foto antonio  1.jpgDenuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste testuali tematiche e territoriali. Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul 1° canale, sul 2° canale, sul 3° canale Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono indicate.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.

 Dr Antonio Giangrande

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INCHIESTE IN TESTO: TEMA - TERRITORIO

 

 

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(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA   

 

LA DISCULTURA

DISCULTURA ED OSCURANTISMO

"L’Italia fondata sul lavoro, che non c’è, fatto salvo per i mantenuti e i raccomandati. L’Italia dove il potere è nelle mani di caste, lobbies, mafie e massonerie. La raccomandazione nel pubblico impiego è la negazione della meritocrazia e dell'efficienza, oltre ad essere un reato impunito e sottaciuto, dato che sono gli stessi raccomandati ad occuparsene. Cultura e scienza in mani improprie. Le scuole non mi invitano, in quanto il motto "La mafia siamo noi" non è accettato dai professori di Diritto, che sono anche, spesso, avvocati e/o giudici di pace e/o amministratori pubblici, sentendosi così chiamati in causa per corresponsabilità del dissesto morale e culturale del paese. Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi".

di Antonio Giangrande

(Inchiesta basata su atti pubblici e/o di pubblico dominio. Le fonti sono lincate).

CIAK. SI TRUFFA E SI FLOPPA. IL CINEMA IN ITALIA.

 

CULTUROPOLI

L'ITALIA DELLA DISCULTURA

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

«Ecco perchè ci sono tanti "coglioni" in giro, se poveretti non hanno nulla da imparare!»

Dr Antonio Giangrande

SOMMARIO

INTRODUZIONE

TITOLATI SI’, TITOLATI NO!

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

IL MONDO DIVISO TRA COLTI ED IGNORANTI.

L’IGNORANZA DELLE PERSONE COLTE.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

TUTTI DENTRO CAZZO!

VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

ESSERE LIBERALI OD ESSERE DI SINISTRA?

25 APRILE 2015. 70 ANNI DALLA LIBERAZIONE. L'ALTRA RESISTENZA CONTRO IL RITO DELL'ANTIFASCISMO UN PO' FASCISTA.

NON APRITE QUELL’AZIENDA. PER ESEMPIO UNA CASA EDITRICE. LA BUROCRAZIA VI UCCIDERA’.

VUOI CANTARE? IL CONCORSO E' TRUCCATO.

POVIA ED I MORALIZZATORI.

EPPURE CHE GUEVARA ERA CONTRO I GAY.

LA PICCOLA EGUAGLIANZA, IL POPULISMO E LA CADUTA PARZIALE DEGLI DEI (I MAGISTRATI).

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.

CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI. 

VA TUTTO BEN MADAMA LA MARCHESA. INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO E LAVAGGIO DEL CERVELLO.

BELLA CIAO: INNO COMUNISTA E DI LIBERTA’ DI SINISTRA.

LIBERTA'. TERMINE VACUO. PATRIA, ORDINE E LEGGE: SLOGAN CHE UNISCE DESTRA E SINISTRA.

OMOFOBIA E CACCIA ALLE STREGHE. CARLO TAORMINA. QUANDO L’OPINIONE E’ DISCRIMINATA.

LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

L’ISLAM NON SI TOCCA.

LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.

INCOSCIENTI DA SALVARE? COME SI FINANZIA IL TERRORISMO ISLAMICO.

L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.

COME TI COSTRUISCO UNA BUFALA SUL WEB.

ALTRO CHE RIVOLUZIONE: E' L'ITALIA DEI FESTIVAL!

LA CONTROSTORIA DELLE CASE EDITRICI ALTERNATIVE.

FAMILISMO AMORALE. LE GUERRE PER L'EREDITA' DEGLI ARTISTI.

NEOREALISMO E MODA.

CHE QUALCUNO LA RACCONTI GIUSTA! LA STORIA NON SIAMO NOI……

LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE. L’ALTRA FORMA DI CENSURA: IL POLITICAMENTE CORRETTO.

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

PREMIO STREGA ED AUTOCITAZIONI. LO SCRITTORE NON E’ MAI AUTORE.

ATTORI E REGISTI: UNA CASTA DI IDIOTI DI SINISTRA RACCOMANDATI.

SI CENSURA, MA NON SI DICE.

BERLINGUERISMO. I MITI DELLA SINISTRA.

SIAMO TUTTI PUTTANE.

LA PALUDE DEGLI SCRITTORI. LE VESTI STRACCIATE E LA LAVATA IN PUBBLICO DEI PANNI SPORCHI DEGLI (A LORO DIRE) INTELLETTUALI.

EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.

LA SOTTOCULTURA IDIOTA DELL'ANTIFASCISMO MILITANTE. L'OSTRACISMO ARTISTICO A DANNO DEI MUSSOLINI.

SESSO E CIVILTA’. IL COMUNE SENSO DEL PUDORE: QUANTO E’ COMUNE E QUANTO E’ IMPOSTO?

LE FOIBE E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.

WIKIPEDIA DEI ROSSI E L’EGEMONIA CULTURALE DELLA SINISTRA.

SIAM TUTTI FIGLI DI FASCISTI. I VOLTAGABBANA E L’INTELLETTUALE COLLETTIVO.

CIAK. SI TRUFFA E SI FLOPPA. IL CINEMA IN ITALIA.

Cultura, Informazione e Società. A proposito di Wikipedia, l’enciclopedia censoria.

SOCIETA' ITALIANA AUTORI ED EDITORI.

PROMOZIONE DELL'ITALIA? NO GRAZIE!

PARLIAMO DI PRODOTTI EDITORIALI E LORO DISTRIBUZIONE.

LA CASTA DEGLI EDITORI: LA CENSURA OCCULTA.

PARLIAMO DI SCRITTORI E PREMI LETTERARI.

UN RISCOSSORE MUSICALE ALLA PORTA.

SIAE: LA STORIA.

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

"Questa vecchia Italia non è un Paese per giovani storici". L'autore di molti libri fuori dal coro lancia l'allarme: "Se non sei una firma nota, non pubblichi. E le Fondazioni pendono a sinistra", scrive Gianfranco de Turris su “Il Giornale”. La crisi generale si ripercuote in molte crisi particolari. Una di esse è la crisi dell'editoria che purtroppo non è una vuota e interessata lamentela ma una triste realtà, come dimostrano le statistiche che registrano un calo vertiginoso di lettori. Luciano Lucarini, che con la casa editrice Pagine ha al proprio attivo molte riviste di livello universitario, ha deciso di rilanciare una sua testata, Historica , che oggi con il nome di Nova Historica e la direzione di un comitato direttivo di cui è presidente il professor Giuseppe Parlato, è certamente qualcosa di appetibile nell'asfittico panorama delle riviste accademiche. Abbiamo posto alcune domande a Giuseppe Parlato, docente di Storia contemporanea alla Università degli Stati Internazionali di Roma di cui è stato rettore quando si chiamava Università S. Pio V, autore di saggi come La sinistra fascista (Il Mulino, 2000), Fascisti senza Mussolini (Il Mulino, 2006), Mezzo secolo di Fiume (Cantagalli, 2009) e Gli italiani che hanno fatto l'Italia (Eri-Rai, 2011).

Professor Parlato, da docente universitario in Storia contemporanea, come vede la condizione dello storico oggi?

«Per un certo verso, oggi è più facile fare lo studioso di storia, grazie alla tecnologia che ha abbreviato i tempi di lavoro; penso alla comodità, ad esempio, di avere gli atti parlamentari visibili on line da casa, mentre una volta occorreva andare in biblioteca. Per un altro verso, invece, è più difficile, perché la tecnologia riduce l'interpretazione libera, articolata e complessa a favore di quella semplificata e, al limite, banalizzata. In ogni caso, oggi è più facile l'adesione al politicamente corretto, che è l'interpretazione prevalente su internet».

Qual è oggi, secondo lei, il rapporto dei giovani con la storia?

«Si tratta di un rapporto, anche qui, ambiguo. Da un lato i giovani cercano la storia, non si accontentano delle vecchie interpretazioni. Dall'altro, invece, quelli che vorrebbero occuparsene trovano problemi inediti. Nelle università i fondi per la ricerca si sono ridotti e, in ogni caso, è privilegiata la cultura scientifica e tecnica, quella “utile” e spendibile, rispetto a quella umanistica. Le case editrici pubblicano libri ormai a spese degli autori, soprattutto se sono giovani e non ancora famosi. Le riviste scientifiche si sono ridotte di numero e quindi le possibilità di pubblicare sono più scarse. La situazione è ancora più difficile per quei giovani che non appartengono organicamente alla cultura politica della sinistra; infatti uno dei pochi aiuti rimasti alla ricerca è dato dalle Fondazioni culturali, che in maggioranza fanno riferimento alle tradizioni culturali della sinistra. Poche sono quelle di centro, mentre la destra latita, a causa del disinteresse che i suoi capi politici hanno tradizionalmente dimostrato verso la cultura».

Le riviste che trattano di contemporaneità oggi in Italia non sono molte...

«Credo che lo spazio ci sia per una rivista diversa dalle altre, come riteniamo possa essere Nova Historica . La principale differenza è quella della confluenza di tre profili scientifici, la storia politica contemporanea, quella economica e quella delle istituzioni politiche, rappresentata dalla presenza dei quattro direttori, Simona Colarizi, storia contemporanea alla Sapienza, Gaetano Sabatini, storia economica a Roma Tre, Francesco Bonini, storia delle istituzioni politiche alla Lumsa della quale è anche rettore».

Per concludere. È in discussione al Parlamento una cosiddetta «legge sul negazionismo» al grido (di comodo): ce lo chiede l'Europa. Molti studiosi di orientamenti assai diversi hanno sollevato perplessità, dubbi e addirittura allarmi. È veramente qualcosa di necessario e indispensabile? Ci sono pericoli concreti per la ricerca storica svincolata da condizionamenti?

«Il provvedimento ha avuto un iter complesso e faticoso. Prima in commissione sembrava che potesse essere approvato in pochi giorni: il politicamente corretto sembra trovare tutti d'accordo. Invece, proprio gli storici che sono stati ascoltati dai parlamentari hanno espresso - come già negli scorsi anni - perplessità forti e anche opposizioni alla natura del provvedimento, che condanna non soltanto la propaganda di negazionismo o “riduzionismo”, ma anche l'espressione di idee in merito, confezionando una verità ufficiale che offende le vittime che dovrebbero essere tutelate e che penalizza la libera ricerca storica. In aula il provvedimento ha subito diverse modifiche in senso positivo. Ma tali miglioramenti non sono stati sufficienti a fugare il dubbio che questo provvedimento, mentre condanna severamente il reato di propaganda di negazionismo o di “riduzionismo”, condizioni pesantemente la stessa ricerca storica, sancendo per legge una “verità” che non può essere oggetto di revisione. E, si sa, la storia o è revisione o non è».

