sfondo sessuale per incastrare un militante della sinistra extraparlamentare e strumentalizzare il fatto politicamente. La campagna mediatica sortisce l'effetto sperato, ed il mostro viene condannato innanzitutto sulle prime pagine del giornale e la condanna, in primis morale, aiuta l'area reazionaria a screditare gli ambienti della sinistra nella fase elettorale.

Il cinema ha posto attenzione su un fenomeno diffuso in Italia. Il tempo passa, le parti si invertono, ma il vizio non si perde.

Si usa denominare quarto potere la capacità dei mass media di influenzare le opinioni e le scelte dell'elettorato. È questo un uso metaforico del termine potere, distinguendolo da quello legislativo, esecutivo e giudiziario.

In Italia ogni notizia diffusa dalla stampa sembra la lettura pedissequa della velina passata dalle autorità giudiziarie o di pubblica sicurezza. Il gergo è quello dell’accusa.

Nessuno spazio è dato alla difesa. Nessuna remora a pubblicare l’immagine e i dati delle persone.

Naturalmente le fughe di notizie, per fatti sottoposti a segreto istruttorio, dovrebbero essere perseguite, incriminando i magistrati che ne sono i custodi. Invece la punizione è parziale.

Carlo Vulpio, già inviato del Corriere della Sera, è uno tra quelli che ha seguito passo passo le inchieste della procura di Catanzaro portate avanti dal Pm Luigi De Magistris. Le ha seguite così da vicino che è stato incriminato assieme al Pm e ad altri giornalisti per associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa. Lui, in particolare, per concorso morale. Capi d’accusa mai ipotizzati da quando esiste la Repubblica. Non solo è stato incriminato, ma è stato anche rimosso dal giornale. Ma torniamo all’oggetto dell’inchiesta.

Il fenomeno dei falsi scoop è la dèbacle del giornalismo italiano.

18 luglio 2009: a partire dalle 15,30 tutte le Agenzie battono la notizia di tre suore fermate in autostrada tra Torino e Aosta perchè correvano a 180 all'ora per correre dal Papa in ospedale. Il troppo stroppia: un'altra notizia che mette in cattiva luce delle religiose? Nella redazione di “Avvenire” qualcuno ricorda che pochi giorni prima si parlava di una neo-suora, di cui erano state pubblicate foto piccanti su Facebook; di un sacerdote beccato a guidare ubriaco perchè aveva fatto 4 messe di seguito... E allora parte il primo controllo, in parallelo -va aggiunto- a quello dei cronisti de “Il Giornale”. In un minuto e mezzo “Avvenire” scopre che dietro queste storie ci sono sempre gli stessi avvocati. E scopre che alla Polizia non risulta niente.

Falsi giornalistici. Finti scoop e bufale quotidiane” (Guida editore). Il saggio presenta un tema scottante, quello dei falsi giornalistici. Esso mette in luce come, negli ultimi anni, molti dei quotidiani italiani, che hanno calamitato l'attenzione dei lettori, risultino invece falsi del tutto. Tra l'altro i redattori hanno sempre meno la possibilità di verificare la credibilità delle notizie, che vengono diffuse alcune volte con lo scopo di diminuire la credibilità dei giornali, oppure per utilizzare gli stessi come strumento per calunniare o mettere in difficoltà qualcuno. Il volume è stato adottato nell'Università di Salerno, Facoltà di Sociologia e Corso di laurea in Scienze della comunicazione.

Ma allora, viene da chiedersi, come la mettiamo con i media, che spesso propongono ai loro lettori, oltretutto con ambizioni di ufficialità, burle fantasiose ed inverosimili almeno quanto quelle pubblicate, con chiaro intento provocatorio e clownesco, dai siti internet sparsi per il pianeta?

Un esempio lampante è stato offerto dal celebre quotidiano francese "Le Monde", che anni fa diede in prima pagina la notizia della morte di Monica Vitti, provocando lo sconcerto dell'attrice.

I giornalisti, senza che vi sia intervento disciplinare da un ordine elevato a casta, continuano ad attentare alla reputazione dei cittadini indifesi, coprendosi dietro il diritto di critica o di cronaca. D’altro canto, invece, tacciono le malefatte dei poteri forti, per collusione o per codardia.

Per fare sensazione e nocumento si redigono i pezzi, improntandoli in modo tale da anticipare giudizi di condanna: giudizi che sono propri di un procedimento giudiziario in contraddittorio e, come ben si sa, già di per sé inattendibili con un “sistema giustizia” allo sfascio.

Neanche, poi, che i giornalisti venissero dalla luna, senza macchia e senza peccato. Invece si scopre che le modalità di accesso alla professione sono identiche a quelle degli avvocati, magistrati, professori universitari, ecc..(con inchieste che ne hanno inficiato la credibilità), o che i media sono foraggiati dalla politica e dall’economia. Fatti, questi, che ne minano la credibilità.

Poi, spesso, si scopre, anche, che chi vorrebbe imporre a noi la morale, invece è peggio del mostro sbattuto in prima pagina. Notorio è quanto è successo al direttore di “Avvenire”, il cui curriculum morale è stato pubblicato da Vittorio Feltri su “Il Giornale.”

Questo è l’articolo pubblicato su “Il Giornale” del 28 agosto 2008. “«Articolo 660 del Codice penale, molestia alle persone. Condanna originata da più comportamenti posti in essere dal dottor Dino Boffo dall’ottobre del 2001 al gennaio 2002, mese quest’ultimo nel quale, a seguito di intercettazioni telefoniche disposte dall’autorità giudiziaria, si è constatato il reato». Comincia così la nota informativa che accompagna e spiega il rinvio a giudizio del grande moralizzatore, alias il direttore del quotidiano Avvenire, disposto dal Gip del Tribunale di Terni il 9 agosto del 2004.

Copia di questi documenti da ieri è al sicuro in uno dei nostri cassetti e per questo motivo, visto che le prove in nostro possesso sono chiare, solide e inequivocabili, abbiamo deciso di divulgare la notizia. A onor del vero, questa storia della non proprio specchiata moralità del direttore del quotidiano cattolico, circolava, o meglio era circolata a suo tempo, per le redazioni dei giornali. Dove si chiacchiera, anche troppo, per tirar tardi la sera. C’è chi aveva orecchiato, chi aveva intuito, chi credeva di sapere.

Ma le chiacchiere non bastano a crocefiggere una persona. O meglio bastano, sono bastate, solo nel caso di due persone: Gesù Cristo per certi suoi miracoli e, più recentemente, Silvio Berlusconi per certi suoi giri di valzer con signore per la verità molto disponibili.

Ma torniamo alle tentazioni, in cui è ripetutamente caduto Dino Boffo e atteniamoci rigorosamente ai fatti, così come riportati nell’informativa: «...Il Boffo - si legge - è stato a suo tempo querelato da una signora di Terni destinataria di telefonate sconce e offensive e di pedinamenti volti a intimidirla, onde lasciasse libero il marito con il quale il Boffo, noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni, aveva una relazione. Rinviato a giudizio il Boffo chiedeva il patteggiamento e, in data 7 settembre del 2004, pagava un’ammenda di 516 euro, alternativa ai sei mesi di reclusione. Precedentemente il Boffo aveva tacitato con un notevole risarcimento finanziario la parte offesa che, per questo motivo, aveva ritirato la querela...».

Dino Boffo, 57 anni appena compiuti, è persona molto impegnata. O, come si dice quando si pesca nelle frasi fatte, vanta un curriculum di rispetto. È direttore di Avvenire da quindici anni, direttore e responsabile dei servizi giornalistici di Sat 2000, il network radio-televisivo via satellite dei cattolici italiani nel mondo, nonché membro del comitato permanente dell’Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori, che detta le linee guida delle Università Cattolica del Sacro Cuore. Acuto osservatore della vita politica italiana e delle vicende che segnano il mutamento dei tempi e dei costumi, recentemente, in più d’una occasione, Boffo si è sentito in obbligo, rispondendo alle pressanti domande dei suoi smarriti lettori, di esprimere giudizi severi sul comportamento del presidente del Consiglio. E, turbato proprio da quel comportamento, è arrivato a parlare di «disagio» e di «desolazione». Persino, e dal suo punto di vista è assolutamente comprensibile, di «sofferenza».

Quella sofferenza, per citare testualmente quanto ha scritto ancora pochi giorni fa, sul giornale che dirige «che la tracotante messa in mora di uno stile sobrio ci ha causato». Questa riflessione l’ha portato a esprimere, di conseguenza, più e più volte il suo desiderio più fervido, ovvero il «desiderio irrinunciabile che i nostri politici siano sempre all’altezza del loro ruolo».

Nell’informativa, si legge ancora che della vicenda, o meglio del reato che ha commesso e delle debolezze ricorrenti di cui soffre e ha sofferto il direttore Boffo, «sono indubbiamente a conoscenza il cardinale Camillo Ruini, il cardinale Dionigi Tettamanzi e monsignor Giuseppe Betori».

I primi due non hanno bisogno di presentazione, l’ultimo, per la cronaca, è l’arcivescovo di Firenze. Si dice che le voci corrono. Ma, alla fine, su qualche scrivania si fermano.”

LETTERA APERTA ALLA STAMPA DEI DEPUTATI PUGLIESI DI FORZA ITALIA.

La felicità per aver visto confermata la nostra assoluta certezza che il collega Pietro Franzoso fosse del tutto estraneo ai fatti che nel 2004 portarono al suo arresto mentre era assessore regionale, con accuse gravi e infamanti, viene oggi turbata da più di una vena di amarezza.

Leggendo i giornali nazionali, gli stessi che nel 2004 dedicarono ampio spazio all’arresto dell’On. Franzoso, non si trova traccia alcuna della notizia della sua assoluzione “perchè il fatto non sussiste"; leggendo quelli regionali su alcuni si trova un trafiletto con la notizia oltre la pagina 10 e su altri non si trova nulla se non nelle edizioni cittadine di Taranto.

Atteggiamento ben diverso rispetto al clamore dato quando il 16 dicembre 2004, l’allora assessore Franzoso fu prelevato al suo arrivo in aereo a Brindisi e fu portato in carcere dove trascorse una settimana. Allora i giornali nazionali pubblicarono servizi densi di particolari sulla presunta collusione di Franzoso con la mafia tarantina, quelli regionali dedicarono le prime pagine.

Non è al rispetto della legge sulla stampa che sentiamo di volerci appellare oggi, pur essendoci tutti i margini per farlo, ma alla deontologia, alla onestà intellettuale, alla coscienza di quegli stessi direttori e capiredattori che a dicembre 2004 decisero di dedicare le prime pagine regionali e le pagine nazionali all’arresto di un assessore in carica e oggi non danno neanche la notizia della sua assoluzione o la relegano nelle edizioni locali.

Non è un Paese giusto quello in cui un arresto viene sbattuto in prima pagina e un’assoluzione relegata in 15ma o addirittura ignorata; non è un Paese “normale" quello in cui l’onorabilità di un assessore, di un politico, di un uomo, viene cancellata nel momento in cui lo si ritiene colpevole e non gli viene riconsegnata quando, dopo tre anni, un Tribunale lo giudica innocente. Non è un Paese né normale né giusto quello in cui bisogna appellarsi al rispetto delle leggi, affinché ad una assoluzione sia dato lo stesso clamore che ad un arresto.

Non siamo animati da spirito polemico, né tantomeno da vittimismo.

Invochiamo solo giustizia e normalità.

OMICIDI DI STATO E DI STAMPA.

Delitto di via Poma. La mano armata della Giustizia senza un limite.

Ovunque, nel mondo civile, questo sarebbe archiviato come un insuccesso delle autorità inquirenti, da noi, invece, lo si riesuma, periodicamente, per esaltare la tenacia di chi conduce le indagini. Ogni volta che il delitto di via Poma torna agli onori della cronaca, automaticamente, torna, in video e in pagina, la foto di Pietrino Vanacore.

La sua pietra al collo ce la sentiamo un po' tutti, e dovrebbe sentirsela la giustizia italiana che sa essere feroce nel punire, pur non essendo capace di giudicare.

Vanacore, il portiere dello stabile, che trovò il cadavere di Simonetta, fu arrestato tre giorni dopo, il 10 agosto 1990. Le cronache si riempirono di quest'omicidio, scandagliando e scardinando la vita di quel disgraziato. Gli andò anche bene, perché fu scarcerato il 30 agosto e, meno di un anno dopo, il 26 aprile del 1991, fu accolta la richiesta d'archiviazione, presentata dalla procura stessa. Ci volle più tempo, fino al gennaio del 1995, perché la Cassazione ponesse la parola "fine" alla faccenda, rendendo definitiva l'archiviazione.

Era finita, e lui si ritirò a vivere nella Puglia, a Torricella, da cui era venuto. E dove s'è ammazzato il 9 marzo 2010. Perché? Perché nonostante la Cassazione, in Italia la giustizia non sa usare la parola "fine", sicché una nuova indagine è stata archiviata. Nel maggio del 2009, e l'anno precedente, il 20 ottobre 2008, Vanacore aveva subito l'ennesima perquisizione domiciliare. Era atteso in tribunale, il 12 marzo 2010, per testimoniare. Non era neanche tenuto a rispondere, perché la giustizia lo considera ancora "indagato in procedimento connesso".

Ma, statene certi Vanacore avrebbe visto ancora il suo volto, esposto alla nazione, associato all'omicidio. Ha deciso di risparmiarselo, o, più probabilmente, non ha saputo reggerlo. La domanda è: che senso ha? Quale legge ha stabilito la possibilità di condannare all'ergastolo mediatico dei cittadini riconosciuti innocenti, ma di cui l'ultimo pennivendolo può disporre, usando le immonde formule di "già indagato", "fu imputato", "a lungo sospettato", "protagonista di una storia oscura", e così via macellando? Un cittadino può accettare d'essere ingiustamente sospettato e accusato, salvo riuscire a dimostrare, in tempi brevi, la propria innocenza. Subisce un danno, comunque, talora gravissimo, ma ciascuno di noi sa che può accadere. Quel che non dovrebbe accadere è che per il resto della vita si sia un oggetto nelle mani di chi non sa che pesci prendere, non sa che storie raccontare, e, quindi, ricorre al tuo nome e alla tua faccia quando gli fa comodo. E, si badi, questo vale per la giustizia, che è incivilmente e inconcludentemente interminabile, ma vale anche per ciascuno di noi.

Anzi, a un certo punto dovremo ammettere che abbiamo la peggiore giustizia del mondo civile anche perché abbiamo la peggiore politica e la peggiore cultura giuridica e il peggiore sistema informativo. Mancano, o sono flebili, le voci capaci di dire basta. Guardatevi attorno: la politica si rinfaccia questioni giudiziarie, anche se chiuse, anche se campate per aria. Le tifoserie politiche non fanno che parlare d'accuse penali, pensando che possano surrogare il giudizio morale e politico. La giustizia stessa campa d'accuse e ci lascia a digiuno di sentenze. Il tutto imbarbarisce il nostro vivere civile e seppellisce la presunzione d'innocenza. Vanacore s'è spinto oltre: ha preteso d'avere l'ultima parola. Non gli sarà riconosciuta neanche quella.

Il figlio accusa: «Mio padre condannato senza processo».

È anche lui portiere, come il papà che dal vecchio mestiere non ha avuto che dispiaceri. Lavora a Torino, custode di uno stabile dell’elegante quartiere della Crocetta. «Mio padre è stato condannato senza un processo - accusa Mario Vanacore - lo hanno distrutto, lo hanno fatto a pezzi. Sono passati vent’anni, eppure tutte le volte che si è parlato della mia famiglia è stato solo per massacrarci». Anche lui, del resto, era stato sfiorato dall’inchiesta, per colpa di una visita di cortesia fatta al papà il 2 agosto del ’90, prima di partire per le vacanze con la moglie Donatella e la figlia di pochi mesi. Tanto bastò per ricevere un avviso di garanzia, assieme alla mamma Giuseppa De Luca, affinché i magistrati potessero comparare il suo sangue con quello di una traccia ematica trovata sulla porta dell’ufficio di Simonetta. «Hanno reso la vita di mio padre un inferno - continua Mario Vanacore - aveva tanti progetti, voleva comprare una casa, ma ha dovuto utilizzare tutti i risparmi che aveva per pagarsi gli avvocati. Lo hanno massacrato ingiustamente perché lui era innocente».

Padre e figlio avrebbero dovuto testimoniare in aula al processo per la morte della Cesaroni. Accanto a Pietrino ci sarebbe stato il legale di sempre, Antonio De Vita. «Si sentiva braccato - racconta il penalista - vittima di una continua caccia all’uomo. Non aveva più una sua vita da tanto, troppo tempo. Si sentiva come un detenuto al 41 bis. Lui era un uomo libero, eppure non più libero. Non era la nuova chiamata dei giudici ad intimorirlo, piuttosto il fatto di doversi nuovamente sentire braccato, accerchiato dai media. Vanacore era psicologicamente stressato e si riteneva perseguitato, un uomo senza scampo, anche se su di lui non c’erano più sospetti».

INFORMAZIONE INATTENDIBILE

ORDINE DEI GIORNALISTI LOMBARDI: PROFESSIONE MALANDATA, DEGRADATA, IN MALAFEDE.

E in peggioramento. È la professione giornalistica secondo il giudizio dei lettori (e spettatori) italiani. La visione che esce dall’indagine commissionata dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia ad Astra Ricerche, dal titolo “L’immagine sociale dei giornalisti e le aspettative degli italiani”, non è confortante. Le interviste telefoniche sono state fatte a un campione di 2.004 persone con più di 15 anni, rappresentativo di 50,6 milioni di italiani (esclusi i membri di convivenze come ospedali, caserme, conventi e simili).

Per gli intervistati, i giornalisti italiani hanno otto grossi difetti: sono bugiardi (per il 68%), incompetenti (per il 60%), esagerati nel gonfiare le notizie (per il 59%), non indipendenti (per il 52%), schierati politicamente (per il 48%), corrotti e mercenari (per il 40%), narcisisti (per il 30%) e poco comprensibili (è l’opinione del 30%). La valutazione del professionista nel complesso è pessima per il 32 per cento degli interpellati, cattiva per il 23 per cento, sufficiente per il 10 per cento, buona per il 20 per cento e ottima per il 15 per cento.

L’utilità del giornalismo in generale è considerata nulla dal 12 per cento degli italiani interpellati, scarsa dal 15 per cento, media dal 19 per cento, alta dal 16 per cento, altissima dal 38 per cento. In sintesi, se la categoria è poco apprezzata, è anche forte la domanda di un giornalismo competente, appassionato e utile. La cattiva reputazione dei professionisti e il disinteresse da parte del pubblico per le loro questioni sindacali sono mitigati dalla richiesta di un’informazione credibile e che pensi prima di tutto agli interessi di chi legge.

LA TV PUBBLICA IN MANO AI PARTITI: QUALE LIBERTA' DI INFORMAZIONE ???

RAI, L'ORGIA DEL POTERE

Un esercito di 13.248 dipendenti. Più 43 mila collaboratori. E nuove assunzioni alle porte. Eppure la Rai compra quasi un quarto delle trasmissioni all'esterno. Radiografia della scandalosa gestione della televisione pubblica

Centoquattordici parrucchieri, 67 camerinisti, 66 arredatori, 61 falegnami, 18 costumisti, 12 meccanici, 34 consulenti musicali, 36 scenografi, un'orchestra leggera di 16 elementi (indipendente da quella sinfonica della Rai di Torino con 116 musicisti) che non viene utilizzata da anni. Più o meno 400 unità, retaggio dei decenni del monopolio (i formidabili anni 1950-80, quando la Rai realizzava tutto al suo interno) e che già da sole equivalgono all'intero organico di La 7-Mtv. Sono esempi limite del mare magnum della popolazione Rai. Messa sotto esame da un Comitato istruttorio per l'Amministrazione ultimato un mese fa, che rivela nero su bianco e in modo riservato lo stato dell'arte sulla 'Situazione dell'organico del gruppo Rai'. Con una raccomandazione pesante, senza troppi giri di parole: verificare addirittura "la capacità dei 'capi' di governare uomini e processi produttivi".

Tra contratti a tempo indeterminato (9.889 per la capogruppo, 11.250 in totale) e contratti a tempo determinato per esigenze di produzione e di gestione (1.998 in tutto), la cittadella Rai arriva a 13 mila e 248 abitanti. Quanto gli abitanti di Lavagna. Il doppio di quelli di Asolo. La metà di quelli di Enna. Senza considerare la montagna dei 43 mila contratti di collaborazione (da quello a Bruno Vespa all'ultimo figurante).

Più che un rapporto, è un vero e proprio censimento Rai. Una radiografia aritmetica della stratificazione elefantiaca della televisione di Stato, gravata da anni di blocchi, clientelismi, raccomandazioni. Un minuzioso elenco che snida figure antropologiche-spot, presenti, non si sa perché, soltanto in alcune sedi: un geometra, ma solo a Firenze; cinque annunciatori tra Bolzano, che ne ha tre, e Trieste, che ne ha due. E che mette in luce il 'peso' di alcune aree significative. Ventotto addetti alla segreteria del consiglio d'amministrazione, 49 alla Direzione generale (compresi i distaccati verso società del gruppo), 397 ai Servizi generali, 114 alla Pianificazione controllo, 142 all'Amministrazione e 133 all'Amministrazione e Abbonamenti, 679 alle Riprese pesanti, 252 alle Risorse umane con ben 21 alti dirigenti. Lo studio ci va giù duro: "Abnorme il numero delle strutture a diretto riporto dal Vertice. Duplicazioni di attività. Onerosa rete di controllo formale sulla cui efficacia è legittimo nutrire più di un dubbio. Eccessiva polverizzazione delle testate giornalistiche che non ha confronto con gli altri servizi pubblici europei".

Un organico monstre che, tra contratti a tempo indeterminato e determinato, abbraccia 1.771 giornalisti (di cui 54 sono vice direttori, quasi cinque per ognuna delle 11 testate), 931 programmisti-registi, 76 aiuti registi, 476 assistenti ai programmi. Solo la somma dei dipendenti di Rai Way, gestore degli impianti tv e radio (nata nel 2000, ha 648 addetti) e Sipra, la concessionaria di pubblicità, supera il migliaio di persone (1.405). Dislocate nel territorio, 22 squadre di riprese: un numero, si legge nel rapporto, che non ha pari in nessun broadcaster pubblico o privato in Europa. Non solo. Sempre più di frequente, notano gli analisti, le reti e le direzioni editoriali chiedono di assoldare e contrattualizzare altre società per l'acquisizione e la realizzazione di appalti. Nel 2007, secondo Cgil, i costi esterni sono arrivati a 1.327 milioni. Il Gran Moloch della tv pubblica non si sazia mai.

La nomenklatura radiofonica, programmi, Gr e Gr Parlamento, vale 754 anime. Rai Internazionale, ex International, diretta dal prodiano Piero Badaloni, successore del camerata Massimo Magliaro, ha 39 giornalisti assunti (e quasi altrettanti a tempo determinato), di cui ben 22 sono graduati e cinque hanno qualifica e stipendio di vice direttori. La rete 'dovrebbe' trasmettere il meglio dei programmi Rai nel mondo. Ma si pregia, invece, del record di proteste degli italiani residenti all'estero, inviperiti per l'impiego di materiale vecchio come il cucco. Persino a Capodanno, momento sacro anche per emigranti di lunga data, avidi di seguire i festeggiamenti in patria, il buon Badaloni e la sua squadra, evidentemente impegnati a stappare champagne altrove, hanno mandato in onda una vetusta registrazione, mantenendo così lo standard tradizionale di corale indignazione degli italioti in esilio. Eppure la rete vanta un organico di tutto rispetto: ben 152 persone. Quanto RaiDue (153). Poco meno di RaiTre (166). Un numero sorprendente visto che RaiUno, dicasi RaiUno, l'ammiraglia di viale Mazzini, ne ha 206.

Anche Rai News 24 diretta da Corradino Mineo non scherza con il suo organigramma di 122 persone, di cui 94 giornalisti. Solo dieci in meno di quelli del Tg5 di Mediaset. Il canale satellitare allnews rappresenta una risorsa nevralgica, anche per il futuro digitale. Ma lo share non brilla e nella sfida con l'aggressivo Tg24 di Sky (39 edizioni di telegiornali giornalieri seguitissimi, 141 giornalisti), in progressivo boom di ascolti, arranca. Anche nel paragone con gli altri tg, dove la stratificazione di personale è già degna di nota, come il Tg3 (104 giornalisti, in tutto 140 persone) o il Tg2 (126 giornalisti su 167 addetti), la squadra di Mineo appare più che consistente. Persino il Confronto dei confronti, cioè quello con la testata diretta da Gianni Riotta, la dice lunga. Il Tg1, primo telegiornale d'Italia, conta 136 giornalisti (su un totale di 180 persone). Solo 40 in più di Rai news.

Per non parlare dell'organico del Televideo firmato da Antonio Bagnardi: 96 persone a disposizione di cui 49 giornalisti. O di quello di Rai Parlamento, palma di platino per la più alta densità di graduati. Il direttore Giuliana Del Bufalo può pavoneggiarsi: su una squadra di 46 addetti, 26 sono giornalisti, e di questi, cinque sono capi redattori, tre vice, cinque capiservizio e altrettanti vice direttori. Uno di loro, l'ultimo arrivato, si fa per dire, è stato Giorgio Giovanetti, ex assistente di Angelo Maria Petroni, consigliere Rai in quota Forza Italia, alla sua prima nomina operativa grazie a Del Bufalo. E poi si favoleggia che le donne in carriera siano delle iene.

Il dettagliatissimo rapporto dimostra come nonostante i prepensionamenti a tutti i livelli, il popolo Rai non accenni a diminuire. Per forza. La televisione di Stato continua a essere sotto lo scacco della politica e dei partiti, che a ogni cambio di Palazzo Chigi si precipitano a chiedere le teste di direttori (e così giù per li rami) per inserire innesti nuovi, più organici all'ennesima colonizzazione. Difficile credere che la nuova classe al governo, di cui una buona parte bisognosa di farsi conoscere, possa fare a meno del potere esercitato sulla Rai (basti pensare a un partito radicato nel territorio come la Lega). E rinunciare all'influenza sui tg regionali, fondamentali postazioni per favori, clientele, assunzioni. I dati della Tgr diretta da Angela Buttiglione sono quasi pulp: 851 persone di cui 689 giornalisti. E il Coordinamento delle sedi regionali (che non si occupa dei centri di produzione sparsi per il paese) conta 656 dipendenti. È vero che la Rai è obbligata a dare voce alle 21 regioni, come notano a viale Mazzini. Ma 1.507 addetti rappresentano un numero più che pulp. Addirittura post-moderno.

Lo studio è il manifesto numerico di un modello politico e ideologico. Il piano industriale presentato dall'attuale Direzione generale aveva definito economie, tagli e prepensionamenti. Ma il Gran Moloch Rai ha reagito immediatamente. Il fenomenale format organizzativo del carrozzone è arduo da cambiare. Difficile modificare un giacimento di Stato, aureo per i partiti, alimentato pure dal lascito feudale di poter tramandare il proprio posto fisso ai diletti parenti. Anche le molte cause di lavoro perse fanno la loro parte: mille quelle in corso, 100 mila euro il costo medio di ognuna, 150 circa l'anno quelle in cui la Rai viene sconfitta (15 milioni di euro circa tra avvocati e risarcimenti). Motivi? Soprattutto il reintegro delle funzioni, (prima causa, gli strali politici) e i riconoscimenti del lavoro precario, vero motore propulsivo e produttivo dell'azienda che deve a questa forza buona parte della messa in onda dei programmi.

Eppure la Direzione produzione Rai conta 3 mila 851 persone. Una cifra da sballo. Un numero da capogiro visto che è quasi pari al totale dei dipendenti del Gruppo Mediaset. Infatti, la forza lavoro del Biscione berlusconiano arriva a 4 mila e 635 unità, di cui 4 mila e 506 a tempo indeterminato. Nonostante la mole del personale (che, secondo le previsioni, entro il 2009, è destinato ad aumentare di altre 1732 unità, se non ci saranno nuove soluzioni gestionali e sindacali), il 22 per cento delle produzioni della televisione di Stato è affidato all'esterno.

Nelle conclusioni, gli analisti sottolineano come, nel mercato della comunicazione, il servizio pubblico si giustifichi soltanto se è produttore di contenuti. E se riesce a far crescere al suo interno dei centri di eccellenza creativa. E insistono nella necessità di una pianificazione strategica con regole aziendali rigide "che impongano alle direzioni editoriali di saturare prioritariamente le risorse interne. E di verificare, vista la significativa dimensione d'organico, con una doverosa, attenta ricognizione, la loro affidabilità professionale e la capacità dei 'capi', a ogni livello di responsabilità, di governare uomini e processi produttivi".

Un bel fendente ai vertici passati, presenti e futuri. Ma sarà improbabile che i dirigenti che arriveranno, benedetti dalla neo maggioranza al governo, seguano questa direttiva. Anche per loro, la Rai sarà terra di conquista, di promozioni, di poltrone da moltiplicare. Con buona pace di centinaia di precari, da anni in attesa di una sanatoria meritoria, alcuni con decenni di prestazioni. Ora devono fronteggiare anche il blocco dei contratti predisposto dall'azienda e causato della nuova disciplina del lavoro sui contratti a termine.

Le norme prevedono l'assunzione a tempo indeterminato per chi abbia superato i 36 mesi di impiego, comprensivi di proroghe e rinnovi (prima gli intervalli tra un contratto e l'altro la evitavano). Il 31 dicembre 2007, mille e 185 unità, tra quadri, impiegati e operai avevano già maturato i tre anni. A fine febbraio 2008, invece, avevano toccato il traguardo 162 giornalisti. I precari, forza non fannullona, che fa il lavoro di centinaia e centinaia di dipendenti della tv pubblica, minacciano scioperi che potrebbero davvero bloccare una parte significativa dei palinsesti. Ma, visto l'organigramma monstre dell'azienda, per loro c'è poco da sperare. Per potenti e per raccomandati, c'è sempre Mamma Rai. Per gli altri, la Rai è solo matrigna.

NEPOTISMO E CLIENTELISMO

Lo scandalo del televoto pilotato si allarga a macchia d'olio. E inquina anche l'Isola dei Famosi. E' Lele Mora a gettare altra benzina sul fuoco: Queste le parole di Lele Mora, prossimo concorrente della Fattoria 4, rilasciate a Striscia: "Mi ricordo il primo anno con Walter Nudo, che era un’artista che lavorava con me. Ho suggerito agli amici e parenti di prendere tante schede telefoniche, tante posizioni sul call-center per arrivare alla valutazione finale e farlo vincere. Credo che tra amici e parenti abbiamo investito circa 25.000 euro».

LO SCOOP DEL "FOGLIO" E DI "STRISCIA" «Un euro a voto, 5.000 voti sicuri per 5.000 euro»: è la denuncia lanciata da Striscia la notizia, riportando una notizia già pubblicata su Il Foglio, secondo cui la gara al festival di Sanremo rischia il doping telefonico. Secondo l'articolo «attraverso i call center oggi è possibile comprare voti per il proprio artista. Versando l'assegno e poi sedersi, in attesa che il doping telefonico sortisca il suo effetto sulla classifica, se si è ultimi non si vince, ma se si è ottavi magari si arriva secondi». In base al regolamento del Festival 2009, nelle serate di venerdì e sabato, col televoto è possibile dare fino a un massimo di 7 voti con la stessa utenza fissa o mobile nell'arco delle 24 ore. Secondo il quotidiano, in questo modo si lasciano così agli operatori dei call center il tempo di generare più di 10 mila voti al giorno sull'artista indicato. «Quello che anni fa si fece comprando le schedine del Totip - sottolinea Il Foglio - oggi si fa in modo più equo, dando lavoro ai precari del call center. La Rai poi non si sogna certo di ridurre il tempo del televoto: finirebbero gli introiti previsti dalle percentuali su ogni chiamata all'operatore».

Secondo l'articolo de Il Foglio, «attraverso i call center oggi è possibile comprare voti per il proprio artista. Versando l'assegno e poi sedersi, in attesa che il doping telefonico sortisca il suo effetto sulla classifica, se si è ultimi non si vince, ma se si è ottavi magari si arriva secondi».

Il Secolo contro i big del Festival: «Cammariere un militante, Bertè comunista e Zarrillo pro-Diliberto»

Sanremo a misura di Prodi: tutti dentro se di sinistra». Il Secolo d'Italia, in un articolo richiamato in prima pagina, critica il Festival sottolineando i casi di alcune esclusioni eccellenti dalla prossima gara canora come quelle di Povia e Francesco Baccini. «È una storia che si ripete ogni anno, specie se a condurre la kermesse è Pippo Baudo che, solo a parole lancia gli appelli per superare le divisioni, almeno quando si parla di canzoni», scrive il il quotidiano di An nel pezzo in cui vengono raccolti gli sfoghi e le accuse politiche degli esclusi. «Spulciando tra la lista dei cantanti ammessi, si capisce che molti, al di lá dei discorsi sul livello qualitativo, hanno il patentino richiesto», prosegue il Secolo citando Michele Zarrillo, «che ha scritto una canzone contro Berlusconi» e il cui testo del brano di quest'anno «sembra più che altro un intervento congressuale di Diliberto»; Max Gazzè, che «è arrivato a fare la sua prima tappa del tour cantando al Villaggio globale di Roma in una serata con compagni dei centri sociali»; Sergio Cammariere, che «vanta una certa militanza».

Poi c'è Loredana Bertè, «orgogliosamente comunista», mentre «un altro allineato è Federico Zampaglione, anche lui dichiaratamente di sinistra». «Superfluo - prosegue il Secolo- soffermarsi su Eugenio Bennato, così come scontata è la collocazione di Frankie Hi Nrg, che non a caso a Sanremo porta Rivoluzione». Infine, paradosso per il Secolo, «persino i cantanti non di sinistra porteranno tematiche dal sapore prodian-progressista. Forse proprio per evitare l'esclusione a priori». Come Anna Tatangelo, che canterà dei gay.

SCANDALO RAI: PARLA AGOSTINO SACCA'

Disintegrato dalle intercettazioni sul caso Rai e reintegrato per sentenza sul posto di lavoro. Agostino Saccà, direttore di Rai Fiction indagato dalla procura di Napoli in un’inchiesta di veline e veleni, ha conosciuto in questi mesi il doppio volto della giustizia. Saccà è un tipo coriaceo, dall’identikit multiforme. È la quintessenza del dirigente Rai, ha la consuetudine a trattare con il potere, presenta qualche aspetto decisamente démodé, come la passione per i formalisti russi, ed è passato ai disonori delle cronache come il collettore delle raccomandazioni. Saccà è la Rai, di tutto, di più.

Saccà, è da molto tempo che non usa il telefonino?
No, lo uso continuamente, addirittura a fine mattina s’era esaurita la batteria di uno dei miei due cellulari. La mia vita non è cambiata.

Che impressione le ha fatto leggere le sue telefonate con Silvio Berlusconi?
Non credevo potesse mai accadere, anche se avevo visto tante cose in passato, ma ritenevo a ragione di essere nel giusto perché non avevo nulla da nascondere. Allora non immaginavo vi fosse un Grande orecchio che praticamente ascolta tutti perché tutti parlano con tutti.

Lei ha visto il materiale dell’inchiesta che la riguarda?
Sì, le telefonate sono quelle di un pezzo dell’establishment italiano, non solo politico.

La chiamavano un po’ tutti; destra, sinistra, centro. Tutti segnalavano delle persone, sempre in maniera molto garbata. L’Italia è un paese fondato sul lavoro o sulla raccomandazione?
Guardi, penso che vada così in tutto il mondo.

Berlusconi la chiama per segnalarle attrici come Evelina Manna, Elena Russo e Antonella Troise. Lei che fa?
Le indico al capostruttura per il provino, che viene poi valutato da una commissione che io ho istituito. I miei predecessori facevano di testa loro. Col senno di poi, ho fatto bene per due ragioni: per garantire la qualità e per proteggermi. Sapendo di essere sottoposto a chiamate, potevo rispondere che non ero solo a decidere e dire “non ci posso fare nulla “.

Perché la Rai è un’azienda dove è necessaria la raccomandazione?
Non penso solo alla Rai, ma dappertutto. Il sistema è così in tutti i paesi, solo che all’estero sono più coperti, passano meno attraverso la politica e più grazie alle lobby degli amici e dei sistemi di potere.

Non vorrà far credere che lei era una centrale telefonica che riceveva chiamate da tutti e diceva no a tutti…
No, non dicevo sempre no a tutti.

È vero che tra le persone che ha aiutato c’è la fidanzata di un sodale politico di Walter Veltroni?
Era un consigliere comunale, ma non l’ho aiutata io. E qui mi fermo.

Lei è di destra o di sinistra?
Sono sempre stato di sinistra. Solo che la sinistra oggi sta a destra. L’attenzione ai più deboli e il garantismo oggi sono da quella parte.

L’ex presidente della Rai Enrico Manca ricordava che “anche il Pci raccomandava”. Cosa è cambiato nel sistema rispetto alla Prima repubblica?
Allora la raccomandazione era più organica, c’era come una sorta di canale diretto fra i partiti e i rappresentanti della Rai. Oggi invece telefonano i leader, conta il rapporto individuale tra il dirigente e il leader politico. In passato era una questione di partito, di politica culturale e propaganda.

Il suo deve essere un mestiere poco allegro. Sempre al telefono a ricevere chiamate di raccomandazione.
Cerchiamo di essere obiettivi: ne avrò ricevute una o due a settimana di quelle chiamate. E se le concentriamo in 4 anni… Io non avrei mai tollerato una richiesta meno che educata e perbene. Sono più i no che ho detto dei sì. Credo che Berlusconi mi abbia sempre stimato proprio per i miei no.

Immagino che il suo non fosse l’unico telefono bollente di Viale Mazzini.
Appunto, non scherziamo.

C’è qualcuno che le deve la carriera?
Molti. Ho preso Fiorello che s’era spento alla Mediaset. Ho preso Panariello quando non era nessuno e ho investito su di lui. Ho recuperato Morandi, lanciato lo show di Celentano.

Si è guardato molto in questa storia al “lato b” della faccenda, alle femmine. Ma immagino che le raccomandazioni non arrivassero solo per le belle donne ma anche per gli uomini.
Assolutamente sì. Persone importanti chiamavano per segnalare anche attori bravi.

Torniamo alle raccomandazioni. Che cosa hanno in comune Antonella Troise, Evelina Manna ed Elena Russo?
Tutti gli attori cercano un posto, ma c’è un problema: tutti vogliono essere protagonisti, però protagonisti si nasce.

Andare a letto con un dirigente Rai o con un politico potente aiuta o no?
Il confronto e il conflitto tra i sessi si gioca in mille modi. Così va il mondo da sempre, non è che voglio essere disincantato, è un dato antropologico. E non mi scandalizza.

SCANDALO RAI: PARLA FRANCESCO COSSIGA

Presidente Cossiga, è vero che si autodenuncerà per aver commesso fatti analoghi a quelli imputati dalla procura di Napoli a Silvio Berlusconi per la famosa telefonata con Agostino Saccà?
«Certamente, lo farò lunedì, presso la stazione dei carabinieri territorialmente competente».

Qual è il motivo di questo gesto?
«L’illuminazione mi è venuta dopo la richiesta di rinvio a giudizio per Berlusconi per il quale non ho mai votato ma che è mio amico personale. Berlusconi è senza dubbio il maggior perseguitato giudiziario della storia d’Italia, quasi a pari punti con Giulio Andreotti. Ci dimentichiamo troppo spesso che in questo Paese hanno condannato Andreotti in prima istanza per collusione con la mafia e come mandante dell’omicidio di quel famoso giornalista di Op. E a muoversi è sempre il pacchetto di mischia di Palermo e Perugia».

Lei si autodenuncia come «raccomandatore-confesso». A favore di chi spese la sua influenza?
«Dopo la vittoria del centrosinistra intervenni a favore di Donna Bianca Berlinguer, ovvero di mia nipote, perché le fosse assicurata una posizione di maggior rilievo nel Tg3, e della signora Federica Sciarelli, già peraltro premiata con l’affidamento della conduzione della brillante trasmissione “Chi l’ha visto?”. E ciò al fine di rafforzare la sua influenza nella Rai».

Federica Sciarelli le manda a dire che lei, in Rai, è entrata per concorso.
«Guardi che è tutto vero quello che dico, non me lo sto certo inventando! Non ho raccomandato per l’assunzione Federica Sciarelli perché lei era dipendente del Senato e poi ha vinto una borsa di studio e siccome è brava è passata in Rai. Comunque non rispondo alla signora Sciarelli perché non voglio vedermi notificato un avviso di garanzia da parte di qualche sostituto procuratore della Repubblica di Potenza».

Bianca Berlinguer nega di aver mai richiesto il suo intervento. E la prega di astenersi per il futuro da simili raccomandazioni.
«Da sardo pronipote di un pastore e di un aristocratico della piccola nobiltà giacobina sarda non posso permettermi di replicare a una ragazza, anzi a una già ragazza, dell’aristocrazia sardo-catalana. Comunque Donna Bianca può stare tranquilla: con il cognome che porta non avrà alcun problema né danno. Anzi se torna Berlusconi la promuoverà subito e, anche se non ce n’è bisogno, sarò io stesso a richiederlo».

Ma questi interventi da chi le furono sollecitati?
«Ma da loro due in persona! La signora Sciarelli venne a chiedere che intervenissi sul capo del personale affinché le fosse aumentato lo stipendio. Donna Bianca Berlinguer venne a chiedere una posizione più eminente».

Il suo intervento andò a buon fine?
«Le raccomandazioni a favore di Donna Bianca Berlinguer non partorirono alcun risultato positivo. Quelle a favore della signora Sciarelli ebbero sul piano economico un risultato largamente positivo».

Perché a distanza di anni ha tirato fuori questa vicenda?
«Venerdì ho sentito Donna Bianca condurre una trasmissione di insulti su Mastella con la consueta faziosità e mi è tornata in mente questa vicenda».

Non le dà fastidio essere etichettato come «raccomandatore»?
«Ascoltai personalmente l’omelia di un cardinale che definiva le raccomandazioni un atto di carità cristiana. D’altra parte le segnalazioni sono un istituto mondiale. Erano la prassi nella burocrazia britannica. Così come a West Point si entra soltanto dietro segnalazione dei senatori dei diversi Stati della Confederazione».

Non ha mai fatto mea culpa per qualche raccomandazione concessa alla persona sbagliata?
«Ma no. E poi nelle campagne elettorali tutti usano le raccomandazioni. D’altra parte mi sa dire uno che in Rai non sia raccomandato? Io non ne conosco».

Ci faccia il nome di un altro suo raccomandato illustre.
«Be’, ad esempio il mio amico Giuseppe Fiori che poi ha scritto libri bellissimi anche su Enrico Berlinguer. Fui io a farlo assumere alla Rai di Cagliari e poi a farlo trasferire a Roma».

Lei parla apertamente di raccomandazioni. Perché ancora oggi c’è questo velo di ipocrisia sulle vicende Rai e nessuno dei suoi colleghi riesce ad ammettere ciò che è sotto gli occhi di tutti?
«Perché per fare politica, saper dire bugie non è necessario ma è utile. Anzi essere ipocriti è utile. Basta pensare a Rosy Bindi che va alla dimostrazione a favore del Papa. Ma come! Una cattolica adulta e una cattolica democratica che si è schierata contro le Dichiarazioni teologiche della Congregazione della Dottrina della Fede emanate da Ratzinger, e contro le direttive della Conferenza episcopale italiana partecipando al coro dei detrattori del cardinal Ruini va a dimostrare la sua solidarietà a un Papa di cui non condivide l’insegnamento?».

L’Unità 20-5-2007 Tutti parenti, alla Rai? Ma anche Mediaset tiene famiglia. Di Marco Travaglio

Tutti parenti, alla Rai? Ma anche Mediaset tiene famiglia Una valanga di parenti al Biscione. E in viale Mazzini l'ex Premier ha imposto molti dei suoi: dirigenti, conduttori, giornalisti di Marco Travaglio

NEL REPARTO FRATELLI & SORELLE, Angela Buttiglione, Nicola Cariglia, Sandro Marini, Antonio Sottile (nel senso di Salvo, quello del caso Gregoraci), Maria Zanda.

NEL REPARTO MOGLI & MARITI: Roberta Carlotto (consorte di Alfredo Reichlin), Simona Ercolani (di Fabrizio Rondolino), Ginevra Giannetti (di Altero Matteoli), Giuseppe Grandinetti (marito della senatrice verde Loredana De Petris), Anna Scalfati (moglie di Giuseppe Sangiorgi, membro demitiano dell'Agcom).

NEL RESTO DEL PARENTADO: Ferdinando Andreatta (nipote di Nino), Adriana Giannuzzi (cognata dell'ex senatore Ernesto Stajano), Alfonso Marrazzo (cugino di Piero), Marco Ravaglioli (genero di Andreotti), Tommaso Ricci (cognato di Buttiglione), Luigi Rocchi (genero di Biagio Agnes).

Poi ci sono i fuoriclasse della Grande Famiglia Rai: il turbo-berlusconiano Agostino Saccà, direttore della Fiction, s'è portato la nuora spagnola, Sandra Steinert Jorge Santos, e il figlio Enrico Silvestrin, attore nelle fiction; il capo del Personale Gianfranco Comanducci, intimo di Previti, ha la moglie Anna Maria Callini dirigente alla segreteria di Raidue e la cognata Ida Callini responsabile Risorse umane Corporate.

Quanto ai raccomandati, il Cavaliere portò in viale Mazzini la sua bionda segretaria Deborah Bergamini, ora direttore Marketing; l'ex dirigente Fininvest e poi di Forza Italia Alessio Gorla, capo dei palinsesti da poco in pensione (la cui moglie si occupava dei casting); l'ex addetto stampa forzista Riccardo Berti, promosso conduttore di "Batti e ribatti" al posto di Biagi; e poi Marcello Ciarnò, che prima si occupava degli spostamenti di Berlusconi e ora vicedirige il Centro di produzione Rai. Senza dimenticare Mario Bianchi, passato direttamente da Publitalia ad amministratore della Sipra, cioè della diretta concorrente. E l'ex deputato forzista Fabrizio Del Noce, direttore di Rai1, che poi ha fatto assumere come funzionario Gianluca Ciardelli, figlio della segretaria di Licio Gelli. E l'ex vicedirettore del Tg5 Clemente J. Mimun, passato a dirigere il Tg1: ora, compiuta la missione, torna al Tg5 da direttore.

Naturalmente l'essere parenti non esclude l'esser bravi. Anzi, ce ne sono parecchi, di bravi.

Ma l'aspetto curioso dell'intemerata berlusconica è che a casa sua, MEDIASET, se possibile, è anche peggio.

Nel '95,quando il Cavaliere fece una sparata simile su "Parentopoli", il settimanale "Cuore" si divertì a elencare i parenti nelle sue aziende: il fratello-prestanome Paolo al Giornale (con figlia Alessia al seguito) e all'Edilnord; i figli Marina e Piersilvio detto Dudi a Mondadori e a Mediaset; Guido Dall'Oglio, fratello della prima moglie, "coordinatore dei jingle" della Fininvest; lo zio Luigi Foscale e signora al teatro Manzoni; il cugino Giancarlo Foscale alla Standa e sua moglie Candia Camaggi alla finanza estera in Svizzera; Yives Confalonieri, figlio di Fedele, dirigente a Publitalia insieme al cugino Guido; Lella, nipote di Confalonieri, giornalista al Tg5, col marito Carlo M. Lomartire a Studio Aperto; poi la famiglia Dell'Utri, con Marcello e il gemello Alberto a Publitalia (e dunque a Forza Italia), e un nipote al Giornale. Poi i figli degli amici: quello di Malgara, re dei pubblicitari e dell'Auditel, a Publitalia; quello del giudice corrotto Diego Curtò, inviato del Tg4; quella di Roberto Gervaso, che reclutò il Cavaliere nella P2, al Tg5; e la sorella dell'avvocato Dotti al Tg4. Ora, 12 anni dopo, la lista va aggiornata.

Alla Camera siede Mariella Bocciardo, prima moglie di Paolo Berlusconi. Al Giornale ha una rubrica fissa l'ex fidanzata dello stesso Paolo, Katia Noventa, mentre Silvia Toffanin, compagna di Dudi, conduce "Verissimo" su Canale5 e ha una rubrica su Libero.

MA IL MEGLIO E' IL TG5: più che un telegiornale, un Family Day, pieno com'è - direbbe il padrone - "di fratelli, sorelle, cugini, parenti e affini dei protagonisti della vecchia e nuova politica". Lucrezia Agnes, figlia del dc Biagio. Chiara Geronzi, figlia del banchiere Cesare e cofondatrice della Gea con i figli di Moggi, Tanzi, Cragnotti, Lippi, Calleri e De Mita. Giancarlo Mazzucchelli, figlio della moglie di Petruccioli. Fabio Tricoli, nipote dell'avvocato di Dell'Utri. Valentina Loiero, figlia del governatore Agazio. La vaticanista Marina Ricci, sorella di Rocco e Angela Buttiglione. Giulio De Gennaro, figlio del capo della Polizia Gianni. Sebastiano Sterpa, figlio del forzista Egidio. Elena Caputo, figlia del giornalista e poi sottosegretario forzista Livio. Silvia Reviglio, figlia dell'ex ministro socialista Franco. Giuliano Torlontano, figlio del ds Glauco. Ultimo arrivo: Barbara Palombelli in Rutelli. A Studio Aperto lavora Alessandro Del Turco, figlio del più noto Ottaviano, e da pochi giorni Alfredo Vaccarella, figlio del giudice costituzionale uscente Romano. Il figlio dell'ex presidente della Consulta Vincenzo Caianiello invece si chiama Guido e lavora per Rete4. Poi ci sono Martelli e Pivetti. Non sono parenti dell'ex ministro pregiudicato e dell'ex presidente della Camera. Sono proprio loro.

(Giampaolo Letta, figlio di Gianni, è vicepresidente di Medusa Cinema. Yves Confalonieri, figlio di Fedele, è direttore generale di Mediadigit. Lella Confalonieri, nipote di Fedele. Pietro Suber, genero di Corrado Augias. Lucrezia Agnes, figlia di Biagio. Donata Scalfari, figlia di Eugenio. Veronica Gervaso, figlia di Roberto. Chiara Geronzi, figlia del banchiere Cesare. Barbara Parodi, moglie di Paolo Mieli. Giangiacomo Mazzucchelli, figlio di Giovanna Nuvoletti, moglie di Claudio Petruccioli. Isabella Josca, figlia dell'ex corrispondente del Corriere della Sera Giuseppe. Eduardo Orlando, figlio del giornalista Federico. Marina Ricci, sorella di Rocco e Angela Buttiglione.

La Rai non è soggetta a interferenze politiche. Va detto. E’ invece un ambiente familiare di figli, padri, cugine, cognati e nuore. Impermeabile ai partiti. Un blocco di relazioni indistruttibile che sopravvive a qualunque governo. Con matrimoni combinati sin dalla nascita tra i figli di capostrutture e di programmisti. Una difesa naturale dall’ingerenza della politica e anche della libera informazione. Una riaffermazione dei valori della famiglia e dell’impiego statale. L’elenco che pubblico è in rete da tempo. E’ probabile che sia incompleto o in parte superato. E che tra relazioni affettuose e accoppiamenti dei circa 11 mila dipendenti del gruppo, all’interno e all’esterno della struttura, il numero dei figli di, nipoti di, cognati di, sia proliferato. Un po’ come avviene nelle conigliere.

Figli (f):
Tinni Andreatta, responsabile fiction di Raiuno, (f) dell'ex ministro dc Beniamino. Natalia Augias, Gr, (f) del giornalista e scrittore Corrado. Gianfranco Agus, inviato, (f) dell'attore Gianni. Roberto Averardi, Gr, (f) di Giuseppe, ex deputato Psdi. Francesca Barzini, Tg3, (f) dello scrittore e giornalista Luigi junior. Bianca Berlinguer, conduttrice del Tg3, (f) di Enrico, segretario del Pci. Barbara Boncompagni, autrice, (f) di Gianni. Claudio Cappon, direttore generale, (f) di Giorgio, ex direttore generale dell'Imi. Antonio De Martino, Gr, (f) dell'ex ministro socialista Francesco. Antonio Di Bella, direttore Tg3, (f) di Franco, ex direttore del "Corriere della Sera". Claudio Donat-Cattin, capostruttura Raiuno, (f) dell'ex ministro democristiano Carlo. Jessica Japino, programmista regista delle edizioni di "Carramba", (f) di Sergio. Giancarlo Leone, amministratore delegato di Rai Cinema e responsabile della Divisione Uno, (f) dell'ex presidente della Repubblica Giovanni. Marina Letta, contrattista a tempo determinato, (f) di Gianni, sottosegretario alla Presidenza a Palazzo Chigi. Pietro Mancini, Gr, (f) del socialista Giacomo. Maurizio Martinelli,Tg2, (f) del giornalista Roberto. Stefania Pennacchini, Relazioni istituzionali Rai, (f) di Erminio, ex sottosegretario Dc. Claudia Piga, Tg1, (f) dell'ex ministro dc, Franco. Francesco Pionati, notista politico del Tg1, (f) dell'ex sindaco di Avellino. Alessandra Rauti, redattore del Gr, (f) di Pino, segretario del Movimento Sociale-Fiamma Tricolore. Silvia Ronchey, autrice e conduttrice di programmi, (f) di Alberto, ex ministro dell'Ulivo ed ex presidente di Rcs. Paolo Ruffini, direttore Gr, nipote del cardinale e (f) di Attilio, ex deputato e ministro dc. Sara Scalia, capostruttura di Raidue, (f) della giornalista Miriam Mafai. Maurizio Scelba, Tg1, (f) di Tanino, ex portavoce del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Mariano Squillante, ex corrispondente da Londra, poi a RaiNews 24, (f) dell'ex giudice Renato. Giovanna Tatò, Raitre, (f) di Tonino, consigliere di Enrico Berlinguer. Carlotta Tedeschi, Gr, (f) di Mario, senatore Msi. Daniel Toaff, capostruttura e autore della ‘Vita in diretta’, (f) dell 'ex rabbino di Roma, Elio. Stefano Vicario, regista di Giorgio Panariello, (f) del regista cinematografico Marco. Rossella Alimenti, Tg1, (f) di Dante, ex vaticanista Rai. Paola Bernabei, Ufficio stampa, (f) dell'ex direttore generale della Rai, Ettore, proprietario della società di produzione Lux. Giovanna Botteri, Tg3, (f) di Guido, ex direttore sede Trieste Rai. Manuela De Luca, conduttrice Tg1, (f) di Willy, ex direttore generale Rai. Giampiero Di Schiena, Tg1, (f) di Luca, ex direttore dc del Tg3. Annalisa Guglielmi, sede Rai di Milano, (f) di Angelo Guglielmi, ex direttore di Raitre. Piero Marrazzo, conduttore di ‘Mi manda Raitre’, (f) dello scomparso giornalista Giò. Simonetta Martellini, Raiuno, (f) di Nando, radiocronista sportivo. Luca Milano, dell' ufficio contratti, (f) di Emanuele, ex direttore Tg1 ed ex vice direttore generale. Barbara Modesti, Tg1, (f) dell'annunciatrice Gabriella Farinon e del regista Rai Dore. Monica Petacco,Tg2, (f) di Arrigo, storico e consulente di programmi Rai. Andrea Rispoli, Raidue, (f) del conduttore Luciano, ex Rai. Fiammetta Rossi, Tg3, (f) di Nerino, ex direttore del Gr2, e moglie del ex segretario dell'Usigrai, Giorgio Balzoni, caporedattore al politico del Tg1. Cecilia Valmarana, (f) di Paolo, uno dei padri del cinema coprodotto dalla Rai, nella struttura di RaiCinema. Paolo Zefferi, (f) di Ezio, giornalista, è a Rainews 24.

Fratelli (fr) e sorelle (s):
Angela Buttiglione, direttore dei Servizi Parlamentari, (s) di Rocco, segretario del Cdu. Nicola Cariglia, sede Rai di Firenze, (fr) di Antonio, ex segretario del Psdi. Silvio Giulietti, telecineoperatore nella sede Rai di Venezia, (fr) di Giuseppe, uomo Rai e Usigrai, ex responsabile dell'informazione dei Ds. Max Gusberti, vice di Stefano Munafò a Raifiction, (fr) di Simona, capostruttura di Raidue. Sandro Marini, Tg3, (fr) di Franco, ex segretario del Ppi. Giampiero Raveggi, capostruttura di Raiuno, (fr) dell'ideatore del programma "Odeon" Emilio Ravel (nome d'arte). Antonio Sottile, programmista regista di "Linea Verde'', (fr) di Salvo, portavoce di Gianfranco Fini. Maria Zanda, capo della segreteria di Roberto Zaccaria, (s) di Luigi, ex responsabile dell'Agenzia del Giubileo.

Mogli e mariti (m):
Milva Andriolli, sede Rai di Venezia, è l'ex (m) di Silvio Giulietti, fratello di Giuseppe. Anna Maria Callini, dirigente alla segreteria di Raidue, (m) di Gianfranco Comanducci, vice direttore della Divisione Uno. Roberta Carlotto, direttore Radiotre, (m) dell'ex esponente Pci Alfredo Reichlin. Sandra Cimarelli, Palinsesto Raidue, (m) di Franco Modugno, direttore dei Servizi immobiliari Rai. Antonella Del Prino, collaboratrice a "La vita in diretta", (m) del giornalista Oscar Orefice. Simona Ercolani, autrice di programmi Rai, (m) del giornalista Fabrizio Rondolino, ex portavoce di Massimo D'Alema. Paola Ferrari, conduttrice, (m) di Marco De Benedetti. Anna Fraschetti, vice del capo ufficio stampa Bepi Nava, (m) di Mario Colangeli, vice direttore Tg3 e sorella di Luciano, quirinalista Tg3. Giovanna Genovese, compagna di Sergio Silva, padre della ‘Piovra’ è delegata alla produzione. Ginevra Giannetti, consulente Rai International, (m) di Altero Matteoli, ministro dell'Ambiente, An. Giuseppe Grandinetti, Gr, (m) della senatrice verde Loredana De Petris. Francesca Manuti, produttrice di "Sereno variabile" di Raidue, (m) di Paolo Carmignani, vicedirettore Raidue. Lucia Restivo, capo struttura Raidue, (m) di Sergio Valzania, direttore Radiodue. Anna Scalfati, Tg1, conduttrice di programmi, (m) di Giuseppe Sangiorgi, membro dell'Authority ed ex portavoce di De Mita. Cristina Tarantelli, Servizi Parlamentari, (m) di Carlo Brienza, RaiSport. Daniela Vergara, anchorwoman del Tg2, (m) del conduttore Luca Giurato.

Nipoti (n), cognati (c) e vari:
Ferdinando Andreatta, dirigente di Rai- Way, (n) di Nino. Guido Barendson, conduttore Tg2, (n) di Maurizio. Aldo Mancino, dirigente RaiWay (n) dell'ex presidente del Senato, Nicola. Giuseppe Saccà, (n) di Agostino, direttore di Raiuno, nell'orchestra del programma di Raiuno ‘Torno sabato-La lotteria'. Adriana Giannuzzi, ufficio Diritti d'autore, (c) dell'ex senatore ed ex membro del Csm Ernesto Stajano e moglie del vicedirettore della Divisione Due Luigi Ferrari. Alfonso Marrazzo, Tg2, cugino di Piero. Marco Ravaglioli, Tg1, marito di Serena Andreotti, figlia di Giulio. Tommaso Ricci, Tg2, (c) di Angela e Rocco Buttiglione. Carlotta Riccio, regista, (c) di Claudio Cappon direttore generale Rai. Luigi Rocchi, dirigente area Business&development, genero di Biagio Agnes. Laura Terzani,Tg3, nuora di Antonio Ghirelli.

- Richiesta di integrazione: Milva Andriolli è entrata in RAI per concorso (bandito dall'azienda nel '88) e ha incontrato il futuro e poi ex marito Silvio (e futuro e poi ex cognato Beppe) solo nel '92 con l'assunzione presso la sede di Venezia il 2 marzo 1992 (il matrimonio il 26 agosto 1992).
- L'avv. Luca Silvagni, legale del dott. Stefano Ziantoni, comunica quanto segue: "Contrariamente a quanto sino ad oggi pubblicato nella lista denominata "Conigliera RAI" preciso che Stefano Ziantoni non è figlio di Violenzio, ex presidente della provincia di Roma". Ne prendo atto, invitando gli utenti del blog a fare altrettanto.

90 MILIONI DI EURO DALLA POLITICA PER LA TV PRIVATA: QUALE LIBERTA' DI INFORMAZIONE ???

LO STUDIO SUI BILANCI DELLE TV LOCALI

Di seguito vengono sintetizzati brevemente i dati che emergono dallo studio, disponibile, oltre che sul sito FRT, presso gli Uffici della Federazione.

Soggetti operanti. Le emittenti operanti risultano essere 584 di cui 115 comunitarie e 469 commerciali gestite da 427 società di capitali. I bilanci analizzati coprono il 95% delle emittenti televisive locali commerciali effettivamente operanti e, in più della metà delle regioni la ricerca comprende  il 100% dei soggetti.

Patrimonio netto: delle 398 società soltanto 157 hanno un patrimonio netto superiore a 500.000 euro e solo 121 riescono a coprire con il patrimonio netto il 50% delle attività e degli investimenti. Ben 58 emittenti sono sotto il limite dei 154.937 euro (corrispondenti ai 300 milioni di lire previsto dalla legge): un dato che dovrebbe interessare il Ministero e l'Autorità.

Ricavi: sono costituiti per il 78% da pubblicità. Il fatturato relativo risulta pari a 453 milioni di euro (1.138.000 in media per società) e corrisponde alla quasi totalità del mercato locale, pari all’11% del totale della pubblicità del settore televisivo.  Solo 124 delle società esaminate superano il milione di euro mentre 274 società  (il 68,84% delle società esaminate) hanno entrate inferiore a tale somma.

Lavoro dipendente: la spesa del personale dipendente è stata, durante il 2005, di 137,8 milioni di euro, pari al 23,62% del totale dei ricavi. Lo studio relativo al lavoro dipendente, corredato da un raffronto con le emittenti nazionali da cui risulta che i 4.595 occupati nelle tv locali rappresentano il 40,62% del totale degli addetti operanti nel settore televisivo privato italiano, è stato oggetto di un’analisi particolareggiata che presenta, regione per regione, i dati sull'incidenza percentuale del costo del lavoro sui ricavi, il numero totale e la media dei dipendenti. Dall'analisi   dei dati   emerge   che   il   71%   del   totale degli occupati è alle   dipendenze  delle prime 124 società   che   fatturano   più    di   un  milione  di   euro   e   che   il numero dei dipendenti in Lombardia é doppio rispetto a quello delle altre regioni.

Costi di produzione: i costi per le attività prettamente televisive (escluse le  spese  per personale e ammortamenti) sono pari a 381 milioni di euro e rappresentano il 65% dei ricavi totali delle società oggetto della ricerca.

Risultato d'esercizio: 230 società hanno registrato utili di esercizio per un totale di 59 milioni di euro, mentre 168 società hanno registrato perdite pari a 24 milioni.

Raffronto anni 2000/2005: vengono riportati e confrontati i dati relativi al fatturato pubblicitario e ai risultati di esercizio dal 2000 al 2005, da cui emerge che nel corso degli anni il settore ha mostrato segni di miglioramento nei risultati di esercizio, soprattutto in quelle emittenti che godono di un fatturato superiore alla media. Nel biennio 2004/2005, come già era avvenuto nel 2003, si riscontra una progressiva crescita del fatturato pubblicitario e un incremento della voce “ricavi provenienti da altre attività” dovuto all’erogazione dei contributi alle emittenti da parte dello Stato. Inoltre il numero di società che registrano utili di esercizio è maggiore rispetto a quelle in perdita.

Le concessioni: la ricerca illustra il percorso storico delle diverse concessioni e/o autorizzazioni a trasmettere alle tv locali sin dalla prima scadenza fissata nel 1990 dalla Legge Mammì . Una tabella presenta, divise per regioni e per tipologie, commerciali e comunitarie, un raffronto a distanza di dieci anni tra il primo elenco del Ministero nel 1995 e l’ultimo del 2005 con il prolungamento delle concessioni in tecnica analogica.

I contributi pubblici: le misure di sostegno corrisposte dalle Stato sin dal 1999 alle tv locali sono corredate da un grafico che evidenzia come nel corso degli anni e con le diverse leggi finanziarie i contributi siano passati da circa 12 a 90 milioni di euro, assumendo un rilievo significativo nei bilanci delle imprese e contribuendo a un sensibile aumento dell’occupazione.

EMITTENTI LOCALI: DENUNCIATE IRREGOLARITA’

Alcune piccole emittenti locali radiotelevisive, attraverso l'"Associazione Contro Tutte Le Mafie", denunciano una realtà impunita e sottaciuta.

L'attività imprenditoriale e l'informazione delle emittenti radiotelevisive sono condizionate da molteplici fattori: il dipendere dai sovvenzionamenti pubblici nazionali (decisi dalla politica centrale) e dalle commesse pubblicitarie dei candidati locali per le loro campagne elettorali, porta a trattare con i guanti bianchi alcune tematiche che toccano la politica di governo centrale e locale e, per forza di cose, a tacere le manchevolezze degli organi istituzionali periferici (Magistratura, Prefettura, ecc.), o gli abusi del sistema socio economico legato alla politica di riferimento.

Insomma: in tempo di crisi, l'aspetto economico è la censura che blocca la libera informazione.

Ma questo non è il solo cruccio che avvilisce le imprese radiotelevisive.

Alcune di loro sono vittime di tentativi di acquisizione illegale delle frequenze assegnatele, con mancanza di tutela reale.

Quale è il trucco ?!

Ogni emittente ha una frequenza su cui è autorizzata a trasmettere con un'antenna di una certa potenza, per non disturbare le trasmissioni delle emittenti viciniori. Alcune di loro, tra cui alcuni grandi network nazionali, pensano bene di centuplicare illegalmente la loro potenza, irradiando il loro segnale di molto oltre a quello per cui sono autorizzati. In questo modo disturbano o oscurano le trasmissioni altrui, impedendo a questi l'acquisizione del mercato pubblicitario, fonte di sostentamento, che leso, porta al fallimento dell'impresa.

Il Ministero, informato dalla parte interessata, comunica la data dell'ispezione alla controparte, che ha il tempo di ripristinare la legalità, per poi ripetere l'abuso ad ispezione finita. Tempi e costi dell'operazione tecnica sono ammortizzabili da chi si avvantaggia illegalmente dell'acquisizione pubblicitaria indebita. Mal che vada, comunque, la parte colta in fragrante, deve sorbire solo una piccola multa.

Ma non è il solo problema che attanaglia le radio e le tv locali oneste.

Il 12 settembre 2008, un'ora e mezzo di trasmissione in diretta sulla tv tarantina Studio 100, per l'occasione collegata con le emittenti Canale 7, Telebari e Teleonda Gallipoli.

Argomento: la ripartizione - da parte del Corecom - dei contributi pubblici all'emittenza privata, previsti dalla legge 448 del 98.

Nel corso della diretta - condotta dal direttore Walter Baldacconi con tre ospiti, due avvocati e l'editore di Canale 7, Gianni Tanzariello - una circostanziata denuncia.

13 emittenti pugliesi, su 42 ammesse ai contributi, avrebbero prodotto - in autocertificazione - documentazione non rispondente al vero in merito alla regolarità dei contributi versati all'Enpals per i lavoratori dipendenti.

Ancora da accertare le posizioni con Inps e Inpgi. L'anno di riferimento è il 2006.

Il puntuale versamento dei contributi previdenziali, costituisce condizione vincolante all'erogazione delle provvidenze pubbliche in questione.

La denuncia è oggetto di interrogazione parlamentare del senatore di AN, Adriana Poli Bortone, che - collegata in diretta nel corso della trasmissione - ha ribadito la sua ferma intenzione di voler andare fino in fondo, nell'interesse di tutti. Nel corso del dibattito televisivo è emerso un altro dato: se quelle tv non sono in regola, non potranno sanare a posteriori la loro inadempienza.

E’ al momento della richiesta del contributo che bisogna avere i titoli, come prevede la legge. Se è vero che il Corecom è tenuto ad accettare per buona l'autocertificazione sostitutiva, è altrettanto vero che quando questa dovesse risultare non veritiera - come pare nel caso di specie – sarà il ministero, erogante il contributo, a sospendere la procedura, e pare che questo stia già accadendo, con una prima richiesta di chiarimenti agli interessati.

E non è tutto. Il ministero dello Sviluppo economico zittisce la voce di Radio Padania Libera nel Salento. In una nota del 24 gennaio 2011 fatta pervenire in copia al Comune di Alessano, i competenti organi ministeriali scrivono che l’impianto dell’emittente leghista «non si intende autorizzato».

Radio Padania dal 17 dicembre 2010 ha trasmesso nel Capo di Leuca da una postazione situata proprio ad Alessano e dotata di un sistema radiante collegato a un impianto da due kilowatt di potenza. Il segnale viaggia sui 105.600 MHZ in modulazione di frequenza e disturba quello dell’emittente salentina Radio Nice del gruppo leccese Mixer Media dell’editore Paolo Pagliaro, che trasmette su identico canale da Parabita. La radio lumbard ha i contenuti dei palinsesti carichi di risentimenti contro i meridionali espressi a chiara voce dai radioascoltatori padani, cui si lascia microfono libero. Ma la nota del ministero dello Sviluppo economico che sospende le trasmissioni di Radio Padania non risolve l’anomalia di mercato delle frequenze.

Infatti il vero problema consiste nel fatto che Radio Padania gode del triplice privilegio di acquisire le frequenze in deroga, di avere un contributo annuale da parte del governo, di diventare proprietaria della frequenza trascorsi novanta giorni. La vera anomalia è proprio questa: in un momento in cui il mercato delle frequenze è bloccato, Radio Padania può, trascorsi novanta giorni, permutare le proprie frequenze ottenute in deroga con altre frequenze di radio commerciali. Occorre modificare questo privilegio concesso dalla finanziaria Bossi-Berlusconi del 2001. L’emittente della Lega Nord, in quanto comunitaria dovrebbe rendere un servizio, ma l’unica cosa che fa è quella di riempire di insulti i meridionali, senza che mai nessuno abbia denunciato il suo direttore per diffamazione a mezzo stampa.

FREQUENZE TELEVISIVE NAZIONALI NEGATE: QUALE LIBERTA' DI INFORMAZIONE ???

IL CASO EUROPA 7

Il circuito nacque per volontà dell'imprenditore Francesco Di Stefano, con cui sostituì Italia 7 tra il 1997 e il 1998. Il palinsesto consisteva di programmi della precedente emittente e altri film trasmessi a ciclo continuo. Nel 1999 Di Stefano decise di avventurarsi nel progetto di creare una televisione nazionale e dovette abbandonare l’emittente di cui era proprietario, la romana Tvr Voxson.

Nel luglio 1999, Di Stefano, con 12 miliardi di lire derivanti dalla precedente attività di syndication, decise di partecipare alla gara pubblica per l' assegnazione delle frequenze televisive nazionali, prevista dalla Legge 31 luglio 1997, n. 249, al fine di ottenere due concessioni per Europa 7 e per 7 Plus.

Il Piano nazionale di assegnazione delle frequenze per la radiodiffusione televisiva aveva individuato 51 bande usabili (45 della gamma UHF e 6 della gamma VHF). Ad ogni emittente dovevano essere assegnate 3 bande su cui trasmettere, a seconda della zona geografica, per un totale teorico di 17 emittenti, di cui 6 a livello locale, 3 per i canali nazionali RAI e 8 per le emittenti nazionali private. Ulteriori parti libere dello spettro usabili per la trasmissione avrebbero dovuto essere dedicate sempre alle emittenti locali. La gara prevedeva, per semplificare e velocizzare le assegnazioni, che se un vincitore di concessione stesse già trasmettendo su scala nazionale, in modo compatibile con quanto deciso dalle suddivisioni delle bande, avrebbe potuto continuare ad impiegare le stesse frequenze, senza attendere il piano di adeguamento delle frequenze. In virtù del ristretto numero di frequenze assegnabili, gli articoli 1 e 2 della concessione prevedevano per i concessionari un termine massimo di 24 mesi dalla notifica della concessione per dimostrare, una volta avute le frequenze (che quindi era previsto venissero assegnate prima di questo termine), di essere in grado di usare le frequenze assegnate coprendo l'80% del territorio nazionale, compresi tutti i capoluoghi di provincia (per le assegnazioni effettuate con la precedente legge Mammì era stato ritenuto sufficiente il coprire il 60% del territorio), a cui si aggiungevano eventualmente altri 12 mesi di proroga in caso di problemi, a giudizio del Ministero.

Con Decreto Ministeriale del 28 luglio 1999 si dichiarano le vincitrici delle concessioni e Francesco Di Stefano risultò vincitore di una concessione per Europa 7 (settima in classifica); in concomitanza Rete 4, che già trasmetteva a livello nazionale, perse la concessione. La commissione ministeriale della gara negò la richiesta per 7 plus, ma Francesco Di Stefano fece ricorso al Consiglio di Stato, che ordinò al ministero di dare la seconda concessione.

Nel luglio 1999, Europa 7 ottiene dallo Stato Italiano la concessione per una rete nazionale, ma il Governo D’Alema non le assegna le frequenze per iniziare a trasmettere a causa della mancata applicazione del piano nazionale di assegnazione delle frequenze. Anche Rete 4 non ottiene la concessione. Dall’aprile 2000 al giugno 2001 il Governo Amato si disinteressa completamente della vicenda di Europa 7, permettendo in questo modo a Rete 4 di continuare a trasmettere senza concessione.

Il 22 settembre 1999 fu registrata la concessione di Europa 7 alla Corte dei Conti e il 28 ottobre 1999 gli fu rilasciato il titolo concessorio. La licenza prevedeva l'inizio delle trasmissioni entro il 31 dicembre 1999: il piano di Europa7 prevedeva 700 assunzioni, un centro di produzione a Roma di 20000 m2, composto da 8 studios e una library di programmi.

Europa 7, al contrario del servizio pubblico e di altri concessionari privati, ancora non trasmetteva su scala nazionale, doveva pertanto attendere il piano di assegnazione delle frequenze per poter iniziare le trasmissioni. Alcuni ricorsi effettuati da Rete Mia, Rete Capri e Rete A (oltre a 7 Plus) ritardarono la realizzazione del nuovo piano.

Il ministero delle comunicazioni con autorizzazione ministeriale del 1999 e contravvenendo al risultato della gara pubblica, permise la prosecuzione delle trasmissioni analogiche da parte di Rete 4 e Tele + Nero. In una nota del 22 dicembre 1999, il ministero si impegnava comunque con Centro Europa 7 perché in breve tempo si arrivasse "di concerto con l'Autorità, alla definizione del programma di adeguamento al piano d'assegnazione delle frequenze".

A seguito del ricorso al Tar da parte di Europa 7 in relazione a questa nota, con sentenza n. 9325/04 si affermò che il Ministero avrebbe dovuto assegnare subito le frequenze una volta deciso, in base all'esito della gara, di assegnare la concessione.

Nel novembre 2002 alla Corte Costituzionale fu chiesto di valutare la costituzionalità dell'art. 3, comma 6 e 7, della legge 31 luglio 1997, n. 249, che permettevano a chi ha un numero di reti superiore al 20% massimo previsto di prorogare le trasmissioni in analogico, a patto che a queste si inizino ad affiancare le trasmissioni via satellite o cavo, fino ad un termine che doveva essere deciso dall’ Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. La Corte con la sentenza 466/2002, confermò, come già nel 1994, che nessun privato può possedere più del 20% delle frequenze televisive e le reti eccedenti (Rete 4 e TELE+ Nero), dovevano cessare la trasmissione in via analogica terrestre. La Corte tuttavia ritenne non incostituzionale il comma 6 (che ammetteva le proroghe), ma incostituzionale il comma 7 (per cui il periodo della durata massima della proroga non era fissato dalla legge, ma la sua decisione era demandata all'Autorità per le Comunicazioni, che tuttavia non si era ancora espressa in merito nonostante fossero già trascorsi diversi anni sia dall'emanazione della legge sia dalla gara). La stessa Corte fissò un limite improrogabile entro il 31 dicembre 2003 per il passaggio esclusivo al satellite e/o al cavo, basandosi su una valutazione dell'AGCOM che riteneva quella data sufficiente per trasferire tutte le trasmissioni di Rete 4 e TELE+ Nero su mezzi digitali, senza ovviamente entrare nello specifico del caso della ricorrente Europa 7 (che aveva chiesto di considerare incostituzionali entrambi i commi, in quanto "l'attuale normativa di settore", ovvero le proroghe per le reti eccedenti regolate dai due commi, "le impedirebbe di utilizzare concretamente le frequenze che le sono state assegnate nella fase di pianificazione"), che per le precedenti decisioni (il DM del luglio 1999) rimaneva comunque l'assegnataria delle frequenze che così si fossero liberate.

Nell'estate del 2003, il ministro delle comunicazioni Maurizio Gasparri presenta un disegno di legge per il riordino del sistema radiotelevisivo italiano e l'introduzione della trasmissione digitale terrestre. La legge viene approvata dal Parlamento, ma l'allora Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, la rinvia alle camere. Nel messaggio di rinvio Ciampi fa esplicito riferimento sia alle problematiche relative alla pluralità dell'informazione, sia al concetto di un termine certo per il regime transitorio introdotto proprio dalla sentenza n. 466 del 20 novembre 2002. Così, per poter garantire a Rete 4 di continuare a trasmettere via etere e a Rai Tre (la terza rete pubblica) di poter continuare ad ospitare pubblicità, il 24 dicembre 2003 il governo Berlusconi vara un decreto Legge (decreto legge n. 352/2003, divenuto giornalisticamente noto come "decreto salvareti"), trasformato in legge nel febbraio 2004. Il decreto prevede che le "reti eccedenti" possano proseguire le trasmissioni sulle frequenze da loro impiegate, sia nell'analogico che nel digitale, fino al termine di una verifica sullo sviluppo delle reti del digitale terrestre.

La legge Gasparri viene successivamente approvata definitivamente nell'aprile 2004 (legge n. 112/2004), bloccando la riassegnazione delle frequenze delle concessioni analogiche, in attesa del passaggio completo al digitale terrestre con una diversa assegnazione delle frequenze.

Centro Europa 7 fece nuovamente ricorso al TAR del Lazio, chiedendo di ottenere l’assegnazione delle frequenze e richiedendo un risarcimento per il danno subìto dall'impossibilità di trasmettere. Il ricorso fu respinto il 16 settembre 2004 in quanto pur avendo vinto la gara, Europa 7 non aveva un diritto soggettivo all’assegnazione delle frequenze per trasmettere, assegnazione che spettava in ultima istanza alle autorità in base alle varie normative, che tuttavia nel frattempo erano cambiate per prolungare la possibilità alle reti esistenti ed eccedenti di continuare a trasmettere. Dallo stesso TAR nello stesso giorno fu invece accettato il ricorso contro la nota del ministero del 22 dicembre 1999, sostenendo appunto che il Ministero doveva assegnare le frequenze una volta avuto l'esito della gara.

Nel luglio 2005 il Consiglio di Stato, dopo il ricorso di Centro Europa 7 contro la sentenza del TAR, chiese alla Corte di Giustizia Europea di rispondere a 10 quesiti, dove fu messo in discussione il quadro legislativo e un risarcimento danni in favore di Europa 7. La Corte di Giustizia Europea ha condannato infatti l'Italia a una multa di 350 mila euro per ogni giorno di ritardo nell'applicazione della direttiva europea a partire dal 1 gennaio 2009 (circa 130 milioni di euro all'anno) se Rete 4 non abbandonerà le frequenze analogiche in favore di Europa 7 vincitrice della gara di assegnazione. La sanzione verrà calcolata con effetto retroattivo fino al 1 gennaio 2006.

Il 31 gennaio 2008 la Corte ha emesso la sentenza su tale ricorso:

« L’art. 49 CE e, a decorrere dal momento della loro applicabilità, l’art. 9, n. 1, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 7 marzo 2002, 2002/21/CE, che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica (direttiva «quadro»), gli artt. 5, nn. 1 e 2, secondo comma, e 7, n. 3, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 7 marzo 2002, 2002/20/CE, relativa alle autorizzazioni per le reti e i servizi di comunicazione elettronica (direttiva «autorizzazioni»), nonché l’art. 4 della direttiva della Commissione 16 settembre 2002, 2002/77/CE, relativa alla concorrenza nei mercati delle reti e dei servizi di comunicazione elettronica, devono essere interpretati nel senso che essi ostano, in materia di trasmissione televisiva, ad una normativa nazionale la cui applicazione conduca a che un operatore titolare di una concessione si trovi nell’impossibilità di trasmettere in mancanza di frequenze di trasmissione assegnate sulla base di criteri obiettivi, trasparenti, non discriminatori e proporzionati. » (Causa C-380/05, sentenza della Corte Europea).

L'11 dicembre 2008, il Ministero dello Sviluppo Economico ha assegnato le frequenze VHF III a Europa 7, ma Di Stefano in un'intervista ha manifestato nuovamente il suo dissenso, aspettando la pronuncia del Consiglio di Stato sul risarcimento danni. La richiesta di risarcimento prevede un importo pari a 3,5 miliardi senza assegnazione di frequenze, e 2,16 miliardi con le frequenze.

Soldi a carico dell’erario, ossia a scapito dei cittadini gli italiani.

1 MILIARDO DI EURO DALLA POLITICA PER I GIORNALI: QUALE LIBERTA' DI INFORMAZIONE ???

LA CASTA DEI GIORNALI. I CONTRIBUTI ALLA STAMPA

Il libro fa luce sul denaro pubblico, all’incirca 700 milioni di euro, che finisce nelle casse di grandi gruppi editoriali, giornali e organi di partito. Un’elargizione che non fa distinzione di partito o area politica. La Casta dei giornali, edito da Stampa alternativa-Eri Rai, ripercorre la storia di questa vicenda che trova origine, addirittura, nel ventennio fascista. L’autore, in questa intervista, ci racconta i punti più scandalosi dell’inchiesta.

Un fiume di denaro pubblico arriva ai giornali italiani, anche se appartenenti a società quotate in Borsa. Si tratta proprio di un fiume di denaro, sottratto alle disastrate finanze statali, mentre si applica un prelievo fiscale da lacrime e sangue, e si tagliano servizi e pensioni. Con le due ultime Finanziarie, l’esborso statale ufficiale in applicazione della sola “legge per l’editoria” sarebbe passato da 600 a 450 milioni. E con la Finanziaria in discussione in questi giorni si andrebbe ad un ulteriore taglio dell’esborso. Preannunciato in un primo tempo nell’ordine del 7%, esso alla fine sarà forse meno severo.

Ma, al di là della ufficialità e delle buone intenzioni del governo in carica, resta il dato storico: lo Stato italiano finanzia generosamente i giornali italiani – grandi e piccoli, quotati in borsa e di partito, di cooperative e di “movimenti” fantasma, di finte cooperative e di imprese truffaldine – insieme a periodici, agenzie di stampa e radio e televisioni locali. Un fiume di contributi, provvidenze e agevolazioni tariffarie con una portata fra i 700 e i 1.000 milioni di euro in un anno. 700 è la cifra che in un solo anno ha effettivamente richiesto l’applicazione della legge per l’editoria. Di circa 1.000 (di meno? di più? Non si sa) si può parlare se si tiene conto delle convenzioni e dei contributi elargiti dai singoli ministeri, regioni, ecc.

Come avviene questo finanziamento?

La parte più cospicua delle provvidenze se ne va in “contributi indiretti”: agevolazioni postali (228 milioni nel 2004), rimborsi per l’acquisto della carta (per fortuna aboliti nel 2005), agevolazioni telefoniche, elettriche, ecc. Contributi che premiano in particolare i grandi gruppi editoriali con molte testate, alte tirature e ampi organici. Così la Rcs è arrivata in un anno a prendere 23 milioni, la Mondadori 19 per le poste e 10 per la carta, Il Sole-24 Ore 19, la Repubblica-Espresso 16, l’Avvenire 10…

È vero che Libero, un giornale molto attento sugli sprechi di denaro pubblico, ha incassato cinque milioni di euro come organo del “Movimento monarchico italiano”?

Sono molti i giornali liberisti o comunque molto severi sui “costi della politica” e sull’assistenzialismo pubblico – dal Corriere della Sera a ItaliaOggi, dal Sole-24 Ore al Riformista, dal Foglio a Libero – che incamerano le provvidenze statali per l’editoria. Il giornale di Vittorio Feltri incassava 5 milioni di euro già sul 2003 quale organo di quel sedicente movimento. Come peraltro la testata di Giuliano Ferrara si portava a casa 3,4 milioni come organo della “Convenzione per la giustizia”. Così come altre testate minori: l’Opinione della Libertà, organo del “Movimento della Libertà per le garanzie e i diritti civili” (1,7 milioni); il Roma del “Movimento mediterraneo”, Il Giornale d’Italia del “Movimento pensionati”, ecc.

Dal 2004, però, questo trucco è stato neutralizzato. A parole. Nei fatti, Libero e i suoi confratelli organi di movimento hanno continuato a prendere quattrini in quanto trasformatisi in “cooperativa”. Cooperativa editoriale nella quale non è ovviamente richiesto una maggioranza di cooperatori giornalisti (requisito finalmente introdotto nel disegno di legge approvato nei giorni scorsi dal governo-Prodi e che ora sarà discusso in Parlamento). Nel 2004 il contributo a Libero – che nel frattempo dovrebbe essersi trasformato in “Fondazione” (presumibilmente per neutralizzare gli effetti della preannunciata stretta sulle cooperative “editoriali” e con l’intenzione di continuare ad accedere ai contributi con le stesse modalità dell’Avvenire, proprietà della Conferenza Episcopale Italiana) - risulta di poco meno di 6 milioni.

Ha un nome e un numero la legge che consente questo genere di finanziamenti?

Le provvidenze per l’editoria sono elargite sulla base di una serie di leggi, provvedimenti, finanziarie, circolari e decreti sovrappostisi nel tempo senza alcuna logica e coerenza, nemmeno giuridica. Una stratificazione normativa di complicata applicazione e di difficile lettura. Un autentico ginepraio. Solo nel testo degli ultimi contributi ufficializzati, sono citate ben dodici fonti legislative.

Questi contributi pubblici sono compatibili con la normativa europea, che vieta gli aiuti di Stato?