Perché la mente degli islamici è diversa. Non siamo tutti uguali, non è uno scandalo. Ogni cultura per sua natura genera una nevrosi con meccanismi peculiari, scrive Karen Rubin su “Il Giornale”. Marwan Dwairy è uno psicologo palestinese. Ha scritto un manuale per terapeuti dal titolo Counseling e psicoterapia con arabi e musulmani. Il libro trasmette un concetto di base dell'etnopsichiatria: i disturbi psicologici sono influenzati dalla cultura di appartenenza che produce nei gruppi etnici differenze psichiche profonde. La mente degli islamici è diversa da quella degli occidentali e per curarle servono terapie specifiche che ne tengano conto. Lo studioso pone l'accento sulla diversità tra i popoli, mentre noi, ipocritamente, l'abbiamo bandita dalle nostre riflessioni come se fosse in automatico discriminazione e mancanza di tolleranza per il diverso da sé. Non siamo tutti uguali, non è uno scandalo. Se parlare di scontro di civiltà incita il razzismo, non conoscere le differenze impedisce la mediazione e il rispetto reciproco, le uniche armi a disposizione contro l'ostilità. Ogni cultura per sua natura genera una nevrosi con meccanismi peculiari. In Occidente la cultura giudaico-cristiana e la secolarizzazione hanno favorito un processo d'individuazione per cui l'uomo, dotato di libero arbitrio, è padrone e unico responsabile della sua vita e delle sue azioni. Ogni persona ha una percezione di sé come diversa dall'altra, dall'ambiente e dalla collettività in cui è immersa. La cultura è interpretata e adattata in base ai bisogni e le aspettative personali. Un individualismo che pone l'accento sul valore morale dell'uomo e dei suoi obiettivi d'indipendenza e di autonomia. L'esatto contrario di quanto avviene nei paesi islamici in cui la cultura coincide con una religione pervasiva in cui gli individui non hanno valore in sé ma perché appartenenti a un corpo unico di fedeli che ha rinunciato alla libertà in cambio della tutela divina, che detta le regola per ogni comportamento. Il singolo s'identifica con la collettività che è sottomessa agli ordini degli imam, indiscutibili e immutabili perché discendono direttamente dalle parole del profeta. Entrambe le posizioni generano mali psicologici e sociali che sono sotto gli occhi di tutti. L'individualismo occidentale che doveva garantire uguale libertà e diritti civili per tutti gli uomini sembra aver perso il suo fascino. L'uomo è in balia di un narcisismo sfrenato che nega l'altro e impedisce relazioni solidaristiche tra gli individui. La corsa alla realizzazione personale lo fa sentire sempre più isolato e più solo, incapace di dare significato all'esistenza e alla morte. Vivere e combattere per un'ideologia religiosa, come avviene nell'islam radicale, fornisce una certezza granitica e una promessa di eterna felicità che per i fedeli vale la rinuncia della libertà. Nei paesi islamici la massa sposa un'ideologia in modo acritico smarrendo quel senso della realtà che può trasformare la religione in un delirio collettivo per cui diventa legittimo lapidare una donna accusata di adulterio o di apostasia. Al singolo, privato del suo sé e quindi di pensiero autonomo, è vietato contrapporsi a qualsiasi forma di barbarie che colpisca la sua persona o la sua famiglia. Prescindere dal pensiero individuale favorisce i fanatismi di massa che hanno generato in occidente il nazismo e lo stalinismo e che nell'islam sono il terreno di coltura per Hamas, Isis e Boko Haram. Dobbiamo ricordare che se è possibile e legittimo realizzare i nostri desideri di crescita personale è perché abbiamo combattuto per fondare la nostra struttura sociale su ideali di libertà e uguaglianza basati sulla ferma convinzione del valore morale che ogni uomo come essere unico e originale possiede. Recuperare questa ideologia, perseguire la via della civilizzazione, pretendere e garantire comprensione e rispetto difendendo il valore oggettivo che attribuiamo alla libertà è l'unico modo possibile per convivere pacificamente con chi, anche se diverso da noi, scelga di vivere nel nostro paese.

Don Chisciotte tra i bolscevichi, scrive Wlodek Goldkorn su "L'espresso". Comunismo come metafisica, viaggio iniziatico, ma anche come oggetto di indagine semantica e sperimentazione linguistica. C'è tutto questo, e molto di più, in "Cevengur", il travolgente romanzo di Andrej Platonov (traduzione e cura di Ornella Discacciati, Einaudi, pp. 501, euro 26). Platonov, classe 1899, era uno scrittore che aderì al bolscevismo. Ma quando nel 1929 tentò di pubblicare "Cevengur", subì l'anatema di Stalin. Il dittatore non solo ne proibì la pubblicazione, ma mandò nel Gulag il figlio quindicenne di Platonov, che tornò a casa alcuni anni dopo, per morire di tubercolosi. L'opera, in forma parziale, venne stampata per la prima volta in Occidente negli anni Settanta: in Italia per i tipi di Mondadori nella traduzione di Maria Olsufieva. Ai tempi della perestrojka, il romanzo fu pubblicato in versione integrale a Mosca, ed è questa la versione riproposta da Einaudi. Al centro della narrazione ci sono due uomini, che pensano di aderire al bolscevismo e che assomigliano a Don Chisciotte e Sancho Panza. Uno di loro ha per ideale (una specie di Dulcinea) Rosa Luxemburg e il cavallo lo chiama Forza Proletaria. Oltre a quei due, protagonista del racconto è una città, Cevengur, appunto, dove il comunismo è stato realizzato. Ma attenzione, un'altra protagonista del libro è la lingua russa, di cui Platonov era un maestro assoluto (parola di Josif Brodskij), qui resa bene dalla traduttrice. Infine, il vero testo non sta nella progressione del racconto, ma nelle divagazioni: su vita, morte, amore, lavoro e ozio. In altre parole, sulla condizione umana. Un romanzo imprescindibile per capire il Novecento.

Trama. Una città dimenticata da Dio nel cuore della steppa, abitata da uomini inselvatichiti dalla miseria. Ma anche in questo luogo è passata la rivoluzione e ha lasciato sogni e sentimenti sulla nuova società da costruire. Il romanzo di Platonov è la cronaca emozionante, ora tragica, ora comica, di questo momento magico, quando gli ultimi del mondo sembrano diventare i protagonisti della Storia. Gli esiti della rifondazione utopica sono paradossali, bislacchi, votati al disastro, che puntualmente arriverà, ma i personaggi restano nella memoria del lettore con tutto il loro carico di umanità. Uno dei più grandi capolavori della letteratura russa del Novecento, scritto nella seconda metà degli anni Venti ma pubblicato in Russia solo nel 1988, in una nuova edizione integrale accuratamente tradotta.

Autore. Andrej Platonov (1899-1951) è stato, insieme a Bulgakov, il maggiore scrittore russo dell'epoca staliniana. Anch'egli subí continue censure a cui si aggiunsero, a differenza di quanto capitò a Bulgakov, l'arresto e un periodo di confino. A parte alcune opere giovanili, i suoi romanzi e racconti sono stati pubblicati dopo la morte e la riabilitazione, che ottenne in epoca krusceviana. La sua narrativa ha senz'altro un aspetto politico, di smascheramento della retorica del regime comunista, ma allo sgomento politico Platonov abbina «musicali passaggi e immagini di sgomento cosmico», come osservò Ripellino, che ne fanno un grande scrittore tout-court, slegato da ogni contingenza storica, un vero classico. Con il titolo Da un villaggio in memoria del futuro, Cevengur è stato pubblicato in Italia da Theoria, nel 1990, ed è esaurito da molti anni.

Note Editore. Nella nuova traduzione di Ornella Discacciati, torna in libreria il capolavoro di Platonov. Cevengur è una città immaginaria situata nelle steppe della Russia centrale. I suoi abitanti vogliono vivere seguendo i dettami e le regole di un comunismo integrale e puro, ma il risultato è una società bislacca, malriuscita e demenziale, destinata al disastro. Riflessione politica, meditazione sull'incapacità dell'uomo di conciliare desiderio e realtà, specchio paradossale di un sogno irrealizzabile, Cevengur è la cronaca irresistibile e acutissima di una catastrofe. Grazie a un grottesco capovolgimento di prospettiva, Platonov costruisce una vera e propria epica rovesciata della rivoluzione, rappresentando sapientemente un mondo in cui l'unico lavoro consentito è quello improduttivo. Scritto tra il 1926 e il 1929 – anno in cui fu bloccato dalla censura sovietica –, il romanzo racconta con spietata chiarezza i fallimenti del comunismo. Pubblicato postumo nel 1960, Cevengur è diventato un punto fermo nella letteratura dell'anti-utopia e ha definitivamente conquistato un posto d'onore tra i libri piú significativi del Novecento russo.

Il sogno del comunismo e il suo fallimento. Una cronaca «dall'interno», visionaria e dolorosa. Prefazione. Tra utopia, storia e catastrofe, la nuova edizione di un classico della letteratura russa del Novecento. Una città dimenticata da Dio nel cuore della steppa, abitata da uomini inselvatichiti dalla miseria. Ma anche in questo luogo è passata la rivoluzione e ha lasciato sogni e sentimenti sulla nuova società da costruire. Il romanzo di Platonov è la cronaca emozionante, ora tragica, ora comica, di questo momento magico, quando gli ultimi del mondo sembrano diventare i protagonisti della Storia. Gli esiti della rifondazione utopica sono paradossali, bislacchi, votati al disastro, che puntualmente arriverà, ma i personaggi restano nella memoria del lettore con tutto il loro carico di umanità. Uno dei più grandi capolavori della letteratura russa del Novecento, scritto nella seconda metà degli anni Venti ma pubblicato in Russia solo nel 1988, in una nuova edizione integrale accuratamente tradotta.

***

Frutto di inquietudini moderniste, Cevengur di Andrej Platonov rientra a pieno titolo in quel filone della letteratura russa nel quale la fede incondizionata nelle teorie non godeva di largo credito. A quelle visioni del mondo preconfezionate, sostenute con forza dall'intelligencija radicale, scrittori come Turgenev, Dostoevskij e Tolstoj opposero, con pervicacia al limite dell'ostinazione, autentici capolavori. I più grandi romanzi dell'Ottocento russo sono, come è stato detto, «romanzi di idee nella misura in cui sono romanzi che lottano contro la supremazia delle idee»: si cimentano con la materia della realtà, con le scelte quotidiane del singolo, con l'imprevedibilità della vita e preferiscono instillare dubbi piuttosto che diffondere credo. Se in Cevengur il tessuto polifonico, la costruzione argomentativa, l'esposizione delle teorie coeve con una lucidità che già da sola ne smaschera la disumanità, rinviano ai grandi romanzi di Dostoevskij, come non ascrivere a Tolstoj, il «profeta della carne», l'assillo tutto platonoviano per la caducità del corpo umano e per le passioni carnali? Dalla prefazione di Ornella Discacciati.