Non sono un esperto di diritto europeo. Credo che effettivamente il sistema delle provvidenze per l’editoria presenti profili di illegittimità per quello che riguarda l’intervento dello Stato nel mercato e, in particolare, per le regole e i principi della libera concorrenza. L’intervento pubblico nel campo dell’informazione – nelle proporzioni e con le modalità acquisite in Italia – costituisce un caso clamoroso di dilapidazione delle risorse pubbliche, di distorsione del mercato e di manipolazione della circolazione delle idee e della vita politica e democratica. Confesso che mi chiedo ancora come, dall’Europa, non sia mai arrivato alcun richiamo o sanzione al nostro paese.

Il modello dell’intervento pubblico all’editoria ha avuto origine nel ventennio fascista ed è sopravissuto in epoca repubblica. Perché?

In effetti, il modello si è evoluto - praticamente senza soluzione di continuità - più sul piano quantitativo che su quello qualitativo. In origine, si trattava di corrompere e di reclutare, in via del tutto riservata, singoli giornalisti e testate. Poi si è cominciato con il contributo ufficiale e “a pioggia” per la carta.

Infine, diciamo negli ultimi venticinque anni, si è dato vita ad un accumulo progressivo di norme mirate su aspettative e favori specifici (riservati agli “amici degli amici”), ma diventate inevitabilmente per tutti, a pioggia. E più norme ad personam si confezionavano, più la platea dei profittatori – anche non previsti – si ampliava. Sino a raggiungere le attuali, mostruose dimensioni, per tacere delle modalità per molti aspetti addirittura truffaldine.

Numerosi editori utilizzano il cosiddetto “panino”, ovvero paghi un giornale per acquistarne due. È un’iniziativa promozionale oppure c’è qualche altro motivo?

Se è per questo, è sempre più diffusa anche la “promozione” attraverso la distribuzione gratuita dei giornali. Li trovi sempre più spesso: in aereo, negli alberghi, nelle sale d’aspetto, nelle banche, persino per strada. Si tratta di iniziative molto sfaccettate alle quali concorrono, a seconda dei casi e in diversa misura, vari fattori. Ragioni autenticamente promozionali e la ricerca di un aumento, anche fittizio, di diffusione da far valere sul mercato pubblicitario valgono soprattutto per i grandi giornali. Ma una delle ricadute più sciagurate delle provvidenze per l’editoria, specie a livello di piccole testate (e di testate-fantasma), è proprio questa: più stampi e più contributi prendi. Un caso ormai proverbiale è quello di Europa, organo della Margherita: vende sotto le cinquemila copie ma per conquistare i suoi 3,7 milioni di euro è costretta a stamparne trentamila.

Una stampa, un’editoria, tenute al cappio, attraverso i soldi pubblici, dal potere politico quanto possono essere indipendenti e liberi?

Questo è il cuore del problema: una stampa finanziata è inevitabilmente una stampa non indipendente. Comunque una stampa che ha relazioni opache col potere politico, che quei finanziamenti decide. Un problema dalle conseguenze solo attenuate nel caso di grandi giornali che, in florido attivo, del contributo statale potrebbero fare a meno. E che, ormai, sono diventati in qualche caso un potere talmente forte che può imporre a una classe politica in crisi e a istituzioni indebolite di non intaccare quella rendita economica. Nel caso dei piccoli giornali, è indiscutibile: dipendono da quei contributi e quindi dai rapporti che riescono a mantenere con questo o quel pezzo del potere politico.

Come un cittadino può sapere a chi sono erogati i contributi all’editoria?

Basta collegarsi, su Internet, al sito www.governo.it e andare a vedere nel settore riservato al dipartimento per l’Informazione e l’Editoria.

Nei paesi maggiormente industrializzati esiste un sistema analogo?

Mi risulta che esistano pratiche analoghe, ma non con le nostre modalità (accentuatamente assistenziali, clientelari e truffaldine) e non nelle nostre dimensioni economiche. Inevitabilmente, anche su questo terreno – come complessivamente per i “costi della politica” – l’Italia è un paese, diciamo così, anomalo.

L’aiuto statale non è una garanzia alla libertà di stampa, nel senso di consentire a tutti di poter esprimere le proprie idee?

Indubbiamente, la libertà di mercato è una strana libertà che va tutelata con interventi animati da interessi pubblici. Questo vale anche e soprattutto nell’informazione e nella comunicazione – settori produttivi democraticamente molto sensibili - investiti negli ultimi decenni da una forte tendenza alla concentrazione (anche pubblicitaria) e all’omologazione, Perciò vanno incoraggiate e incentivate le nuove iniziative, l’innovazione, la concorrenza, le cooperative, l’informazione locale e indipendente. In questi settori promuovere al massimo il ventaglio dell’offerta merceologica significa promuovere il pluralismo e quindi la democrazia.

Ma, come peraltro negli altri settori produttivi e merceologici, non bisogna esagerare e seguire alcune modalità anziché altre. Si dovrebbe, ad esempio, favorire (con contributi e agevolazioni) la nascita di nuovi giornali e poi, dopo un certo periodo, consentire che vadano avanti con le proprie gambe. Le attuali provvidenze, al contrario, arrivano solo a giornali pubblicati da almeno cinque anni e poi, di fatto, non vengono più tolte. E agevolano la potenza e prepotenza dei grandi gruppi editoriali, che stanno letteralmente desertificando l’area dell’editoria regionale, minore e indipendente.

Gli editori italiani non sono quasi mai editori puri, ma hanno interessi in altre attività. Come fanno i giornalisti a difendere l’informazione da questi interessi?

Bella domanda! La tutela dell’indipendenza dell’informazione può essere perseguita, in teoria, a tre livelli: le condizioni materiali di indipendenza e autonomia della professione (e delle aziende); una forte e non corporativa organizzazione sindacale; l’onestà intellettuale, il coraggio e le capacità professionali del singolo giornalista. Il fatto che, salvo pochi esempi che si contano sulla punta delle dita di una sola mano, in Italia non esistano editori puri di giornali – o meglio, che non siano mai esistiti – ha avuto e ha conseguenze strutturali devastanti su tutti e tre i livelli.

In Italia non esiste un vero e proprio mercato dell’informazione: perciò non esistono editori puri e non esiste una cultura professionale “di mercato”. Bisogna chiedersi, prima ancora di come possano fare i giornalisti a difendersi dagli interessi extra-editoriali degli editori, cosa si debba fare per avviare da qualche parte un meccanismo virtuoso che introduca pur progressivamente una vera logica di mercato e di pluralismo nel nostro settore. E qui l’intervista potrebbe ricominciare.

(Questa intervista è stata pubblicata su Virgilio Notizie il 15 ottobre 2007.)

Soldi rubati al popolo. Lo Stato finanzia tutta la stampa del regime.

Ai quotidiani e periodici ex organi di movimenti politici o editi da cooperative oltre 190 milioni di euro all'anno: "L'unita'" (DS): 6.817.231; "Liberazione" (PRC): 3.718.490; "La Rinascita" (PdCI): 907.314

Grazie alle modifiche apportate dalla Finanziaria 2006 alle leggi 416 del 5 agosto 1981 (che disciplina le imprese editrici di quotidiani e periodici e ha istituito il contributo statale per i giornali di partito per salvarli dal fallimento); alla 67 del 25 febbraio 1987 (a favore dei giornali organi di movimenti politici che vantino almeno due deputati eletti in parlamento); alla 250 del 1990 (che regola la spartizione del finanziamento pubblico da parte dello Stato alla stampa e l'editoria dei partiti) e alla legge 388 del 2000 a favore di "quotidiani, già organi di movimenti politici, editi da cooperative costituite entro il 30 novembre 2001", tutte le imprese radiotelevisive, editrici di libri, periodici e le testate giornalistiche registrate come organo di partito edite da cooperative o appoggiate da due parlamentari o da un eurodeputato, si apprestano a prendere parte al lauto banchetto per la spartizione dei 667 milioni di euro (oltre 1.200 miliardi di lire) che ogni anno lo Stato ruba al popolo per finanziare tutta la stampa e mass media sia della destra che della "sinistra" del regime.

La torta è ripartita in 4 fette: la prima, poco meno di 28 milioni di euro è riservata ai giornali ufficialmente registrati come organi di movimento politico; la seconda, 31,4 milioni, se li spartiranno gli ex organi di movimenti politici editi da cooperative costituite entro il 30 novembre 2001; la terza fetta di quasi 89,5 milioni di euro va ai quotidiani e periodici editi da cooperative di giornalisti o da società la cui maggioranza del capitale sociale è detenuta da cooperative nonché quotidiani italiani editi e diffusi all'estero e giornali in lingua di confine; il resto, circa 12 milioni di euro vanno ai giornali politici e delle minoranze linguistiche; alle testate edite da cooperative editoriali; alle testate per i non vedenti; alla stampa italiana all'estero: giornali italiani pubblicati e diffusi all'estero; pubblicazioni edite in Italia e diffuse prevalentemente all'estero; e ai quotidiani teletrasmessi all'estero.

A ciò si aggiungono: i contributi per il credito d'imposta per l'anno fiscale 2004 pari al 10% della spesa complessiva per l'acquisto della carta; contributi per l'anno 2004 per le compensazioni a Poste Italiane Spa per le tariffe speciali applicate alle spedizioni editoriali; i finanziamenti concessi alle imprese editoriali (ex legge 62/2001) per il credito agevolato e per il credito d'imposta in relazione agli investimenti fissi di ristrutturazione e ammodernamento della capacità produttiva (in corso di elaborazione); i fondi per la riqualificazione e la mobilità dei giornalisti; i contributi alle imprese radiofoniche "libere" e a quelle ufficialmente registrate come organi di movimento politici erogati ai sensi dell'art. 4 della legge n. 250/1990; i rimborsi alle imprese radiofoniche a carattere locale per le spese per abbonamento alle agenzie di informazione ai sensi dell'art. 7 della legge n. 250/1990; i rimborsi delle spese per abbonamento ai servizi delle agenzie di informazione erogati ai sensi dell'art. 8 della legge n. 250/1990 e i rimborsi alle televisioni locali delle spese per l'abbonamento ai servizi forniti dalle agenzie di informazione erogati ai sensi dell'articolo 7 della legge n. 422 del 1993.

Insomma, ce n'è per tutti, ivi compresi i ricchi e potenti quotidiani di più larga diffusione nazionale a cominciare da "La Repubblica", "Corriere della Sera", "Il Sole-24 ore" "La Stampa" e "Messaggero" a cui lo Stato rimborsa una parte dei costi per l'acquisto della carta, le spese per le spedizioni e gli abbonamenti alle agenzie di stampa, fino alle testate dei maggiori partiti politici. E tutti, dai radicali (che per i servizi di "Radio radicale" intascano oltre 4.132 mila euro all'anno) alla Fiamma tricolore, da "Liberazione" all'organo del PdCI "La Rinascita", da "La Padania" fino agli ultraliberisti de "Il Foglio" di Giuliano Ferrara e "Libero" di Vittorio Feltri che quotidianamente si scagliano contro lo "Stato assistenzialista" ed esaltano la "libera impresa", avranno la loro bella fetta di finanziamento pubblico. Basti pensare che pur di incassare il malloppo questi campioni del liberalismo sarebbero disposti a fare carte false: "Il Foglio" ad esempio per ottenere i suoi 3,5 milioni di euro all'anno di contributi pubblici è stato il primo a usare il "trucco" dei due parlamentari diventando il giornale della misconosciuta Convenzione per la giustizia (due parlamentari, il minimo chiesto dalla legge), mentre "Libero" addirittura è diventato l'organo del Movimento monarchico nazionale e grazie a ciò incassa oltre 5,3 milioni di euro all'anno. Con questo "trucco", come lo ha definito lo stesso Giuliano Ferrara, anche "Il Borghese", di cui Feltri è stato direttore, e "Il Riformista" finanziato dall'ex braccio destro di D'Alema, Claudio Velardi, e diretto dall’ex del PCI Paolo Franchi (ora senatore della Margherita), che si è agganciato alla rivista di Macaluso, "Le ragioni del socialismo", hanno "diritto" alla loro bella fetta di finanziamento pubblico, che ammonta rispettivamente a 2,5 e 2,179 milioni di euro a testa all'anno.

La cosa ancora più scandalosa riguarda i criteri in base ai quali questa mega torta viene spartita.

La legge prevede infatti che il contributo statale venga erogato in proporzione ai costi e alla tiratura del giornale.

Dunque più copie stampi più aumenta il contributo. C'è un solo limite: bisogna che la testata venda almeno il 25% della tiratura. Ma questo non è un problema perché molte testate vendono sottocosto, regalano o addirittura scaricano alle fermate degli autobus e delle metropolitane decine di migliaia di copie che fanno figurare come vendute.

Prendiamo per esempio "Opinione delle libertà" che, insieme a "Libero" e "La Padania" sono sotto causa per aver diffamato il PMLI definendo i suoi militanti filo terroristi e fiancheggiatori di Al Qaeda, e come dice il suo direttore Arturo Diaconale, è agganciato "ai parlamentari di cultura liberale, riformista che sono stati eletti dentro Forza Italia". La sua tiratura è di 30.000 copie, perciò se vuole i soldi pubblici ne deve vendere almeno 7.500. Ma non ce la fa. Allora per fare numero vende sottocosto a 10 centesimi.

Perciò risulta che ci sono decine di testate che non vanno nemmeno in edicola, non vendono nemmeno un decimo delle copie che stampano, non hanno alle spalle un'azienda giornalistica, ma incassano ugualmente decine di milioni di euro all'anno.

In base all'elenco delle testate, gran parte delle quali create ad hoc con nomi a dir poco stravaganti e improbabili e sconosciute perfino agli edicolanti, ammesse al banchetto per i finanziamenti riferiti all'anno 2003 e pubblicato sul sito del governo, la parte del leone spetta a l'Unità con 6,817 milioni di euro all'anno, mentre al quotidiano della Cei, "Avvenire", andranno 5,590, Libero 5,371, Italia Oggi 5,061, Il Manifesto 4,441, La Padania 4,028, Liberazione 3,718, Il Foglio 3,511, Il Secolo 3,098, Europa 3,138; seguono: La Discussione, Linea Giornale del Movimento Sociale Fiamma Tricolore, L'Avanti!, Roma, Il Borghese e il berlusconiano Il Giornale tutti a quota 2,582; poi c'è il Sole che Ride 1,020, il quotidiano della Volkspartei (oltre un milione), la Rinascita della sinistra (quasi un milione) fino al defunto Liberal che ciononostante continua ad incassare 563 mila euro all'anno.

Durante il ventennio fascista Mussolini usava il manganello e l'olio di ricino per irreggimentare la stampa e i mass media, oggi alla borghesia e al governo in carica basta chiudere il rubinetto del finanziamento pubblico per ottenere lo stesso risultato.

Ecco a cosa si riduce la libertà d'informazione nel sistema capitalista: testate "indipendenti" e organi di stampa dei partiti parlamentari borghesi trasformati in appendici dirette del regime.

GIORNALISTA PRECARIO, CITTADINO ACCECATO

Proposta di Legge: “Abolizione dell’Ordine dei giornalisti ed istituzione della carta d’identità professionale del giornalista professionista”

(Presentata l'11 agosto 2006 da Daniele Capezzone e Michele De Lucia, in una conferenza stampa presso la sala stampa della Camera dei Deputati)

Onorevoli colleghi ! – “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, dispone l’articolo 21 della Costituzione. Ma una costituzione materiale si è imposta, anno dopo anno, al di là e contro la Carta Fondamentale, insinuandosi nella legislazione ordinaria fino a rendere lettera morta i principi – complementari e irrinunciabili perché un ordinamento possa dirsi democratico – della libertà di informare e del “conoscere per deliberare”. Al punto che il Rapporto 2005 sulla liberà di stampa compilato da “Reporters sans frontières” pone l’Italia al quarantaduesimo posto, superata da Costarica, Mali, Giamaica, Bosnia, Tobago, Capo Verde e Namibia.

Già nel 1945, dalle colonne di Risorgimento liberale, Luigi Einaudi aveva levato la sua voce contro l’istituzione di un Ordine dei giornalisti: “L’albo obbligatorio è immorale, perché tende a porre un limite a quel che limiti non ha e non deve avere, alla libera espressione del pensiero. Ammettere il principio dell’albo obbligatorio sarebbe un risuscitare i peggiori istituti delle caste e delle corporazioni chiuse, prone ai voleri dei tiranni e nemiche acerrime dei giovani, dei ribelli, dei non-conformisti”. Una previsione, quella del primo Presidente della Repubblica, che trova drammatico riscontro nella realtà odierna.

La legge istitutiva dell’Ordine dei giornalisti, che qui si intende abrogare, ha garantito, contro la Costituzione, non la libertà di stampa di tutti i cittadini, ma la libertà della stampa, intesa come corporazione giornalistica. Caduto il regime fascista, la sostanza strutturale è rimasta immutata: la corporazione ha preso il nome di Ordine. Laddove, secondo il dettato costituzionale, avrebbe dovuto essere consentito a tutti i cittadini l’esercizio della libertà di stampa, la legge n. 69 del 1963 ha stabilito che “nessuno può assumere il titolo né esercitare la professione di giornalista, se non é iscritto nell’albo professionale”.

Come può essere considerato, se non effetto di una bardatura corporativa a difesa di privilegi di casta, il vero e proprio percorso di guerra che chi intenda intraprendere la professione di giornalista deve affrontare prima di arrivare all’esame? Una professione, a tutti gli effetti, non libera, nel momento in cui essere riconosciuto praticante (e avere quindi titolo di ammissione all’esame) è spesso frutto di un negoziato politico: lottizzazione partitocratica, familismo, clientela, sono la regola. Proprio come sono la regola – e gli scandali che periodicamente si ripetono non mancano di rammentarcelo – le raccomandazioni al momento del cosiddetto concorso di esame.

Nemmeno la nascita, negli ultimi anni, di numerose scuole di giornalismo, la cui frequentazione biennale è sostitutiva del periodo di praticantato presso un editore, è valsa a migliorare la situazione: spesso le stesse si trasformano in una sorta di diplomificio, dove acquistare l’iscrizione all’Ordine dei giornalisti professionisti.

Con la soppressione dell’Ordine prevista dalla proposta di legge che qui si illustra, viene a cadere un’anomalia italiana all’interno dell’Unione europea e si restituisce piena dignità professionale a chi svolge effettivamente la professione di giornalista. L’articolo 2 istituisce infatti la “carta di identità professionale del giornalista” valida fino al momento in cui l’attività giornalistica cessa, abolendo da una parte la qualifica (altrove sconosciuta) di “pubblicista”, e dall’altra lo status sociale vitalizio, indipendente dall’esercizio della professione, di “giornalista professionista”.

Cessa così la commistione fra giornalisti e lobbisti, vale a dire funzionari redattori di uffici stampa o pubbliche relazioni: identificazione pericolosa per chi svolge un’attività di giornalista legata a valori costituzionalmente protetti; ma, d’altra parte, implicitamente offensiva per chi si vede costretto a mascherare la propria attività di informatore di parte, che è pienamente legittima all’interno di meccanismi di mercato chiari e rigorosi.
In questa proposta non viene previsto un periodo di praticantato, visto che l’apprendistato professionale è stato di fatto cancellato nella vita delle redazioni proprio dalla legge attualmente in vigore e sostituito da lavoro nero, sottopagato e privo di diritti.

L’istituzione della “carta di identità del giornalista” non prevede, infine, alcuna assurda discriminazione fra redattori di quotidiani da una parte e redattori di emittenti radiofoniche o televisive di agenzie e periodici specializzati dall’altra, indipendentemente dal fatto che i suddetti mezzi di comunicazione abbiano diffusione per via tradizionale o telematica, salvaguardando in tal modo le forme più moderne di accesso alla professione.

APPROFONDIMENTO. L’inchiesta che non leggerete mai sui giornali è quella che mette in luce alcuni aspetti del giornalismo dei nostri tempi e che tocca molto da vicino, chi più chi meno, tutti gli editori. Tali imprenditori sfruttano i lati deboli di un “sistema” creato da consuetudine e leggi vaghe o sbagliate. E solo di recente, grazie a giudici che hanno perso il senso di equità oltre che di giustizia, gli editori stanno avendo una grande mano anche dalla giurisprudenza.

Le vittime sono tante; la più importante è la verità.

In questi tempi di turbolenza e di conflitti di interesse si parla spesso di sciopero dei giornalisti. Eppure dei problemi di cui parleremo nessun sindacato si è mai occupato.

Ecco perché il problema interessa tutti i cittadini (nessuno escluso), ecco perché tutti dovrebbero conoscere alcuni dei meccanismi che stanno dietro la fabbricazione delle notizie che ogni giorno leggiamo sui giornali.

Ecco perché questa che segue è una inchiesta “impossibile”.

GIORNALISTI DI SERIE A E GIORNALISTI DI SERIE B

Negli anni d’oro (quelli ormai lontani più di due decenni) circolava un simpatico adagio che voleva il giornalismo lavoro d’elite e poco faticoso, remunerativo e pieno di privilegi.

«Fare il giornalista è sempre meglio che lavorare», si diceva.

In effetti fino agli anni 80 i giornalisti facevano parte di una categoria-casta ben pagata che deteneva di sicuro le leve del potere.

Negli anni 90 le cose iniziano a cambiare, le testate giornalistiche aumentano sempre più, si consolidano le reti televisive e radiofoniche locali. I grandi gruppi investono nel locale sviluppando redazioni regionali. Aumenta la richiesta dei giornalisti e gli iscritti all’albo, in maniera esponenziale. I giornali aumentano la foliazione e c’è bisogno di più lavoratori.

Si crea, all’interno della casta dei giornalisti, una netta separazione: ci sono i giornalisti assunti (quelli con la propria scrivania, in redazione, con stipendi che superano i 2000 euro, spese, trasferte, straordinario, tredicesima e quant’altro preveda il contratto nazionale).

Ci sono poi i cosiddetti “collaboratori” (5 euro a pezzo, quelli che vivono per strada e non possono accedere in redazione, che lavorano da casa e sono apparentemente svincolati dall’organico che crea il giornale, si pagano spese e disagi).

Sarebbe tutto normale se il ricorso al “collaboratore esterno” fosse occasionale e sporadico.

Cosa diversa, invece, se si spremono giovani desiderosi di affermarsi per fare gran parte del prodotto giornale, sfruttando meccanismi perversi di leggi non più attuali o distratte o troppo generiche o peggio interpretate male.
Ed è chiaro che all’editore il ricorso al collaboratore convenga davvero molto: come chiedergli “preferisci che ti regali mille euro oppure un milione?”.

La completa latitanza ed impotenza di Ordine e sindacato (e quella anche degli organi ispettivi) ha generato una sorta di matematica tranquillità che sovrasta sfruttamento e lavoro nero e che si traduce in decine e decine di vertenze singole ed estenuanti che terminano dopo oltre 10 anni (ed i collaboratori non sono highlanders…)
Nel frattempo è intervenuta la legge Biagi che ha flessibilizzato ulteriormente il lavoro dei collaboratori anche dei giornali locali abruzzesi. In sostanza il giornale che prima si faceva con giornalisti con contratto e diritti oggi si fa soprattutto con collaboratori che vengono pagati meno e soprattutto non hanno alcun diritto.

I PROBLEMI DEI GIORNALISTI RIGUARDANO TUTTI I CITTADINI

Il problema diventa rilevante perché legato al lavoro dei giornalisti è strettamente dipendente uno fra i diritti più importanti: il diritto costituzionale ad essere informato correttamente.

Quando l’informazione è corretta il cittadino ha a sua disposizione gli strumenti per poter esercitare gli altri suoi diritti, per farsi un’idea di chi amministra e della politica, può scegliere liberamente chi votare basandosi su dati certi e reali. Perché possiede la verità (o parte di essa) grazie al “cane da guardia” che è la stampa.

Quando l’informazione, invece, diventa fragile è asservita al potere ed il cittadino viene come accecato, gli scandali sotterrati, gli errori cancellati, gli sprechi coperti, le responsabilità eluse.
Siete allora convinti che sondare il terreno nel quale nascono le notizie che poi si leggono sui giornali sia importante?

PUBBLICISTA E PROFESSIONISTA

Secondo la legge che istituisce l’Ordine e regola la professione giornalistica (3 febbraio 1963 n. 69) «sono professionisti coloro che esercitano in modo esclusivo e continuativo la professione di giornalista. Sono pubblicisti coloro che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni ed impieghi».

Per poter diventare pubblicisti occorre aver pubblicato un pugno di articoli, essere stati retribuiti in qualche modo (non importa se molto o poco).

Per diventare professionisti, invece, bisogna essere dotati di un contratto da praticante, esercitare continuativamente la pratica giornalistica per almeno 18 mesi e superare l’esame di Stato che si tiene a Roma due volte l’anno.

Tuttavia poiché degli editori hanno fatto ampio ricorso agli strumenti che la legge mette a disposizione sfruttando al massimo la flessibilità è diventato in sostanza impossibile ottenere i contratti da praticante poiché per l’azienda molto onerosi.

Così la maggior parte degli “operatori dell’informazione” saranno pubblicisti (che è un po’ come i minorenni che portano il motorino o quelle auto per cui non occorre la patente: non sono tenuti a conoscere segnali stradali e regole però guidano lo stesso, senza una certificazione ufficiale e riconosciuta di una “sufficiente preparazione”)

COLLABORATORI A 5 EURO AD ARTICOLO O 300 EURO AL MESE

Iniziare a scrivere sul giornale non è poi particolarmente difficile. Diventa ostico se si pretende di essere pagati per il lavoro che si svolge. Chissà perché il giornalismo è l’unico mestiere che si può fare “per hobby”.

Assolutamente impossibile è oggi essere regolarizzati che significa semplicemente avere un contratto (che rispecchi perfettamente il ruolo effettivamente svolto) e dunque diritti.

Il ragazzo che si avvicina a questa professione avendo un’idea romantica della professione si scontra immediatamente con la realtà che, nella migliore delle ipotesi, è un contratto annuale di collaborazione (alcuni anche a progetto anche se francamente si ignora quale sia in questo caso l’accezione di “progetto”).

Oggigiorno si fa ampio ricorso a contratto flessibili che ogni collaboratore esterno deve obbligatoriamente ma “liberamente” firmare. Tale accordo privato imposto dall’editore ha il solo obiettivo di svincolare l’azienda da ogni sorta di legame con il collaboratore che rimane dunque esterno all’azienda.

Per la legge formalmente tale lavoratore opera «in proprio» e «senza alcun vincolo di subordinazione».
Il collaboratore lavora «sulla base di singoli incarichi professionali di volta in volta conferiti». Non c’è rimborso spese, non ci sono ferie, riposo o diritti riconosciuti. I contratti imposti dalla parte più forte sono accordi stipulati «nella più ampia libertà e facoltà delle parti».

Seguendo pedissequamente il dettato contrattuale il collaboratore dovrebbe proporre un pezzo al giornale quando ne ha voglia, il giornale lo pubblica se ne ha voglia.

Il compenso al momento è cinque euro ad articolo.

Per chi non abbia assolutamente idea di come nasca un articolo diciamo che questo implica telefonate, spostamenti, ricerche, e di sicuro la perdita di un po’ di tempo. Cinque euro valgono per l’articolo creato in un’ora come per quello di mezza giornata.

Un articolo va sempre verificato: pensate che si possano effettuare sufficienti verifiche per 5 euro?
Fin qui potrebbe sembrare solo una storia di quotazione dell’operato del giornalista.

L’OBBLIGO SOTTINTESO

I problemi seri iniziano quando, sfruttando la legge, si riescono a creare interi giornali basandosi esclusivamente o per la maggior parte sul lavoro dei collaboratori. Con il non trascurabile vantaggio di costare molto poco al “padrone”.

Questo implica di fatto un lavoro quantitativamente e qualitativamente diverso del collaboratore che dovrà assicurare nella pratica un certo numero di articoli utilizzando un certo numero di ore della sua giornata.
Si crea così un certo “obbligo sottinteso” alla prestazione che si allontana dalla iniziale statuizione e si trasforma di fatto in un rapporto che dal punto di vista giuridico diventa in molti casi subordinato (che andrebbe regolato dal contratto nazionale dei giornalisti molto ma molto più costoso per l’editore).

Il vincolo c’è, la dipendenza pure, ma non si vedono a fine mese nella busta paga.

75% DELLA “REDAZIONE”

Oggi anche in Abruzzo la percentuale dei collaboratori di un giornale si aggira intorno al 75%. Questo vuol dire che i giornalisti contrattualizzati sono appena il 25% dell’intero organico e di solito hanno compiti di coordinamento, di impaginazione, di verifica dei pezzi.

E per un collaboratore che liberamente deve fornire pezzi per riempire ogni giorno una porzione di pagina (a volte anche una pagina intera) la situazione diventa piuttosto complicata.

Non bisogna sottovalutare la componente psicologica ed umana di chi magari ama moltissimo questa professione e si sottopone per un certo periodo di tempo alla necessaria ed utile “gavetta”.

Molto spesso però tale periodo si allunga a dismisura occupando spesso un decennio, ma sono sempre di più chi può vantare una “gavetta” ventennale o più. L’unico problema diventa trovare… un lavoro per sopravvivere.

Per le tv locali le cose non vanno meglio: il ricorso ai giovanissimi di primo pelo (che non pretendono ma nemmeno assicurano professionalità) è sempre maggiore, così come a società esterne, troppo pochi i veri professionisti con regolare contratto di categoria che possono garantire la qualità del prodotto.

Ecco allora che il giornalismo fatto con queste logiche alle spalle pone seri problemi qualitativi del prodotto.

LA NOTIZIA INQUINATA

Se così stanno le cose si capisce quanto sia vitale trovarsi un “vero” lavoro che consenta poi di poter continuare “a scrivere sul giornale” perchè nessuno oggi è in grado di vivere dignitosamente con 300, 500 o 600 euro al mese.
Ecco perché si trovano firme note sui nostri giornali che di mestiere fanno il professore o l’impiegato.

Moltissimi “operatori part time dell’informazione” tuttavia rimangono nel campo e, sfruttando le nuove possibilità offerte da recenti normative, offrono la loro prestazione professionale creando servizi legati a quello che viene chiamato “ufficio stampa”.

“Fare l’ufficio stampa di” significa veicolare in sostanza il messaggio ai media di politici, enti, aziende, associazioni predisponendo comunicati stampa, organizzando conferenze stampa.

Cosa succede se lo stesso giornalista cura l’ufficio stampa di qualcuno e scrive anche sul giornale o lavora in tv?

La risposta più corretta è: dipende.

Esempio: se curo l’ufficio stampa della squadra di calcio di Montazzoli (Ch) e poi per il giornale curo la cronaca di Penne (Pe) è probabile che non vi siano problemi di nessun genere perché non vi sarebbero commistioni o conflitti. Ma se, per esempio, sono il giornalista che cura l’ufficio stampa del partito X (dunque, pagato da questo partito) e scrivo sul giornale (pagato molto meno) di argomenti inerenti lo stesso partito, pensate forse che io possa mai scrivere in tutta serenità e obiettività?

E come pensate che possa essere il mio prodotto finale se per esempio devo informare i lettori del giornale o gli spettatori della tv della posizione del partito Y, contrario e opposto al mio (sempre quello che mi paga)?

In gergo si chiama conflitto di interesse e nuoce inevitabilmente alla salute della verità e della obiettività.

Infatti, la legge vieta questo genere di commistione esplicitamente.

Peccato che nessuno faccia rispettare la norma.

Chi dovrebbe controllare non sa e non vuole vedere (e poi perché impedire a giornalisti precari di portare alla fine del mese uno stipendio per sopravvivere dignitosamente?)

CI SONO DATORI DI LAVORO E DATORI DI LAVORO

Così abbiamo giornalisti che scrivono anche su quotidiani molto diffusi o in tv che vengono pagati per fare i portavoce di politici.

Saranno poi naturalmente prontissimi a “far passare” articoli sul giornale per il quale lavorano.

Poi ci sono quelli che sono “pagati dal sindaco” che li ha “assunti” e continuano a scrivere sul giornale, magari lavorano in tv o rivestono ruoli organizzativi per cui possono influire persino sul taglio da dare a certe notizie (tutte le notizie nei casi più estremi).

Siccome siamo una regione che non si fa mancare nulla possiamo vantare anche “direttori dopolavoristi” che, assunti magari dalla Regione o dalla università, poi, in tutta obiettività, decidono le loro linee editoriali. Certo la cosa sarebbe molto più grave se si trattasse di tv regionali dalle grandi audience.

Ma in questo caso di precaria c’è solo la verità che inevitabilmente ne viene fuori visto che per eccezioni come queste vengono fuori compensi oltremodo dignitosi.

Sta di fatto che, capito il gioco, i politici (ma anche aziende, enti pubblici e non) hanno fatto a gara ad “accaparrarsi” le prestazioni delle firme più autorevoli (ma non contrattualizzati) per fare a volte anche giochi poco coretti.

Tutto ruota intorno ai “buoni rapporti” e alla simpatia e alle credenziali che il giornalista può giocarsi.

E ci sono giornalisti che lavorano per aziende, enti pubblici, organizzazioni e che di queste scrivono poi sui giornali chiamati ad essere obiettivi creando un numero enorme di conflitti e generando un groviglio di interessi inestricabile.

Come si può pretendere che il giornalista dell’ufficio stampa del Comune Z poi sia realmente obiettivo nel riportare le notizie sul giornale che riguardano la stessa amministrazione?

Casi di questo genere sono migliaia a tutti i livelli generati proprio da un sistema che non garantisce diritti al giornalista precario.

Spesso si tira fuori la trita tiritera su quale mai sia la ragione per cui non si fa più il giornalismo di inchiesta, quello che serve per davvero… vi è per caso balenata qualche ragione adesso?

Il massimo del parossismo si tocca quando, per esempio, tutti i “corrispondenti” dei maggiori organi di informazione locali siano dipendenti del Comune per cui scrivono “in cronaca”.

Quale tipo di informazione pensate ricevano gli abitanti di quel paesino o paesone?

E se manca la verità e l’obiettività manca quel controllo che il vero giornalismo è chiamato a fare scoperchiando quanto andrebbe per missione scoperchiato ed offrire uno strumento importante al cittadino, non fosse altro perché garantito dalla Costituzione.

QUALE GIUSTIZIA

Certo il nostro sistema offre alcuni rimedi per i giornalisti in cerca di giustizia che smaniano di uscire dal precariato.
Nessuno strumento, invece, è offerto al cittadino che nemmeno immagina…

E sono sempre più le cause di lavoro in materia (anche se la maggioranza per molteplici ragioni preferisce evitare, procrastinare e non imbarcarsi in un cammino lungo, estenuante e dispendioso che fra l’altro sbarra tutte le strade).

E quale giustizia può arrivare in questi casi se si incappa nelle maglie di un sistema giudiziario ingolfato?

Sono moltissimi i casi di over 40 che attendono la fine del loro iter giudiziario da oltre 10 anni. Gli esiti sono per la maggior parte favorevoli ai precari per nulla favoriti dalla giurisprudenza e dal sistema probatorio (basato essenzialmente su prove testimoniali… degli ex colleghi ancora inseriti in organico…).

Di recente poi la Corte di Cassazione sta rivedendo alcune interpretazioni che avevano portato al riconoscimento di un lavoro di fatto dei precari. Così anche in Abruzzo si è visto chi dopo 10 anni ha vinto una causa, è stato finalmente assunto, salvo poi prontamente essere licenziato in seguito alla sentenza di Cassazione. Quale giustizia è mai questa?

Il precariato legalizzato per giurisprudenza.

IL SINDACATO

Chi tutela il giornalista precario?

Di fatto nessuno perché nessun organismo per legge può farlo (ma che Paese è mai questo?).

Il sindacato dei giornalisti, infatti, tutela solo chi ha sottoscritto il contratto nazionale (quello oneroso per gli editori e sempre più raro) un paradosso incredibile e non sanato che lascia del tutto indifesi l’esercito di centinaia e centinaia di giornalisti di fatto della nostra regione.

Ma soprattutto lascia campo libero agli editori con le inevitabili conseguenze sul prodotto alle quali abbiamo accennato. Sensibile a questo problema, almeno a parole, è sembrata la Cgil che in quanto sindacato potrebbe intervenire per tutelare i diritti fondamentali di lavoratori e cittadini.Ma muoversi anche per un sodalizio così importante come la Camera del lavoro non è facile specie in un pollaio come l’Abruzzo.

In questo scenario desolante ad avere buon gioco sono allora i politici e gli imprenditori, insomma i poteri forti, che di fatto possono influire in maniera diretta sulla informazione (e quello che abbiamo descritto è soltanto uno, la conseguenza della precarietà, ma ve ne sono moltissimi altri…).

Come si può ragionevolmente auspicare che le cose possano cambiare grazie a nuove norme necessarie e sacrosante?

Certo manca da sempre anche una vera organizzazione dei precari che vivono malissimo ma per loro c’è sempre spazio per peggiorare. Eppure quanto potrebbe aiutare le persone oneste una stampa forte, onesta, che non si vende e non si presta, dignitosa e con «la schiena sempre dritta».

Forse è utopia ma pretendere che siano colmate enormi falle non chiamatela utopia.

Tutti si definiscono giornalisti, pochi lo sono veramente. Testimonianza “Per fatto personale”, scritta da Filippo Facci. "Alla fine del mio «Di Pietro, la storia vera» c’è un fuori-capitolo che racchiude alcune peripezie personali che ho sempre omesso di raccontare.  Non farlo neppure stavolta sarebbe stata reticenza."

Avevo ventiquattro anni e volevo fare il giornalista. Nel gennaio 1991 vantavo già tre o quattro querele e fu allora che incontrai Antonio Di Pietro per la prima volta. Avevo cominciato presto, e dal giornaletto in cui spadroneggiavo, a Monza, approdai a delle collaborazioni con «l’Unità» e con «la Repubblica». Tuttavia le querele giungevano scientificamente solo al giornaletto che mi dava da vivere e che perciò dovetti lasciare.

Di Pietro lo conobbi appunto per una querela: era in toga e me l’indicarono; gli rivolsi un saluto formale che lui non ricambiò. Non gl’importava nulla di quella causa, lo si capiva. Sembrava mestamente annoiato dalle sciocchezze e dalle querele di me giornalistucolo, e quella sua burocratica indolenza non me la sarei più schiodata dalla mente. La querela non ebbe seguito.

Finito il militare, i miei contatti con «l’Unità» e con «la Repubblica» erano saltati. Mi ero sposato l’anno prima, a ventitré anni, ed ero disoccupato: l’unico contatto che riuscii a procurarmi fu con la redazione milanese dell’«Avanti!», dove per un paio d’anni avrei lavorato da abusivo. A me importava solo di fare il giornalista.

Mi diedi da fare. Di Pietro lo rividi nel dicembre 1991 quando mi mandarono a intervistarlo con la testuale premessa che era «amico nostro». L’incontrai di nuovo seguendo Mani pulite: l’«Avanti!» era ritenuto il giornale dei ladri e lo chiamavano «la gazzetta degli avvocati», e tra una diffidenza e l’altra i nervi di una mia collega avevano cominciato a cedere; avevano mandato avanti me perché secondo il mio caporedattore ero un «cane sciolto».

Ma un cronista dell’«Avanti!», al tempo, aveva poche alternative tra l’essere considerato un cane sciolto o l’essere considerato un cane. Ricordo quando entrai nella sala stampa del palazzo di giustizia e tutti uscirono, come capitò anche a un cronista del «Secolo d’Italia». Ricordo quando davanti a una clinica privata, dove un famoso finanziere era agli arresti ospedalieri, il gruppetto dei cronisti cambiava marciapiede a seconda della mia posizione. Quando mi capitò di pubblicare dei verbali d’interrogatorio che guastarono i piani di chi scriveva in pool, poi, un collega mi disse a brutto muso che secondo lui i miei verbali erano falsi. Un altro cronista mise in relazione la fuga notturna di un dirigente socialista con una mia possibile spiata. Lo scrisse pure.

In tutto questo la situazione si era fatta ancora più complicata perché la sede romana dell’«Avanti!» vedeva nella redazione milanese un avamposto craxiano – ciò che era – e man mano che decresceva il potere di Craxi cresceva anche il tentativo di isolarci e di toglierci peso. Io formalmente neppure esistevo: non avrei potuto neanche stare in redazione; il direttore di allora, su cui non esprimo un’opinione perché non ho l’immunità parlamentare, si chiamava Roberto Villetti e ogni tanto telefonava da Roma per sincerarsi che io fossi rimasto a casa o scrivessi comunque da fuori, quando invece in redazione praticamente ci dormivo. A un certo punto, in un periodo in cui peraltro non arrivava più una lira perché le tangenti erano finite – questo l’avrei appreso poi – Villetti prese a togliermi anche la firma dagli articoli: ma neppure sempre, a giorni alterni, quando capitava. Pensai di aggirare l’ostacolo ricorrendo alla doppia firma col mio caporedattore milanese, Stefano Carluccio, un amico: ma a un certo punto il direttore risolse togliendo solo la mia firma e lasciando quella di Carluccio sotto articoli che però avevo scritto io.

Nell’insieme: lavoravo da abusivo per il giornale dei ladri, ero disprezzato dai colleghi e da chiunque in quel periodo sapesse dove scrivevo, completamente gratis, in teoria non potevo neppure entrare in redazione e sotto i miei articoli c’era la firma di un altro. Però c’era la salute.

Continuai a seguire Di Pietro e Mani pulite anche quando l’atmosfera si fece ancora più elettrica e quando due persone che conoscevo, inquisite, si suicidarono. Scrivere sull’«Avanti!» certo mi forzava a guardare le cose da un punto di vista speculare, ma probabilmente c’entrava anche il mio carattere e un’età in cui avevo davvero poco da perdere. In ogni caso il clima che ribolliva nel paese non mi piaceva. Mi venne naturale raccogliere del materiale su cui lavorare: di giorno, quindi, seguivo la cronaca, e la sera ci ragionavo, approfondivo, scrivevo, ne discutevo sino a tarda notte.

Continuai a occuparmi di Di Pietro anche quando l’«Avanti!» chiuse i battenti e rimasi a spasso. Era la fine del 1992. Fu un brutto colpo, soprattutto perché ormai ero catturato dagli avvenimenti. La redazione era chiusa ma spesso ci dormivo dentro perché a casa c’era qualche problema. Presi a indagare, feci domande in giro, raccolsi ritagli di giornale. Un paese intero invocava manette e io intanto fingevo di fare il giornalista come di consueto: assumevo informazioni, le ordinavo, le assemblavo, ne parlavo: solo che, il giorno dopo, non usciva nessun mio articolo. Mi limitavo a ingrassare e limare un mio libro impossibile, una sorta di rivisitazione della carriera di Di Pietro e della sua inchiesta devastante. Non avevo nient’altro da fare, né di nient’altro m’importava.

Era il periodo dei governi che non riuscivano a governare, l’anno delle bombe a Milano e a Roma, delle speculazioni internazionali: l’atmosfera da torbido complotto era illuminata solo dalla mirabolante traiettoria di Antonio Di Pietro. Un sondaggio, tra «abbastanza», «molta» e «moltissima», gli attribuiva il 90 per cento della fiducia degli italiani. Neppure certi suicidi eccellenti avevano scosso l’opinione pubblica: il 60 per cento degli italiani riteneva che l’uso della carcerazione preventiva andasse bene così. Neppure quel clima da carboneria e la mia vocazione di bastiancontrario mi divertivano più: ero pur sempre un ragazzo di ventisei anni che voleva fare il giornalista. Cercai di defilarmi.