Nella steppa dei soviet la discesa di Platonov al villaggio degli ultimi, scrive Montefoschi Domenica su "Il Corriere della Sera". Cevengur , il capolavoro di Andrej Platonov che oggi leggiamo nella splendida traduzione di Ornella Discacciati (Einaudi), fu scritto nella seconda metà degli anni Venti; ma in Russia venne pubblicato solo nel 1988. Comprensibilmente. Perché Platonov in questo sterminato libro corale davvero unico — un libro che alterna il passo lungo del racconto che vuole restituire la realtà in ogni suo dettaglio, a momenti lirici meravigliosi — non fa altro che raccontare, dal di dentro, da comunista che ci ha creduto (anche se la tessera del Partito la restituisce dopo un solo anno), la storia di una utopia fallita. Come poteva non essere odiato da Stalin? Non essere messo al bando? Infatti fu perseguitato; e morì in miseria. L’incipit di Cevengur è straziante. E contiene tutto. Siamo ancora in epoca zarista. Un pescatore che ha perso sua moglie, povero, ignorante e però curioso di sapere cosa c’è oltre la morte, affoga in un lago. Al funerale, suo figlio Sasha, un bambino, è davanti alla bara. Gli dicono di dire addio a suo padre perché per i secoli dei secoli non lo vedrà più. Lui si china, ma non sente l’odore di sudore, di pesce, di lago, che aveva la camicia di suo padre quando era vivo, perché gliene hanno messa un’altra. Allora si volta a guardare intorno. Vede degli estranei. Capisce che sarà solo per sempre. E, cominciando a piangere, si aggrappa ai lembi di quella camicia che non ha più nessun odore di vita, come se quella camicia potesse difenderlo. Sasha, dunque, è orfano. In un primo momento, è adottato da una numerosa famiglia, la famiglia Dvanov, che vive nella assoluta miseria e viene mandato in giro a elemosinare le croste di pane. Quindi fugge. Finché un vecchio del villaggio, un certo Zachar Pavlovic, pure lui solo, non lo rintraccia e lo prende con sé. Pavlovic è un personaggio che sarebbe piaciuto molto a Dickens. Il suo interesse è per gli oggetti: di qualsiasi materia. La sua capanna è piena di attrezzi con i quali è capace di riparare qualsiasi cosa. Ora, ha grande passione per i treni: quei vagoni neri stupendi, trainati dalle altere locomotive, che da così poco tempo solcano le immense distese della Russia, corrono sprizzando scintille sui binari, o procedono lentamente, e la notte fanno sentire il loro ululato. I treni — pensa Zachar, felice di poter lavorare ai treni — sono macchine impressionanti che celebrano la forza dell’uomo. Il cielo è un grande nodo ferroviario. Sasha Dvanov, invece, legge. E molto spesso contempla le stelle. Lo ritroviamo che ha 17 anni, il vuoto dentro e nessuna corazza sul cuore. Intanto è scoppiata la rivoluzione e c’è la guerra: dentro e fuori i confini. La morte è dietro a ogni scalpitare di zoccoli. Vengono istituiti i soviet, si compongono comitati esecutivi, si avviano ispezioni nei governatorati allo scopo di vedere in che modo vive la gente. E la gente è entusiasta, sgomenta, e come ebete in questo grande sommovimento che deve produrre l’uguaglianza, la felicità, la liberazione dallo sfruttamento. Però continua a morire di fame — brodo e buccia di patate — mentre passa il treno blindato dei Bianchi, e poi quello dei Rossi stipati di corpi ignari che non sanno dove vengono trasportati e perché, e si grattano i pidocchi nel sonno. I viandanti che attraversano i villaggi non sanno rispondere a chi domanda loro dove vanno, oppure dicono: dove capita, e disperdono la sofferenza nel cammino. I briganti tendono agguati. Il tifo uccide. I corpi bussano invano alle porte dell’anima. Il sapore della buona vodka, trasparente come l’aria di Dio o la lacrima di una donna, è un ricordo. Il pacifico odore della campagna: bruciaticcio di paglia e latte riscaldato, è inghiottito da quello della sporcizia e del sangue. E i treni vanno: «i trasporti sovietici sono i binari per la locomotiva della storia»; nelle comuni, alla luce di lampadine nude che ogni tanto si spengono, si svolgono discussioni estenuanti, al termine delle quali gli oratori mettono in guardia i bolscevichi perché devono sapere che la Russia sovietica è come una giovane betulla sulla quale da un momento all’altro può avventarsi la capra del capitalismo; le foreste sono abbattute per costruire le case e liberare il terreno per le semine; il bestiame è ammucchiato e diviso; le tenute dei nobili sono requisite; il pane e qualsiasi genere alimentare, piuttosto che essere accumulato, deve essere distrutto per il bene di tutti; l’esaltazione fa dire che i soviet sembra che esistano da sempre, fin dai tempi antichi e il cielo uniforme della Grande Russia è la loro copia esatta. Dov’è finito, nel frattempo, Sasha Dvanov? Ha amato Sonja, una ragazza pura come il pane fresco e come il mattino, ma per la rivoluzione ha rinunciato a questo amore; si è avventurato nelle regioni più lontane a verificare a che punto è la realizzazione del comunismo; ha condiviso con una quantità di personaggi il dubbio sulla reale esistenza di un qualcosa che non si sa mai bene fino in fondo cosa sia, eppure risponde a un bisogno di uguaglianza, di fratellanza, di movimento in avanti perché quella spinta a costruire un progetto universale, che tutti sentono, non si esaurisca; ha conosciuto uomini cattivi e buoni, innamorati (come un tale Kopenkin, che nella fodera del berretto ha cucito il ritratto di Rosa Luxemburg) e disperatamente infelici perché non sanno a chi abbracciarsi; quindi è approdato a Cevengur. Cevengur è un piccolo villaggio della steppa che, dopo esser stato attraversato dalla rivoluzione, adesso sembra dimenticato dal mondo. Lo abita un’esigua popolazione di miseri — superstiti di una tragedia, piuttosto che di un trionfo — simili a veri e propri fantasmi. Di giorno vagano oziando nelle strade che non riconoscono più perché le case sono state spostate, senza un motivo, e il paese ha cambiato la sua fisionomia; la notte, soprattutto durante le bufere invernali, dormono sul pavimento per essere più vicini alla terra e alla tomba. Certo, c’è un soviet anche a Cevengur, «il soviet della umanità sociale della regione liberata di Cevengur», ma i suoi abitanti continuamente si domandano: dov’è il socialismo? E Dvanov, che dopo anni ha rincontrato il fratellastro Prokofij, un tipo diverso da lui, assai meno spirituale, si arrovella, pensa che lì il comunismo, se davvero esiste, è da rifare da capo e forse, per sapere una volta per sempre qual è la verità, bisognerebbe scrivere al compagno Lenin al Cremlino. Siamo nel cuore del romanzo, a questo punto. La risposta che Dvanov vorrebbe avere da Lenin, i fantasmi di Cevengur la cercano e la trovano nel vuoto. Possono loro, dopo secoli di oppressione, sopravvivere in un vuoto che li opprime altrettanto crudelmente? O non devono suscitare in questo vuoto un nemico che, nell’odio, li faccia sentire di nuovo vivi? Il nemico sono i piccoli borghesi, niente altro che dei contadini, rimasti nel villaggio. La scena del loro massacro – costruita con una sapienza dei movimenti e delle emozioni che possiamo definire straordinaria – è terribile. Ma dopo, quando anche i piccoli borghesi sono stati cancellati dal mondo, a Cevengur ritorna il vuoto. E il vuoto universale è insostenibile: è come la «tristezza indifesa» che si respira nel cortile della casa del padre da cui è appena uscita la bara della madre e tutti piangono, e più di tutti piange un bambino che, allo steccato, accarezza le assi ruvide nel buio di un mondo spento. Così per avere ancora qualcuno da guardare in faccia, da Cevengur partono messaggeri nella steppa infinita a cercare i più poveri dei poveri: gli «ultimi». E loro arrivano: per essere fra le vittime del misterioso eccidio finale che rade al suolo Cevengur. Mentre Dvanov, che all’eccidio è sfuggito, torna sulla riva del lago in cui è annegato suo padre, ci entra dentro: lentamente, e va a cercarlo.  

“Cevengur”, torna in libreria un classico russo, scrive Michele Lupo. C’è questo personaggio, Zachar Pavlovič , “il volto attento ed esausto fino allo sconforto di chi sa riparare e attrezzare ogni cosa, ma non attrezzarsi alla vita”. Poiché pare estraneo a qualsiasi consesso umano, alle parole come agli affetti, non stupisce che sia il solo a restare nel villaggio afflitto dalla siccità e abbandonato dai suoi abitanti. Ma senza le persone anche le cose potrebbero perdere d’importanza: aggiustare cosa? per chi? Costretto a cercare qualcosa di utile da fare, Zachar – che pure ha avuto una moglie un tempo, ma gli era parsa una cosa senza senso – la trova in una stazione ferroviaria. Osservare la camera di combustione della locomotiva sostituisce abbondantemente il piacere dubbio dell’avere amici. Se ne innamora, persino. Con il suo capo condivide l’idea che le macchine siano più apprezzabili della natura e delle persone – che non si sa mai.  Il lettore non sa bene se sia più straniato lo sguardo sul mondo di Zachar o il mondo stesso che lo circonda, un semideserto della profonda steppa russa a un passo dalla rivoluzione del ’17 – villaggio desolato in cui è facile che appaiano umani liminari, come il gobbo, uno storpio infoiato che benedice la siccità, preludio alla fuga collettiva dei maschi e campo aperto per dare la caccia alle femmine residue. E straniante arriverà anche la rivoluzione. Zachar è ormai stanco, ha persino rinunciato alla solitudine, trova una compagna e adotta un ragazzino. Così lo perdiamo di vista quando comincia un’altra storia – vero snodo epocale del moderno. E con essa la turbinante vicenda del romanzo Cevengur, di Platonov, scrittore russo purtroppo poco noto dalle nostre parti. Il figlio adottivo di Zachar e altri curiosi personaggi si troveranno invischiati – volenti o no – in un passaggio drammatico della Storia con tutte le loro allucinate o meschine idiosincrasie. Inviati al fronte di una guerra civile di cui non sempre comprendono il senso, o raminghi contadini investiti da un ciclone di idee balzane, incontrano personaggi che quella rivoluzione incarnano chi da visionari chi da zelanti burocrati di partito. Se per Dvanov, il figlio di Zachar, il socialismo dovrebbe corrispondere al “tempo in cui l’acqua avrebbe zampillato sugli aridi e alti spartiacque”, il plenipotenziario del comitato rivoluzionario provinciale cambia il suo nome in quello di Fëdor Dostoevskij, ignorando certa incongruenza ideologica dell’omaggio ma mettendocela tutta per favorire la “felicità lavorativa quotidiana”, magari eliminando la notte per incrementare i raccolti (va da sé che le ragazze si innamorassero tutte di lui, nonostante fosse zoppo). Laddove altri trascorrono il tempo in adorazione del ritratto di Rosa Luxemburg e cercando un’altra versione del comunismo. Quando poi qualcuno annuncia che nella città di Cevengur esso è una realtà bell’e fatta, totale, in cui “vive l’uomo collettivo ed eccellente”, si apre uno scenario tutto da scoprire. Lì anche il bestiame verrà sottratto all’oppressione secolare dell’uomo, la natura trionfa e si manifesta una faccia inudita della rivoluzione: si attende il secondo avvento di dio e soprattutto, il lavoro è stato bandito. Si punta direttamente alla felicità senza farla troppo lunga. Chi vi arriva non sempre ne resta convinto: che fare a Cevengur? – Niente – gli si risponde – qui da noi vivrai una vita interiore”. Pensa a tutto il sole, “proletario universale”. I suoi abitanti non fanno che “riposarsi da secoli di oppressione”. Mangiano i crudi frutti della natura. Che li attenda una fine devastante o l’agognata palingenesi il lettore può immaginarlo da solo. Platonov (meglio: il suo romanzo) mantiene una felice ambiguità rispetto al tema. La satira colpisce gli slogan, il linguaggio stesso dei soloni di un certo assolutismo ideologico col suo carico di morte certa ma Cevengur adombra un sentimento tutt’altro che ostile per i poveri cristi bisognosi di un’utopia. Platonov comunista lo fu troppo a modo suo per piacere al regime e forse la difficoltà di etichettarlo non ha favorito la sua ricezione in Italia, paese in cui per decenni le preoccupazioni ideologiche hanno fatto gioco su quelle meramente estetiche (e/o esistenziali: Platonov sapeva bene che nella realtà vi è sempre un’eccedenza rispetto a qualsiasi teoria – e lo scriveva Adorno, non un epigono del pensiero debole). Il suo è un romanzo eroicomico, a tratti dilatato ma pieno di sorprese, di personaggi fantasiosi e viscerali, falotici in sé e poi investiti da eventi troppo più grandi di loro. Brodskij lo considera il maggior prosatore russo del ‘900 e fra i grandi scrittori tout court. Non saprei dire: che però Cevengur meriti fra un posto fra i classici del secolo passato è sicuro.