Scrivevo. Il libro era ormai denso e particolareggiato sino alla paranoia, quasi quattrocento pagine che ingenuamente e nelle maniere più improbabili tentai di proporre a qualche casa editrice. Non interessò a nessuno perché ero un perfetto sconosciuto, ma nondimeno perché era il periodo che era. Sulla copertina di «tv Sorrisi e Canzoni » l’icona del magistrato più amato dagli italiani troneggiava su un titolo cubitale: Di Pietro facci sognare.

Conobbi Bettino Craxi semplicemente telefonandogli: fu poco prima che quasi lo linciassero all’Hotel Raphaël, all’inizio del 1993. Non dirò nulla di lui. Conobbi altre persone tra le più care, in quel periodo: uomini e ragazzi che difendevano storie che non erano le loro, e che dicevano follie che un giorno sarebbero state ovvie. L’effervescenza di Mani pulite mi disvelò codardie raggelanti e dignità insospettabili.

Il mondo delle persone normali, a poco a poco, mi perse. Sfumarono amicizie e affetti, il matrimonio era ormai consunto, mio padre intanto leggeva il forcaiolo «Indipendente» di Vittorio Feltri. Poi, un giorno di aprile, mi telefonò un personaggio di una fantomatica casa editrice straniera, uno che diceva di aver saputo del mio dattiloscritto da qualche collega di Palazzo Marino, la sede del Comune di Milano. Si disse interessato. Ci vedemmo due volte in un bar del centro e nel secondo incontro mi mostrò anche un libro pubblicato da questa casa editrice straniera, la Marshall di Dublino. Nel trattenere una copia del mio lavoro mi disse che uno scritto come il mio in Italia non sarebbe mai stato pubblicato, e con mio sbigottimento mi diede una busta che – verificai poi – conteneva 4 milioni in contanti. Gli lasciai anche due mie foto. Una, lo feci per scherzare, mi ritraeva che avevo circa un anno.

A metà luglio il settimanale «Il Sabato» pubblicò un dossier che conteneva tutta una serie di notizie imbarazzanti per Antonio Di Pietro. Erano cose che perlopiù conoscevo e che nel mio libro fantasma avevo sviluppato in parte meglio e in parte peggio. Furono sbrigativamente bollate come «calunnie» come capitava a ogni minimo rilievo mosso contro Di Pietro, ma fu un altro fatto a colpirmi. Mi suonavano stranamente familiari, di quel dossier, almeno un paio di passaggi. Ebbi l’impressione che l’estensore avesse quantomeno consultato il mio libro fantasma, ma fu solo un primo campanello d’allarme. Presto un altro episodio l’avrebbe terribilmente superato.

Il mio ex caporedattore, Stefano Carluccio, mi convinse a fare causa all’«Avanti!» così da ottenere almeno il praticantato d’ufficio, un riconoscimento legale che mi avrebbe permesso di fare l’esame da giornalista professionista. All’Ordine della Lombardia c’era Franco Abruzzo, ritenuto vicino a quel che rimaneva del Psi. La mia causa fu accolta. A Roma feci l’esame scritto e scelsi un tema sul cosiddetto «nuovismo» maturato dopo Mani pulite, anche se l’enfasi della titolazione avrebbe potuto indurmi a migliori consigli. Fui soddisfatto del mio lavoro, ma tempo dopo appresi che mi avevano bocciato. Diedi di nuovo l’esame scritto e scelsi l’analisi di un decreto legge sulla giustizia, il Decreto Gargani. Presi il voto più alto di tutta la sessione. Preparai l’orale e intanto non combinavo granché.

Nel dicembre 1992 avevo conosciuto l’ex sindaco di Milano Paolo Pillitteri, ex amicone di Antonio Di Pietro, e mi aveva già confidato qualche notevole aneddoto su Tonino, Ninì come lo chiamava lui. Passavo a trovarlo nella ridicola speranza che potesse aiutarmi a trovare lavoro e mi dava udienza anche perché era avvolto da una solitudine impressionante. Un giorno mi mostrò un faldone pieno di appunti infarciti di correzioni illeggibili, voleva una valutazione. La forma faceva abbastanza schifo e glielo dissi, ma gli proposi di fare un libro intervista purché corredato di domande e risposte vere. Pillitteri aveva lottizzato e piazzato giornalisti ai più alti livelli, ora aveva me. Ci mise un po’ ad accettare. A lavoro finito, l’ex sindaco mi favorì due appuntamenti con due editori, ma andò male. Nel febbraio 1994 tentai di mia iniziativa con la romana Newton Compton e sorpresa: accettarono. Mi posero dei tempi di consegna strettissimi così da uscire entro le elezioni del 27 marzo. Ero sbalordito.

L’esame orale da giornalista fu sempre in febbraio. Si doveva discutere una tesina scelta dal candidato e rispondere a un po’ di domande. I commissari sbirciarono il voto dello scritto e si compiacquero. Ma poi, di fronte a una commissione composta da magistrati e giornalisti, cominciai a discutere la tesina «Commistioni tra magistrati e giornalisti nell’inchiesta Mani pulite» perché ero fatto così. Anche un po’ scemo, a riguardarmi oggi, ma ero uno che non mollava mai. Gli altri aspiranti professionisti sgranarono gli occhi di fronte all’harakiri e l’esame non fu piacevole, durò almeno il doppio del consueto e anche la camera di consiglio si protrasse per un’ora secca. Fui promosso col minimo dei voti, grazie, appresi, a un commissario che poi venne a cercarmi.

Ero finalmente un disoccupato professionista e pensai che l’importante fosse non fermarsi. Cominciai a girare da un avvocato all’altro per raccogliere varie storie di malagiustizia, mia vecchia passione di quando sedicenne militavo nei Radicali. Cercai di condensare queste storie in un altro volume in cerca di fortuna. Ogni tanto ripensavo all’improbabilità di quell’editore straniero, tutte le stranezze, i contanti senza ricevuta, neppure un numero telefonico o un indirizzo dove rintracciarlo. Era sparito e pensai che potesse essere normale in un periodo in cui nulla lo era.

Un vecchio amico di mio padre lavorava alla neonata «Voce» di Montanelli, e provai lì. Erano in overbooking, ma il tizio mi procurò un appuntamento con Maurizio Belpietro, vicedirettore del «Giornale ». Quest’ultimo mi accompagnò dal capo della cronaca di Milano, Daniele Vimercati, e gli propose di mettermi alla prova. Ma non mi chiamò mai. Era un ottimo giornalista, era vicino alle posizioni di Bossi e io ero uno che aveva lavorato all’«Avanti!» da abusivo.

Un mattino mi segnalarono uno dei tanti anonimi su Mani pulite che circolavano per le redazioni. C’era una copertina grigia col titolo Gli omissis di Mani pulite e risultava edito da una certa «Marshall Ltd-Irlanda», firmato da Anonimo giornalista. Centonovantadue pagine fitte. Era il mio libro, Anonimo giornalista ero io. Sulla retrocopertina, piccolina, c’era anche la mia foto di quando avevo un anno.

Rimasi di sale. Da una parte la rabbia per quell’incredibile lavoro perduto nell’oceano degli anonimi, dall’altra un timore irrazionale di venire scoperto per aver fatto qualcosa che in realtà non volevo neppure nascondere. Fu difficile non parlarne con nessuno per mesi, per anni. Tanto più quando il settimanale «Panorama», poco tempo dopo, in un trafiletto, fece cenno al volume e titolò Veleni contro Mani pulite. Mi raccontarono che alcuni colleghi della giudiziaria si divertirono con la caccia all’autore e seppi che non sospettarono di me perché non mi ritenevano all’altezza.

Il libro intervista con Pillitteri, Io li conoscevo bene, uscì a marzo inoltrato. «Panorama» ci dedicò un’intera pagina e altri articoli uscirono sulla «Stampa» e sul «Messaggero». Spesso neppure mi nominavano, ma fui contento anche se dell’argomento principe del libro, Antonio Di Pietro e certi suoi legami imbarazzanti, preferirono non parlare.

Già lavoravo ad altro: la raccolta delle storie di malagiustizia mi appassionava. In luglio, nei giorni del disgraziato Decreto Biondi, il mio amico Luca Josi mi propose di presentarle sotto forma di libro in via di pubblicazione, anche se propriamente non c’era il libro e non c’era l’editore; diceva che si poteva contrapporlo a quanti, a fronte delle lagnanze garantiste, invocavano ogni volta esempi e casi concreti.

Nella saletta di un hotel romano, non certo grazie a me, intervennero Vittorio Sgarbi, l’avvocato Nicolò Amato e il professor Paolo Ungari. Uscì un trafiletto sul «Giornale» e uno sul «Corriere della Sera». Fu un risultato, dati i tempi. Qualche giorno dopo si fece vivo tal Roberto Maggi, già editore di Sgarbi con la sua Larus di Bergamo. Aveva letto il trafiletto sul «Corriere ». Disse che il libro gli interessava molto ma tutto venne rimandato a settembre. Gli credetti. Passai l’intero agosto a lavorarci sopra.

In settembre, dopo ripetuti rinvii, Maggi si rese irreperibile e compresi poi perché: stava per pubblicare La Costituzione italiana: diritti e doveri commentata da Antonio Di Pietro con prefazione di Francesco Cossiga. Presto avrebbe editato anche due testi di educazione civica sempre firmati dall’ex magistrato. Roberto Maggi cercò di convincermi che aveva grandi progetti e che non avrebbe avuto problemi a pubblicare anche me, perché era un liberale, e la cosa incredibile è che io credetti anche a questo. Continuai a lavorarci. Non ero cretino: ero di mente lineare, poco incline al barocchismo e al retroscena, figlio di mezzi tedeschi, soprattutto crederci era gratis.

Il mio ultimo appuntamento alla Larus di Bergamo fu il 3 febbraio 1995. Attesi due ore in una saletta e poi eccomi nell’ufficio di Maggi, dove appesa al muro c’era una gigantografia di Antonio Di Pietro firmata da Bob Krieger. Mi spiegò che non poteva permettersi di pubblicare il mio lavoro perché l’aveva mostrato all’ex magistrato. In sostanza aveva cercato di farsi bello con lui bloccando il mio libretto. Questo disse, almeno. Rimasi malissimo.

I primi di giugno 1995 ero a Monza a giocare a pallacanestro. Non possedevo un telefono cellulare e sul bordo del campetto d’un tratto comparve mio padre: mi disse che mi stavano cercando urgentemente dal «Giornale», quotidiano che intanto lui era passato a leggere. Finii la partita e solo molto più tardi, da una cabina del telefono, appresi che Di Pietro era stato inquisito a Brescia, e mi proposero di scrivere un articolo tipo «io l’avevo detto» sulla base di quanto avevo già scritto nel libro-intervista a Pillitteri. Dovetti precipitarmi al «Giornale» con la canottiera ancora madida di sudore e ricordo l’orrore negli occhi di Vittorio Feltri che allora se la tirava con l’eleganza british-campagnola. Scrissi un affresco sul reticolo di amicizie discutibili dell’eroe nazionale. Il giorno dopo, più di un quotidiano fu costretto a inseguirmi. «L’Unità», circa il libro intervista con Pillitteri, scrisse di «veleni», e «la Repubblica» che «il pamphlet rischia di diventare un best seller che pare già depositato agli atti dell’inchiesta di Brescia». Il best seller mi fruttò in tutto 1.081.623 lire. Cominciai a scrivere sul piccolo quotidiano «L’Opinione» grazie a una raccomandazione di Pillitteri, ma stavano per addensarsi nubi davvero nere.

Procure e redazioni, al tempo, erano invase da scritti anonimi contro la magistratura milanese, e si prospettava l’ombra di un Mister X che fungesse da suggeritore dei cosiddetti veleni indirizzati contro Di Pietro. Il clima da spy-story era a mille. Il 3 luglio 1995 sul «Giornale» lessi questo titolo: Mister X era già in un libro di due anni fa. Sottotitolo: Un memoriale anonimo pubblicizzò tutti i veleni e gli omissis del gruppo di Mani pulite. Testo: «Oggi andrebbe a ruba. Allora, nel maggio 1993, circolò per il tribunale come i samizdat clandestini del dissenso russo. Gli omissis di Mani pulite, un pamphlet di 192 pagine, raccontava già tutto. Gli anonimi e i Mister X che sono venuti dopo avevano alle spalle quel superdossier».

Avevo la certezza che non sarebbe finita lì. Ebbi l’irrazionale sensazione che qualcuno mi stesse cercando. Non mi trovò la Spectre, ma Stefano Zurlo del «Giornale». Mi telefonò e mi chiese esplicitamente se Mister X fossi io. Negai. Per giorni. A un mio generalizzato timore si accompagnava la consapevolezza che la storia dell’inglese che scippa i libri dei giovani cronisti era incredibile, nel senso di poco credibile.

Cedetti, ovviamente. La verità per la verità interessava relativamente, lo sapevo bene: la scoperta di un ingenuo Mister X probabilmente avrebbe potuto smentire chi prefigurava dei potenti burattinai di centrodestra dietro la diffusione dei dossier anonimi. Decisi di correre il rischio. Al «Giornale» incontrai Maurizio Belpietro per la quinta volta in una quinta veste diversa: prima ero stato un imberbe che cercava lavoro, poi l’autore di un libro intervista con Pillitteri, poi l’autore di un libro inesistente su casi di malagiustizia, poi un giocatore di basket avvolto da un alone non propriamente di mistero, ora un Mister X di ventotto anni che viveva al quartiere Giambellino. Gli chiesi come avessero fatto ad arrivare a me e mi rispose che mi aveva riconosciuto dalla foto di bambino stampata dietro il dossier.

«Il Giornale», il 24 luglio, aprì la prima pagina con uno spaventoso titolone: Ecco l’autore del dossier Di Pietro. Sottotitolo: Filippo Facci, un giovane cronista dell’«Avanti!», scrisse due anni fa un rapporto in cui anticipava le accuse all’eroe di Mani pulite. Si insisteva ancora col «samizdat clandestino del dissenso russo». Stavo per finire in un mare di guai. La Procura di Brescia mi convocò e mi interrogò per sei ore: il samizdat russo finì agli atti. Anche il libro intervista con Pillitteri era già finito agli atti. Vi finì anche la faccenda del libro sui casi di malagiustizia fermato dalla Larus. Mi chiesero del presunto editore inglese o irlandese e risposi che mi si era presentato come «Olinco» o forse «Holinko», non avevo mai visto il suo nome per iscritto. Gli inquirenti, com’era prevedibile, mi chiesero se avessi mai ricevuto altri dossier anonimi e gli consegnai quelli che avevo. Vollero sapere se li avessi utilizzati per scrivere il mio libro e li invitai a verificare che in qualche caso li avevo addirittura smentiti. Il giorno dopo, sul «Giornale»: Caso Di Pietro, cronista sotto torchio. Sottotitolo: Sei ore e mezzo senza neanche una pausa caffè. Pochi giorni dopo trovai la casa perquisita e devastata da chi cercava chissà che cosa. Non mancava nulla, a parte qualche documento poco significante. Sporsi denuncia alla polizia e fui interrogato di nuovo a Brescia.

Settembre coincise con propositi di rinnovata normalità: scrivevo sempre per «L’Opinione», mi concentravo sul lato oscuro di Antonio Di Pietro e setacciavo nuovi casi di malagiustizia. Ogni tanto, almeno una volta alla settimana, sentivo Craxi al telefono. Mi chiamava lui. Gli piaceva che io venissi praticamente dal nulla, per quanto poteva saperne.

Il 12 settembre 1995 sulla «Repubblica» uscì un articolone titolato Il Mistero Holinko. Sottotitolo: Salamone indaga su un libro contro Mani pulite. Un estratto: Chi è il signor Anthony Holinko? E chi si nasconde dietro la Marshall Ltd, casa editrice fantasma con sede forse a Dublino? La Digos bresciana sta indagando sul misterioso emissario dell’ancor più misteriosa Marshall, la casa editrice che nel ’93 pubblicò il libro Gli omissis di Mani pulite, un pamphlet che in Italia circolò semiclandestino, spesso in fotocopie, e che anticipava alcuni dei temi recenti delle accuse contro Di Pietro. Il pm Salamone sta cercando di capire se esistono dei legami tra la casa editrice irlandese e un’altra entità oscura apparsa sullo scenario recente di Mani pulite, l’agenzia investigativa americana, ma con ufficio di corrispondenza a Parigi, che avrebbe svolto, per conto di chissà chi, lunghe indagini sul passato dello scopritore di Tangentopoli.

Brescia. Dublino. L’America. Parigi. Il Giambellino. Un mattino mi contattò l’ex mezzobusto del Tg2 Alda D’Eusanio, mai conosciuta prima. Disse che aveva letto le mie disavventure e mi elencò dei colleghi che le avevano parlato bene di me, tutti nomi però a me sconosciuti. La incontrai a Roma e mi spiegò che per il programma «L’Italia in diretta», su Raidue, avrei potuto fare dei servizi su casi di malagiustizia purché non trattassero di politici. Accettai e iniziai la trafila per il contratto. Pensai che potessero c’entrare Pillitteri o Craxi.

Il 14 settembre ero ancora a Monza a giocare a pallacanestro. Trillò il cellulare che mi ero finalmente procurato: era Craxi. Cercai di capire se c’entrasse con la faccenda di Raidue: «La conduttrice mi ha parlato di come si potrebbe trattare il tema del garantismo», gli dissi, omettendo nomi e cognomi come era d’uso. Ma non riuscii a capire.

La conclusione della telefonata, testuale, fu la seguente:

Craxi: A te ti controlleranno il telefono, devo supporre…

Facci: Sì, forse, ma non è un problema…

Craxi (scherzoso): Nessunissimo problema, neanch’io nessunissimo problema…

In realtà c’era problema. Aspettando la Rai, mi ributtai sull’«Opinione » e su Di Pietro, tema che tirava molto. Furoreggiava l’inchiesta su Affittopoli e io mi ero fissato di trovare i dati sull’appartamento a equo canone che il Fondo pensioni Cariplo aveva concesso all’ex magistrato alla fine degli anni Ottanta. Ne avevo già scritto nel mio libro fantasma e nel mio libro intervista a Pillitteri, con tanto di indirizzo, ma la notizia non era mai deflagrata. Mi procurai lo schedario del Fondo pensioni Cariplo e un funzionario mi diede tutte le conferme del caso. Mi capitò di parlarne al telefono col mio amico Luca Josi. Sinché un mattino, per coincidenze varie, capii che «il Giornale» avrebbe probabilmente sparato la notizia l’indomani e mi prese il panico. Allertai il direttore dell’«Opinione», Arturo Diaconale, e scrissi l’articolo in un battibaleno. Nel tentativo di anticipare «il Giornale» telefonai a tutte le agenzie di stampa perché preannunciassero quel che «L’Opinione» avrebbe pubblicato, ma servì a poco. «Il Giornale» l’indomani sparò la notizia in prima pagina e quasi nessuno si accorse che sull’«Opinione» ne avevo scritto anch’io. Era il 22 settembre.

Il pandemonio fu il 29 settembre. Il pubblico ministero Paolo Ielo, al Tribunale di Milano, denunciò «campagne giornalistiche coordinate da Hammamet» e citò espressamente gli articoli che «il Giornale» aveva dedicato all’equo canone di Di Pietro: disse che la diffusione della notizia era stata pilotata da Craxi a Vittorio Feltri, e la riprova, aggiunse, ne era un’intercettazione telefonica tra Craxi e Luca Josi, il mio amico. Feltri venne additato come un robot craxiano e i telegiornali di mezzogiorno si scatenarono. Io ci misi poco a capire com’era andata davvero: io avevo parlato a Josi dell’articolo che stavo preparando per «L’Opinione» e lui probabilmente ne aveva fatto cenno a Craxi, ma le varie telefonate erano state intercettate e i magistrati avevano capito che si parlasse di un articolo per «il Giornale» anziché per «L’Opinione». Passai una mezz’ora disperata: che fare? Esporsi di nuovo? Temevo per il mio contratto con la Rai.

Mi esposi, chiaro. Telefonai al «Giornale» e feci pure fatica a farmi ascoltare. Il giorno dopo, morale, ecco un’altra intervista dove spiegavo tutta la dinamica. Vittorio Feltri titolò il suo editoriale Esigiamo pubbliche scuse e però scrisse così: «Filippo Facci, e non un mio redattore, ha attinto notizie da fonte socialista riguardo a Di Pietro … “L’Opinione” ha pubblicato la notizia in questione proprio su segnalazione di Luca Josi. Facci, che è persona onesta, ammette tutto ciò in un’intervista che riportiamo». Ma come? Era il contrario della verità: io nell’intervista non dicevo niente del genere, non avevo attinto a nessuna fonte socialista, avevo solo parlato a Josi di un articolo che stavo preparando. Ma niente da fare, Feltri ripeté le stesse cose al «Messaggero» e alla «Repubblica». In un’intervista al «Corriere della Sera» giunse a dire: «Avevo ragione. Abbiamo rintracciato Filippo Facci il quale ci ha confermato quel che sospettavamo». Cioè: adesso erano stati loro ad aver capito, e ad aver rintracciato me, ricettore di notizie provenienti da Hammamet.

Il robot craxiano ero diventato io. Telefonai al «Giornale» e l’indomani fu abbozzata una rettifica dallo stesso Feltri, ma era tardi: un altro delirante articolo di un cronista giudiziario, sempre e incredibilmente sul «Giornale» dello stesso giorno, mi citava tra gli «irriducibili collaboratori di Craxi» e cercava di dimostrare chissà che cosa con un collage di intercettazioni varie. Intanto «la Repubblica» titolava Craxi, il burattinaio e il «Corriere della Sera» È Craxi il segretario di Forza Italia. Tutti i giornali pubblicarono centinaia di intercettazioni tra Craxi e il resto del mondo. Altri telefonisti craxiani erano Veronica Lario, moglie di Silvio Berlusconi, e giornalisti come Enrico Mentana, Emilio Fede e Bruno Vespa. Un altro telefonista, Alessandro Caprettini, direttore dell’«Italia settimanale», fu licenziato. Il mio ex compagno di scrivania all’«Avanti!» Luca Mantovani, portavoce del parlamentare di Forza Italia Vittorio Dotti, fu licenziato a sua volta perché aveva spedito a Craxi la copia di un’interrogazione parlamentare. Mancavo io.

Tra i telefonisti c’era anche Alda D’Eusanio, l’ex mezzobusto che mi aveva proposto il lavoro alla Rai. I giornali pubblicarono un’intercettazione dove lei diceva a Craxi «Sarò la tua voce» e l’associarono a un’altra intercettazione, questa:

Craxi: A te ti controlleranno il telefono, devo supporre…

Facci: Sì, forse, ma non è un problema…

Craxi (scherzoso): Nessunissimo problema, neanch’io nessunissimo problema…

C’era problema. «L’Unità» del 5 ottobre deprecava il mio «contratto milionario» (66 milioni di lire lordi per un anno) e tre interpellanze parlamentari fecero il resto. Il contratto venne stracciato con il consenso del presidente della Rai Letizia Moratti. In sintesi: avevo dato una notizia vera, l’equo canone goduto da Di Pietro, e avevo perso il lavoro.

Nel giorno in cui «l’Unità» sanciva la fine di ogni mia velleità contrattuale, oltretutto, «Panorama» mi ritirava in ballo per il libro fantasma: un lungo e complicato articolo citava un dossier anonimo che avevo consegnato alla Procura di Brescia, uno dei tanti, e lo definiva «in stile Fbi». Si ritirava in ballo il samizdat russo o irlandese scritto al Giambellino. Il quotidiano «L’Indipendente» titolò Di Pietro spiato dai servizi segreti, citandomi.

Avevo ventott’anni, volevo fare il giornalista.

Nel periodo successivo divenni una specie di pendolare tra Milano e Brescia, nella duplice veste di cronista e di testimone. Di Pietro ormai era nel mio destino. Un’altra mia inchiesta sull’«Opinione», dopo una testimonianza che rilasciai sempre a Brescia, fece aprire un filone d’indagine contro l’ex magistrato per alcune sue presunte concussioni al ministero della Giustizia. Senza farla troppo lunga: mi sarebbe capitato di far iscrivere Di Pietro nel registro degli indagati altre due volte.

Di Pietro mi seppellì di querele e mi denunciò anche per calunnia. In una memoria difensiva chiese di appurare i miei rapporti con Craxi e di inoltrare rogatorie internazionali in Irlanda. Quando si discusse il rinvio a giudizio per calunnia, pochi mesi dopo, l’udienza preliminare durò sei ore e io e Di Pietro sfiorammo lo scontro fisico. L’ex magistrato ce l’aveva in particolare col mio libro fantasma: «È da quel dossier» disse «che sono cominciati tutti i miei guai». Ma quel dossier, che diversamente da altri non era un dossier ma solo un disperato e tentato libro, diceva tutte cose vere. Cose che reggono, ancor oggi, la prova del tempo. Fui prosciolto.

L’aria cambiò lentamente, ma cambiò.

Le storie di malagiustizia che riuscivo a trovare, grazie al rinnovato garantismo berlusconiano e al mio buon rapporto con Maurizio Belpietro, ottennero spazio sul «Giornale». Presi a collaborare anche con «Il Foglio» di Giuliano Ferrara. Ogni tanto, per esempio su «Panorama», uscivano articoli imbarazzanti che mi esaltavano come «il cronista che sapeva troppo ». Un quotidiano di Trento, non trovandomi, e in mancanza d’altro, intervistò mio padre. Dopo vari tentativi nel 1996 riuscii a trovare un editore anche per il libro sui casi di malagiustizia, intitolato Presunti colpevoli: lo pubblicò Mondadori. Altri giornali si soffermarono sul mio caso e a dirla giusta fu «Il Foglio»: «Dopo tre anni di peregrinazioni, Filippo Facci ha trovato l’editore, ma più probabilmente le condizioni politiche». Era la verità. Le stesse condizioni politiche, un anno dopo, mi permisero di pubblicare una prima biografia su Antonio Di Pietro sempre per Mondadori. Temendo chissà che cosa, Di Pietro disse alla «Repubblica»: «So cosa vogliono fare, … chi lo fa. E ho preso le mie contromisure. Anzi vorrei dare un consiglio: chi sta realizzando la diffusione di un pamphlet che mi riguarda, ci pensi due volte».

Il libro uscì lo stesso. In autunno, davanti al palazzo di giustizia milanese, per la stupida legge dei corsi e ricorsi, ci fu una manifestazione del centrodestra in cui il libro fu addirittura agitato da qualche manifestante, o questo almeno lessi.

I primi di giugno 1999 ero di nuovo a Monza a giocare a pallacanestro quando un mio compagno di squadra mi disse che alla sua fidanzata, studentessa alla Cattolica, avevano chiesto di me durante un esame. Impossibile, dissi. Era vero. L’esame era Storia del giornalismo italiano e nel tomo intitolato appunto Storia del giornalismo italiano dalle origini ai giorni nostri, a pagina 366, c’era un capitoletto titolato «Le fonti e le disavventure delle notizie». Si parlava di «tre casi limite, espressione di tre diversi momenti della storia italiana: portano il nome di Zicari, Pecorelli e Facci».

Di Giorgio Zicari ricordavo che era talmente ben informato che l’accusarono di essere colluso coi servizi segreti, di Mino Pecorelli che ebbe la fama di ricattatore prima di essere preso a revolverate nel 1979. Il terzo ero io.

"Curiosa e ambigua la vicenda di Filippo Facci, un giovane di 26 anni nel 1993, che rimane disoccupato quando l’«Avanti!» chiude il 31 dicembre 1992. Il quotidiano del Partito socialista, fondato il 25 dicembre 1896 da Leonida Bissolati, viene travolto dallo scandalo di Tangentopoli che distrugge la carriera politica di Bettino Craxi, costretto a fuggire in esilio nella sua villa di Hammamet, Tunisia. Facci è autore di un libro intervista al cognato di Craxi, Paolo Pillitteri, ex sindaco di Milano. S’intitola Io li conoscevo bene. Nel 1993, colleziona particolari e notizie su Antonio Di Pietro, ne escono centonovantadue pagine che documentano le amicizie pericolose del pubblico ministero più famoso d’Italia e simbolo del rinnovamento morale. Il dattiloscritto viene pagato 4 milioni da un oscuro personaggio, sedicente editore di una piccola casa editrice irlandese. Alcuni mesi dopo, pagine del libro iniziano a comparire sui quotidiani, ma il volume ancora non è stampato. Circolerà in seguito clandestinamente. I contenuti entreranno nell’inchiesta giudiziaria su Di Pietro che si concluderà a Brescia nel marzo 1996 con il proscioglimento dell’ex magistrato."

In autunno ricevetti qualche invito residuo a presentare la biografia su Di Pietro, e uno mi colpì in particolare: era del Rotary Club Milano Giardini, accanto al palazzo della stampa dove c’era la redazione dell’«Avanti!». Il giornalista che mi aveva invitato era lo stesso che anni prima aveva impaginato quel Di Pietro, facci sognare che troneggiava sulla copertina di «tv Sorrisi e Canzoni». Fu lui a dirmelo. Quella sera, per farmi voler bene, dissi subito qualcosa che ripeto ancor oggi: «Negli anni di Mani pulite, la percentuale di italiani favorevoli ad Antonio Di Pietro ha oscillato tra il 90 e il 95 per cento. Se mi applaudite, ora, presumo che sia perché al tempo rientravate in quel residuo 5-10 per cento».

Nel maggio 2000, vagando per Milano in motorino, imboccai sparato via Giulio Uberti in netto contromano: un’auto blu dovette inchiodare e rischiò seriamente di mettermi sotto, la ruota anteriore del mio scooter si fermò a non più di un centimetro dal suo paraurti. Alzai il braccio per scusarmi. Mi avvicinai e vidi che alla guida c’era il pubblico ministero Paolo Ielo, autore peraltro di un paio di querele contro di me. Sembrava impietrito. Abbassò il finestrino e mi disse: «Facci, ma se poi ti mettevo sotto, chi ci credeva che era colpa tua?».

Antonio Di Pietro, per molti anni, rifiutò ogni invito in programmi televisivi dove fosse prevista la mia presenza. Ha cambiato atteggiamento dal 2005 in poi.

Dei colleghi che uscivano dalla sala stampa quando vi entravo io, ora, almeno quattro sono discreti amici. Il collega che mi accusò d’aver pubblicato dei verbali falsi è passato a scrivere gialli metropolitani, come in fondo faceva già allora. L’altro collega che m’accusò di aver favorito la fuga di un dirigente socialista ha sposato una mia amica.

Nel tardo agosto 2009, con il ritorno di Vittorio Feltri in via Negri, ho abbandonato «il Giornale» dopo quindici anni. Il collega che fece un collage di intercettazioni telefoniche sul «Giornale» e fece strappare il mio contratto, Gianluigi Nuzzi, oggi condivide il mio stesso incarico – inviato speciale a «Libero» – sotto il mio stesso direttore, Maurizio Belpietro.

Dal 1992 a oggi è passata una mezza generazione e ci sono giovani e meno giovani che di Antonio Di Pietro sanno a malapena che faceva il magistrato. Credo di aver scritto questo libro anche per loro.

QUANDO STRISCIA LA NOTIZIA TOPPA.

Fabio e Mingo: «Cacciati via mail. Increduli per trattamento del genere». Gli ex inviati di Striscia: «Per Reti Televisive italiane il contratto è risolto dal 7 maggio 2015. Per una presunta indagine della Procura di Bari di cui non siamo al corrente», scrive Vito Fatiguso su “Il Corriere della Sera”. «Una mail per mandarci a casa dopo 19 anni. Con una comunicazione inviata per posta elettronica, Reti Televisive italiane pretende di aver risolto il nostro contratto a far data dal 7 maggio 2015 accusandoci di aver realizzato un servizio “precostituito e artefatto”. In tale comunicazione si fa riferimento anche a una presunta indagine della Procura di Bari su tale vicenda, nella quale evidentemente non ci viene mosso alcun addebito non avendo ricevuto alcuna comunicazione in proposito». È quanto scrivono in comunicato Fabio e Mingo, i due ex inviati di Striscia la Notizia sospesi in diretta tv due settimane fa. La coppia del tg satirico, dal momento del licenziamento, aveva preferito non rilasciare dichiarazioni sul caso «non prima di aver chiarito i motivi del provvedimento». «Nell’esprimere incredulità e stupore - conclude il comunicato - per il trattamento che ci è stato riservato senza consentirci alcun diritto di replica e senza rispondere alle nostre reiterate richieste di incontro, ribadiamo la correttezza dell’attività svolta in questi anni esclusivamente come attori». Tutto nasce con la puntata del 23 aprile quando il Gabibbo dagli studi di Striscia la Notizia comunica: «Cari telespettatori, abbiamo ricevuto una segnalazione che può mettere in discussione il rapporto di fiducia con la redazione pugliese di Fabio e Mingo. Da subito, sono sospesi da inviati. Quando tutto sarà chiaro, vi faremo sapere. Oh, qui siamo a Striscia, mica a MasterChef». Dopo qualche giorno (e molte versioni anche fantasiose) ecco la motivazione ufficiale di Striscia che riguarda sue servizi: uno su una maga sudamericana e l’altro su un falso avvocato. «Abbiamo acclarato che il caso di qualche tempo fa della maga sudamericana non esiste - le parole del Gabibbo - e anche quella del falso avvocato era una messa in scena. E a noi già questo basta: è una cosa grave, seguiranno azioni legali per accertare le responsabilità. Non tutti hanno la nostra sensibilità». Nel mezzo il reclutamento per un nuovo inviato dalla Puglia con tanto di provini.

Striscia, a Bari inchiesta per truffa sul caso Fabio e Mingo. E Antonio Ricci sceglie Almo. Dopo la messa in onda di un servizio su un finto avvocato, la Procura si era mossa per individuare e punire il lestofante. La polizia giudiziaria è però arrivata alla conclusione che il video era un tarocco, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. A due settimane dallo scandalo è possibile tirare le somme su cosa è successo realmente nel divorzio, tanto rumoroso, fra Striscia la notizia e Fabio e Mingo. E a leggerla ora racconta il più incredibile dei cortocircuiti: un finto telegiornale, fatto con finti giornalisti, il cui servizio dà il via a una vera inchiesta della Procura che mossa per cercare il truffatore si accorge, in realtà, che era tutto finto. Tutto comincia i primi giorni di aprile, quando negli studi Mediaset arriva una richiesta di acquisizione di informazioni. A firmarla è il sostituto procuratore Isabella Ginefra, che suo malgrado si è imbattuta in una strana storia. Dopo la messa in onda di un servizio su un finto avvocato, pare addirittura su input dell’Ordine, la Procura di Bari si era mossa per individuare e punire il lestofante. Dopo alcune indagini delegate alla polizia giudiziaria era però arrivata alla conclusione che quell’avvocato, con la faccia nascosta, in realtà era un attore. Il servizio, in sostanza, era finto. O per lo meno erano finti gli interpreti. Da qui la richiesta di chiarimenti a Striscia, dove però, a quanto pare, nulla sapevano della finzione del servizio. Immediatamente da Mediaset hanno inviato i loro avvocato a Bari per approfondire la vicenda: fanno una richiesta di accesso agli atti, che viene però loro negata stante ancora il segreto istruttorio. E a quel punto avviano un’indagine interna. Accertano, dicono, che effettivamente quello era un attore e scoprono anche altri casi simili (per esempio la cartomante). Per Ricci è troppo. Seduta stante licenzia i due in video, affidando il messaggio al Gabibbo: nessuno della redazione era stato informato (nemmeno Ficarra e Picone, che in quei giorni conducevano). Ma soprattutto nulla sapevano Fabio e Mingo, che chiedono incontri su incontri ma vengono sempre respinti. L’indagine interna dura ancora una settimana: da Mediaset mettono in campo i migliori avvocati che, dopo aver raccolto informazioni, presentano a Bari nel fascicolo del pm Ginefra due denunce. Una a nome della ditta e una a nome di Ricci, nella quale chiedono di indagare per truffa: i due inviati hanno infatti un contratto fisso più bonus legati ai singoli servizi. Ma Fabio e Mingo non ci stanno: «Siamo stupiti e increduli - dicono - Ribadiamo la correttezza dell’attività svolta in questi anni come attori. Non possono inviarci una mail per mandarci a casa dopo 19 anni. E dell’inchiesta della Procura noi nulla sappiamo». Tant’è che Striscia ormai si è messa alla caccia dei loro sostituti: uno, come ha anticipato Repubblica, dovrebbe essere Almo Bibolotti, cuoco ex concorrente di Masterchef, che nel confermare la notizia ha spoegato che dovrebbe occuparsi di «truffe alimentari».

Striscia la Notizia, l'ex Masterchef Almo Bibolotti al posto di Fabio e Mingo, scrive “Libero Quotidiano”. Fuori Fabio e Mingo, il sostituto è già pronto. L'indiscrezione dell'ultimissima ora, infatti, indica che al posto del duo barese arriverà Almo Bibolotti, il cuoco finalista alla terz'ultima edizione di Masterchef. Un nome e un volto che gli appassionati del talent culinario ben ricorderanno, e che ora starebbe per essere "paracadutato" proprio a Striscia la Notizia. L'indiscrezione viene rilanciata dal Corriere della Sera. E sembra molto più che un'indiscrezione, poiché è lo stesso Almo a spiegare: "Non tradirò la mia passione, dovrò occuparmi di servizi sul cibo per smascherare truffe alimentari". Lo chef barese, però, poi aggiunge: "Sono molto amico di Fabio e Mingo e con loro ho parlato a lungo di questa proposta, ancora in fase di valutazione per me". Dunque non è tutto già deciso. Eppure Almo, oltre alla "ribalta" offerta dal programma di Antonio Ricci, ha un ulteriore ottimo motivo per dire sì a Striscia: vendicarsi di MasterChef. Già, perché oltre ai presunti brogli relativi al vincitore di quest'anno (smascherati putacaso sempre da Striscia la Notizia), i più attenti o appassionati ricorderanno che anche lo scorso anno la finalissima del talent di Sky finì nel mirino. Fu proprio Almo a lamentare irregolarità sulla gestione dei tempi e dei concorrenti nella finale in cui arrivò secondo. E dunque, oggi, Almo si può prendere una succulente rivincita, lavorando proprio per il format che tanti grattacapi ha causato a Masterchef. E - forse non a caso - afferma: "Apprezzo Striscia, davvero la voce della verità. Quella verità che spesso manca per fare dell'Italia una grande nazione". Una scelta, quella di Striscia, che sembra una vera e propria "dichiarazione di guerra" a Sky...

Striscia la notizia, Fabio e Mingo indagati a Bari con il finto avvocato: simulazione di reato. I due inviati baresi di Striscia la notizia sono da giorni al centro di uno scandalo, dopo essere stati licenziati e denunciati da Mediaset per truffa. Nei guai anche chi ha lavorato al servizio, continua “La Repubblica” Indagati gli ex inviati baresi di Striscia la notizia, Fabio e Mingo, con l'ipotesi di reato di simulazione di reato. Il fascicolo d'inchiesta è quello relativo al servizio sul presunto falso avvocato, interpretato invece da un attore, e che è costato ai due il licenziamento dal tg satirico di Mediaset. Nel fascicolo d'inchiesta coordinato dal sostituto procuratore Isabella Ginefra sono indagati per lo stesso reato anche il finto legale e le altre due persone che hanno partecipato alla realizzazione del servizio andato in onda nel 2013. Le indagini sono affidate al nucleo di polizia giudiziaria dei carabinieri di Bari e al momento si concentrano su quell'unico episodio. Nell'ambito degli accertamenti sulla vicenda, all'inizio di aprile la Procura ha inviato agli studi Mediaset una richiesta di acquisizione di informazioni. L'azienda e l'autore del programma, Antonio Ricci, hanno quindi depositato due denunce per truffa presso gli uffici giudiziari di Bari e messo a disposizione della magistratura il video integrale, quello cioè nel quale il viso dell'attore non era oscurato, rendendolo di fatto riconoscibile e dunque identificabile da parte degli inquirenti. Fabio e Mingo, licenziati in diretta dalla voce del Gabibbo, secondo la produzione avrebbero realizzato anche un altro falso filmato, anch'esso andato in onda nel 2013, che riguarderebbe una presunta cartomante, smascherata dai due. "La nostra - aveva fatto sapere nei giorni scorsi Ricci con una nota - è una collaborazione attiva alle indagini". I due inviati si sono dichiarati "sconcertati. dagli atteggiamenti ostili che stiamo riscontrando attraverso la stampa. Per ben 19 anni - hanno reso noto - abbiamo collaborato fedelmente dando il massimo della nostra professionalità nel rispetto di ogni indicazione ricevuta, anche se non sempre condivisa. Quando le autorità competenti riterranno utile ascoltarci, risponderemo con lealtà e serenità. Siamo i primi a voler conoscere le fila di questa assurda vicenda nella quale ci si vuole coinvolgere".

Simulazione di reato, indagati Fabio e Mingo. Gli ex inviati del tg satirico Striscia la notizia nel mirino dell’inchiesta. Indagato anche l’attore che ha partecipato al servizio poi risultato fasullo, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere della Sera”.  Gli ex inviati del tg satirico Striscia la notizia, Fabio e Mingo, sono stati iscritti nel registro degli indagati dalla pm Isabella Ginefra per simulazione di reato. Nel fascicolo compaiono i nomi di altre persone, tra cui l’attore che ha partecipato alla presunta messa in scena e tutti coloro che hanno realizzato il servizio risalente al 2013. Non sono invece coinvolti nell’indagine gli autori del programma, gli accertamenti però non sono terminati. I due inviati baresi sono stati licenziati dal programma nei giorni scorsi. Le indagini sono state affidate al nucleo di polizia giudiziaria dei carabinieri della Procura di Bari. Nel fascicolo sono confluite anche due denunce di Antonio Ricci e Mediaset che, sentendosi parti lese, chiedono agli inquirenti di indagare per truffa. Fabio e Mingo si sono affidati all’avvocato penalista Francesco Maria Colonna, i due si sono messi a disposizione dell’autorità giudiziaria e potrebbero essere interrogati nei prossimi giorni. Tutto nasce con la puntata del 23 aprile quando il Gabibbo dagli studi di Striscia la Notizia comunica: «Cari telespettatori, abbiamo ricevuto una segnalazione che può mettere in discussione il rapporto di fiducia con la redazione pugliese di Fabio e Mingo. Da subito, sono sospesi da inviati. Quando tutto sarà chiaro, vi faremo sapere. Oh, qui siamo a Striscia, mica a MasterChef». Dopo qualche giorno (e molte versioni anche fantasiose) ecco la motivazione ufficiale di Striscia che riguarda sue servizi: uno su una maga sudamericana e l’altro su un falso avvocato. «Abbiamo acclarato che il caso di qualche tempo fa della maga sudamericana non esiste - le parole del Gabibbo - e anche quella del falso avvocato era una messa in scena. E a noi già questo basta: è una cosa grave, seguiranno azioni legali per accertare le responsabilità. Non tutti hanno la nostra sensibilità». Nel mezzo il reclutamento per un nuovo inviato dalla Puglia con tanto di provini.