Il comunismo morto in culla nel "paradiso" dei proletari. "Cevengur" di Andrej Platonov. Dalla rivoluzione alla guerra civile. Un gruppo di spiantati nella Russia anni '20 alla ricerca dell'impossibile socialismo reale. E l'utopia diventa una tragica farsa, scrive Daniele Abbiati su “Il Giornale”. Il compagno redattore della «Direzione generale per gli affari letterari e artistici», terminata la lettura del libro, lo depone sul tavolo. Sulle sue labbra appare un risolino, forse compiaciuto, forse ironico. Poi il compagno redattore stende la breve recensione, in cui fa riferimento a Don Chisciotte e a Sancho Panza. Peccato che la sua non fosse una semplice recensione. Era una recensione molto speciale , perché la «Direzione generale per gli affari letterari e artistici», nella Russia degli anni Venti, si occupava di censurare qualunque cosa fosse destinata alla pubblicazione. Così quel libro intitolato Da un villaggio in memoria del futuro o Il villaggio della nuova vita finì in un cassetto. Ne uscirà, per i lettori dell'Unione Sovietica, sessant'anni dopo, nel 1988, sull'onda della perestrojka gorbacioviana. Dal suo punto di vista, il compagno redattore aveva ragione da vendere. Dopo una rivoluzione e la conseguente guerra civile, diffondere quella roba sarebbe stato come distribuire per tutto il Paese migliaia di mine in forma di copie. Il villaggio di cui scriveva l'ormai ex compagno Andrej Platonovic Klimentov (iscrittosi al Partito nel '20, già nel '21 aveva restituito la tessera), per la storia della letteratura Andrej Platonov, è infatti il luogo dove il comunismo muore in culla, dove la convivenza fra poche anime, più morte di quelle di Gogol', dopo la mattanza in piazza dei borghesi, rivela l'impossibilità antropologica del regime. Un'impossibilità non politica, a dispetto di Marx ed Engels, bensì psicologica, fisiologica, organica addirittura. Ogni uomo, sia il muzik sognatore o l'integerrimo soldato dell'Armata Rossa, il fabbro anarchicheggiante o il vecchio nostalgico, il bolscevico fedele alla linea o la mendicante con figlioletto malato, dice Platonov, è, appunto, un uomo o una donna: cioè un mondo a sé stante. E se le contingenze di una guerra mondiale, di una rivoluzione, di una guerra civile li portano a percorrere un tratto di strada insieme, non sarà obbligandoli alla fratellanza (universale, fra l'altro) che si farà il loro bene. Romanzo corale e rurale, Cevengur (questo il titolo con cui ora viene proposto da Einaudi per la prima volta in edizione integrale a cura di Ornella Discacciati, pagg. 501, euro 26) prende il nome proprio dall'immaginario paesello della steppa che nelle intenzioni di un manipolo di aspiranti compagni dovrebbe tramutarsi nel paradiso del proletariato. Un proletariato, peraltro, pressoché nullafacente, a partire da Cepurnyj, il boss locale, per proseguire con Kopënkin, comandante dei bolscevichi combattenti, e Aleksandr «Sasa» Dvanov. Sono loro il Sancho Panza e il Don Chisciotte intravisti dal compagno-redattore-recensore-censore dal quale siamo partiti. Da una parte il cinico uomo dell'apparato che s'intenerisce soltanto nel ricordo di Rosa Luxemburg, dall'altra il giovane disincantato orfano del padre pescatore suicida in un lago, poi adottato dal mite Prochor Abramovic e da sua moglie, quindi operaio delle ferrovie, studente del Politecnico e infine arruolato fra i presunti «buoni». La dimensione urbana è soltanto sfiorata, dall'affresco a tinte fosche e grottesche di Platonov, appena un cenno a Lenin che, nella reggia del Cremlino, pensa e scrive indefesso. Scelta ovviamente azzeccata, poiché l'anima russa resta abbarbicata alle monumentali stufe di campagna, scorre sulle rive dei fiumiciattoli, palpita nelle catapecchie polverose o ghiacciate. L' ouverture , affidata alle suggestioni paniche dell'artigiano Zachar Pavlovic, dà il tono a una narrazione in cui l'umanizzazione della natura è il contraltare alla disumanizzazione dei personaggi, attori di quella che Discacciati chiama, nella Prefazione, la «metautopia» dell'autore, «una riflessione originale sulla ricezione dell'utopia rivoluzionaria tra le masse, accompagnata da una personale concezione della storia che al meccanico susseguirsi di tappe giustificate dal progressivo avvicinamento alla liberazione rinfaccia il sacrificio delle sofferenze del singolo, svilite in nome di un radioso futuro». In una steppa simile al Far West di un'altra utopia, questa volta ruvidamente (e individualmente) meritocratica, nella micro società di Cevengur chiusa e resistente alle novità che pare una comunità di Amish, in dialoghi da teatro dell'assurdo alla Beckett dove il «signor Godot» è l'avvenire spersonalizzante del socialismo reale, Platonov allestisce una grande recita che ha per protagonisti soltanto comparse. Dicono che quando Stalin lesse il romanzo, a margine commentò con una sola parola: podonok , cioè «feccia», «miserabile». Era la condanna alla morte civile dello scrittore, il quale finì, dimenticato da tutti, a fare il portinaio dell'«Istituto di Letteratura Gor'kij», in attesa della morte fisica, avvenuta nel 1951, a 52 anni. Non gli era bastato (tutt'altro...) rivolgersi, per caldeggiarne la pubblicazione, proprio all'esimio collega Maksim Gor'kij. Ma il giudizio di Stalin era anche, letto a posteriori, la migliore delle recensioni.