Il pm "striscia" Fabio e Mingo. La coppia ora è sotto inchiesta. Avrebbero costruito ad arte il servizio su un falso avvocato. Saranno interrogati presto. Ricci tace ma trapela delusione, scrive Paolo Giordano su “Il Giornale”. Insomma Striscia la Notizia non guarda in faccia a nessuno. Specialmente ai propri inviati. Andrà come andrà, però da ieri Fabio e Mingo (ossia Fabio De Nunzio e Domenico De Pasquale) sono stati iscritti nel registro degli indagati per simulazione di reato. Avrebbero, e sia chiaro il condizionale è sempre obbligatorio fino a sentenza passata in giudicato, inventato di sana pianta uno di quei servizi che dal 1997 erano parte integrante del programma. Ora se ne sta occupando il pm Isabella Ginefra della Procura di Bari che a inizio aprile ha chiesto ulteriori informazioni a Mediaset e vedremo come evolverà il giudizio. Già nel 2013, dopo la messa in onda del servizio, l'autorità giudiziaria aveva chiesto le immagini senza oscuramento dei volti e senza modifiche audio. Ma la redazione pugliese, «nella persona di Corinne Martino» come recita un comunicato diffuso in serata, «aveva sostenuto di aver subito un furto e quindi di essere impossibilitata a fornirlo». Intanto però sia Striscia la Notizia che Mediaset alcuni giorni fa hanno denunciato per truffa la coppia di «inviati speciali», che nei prossimi giorni potrebbe essere ascoltata dagli inquirenti. Nel frattempo, come ha annunciato pubblicamente il Gabibbo (intervento molto significativo), i due sono stati sospesi dal programma: «Oh qui siamo a Striscia, mica a Masterchef », ha ironizzato il 23 aprile 2015 il pupazzone con l'accento genovese. Quella sera è iniziato (anche) pubblicamente il calvario della coppia di inviati che ha rastrellato per quasi vent'anni il sud Italia. Centinaia di servizi. E una fama invidiabile. Non per nulla sono stati gli «inviati speciali» più longevi del programma di Antonio Ricci. Per tutta l'Italia ( Striscia la Notizia è senza dubbio uno dei programmi più seguiti), loro due hanno rappresentato il volto umano delle inchieste in tv, implacabili ma anche ironiche, e si sono costruiti un'immagine che giocoforza questa inchiesta contribuirà a incrinare. Uno spilungone loquace e uno rotondetto e muto: «Awè amici di Striscia, da Mingo, e dal buon Fabio, a voi studio!». In sostanza, Fabio e Mingo si sarebbero inventati un servizio: secondo una denuncia anonima, un falso avvocato si faceva dare acconti dai clienti e poi spariva senza dare più notizie. La segnalazione sottolineava anche che il legale in realtà non era neppure laureato né tantomeno iscritto all'Ordine degli Avvocati. Un caso perfetto. E subito la macchina di Striscia è partita con la velocità che tutti le riconoscono. Un'attrice si presenta all'avvocato chiedendo assistenza per fare causa alla propria assicurazione. Lui assicura assistenza prevedendo un onorario complessivo di 500 euro e facendosene anticipare 200. Dopodiché sparisce. Fabio e Mingo lo rintracciano nel bar vicino all'ufficio e gli consegnano il loro famoso «provolone». Lui si arrabbia, scoppia il litigio ma nessuno dei clienti del bar interviene per difendere Mingo (particolare sospetto). Il sedicente avvocato scappa, sale sulla propria auto e, partendo, mostra il dito medio. Servizio impeccabile. Peccato che, secondo le accuse, fosse costruito ad arte, proprio una precedente denuncia riguardante una maga sudamericana. «Siamo delusi e arrabbiati - si sente ripetere negli ambienti Mediaset -: delusi perché va in fumo un rapporto di fiducia durato quasi vent'anni e arrabbiati perché questo è un episodio che rischia di screditare il programma». E difatti la linea è molto dura. Da quando è iniziata pubblicamente la querelle , tra Striscia e Fabio e Mingo non ci sono più stati contatti se non attraverso avvocati, procure e comunicati stampa. Per farla breve, Fabio e Mingo sono i Robespierre che ora rischiano di finire sulla simbolica ghigliottina. E, se perderanno la causa, aiuteranno la causa di Striscia perché è davvero raro che un programma prenda così duramente le distanze da un collaboratore sotto inchiesta.

Nella puntata, andata in onda stasera  e ...dopo aver letto il mio articolo (bwuahahahah...) finalmente viene svelato il mistero della sospensione dei due inviati: due servizi falsi, quello del finto avvocato e della maga sudamericana...il seguito alla prossima puntata per chi avrà voglia e tempo di seguire il "velino" Ricci. Io no...no... io no! Scrive Anna Maria. Questa volta il provolone l'hanno preso proprio loro, da Ricci. Non si è ancora risolta la vicenda dei due inviati di striscia Fabio e Mingo, "licenziati senza spiegazione," attraverso una puntata di striscia e mi sorprende questa loro affermazione “Francamente non ne sappiamo nulla, sono caduto dalle nuvole. Sappiamo quello che sapete anche voi e non riusciamo a metterci in contatto con Antonio Ricci né con la produzione. Non sappiamo cosa pensare, se sia una trovata di Ricci. Non siamo preoccupati, se avessimo fatto qualcosa lo saremmo, invece siamo sereni”. Se sono coerenti e per solidarietà quelli delle Iene dovrebbero mandare qualcuno dei loro inviati da Ricci...Sempre se Ricci non si chiude  dentro la pancia del gabibbo per non rispondere. Visto che striscia ha reso la cosa pubblica attraverso il gabibbo deve spiegare le motivazioni di questo licenziamento. E' questa la trasparenza di Ricci? Oppure era scarso di ascolti e ha voluto creare un caso? Non possono gli inviati andare a chiedere spiegazioni a politici, finti medici, truffatori e poi loro stessi non dare spiegazioni sul perchè di questo licenziamento in tronco. Ed ora sono alla ricerca di altri inviati. Per mesi  l 'hanno menata sul caso cuochi a masterchef per poi comportarsi ben peggio per cose interne. Silenzio assoluto e Ricci si nega di dare spiegazioni ai due inviati. Mah. Questo video è del 2007  Stefano Salvi, allora inviato di striscia, spiega i motivi della  rottura con Ricci  e le interviste più eclatanti che precedettero i contrasti con Striscia. Che non sia successa la stessa cosa con Fabio e Mingo? Ossia aver scoperto qualcosa di scomodo per il "velino" Ricci ,che proprio qualche sera fa ci ha propinato la Belen dopo che aveva frignato pubblicamente che la tv (mediaset) l'avesse messa da parte per i vari flop recenti? Io consiglio di  boicottare questo programma e tutte le aziende che lo sponsorizzano! Il "povero" Salvi fu cacciato quando scoprì alcune magagne che riguardavano gente di Forza Italia  e non solo...Nel caso di Salvi : quando dici delle verità  ti cacciano senza spiegazioni perchè diventi scomodo, tanto ci sono sempre i pecoroni che abboccano o non si pongono domande serie o peggio ancora fanno come gli struzzi. "Striscia la notizia " genera svariati milioni di euro di pubblicità e per questo Ricci a Mediaset è tollerato, ma evidentemente certi tasti non vanno toccati. Come mai Ricci non ha cacciato  Ezio Greggio quando si sono scoperti i suoi giochini monegaschi ? Ehhhh ma c'è di peggio , direte voi, ecccerto....Come al solito, tutto fumo e niente arrosto, tanto si insabbia tutto nel giro di pochi giorni e...avanti un altro!

Fabio e Mingo, Codacons parte civile. Striscia controlla 10 servizi sospetti. Dopo la notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati dei due ex inviati scendono in campo i consumatori: noi presi in giro da chi svela i falsi, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere della Sera”. Il Codacons, in rappresentanza dei telespettatori italiani, ha annunciato che si costituirà parte civile nel procedimento penale nei confronti del presunto falso servizio realizzato dagli ex inviati di Striscia la Notizia, Fabio e Mingo riguardante un avvocato fasullo. Secondo l’associazione di consumatori gli utenti sono stati presi in giro dai servizi dei due ex inviati di Striscia che avrebbero dovuto svelare i falsi ed erano falsi a loro volta. «Striscia la notizia - si legge in una nota del Codacons - è da sempre una trasmissione dedita alla difesa dei cittadini e alla denuncia di truffe. Per tale motivo, se dalle indagini della procura di Bari dovessero emergere illeciti, si determinerebbe, oltre al danno per il programma, una grave lesione della buona fede dei telespettatori». «Esprimiamo solidarietà e vicinanza ad Antonio Ricci e a tutto il team della trasmissione - dice Carlo Rienzi, presidente dell’associazione dei consumatori - e ci costituiamo parte offesa nel procedimento aperto dalla magistratura, affinché i diritti degli utenti siano garantiti anche sul fronte televisivo e dell’informazione». I due attori e comici baresi sono indagati assieme ad altre tre persone per simulazione di reato: l’attore che ha impersonato il falso avvocato e i due che hanno partecipato alla realizzazione del servizio. La Procura indaga solamente per il servizio sul falso avvocato, ma secondo quanto trapela dalla redazione di «Striscia la notizia» i servizi sospetti sarebbero una decina. Su questi sono in corso le verifiche interne.

QUANDO QUINTA COLONNA TOPPA.

Per la serie quando il bue chiama cornuto l'asino....

12 maggio 2015. Striscia la notizia smaschera il finto rom di Quinta Colonna, scrive la Redazione di Tvzap. Il tg satirico intervista un uomo apparso nei programmi di Rete Quattro che dichiara di essere stato pagato per impersonare un rom truffatore e un islamico estremista. Dopo aver denunciato i falsi servizi in casa imputati a Fabio e Mingo, Striscia la notizia scandaglia anche gli altri programmi tv. Moreno Morello nel servizio titolato “Rom polivalente” intervista a viso scoperto il presunto protagonista di una puntata di Quinta Colonna e di una di Dalla vostra parte programma preserale, entrambi condotti da Paolo Del Debbio. L’uomo nei programmi di Del Debbio era apparso il 27 aprile come un rom truffatore e il 3 aprile come un islamico estremista: due servizi del giornalista Fulvio Benelli che avevano suscitato molta indignazione. L’episodio segnalato da Striscia ricorda l’identica querelle montata attorno al falso servizio di Mattino Cinque, altro programma di Mediaset, sulle ragazzine rom che guadagnavano rubando, che poi Servizio Pubblico ha denunciato essere stato creato ad arte con le giovani pagate per fare certe dichiarazioni. Secondo quanto scoperto da Striscia l’uomo in questione sarebbe stato semplicemente pagato (300 euro per il servizio in cui dichiarava di truffare vendendo macchine rubate e appena 20 per quello in cui impersonava un islamico estremista) per fare quelle dichiarazioni, un attore quindi. E su Twitter non mancano i commenti indignati.

Striscia la notizia scova il “finto rom” della trasmissione Quinta Colonna, scrive Stefania Carboni su “Giornalettismo”. Il ragazzo, sotto indicazione dell'inviato, avrebbe finto di rubare la macchina in un servizio video. «Era dell'operatore tv - racconta - mi hanno pagato 300 euro». E non è la prima volta che succede. Striscia la Notizia mette sotto accusa un servizio di Quinta Colonna del 27 aprile dove intervistava un rom orgoglioso di truffare la gente. Peccato che la storia – secondo quanto riporta Mediaset – sia del tutto falsa. Striscia è andata a scovare infatti il rom in questione e ha scoperto diverse cose. Nel servizio il ragazzo, che spiega orgoglioso al giornalista di Quinta Colonna come sia in grado di truffare la gente, viene inquadrato in un furto d’auto scatenando la reazione indignata del pubblico del talk di Del Debbio. La jeep è entrata nelle sue mani? «No – spiega il giovane rom a Striscia – in realtà era del cameraman che è venuto a fare il servizio. Ha prestato l’auto». «Non sono un santo ma non voglio truffare auto. Mi hanno offerto soldi: 300 euro». Ma c’è dell’altro ancora. Lo stesso “rom” compare in un altro servizio di Fulvio Benelli, in un altro programma tv. Stavolta fuori da una moschea. Fa il musulmano e rilascia dichiarazioni shock in merito ai cristiani massacrati nei paesi esteri. «Sono d’accordo sulla strage», confessava. «Mi ha suggerito di dire queste cose. Non sono musulmano eh? Io sono un cristiano praticante. Stavolta il prezzo è stato di 20 euro miseri», spiega il ragazzo. Inutile dire che il servizio di Striscia (che attende ulteriori delucidazioni) fa discutere su Twitter.

Striscia la notizia accusa Quinta colonna per servizi falsi: 300 euro al "Rom polivalente", scrive Giulio Pasqui su “TV Blog”. Ricordate le accuse di Servizio Pubblico nei confronti di Mattino 5? Il programma de La 7, in quell'occasione, "smascherava" uno scoop - vero o presunto non è dato sapere - realizzato dalla trasmissione del mattino di Canale 5: la giornalista Francesca Bastone aveva intervistato due ragazze rom che si vantavano di guadagnare fino a 1000 euro al giorno grazie a furti, ma le due avevano poi smentito rivelando di aver ricevuto 20 euro per fare quell'intervista. Tutti hanno prontamente smentito. Ma, ora, VideoNews torna sotto attacco per una vicenda molto simile. Striscia la notizia, infatti, durante la puntata di martedì 12 maggio ha trasmesso un servizio realizzato da Moreno Morello. Argomento: alcune interviste realizzate dal giornalista Fulvio Benelli per le trasmissioni Quinta colonna e Dalla vostra parte, entrambe condotte da Paolo Del Debbio e trasmesse su Rete 4. I servizi "incriminati" sarebbero due. Il primo (Truffatore Rom: così rubo le macchine agli italiani), trasmesso il 27 aprile dalla trasmissione serale, aveva come protagonista un signore rom che raccontava di vendere macchine rubate e truffare gli italiani. Il secondo, trasmesso il 3 aprile dalla trasmissione dell'access prime time, aveva come protagonista un islamico molto - troppo - estremista e violento ("Sono d'accordo se fanno lo sterminio, non me ne frega un cazzo"). Moreno Morello ha intervistato sia il rom che il musulmano e ha portato a segno un'eclatante scoperta: sono - sarebbero - la stessa persona. Il "Rom polivalente", come le due ragazzine, dice di essere stato pagato per entrambi i servizi e ammette di aver ricevuto alcuni "suggerimenti" dal giornalista su cosa dire per rendere più accattivante il servizio. Sempre secondo quanto riferito a Morello, il rom avrebbe ricevuto 300 euro per il primo servizio (ha anche rivelato di aver messo in scena un finto furto di un auto... con la jeep dell'operatore) e "solo" 20, "miseri", euro per il secondo. Un nuovo colpo basso, dunque, inflitto nei confronti delle trasmissioni targate VideoNews dopo le "simili" accuse di Servizio pubblico e le pesanti parole del presidente dell'Ordine dei Giornalisti nei confronti di Pomeriggio 5.

QUANDO VIDEO NEWS TOPPA.

UN ALTRO FALSO SERVIZIO TRAVOLGE VIDEONEWS: SERVIZIO PUBBLICO SMASCHERA MATTINO 5, scrive MarKos. Ci risiamo! Videonews ci casca nuovamente. Non è bastato l’incontro “casuale” tra la giornalista Alessandra Borgia (qualcuno sa dove è finita?) e il cacciatore della vicenda del piccolo Loris durante la diretta di “Pomeriggio 5“. Adesso tocca anche a “Mattino 5“. Durante la puntata dell’8 aprile è stato mostrato un servizio in cui una ragazza della comunità Rom dichiarò di rubare anche 900€ al giorno, incurante dei danni arrecati alle altre persone, giovani od anziani che siano. Il servizio è stato realizzato dalla giornalista Videonews Francesca Bastone ed ha suscitato molte polemiche, soprattutto perché ciò ha spinto Matteo Salvini a scrivere sulla propria pagina Facebook: “Bisognerebbe radere al suolo i campi rom”. “Servizio Pubblico” nella puntata in onda domani su La7 mostrerà l’intervista di Giulia Cerino proprio a quella ragazza Rom, che ha dichiarato: Siamo uscite dalla scuola a San Paolo, ci ha visto la giornalista e ci ha dato 20 euro per dire queste cose: che noi rubiamo 1000 euro al giorno, che la vecchietta deve morire. Perché l’ho fatto? Ero fumata e lei mi ha dato 20 euro. La ragazza insinua che una giornalista l’abbia pagata per dire determinate affermazioni davanti un microfono ed una telecamera, non avendo dato peso alla situazione poiché aveva fumato della marijuana. E’ bene dire che non è certo che si tratti proprio della giornalista autrice del servizio. Se tutto dovesse corrispondere al vero, avremmo a che fare con l’ennesimo scandalo per la testata giornalistica Mediaset, che, in virtù di tali fatti, risulta essere sempre meno attendibile.

Servizio Pubblico contro Pomeriggio 5: "Ha pagato la ragazzina rom per dire che ruba 1.000 euro al giorno". Replica: "Menzogne infamanti", scrive “Libero Quotidiano”. "La giornalista di Mattino 5 ci ha dato 20 euro per dire che guadagniamo 1.000 euro al giorno rubando". Michele Santoro scatena i rom per affondare Mediaset. Un siluro al fango, almeno a giudicare dalla reazione di Federico Novella, il conduttore del programma del mattino di Canale 5: "Sono menzogne gravissime e infamanti". Tutto nasce da un servizio di Mattino 5 dello scorso 8 aprile. Una ragazzina rom del campo di Castel Romano, con il viso oscurato, racconta davanti alle telecamere: "Rubando guadagno 1.000 euro al giorno. Se lavoro li faccio in un mese. Chissenefrega se rubiamo a una vecchietta, tanto lei puoi muore. Io mi prendo i soldi e sto a posto". In studio insieme a Novella e Federica Panicucci c'è il segretario della Lega Nord Matteo Salvini, che attacca: "Bisognerebbe radere al suolo i campi rom", una frase che ha scatenato le reazioni indignate di gran parte del panorama politico e mediatico italiano. Secondo Servizio Pubblico, però, quell'intervista è stata concordata e "manipolata". Il talk di La7 ha incontrato di nuovo quella ragazzina, che ora spiega: "Siamo uscite dalla scuola a San Paolo, ci ha visto la giornalista e ci ha dato 20 euro per dire queste cose: che noi rubiamo 1.000 euro al giorno, che la vecchietta deve morire. Perché l’ho fatto? Ero fumata e lei mi ha dato 20 euro". L'intervista andrà in onda questa sera, ma la polemica è già innescata. Tanto che a Cologno Monzese potrebbero già passare alle vie legali contro Santoro, accusato di aver organizzato "una trappola". Francesca Bastone, la giornalista di Mattino 5, ammette di essere rimasta perplessa di fronte alle cifre "sparate" dalla ragazzina rom", ma assicura: "Le due ragazze le ho incontrate casualmente e hanno rilasciato le dichiarazioni spontaneamente. Non c'è stata ricompensa in denaro, lo può testimoniare l'operatore che è stato tutto il tempo con me".

Mattino 5 risponde a Servizio Pubblico sull’intervista alla ragazza rom: «Menzogne infamanti», scrive Valentina Spotti su Giornalettismo. Arriva la replica di Mediaset dopo la contro-intervista pubblicata dal programma di Santoro: «A quella ragazza nessuna ricompensa in denaro, siamo orgogliosi di questa intervista». Mediaset risponde all’accusa lanciata da Servizio Pubblico sull’ormai famosa intervista alle due ragazzine rom che avevano dichiarato di «rubare mille euro al giorno». Le telecamere del programma di Santoro sono tornate a intervistare le due ragazze, le quali avrebbero “confessato” di aver ricevuto venti euro dalla giornalista di Mattino Cinque per rilasciare quelle dichiarazioni. Il video, pubblicato nel tardo pomeriggio di ieri sul sito di Servizio Pubblico, ha scatenato subito un’accesa polemica. E, questa mattina, è arrivata la replica di Federico Novella, conduttore di Mattino Cinque. Il giornalista dell’ammiraglia Mediaset ha risposto accusando Servizio Pubblico di aver detto delle «menzogne gravissime e infamanti», facendo intendere che le reti del Biscione passeranno a vie legali: Siamo orgogliosi di questa intervista perché ha scoperchiato una verità che qualcuno vuole tenere nascosta. Non dobbiamo vergognarci per aver fatto il nostro lavoro. Novella ha poi mandato in onda l’intervista di Francesca Bastone, questa volta in versione integrale, nella quale si può notare la perplessità della giornalista davanti alle dichiarazioni della ragazzina. La Bastone ha raccontato la sua versione dei fatti, dicendo anche di «farsi scivolare addosso» le «accuse infamanti» lanciate da Servizio Pubblico: Le due ragazze le ho incontrate casualmente e hanno rilasciato le dichiarazioni spontaneamente. Non c’è stata ricompensa in denaro, lo può testimoniare l’operatore che è stato tutto il tempo con me. Novella è poi tornato sull’argomento, affermando che un tale comportamento da parte della concorrenza è una «trappola» per «strumentalizzare queste ragazze». Una trappola in cui «cadono colleghi di lungo corso che non dovrebbero caderci». Anche Francesca Bastone conclude sullo stesso tono: È scandaloso usare le parole di due ragazze per tentare di screditare il lavoro di chi ogni giorno mette a rischio la propria incolumità per mostrare realmente cosa avviene.

Se Santoro usa i nomadi per attaccare Mediaset. Rom a La7: "Pagata per confessare i furti". Canale 5: "Dimostreremo che mente", scrive “Il Giornale”. «Siamo uscite dalla scuola a San Paolo, ci ha visto la giornalista e ci ha dato 20 euro per dire 'ste cose, che rubiamo 1.000 euro al giorno, che deve morire la vecchietta e io l'ho detto». A parlare, intervistata da Servizio Pubblico , è la ragazza del campo rom di Castel Romano che l'8 aprile è stata protagonista di un servizio di Mattino 5 , il contenitore mattutino di Canale 5 condotto da Federica Panicucci e Federico Novella. Un servizio che scatenò molte reazioni politiche, compresa quella di Matteo Salvini: «Bisognerebbe radere al suolo i campi rom». Apriti cielo, anche la Boldrini era intervenuta inorridita quasi facendo finta di non aver ascoltato la premessa del leader della Lega: «Prima darei un preavviso di sei mesi e poi farei sgomberare quelle aree». In quell'occasione la ragazza disse che «se lavoro li faccio in un mese, chissenefrega se rubiamo a una vecchietta, tanto lei poi muore. Io mi prendo i soldi e sto a posto». La troupe di Servizio Pubblico è andata a cercarla e l'ha filmata per un'intervista che va in onda oggi. Un brevissimo estratto è stato postato ieri sul sito ufficiale del programma. La ragazza ha il volto «pixelato» e quindi irriconoscibile. Parla ovviamente un italiano approssimativo e, quando la giornalista le chiede per quale motivo abbia accettato il denaro, risponde senza esitazioni: «Ero fumata». Ma non hai pensato alle conseguenze di che cosa dicevi? «Non ho saputo perché sono stata fumata, ho fumato erba, cosa dici di una scusa...». L'impressione è di una persona che, quasi per legittimare di fronte al proprio gruppo sociale la scomoda rivelazione, si sia inventata un pretesto qualsiasi. Mediaset non commenta ma da fonti autorevoli si è venuto a sapere che si tratta di «una menzogna» e che «lo dimostreremo e agiremo presso tutte le sedi competenti per tutelare i nostri diritti». Intanto stamane, proprio nel corso di Mattino 5 il caso sarà riaffrontato con la trasmissione di una parte dell'intervista alla ragazza rom. Tutta l'intervista in formato integrale sarà comunque disponibile sul sito del programma. Al di là di alcune incongruenze evidenti (la ragazza aveva davvero fumato droga a scuola?) vi sembra davvero possibile che si paghi per sapere qualcosa che da anni qualsiasi agente di polizia potrebbe confermare?

QUANDO LE IENE TOPPANO.

Le Iene accusate di fare servizi falsi. Il produttore Caroletti, marito di Eva Henger, parla su Facebook di servizi "studiati a tavolino e costruiti", scrive la Redazione di Today. “Le Iene” fanno servizi truccati, afferma Massimiliano Caroletti, marito di Eva Henger. L’accusa arriva dopo la messa in onda di un servizio del programma di Italia 1 che lo riguarda. La iena Filippo Roma è andato a intervistarlo per avere la sua versione dopo che alcuni collaboratori si sono lamentati di non aver ancora ricevuto i soldi per il film “Roma Nuda” al quale hanno partecipato. Tra le persone coinvolte ci sono anche Anna Falchi e la cantante Annalisa Minetti. La registrazione del servizio risale al maggio scorso ma è stato trasmesso soltanto ora per non interferire nella trattativa tra il distributore e Caroletti che avrebbe potuto risolvere la questione dei pagamenti entro settembre. Trattativa che evidentemente non è andata a buon fino e quindi “Le Iene” hanno deciso di mandare in onda il servizio. Caroletti ha affidato la propria replica a Facebook per difendersi dalle accuse. “Non sto più a spiegare che essendo il produttore esecutivo non ero io a dover pagare - spiega Caroletti - Nel servizio ci sono persone con cui non ho mai avuto a che fare. Una settimana fa in tribunale con l’intervento dell’Anica abbiamo siglato un accordo con tutta la troupe attori e fornitori per saldare i debiti (non provocati da me). Ora con questo servizio ridicolo e oltraggioso si fa ancora una volta il male non solo del film ma di tutte le persone che mi hanno sostenuto fino a ora”. E poi arriva la confessione/accusa. “ALLORA A QUESTO PUNTO PARLO IO E CI RIMETTO LA FACCIA FINO ALLA MORTE ….

1) insieme alle iene in passato abbiamo confezionato diversi servizi falsi studiati a tavolino e costruiti.

2) le iene nel mio caso a tutte le persone che mi difendevano non hanno voluto registrare l'intervista ma io l'ho fatto e le mostro a tutti.

3) Le iene nascondono nei loro servizi pubblicità occulta per pubblicizzare loro prodotti , aziende e altri cazzi loro ma anche questo lo mostrerò.

4) nel caso specifico della signora Falchi ora posso dire che dopo l'intervista fatta dalla stessa alle iene io ricevetti una richiesta di denaro dal suo legale per ritirare il servizio. La sig.ra Falchi e il suo legale sono stati denunciati per tentativo di estorsione e il procedimento è ancora aperto”.

Poco dopo l’ultimo messaggio di Caroletti: “Domani monterò il filmato integrale .. chiaramente avevamo messo anche noi le telecamere ma Filippo Roma (colui che intervista finti testimoni incappucciati sappiate che sono sempre autori della trasmissione) ha debitamente tagliato.. e soprattutto tutti ii protagonisti del film presenti all’intervista sono stati tagliati”.

LE IENE SOTTO ACCUSA PER UN SERVIZIO FALSO. I PROTAGONISTI: “SIAMO STATI PAGATI”. LUIGI PELAZZA RIBATTE: “ERANO DELINQUENTI VERI”, scrive Valentina Segatori su “Davide Maggio”. Chi di inchiesta ferisce, di inchiesta perisce. Dopo anni di scoop, servizi al limite del consentito, candid camera e interviste irriverenti, stavolta a trovarsi in una posizione scomoda sono proprio gli artefici di alcuni dei reportage più scottanti della Penisola: quelli de le Iene di Italia1. Non è certo la prima volta che i “men in black” di casa Mediaset finiscono nei guai, ma in questo caso l’accusa è pesante tanto quanto lo scoop “incriminato”: falso reportage realizzato con l’ausilio di attori. L’accusa è rivolta, nello specifico, a Luigi Pelazza per la bollente video-inchiesta sulla criminalità in Perù, trasmessa nella puntata del 29 settembre. Per chi l’avesse perso, il reportage raccontava la storia dei “Los Maltidos del la Mar Brava”, un sedicente gruppo di criminali peruviani coinvolto in narcotraffico, omicidi e sequestri di persona. Nel servizio, i malviventi spiegavano il come e il quando dei loro crimini, che avvengono sotto gli occhi della Polizia peruviana, rea di rimanere impotente osservatrice per la paura di subire ritorsioni. Con le armi in bella mostra, viso semiscoperto e un sequestrato sullo sfondo, i criminali avevano, alla fine, minacciato di morte l’inviato di Italia 1, nel caso avesse mostrato il video anche nel loro Paese. In realtà, nonostante la promessa della Iena, il servizio si è presto diffuso in Perù per opera di Sétimo Dìa, un programma di approfondimento giornalistico del canale nazionale Frecuencia Latina, che ha denunciato la storia svelandone ogni retroscena. Immediata la reazione dell’autorità peruviana che ha prontamente aperto un’inchiesta sul capo della banda, Roger Zevallos Fernàndez. Se tempestiva, però, è stata l’azione della Polizia peruviana, inaspettata invece si è rivelata la confessione del boss, conosciuto anche come “El cholo chupa”: “Non c’entro con nessun sequestro, è stato il giornalista italiano a pagarmi 500 nuevos soles peruviani (circa 130 euro) perchè inventassimo questa storia. Le armi che si vedono sono giocattolo, è stata tutta una messinscena”. “Eravamo fermi all’angolo – ha aggiunto un secondo componente della banda – ad un certo punto arriva una macchina e dal finestrino si sporgono delle persone straniere che ci propongono di fare un reportage su questa storia. L’ho fatto per necessità. Sono pentito.” Dopo aver ascoltato gli uomini della banda, per il capo della Polizia locale la conclusione è una sola: il servizio realizzato dal giornalista italiano è un falso perchè il gruppo intervistato sarebbe composto unicamente da disperati, che in cambio di soldi racconterebbero qualsiasi cosa. L’inchiesta si conclude con le pubbliche scuse all’intero Perù da parte dei malviventi (attori?) e la denuncia alle Iene per falso reportage. Una accusa che pesa non poco, però, alla iena Luigi Pelazza, famoso proprio per le sue inchieste, che indignato ribatte con una controdenuncia: “Se fosse stato tutto falso, con persone pagate da me perchè avrei mai scelto di mandarle in viso senza copertura? […] Ovunque in America Latina la Polizia viene pagata e ora fanno i paladini della giustizia, quelli che hanno scoperto la nostra truffa? Durante il servizio la banda che abbiamo intervistato ha dichiarato che nel suo quartiere la Polizia non entrava. Questo può aver dato parecchio fastidio”. […] Secondo i peruviani io sarei andato fino a casa loro, pagando degli “attori” per scoprire una cosa che tutti sanno, che lì ci sono bande di criminali e quartieri in cui non puoi mettere piede. Non vai fino in Perù per raccontare falsità. Domani manderemo in onda un servizio in cui mostreremo la verità, ovvero che i presunti “attori” sono dei criminali con precedenti penali”. Fondato o meno, il sospetto è stato gettato e stavolta per le Iene, c’è poco da ridere. 

LA VERITA’, OLTRAGGIATA, MINACCIATA E SOTTO SCORTA.

L'oltraggio alla verità.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che fossimo.

Il saluto romano di un bimbo scatena "Repubblica". Sulla vicenda avvenuta a Cantù difficile dire se è più grottesco l'episodio in sé o il resoconto che ne dà La Repubblica, scrive Paolo Granzotto su “Il Giornale”. In italiano, chiamasi grottesca la sensazione prodotta da ciò che è paradossale, sproporzionato. Squilibrato. Bene, su un episodio avvenuto in quel di Cantù - e del quale daremo subito conto - difficile dire se è più grottesco l'episodio in sé o il resoconto che ne dà La Repubblica . I fatti: la quiete e l'ordine di una scuola materna del canturino sarebbero stati turbati dalla presenza di un bimbo (quattro anni) che saluta i suoi amichetti e pare anche il bidello «col braccio proteso in avanti» e cioè, annota indignato il cronista Paolo Berizzi, «come Mussolini, come Hitler». Gesto che al bimbo (ripeto: quattro anni) avrebbe insegnato a fare il padre: un «nostalgico», come si dice. Anche scomodando Hitler e Mussolini, il saluto del «Baby Balilla» (così il Berizzi) altro non parrebbe che un inconsapevole e giocoso uzzolo infantile. Ma non a Cantù, dove diventa - e questo perché la vigilanza antifascista non dorme mai - un abominio democratico. La cui sinistra eco giunge alle orecchie dei repubblicones che ci si buttano sopra in maniera forsennata: un'intera pagina, con un richiamo in prima. Dividendo lo spazio fra la deprecazione del bambino (insisto: quattro anni) che fa il saluto romano e l'encomio per la ferma risposta della scuola materna alle provocatorie gesta del marmocchio. Stando al cronista, la prima reazione fu quella di inviare un'informativa al Provveditorato agli studi, cosa che si fa quando in normale svolgimento della attività didattica è seriamente minacciato. Ma alla fine, forse per non smentire lo spirito politicamente corretto che anima l'istituto, hanno ripiegato sullo strumento del dialogo&confronto: convocati i genitori, è stato loro fatto presente che «quel saluto è vietato dalla legge italiana». Pertanto «delle due l'una: o il bimbo (devo ripetermi: quattro anni) la smette di salutare come il Duce oppure non può più frequentare la scuola materna». In verità, reati non se ne vedono perché il saluto romano è sì vietato dalla legge del giugno 1993, ma «solo qualora compiuto con intento di rivolgere la sua attività alla esaltazione di esponenti, princìpi, fatti e metodi propri del carattere fascista». Intenzioni che sarebbe arduo attribuire ad un quattrenne e di conseguenza determinarne l'espulsione dall'asilo, naturalmente ove non cessi di salutare come a lui piace. Obiezione di nessun conto per Paolo Berizzi il quale sfodera ben altro e più solido argomento a favore dell'allontanamento: essendo l'asilo scuola pubblica, esso «si riconosce, come è ovvio, nei valori sanciti dalla Costituzione italiana il cui carattere è rigorosamente antifascista». Per cui, Carta più bella del mondo alla mano, niente asilo per il «camerata in erba» (così il Berizzi). A meno che non faccia autocritica e come un Dario Franceschini non giuri in piazza sulla Costituzione di non salutare più col «braccio destro proteso in avanti». Il sinistro andrebbe bene. E anche il destro, purché flesso. È nei dettagli che l'antifascismo vive e lotta con noi.

L’orribile “fascismo” degli antifascisti, scrive “Francesco Maria del Vigo”. “Correggere”. Un parola che già mette i brividi. Se poi la “correzione” – la rieducazione – riguarda un bambino di quattro anni le tinte diventano ancora più fosche. Partiamo dal principio. Repubblica di oggi racconta, con un certo compiacimento, una storia delirante. A Cantù un bambino di quattro anni si presenta all’asilo salutando tutti, maestre e compagni, con il braccio teso. I responsabili della scuola materna convocano i genitori del microbalilla, i quali – senza indugi – ammettono di avergli insegnato il saluto fascista: “Vogliamo dargli un’educazione rigorosa”. Non pago il padre arrotola la manica della camicia (non è dato sapere se fosse nera) e mostra una svastica tatuata sull’avambraccio. Il primo colloquio finisce in un nulla di fatto e le maestre passano al contrattacco: i genitori devono “correggere” il bambino. Correggere, come si fa con gli errori. O smette di salutare romanamente o lo sbattono fuori dall’asilo. Ora, è evidente che imporre il saluto romano a un bambino di quattro anni è demenziale. Ma anche creare un caso e “rieducare” è un comportamento da colonia penale, più che da scuola per l’infanzia. La famiglia ha sbagliato, lo Stato anche. Ed è ancora più grave. Ma questa non è solo la storia di un’educazione sui generis, è la cartella clinica di un Paese ancora diviso dal muro dell’odio. Un Paese in balìa di una tensione antifascista costante. Quando l’antifascismo dovrebbe essere morto e sepolto per evidente mancanza di fascismo. A eccezione di qualche caso marginale come la famiglia di sopra, che non costituisce certamente un pericolo politico per la gloriosa repubblica italiana. Invece, specialmente in questo settantesimo anniversario della Liberazione, l’antifascismo è tornato. Arrogante. Totalitario. E scleroticamente conservatore. Con la sua ridicola retorica, le sue bandiere rosse, le sue Belle Ciao, e le tirate moralizzatrici delle Boldrini. Fascismo è tornato a essere l’insulto più quotato. Basta prendere in mano un qualsiasi quotidiano e sembra di sfogliare un numero del Popolo d’Italia del 34. Improvvisamente sono tutti fascisti. Berlusconi lo è per definizione, Renzi anche, Salvini figuriamoci. I poveri di parole hanno sempre un “fascista” in tasca da lanciare sul muso del primo che osi superare lo stop del politicamente corretto. Il termine “fascista” è il cartellino rosso. La squalifica. Il confino intellettuale e politico, giusto per non spostarci dal Ventennio. Perché il paradosso è proprio questo: secondo i loro parametri – quelli degli antifascisti che vedono ovunque camicie nere – loro stessi sono dei fascisti. Degli squadristi culturali che mettono all’indice il dissenso e ora si prendono la briga di “correggere” i bambini di quattro anni. Come nelle dittature. Come in Unione Sovietica. Ché poi – alla fine – il problema è sempre quello.

La minaccia può venire dai magistrati.

La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca. La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Corte di Cassazione, Sezione 3 Civile, Sentenza del 22 febbraio 2008, n. 4603)

L’avv. Santo De Prezzo, in data 06 novembre 2006, denuncia e querela il dr. Antonio Giangrande per violazione della Privacy per aver pubblicato sul sito web della Associazione Contro Tutte le Mafie il suo nome, nonostante il nome dell’avv. Santo De Prezzo fosse già di dominio pubblico in quanto inserito negli elenchi telefonici, anche web, e nell’elenco degli avvocati del consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Brindisi, anche web.

La dr.ssa Adele Ferraro, sostituto procuratore presso il Tribunale di Brindisi apre il proc. n. 9429/06 RGNR, non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., ed il 1° ottobre 2007 (un anno dopo la querela) decreta il sequestro preventivo dell’intero sito web della Associazione Contro Tutte le Mafie, arrecando immane danno di immagine. Il Decreto è nullo perché non convalidato dal GIP ed emesso il 19 ottobre 2007, successivamente al sequestro. Il decreto è rinnovato il 09/11/ 2007 e non convalidato dal giudice Katia Pinto. Poi ancora rinnovato il 28/12/2007 e convalidato da Katia Pinto il 26/02/2008, ma non notificato.

La dr.ssa Katia Pinto apre il proc. n. 1004/07 RGDT e il 19/09/2008, dopo quasi un anno dal sequestro del sito web con atti illegittimi dichiara la sua incompetenza territoriale e trasmette gli atti a Taranto, ma non dissequestra il sito web.

In questo procedimento non risulta esserci il fatto penale contestato eppure si oscura un sito web di una associazione antimafia e si persegue penalmente il suo presidente, Antonio Giangrande.

Insomma: il fatto non sussiste. Pur mancando la prova della violazione della privacy, quindi del reato commesso, comunque inizia il calvario per il dr. Antonio Giangrande.

Il Dr. Remo Epifani sostituto procuratore presso il Tribunale di Taranto apre il fascicolo n. 8483/08 RGNR, non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., e decreta il rinvio a giudizio per ben due volte: il 23/06/2009 e difetta la notifica e il 28/09/2010, rinnovando  il sequestro preventivo del sito web, mai revocato.

Il Dr. Martino Rosati, Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Taranto  apre il proc. n. 6383/08 GIP e senza indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., dispone con proprio autonomo decreto il 14/10/2008 il sequestro preventivo del sito web.

Il processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10329/09 RGDT, si apre il 03/11/2009, ma viene chiuso per irregolarità degli atti. Il nuovo processo contraddistinto con il n. 10018/11 RGDT si apre il 01/02/2011.

Solo in data 12 luglio 2012 lo stesso Pm dr. Gioacchino Argentino chiede l’assoluzione perché il fatto non sussiste ed in pari data il giudice dr.ssa Frida Mazzuti non ha potuto non acclarare l’assoluzione di Antonio Giangrande perché il fatto non sussiste. Il Dissequestro del sito web www.associazionecontrotuttelemafie.org non è mai avvenuto e l’oscuramento del sito web è ancora vigente.

Declaratoria di ASSOLUZIONE PERCHE’ IL FATTO NON SUSSISTE. Dopo 6 anni, due pubblici Ministeri, un Giudice per l’Udienza Preliminare, tre Giudici monocratici, di cui una, dr.ssa Rita Romano, estromessa con istanza di ricusazione perchè denunciata da Antonio Giangrande, sostituita dalla dr.ssa Frida Mazzuti. L’inimicizia dei magistrati di Taranto nei confronti di Antonio Giangrande è da ricondurre al fatto che lo stesso ha denunciato alcuni magistrati del foro tarantino, anche perché uno di loro, il sostituto procuratore Salvatore Cosentino, ha archiviato una denuncia contro il suo ufficio, anziché inviarlo alla Procura di Potenza, Foro competente. (Esposto inviato a più Autorità Competenti. Lettera Morta)

I casi analoghi sono migliaia...

Dal pm di Messina, Brunelli, per un articolo del professionista Michele Schinella. Blog di giornalista oscurato dopo una querela. Oscurato il blog di informazione del giornalista professionista Michele Schinella, collaboratore di “Centonove” e “Corriere.it”, dopo una querela da parte del sindaco di Saponara (Messina), Nicola Venuto, seguita a un articolo del 2 ottobre scorso. L’oscuramento dell’intero blog – e non dell’articolo in questione – l’ha disposto il pm di Messina, Margherita Brunelli. “Il provvedimento – spiegano i legali di Schinella, Diego Lanza e Ciccio Rizzo – è abnorme e incomprensibile. Il provvedimento non ha un rigo di motivazione e oscure rimangono le ragioni di fatto e di diritto per cui il pm abbia ritenuto di adottare questa misura. Se il pm ha ritenuto che l’articolo fosse diffamatorio, sarebbe stato sufficiente oscurare il pezzo e non l’intero blog”. (Ansa).

La minaccia può venire, addirittura dagli stessi giornalisti...

Edicole online gratis, operazione per tutela diritti d’autore: 19 siti oscurati, scrive il 28 aprile 2015 “Il Fatto Quotidiano”. L'inchiesta "Black Press Review" delle Unità speciali delle Fiamme gialle contro i siti che ogni mattina mettono a disposizione dei navigatori i contenuti dei quotidiani. È stata denominata “Black Press Review” e nel mirino dell’operazione della Guardia di Finanza sono finite le edicole online, che consentono agli internauti di avere a disposizione interi contenuti di quotidiani e periodici, già dalle prime ore della giornata, senza corrispondere compensi agli editori. I finanzieri delle Unità Speciali stanno procedendo, su tutto il territorio nazionale, al sequestro e oscuramento di 19 siti e alle perquisizioni nei confronti dei presunti responsabili. Sarebbero per ora cinque le persone denunciate. I finanzieri delle Unità speciali, su delega della Procura della Repubblica di Roma, stanno eseguendo una complessa operazione in materia di tutela del diritto d’autore sul web, colpendo “edicole pirata” posizionate su server nazionali ed esteri (Repubblica Ceca, Russia, Moldavia, Svizzera e Stati Uniti). Con la collaborazione della Federazione italiana editori giornali (Fieg), la Guardia di Finanza ha identificato alcuni hacker che acquisivano indebitamente la copia digitale dei giornali e la pubblicavano su edicole online illegali. Le Fiamme Gialle hanno dichiarato che anche “una società che realizza servizi di rassegna stampa risulta interessata”. La Guardia di Finanza ha commentato: “Il fenomeno ha indubbi effetti negativi sul settore dell’editoria, che perde così ingenti risorse, con ricadute occupazionali, frustrando il lavoro, spesso pericoloso e duro degli operatori dell’informazione, che si vedono sottrarre, con un semplice click, il frutto del proprio impegno quotidiano sul campo da soggetti che operano illegalmente e senza fatica, nel web”.

La minaccia può venire dalla politica...

Nuovo attacco di Grillo ai giornalisti. La libertà d’informazione è… il suo blog, scrive Sandro Forte su “Il Secolo D’Italia”. Un fatto è certo: Grillo ce l’ha con i giornalisti. In nome della libertà d’informazione, il cui cavallo di battaglia è il suo blog, l’ex comico convertitosi alla politica attacca la libertà d’informazione la quale, seppure a volte propensa alla calunnia e al pettegolezzo, proprio perché tale non è passibile di censure politiche. «Taci, il giornalista ti ascolta! Si nascondono ovunque. L’unica difesa è il silenzio, il linguaggio dei segni – così scrive Grillo sul suo blog – I giornalisti non possono infestare Camera e Senato e muoversi a loro piacimento: vanno disciplinati in spazi appositi, esterni al Palazzo. Per un’intervista chiedano un appuntamento, non bracchino i parlamentari per le scale o al cesso. All’ingresso di Montecitorio e di Palazzo Madama va posto un cartello “No gossip. Il Parlamento non è un bordello. Il Parlamento è il luogo più sacro, di una sacralità profana, della Repubblica italiana, ma è sconsacrato ogni secondo, ogni minuto, frequentato impunemente, spesso senza segni di riconoscimento, da folle di gossipari e pennivendoli dei quotidiani alla ricerca della parola sbagliata, del titolo scandalistico, del sussurro captato dietro a una porta chiusa. Qualche deputato li scambia talvolta per colleghi e parla, parla per ritrovare sul giornale quella che credeva una conversazione privata. Mercanti di parole rubate». Poi, dopo aver citato la cacciata dei mercanti dal tempio, Grillo “inventa” lo sfogo di un parlamentare che si lamenta perché «nel Parlamento romano, all’ingresso o in ascensore, anche all’urinatoio con il microfono nel taschino c’è sempre un giornalista senza tesserino». A parte taluni eccessi, certamente condannabili più sotto il profilo della deontologia professionale che per la violazione della privacy (i politici sono comunque personaggi pubblici), resta il fatto che il leader del Movimento Cinque Stelle non digerisce la stampa libera e comunque vorrebbe che l’attività dei giornalisti fosse confinata in regole ben precise, a rischio della completezza dell’informazione (per il suo blog, “libero” di scrivere qualsiasi cosa, invece nessuna restrizione). La notizia di questo ennesimo attacco alla stampa è esplosa nel bel mezzo della conferenza stampa del M5S a Montecitorio: i deputati Laura Castelli, Mattia Fantinato e Carla Ruocco stavano illustrando le loro proposte in campo fiscale ma le parole al vetriolo di Grillo non potevano certo essere ignorate. Ne è scaturito un lungo “botta e risposta” tra i cronisti e i parlamentari “pentastellati”. Alla richiesta dei giornalisti di un commento sull’idea di Grillo di cacciare i giornalisti da Montecitorio e da Palazzo Madama è sorto un vero e proprio parapiglia. Per i parlamentari del M5S si trattava di «domande fatte per oscurare il lavoro svolto in Parlamento»: «Dovreste chiederci qualcosa sul fisco», ha sbottato Carla Ruocco. I cronisti hanno rivendicato la possibilità di scegliere le domande e hanno insistito sulla «difesa della libertà di stampa», chiedendo se i deputati presenti fossero d’accordo con Grillo. Ha risposto Laura Castelli: «Grillo, come noi, chiede che i giornalisti stiano nei luoghi deputati a fare informazione e non a origliare dietro le porte dei bagni. Tutte le volte che ci siamo sentiti in imbarazzo di fronte ai vostri comportamenti ci siamo rivolti agli organi che organizzano il vostro lavoro». Un dialogo apparentemente impossibile. «Ma non temete che venga danneggiata la libertà di stampa? Il post di Grillo prima definisce “mercanti del tempio” i giornalisti e poi chiude con un doppio “vaffanculo”», ha sottolineato un cronista. La replica non si è fatta attendere: «Siamo nati con il “vaffanculo”, non vi sconcerterete adesso?». Lo scontro è poi continuato a telecamere spente. I deputati si sono sfogati dicendo che alcuni giornalisti li avevano offesi; i cronisti hanno sottolineato che «soltanto durante il fascismo veniva impedito alla stampa di assistere ai lavori parlamentari». Una deputata ha sottolineato che «negli anni Cinquanta i cronisti non potevano entrare in Transatlantico». Un cronista le ha risposto: «Certo, perché i politici dell’epoca non volevano che i giornalisti scrivessero quello che accadeva nel “Palazzo”. Allora, torniamo alla mezzadria». «Meglio la mezzadria, funzionava meglio», è stata la risposta della deputata che ha poi posto fine al “dibattito”.

La minaccia...ai giornalisti.

Giornalisti minacciati, Lazio da record. Aggressioni, intimidazioni, querele pretestuose e vari danneggiamenti. Ecco come cercano di fermare i cronisti «colpevoli» di raccontare scomode verità, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Minacciati, aggrediti, intimiditi. Gli incendiano casa e gli fanno esplodere l’auto; tentano di metterli spalle al muro spedendogli proiettili o ricorrendo a telefonate minatorie. Ma li "attaccano" anche per vie legali, con querele che poggiano sul nulla. È la vita del giornalista descritta dai dati di "Ossigeno per l’informazione", l’Osservatorio sui cronisti minacciati in Italia, promosso dalla Federazione nazionale della stampa italiana e dall’Ordine dei giornalisti. Del cronista impavido che rischia fisicamente, e di quello che non arretra di fronte a una denuncia. "Penne" coraggiose che anno dopo anno rischiano la rovina e a volte la vita, come accaduto in passato.

LE INTIMIDAZIONI. I numeri rivelati da "Ossigeno" sono impressionanti. Nel 2014 i giornalisti minacciati, o in qualche modo frenati, nel nostro Paese sono stati 421, dato aggiornato al 31 ottobre scorso. Nel 2013, nello stesso arco di tempo, erano 316. Dal 2006, anno in cui è stato dato inizio al monitoraggio, ad oggi, le "penne" intimidite sono state 2085. Ma, come segnala lo stesso Osservatorio, «dietro ogni intimidazione documentata, almeno altre dieci restano ignote perché le vittime non hanno la forza di renderle pubbliche». Ma quali sono i metodi attraverso i quali i giornalisti vengono attaccati?

MINACCE E QUERELE. Si va dalla "querela per diffamazione ritenuta pretestuosa" (129 casi nel 2014 e 324 documentati dal 2011 ad oggi) all’insulto (35 quest’anno, 174 dal 2011); dall’aggressione lieve (38 quest’anno e 129 dal 2011) all’abuso del diritto (50 e 128); dalla lettera con proiettili attivi (3 e 69) alle minacce personali (17 e 83); dalle intimidazioni con striscioni e scritte (9 e 74) alla discriminazione ed esclusione arbitraria (16 e 52). Seguono intimidazioni con esplosivo (nessun caso nel 2014 ma 40 dal 2011), lettere minatorie (11 e 51), citazione in giudizio per danni considerata strumentale (20 e 47), minacce di morte (8 e 33), spari (zero e 22), danneggiamento (12 e 36), avvertimenti (11 e 30), incendio dell’auto o dell’abitazione (7 e 27). Ci sono anche le minacce via Facebook o attraverso altri social network (4 e 16) e le querele pretestuose da parte del magistrato (11 e 23). Seguono aggressioni gravi, perquisizioni invasive, furti, stalking, avvisi di garanzia per reti legati alla pubblicazione delle notizie, sequestri giudiziari di documenti e archivi, telefonate minatorie, bossoli esplosi, ecc.

AGGRESSIONI E AVVERTIMENTI. Il giornalista, in buona sostanza, si sente spesso "circondato". E le intimidazioni appaiono ancora più chiare se si analizzano per macrocategorie: le aggressioni fisiche sono passate dalle 50 del 2011 alle 43 del 2014, con un balzo fino a 63 nel 2013. Gli avvertimenti sono stati 156 nel 2011, 181 l’anno dopo, 148 nel 2013 e 121 quest’anno. I danneggiamenti nel 2014 sono stati 19 (erano 11 tre anni prima). Le denunce e le azioni legali contro giornalisti sono state 109 nel 2011, salite a 220 nell’anno in corso. Infine, gli ostacoli alla libertà d’informazione, che erano zero nel 2011, sono arrivati a 18 nel 2014. Nel "mirino" finiscono soprattutto i giornalisti della carta stampata, con 262 casi dal 2011 ad oggi, poi quelli della tv (91 casi in totale), e del web (76).

IL LAZIO PRIMEGGIA. Dal monitoraggio di "Ossigeno" emerge che nel 2014 la regione che ha registrato il numero maggiore di intimidazioni, in tutte le varie forme, è il Lazio, con 82 casi (257 dal 2011 ad oggi). A ruota seguono: Campania con 50 casi (262 dal 2011), Sicilia 43 (162 dal 2011), 42 Lombardia (230), Basilicata 34 (42), Puglia 33 (69), Veneto 33 (63), Calabria 30 (94). E ancora: 25 Emilia Romagna (60), 16 Toscana (47), 14 Piemonte (50), 11 Friuli Venezia Giulia (20), 10 Abruzzo (29), 9 Liguria (22), 5 Sardegna (14), 5 Marche (13), 2 Umbria (8), 1 Molise (13), 1 Trentino Alto Adige (4). L’unica "isola felice" è la Valle d’Aosta.

L’INCHINO E LA SCORTA. In qualche caso il nome del giornalista minacciato è noto, in altri no. Non tutti, infatti, si atteggiano a vittima e oracolo. Michele Albanese, ad esempio, del Quotidiano della Calabria , vive sotto scorta da quando ha scritto dell’"inchino" della statua della Madonna davanti casa di un boss a Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria. Oppure Guido Scarpino, de Il Garantista, al quale hanno incendiato l’auto sotto casa. Ma l’elenco è lungo, troppo lungo per una Paese libero e democratico.

GIORNALISTI OSCURATI E NOTIZIE SOTTO SCORTA di Alberto Spampinato. Nella libera Italia sono numerosi i giornalisti che rischiano la vita, subiscono minacce, intimidazioni, ritorsioni, finiscono sotto scorta e sono costretti a una vita blindata per avere pubblicato notizie sgradite a mafiosi, camorristi, clan della ‘ndrangheta. Lo conferma la vicenda di Giovanni Tizian, che dal 22 dicembre vive protetto dalla polizia 24 ore su 24 ed è il quinto giornalista minacciato in Italia dall’inizio del 2012. Altre conferme vengono dalle storie degli altri giornalisti costretti a vivere sotto scorta. Vivono così, dal 2007, Lirio Abbate, Rosaria Capacchione e Roberto Saviano e un’altra diecina di giornalisti meno noti. Altre diecine (impossibile sapere esattamente quanti siano) sono sottoposti a protezioni di polizia più blande. Molti di loro hanno pubblicato in esclusiva notizie e inchieste sgradite ai boss della mafia. Pubblicare notizie approfondite sull’attività della mafia aiuta a combattere la mafia, ma è rischioso: per questo motivo in passato in Italia sono stati uccisi nove giornalisti, l’ultimo, Beppe Alfano, l’8 gennaio 1993 in Sicilia. Da allora la mafia non ha ucciso altri giornalisti, ma non ha rinunciato a fare piani per uccidere i giornalisti più irriducibili. Non ci sono stati altri omicidi perché i boss privilegiano altri mezzi, più subdoli, per condizionare l’informazione giornalistica e anche perché, per fortuna, nel frattempo, gli inquirenti hanno sviluppato strumenti di indagine più raffinati, e così hanno sventato numerosi attentati. Sono tantissimi in Italia i giornalisti minacciati dalla mafia. Ma molti di più sono i giornalisti che subiscono intimidazioni e censure violente di altra matrice: tantissime sono, ad esempio,  le querele pretestuose e le citazioni in giudizio per danni da parte di imprenditori, uomini politici, amministratori pubblici al puro fine di mettere in difficoltà il giornalista e rendere più difficile la pubblicazione di notizie sfavorevoli. Nel 2011, in Italia,  secondo i dati dettagliati di Ossigeno per l’Informazione, i giornalisti minacciati sono stati 324. L’osservatorio è stato creato ad hoc nel 2008 dalla FNSI insieme all’Ordine nazionale dei giornalisti, proprio per accertare la natura e la dimensione di questo triste fenomeno. I risultati saranno presentati nel Rapporto 2011-2012 di imminente pubblicazione e sono riassunti nelle tabelle allegate e sul sito dell’Osservatorio e in questa cifra totale: tra il 2006 e il 2011, l’osservatorio ha accertato 230 intimidazioni con 925 giornalisti coinvolti. Questa è la parte visibile di un fenomeno che rimane in gran parte sommerso e che, secondo le stime di Ossigeno è dieci volte più grande. Le dimensioni del fenomeno sono dunque grandi e non è più possibile trascurare il problema. Non è solo questione di garantire la sicurezza e la  libertà personale di centinaia di giornalisti, ma di garantire la libertà di stampa e il diritto dei cittadini di essere informati, perché per ogni giornalista intimidito c’è l’oscuramento di un grappolo di informazioni di grande interesse pubblico. Non a caso il gran numero di giornalisti minacciati allarma le istituzioni internazionali e continua di anno in anno a fare perdere posizioni all’Italia nella graduatoria internazionale sulla libertà di stampa: l’ultimo declassamento è arrivato nei giorni scorsi da Reporters Sans Frontieres, ed è stato uno scivolone in basso di altre 12 posizioni. E’ dunque necessario affrontare il problema con maggiore attenzione e in modo diverso, sia prendendo provvedimenti di maggior garanzia in materia di organizzazione del lavoro giornalistico, sia sul piano politico e legislativo, per adeguare una normativa arcaica e inadeguata che rende fin troppo facile trascinare pretestuosamente in giudizio un giornalista, intimidirlo, ostacolare palesemente il suo lavoro di informatore dei cittadini. Occorre certamente modificare la legge sulla diffamazione, occorre proteggere più attivamente il diritto alla segretezza delle fonti confidenziali, occorre impedire l’abuso sistematico di alcune norme del diritto. Bisogna sciogliere questi nodi per restituire al giornalismo italiano la sua autonomia ed indipendenza. Ma intanto bisogna aiutare concretamente quei giornalisti che prendono il fuoco con le mani. Quelli che accettano il rischio. Quelli che si espongono di più e perciò subiscono intimidazioni, minacce e ritorsioni. E’ evidente che i giornalisti minacciati che corrono i pericoli più gravi devono essere difesi dalle forze dell’ordine e dalla magistratura. Ma gli altri giornalisti e i cittadini non possono restare a guardare: devono difenderli mettendosi al loro fianco, devono proteggerli, circondandoli di solidarietà, facendo vedere che non sono soli, dimostrando che le intimidazioni non spengono la voce del giornalista preso di mira, ma anzi la amplificano, la moltiplicano per cento, per mille, e quindi le minacce sono vane e controproducenti. Ossigeno – Bologna, 29 gennaio 2012. Alberto Spampinato, consigliere della FNSI, direttore di Ossigeno per l’Informazione.

L’ossigeno che racconta i giornalisti minacciati, scritto da Marco Miggiano. Quanti sono i giornalisti minacciati? Quanti vivono sotto scorta? Quanti di loro hanno subito querele ed intimidazioni di ogni genere? Quanti hanno perso la vita o sono stati ammazzati perché erano divenuti scomodi o perché seguivano da vicino guerre o scontri di piazza? Un mondo ancora poco conosciuto, o meglio sottovalutato, in Italia quello dei giornalisti minacciati dalla mafie e non solo che deve assolutamente entrare nel dibattito, sia politico che culturale. Un primo serio tentativo di ridare dignità e visibilità a quanti rischiano ogni giorno la propria incolumità per cercare la notizia, arriva da Ossigeno per l’informazione, un osservatorio sui giornalisti minacciati in Italia promosso da FNSI e Ordine nazionale dei giornalisti. Un progetto a cui partecipano e danno il loro contributo decine di giornalisti e giornaliste con il solo intento di approfondire questo triste aspetto del mondo dell’informazione italiana e far conoscere tante storie di coraggio e capacità professionale. Alcuni dati sono davvero allarmanti. Dal 2006 sono circa 1451 i giornalisti che hanno subito minacce, attentati, auto bruciate, proiettili recapitati a casa, agguati, percosse e violenze fisiche. Solo in questa metà del 2013 sono esattamente 204 i giornalisti che hanno subito violenze. 26 invece coloro che sono stati uccisi. Una lista che parte dal 1960, con l’uccisione di Cosimo Cristina a Termini Imerese (Palermo) fino ad arrivare al 15 aprile 2011 quanto a Gaza, dopo un breve rapimento, venne ucciso il giornalista e cooperante Vittorio Arrigoni. Da qualche tempo è stata scelta la data del 3 maggio come giornata della memoria e tutti coloro che hanno perso la vita durante il loro lavoro, vengono ricordati in una cerimonia pubblica a Perugia. Ossigeno per l’informazione si pone, quindi, l’obiettivo di sostenere e dare voce a quei tanti uomini e donne che praticano un giornalismo vero, quel giornalismo serio, sano, fatto sul campo, nelle strade, nei vicoli delle città, professionisti che senza paura affrontano chiunque pur di trovare la verità e fare informazione. Inoltre, l’Osservatorio analizza e approfondisce anche le nuove modalità di aggressione al mondo dell’informazione. Oggi, infatti, i meccanismi per intimidire sono molteplici e vanno oltre alle classiche e vigliacche violenze fisiche. Oggi la mafia, ma non solo, è cambiata, ha studiato come muoversi nella finanza, negli appalti, nelle aule di tribunale ed anche per quanto riguarda le intimidazioni nei confronti dei giornalisti ha mutato il suo modus operandi. Paradossalmente, per alcuni aspetti, le nuove minacce per i giornalisti non arrivano più dalla canna di una pistola ma dalla penna di un avvocato. Quello che fa più paura ad un giornalista oggi giorno è ricevere una querela ed affrontare il processo che ne segue. Uno strumento giuridico legale utilizzato per cercare di tappare la bocca a chi fa solo il proprio mestiere. Querele pretestuose, inutili, spesso infondate ma che tolgono serenità al giornalista, così come è successo a Michele Inserra che ha ricevuto ben tredici querele consecutive dalla stessa persona, per di più da un magistrato. Si è formato un vero e proprio sistema che distrugge in maniera scientifica e ragionata soprattutto i free lance, chi viene pagato a pezzo per pochi euro, ma anche chi fortunatamente ha un contratto e lavora con grandi quotidiani nazionali. Il meccanismo è il medesimo, ma con qualche tutela in più grazie agli uffici legali preposti a risolvere tali questioni. Ricevere una querela fa scattare un meccanismo di auto difesa inconscia nella mente del giornalista che porta ad auto censurarsi, a ragionare più e più volte sull’opportunità di pubblicare o meno quella notizia. Ogni querela, ogni intimidazione corrisponde ad una notizia non data o consegnata alla cronaca in maniera approssimativa. Scatta l’ansia, la paura di perdere un processo in corso e dover risarcire per migliaia di euro la controparte e ciò significa, spesso, smettere di lavorare. E’ una partita che si gioca ad armi impari ed occorre trovare dei meccanismi legislativi che riescano a tutelare il mondo del giornalismo italiano. E’ questa, infatti, una delle tante richieste portate avanti da Ossigeno per l’Informazione che è riuscita, in particolare, a presentare le proprie proposte alla Commissione Parlamentare Anti Mafia, che per la prima volta ha dedicato un’indagine specifica rivolta ai giornalisti minacciati, focalizzando l’attenzione su ciò che avviene al sud, soprattutto in Calabria, Sicilia e Campania, quest’ultima la regione con il più alto numero di giornalisti minacciati. Un’indagine iniziata già nel 2012 durante la scorsa legislatura, interrotta per la fine anticipata della stessa, ma ripresa dopo l’ultima elezione dello scorso febbraio.  Così la Commissione Antimafia, dopo aver raccolto opinioni e proposte, ha formulato una serie di richieste al Governo e al Parlamento italiano, al fine di assicurare una maggiore protezione al mondo del giornalismo nella sua totalità. Ne è nato un dossier, dal titolo “Taci o sparo” scaricabile gratuitamente dal sito ossigenoinformazione.it, che riassume nel dettaglio tutte i problemi individuati e le proposte formulate dall’Osservatorio. Il testo presentato è a cura di  Alberto Spampinato, Dario Barà, Matteo Finco, Lorenzo Di Pietro, che si sono avvalsi anche della preziosa collaborazione di alcuni di quei giornalisti minacciati in prima persona, come Giovanni Tizian ed Arnaldo Capezzuto, oltre della professionalità e competenza di Lirio Abbate  ed Angelo Agostini. Occorre aggiornare le norme relative a questo settore e parlare, raccontare, scrivere e far conoscere le storie dei giornalisti minacciati in modo che queste non siano più singole storie, singoli uomini e donne lasciati soli ad affrontare paure e processi.

Quando il cronista finisce sotto scorta. Volti noti come Sandro Ruotolo, ma anche reporter di provincia come Michele Albanese. Sono tra i 30 e i 50 i giornalisti italiani costretti a vivere sotto scorta perché ritenuti in pericolo di vita, anche se i numeri ufficiali non vengono resi noti dal ministero dell'Interno. A questi vanno aggiunti gli oltre 2300 minacciati dal 2006 ad oggi con attentati incendiari, lettere con proiettili, telefonate intimidatorie in piena notte e le più subdole cause milionarie. "Abbiamo solo fatto il nostro lavoro per come va fatto, senza nascondere nulla, senza mezze frasi, senza allusioni, ma con le notizie". L'inchiesta di Giuseppe Baldessarro e Daniele Mastrogiacomo su “La Repubblica”.

"Costretti a sentirsi un pericolo ambulante", scrive Daniele Mastrogiacomo. "Lo sai la cosa che fa più male?", si chiede ad un certo punto, la voce stretta da un groppo alla gola, Michele Albanese, cronista giudiziario del Quotidiano del Sud, da dieci mesi sotto scorta. "Fa male sentirti come un estraneo, un pericolo ambulante, essere trattato come un vero appestato". Dall'altra parte del telefono senti solo l'affanno di un collega ferito. Nell'animo e nella mente. "Il contesto culturale che ti circonda", aggiunge, "alla fine ti isola, fa terra bruciata. I conoscenti, gli amici, le stesse fonti a cui ti rivolgevi per lavoro, ti evitano. Hanno paura, temono ritorsioni. Cambia tutta la tua vita. Cambia perfino il tuo modo di pensare. A volte penso: vivo sotto scorta per quello che ho scritto. Ma siamo in Italia, nel 2015. In un paese che si vanta di essere una democrazia compiuta". Tutto è iniziato con Roberto Saviano, scrittore e commentatore, con il suo "Gomorra". Un libro impressionante. Pochi, all'inizio, ci avevano fatto caso: per le cose che raccontava sembrava quasi un romanzo di fantascienza. Fu una denuncia vera. Dettagliata e attendibile. Svelava i traffici di clan dominanti nel Casertano e a Napoli e i loro intrecci con il mondo affaristico, industriale, politico. I Casalesi reagirono e decisero di minacciarlo di morte pubblicamente. Vive sotto protezione da 9 anni. Non si conosce il numero esatto dei giornalisti scortati. Il ministero degli Interni si rifiuta di indicarlo. Ma secondo stime attendibili sarebbero almeno tra i 30 e i 50. Il sito dell'osservatorio Ossigeno curato da Alberto Spampinato, fratello di un giornalista ucciso dalla mafia nel 1972, ha addirittura un contatore che aggiorna in tempo reale le minacce e le aggressioni subite dai cronisti. Nei primi sei mesi di quest'anno sono già 156, che diventano 2.300 dal 2006. Da Palermo a Torino. Incendi dolosi a macchine e portoni di casa, lettere con proiettili, telefonate intimidatorie in piena notte, linciaggi sulle pagine di Facebook, querele milionarie, intimidazioni, aggressioni fisiche, veri pestaggi. A guardare la mappa nera dell'informazione cade anche un diffusa convinzione: la Calabria conta solo 7 minacce mentre il Lazio con 26, la Sicilia con 23, la Campania con 20, la Puglia e la Lombardia con 18 restano in testa alla lista dei proscritti. E' accaduto spesso. Anche negli Anni 80 del secolo scorso. All'epoca il pericolo arrivava dal terrorismo. Agguati mortali, azzoppamenti, sparatorie. Chi si occupava della galassia armata di destra e di sinistra rischiava in prima persona. Il clima era pesante e cupo. Prima di uscire di casa, sorretti dall'istinto di sopravvivenza, molti attendevano di ascoltare alla radio la notizia dell'ennesimo attentato. Altri giravano con la pistola. Erano cronisti giudiziari, di nera. Ma anche firme di punta dei quotidiani: basta pensare a Carlo Casalegno, vicedirettore de La Stampa, colpito da un commando delle Br nel novembre del 1977 e morto dopo 13 giorni di agonia; così accadde a Walter Tobagi, inviato del Corriere della Sera, assassinato nel maggio del 1980. Le scorte si contavano sulle dita di una mano. Oggi è diverso. Forse peggio. I mandanti delle minacce e delle aggressioni non si conoscono. Perché il pericolo si annida nel business della corruzione e nella zona grigia dove si muovono le cerniere di collegamento con la politica. "E' il denaro", conferma Lirio Abbate, anche lui storico cronista giudiziario, oggi inviato de L'Espresso, da 8 anni sotto scorta "a far scattare le minacce più pesanti. Quando scavi e scrivi sugli appalti, sveli i personaggi che si muovono nell'ombra, i famosi colletti bianchi, finisci per toccare interessi che devono restare segreti. Per motivi di lavoro ho cambiato spesso città. Ma mi sono reso conto che non era tanto il contesto, la singola organizzazione criminale, a provocare la violenta reazione degli intoccabili. Erano i temi. Così è successo per Cosa nostra, così per la 'Ndrangheta e la Camorra. Così per l'inchiesta Mafia Capitale, con Massimo Carminati che si accanisce sulla mia persona". Lirio Abbate non ha una vita normale. Anche lui, come Giovanni Tizian de L'Espresso e Federica Angeli de La Repubblica, cerca una spiegazione ad una realtà che non si sarebbe mai aspettato. Ha fatto solo il suo lavoro. Ha raccolto voci, informazioni, le ha verificate. Le ha scritte. Magdi Cristiano Allam, editorialista de Il Giornale, si muove da anni circondato da 4 auto blindate. Ha raccontato il tenore dei sermoni che gli imam tenevano nelle diverse moschee italiane. Di origini egiziane, conosce l'arabo. E ha spiegato, in epoca non sospetta, che nei discorsi della preghiera del venerdì si usavano spesso parole di fuoco e di incitazione alla jihad contro gli infedeli. Lo hanno minacciato di morte. Sandro Ruotolo, da sempre inviato della trasmissione di Michele Santoro, oggi a Servizio Pubblico, è l'ultimo ad essere entrato nella lista dei giornalisti sotto scorta. E' stato pesantemente minacciato dal boss dei Casalesi Michele Zagaria. Anche lui di morte. Lo ha detto ad una delle donne che era andata a parlargli in carcere. "Ero convinto", ragiona Ruotolo, "che con l'arresto di Zagaria e Iovine la Camorra fosse stata azzoppata. Ho scoperto che tra il 2008 e il 2013 erano stati catturati 5000 camorristi. Ma anche che 300 di questi sono tornati liberi, che non è stato individuato l'arsenale, che tutti quelli che non sono accusati di fatti di sangue presto lasceranno il carcere. Eppure il ministro Alfano la settimana scorsa ha fornito in Commissione alla Camera delle cifre ufficiali su Napoli. Ci sono 78 clan, 32 dei quali in città; 4000 affiliati, di cui 1600 in città. Ma questo non era mai stato raccontato ai giornalisti. I quali, evidentemente, non lo sanno. Vuol dire che abbiamo fatto un pessimo lavoro. Ma anche che il governo ci ha mentito o tenuta nascosta una realtà drammatica".

Un'intercettazione e la vita cambia per sempre, scrive Giuseppe Baldessarro. Vive sotto scorta dal 17 luglio dello scorso anno. Una data che non potrà mai dimenticare. Prima la telefonata dalla questura di Reggio Calabria: "Deve presentarsi urgentemente presso i nostri uffici per delle comunicazioni importanti". Poi l'incontro con il Prefetto, Claudio Sammartino, e con il Procuratore, Federico Cafiero de Raho: "Abbiamo buone ragioni per ritenere che la sua sicurezza personale sia a rischio. E' necessario assegnarle una scorta, ci creda non se ne può fare a meno". In pochi minuti la vita di Michele è cambiata. La sua esistenza di cronista del Quotidiano del Sud è stata travolta. Tutto diverso: la quotidianità, gli incontri con le fonti, le giornate passate in giro a caccia di notizie e storie da raccontare ai lettori. Tutto spazzato via. Qualche ora prima le cimici della Polizia avevano registrato quella frase: "A questo lo fanno zumpare (saltare) con tutta la macchina". Una frase, una sola. Detta però tra interlocutori che sapevano bene come la 'ndrangheta non avesse digerito alcuni suoi articoli. Gente che bazzica certi ambienti, che ascolta, che raccoglie umori, che sa di cosa parla. Da quella frase, da quel giorno, Michele Albanse vive blindato. C'è la scorta che va a prenderlo sotto casa ogni volta che la chiama è c'è la vigilanza che controlla ogni segnale "strano". Non può mai uscire da solo, né gli è consentito spostarsi autonomamente. Quanto basta per portarlo a vivere le giornate quasi sempre chiuso nel suo studio: le chiama "quelle quattro mura". Il suo lavoro è radicalmente cambiato. Non ci sono più notizie da scrivere, o meglio ce ne sono molte meno. Le fonti non lo incontrano più. Non davanti ai due poliziotti che lo seguono ovunque. Non si fidano, non tanto di Albanse che le ha sempre tutelate e protette, quanto, più semplicemente, di quegli uomini che lo accompagnano, "sempre poliziotti sono". Se è vero che ovunque le notizie più interessanti viaggiano sui binari della garanzia dell'anonimato, questo vale ancora di più a Cinquefrondi, paese in cui vive Albanese, e soprattutto città della Piana di Gioia Tauro. Così il cronista che da sempre si occupa dei clan dell'area tirrenica della provincia di Reggio Calabria ora è per certi versi azzoppato. I suoi articoli sono oggi il frutto di tanta esperienza accumulata, dell'archivio sterminato che possiede, di fonti aperte come i comunicati ufficiali e di pochissimo altro. Come dice lui stesso "manca la strada". Manca cioè la possibilità di andare in giro liberamente. Quella condizione che in altri termini consente di fare il lavoro come va fatto, completo. Albanese è poi una persona che ha grande rispetto delle istituzioni e "piuttosto che andarmene ovunque con l'auto blindata, per essere giudicato come quello che ne approfitta per fare il professionista dell'antimafia", se ne sta a casa, a fare "quel che si può, ma non è la stessa cosa". Certi messaggi da queste parti valgono doppi, e lui vuole essere percepito come il giornalista che è sempre stato: umiltà e olio di gomito. Non si sente un eroe, sottolinea come "ha fatto soltanto il suo lavoro per come va fatto, senza nascondere nulla, senza mezze frasi, senza allusioni, ma con le notizie". Per questo, ripete, "non c'è niente da rimproverarsi". Per questo rifarebbe tutto quello che ha fatto. Michele Albanese non è isolato. Gli amici hanno continuato a frequentarlo come sempre, i colleghi hanno fatto quadrato attorno a lui, ma "la libertà non te la può dare nessuno, la libertà non c'è più". Albanese lo dice quasi a denti stretti: "Se l'obiettivo era quello di farmi smettere di scrivere, temo che ci siano riusciti", e infine "spero che finisca presto, spero di poter tornare a fare il mio lavoro cercando di essere utile alla terra bellissima e maledetta in cui sono nato. Spero di tornare presto a essere libero".

A proposito di scorte...

«Sono Scajola, mostro perfetto. Non negai la scorta a Biagi», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Nel calcio si chiama fallo di confusione. Nella procedura penale non è previsto. Ma la Procura di Bologna è quasi riuscita a riscrivere il codice e introdurre la particolare fattispecie. Ha chiesto alla locale sezione del Tribunale dei ministri di interrogare Claudio Scajola e Gianni De Gennaro nell’ambito della nuova inchiesta sulla morte di Marco Biagi, con una postilla: domandate, hanno suggerito ai giudici il pm Gustapane e il capo dell’ufficio D’Alfonso, se intendono rinunciare alla prescrizione; se i due indagati decidono di avvalersene, hanno aggiunto i pubblici ministeri, eccovi già pronta la nostra richiesta di archiviare l’indagine. Mai visto nulla di simile. Né nel codice né nella prassi. E infatti i difensori di Scajola, Giorgio Perroni ed Elisabetta Busuito, devono farci un comunicato sopra: «Il processo che si è svolto a Bologna rappresenta qualcosa di assolutamente surreale, è noto a tutti che l’indagato non può rinunciare alla prescrizione». E infatti la corte speciale che si forma nei tribunali quando c’è di mezzo qualcuno che ha fatto o fa parte del governo – dicesi Tribunale dei ministri – ha dichiarato l’intervenuta prescrizione senza mai aver ascoltato Scajola, e neppure De Gennaro. Di una cosa si può star certi, però: il fallo di confusione fischiato dalla Procura di Bologna annulla tutto il resto e decreterà, seppur involontariamente, quanto segue: Scajola se l’è scansata perché è un vigliacco. Non è in atti ufficiali ma tutti diranno così. «Sono il mostro, il depositario di tutte le nefandezze», dice l’ex ministro dell’Interno. Con inevitabile sarcasmo.

E perché, onorevole Scajola? Perché le appioppano sempre la maschera del mostro?

«Credo per due motivi. Uno è che oggettivamente la vicenda della casa al Colosseo, così come è stata presentata, e anche con l’ingenuità con cui ho provato a spiegarla, ha creato in qualche modo il mostro».

Quella casa che, per citare la storica frase, fu pagata a sua insaputa. Se tornasse indietro lo direbbe ancora?

«Non la direi così. Ma se avesse la pazienza di leggere con attenzione la sentenza del Tribunale di Roma, verificherebbe che i giudici hanno stabilito come le cose fossero andate proprio in quel modo. Lo hanno detto dopo un’inchiesta e un processo».

E però quell’espressione le ha nuociuto, lei dice. L’altra ragione che crea il mostro Scajola?

«Ero molto impegnato politicamente, avevo un buon seguito parlamentare e locale, ero un boccone ghiotto per i nemici. E soprattutto per gli amici».

Chi doveva capire avrà capito. Il Tribunale ha appena archiviato l’accusa ipotizzata nella nuova inchiesta sull’assassinio di Marco Biagi: omicidio volontario. Eravate indagati in due: lei e De Gennaro.

«Come hanno detto i miei avvocati questa indagine non doveva neanche cominciare. Si è gettato fumo negli occhi delle persone, è stata indotta molta confusione. Ho saputo della nuova inchiesta mentre ero in cella a Reggio Calabria, dopo essere stato ingiustamente arrestato per una vicenda, quella di Matacena, a cui ero totalmente estraneo. Poi c’è stata una passerella continua di testimoni alla Procura di Bologna. Hanno sfilato tutti tranne il sottoscritto. Non ero indagato ma mi hanno messo nella condizione di chi si sente depositario di tutte le nefandezze».

Perché non l’hanno chiamata?

«Se l’avessero fatto avrebbero dovuto iscrivermi a registro degli indagati».

E lei non lo era. Altrimenti i pm bolognesi avrebbero dovuto passare le carte al Tribunale dei ministri. Non l’hanno indagata per non perdere l’inchiesta?

«Evidentemente contava far nascere il caso. Poi hanno iscritto il mio nome e quello di De Gennaro. Non avrebbero mai potuto chiedere il nostro rinvio a giudizio per omicidio volontario. Hanno contestato la cooperazione colposa in omicidio colposo. Che era prescritta da 5 anni».

Ma intanto il caso, e il mostro, erano serviti.

«Esatto. E poi cos’ha detto la Procura? Se vuole fare chiarezza sulla vicenda rinunci alla prescrizione, come se io fossi depositario di chissà quali segreti. Ma io non potevo disporre della prescrizione, è stata dichiarata d’ufficio».

Possibile che i pm ritenessero invece l’estinzione del reato a disposizione di voi indagati?

«Sono persone che si occupano di diritto per mestiere. E l’indagine che è archiviata, non la mia posizione. Che motivo c’era di fare un pandemonio simile, per un anno? Avrebbero dovuto evitarlo per il rispetto che si deve a Biagi e alla sua famiglia. Pensiamo di aver fatto del bene, alla famiglia Biagi?»

Lei non sapeva dei rischi che correva Biagi?

«Sono uno che crede in Dio. Alla fine di questa vicenda, nel prossimo week end, avremo i confessionali pieni di cattolici che hanno creato per via mediatica l’idea di una mia responsabilità. Hanno cercato di far passare che non ho voluto dare la scorta a Biagi. Eppure c’era già stata un’indagine quand’ero ministro dell’Interno. Avevo promosso un decreto legge approvato all’unanimità in Parlamento per riformare il sistema delle scorte. Solo dopo la morte di Biagi, purtroppo, ci si è resi conto che lo scambio di informazioni tra prefetture e servizi segreti non funzionava. Non fu neanche sfiorata l’ipotesi che il ministro avesse la competenza di mettere o togliere scorte. Lo dice la legge. E cosa succede? Che a 13 anni dalla morte di Biagi, e a 12 dalla chiusura della prima indagine, lo stesso pm riapre il caso per omicidio volontario, senza indagati».

Le voci secondo cui le sarebbero stati segnalati pericoli per Biagi?

«Non era competenza del ministro dare o revocare scorte, ma certo se Maroni o altri avessero avuto percezione che c’era pericolo per Biagi e mi avessero detto oh guarda potrebbero colpirlo, avrei fatto quanto meno una segnalazione agli organi preposti».

E non ha mai avuto segnalazioni di quel tipo.

«Dagli atti mi risulta, e ne ho ampie testimonianze, che nessuno abbia detto di avermi segnalato che Biagi era una persona a rischio, meritevole di particolare attenzione. Poi c’è la lettera di Luciano Zocchi».

Il suo segretario di allora.

«All’inizio di questa seconda indagine si è detto che questo appunto lo vidi e che c’era la mia sigla, il mio visto. Non è vero, non c’è alcuna mia sigla. L’appunto era stato preparato alla vigilia della mia partenza per Washington, ed era stato lasciato in segreteria, non l’avevo con me. Quand’ero negli Stati Uniti arrivò la notizia dell’assassinio di Marco Biagi».

E la segnalazione di Casini?

«Non me ne aveva mai parlato».

Come sono finite queste voci nelle carte della Procura?

«Se i pm mi avessero chiamato avrei deposto volentieri. Non lo hanno fatto. Hanno sentito Maroni, Prodi, Casini, la mia segretaria di allora. Non me».

E’ uno di quei casi in cui, come ha denunciato Armando Spataro, si cerca il titolo sui giornali più che il processo?

«Mi sono dimesso senza aver ricevuto un avviso di garanzia, sono stato indagato 12 volte, sono passato per il più grande trafficone della storia repubblicana. Cosa resta? Assolto con formula piena a Roma per la storia della casa, archiviazione per l’inchiesta di Woodcock su Finmeccanica e per altri 8 processi. Ora arriva il nulla di fatto su questo. Resta il caso di Reggio Calabria su Matacena: lì risulto essere il primo arrestato della storia per procurata inosservanza di pena, è stato chiesto il processo immediato, ci sono state 5 udienze da ottobre e non abbiamo ancora finito di sentire il primo testimone, e questo perché c’erano prove schiaccianti. A proposito della sua domanda, le dice niente il mio curriculum? Ogni volta ho avuto titoli sui giornali, poi i processi finiscono come le ho detto».

L’avvocato della famiglia Biagi ha detto: Scajola e De Gennaro non faranno i conti con il tribunale, ma con la loro coscienza sì. Cosa risponde?

«Le ho già detto nel merito che non sento di avere responsabilità per quell’assassinio. Forse qualcuno avrà detto alla famiglia Biagi che mi era stata segnalata l’esigenza della scorta e che io l’avevo negata. Se fosse così avrebbero ragione a fare quel richiamo. Io sono convinto che la famiglia Biagi sia in buonafede. Ma che qualche pelandrone ha riferito loro che mi aveva chiesto di dare la scorta. Siccome non lo ha fatto, avrà detto che ero stato io a negarla».

Ha in mente l’identikit del soggetto?

«Aspetto di leggere le carte. Finora sono arrivate solo manine, veline, sussurri».

Ha smesso con la politica, vero?

«Voglio acquisire la piena verginità giudiziaria. Ma già domenica sono venute un centinaio di persone a casa mia ad Imperia. In Liguria faremo un buon risultato, come centrodestra. Poi si vedrà. Non mi piace lo scenario politico che si prefigura, mi piacerebbe che moderati e riformisti potessero disegnarne uno migliore».

Al giornalista Sandro Ruotolo, stretto collaboratore di Michele Santoro nella trasmissione di La7 «Servizio Pubblico», è stata assegnata una scorta. La decisione è stata presa dal prefetto di Roma, Franco Gabrielli, a seguito delle minacce di morte che il giornalista ha ricevuto da parte del capo del clan dei casalesi, Michele Zagaria, scrive “Il Mattino”. La decisione è stata presa in attesa della riunione del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza. A darne conferma è, in un tweet, la stessa redazione di «Servizio Pubblico». «Il nostro giornalista Sandro Ruotolo - si legge sul social network - è sotto scorta». Le minacce di morte al giornalista televisivo sono arrivate dal capo del clan dei Casalesi, Michele Zagaria, che, intercettato in carcere, ha detto: «'O vogl' squartat' viv'». All'origine delle minacce, un reportage di Servizio pubblico sulla Terra dei Fuochi, recentemente andato in onda su La7, che conteneva un'intervista di Ruotolo a Carmine Schiavone. «Ci sono tracce recenti di rapporti tra Zagaria, quando era latitante, e i servizi segreti. Ma parliamo degli anni Duemila», dice il giornalista in uno dei passaggi. «Non ti posso dire più niente. Lo saprai al momento opportuno», è la risposta di Schiavone, pentito del clan, morto lo scorso febbraio 2016. Messaggi di solidarietà sono subito giunti al giornalista de La7. «La camorra è più che mai attiva e vuole colpire le persone che denunciano la sua attività, un copione vecchio e che conosco bene». Così Rosaria Capacchione, senatrice del Pd e componente della commissione Antimafia, commenta la notizia che il giornalista Sandro Ruotolo è stato messo sotto scorta ,sulla base di minacce alla sua persona estrapolate da alcune intercettazioni. «La forza dello Stato - aggiunge Capacchione - si misura anche sulla base della sua capacità di proteggere chi è impegnato in prima linea non solo nelle indagini, ma anche chi ha denunciato e denuncia pubblicamente i crimini e l'illegalità. La scorta è una misura difensiva; in Campania, soprattutto nella Terra dei Fuochi, è forse ora di fare qualcosa di più contro Zagaria e gli altri clan». Su Twitter il senatore del Pd Nicola Latorre scrive: «Vicini a Sandro Ruotolo, da sempre impegnato in prima linea nelle inchieste più difficili. Con lui sempre più determinati contro i poteri criminali». Soldiarietà è stata espressa anche da Emanuele Fiano, deputato pd e responsabile Sicurezza della segreteria nazionale del Pd «Ci affidiamo alla competenza delle forze dell'ordine affinché venga salvaguardata anche in questo caso nel nostro Paese la libertà di cronaca e di inchiesta contro chi opera per inquinare la nostra democrazia». Infine sempre su Twitter il capogruppo dei deputati di Sel Arturo Scotto «Solidale con Sandro Ruotolo, grande giornalista minacciato dalla camorra. Caro Sandro, questi bastardi non fermeranno mai il tuo coraggio».