PLATONOV COMUNISTA E VISIONARIO. Andrej Platonov non è soltanto uno scrittore russo, scrive Alfredo Giuliani su “La Repubblica”. E' in modo stupefacente uno scrittore sovietico, forse l' unico grande prosatore sovietico che illumina, si fa per dire, l'epoca del comunismo di guerra e della famosa Nuova Politica Economica. Ma allora, domanderà qualcuno giustamente, era uno scrittore di regime, un propagandista, un chierico della rivoluzione? Non era un autore di regime, tutt'altro. Fu perseguitato, gli si impedì di pubblicare, fu obbligato a umili lavori, e molti considerano un mezzo miracolo se finì di morte naturale (tubercolosi nel 1951) anziché in un lager o fucilato. Eppure, a modo suo, Platonov era un cantore epico della rivoluzione. Di estrazione operaia (chi dice che il padre era ferroviere, chi fabbro ferraio), militò nell' Armata Rossa tra il '19 e il '21 (era nato a Voronez nel 1899) e fece anche parte di corpi speciali costituiti per reprimere le rivolte contadine e nazionaliste, e il brigantaggio, in Ucraina e nel Caucaso. Laureato in ingegneria nel 1924, per alcuni anni si occupò di lavori di bonifica e di elettrificazione nel governatorato di Voronez. Ma presto si traferì a Mosca, pubblicò i suoi primi racconti e saggi di critica letteraria, ebbe un certo successo e decise di dedicarsi interamente alla letteratura. E qui cominciarono i suoi guai. Platonov era un sincero comunista, ma era appunto, perché un sincero comunista, un visionario. E in quanto scrittore visionario coltivava la più sincera libertà espressiva. Nei suoi anni più creativi, i geniali anni Venti, la visionarietà di Platonov era insieme epica, lirica e satirica. Per la sua natura satirica è stato accostato a Bulgakov, dal quale è diversissimo. In realtà è talmente diverso da tutti che un lettore occidentale fatica ad accorgersi che Platonov è un grande scrittore. L'opera maggiore di Platonov, il romanzo Cevengur scritto tra il 1926 e il 1929, pubblicato in Russia soltanto sessant'anni dopo, sarebbe improprio definirla un'epica della rivoluzione alla rovescia. Per l'autore questo libro lunatico e irresistibilmente catastrofico era allo stesso tempo una randagia celebrazione dell'utopia, un libro magico e veridico sul comunismo della vita. La devastante fiducia degli idioti che agiscono e parlano nel romanzo di Platonov ha la grandiosa, grottesca vitalità che sommuove i pensieri e le passioni dei Demoni e dell' Idiota di Dostoevskij. Si comprende come Gor'kij, quando lesse il manoscritto nel 1929, lo dichiarasse impubblicabile (inaccettabile per la nostra censura). Egli scrisse a Platonov: Lei è indubbiamente un uomo di talento, come è indubbio che possiede una lingua oltremodo originale... Il suo romanzo è interessantissimo.... Ma era altrettanto indubbio per Gor'kij che l' opera era prolissa, vi abbondavano i discorsi a scapito dell'azione, la visione delle cose era anarchica, deformata in senso lirico-satirico; i comunisti di Cevengur non sono tanto dei rivoluzionari quando dei bislacchi o semidementi. Ciò nonostante Gor' kij era rimasto assai colpito dalla lingua di Platonov. E di questa lingua, di cui oggi parlano con ammirazione il poeta Iosif Brodskij e l'eccellente critico Anninskij, noi lettori occidentali possiamo avere una percezione ridotta. Non è colpa dei traduttori, dice Brodskij, se mai colpevole è l'estremismo stilistico dell'autore. Sulla questione, per quanto posso azzardarmi, tornerò un poco più avanti. Una cosa buffa, e forse non tanto strana, è che il romanzo di Platonov fu pubblicato in Italia da Mondadori nel 1972 col titolo Il villaggio della nuova vita, tradotto da Maria Olsùfieva, e non ricordo che sollevasse grande attenzione. Sia prima, sia dopo il '72 erano usciti in Italia altri libri di Platonov. Ora Sellerio stampa una scelta di racconti, Il mondo è bello e feroce (pagg. 200, lire 20.000), due dei quali già compresi in un precedente volume di Einaudi (Ricerca di una terra felice), e presso Theoria ricompare Cevengur con un nuovo titolo, Da un villaggio in memoria del futuro (pagg. 382, lire 36.000), nella stessa traduzione mondadoriana della Olsùfieva. Insomma, altri editori ci riprovano, sperando di essere più fortunati. E che noi si sia meno distratti. Mi dichiaro toccato. In altra occasione la signora Olsùfieva spiegò perché il toponimo Cevengur (nome inventato di un villaggio sperduto nelle steppe della Russia centrale) sia pressoché intraducibile: si tratta di una parola composta, la cui prima parte designa un pezzo delle vecchie cioce dei mugichi, la seconda ha il senso di baccano, rumore. Chissà, forse si sarebbe potuto inventare Ciociarnazzo (pensando a Ciociaria e a schiamazzo); ma io non essendo un traduttore dal russo non ho voce in capitolo. Il nome veniamo a saperlo soltanto alla pagina 170, da una gustosa conversazione che si svolge in città all'uscita da una riunione di partito. C'è un tale Cepurnyj soprannominato il Giapponese che si avvicina ad altri due, Dvanov e Gopner; quest'ultimo gli domanda: Tu da dove salti fuori? Dal comunismo. Nei hai sentito parlare? Hanno chiamato così qualche villaggio in memoria del futuro? Macché villaggio. E' capoluogo d'un distretto che anticamente si chiamava Cevengur. Fino a ora sono stato presidente del comitato rivoluzionario. E adesso abbiamo posto fine a tutta la storia mondiale. A che serve? A Cevengur o Ciociarnazzo sono entrati direttamente nel comunismo senza tante lungaggini. Massacrati tutti i borghesi e i contadini ricchi, il comitato rivoluzionario ha abolito l'economia, i bilanci, la politica e ha fatto fiorire la preferenza proletaria per la vita felice e la fratellanza, senza perciò negare la precisione della verità e il dolore dell' esistenza. Tutto ciò che è accaduto nel libro fino a questo episodietto (fondamentale) non è che la preistoria di destini intrecciati che si ritroveranno a Cevengur nell' urgenza utopistico-demenziale di costruire lì la gloriosa memoria del futuro. Secondo Brodskij, e questo è il dato interessante che anche il lettore occidentale è in grado di cogliere, Platonov è uno scrittore millenarista, se non altro perché aggredisce il veicolo stesso della sensibilità millenaristica presente nella società russa: il linguaggio in sé o, per dirla in maniera più esplicita, l'escatologia rivoluzionaria radicata nel linguaggio. Da molti la rivoluzione fu scambiata per l'atteso secondo avvento, ma questo non è che un dato sociologico. Può darsi che Brodskij esageri nel formulare l'essenza del messaggio di Platonov (il linguaggio è un congegno millenaristico, la storia no), ma certamente dobbiamo ascoltarlo quando dice che l' autore di Cevengur, più che alla tradizione letteraria, si affida alla natura sintetizzatrice della lingua russa, una matrice che condiziona a volte attraverso allusioni puramente fonetiche l' affiorare di concetti totalmente privi di qualsiasi contenuto reale. Ma non so quanto sia pertinente ritenere Platonov il primo scrittore russo veramente surrealista. E' strano che Brodskij taccia della vena futurista che a noi sembra potente in Platonov, il quale più di una volta fa venire in mente il poeta Chlébnikov (acclimatato nella nostra lingua e ai limiti della possibilità dal bravissimo Angelo Maria Ripellino). Proprio Ripellino, nel lungo saggio introduttivo alle poesie di Chlébnikov, ricordò le due facce del futurismo russo; da un lato l'esaltazione della tecnica e delle macchine, dall' altro il fervore per i trogloditi, le spelonche, la vita selvatica. E così il millenarismo, comune a tutti i futuristi russi, si esprime con particolare insistenza nelle fantasticherie di Chlébnikov. Ciò che più conta per il futurista russo è ritrovare nell' avvenire l'incolumità dei primordi. Il primordiale e l' amore per le macchine si fondono in Platonov, ma non c'è davvero il sogno dell' incolumità. Tutto in Cevengur, il tenero e il raccapricciante, l'idiota e il sublime, la violenza e la magnanimità, tutto coincide in una micidiale indifferenza vigilata dalle stelle (la beatitudine controrivoluzionaria della natura). L'anelito stupidamente eroico alla fine del mondo e alla rigenerazione del mondo coincide con lo sforzo sovrumano dell'intelletto ingenuo e puro che vuole pensare la verità dell' esistenza. Le frasi di Platonov cominciano in un modo che fa prevedere un certo decorso logico, ma alla fine della frase, grazie a un epiteto, a un'intonazione, o alla posizione anomala di una parola nel contesto, vi trovate condotti da un'altra parte, o meglio in una tortuosità inestricabile, che può suscitare ilarità o sgomento. E' più o meno ciò che notano i critici russi e ciò che avverte, certo con minore vividezza, il lettore occidentale. Come osserva Anninskij in un saggio recente, la fucilazione della residua classe borghese in Cevengur provoca nel lettore un raccapriccio infernale, tuttavia non osate chiamarlo così, dato che per tutti coloro che partecipano all'evento questo inferno si identifica con l'apparizione del paradiso. E Stepan Kopenkin, castigatore errante, che compie le sue imprese assassine per la gloria della venerata Rosa Luxemburg in groppa alla cavalla Forza Proletaria, esce dalle pagine del romanzo non come un castigatore e assassino, ma come un pellegrino incantato e una cavaliere. Questa è la visione che le frasi di Platonov suscitano in noi. Quando scoppia la rivoluzione il vecchio Zachàr Pàvlovic dice al figlio adottivo Sasa: Gli imbecilli stanno prendendo il potere, è forse la volta che diventerà più intelligente la vita. Prochor Abràmovic era da tempo istupidito dalla miseria e dai troppi figli, non badava a nulla: né alle malattie dei bambini né alla nascita di quelli nuovi, neppure al raccolto cattivo o discreto, quindi pareva a tutti un brav' uomo. Kopenkin è perplesso di non vedere a Cevengur la gente lavorare. Il Giapponese gli spiega la situazione: La professione essenziale è l'anima dell' uomo. Il suo prodotto è l'amicizia e il cameratismo. Non è forse un'occupazione, secondo te? Kopenkin rifletté un poco sulla vita oppressa d' una volta. E' proprio bello da te a Cevengur, disse malinconicamente. Speriamo che non si debbano organizzare i guai: il comunismo deve essere aspro, uno zinzino di veleno fa bene al sapore. Il Giapponese sentì il sale fresco in bocca e capì subito. Forse hai ragione. Adesso dovremo organizzare apposta i guai. Vogliamo cominciare domani, compagno Kopenkin?. A dire il vero, lentamente, pacatamente, un lavoro collettivo si svolge a Cevengur: si spostano le case di legno e si trasferiscono i frutteti. Questo traffichìo avviene obbligatoriamente soltanto il sabato. E' un lavoro improduttivo e simbolico: si sciupa l' eredità piccolo-borghese e si confondono le vecchie strade. Non occorrono più: la gente è arrivata a destinazione. Cancellando le strade, spostando i cosiddetti beni immobili i deliranti utopisti di Cevengur sfigurano l'immagine e la sostanza della vecchia società oppressiva. La follia apocalittica è stata messa in moto, nelle anime semplici, ora miti, ora selvagge, dei millenaristi, dalle parole d' ordine e dalle formule della rivoluzione. Ho detto in principio, un po' per burla, che Platonov illumina l' epoca in cui concepì e scrisse il libro, gli euforici e spaventati anni Venti della Russia sovietica. Li illumina con un sinistro e lancinante e grottesco rovesciamento. Tutti sognano e tutti vengono trucidati (dalle guardie bianche). Un' immagine, che è insieme comica ed enigmatica, apre e chiude il libro. Nelle prime pagine il pescatore padre di Sasa, il fanciullo che sarà poi allevato da Zachàr Pàvlovic, si getta nel lago per vedere com' è la morte; poteva essere un' altra provincia situata sotto il cielo come sul fondo d' una fresca acqua. Dopo tante peripezie, Sasa che è sfuggito alla carneficina, alla fine del libro, si lascia andare nelle acque infantili dello stesso lago, in cerca di quella strada che suo padre aveva percorso nella curiosità della morte. Il romanzo è racchiuso tra questi due segni, che non appartengono al distretto rivoluzionario. A Ciociarnazzo si voleva organizzare la vita.

La Boldrini scambia la Camera per la sede del PCI: “Partigiani padroni di casa”, scrive giovedì, 16 aprile 2015, “Imola Oggi”. Commosso saluto della presidente della Camera, Laura Boldrini, ai partigiani presenti nell’Aula della Camera alla celebrazione del 70esimo anniversario della Liberazione. “Esprimiamo gratitudine alle donne e agli uomini della Resistenza anche per il loro impegno per tenere vivo il ricordo e gli ideali che hanno animato la battaglia per la democrazia. Voi, partigiani presenti in quest’Aula – ha aggiunto -, non siete qui come ospiti ma come padroni di casa”. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un messaggio sulla rivista “Micromega”, scrive: “La ricerca storica deve continuamente svilupparsi” ma “senza pericolose equiparazioni” fra i due campi in conflitto nella lotta di Liberazione nazionale dal nazifascismo. “La Resistenza, prima che fatto politico, fu soprattutto rivolta morale”, spiega Mattarella. “Questo sentimento, tramandato da padre in figlio, costituisce un patrimonio che deve permanere nella memoria collettiva del Paese”. “La Liberazione dal nazifascismo costituisce l’ evento centrale della nostra storia recente”, aggiunge il capo dello Stato. “Ai Padri costituenti non sfuggiva il forte e profondo legame tra la riconquista della libertà, realizzata con il sacrificio di tanto sangue italiano dopo un ventennio di dittatura e di conformismo, e la nuova democrazia”, scrive il Capo dello Stato, “Dittatura ma anche conformismo, questi i due mali che hanno caratterizzato il ventennio, per cui “la Costituzione, nata dalla Resistenza, ha rappresentato il capovolgimento della concezione autoritaria, illiberale, esaltatrice della guerra, imperialista e razzista che il fascismo aveva affermato in Italia, trovando, inizialmente, l’opposizione – spesso repressa nel sangue – di non molti spiriti liberi”. Dopo aver citato una riflessione dell’allora partigiano cattolico liberale Sergio Cotta, il Presidente della Repubblica ha voluto sottolineare la partecipazione di popolo, vieppiù crescente, ad una rivolta che era stata inizialmente di minoranze di spiriti liberi: “La sofferenza, il terrore, il senso d’ingiustizia, lo sdegno istintivo contro la barbarie di chi trucidava civili e razziava concittadini ebrei sono stati i tratti che hanno accomunato il popolo italiano in quel terribile periodo. Un popolo – composto di uomini, donne e persino ragazzi, di civili e militari, di intellettuali e operai – ha reagito anche con le armi in pugno, con la resistenza passiva nei lager in Germania, con l’aiuto ai perseguitati, con l’assistenza ai partigiani e agli alleati, con il rifiuto, spesso pagato a caro prezzo, di sottomettersi alla mistica del terrore e della morte”.(agi)