Camorra, scorta al giornalista Sandro Ruotolo Minacciato di morte dal boss Zagaria. Il braccio destro di Michele Santoro a Servizio Pubblico nel mirino del capomafia per l'inchiesta sulla Terra dei Fuochi. Dopo le intercettazioni, provvedimento d'urgenza adottato da prefetto Gabrielli, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Ancora una volta quando l'Informazione è fatta bene, dimostra che può dare fastidio ai mafiosi. A tenerli sulla corda, a innervosirli, perché non sempre sono abituati a essere maltrattati dalla stampa. E si agitano, i boss, anche quando sono detenuti e sottoposti al 41 bis, il duro regime carcerario. Questa volta ad andare su tutte le furie è stato il boss camorrista Michele Zagaria, che ha puntato il dito contro Sandro Ruotolo, giornalista di grande esperienza, colonna portante di Servizio Pubblico al fianco di Michele Santoro. A Zagaria “capastorta” sembra non essere andato giù, e forse gli è rimasta sulla pancia, un'inchiesta giornalistica che Sandro ha mandato in onda nelle scorse settimane sulla terra dei fuochi, dove il boss ha messo le mani e fatto illegalmente tanti affari speculando sulla pelle dei campani. Dopo questa lunga inchiesta giornalistica i magistrati della Procura antimafia di Napoli hanno registrato le minacce di Zagaria contro Sandro Ruotolo. E pure contro i pm Catello Maresca e Cesare Sirignano. Il boss è andato in escandescenza, ha inveito contro il giornalista, fino a minacciarlo di morte: «O vogl' squartat' vivo». Per questo motivo investigatori e magistrati hanno subito ravvisato un grave pericolo per Ruotolo. Un pericolo che il prefetto di Roma, Franco Gabrielli, competente per il territorio in cui lavora il giornalista, ha subito valutato, provvedendo ad assicurare a Sandro protezione, assegnandogli un servizio di scorta che sarò svolto dai carabinieri. Sulla vicenda il pool di magistrati anticamorra di Napoli sono già a lavoro per fare luce su queste minacce. Da quanto si apprende da ambienti giudiziari, Zagaria da diversi mesi appare in cella molto nervoso, forse perché è messo sotto pressione dalle numerose inchieste che lo riguardano. In particolare, come aveva già raccontato la giornalista Rosaria Capacchione sul Mattino, oggi senatrice Pd, Zagaria potrebbe essere coinvolto in una possibile trattativa sui rifiuti. Capacchione ha documentato incontri segreti, tra il 2007 e il 2009, tra il potente boss, allora latitante, Michele Zagaria o un suo emissario, uomini dei servizi segreti deviati, e delegati del commissariato. Vertici che sarebbero stati finalizzati a subappalti in cambio del silenzio per la realizzazione di siti di smaltimento. Domande e circostanze ancora senza risposta a cui anche Sandro Ruotolo ha tentato di dare una lettura di questi fatti con un servizio mandato in onda proprio da Servizio Pubblico. Ancora una volta ci ritroviamo davanti ad un giornalista minacciato solo perché ha fatto bene il suo lavoro, mettendo in crisi un mafioso. E come tutti i mafiosi l'unico modo che conoscono è quello di reagire, o almeno tentare di farlo, con la forza e la violenza. Per comprendere quanto questo boss è sensibile a quello che scrivono i giornalisti, durante la latitanza Zagaria ha telefonato ad un cronista per “rimproverarlo” di ciò che aveva scritto su di lui. E lo aveva fatto senza aver paura di essere intercettato, ma solo per il gusto, a senso suo, di minacciare il giornalista e far notare la sua potenza e presenza sul territorio. Zagaria poi è stato arrestato, come capita prima o poi a tutti i latitanti, e adesso dubito che possa uscire presto dal carcere in cui è rinchiuso. Sono certo però che Sandro Ruotolo non si tirerà indietro e continuerà a raccontare le mafie e il loro malaffare come ha fatto fino adesso, tenendo la schiena dritta e raccontando quello che agli altri, e per gli altri intendiamo i criminali, appare scomodo.

Sandro Ruotolo, la vicinanza di Grasso: “Giornalisti liberi illuminano professione”, scrive “Il Fatto Quotidiano”. Alla presentazione del premio "Giustizia e verità - Franco Giustolisi" il presidente del Senato spiega che "in Italia i giornalisti veri corrono dei rischi quotidianamente: ci sono regioni in cui chi cerca di descrivere la realtà senza veli rischia la vita". Giornalisti che finiscono sotto scorta, come Sandro Ruotolo bersaglio del boss Michele Zagaria, cronisti minacciati, reporter a cui vengono bruciate le auto o hanno già letto il loro necrologio. Sarà a questi che pensa il presidente del Senato, Pietro Grasso, quando dice: “Parafrasando Longanesi potremmo dire che non è la libertà di stampa che manca in Italia, pur con i problemi che sappiamo: mancano i giornalisti liberi. Ma quelli che ci sono, e non sono pochi, illuminano una professione fondamentale se vogliamo nutrire ancora la speranza di migliorare il nostro Paese”.  Alla presentazione del premio di giornalismo di inchiesta “Giustizia e verità – Franco Giustolisi”. – Grasso spiega che “in Italia i giornalisti veri corrono dei rischi quotidianamente: ci sono regioni in cui chi cerca di descrivere la realtà senza veli rischia la vita, in cui si combatte una battaglia quotidiana tra il dovere dell’informazione e la pretesa del silenzio, in cui si arriva a minacce, intimidazioni, querele temerarie“. E in particolare l’ex procuratore antimafia manifesta “vicinanza” proprio a Ruotolo. “Il lavoro del giornalista, quando non è asservito al potere o al potente di turno, è un lavoro prezioso per la democrazia, per l’opinione pubblica, per i cittadini”, puntualizza Grasso che indica in Franco Giustolisi un esempio, evidenziandone “il coraggio, la passione, la determinazione, lo scrupolo della verifica, il non piegarsi anche quando si sa di pagare un prezzo o correre un rischio, il non avere timore né dei padroni né dei padrini”. E ripercorrendo il percorso umano di Franco Giustolisi, autore delle inchieste sull'”Armadio della vergogna“, Grasso sottolinea: “Era un giornalista vero, scomodo, che ha dedicato la sua vita a scoprire il lato oscuro del potere e della società attraverso le sue inchieste, iniziando su Paese Sera, poi a L’Ora di Palermo, un giornale eretico che tra le sue firme ha visto ben tre giornalisti uccisi dalla mafia: Cosimo Cristina, Mauro de Mauro e Giovanni Spampinato. Andò poi a Il Giorno, da lì alla Rai, dove fu impegnato nei primi approfondimenti televisivi con inchieste dure di informazione e di denuncia, poi all’Espresso, dove ha lavorato per più di 30 anni”.

Il nostalgico Ruotolo non stringe la mano al candidato “fascista”…, scrive Valerio Goletti su “Il Secolo D’Italia”. Siamo nel 2013? A giudicare da certi atteggiamenti sembrerebbe proprio di no. Accade infatti che, alla tribuna elettorale del Tgr Lazio, il giornalista Sandro Ruotolo, candidato di Rivoluzione civile e già inviato Rai per Michele Santoro, abbia rifiutato di stringere la mano al candidato di Casapound Simone Di Stefano con la seguente motivazione: “Sono orgogliosamente antifascista”. Quindi ha fatto riferimento alle accuse omofobe comparse su Facebook contro Nichi Vendola, ha dato la colpa al movimento di Iannone (lo stesso che in passato organizzò dibattiti con la deputata Pd paladina dei diritti gay Paola Concia) e ne ha tratto le conseguenze per lui ovvie, come se fosse la cosa più naturale del mondo: “E allora io dico, non ti stringo la mano”. Di Stefano ha replicato: “Ruotolo è antifascista? Problema suo. Però Zingaretti me l’ha stretta la mano”. Atteggiamenti di discriminazione che ricordano le tribune politiche in cui i giornalisti si alzavano e se ne andavano per protesta contro la partecipazione di Giorgio Almirante o, ancora, la mancata stretta di mano tra il primo ministro belga Di Rupo e Pinuccio Tatarella che da post-missino si introduceva con timidezza nel consesso istituzionale europeo.

I giornalisti liberi? Sono solo quelli di sinistra. Così dice Pietro Grasso…, scrive Annamaria Gravino su “Il Secolo D’Italia”. Contrordine compagni: in Italia non manca la libertà di stampa, mancano giornalisti liberi. A sostenerlo è stato il presidente del Senato Pietro Grasso, intervenendo alla presentazione del premio di giornalismo d’inchiesta “Giustizia e verità – Franco Giusolisi”. Le parole di Grasso. «Parafrasando Longanesi potremmo dire che non è la libertà di stampa che manca in Italia, pur con i problemi che sappiamo: mancano i giornalisti liberi», ha detto Grasso, aggiungendo che però «quelli che ci sono, e non sono pochi, illuminano una professione fondamentale se vogliamo nutrire ancora la speranza di migliorare il nostro Paese». Grasso quindi ha ricordato i rischi corsi dai «giornalisti veri» in Italia, dove ci sono «regioni in cui chi cerca di descrivere la realtà senza veli rischia la vita», e ha espresso la sua vicinanza a Sandro Ruotolo, di recente finito sotto scorta per le minacce ricevute dal boss Zagaria. «Il lavoro del giornalista, quando non è asservito al potere o al potente di turno, è un lavoro prezioso per la democrazia, per l’opinione pubblica, per i cittadini», ha aggiunto Grasso, portando l’esempio positivo di Franco Giustolisi.

L'intervista del poliziotto sul Magazine del Corriere: "Saviano non doveva avere la scorta". Il titolo che i lettori del Corriere troveranno a pagina 78 del Magazine, a introdurre «L’intervista » di Vittorio Zincone, è: «Saviano non doveva avere la scorta». Nell’occhiello c’è il nome e cognome di chi sostiene questa tesi: Vittorio Pisani, capo della Squadra Mobile di Napoli. Pisani è un funzionario di grande spessore e sicuramente di grande futuro. Un patrimonio della Polizia, se a nemmeno quarant’anni (oggi ne ha 42) gli fu affidato il comando di uno degli uffici investigativi più importanti d’Italia. È un calabrese taciturno e poco avvezzo alla ribalta mediatica, ma nell’intervista a Magazine sceglie di incamminarsi su un terreno che inevitabilmente proprio su quella ribalta lo espone. Andare contro­corrente sul tema Saviano è impegnativo. Però Pisani non parla per sentito dire. Spiega: «A noi della Mobile fu data la delega per riscontrare quel che Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce ricevute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo sull’assegnazione della scorta». E in tre anni non sembra aver cambiato idea: «Resto perplesso quando vedo scortare persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, magistrati e giornalisti che combattono la camorra da anni». Nemmeno di Gomorra pare entusiasta: «Ha avuto un peso mediatico eccessivo rispetto al valore che ha per noi addetti ai lavori». È la prima volta che un uomo dello Stato mette in discussione il fenomeno Saviano, sia per quanto avrebbe inciso con il suo libro nella lotta alla camorra, sia per i rischi ai quali quel libro lo avrebbe esposto. Ma Pisani rischia di rimanere solo. Saviano, contattato dal Corriere per una replica, sceglie ufficialmente il silenzio, ma è chiaro che l’ha presa malissimo. E comunque ci tiene a far sapere di avere avuto in questi anni conferme di essere stato condannato a morte dai casalesi, anche da persone in passato vicine al clan capeggiato da Francesco «Sandokan» Schiavone e dai superlatitanti Mario Iovine e Michele Zagaria. Non risponde direttamente a Pisani, ma prende chiaramente le distanze, invece, il procuratore di Salerno Franco Roberti, fino a pochi mesi fa capo della Direzione distrettuale antimafia di Napoli. «Non commento l’opinione personale del dottor Pisani — dice — ma vorrei ricordare che il comitato presieduto dal prefetto che assegnò la scorta a Saviano lo fece sulla base di una serie di informazioni anche confidenziali e tutte convergenti. E quindi non ho dubbi che lo siamo di fronte a un soggetto da proteggere assolutamente». Del resto la decisione di assegnare o meno la scorta a qualcuno viene presa anche considerando un contesto ambientale che può non avere riscontri certi dal punto di vista giudiziario. Per esempio non sono mai stati individuati gli autori delle scritte contro Saviano sui muri di Casal di Principe, né dei volantini trovati nella buca delle lettere dei genitori dello scrittore. Ma quegli episodi rappresentano una minaccia. Come fu una minaccia il proclama in aula durante il processo Spartacus contro Saviano, il giudice Raffaele Cantone e la giornalista Rosaria Capacchione. Per quell’episodio, però, un risvolto giudiziario c’è e c’è un’inchiesta che vede imputati Iovine e l’altro boss dei casalesi Francesco Bidognetti. Archiviata, invece, l’indagine sulla preparazione di un attentato con autobomba per uccidere lo scrittore. Se ne parlò come della confidenza di un pentito, ma in realtà non era vero niente. Non solo l’organizzazione dell’attentato ma nemmeno la confidenza del pentito.

La parlamentare Pd: «A che serve la scorta a Saviano se non ci sono minacce dei boss?» Sulla pagina della deputata democrat Giovanna Palma appare un post urticante. Poi cancellato dopo le prime furiose polemiche. Lei: non l’ho scritto né lo condivido, scrive “Il Corriere della Sera”. Un post apparso sulla pagina Fb di una parlamentare Pd e riguardante il processo per le minacce a Roberto Saviano è divenuto un piccolo «caso» politico. Protagonista Giovanna Palma, avvocato e parlamentare Pd originaria di Giugliano in Campania. Sulla sua pagina Fb, per alcuni minuti, è apparso il seguente post: «Ieri un tribunale ha assolto il boss Bidognetti dall’accusa di aver minacciato Saviano condannando un avvocato…Un flop direi, dopo che per anni ci hanno fatto credere che lo scrittore era nel mirino dei clan più sanguinari». Poi l’affondo finale che non mancherà di provocare polemiche: «In assenza di minacce di un boss a che può servire la scorta?». Va detto che il post è scomparso (forse cancellato?) dopo pochi minuti, ma sta continuando a “rimbalzare” sul web. La stessa parlamentare interpellata da un lettore sul social network dice: «Non l’ho nè scritto né lo condivido». Lasciando così intendere - anche attraverso le parole del portavoce - che si è trattato di un «fake» o di un’intrusione non autorizzata sulla sua pagina Facebook. Si attende ora una denuncia alla polizia postale per l’hackeraggio della pagina della parlamentare. Ad agosto scorso quando era stata emessa un’ordinanza di arresto nei confronti di Luigi Cesaro aveva commentato: «Il garantismo è un metodo e va applicato agli amici di partito e agli avversari. La vicenda Cesaro andava affrontata con doveroso rispetto umano da parte della politica e la doverosa terzietà da parte dei magistrati. E così è stato. Non conosco i fatti dei quali Cesaro è accusato e quindi mi astengo da ogni commento ma si tratta di una notizia positiva perché riconferma la terzietà della magistratura dimostrando che non può esistere nessuna persecuzione giudiziaria in mancanza di indizi». Parole che non erano piaciute all’interno del Pd. Palma era stata criticata sia da Luisa Bossa che da Rosaria Capacchione: «Non ho espresso alcuna solidarietà a Cesaro - aveva – sottolineato lei – ma ho posto una questione di carattere generale. Qualcuno ha strumentalizzato le mie dichiarazioni”. Trentotto anni, originaria di Giugliano, avvocato, sposata e con figli. È stata eletta per la prima volta alla Camera nel 2012. È componente della Commissione Agricoltura e della Commissione d’Inchiesta sui rifiuti.

Minacce a Roberto Saviano: boss assolti, ma lui insiste con la scorta, scrive "Imola Oggi". I boss dei Casalesi Antonio Iovine e Francesco Bidognetti sono stati assolti nel processo per le minacce allo scrittore Roberto Saviano e alla giornalista, ora senatrice del Pd Rosaria Capacchione. I pm avevano chiesto alla terza sezione penale del tribunale di Napoli la condanna a un anno e sei mesi per Bidognetti e l’assoluzione per Iovine, che ora è collaboratore di giustizia. Condannato invece l’avvocato del boss Bidognetti, Michele Santonastaso a un anno di reclusione, con pena sospesa, per le minacce a Saviano lette durante un processo. “Spero che questa sentenza sia un primo passo verso la libertà, spero ci sia per me una nuova vita” dice a Napoli Saviano, “Sono un po’ frastornato – ribadisce Saviano – tutte le forze civili, la società civile, sono riuscite a creare un corto circuito e a sollevare l’attenzione. Dare la scorta a chi scrive, significa garantire un diritto costituzionale“. (agi)

E poi "Imola Oggi" acclude vari articoli che riguardano Saviano.

Plagio in Gomorra: Roberto Saviano condannato a pagare 60mila euro. La Corte d’Appello di Napoli, sezione specializzata in materia di proprietà industriale e intellettuale, ha condannato lo scrittore Roberto Saviano e la casa editrice Mondadori per plagio. Ovvero «illecita riproduzione» di tre articoli, pubblicati dai quotidiani locali “Cronache di Napoli” e “Corriere di Caserta”, all’interno del libro “Gomorra”, il best seller sulla camorra che ha consacrato lo scrittore campano. Saviano e Mondadori sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro più parte delle spese legali. In più, nelle edizioni di “Gomorra” dovrà essere indicato il nome dell’autore degli articoli, dell’editore – la Libra Editrice scarl, difesa dall’avvocato Barbara Taglialatela – e della testata da cui sono stati tratti. Lo scrittore ha già annunciato pubblicamente che ricorrerà in Cassazione contro la sentenza d’Appello. Il primo grado era stato favorevole per lui e per Mondadori. (fanpage.it)

Gip di Roma: imputazione coatta per Roberto Saviano, Mauro e Viviano. Il gip di Roma Stefano Aprile ha disposto l’imputazione coatta nei confronti del giornalista di ‘Repubblica’ Francesco Viviano, del direttore del quotidiano, Ezio Mauro e dello scrittore Roberto Saviano per diffamazione nei confronti di Umberto Marconi, ex presidente della Corte d’Appello di Salerno e oggi consigliere della Corte d’Appello di Napoli. La vicenda risale al 2010 ed è relativa all’inchiesta sul dossier preparato, secondo l’accusa, dall’ex sottosegretario del Pdl Nicola Cosentino per screditare Stefano Caldoro e ottenere al suo posto la candidatura a presidente della Regione Campania. Il gip ha ravvisato gli estremi del reato di diffamazione in due articoli a firma di Viviano e Saviano pubblicati il 16 e il 17 luglio del 2010; il 16 luglio, in particolare, il sommario del titolo di apertura di prima pagina recitava: Nell’ufficio di un magistrato fabbricato il dossier anti-Caldoro. Il pm Erminio Amelio aveva invece chiesto l’archiviazione. (ansa)

Roberto Saviano accusato di plagio, richiamato da Rossi con una lettera-denuncia. Stavolta Saviano, non nuovo ad accuse di plagio, per la realizzazione del monologo sul caso Eternit mandato in onda nell’ultima puntata di “Quello che non ho“, avrebbe preso spunto dai lavori di Giampiero Rossi senza citare l’autore. Dalle pagine del loro quotidiano, Antonio Padellaro e Peter Gomez, fanno notare che, se si confrontano le parole scritte da Rossi nel suo libro “La lana della salamandra” pubblicato nel 2008 e il monologo sull’amianto di Saviano si scopre che alcune parti sono addirittura coincidenti. Nella sua lettera denuncia Giampiero Rossi scrive: “Ho trovato assai meno piacevole una certa mancanza di riconoscimento per chi quel lavoro lo ha realizzato. Tu lo sai bene, fare un’inchiesta, una ricostruzione storica, un racconto completo di vicende complicate ed enormi, come questa, comporta davvero tanta pazienza, volontà, tempo, passione. Perché, dunque, non riconoscere a chi ha investito tanto, almeno la paternità di quel suo lavoro? Eppure non sono pochi i particolari che hai scelto di utilizzare nel tuo racconto e che, guarda caso, sono tutti presenti in quei due libri (nel primo soprattutto) e non altrove, perché si tratta di racconti, confidenze, piccole sfumature emerse dalla mia lunga frequentazione della gente di Casale“. Roberto Saviano non ha ancora risposto e per ora non si è pronunciato sulle accuse. Saviano fu accusato di plagio anche dal giornalista Alket Aliu, direttore del settimanale Investigim, che  lanciò  pesanti accuse allo scrittore italiano, proprio all’interno del suo editoriale, asserendo: “Saviano riconosce il diritto d’autore solo quando si tratta di firmare contratti milionari con aziende di Berlusconi. Mentre il diritto d’autore non si applica ai giornalisti albanesi”. Aggiunge ancora: “Le imprecisioni sono molte e sono conseguenza della tipica arroganza di chi pensa di saper tutto e parla di tutto ed è stato raccomandato per prendere in giro spudoratamente gli albanesi. E’ un insulto al giornalismo e agli albanesi. Se c’è un modo per fare soldi è parlando della mafia, Saviano lo ha trovato. Conviene non solo a lui, ma anche a chi paga questo spettacolo, chi vuole spostare l’attenzione sulla criminalità di strada, sulla mafia di basso profilo, mentre la vera mafia passa attraverso le banche”. (Imola Oggi)

Gomorra, Saviano condannato per diffamazione nei confronti di Boccolato. Gomorra, confermata condanna per diffamazione a Roberto Saviano. Confermata una condanna per diffamazione a Roberto Saviano. Il risarcimento da versare è di 30mila euro. C’è infatti una persona che si sente diffamata da Gomorra, il best seller di Saviano. Si tratta di Vincenzo Boccolato, al quale nel libro veniva attribuita l’appartenenza al Clan camorristico dei La Torre e con questi coinvolto, “con un ruolo non marginale, in relazione al traffico internazionale di cocaina”. Gli avvocati Santoro e Salvigni difensori del signor Vicenzo Boccolato comunicano che con sentenza n 1977/14 del 28-05-2014 la II sezione civile della Corte d’Appello di Milano, presieduta dal dr. De Ruggiero Luigi, relatrice la dott.ssa Interlandi Caterina, ha confermato la sentenza di condanna per diffamazione di Roberto Saviano, in solido con la Mondadori S.p.A. in danno del signor Vincenzo Boccolato, nel celebre libro “Gomorra”. Come scrive nottecriminale: La sentenza della I sezione civile del Tribunale di Milano aveva accertato sussistere la portata lesiva per la reputazione e l’onore di Vincenzo Boccolato per quanto scritto dal Saviano nel capitolo “Aberdeen Mondragone”, nel quale veniva attribuita al signor Vincenzo Boccolato l’appartenenza al Clan camorristico dei La Torre e con questi coinvolto, “con un ruolo non marginale, in relazione al traffico internazionale di cocaina”.I legali poi aggiungono: In realtà il signor Vincenzo Boccolato che vive da diversi anni in Venezuela, risulta incensurato e soprattutto estraneo a qualsiasi attività camorristica. L’avv. Alessandro Santoro, difensore del signor Vincenzo Boccolato, preso atto che Saviano e la Mondadori, noncuranti delle due sentenze di condanna già intervenute, reiterano la diffamazione del signor Vincenzo Boccolato attraverso continue ristampe del celebre libro “Gomorra”, senza provvedere alla cancellazione delle frasi “accertate come diffamatorie” dal Tribunale di Milano il 28.10.13 e confermate dalla Corte di Appello e, senza neanche citare nelle ristampe la sentenza di condanna per diffamazione già intervenuta, se non altro per una più puntuale informazione “della verità” per i nuovi lettori, rende noto di aver ricevuto regolare mandato per chiedere un nuovo risarcimento dei danni subiti e subendi per la reiterata diffamazione in danno di Vincenzo Boccolato (today.it)

Un’altra condanna per Saviano, stavolta per diffamazione in Gomorra. Lo scrittore Roberto Saviano è stato condannato per diffamazione a risarcire con 30mila euro una persona citata nel suo best seller Gomorra. Lo ha deciso il Tribunale di Milano al termine di una causa civile intentata da Enzo Boccolato, assistito dall’avvocato Alessandro Santoro. Il giudice della prima sezione civile, Orietta Miccichè, ha infatti «accertato – come si legge nel dispositivo della sentenza – il contenuto diffamatorio in danno di Enzo Boccolato della frase contenuta a pagina 291 del libro intitolato Gomorra», nella parte in cui «l’autore prospetta che Enzo Boccolato insieme ad Antonio La Torre si preparavano anche a tessere una grande rete di traffico di cocaina». Il giudice ha quindi condannato «Saviano e Arnoldo Mondadori Editore Spa (editore del libro, ndr) in via tra loro solidale al risarcimento del danno subito da Enzo Boccolato e a corrispondergli la somma di 30mila euro». Il giudice ha anche ordinato «la pubblicazione dell’intestazione e del dispositivo della presente sentenza a cura e spese dei convenuti una volta a caratteri doppi del normale sul quotidiano La Repubblica entro 30 giorni della notifica in forma esecutiva della presente sentenza». A carico dei «convenuti» anche le spese legali del procedimento. «Nel libro Gomorra Saviano – ha spiegato l’avvocato Santoro – aveva infatti descritto il Boccolato, che è incensurato e che da vari anni vive in Venezuela conducendo una florida attività nel campo ittico e del tutto estraneo ad ogni attività camorristica, come collegato ai La Torre in relazione al traffico internazionale di cocaina, sostenendo che questo, unitamente ai La Torre si preparava anche a tessere una grande rete di traffico di cocaina».

Ecc…ecc…ecc…

San Roberto dalla Campania. Note sulla fenomenologia di un eroe contemporaneo. La costruzione mediatica del personaggio ero’ Roberto Saviano di Davide Pinardi(Paginauno n. 16, febbraio - marzo 2010). Lo sguardo è penetrante, l’espressione sofferta. È chiaro, con la vita che fa, con quella scorta che ha tolto ogni rifugio alla sua esistenza, che gli impedisce il nido di una casa, il calore di una famiglia...L’estetica fotografica con la quale viene ritratto è barocca e sempre uguale: il volto ha tratti caravaggeschi ed è illuminato da una luce che giunge da lontano, che sottolinea la barba lunga, soffertamente impegnata, del nostro eroe e gli dà rilievo nel mezzo di un oceano di ombre. Sì, lui è il Cavaliere della Bellezza – illuminato da una Grazia superiore – che lotta contro il buio del Male. Il suo sito internet è ricco, ben curato, con versioni in tedesco, francese, inglese e spagnolo. La sua agenzia editoriale è la più alla moda del Paese. Ma tutto ciò è necessario: Roberto Saviano – di lui stiamo parlando – non è più un personaggio di cronaca locale ma un fenomeno globale, un vero protagonista del nostro tempo, e rappresenta la storia edificante ed esemplare di un giovanotto che, pur nato nell’infame, immonda, zozza provincia campana, sa levarsi animato da una superiore caratura etica, sa riscattarsi con le proprie forze dalle colpe della sua terra, sa ergersi a coscienza etica del mondo...Giovanni Di Lorenzo, il direttore del settimanale tedesco Die Zeit, nella sua laudatio per il premio Fratelli Scholl – assegnato nel 2007 ad Anna Politkovskaja, senza scorta e assassinata – sostiene che “al momento non c’è nessuno in Italia con una storia che mi commuova e mi indigni quanto quella di Roberto Saviano. […] Si ritrova, lui che ha ancora trent’anni, a portare due fardelli, di quelli che uno solo basterebbe a schiacciare un uomo”. Pur avendo nome e cognome italiano, il direttore conosce poco e soprattutto male il nostro Paese. In poche ore trascorse non nei salotti ma per le strade, il bravo giornalista potrebbe raccogliere mille e mille storie italiane molto più commoventi e degne di indignazione. Storie di persone con fardelli che schiaccerebbero non uno ma cento uomini. Storie di extracomunitari annegati, di rom perseguitati, di piccoli commercianti taglieggiati, di precari disperati, di prostitute massacrate, di detenuti dimenticati...Storie di poveretti infelici, microscopici e sfigati, che, purtroppo per loro, non sono sostenuti dalla più grande industria editoriale nazionale di proprietà del capo di governo, non sono idolatrati da grandi giornali di opposizione (opposizione?), non sono ospitati sulle reti pubbliche in prima serata da trasmissioni nazionali e portati in scena con complesse scenografie teatrali. Roberto Saviano dice di odiare il suo libro Gomorra perché (se anche lo ha reso ricco) gli ha rovinato la vita: “Lo detesto. Quando lo vedo nella vetrina di una libreria guardo subito dall’altra parte”. C’è da domandarsi quanti siano i testimoni in processi al crimine organizzato che odiano il giorno in cui hanno accettato di denunciare ed esporsi, in cui hanno dovuto cambiare nome, sparire dalla circolazione, abbandonare luoghi, radici, parenti e amicizie: e che non ricevono né plausi, né nobili inviti, né ammirazione (quasi) generale ma si ritrovano invece nella solitudine (e nella povertà). Saviano è amato da quasi tutti. Va bene come merce da esportazione: ‘ah, meno male che c’è anche un’Italia pulita...’; va bene all’opposizione ufficiale, che supplisce alla propria inesistenza (o connivenza) politica con il plauso ebete alle icone comiche, culturali e televisive (con le quali bisognerebbe solidarizzare perché perseguitate dal Presidente/Imperatore); va bene a coloro che, con un click telematico al giorno a favore di testi di cui forse non capiscono bene il senso, si sentono sinceramente convinti di contribuire a migliorare il Paese; va bene alla fondazione FareFuturo che lo trova “un grande pensatore di destra”; va bene perfino ai leghisti, perché si erge come l’esule schifato di una cultura meridionale corrotta e inetta (purché non dica che Milano è una città del Sud!). Va bene infine a chi è al governo, perché esprime un’alata testimonianza ‘di coscienza’ che vola alta, altissima, e non si abbassa mai a una concreta contrapposizione ai veri rapporti di potere – dopo l’appello lanciato su Repubblica contro la legge sul processo breve, il ministro Bondi affettuosamente lo invita a “non abbandonare il suo impegno civile e culturale tanto più limpido e ascoltato quanto più alieno da pregiudizi ideologici”; Saviano risponde ringraziando, apprezzando “il tono rispettoso e dialogante”, affermando che “certe questioni non possono né devono essere considerate appannaggio di una parte politica” e che “schierarsi non significa ideologicamente”.  Bisogna riconoscerlo, Saviano sa scegliere con cura le cause per le quali ergersi commosso: apertamente a favore di quelle potenzialmente molto ‘popolari’, sparisce in un silenzio di tomba rispetto a quelle impopolari (simile in questo all’altro pezzo di quarzo Nanni Moretti, che si indigna soltanto quando sta per uscire un suo film da ‘promozionare’). Saviano con caschetto da pompiere e molto ben accolto dalla Protezione civile denuncia le vergogne collegate al terremoto in Abruzzo: chi può non essere d’accordo? (Anche se poi si fa prendere la mano e aggiunge generiche considerazioni sulla presenza storica della mafia in quella regione che lasciano basiti molti abruzzesi: tutti conniventi con la criminalità organizzata?) Qualcuno l’ha sentito invece in occasione del quasi pogrom contro i rom di Ponticelli? Qualcuno lo ha sentito dire che lo sfruttamento neo-schiavista degli extracomunitari è dovuto a un sistema economico che in Italia è fisiologico e non patologico? Qualcuno lo ha sentito denunciare la tragedia del precariato? Preferisce una puntatina a Barcellona per una toccante intervista al calciatore Lionel Messi, Pallone d’Oro 2009...In televisione cita Varlam Salamov e Ken Saro-Wiwa (e si legittima implicitamente come eroico ‘scrittore civile’). Piccolo particolare: Varlam Salamov ha fatto diciotto anni di gulag sotto Stalin, Saro-Wiwa è stato impiccato in Nigeria dopo un processo farsa. Nessuno di loro ha avuto la scorta dal ministero degli Interni. Settimane fa il comune di Milano – tra Ambrogini d’oro che premiano Marina Berlusconi e i nuclei di vigili che danno la caccia ai clandestini (si badi, gente che viene presa a caso sui tram e messa in gabbia senza aver commesso alcun reato) – ha votato all’unanimità per offrirgli la cittadinanza onoraria: l’offerta non è stata respinta con sdegno. Pochi criticano Saviano. L’ha fatto Vittorio Pisani, capo della Squadra mobile di Napoli, che afferma di aver dato parere negativo alla concessione allo scrittore della scorta: “Ho arrestato centinaia di delinquenti. Ho scritto, testimoniato e giro per la città con mia moglie e con i miei figli senza scorta. Non sono mai stato minacciato. […] Resto perplesso quando vedo scortate persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, carabinieri, magistrati e giornalisti che combattono la Camorra da anni”. L’ha osato fare anche Nicola Tanzi, segretario generale del Sap, Sindacato autonomo di polizia: Saviano “non è un eroe, al contrario dei poliziotti che stanno tutti i giorni in prima linea sul campo. […] La lotta alla Camorra non si fa col varietà, con le luci abbaglianti degli studi televisivi e le paillettes di prima serata, né l’impegno antimafia ha bisogno di showman. La vera lotta si svolge in trincea ed è sostenuta giorno per giorno da migliaia di poliziotti e di appartenenti alle forze dell’ordine che sul campo contrastano il crimine organizzato”. Qualcuno ha avuto dei dubbi davanti a queste dichiarazioni? Neanche per sogno. In compenso i due poliziotti sono stati quasi additati come complici, più o meno coscienti, della Camorra. Saviano ha denunciato di sentire l’inizio di un abbandono, di un isolamento, di uno sgretolarsi di quella compattezza istituzionale e civile che fino ad allora l’aveva protetto, ricordando che Peppino Impastato, Giuseppe Fava e Giancarlo Siani “hanno pagato con la vita la loro solitudine”; subito si sono mossi opinione pubblica, giornali, capo della Polizia...Ma se Saviano è così spaventosamente pericoloso, per la Camorra, perché questa – impossibilitata dalla scorta a colpire lui – non minaccia il presentatore Fabio Fazio, l’indifesa agenzia letteraria, il regista Matteo Garrone (che, anzi, ha avuto via libera per tutte le riprese a Scampia), l’ufficio commerciale di Mondadori, le librerie che espongono il suo libro, eccetera? Perché non minaccia le redazioni di Repubblica e de L’Espresso che pubblicano i suoi preziosi articoli? Perché non intimidisce chi lo propone come candidato alla presidenza della Regione Campania? Quando lui cercava casa a Napoli (al Vomero, il quartiere bene della città), dopo aver visto sei appartamenti (alcuni dei quali non andavano bene a lui...) ne ha scelto uno che però gli sarebbe stato rifiutato dalla proprietaria perché i vicini le avevano detto che “nella via si sarebbe persa la pace”. Saviano, indignato per il rifiuto, avrebbe interrotto la ricerca dichiarando di voler espatriare, andarsene via per sempre. Non l’ha fatto. Ma intanto era subito scattata una grande solidarietà nei suoi confronti. Gennaro Capodanno, presidente del Comitato valori collinari di Napoli, si era dichiarato amareggiato e deluso offrendosi per una collaborazione alla ricerca di una casa se Saviano avesse cambiato idea. Il sindaco di Giffoni Valle Piana aveva offerto a titolo gratuito un antico casale ristrutturato, immerso tra gli ulivi secolari del borgo medioevale di Terravecchia e di proprietà del comune, “da cui si gode il paesaggio mozzafiato e il castello federiciano. Siamo certi che in quest’oasi di pace e tranquillità Saviano ritroverà nuovi stimoli per poterci consegnare altri capolavori. Lo invitiamo, pertanto, fin da ora a partecipare alla prossima edizione del Giffoni Film Festival...”. E la Camorra a loro non dice niente? Ma che cosa possono pensare i tanti senzacasa napoletani, o quelli che soltanto con abusi edilizi si sono messi un tetto sulla testa? Loro sono gli infami, gli zozzi, gli ignoranti. Loro non meritano una casa regolare. Tanto più un casale gratis, un’oasi di pace... no. Loro meritano l’Inferno in cui vivono. Il caso di Saviano – a mio avviso – è esemplare dell’ipocrisia di quest’epoca, dei suoi precipitosi innamoramenti mediatici, della sua incapacità di analizzare senza schemi precostituiti, della sistematica mancanza di approfondimento critico in tanti operatori dell’informazione, della rapidità nella costruzione di miti ‘facili’ per distrarre dai veri tragici disastri politici, sociali ed economici del presente.

Roberto Saviano e la produzione del sapere ai tempi del consumismo di Walter G. Pozzi(2 luglio 2010, poi pubblicato su Paginauno n. 19, ottobre - novembre 2010). Come ricorda un vecchio adagio, è sempre meglio lasciar stare i santi. Di quanto ciò sia vero ha avuto modo di accorgersene chiunque abbia tentato di sollevare dubbi sulla veracità della figura mediatica di Roberto Saviano, per veracità intendendo i molteplici aspetti, le mille ambiguità inevitabilmente nascoste dietro un successo planetario come quello dello scrittore napoletano. Il sociologo Alessandro Dal Lago ne ha affrontato in un saggio – piuttosto claudicante quando entra nel merito dell’analisi di Gomorra (come documentato dalla redazione di Carmilla) – la funzione sociale e politica. Su PaginaUno Davide Pinardi ha criticato la sapiente oculatezza con la quale sembra scegliersi le cause da sposare – solo quelle potenzialmente molto popolari – e ha sollevato alcuni dubbi sin dalla radice del meccanismo creativo del personaggio Saviano. Si è chiesto come mai la minaccia non si sia mai estesa oltre lo scrittore, allargandosi a coloro che gli garantiscono visibilità come la redazione di Repubblica o il presentatore Fabio Fazio; come mai nemmeno un mattone sia stato lanciato contro la vetrina di una libreria napoletana che ne espone i libri. Marco Clementi, dal sito della casa editrice Odradek (che ha aperto una piattaforma di discussione), si è spinto anche oltre, entrando nel merito dei suoi testi e delle sue parole, sollevando dubbi sull’attendibilità di alcune affermazioni. Come era prevedibile, tuttavia, il dibattito sulla funzione politica e culturale che la società ha finito per riconoscere a Saviano – investitura a cui egli non si è sottratto – ha immediatamente incontrato un forte contraddittorio, non sempre impostato sulla confutazione degli argomenti, nella ferrea pretesa che ogni critica mossa a Saviano altro non possa essere che uno sterile bizantinismo. Naturale che la polemica finisse per arenarsi trasformandosi in una sorta di aut aut – tra chi è pro e chi è contro Saviano – inevitabilmente mettendo fuori fuoco un problema, tipicamente moderno, che da una trentina d’anni costringe la letteratura, e la narrativa in particolare, a una drammatica impasse. Un problema che coinvolge profondamente la cultura e la sua impotenza di fronte a quel complesso di forze, strumento invisibile manovrato dal potere, che Horkheimer e Adorno definivano industria culturale. Parlare di Saviano in termini critici, quindi, può servire a patto di assumerlo come esempio di una realtà più ampia. Anche perché resta difficile stabilire la colpa di un individuo che perde il controllo della propria immagine nel momento in cui entra a far parte del polifonico e fagocitatorio sistema mediatico, diventando una star; sia che ciò avvenga per la difficoltà di sottrarsene, sia perché il successo è un giochino che premia i suoi prescelti ripagandoli abbondantemente, lasciando al beneficato l’illusione (che si trasforma in un facile alibi) che comunque le idee e i concetti siano in grado di mantenere una loro purezza, malgrado il medium; che il messaggio arrivi pulito così come magari era partito. A questa stregua, se c’è qualcosa che si possa imputare a Saviano, è il fatto di esserci cascato, permettendo al sistema di trasformarlo, a lungo andare, in un simbolo vuoto, condannato a reiterare un se stesso sempre più simile a un qualunque prodotto di consumo da grande distribuzione. Strumento di compensazione del malcontento sociale, fino a diventare addirittura utile al potere. Di quanto complicato sia il rapporto moderno che inevitabilmente lega la produzione del sapere e il sistema consumistico aveva parlato anche Pier Paolo Pasolini agli inizi degli anni Settanta: “La televisione è un medium di massa e come tale non può che mercificarci e alienarci”. Aveva compreso, Pasolini, che per capire una società occorre capire quali merci vengono prodotte e come vengono distribuite. Nel caso specifico, la merce non è il pensiero di Saviano, bensì Saviano stesso con tutto il portato emotivo che la sua storia è ormai in grado di evocare. Storia di martire, quindi di santo virtuale. Intorno a Saviano girano ormai molti soldi, e sebbene sia sbagliato contestargli i lauti compensi, il suo essere per il sistema una gallina dalle uova d’oro rende, per ragioni che di seguito vedremo, inevitabilmente ambiguo ogni suo intervento in scena. Troppo stretta la commistione tra la struttura etica e morale dei suoi discorsi e la moneta che circola intorno alle sue parole e alla sua presenza. Il dubbio, insomma, che, per qualcuno, più di affari si tratti che non di alti valori, inevitabilmente sorge. E dato che gli esempi valgono più di mille parole – a dimostrazione di come il potere fagociti la cultura per trasformarla in merce, disinnescandone i contenuti – può essere interessante rivisitare la querelle tra lo scrittore e il suo editore Berlusconi dello scorso 16 aprile, venerdì. Una polemica che ha occupato le pagine di Repubblica per quattro giorni. La bomba esplode nella sala stampa di palazzo Chigi, quando Berlusconi rilancia un evergreen del suo vasto repertorio, secondo cui la mafia avrebbe goduto di “un supporto promozionale che l’ha portata a essere un fattore di giudizio molto negativo per il nostro Paese. Ricordiamoci le otto serie della Piovra, programmate dalle televisioni di centosessanta Paesi nel mondo, e tutto il resto, tutta la letteratura, il supporto culturale, Gomorra e tutto il resto”. Un sempreverde che contiene, però, una novità: per la prima volta include Gomorra tra le opere nefaste per l’italianità all’estero. Un’aggiunta che riguarda da vicino la questione affrontata in queste righe. Infatti, la prima cosa che colpisce, da parte del presidente del Consiglio, è l’innocenza: come se egli nulla avesse a che fare con il marchio Mondadori, quello che a Saviano garantisce asilo letterario e che a fine marzo, proprio poco tempo prima della zuffa verbale, ha pubblicato – edizioni Einaudi, sempre Berlusconi quindi – la nuova fatica dello scrittore napoletano: una bella confezione libro + dvd. Una stupidata? Una gaffe? Forse è qualcosa di molto peggio e di più grave, che potrebbe non riguardare solo lui. Alle parole del premier, com’era da attendersi, apriti cielo. Saviano si indigna e sabato 17 prontamente ribatte dalle pagine di Repubblica. Seguendo il filo dei suoi argomenti, ricorda le vittime di mafia, quanto sia importante denunciare (e qui cita la sua ultima opera appena uscita per Einaudi…) ed esterna il dubbio se per lui valga ancora la pena pubblicare con la casa editrice del presidente del Consiglio. Parole bellissime, importanti e cariche di pathos, capaci di smuovere la sensibilità di altri scrittori, da Starnone giù giù fino all’innocuo Ammaniti, qui e là su stampa varia. Dimostrando grande fiuto (cos’altro?) e disobbedendo ai dettami suggeriti il giorno prima dal loro datore di lavoro, gli addetti al marketing del gruppo Mondadori rincarano la dose e comprano sulla prima pagina di Repubblica – con cui lo scrittore collabora attivamente – lo spazio pubblicitario più costoso, per picchiarvi impunemente la pubblicità dell’ultimo nato di Saviano. Nel frattempo, recitato il proprio ruolo di battitore, Berlusconi esce di scena con stile e lascia spazio alla figlia, che della Mondadori è ufficiale responsabile. Il giorno seguente, domenica 18, gli uomini della Mondadori raddoppiano la puntata, e comprano spazi per pubblicizzare Gomorra sia sulla prima pagina di Repubblica che su quella del Corsera, dimostrando quanto il loro araldo sia sempre un buon affare. Ancora una volta l’ufficio marketing di Segrate dimostra doti di lungimiranza se non di preveggenza. Come poteva sapere che il proprio presidente Marina Berlusconi avrebbe scritto, in risposta a Saviano, una lettera in difesa del padre e della libertà di critica che sempre Mondadori ha riconosciuto ai propri scrittori? E anche considerando che gli uffici di una casa editrice non sono compartimenti stagni, come potevano sapere a Segrate che Saviano avrebbe risposto nella stessa pagina lo stesso giorno, approfittando della disponibilità di Repubblica (ideologicamente coinvolta dall’importanza degli alti valori in gioco), per ribadire il proprio ruolo di difensore della libertà? A rinforzare il sospetto di stare assistendo a una farsa, più che a un dibattito sulla libertà di opinione (in cui ognuno afferma di essere un campione di democrazia), intervengono i tempi tecnici per prenotare uno spazio pubblicitario in prima pagina. La Manzoni, agenzia pubblicitaria a cui si affida il gruppo L’Espresso, apre le prenotazioni degli spazi pubblicitari nel periodo di novembre/dicembre dell’anno precedente. In prima pagina il box a disposizione riservato alla pubblicità culturale (scusate l’ossimoro) è uno solo e occorre precipitarsi ad acquistarlo con largo anticipo. Ora: pur ammettendo che una grande azienda come il Gruppo Mondadori sia solita prenotare un buon numero di spazi per poi riempirli a seconda delle esigenze e delle occasioni, occorre riconoscere l’immensa fortuna degli uomini marketing di Segrate, nonché immaginare la loro gioia insperata, nel momento in cui hanno sentito alla televisione il loro padrone in pectore attaccare Saviano proprio in coincidenza della campagna pubblicitaria dell'ultimo libro dello scrittore. Ancora di più quando si sono accorti che Repubblica aveva deciso di seguire passo dopo passo l’intera polemica lanciata da Berlusconi contro il loro autore (sì, autore un po’ dell’uno e un po’ dell’altro); compreso il carteggio tra lui e Marina Berlusconi. La statura morale di Saviano impone di pensare che egli fosse all’oscuro di tutto, e di ammirare piuttosto il suo impegno nel momento in cui, con grande velocità si è messo sotto a rispondere a Marina, con il poco tempo rimastogli dal momento dell’arrivo della lettera del suo editore a Repubblica, della decisione dei redattori di Repubblica di girargliela, e l’ora di chiusura del giornale. A meno che Marina non sia stata così premurosa da inserire lo scrittore direttamente in copia nella sua mail indirizzata alla redazione del quotidiano diretto da Ezio Mauro. E se anche si fosse trattato di semplice marketing – il che naturalmente non è, visti gli alti contenuti – bisognerebbe rendere onore anche alla formidabile larghezza di vedute del nostro premier, nonché alla sua natura di uomo profondamente liberale, nel momento in cui, pur di permettere a uno dei maggiori scrittori della sua scuderia di lanciare un importante appello ai valori democratici, addirittura accetta di figurare come bersaglio ideale dell’attacco, mosso proprio dalle pagine dell’odiato quotidiano, suo più feroce oppositore politico. Questo detto, ça va sans dire, senza voler mettere in dubbio nemmeno la buona fede di Repubblica, il cui palcoscenico è talmente ampio e liberale da ospitare, il giorno dopo ancora, lunedì 19, il direttore generale Libri Trade Mondadori, Ricky Cavallero, pronto a chiedere a Saviano di non lasciare una casa editrice che sempre gli ha garantito supporto e riconosciuto grande libertà di espressione; e contemporaneamente conservare un angolino libero per lo scrittore Sebastiano Vassalli, uno dei pochi di vero valore del panorama italiano. Non sfugge tuttavia la coincidenza, non essendo, il suddetto, figura usa a venir chiamata su giornali e televisioni. Scontata e doverosa la difesa di Saviano da parte di uno scrittore tanto importante, un po’ meno la notizia, annunciata dal giornalista, dell’imminente uscita del nuovo romanzo di Vassalli, pubblicato proprio da Einaudi. Quest’esempio potrebbe bastare – il giorno dopo, martedì, leggere l’articolo di Sofri, il più dotto, indurrà quasi a tenerezza, considerato il contesto in cui si va a inserire – ma manca ancora un tocco di classe. E il colpo di tacco, puntuale, persino beffardo, arriva con un corposo articolo al centro della pagina che ricorda il gran numero di mail, arrivate dai fan di Saviano, i quali non hanno mancato di dimostragli tutto il loro affetto. Al punto che, ricorda l’estensore del testo, le vendite dei suoi libri negli ultimi tre giorni sono sensibilmente aumentate. E infatti (secondo i dati forniti dall’inserto Tuttolibri de La Stampa) il 26 aprile finalmente, sembra niente dirlo, anche l’ultimo parto dello scrittore entra in classifica. Torna alla mente il film di Elio Petri: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Anche quando l’assassino si toglie la maschera e si rivela, nessuno ha interesse a riconoscerlo.

Semel in anno savianico licet insanire. Narrazione savianica: tra fatti, informazioni, verità e verosimiglianza, tra costruzione del senso e descrizione pornografica della società di Massimiliano Monaco (Paginauno n. 22, aprile - maggio 2011). Accidenti, ieri un elicottero dell’esercito, parcheggiato dentro il parco, lo ha inquinato mezzo facendo ruotare le sue pale per diversi minuti, e le mie per molto di più, prima di tornare da dove era venuto. Per fortuna stavo correndo e sono scappato nella metà libera dai fumi. Una volta lì però mi sono dovuto rassegnare all’evidenza olfattiva che nel frattempo mi ha raggiunto e ho deciso di prendere la via verso casa, dove mi stavano aspettando il mio cane e i suoi bisogni. Cosa stessi facendo prima di prendere quella decisione è chiaro soltanto in parte, sì stavo correndo, scappando, ma soprattutto pensando a questo articolo, confermo scappando, già iniziato, la cui sostanza era smangiucchiata qua e là. Molte pretese, poca sostanza. Il pensiero era, ed è, su come affrontare il savianesimo provando a liberarmi dal pregiudizio che Saviano sia un santo, e del conseguente senso di colpa per averlo pensato. Ahimè non sono un suo ammiratore, men che meno di chi lo santifica, ma non sono nemmeno un ammiratore di chi lo impallina con motivazioni che definisco del sospetto, delle quali però condivido la sostanza degli argomenti che utilizzano. Insomma un pasticcio principalmente emotivo dal quale non è semplice venire fuori. Come dice qualcuno di cui non ricordo il nome, anche il cuore ha i suoi pregiudizi, e il mio ne è zeppo. A complicare la situazione ci sono stati gli straordinari interventi di Benigni e Abbado alla trasmissione Vieni via con me, dopo i quali è diventato ancora più difficile accettare di avere un pensiero, seppur piccolo, non pro Saviano. Lemme lemme dico le cose che mi sono rimaste impresse di Vieni via con me: il grande sforzo di Abbado, Benigni che da del tu a Sandokan mentre Saviano, valletto muto, non è in grado di rompere la timidezza per cantare la sua terra e si esprime solo grazie alla retorica non essendo all’altezza del ruolo di narratore (lo dico alla faccia del lemme lemme e di quel ragazzo che potrebbe imparare qualcosa da Minoli), inoltre il rifiuto di Benigni a rimanere sul palco, credo consapevolmente, mentre Fazio farà l’ennesima uscita sentimental popolare, e infine una performance di teatro danza magistrale quanto la regia televisiva che ne è stata fatta. A margine di questo c’è l’establishment politico, di entrambe le parti, che alimenta la mitologia attraverso la moderna figura dell’eroe, sostituendo la fede laica a quella religiosa, c’è chi, tra i comuni mortali, altresì detti popolo, che pensa a Saviano come una vittima del sistema della comunicazione, sfruttato e sovraesposto, e per finire un articolo di Aldo Grasso, il quale, paternalisticamente, cerca di non stroncare il fenomeno sociale Saviano, aggrappandosi al fatto che, tutto sommato, i contenuti del programma sono stati buoni rispetto alla media della televisione italiana. Penso che al peggio del berlusconismo non ci sia fine e non mi butto giù dalla finestra soltanto perché voglio finire questo articolo, poi vedremo. A conti fatti i fatti sono ciò che conta e quando si vuole raccontare un accadimento si usa raccogliere le informazioni che lo riguardano, la somma delle quali descrive ciò che è accaduto. Senza nemmeno accorgermi sono passato dai fatti alle informazioni che, normalmente, chiamiamo fatti, ma che fatti non sono perché le informazioni, relative a un fatto, non sono il fatto in sé, bensì la sua rappresentazione. Se questo è vero allora implicitamente è vero anche che esiste una distanza tra ciò che accade, il fatto, e gli elementi di narrazione di un accadimento, le informazioni, che a loro volta sono un insieme di dettagli. La distanza tra un accadimento e la sua narrazione non è solo evidente di per sé, se non altro per una questione temporale, ma è anche qualcosa che si amplifica insinuandosi tra i dettagli e tra gli elementi del racconto stesso. Infatti, nel riportare un fatto, cerchiamo di ridurre questa distanza utilizzando l’elenco, presunto strumento di imparzialità, di ciò che lo compone, per poter restituire a un potenziale lettore il quadro di quanto è realmente accaduto. Al posto di quello che sto per dire prima c’era un pezzo molto più lungo e noioso sulla relazione tra accadimento, soggetto e racconto, dettagli, elementi e il loro ordine o la costruzione sfruttando la distanza fra questi, che vi risparmio perché non ho la pretesa di svolgere un compitino logico ma dinamico, quindi salto alla battuta finale: questione di difetti dei fatti. Difatti, siccome ne sto parlando nella dimensione del racconto, usare la parola fatti è inappropriato quanto comune. A questo punto chiamo a testimoniare le parole descrivere ed elencare chiedendogli che senso abbiano in ambito letterario se utilizzate con uno stile cronistico o simil tale? Penso per esempio alla Divina Commedia di Dante che inizia dicendo (Canto I): “Ahi quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura!”. Come a dire, sì questa selva esiste perché altrimenti non potrei dire che è selvaggia, aspra e dura, ma attenzione a voler passare per fessi dandone una spiegazione oggettiva, quanto a dir qual era è cosa dura. Eppoi: “Tant’è amara che poco è più morte; / ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte”. Per trattare il bene che ho trovato devo parlare di altro, delle cose che ho scorto, e aggiungo che Dante ancora una volta rifugge una posizione assolutistica sapendo che scorgere significa distinguere con l’occhio o con la mente e in questo caso sono i suoi. “Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, / tant’era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai”. La verace via abbandonai, verace da vero significa che ha in sé verità, che è fonte di verità o meglio che è in realtà ciò che si afferma quindi non falso, non immaginario, non ingannevole. Come è possibile che voglia essere preso sul serio e allo stesso tempo abbandona la verace via? Da non studioso di Dante azzardo che significa non farò il cronista, non collezionerò fatti, tanto che questa opera è una macro allegoria fatta da sciami di metafore come dice Sermonti, e quindi non vi so dire, o vi dico che non vi so dire, come ci sono entrato. Proseguendo (Canto II): “Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno / toglieva li animali che sono in terra / da le fatiche loro; e io sol uno / m’apparecchiava a sostener la guerra / sì del cammino e sì del la pietate / che ritrarrà la mente che non erra”. Apparecchiato, preparato a sostener la guerra che ritrarrà la mente che non erra, e dove va la sua? Dove vuole andare? Intanto, subito a chiamare aiuto: “O muse, o alto ingegno, or m’aiutate” perché riportare ciò che ha visto non basta per esprimere quello che vorrebbe; “o mente che scrivesti ciò ch’io vidi, / qui si parrà la tua nobilitate”. E in fine: “Sì che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso” perché come per camminare ci vuole sia un piede sulla terra che uno per aria, così anche per creare un’opera, ed è fondamentale che il piede a terra regga quello in alto. Credo che la descrizione di un personaggio sia una cosa estremamente complessa perché per funzionare non deve avere solo una relazione intima con il personaggio ma più ancora con il mondo. Di Quinn, personaggio scritto da Paul Auster, sappiamo che “non serve dilungarsi su di lui. Chi fosse, da dove venisse e cosa facesse non ha molta importanza”. Come se nel suo tempo non esistesse una verità comune a tutti in grado di cristallizzarlo ma “sappiamo, per esempio che aveva trentacinque anni”, l’età di Dante della Divina Commedia, ma questo è solo un caso, credo; “sappiamo che un tempo era stato sposato, che era stato padre, e che ora la moglie e il figlio erano morti. Sappiamo anche che scriveva dei libri. Per essere esatti, scriveva romanzi gialli”. Sappiamo cose delle quali ne capiremo il senso molto dopo, come Quinn: “Molto tempo dopo, quando fu in grado di pensare a ciò che gli era accaduto, avrebbe concluso che nulla è reale tranne il caso”, e la Trilogia di New York è una raccolta di tre racconti polizieschi, a carattere psicologico, che immediatamente si mette in contatto con le ‘turbe’ mentali di milioni di persone incluse le mie. Quanti fatti reali sono contenuti in questo pezzettino di verità del personaggio? Forse nessuno perché “come la maggior parte della gente, Quinn non sapeva nulla del mondo del crimine. Non aveva mai assassinato nessuno, mai rubato niente, e non conosceva nessuno che lo avesse fatto [...]. Questo per altro non gli sembrava una menomazione. Nelle storie che scriveva, a importargli non era il rapporto con il mondo, ma il rapporto con le altre storie”. E ancora Auster ci dice che scrittore e investigatore sono intercambiabili: “Il lettore vede il mondo con gli occhi dell’investigatore [...]. Si è ridestato alle cose che lo circondano quasi che gli potessero parlare, quasi che, in virtù dell’attenzione che ora riserva loro, assumessero un significato altro dal mero dato della loro esistenza”. Il mero dato che tanto fa per rendere più ricco il resoconto di un fatto di cronaca. Forse qualcuno di quelli nascosti nella figura dell’avaro a partire dal primigenio vecchiaccio di Plauto che Molière travasa in Harpagon contestualizzando un tipo umano nella sua società dove la staticità di una pentola avrebbe detto, della spilorceria, meno di quanto potesse fare la spinta all’accumulo grazie all’usura. Oppure quelli nel personaggio del duca di Guermantes che Proust ci presenta così : “Si, aussi avare que fastueux, il lui refusait le plus léger argent pour des charités, pour le domestiques, il exigeait qu’elle eût les toilettes les plus magnifiques et les plus beaux attelages”. Forse tanti quanti sono gli episodi ne La ca’ dei cani di Tenca, “perché gli episodi sono pur necessari, anzi costituiscono la parte principale di un racconto storico, vi abbiamo introdotto la esecuzione di cento cittadini impiccati sulla pubblica piazza, quella di due frati abbruciati vivi, l’apparizione d’una cometa, tutte descrizioni che valgono per quelle di cento tornei, e che hanno il pregio di sviare più che mai la mente del lettore dal fatto principale”. (Queste sono per altro le righe introduttive dell’ultimo libro di Eco Il cimitero di Praga). Tenca ritiene la storia “primitiva sorgente di vero” e di questo “conservatrice eterna”, non può essere per l’invenzione mero supporto, o camicia di forza, né è lecito “spogliarla, saccheggiarla, rafforzarla”, diventando un puro pretesto di romanzesco (da un testo di Marinella Colummi Camerino). Cos’è la socialità se non un guardarsi l’un l’altro, come la domenica sul sagrato di una chiesa, con un come che in nessun modo può mascherare o inverare l’atto del guardarsi. L’individuo guarda, ricambiato, l’indistinto del mondo prossimo, dentro o fuori di sé, che l’artista, sottoinsieme derivato della categoria individuo, anch’esso guarda e ne descrive le trasparenze. Il lettore, individuo pure lui, guarda e consuma le trasparenze descritte dall’artista trapassato, attraverso la sua finestra, dal mondo dentro o fuori di sé, dell’individuo, e quindi del lettore allo specchio. Le finestre di ciascuno rispecchiano l’individuo anche per un loro stile proprio. Quello più in voga oggi è quello della rappresentazione della realtà attraverso descrizioni di dettagli, una strana forma di anatomia della società. Cercando pornografìa sul portale della Treccani, che esprime tutta se stessa con “il sapere parte da qui”, si ottiene questo risultato: “s. f. [dal fr. pornographie, der. di pornographe ‘pornografo’] – 1. Trattazione o rappresentazione (attraverso scritti, disegni, fotografie, film, spettacoli, ecc.) di soggetti o immagini ritenuti osceni, fatta con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore: fare della p.; è un film che contiene solo p.; una campagna moralizzatrice contro la p.; un’opera in bilico tra raffinato erotismo e triviale pornografia – 2. ant. scritto che riguarda le prostitute o la prostituzione”. Faccio attenzione a “dal fr. pornographie, der. di pornographe ‘pornografo’”. Se la mia conoscenza delle abbreviazioni non mi inganna, ‘der. di’ dovrebbe significare derivato di, quindi quella frase diventa “dal fr. pornographie, derivato di pornographe ‘pornografo’”. A questo punto dantescamente chiedo aiuto alla linguistica secondo la quale derivato significa, sempre Treccani alla mano (per modo di dire), che trae origini da una forma preesistente, e chiedo aiuto alla logica per concludere che se pornographie è derivato di pornographe significa che, nel mondo impalpabile, la sequenzialità temporale tra queste due parole ricade in quello palpabile dove il pornografo è esistito prima della pornografia. Ma se il pornografo è esistito prima della pornografia significa che faceva un’attività diversa da quella di produrre soggetti o immagini con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore. Cosa faceva allora il pornografo prima di fare pornografia? Qui facciamo entrare in gioco ‘ant.’, il significato più lontano nel tempo, secondo il quale anticamente pornografia significava “scritto che riguarda le prostitute o la prostituzione”. Scritto che riguarda le prostitute è un po’ vago, tanto che non si capisce come lo facesse. Ho cercato del materiale a riguardo ma sono stato poco fortunato. Allora mi verrebbe da pensare che se l’intento non fosse quello di stimolare, potrebbe essere stato quello di lasciare documentazione scritta a testimonianza della loro esistenza. Se così fosse, e arrivo alla conclusione di questo breve ragionamento, abbiamo capito che un pornografo è uno scrittore, il cui stile narrativo è descrittivo, oggi si direbbe che parla di fatti e per questo forse è stato una variante specializzata del cronista. “[...] il tessile ha parecchie categorie merceologiche, e basta un tratto di penna sulla bolletta d’accompagnamento per abbattere radicalmente i costi e l’iva” (da Gomorra, Roberto Saviano). L’avessi scritto in un tema al liceo la professoressa mi avrebbe dato due per quanto era puntigliosa quella stronza. È vero che il mondo degli scambi internazionali è fatto di categorie merceologiche, più suggestivo chiamarle voci doganali, secondo le quali è stabilito il valore commerciale della merce e, di conseguenza, gli oneri a esso attribuiti per legge. Non so se sia vero che basta un colpo di penna, e nemmeno che lo si debba fare sulla bolla di accompagnamento, considerando che una pratica doganale vive di fatture, quindi semmai sono queste a dover essere contraffatte per abbattere gli oneri, e quindi eventualmente sfregiate con un colpo di penna, ma colgo il senso generale di quella frase e lo condivido perché è vero che dando alla merce una voce simile ma non uguale si ottengono risultati peggiori che a sbagliare la voce di un doppiatore. Però i dettagli fanno la differenza e a questo proposito va menzionato il fatto che quando parliamo di merci che viaggiano da un capo all’altro del mondo possiamo parlare di meccanismi che stanno sopra le singole voci, trasformando queste ultime in voci di corridoio. Le grandi compagnie di trasporto e sdoganamento, quelle che fanno il door to door per intenderci, beneficiano di due cose; la prima è di avere un ufficio di funzionari statali ospitato all’interno dei propri uffici, capisciammè, e la seconda è una cosa che si chiama procedura semplificata. Cos’è una procedura semplificata? In breve è una procedura grazie alla quale la merce che arriva sul territorio di destinazione può venire consegnata al destinatario finale prima che la documentazione relativa a essa, necessaria per lo sdoganamento, venga presentata ai funzionari. A voi lascio immaginare il resto e il perché una voce doganale diventa una voce di corridoio – per precisione aggiungo che alcuni cambiamenti sulle regole di interscambio dovrebbero aver avuto effetto a partire da gennaio 2011 e che quindi oggi la procedura semplificata potrebbe non esserci più. A questo punto mi chiedo perché sono diventato tanto puntiglioso quanto la mia prof. del liceo. In fondo quella frase di Gomorra probabilmente ci voleva semplicemente dare l’idea della truffa e del suo essere una cosa reale e quotidiana. Ma allora perché usare un registro narrativo di verità se basta poco per scoprire che è soltanto verosimile. Verosimile come tutta la merce avariata che il governo Berlusconi ci propina? ‘ndo sta la differenza tra lui e loro? ‘ndo sta la letteratura che usa i fatti per elevarli a metafora del presente in un romanzo, come Saviano definisce Gomorra, che incipia con pressapochismo su un dettaglio anatomico di scarso interesse per capire il mondo in cui viviamo? Comunque grazie! Saviano, la verità è che sono invidioso nonostante la mia galera sia più dolce della tua.

Impresentat’arm, scrive Filippo Facci su Libero. Gli impresentabili sono: 1) Quelli condannati in giudicato; 2) No, quelli condannati in Appello; 3) No, quelli condannati in primo grado; 4) Basta che siano rinviati a giudizio; 5) Basta che siano indagati; 6) Sono impresentabili anche gli assolti per prescrizione; 7) Anche gli assolti e basta, ma "coinvolti" (segue stralcio di una sentenza); 8) Sono quelli che sarebbero anche gigli di campo, ma sono amici-parenti-sodali di un impresentabile; 9) Sono quelli che, in mancanza d'altro, sono nominati in un'intercettazione anche se priva di rilevanza penale; 10) gli impresentabili sono quelli che i probiviri del partito e lo statuto del partito e il codice etico del partito e il comitato dei garanti (del partito) fanno risultare impresentabili, cioè che non piacciono al segretario; 11) Sono quelli a cui allude vagamente Saviano; 12) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - che i giornali definiscono "nostalgici del Duce, professionisti del voto di scambio in odore di camorra"; 13) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - di cui parlano anche il commissario Cantone e la senatrice Capacchione, e ne parlano pure i candidati che invece si giudicano presentabili, i quali dicono di non votare gli impresentabili; 13) Gli impresentabili sono quelli menzionati da qualche giornale, che però sono diversi da quelli nominati da altri giornali; 14) Sono i voltagabbana; 15) Gli impresentabili sono quelli che sono impresentabili: secondo me.

Un modo diverso di raccontare la mafia, scrive “Il Post”. Giuseppe Rizzo critica su Internazionale il modo in cui giornalisti e magistrati sfruttano la carica emotiva dei fatti di mafia per il proprio tornaconto, raccontando però solo un pezzo della storia. Lo scrittore Giuseppe Rizzo ha pubblicato sul sito di Internazionale un lungo articolo nel quale critica il modo con cui si è discusso di mafia negli ultimi anni, invitando a «raccontare le stragi ma ripetere fino allo sfinimento cosa è successo dopo», cioè quello che lui definisce il “secondo tempo”. Rizzo intende dire che i dati sulle attività della mafia pubblicati negli ultimi anni raccontano una situazione in lento miglioramento. Secondo Rizzo il problema rimane il modo di raccontare le vicende di mafia da parte di alcuni magistrati, politici e giornalisti, che spesso mirano solamente a sfruttarne la forte carica emotiva – innescata da popolari film e libri sulla mafia – per un proprio tornaconto. Scrive Rizzo: «La frase “c’è ancora molto da fare” ha senso solo se si accompagna all’idea che la mafia non ha vinto. […] Non mi piace pensare di aver desiderato il carcere per una persona; l’odio per la mafia non è paragonabile al risentimento per i professionisti dell’antimafia, ma non mi piace pensare di aver creduto ai teoremi sulle trattative tra stato e mafia».

La Sicilia è una guerra in due atti di Giuseppe Rizzo, giornalista di Internazionale. Mi è capitato di stare dalla parte sbagliata. In Sicilia significa che ho conosciuto e frequentato gente che poi è stata arrestata per associazione di stampo mafioso. Con alcune di queste persone ho avuto rapporti diretti, con altre ci siamo incrociate, con altre ancora ho legami di parentela. La forza dell’impatto di questi incontri va dall’indifferenza al disastro. Tutto questo mi serve per fare un discorso sulla codardia e la complessità che arriva tra poco, prima devo parlare di Ernest Hemingway e di Francis Scott Fitzgerald. Ernest Hemingway diceva che ogni generazione è segnata da un evento, e che questo evento forma l’immaginario e i racconti di quella generazione, e cioè il modo di vedere e leggere il mondo. Per la sua generazione, spiegava, quell’evento era stato la prima guerra mondiale. Per chi è nato in Sicilia negli anni settanta, o negli ottanta come me, quell’evento è l’esplosione delle bombe che hanno ucciso Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli uomini che scortavano i due giudici. Significativamente, le stragi di Capaci e via d’Amelio entrano nella letteratura italiana in opere pubblicate in questi ultimi cinque anni. Significativamente, tutti gli autori sono nati a Palermo, e nel 1992 avevano dai quattordici ai venti anni. Pif è nato nel 1972 e ci ha girato un film. Alessandro D’Avenia nel 1977, Corrado Fortuna nel 1978 e Davide Enia nel 1974: tutti e tre ci hanno scritto sopra romanzi e racconti. Un racconto di Enia è ripubblicato in questi giorni in La guerra. Una storia siciliana, libro che raccoglie il lavoro del fotografo Tony Gentile tra il 1989 e il 1996 – tutte le immagini di questa pagina sono tratte da quel volume, e non sono che un assaggio di un lavoro onesto e a tratti disarmante. Per come la vedo io, i romanzi e i film di questi autori si legano inconsapevolmente tra loro per dire due cose: che la Sicilia è una guerra; e che, come per gli americani raccontati da Fitzgerald, nella vita dei siciliani sembra non esserci un secondo atto. Quest’ultimo punto finisce per avere conseguenze sull’Italia intera, ma ci arrivo tra un attimo, prima ho bisogno di tornare dalla parte sbagliata. Per me stare dalla parte sbagliata ha significato anche avere conosciuto e frequentato salvatori della patria che si sono poi rivelati abbagli ideologici e fregature straccione. Nello specifico ha voluto dire che mi sono innamorato di progetti civili fallimentari, di promesse di salvezza sceneggiate dalla politica e smontate dalla realtà, di rivoluzioni che al più erano contestazioni quando non teatrini. Ancora più nello specifico tutto questo si è tradotto in tessere di associazioni contro le mafie, entusiasmi per treni e cortei della legalità, litigate in difesa di Rosario Crocetta prima che diventasse governatore dell’isola, crociate affinché Totò Cuffaro fosse sbattuto in galera. Molti dei furori che hanno preceduto queste scelte sono stati degli errori, e un po’ anche certe scelte, anche se in misura differente. Il disprezzo per la politica clientelare di Cuffaro non è niente al confronto della delusione che è seguita all’insignificanza di certa sinistra, ma non mi piace pensare di aver desiderato il carcere per una persona; l’odio per la mafia non è paragonabile al risentimento per i professionisti dell’antimafia, ma non mi piace pensare di aver creduto ai teoremi sulle trattative tra stato e mafia. Julian Barnes in Metroland: “Quando muoiono le teorie? E perché? Dite pure quel che vi pare, ma finiscono eccome, e per la maggior parte di noi. È un unico avvenimento decisivo a ucciderle? Forse per qualcuno. Ma di solito muoiono d’usura, lentamente e sull’onda delle circostanze”. Giovanni Falcone al funerale del giudice Rosario Livatino, 1990. “La foto è davvero spietata: sono tutti soli dentro lo scatto, e questa solitudine senza consolazione spiega più di mille parole il perché della forza della mafia”. (Davide Enia) Tony Gentile, Postcart edizioni. L’onda delle circostanze sulle spiagge siciliane è tutta una risacca di storie che vengono dal passato, e queste storie sono fatte proprie non solo da narratori e registi quarantenni, ma anche da magistrati imprenditori ed eroi dell’antimafia che negli anni si sono trasformati in maestri dell’emergenza. Tutti raccontano il primo tempo siciliano: chi lo fa al cinema o nei romanzi lo fa perché quel primo tempo è ricco degli eventi che l’hanno segnato, appunto; gli altri perché senza non potrebbero giustificare carriere cattedre e palcoscenici. C’è un rischio: il racconto degli anni novanta fatto nei romanzi e nei film usciti di recente carica inconsapevolmente l’arma di cui hanno bisogno i maestri dell’emergenza per tenere sotto scacco l’isola, e con l’isola il paese. Quest’arma è l’emotività, i suoi proiettili sono le emozioni, e rientrano in quello che Giovanni De Luna definisce come “paradigma vittimario”, ovvero quel diffuso bisogno di risarcimento morale provocato dalle stragi. Pif, Enia e gli altri raccontano anni drammatici, in cui magistrati saltavano in aria e giornalisti venivano sparati e bambini erano sciolti nell’acido. Riempiono il campo di emozioni a cui nessuno può sottrarsi: la rabbia, l’amarezza, la paura, lo sconforto, la disperazione. Queste stesse emozioni sono usate e manipolate dai maestri dell’emergenza per farne un ricatto: chi può metterle in discussione senza apparire come un mostro di cinismo che sputa sul cadavere dei morti? È bene che lo dica subito: non c’è alcun legame diretto tra le azioni degli uni e quelle degli altri, non credo che narratori e registi abbiano delle responsabilità nella manipolazione operata dai maestri dell’emergenza. Penso a un cortocircuito casuale. Penso che La mafia uccide solo d’estate di Pif o Un giorno sarai un posto bellissimo di Corrado Fortuna raccontino onestamente non tanto gli anni delle stragi, quanto le teste di alcuni ragazzini negli anni delle stragi. Penso che Ciò che inferno non è di Alessandro D’Avenia e Mio padre non ha mai avuto un cane di Davide Enia facciano i conti con una Palermo che tra gli ottanta e i novanta aveva divorato l’intera Sicilia. Tutte e quattro le opere condividono il medesimo punto di vista: la ferocia della mafia vista dagli occhi di un ragazzino. In tutte e quattro questo ragazzino si confronta con il mondo adulto, che è terrorizzato da cosa nostra quando non colpevole di fiancheggiamento. Questo ragazzino spesso si innamora di una ragazza che lo aiuta a sciogliere il nodo di emozioni che gli spezza il fiato in gola. Queste emozioni spesso emergono dal racconto dettagliato delle morti per mafia: è qui che per me nasce il cortocircuito. Nessuno sano di mente potrebbe mettersi a concionare sull’assassinio di Piersanti Mattarella o sulla strage di Portella della Ginestra, su Falcone Borsellino Fava Impastato Puglisi Dalla Chiesa. Questo primo tempo della recente storia siciliana è una bolla emozionale potentissima. Solo che dentro questa bolla soffiano anche i maestri dell’emergenza, con il loro carico di aliti pesanti. Provo a spiegare meglio chi sono i maestri dell’emergenza. Sono gli eredi dei professionisti dell’antimafia raccontati da Leonardo Sciascia. Sono intellettuali, giornalisti, magistrati e politici che hanno diviso l’isola in due: di là il male e di qua il bene; di là la menzogna e di qua la verità; di là i criminali, i mascariati, i collusi e di qua i giusti, i coraggiosi, noi. Stare dalla parte sbagliata, la provincia e Sciascia mi hanno insegnato il valore del dubbio e riparato dal fascino e dalla paura delle loro condanne. In provincia l’assolutismo è impossibile, perché ci conosciamo tutti e può capitare, come è capitato nel mio piccolo paese in provincia di Agrigento, che una mattina ci si svegli con qualcuno che si conosce o con qualche parente dietro le sbarre. Ma conseguentemente succede anche che ci si possa fare domande del genere: cosa spinge un ragazzo che è cresciuto in una famiglia per bene a chiedere il pizzo? Se arrestano tuo padre, tuo fratello o la persona che ami significa che sei complice, lo sei stato o lo sarai se non lo condanni? Cucire dei bottoni sugli accappatoi perché quelli con la cintura di stoffa in carcere non sono ammessi fa di te un mostro? Se nel tuo paese non si è mai pronunciata la parola mafia vuol dire che sono tutti codardi? I tuoi genitori hanno avuto diritto di avere paura? Per anni mi sono chiesto: posso o non posso scrivere una lettera a X, finito in carcere con l’accusa di omicidio? Ognuno affronta queste domande come sa e può, e arriva a risposte differenti: io ho provato a scrivere quella lettera, e molte notti rotte e molti tentativi: e mi sento un cane per non esserci riuscito, specie dopo l’assoluzione di X. Ma appunto, ognuno ha mille risposte, tutte diverse tranne una, che è uguale per tutti: queste domande i cretini non se le fanno e sono pronti a condannarti per molto meno. Più che la lezione sui professionisti dell’antimafia, di Sciascia mi porto dietro un’altra intuizione, è dentro Nero su nero, fa così: Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi, sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra: ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero soltanto a destra, e perciò l’evento non ha trovato registrazione. Tra non molto, forse, saremo costretti a celebrarne l’Epifania. Ci sono tre storie che aiutano a capire meglio quanto questa epifania abbia raggiunto il suo apice oggi, scavalcando le casacche politiche, e trovando nei maestri dell’emergenza dei rappresentanti cerimoniosi e insidiosi e pericolosi. Le prime due si incrociano e hanno per protagonisti Massimo Ciancimino e Antonio Ingroia. Massimo Ciancimino è il figlio di Vito, ex sindaco di Palermo condannato in via definitiva per associazione mafiosa. Al padre si deve lo sventramento del capoluogo siciliano quando fu assessore ai lavori pubblici del comune: quattromila licenze edilizie rilasciate, 1.600 intestate a tre prestanome, tra cui un venditore di carbone e un fabbro. Al figlio i magistrati di Caltanissetta contestano di aver fornito un documento in cui risulterebbe che l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro sarebbe stato una persona avvicinabile dal padre Vito Ciancimino. Sui giornali per giorni si è anche letto che Vito Ciancimino avrebbe “indicato De Gennaro come personaggio dell’ambiente del signor Franco”. E cioè l’uomo dei servizi segreti che avrebbe avuto un ruolo chiave nella cosiddetta trattativa tra lo stato e la mafia. La quale trattativa è bene riassumere: all’indomani delle condanne inflitte nel maxiprocesso ai boss mafiosi, iniziano stragi e omicidi per convincere la politica che aveva voltato le spalle a Riina a stipulare un nuovo patto di non belligeranza, il cui tramite sarebbe stato Vito Ciancimino. Il figlio è uno dei testimoni chiave del processo e per mesi ogni sua dichiarazione conquista le prime pagine dei giornali. Dà lezioni di antimafia e ispira libri come Il quarto livello di Maurizio Torrealta, con la prefazione firmata da Antonio Ingroia. Il magistrato all’epoca guidava le indagini sulla presunta trattativa, e nel libro Il labirinto degli dèi scriveva: “Dal primo incontro ho capito che Ciancimino jr era fatto di tutt’altra pasta. Tanto il padre era ombroso, tanto il figlio Massimo è gioviale (…) uomo dei media e per i media, nel bene e nel male. E per una metamorfosi mediatica, oggi il figlio di Ciancimino è arrivato a diventare quasi un’icona dell’antimafia”. L’icona dell’antimafia nel 2011 è stata arrestata mentre se ne andava a Saint-Tropez per Pasqua. A rinviarlo a giudizio è stato l’uomo che l’ha definito “quasi un’icona dell’antimafia”. Non sarebbe stata la prima capriola di Ingroia, questa, e nemmeno l’ultima. Il magistrato, dopo aver costruito l’impianto accusatorio e aver affascinato moltissime tribune con le sue tesi, ha mollato tutto per andare in Sudamerica a combattere il narcotraffico per le Nazioni Unite, ha scritto i Diari dal Guatemala per Il Fatto Quotidiano, e da Santoro ha dichiarato: “Il mio libro si chiama ‘Io so’ e il sottotitolo potrebbe essere ‘perché ho le prove’, ho ricostruito con sufficiente solidità, sulla base dei fatti emersi, una trama criminale che ha pesantemente condizionato la prima e la seconda repubblica”. In Guatemala ci è rimasto meno di due mesi, poi è tornato in Italia e ha fondato Rivoluzione civile, il movimento con cui ha cercato di conquistare la pancia emotiva degli elettori e con cui però è riuscito a raggranellare solo l’1,8 per cento al senato e il 2,2 alla camera. Fuori del parlamento ha provato a rientrare in magistratura, ha rifiutato un posto ad Aosta ed è finito ad amministrare Sicilia e-Servizi per volere del governatore Rosario Crocetta. Oggi sono entrambi indagati per decine di assunzioni che secondo l’accusa sarebbero state fatte violando la legge. La terza storia è quella di Roberto Helg. Il presidente della camera di commercio di Palermo è stato un campione della lotta contro il pizzo, prima di essere arrestato per pizzo. Il cavaliere del lavoro e commendatore è stato un protagonista della scena dei convegni antimafia e un maestro dell’emotività e dell’emergenza prima di essere arrestato per aver intascato una mazzetta da centomila euro da un commerciante che chiedeva il rinnovo dell’affitto del locale all’aeroporto di Palermo dove vendeva i suoi prodotti. La dico facile, che si capisce subito: la guerra alla mafia la fanno gli sbirri e i magistrati. Chi scrive, pensa ed elabora idee può accompagnare questa lotta, e il modo più sensato è provare ad andare oltre l’emergenza, far capire a chi la mattina si alza per andare in banca in chiesa o in strada a raccogliere l’immondizia che c’è un secondo tempo nella vita dei siciliani e che questo secondo tempo è cominciato da un po’. Provando a spiegarlo a un amico di Roma, mi sono sentito rispondere che in lui la percezione della minaccia mafiosa negli ultimi anni era cresciuta. È anche un problema di racconto della realtà, da cui restano fuori alcuni dati fondamentali. Provo a riassumerli:

- La commissione parlamentare antimafia dice per esempio che dal 1993 al 2003 in Sicilia sono state denunciate per estorsione 6.613 persone. E negli ultimi dieci anni moltissime altre sono finite sotto indagine, i ragazzi di Addiopizzo hanno scosso Palermo e creato una rete di commercianti contro il pizzo (gli aderenti sono 960), e perfino nel feudo di Riina ci sono stati i primi arresti.

- Le ordinanze di custodia cautelare nei confronti di boss e picciotti delle famiglie criminali siciliane sono state 2.055. I capi si trovano tutti in carcere e la cupola non si riunisce dagli inizi degli anni novanta. Negli ultimi tempi l’organizzazione ha provato a ricostruire la sua trama, ma decine di nuovi arresti hanno ricacciato la testa del serpente nella fossa.

- Gli omicidi commessi da cosa nostra nel 1992 sono stati 152, nel 2007 sono nove.

- I beni sequestrati alla criminalità organizzata siciliana dal 1992 al 2014 ammontano a più di nove miliardi, mentre quelli confiscati a più di quattro. Per rendersi conto di quanto questo possa pesare nella mente di un mafioso basta leggere l’intercettazione al punto successivo.

- Per più di cent’anni Palermo e New York sono state collegate da una solida tratta del malaffare. Nel 2008 l’operazione Old bridge ha portato all’arresto di 90 persone tra l’Italia e gli Stati Uniti, soffocando anche il piano di rinascita della famiglia Inzerillo. In questa intercettazione è Francesco Inzerillo a parlare con i nipoti: “Qua c’è solo da andare via, andarsene dall’Europa, non dall’Italia. Se bastasse solo la Sicilia, te ne andresti al nord, appena però ti metti in contatto con una telefonata, pure con tua madre o con tua sorella, o con tuo fratello, tua nipote, già sei sempre sotto controllo, te ne devi andare proprio tu, perché ormai è tutta una catena e catinella, te ne devi andare in Sud America, Centro America, e basta. Anche se hai ottant’anni, se ti devono confiscare le cose lo fanno, cosa più brutta della confisca dei beni non c’è”. A questi dati vanno aggiunte due cose, al netto delle mille che fanno ogni giorno le persone per bene. Gli sforzi degli insegnanti che fanno l’unica cosa che serve in terre depresse come la Sicilia, e cioè insegnano, e insegnando ficcano nella testa dei ragazzi la curiosità e l’intelligenza e l’onestà; e l’aria nuova che respirano molti ragazzi che se ne vanno in giro per l’Europa e il mondo senza complessi di colpa per aver abbandonato la propria terra (è un’accusa che lanciano spesso i maestri dell’emergenza) e che tornano, quando tornano e se tornano, con sguardi nuovi che anche in maniera indiretta scrostano vecchi problemi. Il racconto di questi dati e di queste storie sembra faticare a superare lo stretto di Messina, e perciò continuiamo a “vivere nella dimensione nevrotica di un passato che non passa”, scrive lo storico Salvatore Lupo in La mafia non ha vinto, “come se le istituzioni nate in un clima di straordinarietà rifiutassero di adattarsi a una qualche ordinarietà”. In questa ordinarietà naturalmente ci sono ancora crimini e violenza, corruzione e omertà, la memoria ancora viva dei morti e le paure dei vivi, ma quando da giornalisti narratori e intellettuali parliamo della Sicilia abbiamo il dovere di raccontarne anche il secondo tempo, raccontare le stragi ma ripetere fino allo sfinimento cosa è successo dopo. La frase “c’è ancora molto da fare” ha senso solo se si accompagna all’idea che la mafia non ha vinto, come recita il saggio che Lupo ha scritto insieme al giurista Giovanni Fiandaca, un libro che fa a pezzi in maniera chirurgica e disarmante anche il fantoccio dell’antimafia circense. Altrimenti daremo l’impressione che più che la mafia, ad aver vinto saranno i cretini, i maestri dell’emergenza, che come gli asini di Sciascia hanno bisogno delle bastonate per giustificare la propria esistenza: “L’asino aveva una sensibilissima anima, trovava persino dei versi. Ma quando il padrone morì, confidava: ‘Gli volevo bene: ogni sua bastonata mi creava una rima’”.