I partigiani alla Camera, Boldrini: "Siete padroni di casa" e la Boldrini canta "Bella ciao" con i partigiani. Ma La Russa: "E i fratelli Mattei?" Le alte cariche dello Stato a Montecitorio per ricordare la Resistenza. Ma dimenticano i fratelli Mattei. La Russa: "Furono uccisi da chi si proclamava nuovo partigiano", scrive Sergio Rame su “Il Giornale. Laura Boldrini accoglie i partigiani a Montecitorio. Ricordano il 70° anniversario della Liberazione. "È la prima volta che in un’Aula parlamentare - dichiara il presidente della Camera - la liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo viene ricordata con la partecipazione diretta sui banchi di coloro che vissero sulla loro pelle quella esperienza mettendo in gioco la loro vita, affetti e speranze della gioventù". Per l'occasione sono accorsi anche il capo dello Stato Sergio Mattarella, il numero uno del Senato Piero Grasso e uno stuolo di ministri. Tutti a santificare il 25 aprile dimenticando che oggi è il triste anniversario dei fratelli Mattei. Ad aprire la cerimonia è stata l’esecuzione dell’Inno nazionale da parte della Banda Interforze. L’Aula di Montecitorio, strapiena, è stata impavesata con i Tricolori. In molti hanno indossato al collo dei fazzoletti tricolori. "I partigiani non ospiti ma padroni di casa - ha detto la Boldrini - questi uomini e queste donne vengano onorati in una celebrazione solenne dalle alte cariche dallo Stato, dai deputati del senatori, ma anche da molti giovani che devono a questi nostri padri e a queste nostre madri la democrazia di oggi". Per il presidente della Camera la resistenza fu "un moto popolare", "collettivo" e "interclassista". "Ci fu un unità di intenti: liberare l’Italia dal nazifascismo - ha continuato - quello che si ottenne fu la democrazia che non è per sempre, è un dono che tante di queste persone hanno pagato rinunciando alla loro adolescenza, ai loro sogni ma con grande generosità, dando gli anni migliori della loro vita. È un dono che va sempre curato, tutelato, mantenuto vivo". La Boldrini ci ha tenuto, poi, a far lezione ai giovani d'oggi: "Devono capire che l’impegno di ieri deve continuare nel tempo, perché la crisi economica ha messo oggi a dura prova i valori fondanti della nostra Costituzione e bisogna essere vigili e non cedere rispetto a chi vuole prospettare un altro modello di società". "Non si ceda alla tentazione di considerare il 25 aprile come uno stanco rituale ripetuto di anno in anno - ha commentato Grasso - celebrare la Liberazione significa interrogarci sul nostro presente, sulle sfide che ci si pongono davanti comunità nazionale, sulla nostra capacità di realizzare, individualmente d collettivamente, valori e promesse che la Resistenza ci ha lasciato". Tra i presenti c'è stato pure chi non ha potuto non affidare i propri pensieri a Twitter. E per commemorare il 25 aprile i cinguettii si sprecano. "Grazie a chi allora lottò per il nostro futuro", ha scritto il ministro alle Riforme Maria Elena Boschi. "L’emozione dell’Aula piena di vecchi partigiani per i 70 anni della Liberazione - ha fatto eco il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini - vorrei che anche mio papà fosse qui". Quindi il presidente del Pd Matteo Orfini: "Un grande onore e una enorme emozione ricordare oggi in aula la Liberazione. E farlo per la prima volta insieme ai partigiani". La decisione della Camera di celebrare solennemente il 70° anniversario del 25 aprile non ha trovato tutti d'accordo. Anche perché è stato fatto con nove giorni d'anticipo e proprio quando avrebbe dovuto ricordare la barbara uccisione dei fratelli Stefano e Virgilio Mattei. Oltre a criticare i toni della celebrazione, che "appaiono assai lontani da quelli più riflessivi usati da tempo come ad esempio nello stesso intervento del presidente della Camera Violante all'atto del suo insediamento", Ignazio La Russa non ha nascosto il proprio stupore per la singolare scelta dei tempi. "La celebrazione - fa notare il deputato di Fratelli d'Italia - avviene con nove giorni di anticipo e proprio nel giorno in cui ricorre l’anniversario dell'uccisione dei fratelli Mattei bruciati vivi da chi arbitrariamente si proclamava nuovo partigiano".

25 aprile, Mattarella: "No a pericolose equiparazioni delle parti". Il presidente sottolinea: "Non si devono fare facili equiparazioni tra le parti che lottarono", scrive su “Il Giornale”. Il 25 aprile resta ancora una commemorazione a senso unico. Anche per Mattarella non bisogna mai paragonare i fascisti ai partigiani, nè ricordare chi tra il 1943 e il 1945 difese da Salò lo Stato italiano e la monarchia. Il nuovo inquilino del Colle chiarisce subito di stare dalla parte della memoria che contempla solo i partigiani. "La ricerca storica deve continuamente svilupparsi ma senza pericolose equiparazioni fra i due campi in conflitto nella lotta di Liberazione nazionale dal nazifascismo", scrive il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un messaggio che sarà pubblicato sul prossimo numero della rivista "Micromega". "La Resistenza, prima che fatto politico, fu soprattutto rivolta morale", spiega Mattarella, "questo sentimento, tramandato da padre in figlio, costituisce un patrimonio che deve permanere nella memoria collettiva del Paese". "La Liberazione dal nazifascismo costituisce l’ evento centrale della nostra storia recente. Ai Padri costituenti non sfuggiva il forte e profondo legame tra la riconquista della libertà, realizzata con il sacrificio di tanto sangue italiano dopo un ventennio di dittatura e di conformismo, e la nuova democrazia", scrive il Capo dello Stato, "dittatura ma anche conformismo, questi i due mali che hanno caratterizzato il ventennio, per cui »la Costituzione, nata dalla Resistenza, ha rappresentato il capovolgimento della concezione autoritaria, illiberale, esaltatrice della guerra, imperialista e razzista che il fascismo aveva affermato in Italia, trovando, inizialmente, l’opposizione - spesso repressa nel sangue - di non molti spiriti liberi". Dopo aver citato una riflessione dell’allora partigiano cattolico liberale Sergio Cotta, il Presidente della Repubblica ha voluto sottolineare la partecipazione di popolo ad una rivolta che era stata inizialmente di minoranze di spiriti liberi: "La sofferenza, il terrore, il senso d’ingiustizia, lo sdegno istintivo contro la barbarie di chi trucidava civili e razziava concittadini ebrei sono stati i tratti che hanno accomunato il popolo italiano in quel terribile periodo. Un popolo - composto di uomini, donne e persino ragazzi, di civili e militari, di intellettuali e operai - ha reagito anche con le armi in pugno, con la resistenza passiva nei lager in Germania, con l’aiuto ai perseguitati, con l’assistenza ai partigiani e agli alleati, con il rifiuto, spesso pagato a caro prezzo, di sottomettersi alla mistica del terrore e della morte". Insomma nelle parole del presidente c'è pietà e memoria solo per i partigiani. Per chi ha dato la propria vita in difesa dello Stato senza tradire resta solo un monito: "Non paragonateli ai partigiani". La storia resta di parte.

«Io, partigiana decorata snobbata dalla Boldrini perché non sono rossa». Paola Del Din, medaglia d’oro, cattolica, non è stata invitata alla Camera: «Celebrazione indecente, chiamano l’Anpi e non chi ha un’idea diversa», scrive Brunella Bolloli su "Libero Quotidiano". Il suo nome di battaglia era Renata. E non ha mai avuto paura. «Ero pronta a qualsiasi cosa per la libertà». In Friuli si lanciava con il paracadute per consegnare documenti agli alleati aggirando le linee di combattimento. E alla morte del fratello, Renato, fu prescelta dal resto della Brigata Osoppo per portare messaggi anche al Sud. Era staffetta e informatrice, «patriota» prima di tutto. Unica donna italiana vivente che può vantare due medaglie d’oro al valore militare: quella alla memoria, in onore del fratello caduto a Tolmezzo il 25 aprile del 1944, e la sua, che ha un piccolo paracadute sopra perché, nonostante fosse ferita, riuscì lo stesso a ultimare la sua missione. Una donna, Paola Del Din, classe 1923, che ha contribuito a scrivere un pezzo di storia italiana. Eppure la presidente della Camera, Laura Boldrini, di solito così sensibile ai meriti femminili, non l’ha ospitata giovedì alla Camera alla grande festa dei partigiani che hanno cantato Bella ciao tra fazzoletti al collo e cori dei deputati. Così come l’esponente di Sel non ha ritenuto di invitare le altre associazioni di partigiani e di combattenti delle forze armate regolari della Guerra di Liberazione, che infatti tuonano contro «l’occupazione politica della memoria» e dicono no alla divisione tra «partigiani di serie A e partigiani di serie B». «Non ho ricevuto alcun invito da nessuno, ma non sarei neppure andata», dice Paola Del Din a Libero. «Quella celebrazione mi è sembrata una vergogna, un modo per ricordare solo una parte, e del resto loro si chiamano partigiani, mentre noi eravamo prima di tutto patrioti. Combattevamo per gli italiani, non per un partito, ne avevamo abbastanza di un singolo partito». La signora ha passato i 90 anni, ma ha la mente fresca di una ragazzina mentre ricorda il passato pieno di azione, nel parlare del fratello «bellissimo, intelligente ed elegante». Della mamma che ha subìto il carcere, di lei che è stata contestata da militanti di Rifondazione comunista e investita davanti a tutti. Della guerra racconta: «Non ci sfiorava il pensiero della morte. Quando abbiamo cominciato non c’entrava niente. Eravamo giovani, ci impegnavamo. Io sono religiosa, cattolica praticante, credo mi abbia aiutato. Sono sempre andata dritta, forse non ho mai subito neanche una perquisizione quando portavo le carte». Renata ora ha imparato a usare Internet e legge tanto. In televisione ha visto la parata dei partigiani dell’Anpi di fronte alla Boldrini e non le è piaciuta. «L’ho trovata indecente perché ricordare solo quello che vogliono loro, non va bene. Hanno quella mania lì, di invitare solo l’Anpi e non capiscono che sbagliano. Dimenticano chi ha un’idea politica diversa dalla loro». Nell’Anpi c’è sempre stato il predominio degli iscritti al Pci, dei rossi. Ma i partigiani erano anche altro. Infatti dall’Anpi si staccarono la Fivl (federazione volontari della libertà) e altre aree non comuniste unite nella Fiap. Alle critiche della Del Din (che è stata omaggiata da Napolitano), si aggiungono quelle del senatore Carlo Giovanardi, che ha bollato come «divisiva la cerimonia della Boldrini. Un esempio tipico del perché non ci sia quella corale partecipazione alle celebrazioni della Liberazione che si registra in altri Paesi europei». L’associazione nazionale Combattenti Forze Armate Regolari Guerra di Liberazione (Ancfargl) ha attaccato la «pagliacciata di Montecitorio». Uno sgarbo anche per il generale di Corpo d’Armata Alberto Zignani, figlio del colonnello Goffredo Zignani, morto nel ’43 in Albania, medaglia d’oro al valor militare. «Nessuno vuole denigrare l’Anpi, sia chiaro», spiega il generale. «Ma si ricordi anche la Resistenza militare».

La Boldrini ai partigiani in Parlamento: Voi siete i padroni di casa. Che cazzata! Di Max Max su Asino Rosso. Laura Boldrini si candida per una rubrica fissa, su Asinorosso.itLa cazzata. Non si sa se sono di più quelle che dice o quelle che pensa. C’è da sperare, ormai, solo nelle elezioni anticipate, il cui unico risultato certo sarà un nuovo presidente di Montecitorio. Con mossa scontata, la Boldrini ha invitato in Parlamento, in vista del 25 aprile, i partigiani dell’Anpi e delle altre sigle reducistiche che, curiosamente, hanno forse più aderenti oggi di quando era possibile andare a combattere. Al vegliardo uditorio, la presidente della Camera ha rivolto parole appassionate e, nella foga, si è lasciata andare a un: Qui, voi, siete i padroni di casa! Neanche per idea, signora Boldrini! La Camera e il Senato, cioè, il Parlamento, sono la sede della sovranità popolare, il cui unico padrone è l’intero popolo italiano, non la minoranza partigiana tanto cara alla Sinistra. Per altro, la Boldrini sembra non essersi resa conto che, rilevando come fosse la prima volta che i partigiani, in quanto tali, sono stati invitati a una cerimonia nell’aula di Montecitorio, ha implicitamente ricordato come quella della Resistenza sia una memoria tutt’altra che condivisa e certamente, nella versione dell’Anpi, tutt’altro che condivisibile da parte di tutti. Se fosse diversamente, non si sarebbe aspettato 70 anni per invitarli, no? E non ci sarebbe stato bisogno dell’invito di una presidente che è tale grazie a una maggioranza che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima. A tale proposito – e in vista delle solite, stucchevoli celebrazioni – è bene ricordare a noi stessi e, quindi, anche agli altri, che è FALSA – non si scrive mai in maiuscolo, ma questa volta l’eccezione ci sta tutta – l’affermazione, secondo la quale la Repubblica sarebbe figlia della Resistenza e dell’Antifascismo. FALSA cronologicamente, poiché la Repubblica fu una scelta elettorale del popolo – per altro, truccata, ma ora si lasci stare -, in cui tanti resistenti votarono Monarchia (pare anche il primo capo dello Stato, Enrico De Nicola) e tanti fascisti (in odio al re) Repubblica, ben successiva alla fine della guerra. FALSA politicamente perché – la Boldrini si vada a rileggere, negli atti della Commissione dei 75, il dibattito in merito tra Umberto Tupini, presidente della commissione stessa, e Palmiro Togliatti -, alla precisa richiesta del leader comunista di inserire l’Antifascismo nella Costituzione la maggioranza dei costituenti si oppose espressamente. FALSA GIURIDICAMENTE – basta confrontare il progetto di costituzione 1947 con la Costituzione effettivamente approvata -, poiché il diritto di resistenza – che il Pci sopra a tutti voleva inserire nella Carta fondamentale – fu effettivamente avanzato come proposta di articolo della legge fondamentale dello Stato, ma sonoramente bocciato dall’aula. Insomma, Boldrini, l’ha detta anche stavolta, la cazzata!

Da Wikipedia. La nascita della Repubblica Italiana avvenne nel 1946, a seguito dei risultati del referendum istituzionale del 2 giugno dello stesso anno, indetto per determinare la forma di stato dopo il termine della seconda guerra mondiale, ovverosia il mantenimento dello stato monarchico o l'adozione della forma repubblicana. La notte fra il 12 e 13 giugno, nel corso della riunione del Consiglio dei ministri, il presidente Alcide De Gasperi, prendendo atto del risultato, assunse le funzioni di Capo provvisorio dello Stato repubblicano. L'ex re Umberto II lasciò volontariamente il paese il 13 giugno 1946, diretto a Cascais, una città nel sud del Portogallo senza nemmeno attendere la definizione dei risultati e la pronuncia sui ricorsi, che saranno respinti dalla Corte di Cassazione il 18 giugno 1946. I presunti brogli elettorali ed altre supposte azioni "di disturbo" della consultazione popolare, pur avendo costituito un tema di rivendicazione da parte dei sostenitori della causa monarchica non sono stati mai confermati dagli storici non di parte. Subito dopo il referendum scoppiarono però alcuni disordini, ad esempio in Via Medina diversi cittadini napoletani morirono in una strage, durante gli scontri a sostegno della monarchia. Il 2 giugno 1946, insieme alla scelta sulla forma dello Stato, i cittadini italiani (comprese le donne, che votavano per la prima volta in una consultazione politica nazionale) elessero anche i componenti dell'Assemblea Costituente che doveva redigere la nuova carta costituzionale. Risultarono votanti 12.998.131 donne e 11.949.056 uomini. Alla sua prima seduta, il 28 giugno 1946, l'Assemblea Costituente elesse a Capo Provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, con 396 voti su 501, al primo scrutinio. Con l'entrata in vigore della nuova Costituzione della Repubblica Italiana, De Nicola assunse per primo le funzioni di Presidente della Repubblica Italiana il 1º gennaio 1948. Si trattò di un passaggio di grande importanza per la storia dell'Italia contemporanea dopo il ventennio fascista, il coinvolgimento nella seconda guerra mondiale ed un periodo della storia nazionale assai ricco di eventi.

Risultati del referendum. Il 10 giugno 1946 la Corte suprema di cassazione proclamò i risultati del referendum, mentre il 18 giugno integrò i dati delle sezioni mancanti ed emise il giudizio definitivo sulle contestazioni, le proteste e i reclami concernenti le operazioni referendarie:

Repubblica: 12 717 923 voti (54,3%)

Monarchia: 10 719 284 voti (45,7%)

Nulli: 1 498 136 voti

Integrazione dei dati e giudizio definitivo sulle contestazioni. Alle ore 18:00 del 18 giugno, nell'Aula della Lupa di Montecitorio a Roma, la Corte di Cassazione, con dodici magistrati contro sette, stabilì che per maggioranza degli elettori votanti, prevista dalla legge istitutiva del referendum (art. 2 del decreto legislativo luogotenenziale nº 98 del 16 marzo 1946), si dovesse intendere la maggioranza dei voti validi, cioè la maggioranza dei consensi senza contare il numero delle schede bianche e delle nulle, che furono considerati voti non validi. La Suprema Corte, quindi, respinse i ricorsi dei monarchici e procedé alla pubblicazione dei risultati definitivi della consultazione referendaria: 12 717 923 voti favorevoli alla repubblica; 10 719 284 voti favorevoli alla monarchia e 1 498 136 voti nulli. Anche tenendo conto delle schede bianche o nulle, pertanto, la Repubblica aveva conseguito la maggioranza assoluta dei votanti, rendendo ininfluente ogni discussione sotto il profilo giuridico interpretativo. Nel 1960 Giuseppe Pagano, presidente della Corte di Cassazione il 18 giugno 1946, ma facente parte della fazione risultata minoritaria nella votazione, in un'intervista a Il Tempo di Roma affermò che la legge istitutiva del referendum era di applicazione impossibile, in quanto non dava il tempo alla Corte di svolgere i suoi lavori di accertamento, e ciò fu reso ancor più evidente dal fatto che numerose corti di appello non riuscirono a mandare i verbali alla Cassazione entro la data prevista. Inoltre, «l'angoscia del governo di far dichiarare la repubblica era stata tale da indurre al colpo di Stato prima che la Corte Suprema stabilisse realmente i risultati validi definitivi». Secondo il magistrato, tuttavia, non vi furono brogli; anche l'accoglimento della sua posizione, infatti «non avrebbe mai potuto spostare la maggioranza a favore della monarchia, poteva soltanto diminuire sensibilmente la differenza tra il numero dei voti a favore della monarchia e quello dei voti a favore della repubblica».

Analisi dei risultati. Il sospetto di brogli elettorali. Un recente studio basato su un'analisi statistica del voto (applicando la legge di Benford e simulazioni) a livello di singolo comune indica che la probabilità che siano avvenuti brogli elettorali è prossima allo zero. I monarchici attribuirono la sconfitta a tali presunti brogli e a scorrettezze nella convocazione dei comizi e nello svolgimento del referendum. Stime monarchiche valutano in circa tre milioni i voti che andarono persi per diverse ragioni, numero maggiore della differenza tra l'opzione repubblicana e quella monarchica. Alcuni storici sostengono una ricostruzione che vede Togliatti intervenire per ritardare il rientro in Italia dei reduci dai campi di prigionia russi, in quanto ne avrebbe temuto le testimonianze ai fini del voto. Tra le anomalie più rilevanti secondo i monarchici vi furono le seguenti.

Molti prigionieri di guerra si trovavano ancora all'estero e quindi impossibilitati a votare. Il referendum sarebbe quindi stato indetto intenzionalmente senza attenderne il rientro.

Parte delle province orientali (Trieste, Gorizia e Bolzano) non erano ancora state restituite alla sovranità italiana, e quindi, il risultato sarebbe stato da considerarsi soltanto parziale. Si trattava peraltro di province appartenenti all'area settentrionale (nella quale il voto repubblicano aveva ottenuto generalmente un'ampia maggioranza).

I primi risultati pervenuti indicavano una netta prevalenza di voti a favore della monarchia, in particolare i rapporti dell'Arma dei Carabinieri provenienti direttamente dai seggi elettorali.

Analisi statistiche avrebbero poi evidenziato come il numero dei voti registrati fosse superiore a quello dei possibili elettori. Nel disordine generale seguito alla guerra, pare possibile che un numero di elettori abbia usato documenti d'identità falsi, per votare più volte.

Nessuna delle suddette anomalie implica necessariamente una penalizzazione del voto monarchico o una frode a favore della repubblica: è infatti del tutto impossibile sapere a chi sarebbero andati i voti mancati, o a favore di quale delle due opzioni siano stati espressi i presunti voti duplicati, né si conosce il grado di rappresentatività del campione dei primi risultati e dei rapporti dei Carabinieri.

I monarchici presentarono numerosi reclami giudiziari, che vennero però respinti dalla Corte di Cassazione il 18 giugno 1946.

Sociologia del voto. Il divario fra le preferenze espresse per la repubblica e quelle per la monarchia fu una sorpresa, in quanto lo si prevedeva di un'entità anche superiore a quello di circa due milioni, poi risultato dallo scrutinio ufficiale. Tra le regioni del nord stupì il voto del Piemonte, regione storicamente legata a Casa Savoia, dove la repubblica aveva vinto con il 56,9%. La regione dove si ebbe la maggior percentuale di voti nulli fu la Valle d'Aosta, altro territorio storicamente legato alla Casa sabauda. Sono state proposte diverse interpretazioni sociologiche e statistiche del voto che avrebbero intravisto influenze della condizione economica del momento, dell'ingresso dell'elettorato femminile, o da molti altri fattori. Dai dati del voto l'Italia risultò divisa in un sud monarchico e un nord repubblicano. Le cause di questa netta dicotomia possono essere ricercate nella differente storia delle due parti dell'Italia dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943. Per le regioni del sud la guerra finì appunto nel 1943 con l'occupazione alleata e la progressiva ripresa del cosiddetto Regno del Sud. Per contro, il nord dovette vivere quasi due anni di occupazione tedesca e di lotta partigiana (contro appunto i tedeschi e i fascisti della RSI) e fu l'insanguinato teatro della guerra civile (che ebbe echi protrattisi anche molto dopo la cessazione formale delle ostilità). Le forze più impegnate nella guerra partigiana facevano capo a partiti apertamente repubblicani (partito comunista, partito socialista, movimento di Giustizia e Libertà). Una delle cause che contribuì alla sconfitta della monarchia fu probabilmente una valutazione negativa della figura di Vittorio Emanuele III, giudicato da una parte corresponsabile degli orrori del fascismo; dall'altro la sua decisione di abbandonare Roma, e con essa l'esercito italiano che venne lasciato privo di ordini, per rifugiarsi nel sud subito dopo la proclamazione dell'armistizio di Cassibile, fu vista come una vera e propria fuga e non migliorò certo la fiducia degli italiani verso la monarchia. Le vicende della seconda guerra mondiale non aumentarono le simpatie verso la monarchia anche a causa degli atteggiamenti discordanti di alcuni membri della casa regnante. La moglie di Umberto, la principessa Maria José, cercò nel 1943, attraverso contatti con le forze alleate, di negoziare una pace separata muovendosi al di fuori della diplomazia ufficiale. Queste manovre, anche se apprezzate da una parte del fronte antifascista, furono viste in campo monarchico come un tradimento ed all'esterno, insieme alle prese di distanza ufficiali del Quirinale, come sintomi di profondi contrasti in seno a Casa Savoia, della quale evidenziavano l'irresolutezza.

Milano, mozione leghista a Palazzo Marino: "Mettete al bando i partiti comunisti". Il documento è stato presentato dai consiglieri comunali Bastoni, Lepore e Iezzi: "E' arrivato il momento di equiparare per difetto i crimini compiuti dal comunismo a quelli commessi dal nazismo", scrive Oriana Liso su “la Repubblica” Il consigliere leghista Massimo Bastoni Una mozione non si nega a nessuno. I consiglieri comunali ne depositano sugli argomenti più disparati, spesso su temi molto distanti dalle questioni legate alla vita della città. Massimiliano Bastoni, Luca Lepore e Igor Iezzi, tre consiglieri comunali della Lega Nord a Palazzo Marino, hanno deciso di occuparsi della "messa al bando dei partiti comunisti": si intitola così la mozione che hanno depositato due giorni fa, chiedendo che il consiglio comunale di Milano impegni il sindaco e la giunta a "intervenire presso le sedi opportune (parlamento e governo) per sollecitare la messa al bando di quei partiti italiani che richiamano simboli e si rifanno a dottrine comuniste". La spiegazione di questa richiesta è molto articolata. E ha come premessa che "sono ormai passati 26 anni dalla caduta dei regimi comunisti dell'Europa centrale e orientale e che il crollo delle dittature rosse ha rappresentato la fine di un incubo per alcune popolazioni che finalmente hanno potuto assaporare il gusto della democrazia e della libertà". Per i tre consiglieri del Carroccio (manca soltanto la firma del capogruppo Alessandro Morelli) va combattuta la "nostalgia del comunismo", ideologia che "è stragista e si alimenta tramite una feroce dittatura costruita su principi demagogici". Poi citano i morti causati dal comunismo, "circa 100 milioni di vittime tra esecuzioni, decessi nei campi di concentramento, vittime della fama e delle deportazioni", un numero che "è decisamente superiore a quello dei morti dell'ideologia nazista, e ricordano che il Consiglio d'Europa, nel 2006, ha approvato la risoluzione 1481 sulla condanna internazionale dei crimini del comunismo. Ma i consiglieri del Carroccio (ormai sempre più alleato elettorale di Forza Nuova) esaminano anche il comunismo italiano, ricordando che "è stato fiancheggiatore del Pcus sovietico, che ha aggredito e offeso gli esuli istriani e che ha sterminato un numero spaventosamente grande di italiani completamente innocenti e senza alcun processo, negli anni che hanno seguito la fine della seconda guerra mondiale, e ha venduto la libertà del nostro paese ai soviet" e che, infine, "ha generato e mantenuto una rivoluzione sotterranea e perenne che a sua volta ha generato il terrorismo rosso". Per tutte queste ragioni, insomma, ritengono che "sia giunta ormai l'ora, anche in Italia, di equiparare per difetto i crimini compiuti dal comunismo (male peggiore del XX secolo) a quelli commessi dal nazismo. E che quindi sia "necessario mettere al bando tutti i partiti italiani che richiamo e si rifanno a questa metastatica cancrena ideologica, seminatrice di vessazioni, di terrore e di morte in molte parti del mondo". Al bando, quindi, potrebbero finire Rifondazione, ma anche il Partito comunista (guidato da Marco Rizzo). Mozione depositata: bisognerà vedere se e quando verrà messa in calendario per la discussione in aula.

Non chiamateli eroi. L’elenco delle ausiliarie uccise dai partigiani dopo che si erano arrese, scrive “Quelsi”.

Amodio Rosa: 23 anni, assassinata nel luglio del 1947, mentre in bicicletta andava da Savona a Vado.

Antonucci Velia: due volte prelevata, due volte rilasciata a Vercelli, poi fucilata.

Audisio Margherita: Fucilata a Nichelino il 26 aprile 1945.

Baldi Irma: Assassinata a Schio il 7 luglio 1945.

Batacchi Marcella e Spitz Jolanda: 17 anni, di Firenze. Assegnate al Distretto militare di Cuneo altre 7 ausiliarie, il 30 aprile 1945, con tutto il Distretto di Cuneo, pochi ufficiali, 20 soldati e 9 ausiliarie, si mettono in movimento per raggiungere il Nord, secondo gli ordini ricevuti. La colonna è però costretta ad arrendersi nel Biellese ai partigiani del comunista Moranino. Interrogate, sette ausiliarie, ascoltando il suggerimento dei propri ufficiali, dichiarano di essere prostitute che hanno lasciato la casa di tolleranza di Cuneo per seguire i soldati. Ma Marcella e Jolanda non accettano e si dichiarano con fierezza ausiliarie della RSI. I partigiani tentano allora di violentarle, ma le due ragazze resistono con le unghie e con i denti. Costrette con la forza più brutale, vengono violentate numerose volte. In fin di vita chiedono un prete. Il prete viene chiamato ma gli è impedito di avvicinare le ragazze. Prima di cadere sotto il plotone di esecuzione, sfigurate dalle botte di quelle belve indegne di chiamarsi partigiani, mormorano: “Mamma” e “Gesù”. Quando furono esumate, presentavano il volto tumefatto e sfigurato, ma il corpo bianco e intatto. Erano state sepolte nella stessa fossa, l’una sopra l’altra. Era il 3 maggio 1945.

Bergonzi Irene: Assassinata a Milano il 29 aprile 1945.

Biamonti Angela: Assassinata il 15 maggio 1945 a Zinola (SV) assieme ai genitori e alla domestica.

Bianchi Annamaria: Assassinata a Pizzo di Cernobbio (CO) il 4 luglio 1945.

Bonatti Silvana: Assassinata a Genova il 29 aprile 1945.

Brazzoli Vincenza: Assassinata a Milano il 28 aprile 1945.

Bressanini Orsola: Madre di una giovane fascista caduta durante la guerra civile, assassinata a Milano il 10 maggio 1945.

Buzzoni Adele, Buzzoni Maria, Mutti Luigia, Nassari Dosolina, Ottarana Rosetta: Facevano parte di un gruppo di otto ausiliarie, (di cui una sconosciuta), catturate all’interno dell’ospedale di Piacenza assieme a sei soldati di sanità. I prigionieri, trasportati a Casalpusterlengo, furono messi contro il muro dell’ospedale per essere fucilati. Adele Buzzoni supplicò che salvassero la sorella Maria, unico sostegno per la madre cieca. Un partigiano afferrò per un braccio la ragazza e la spostò dal gruppo. Ma, partita la scarica, Maria Buzzoni, vedendo cadere la sorella, lanciò un urlo terribile, in seguito al quale venne falciata dal mitra di un partigiano. Si salvarono, grazie all’intervento di un sacerdote, le ausiliarie Anita Romano (che sanguinante si levò come un fantasma dal mucchio di cadaveri) nonché le sorelle Ida e Bianca Poggioli, che le raffiche non erano riuscite ad uccidere.

Carlino Antonietta: Assassinata il 7 maggio 1945 all’ospedale di Cuneo, dove assisteva la sua caposquadra Raffaella Chiodi.

Castaldi Natalina:Assassinata a Cuneo il 9 maggio 1945.

Chandrè Rina, Giraldi Itala, Rocchetti Lucia: Aggregate al secondo RAU (Raggruppamento Allievi Ufficiali) furono catturate il 27 aprile 1945 a Cigliano, sull’autostrada Torino – Milano, dopo un combattimento durato 14 ore. Il reparto si era arreso dopo aver avuto la garanzia del rispetto delle regole sulla prigionia di guerra e dell’onore delle armi. Trasportate con i loro camerati al Santuario di Graglia, furono trucidate il 2 maggio 1945 assieme ad oltre 30 allievi ufficiali con il loro comandante, maggiore Galamini, e le mogli di due di essi. La madre di Itala ne disseppellì i corpi.

Chiettini (si ignora il nome): Una delle tre ausiliarie trucidate nel massacro delle carceri di Schio il 6/7 luglio 1945.

Collaini Bruna, Forlani Barbara: Assassinate a Rosacco (Pavia) il 5 maggio 1945.

Conti – Magnaldi Adelina: Madre di tre bambini, assassinata a Cuneo il 4 maggio 1945.

Crivelli Jolanda: Vedova ventenne di un ufficiale del Battaglione “M” costretta a denudarsi e fucilata a Cesena, sulla piazza principale, dopo essere stata legata ad un albero, ove il cadavere rimase esposto per due giorni e due notti.

De Simone Antonietta: Romana, studentessa del quarto anni di Medicina, fucilata a Vittorio Veneto in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.

Degani Gina: Assassinata a Milano in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.

Ferrari Flavia: 19 anni, assassinata l’ 1 maggio 1945 a Milano.

Fragiacomo Lidia, Giolo Laura: Fucilate a Nichelino (TO) il 30 aprile 1945 assieme ad altre cinque ausiliarie non identificate, dopo una gara di emulazione nel tentativo di salvare la loro comandante.

Gastaldi Natalia: Assassinata a Cuneo il 3 maggio 1945.

Genesi Jole, Rovilda Lidia: Torturate all’hotel San Carlo di Arona (Novara) e assassinate il 4 maggio 1945. In servizio presso la GNR di Novara. Catturate alla Stazione Centrale di Milano, ai primi di maggio, le due ausiliarie si erano rifiutate di rivelare dove si fosse nascosta la loro comandante provinciale.

Greco Eva: Assassinata a Modena assieme a suo padre nel maggio del 1945.

Grill Marilena: 16 anni, assassinata a Torino la notte del 2 maggio 1945.

Landini Lina: Assassinata a Genova l’1 maggio 1945.

Lavise Blandina: Una delle tre ausiliarie trucidate nel massacro delle carceri di Schio il 6/7 luglio 1945.

Locarno Giulia: Assassinata a Porina (Vicenza) il 27 aprile 1945.

Luppi – Romano Lea: Catturata a Trieste dai partigiani comunisti, consegnata ai titini, portata a a Lubiana, morta in carcere dopo lunghe sofferenze il 30 ottobre 1947.

Minardi Luciana: 16 anni di Imola. Assegnata al battaglione “Colleoni” della Divisione “San Marco” attestati sul Senio, come addetta al telefono da campo e al cifrario, riceve l’ordine di indossare vestiti borghesi e di mettersi in salvo, tornando dai genitori. Fermata dagli inglesi, si disfa, non vista, del gagliardetto gettandolo nel Po. La rilasciano dopo un breve interrogatorio. Raggiunge così i genitori, sfollati a Cologna Veneta (VR). A metà maggio, arriva un gruppo di partigiani comunisti. Informati, non si sa da chi, che quella ragazzina era stata una ausiliaria della RSI, la prelevano, la portano sull’argine del torrente Guà e, dopo una serie di violenze sessuali, la massacrano. “Adesso chiama la mamma, porca fascista!” le grida un partigiano mentre la uccide con una raffica.

Monteverde Licia: Assassinata a Torino il 6 maggio 1945.

Morara Marta: Assassinata a Bologna il 25 maggio 1945.

Morichetti Anna Paola: Assassinata a Milano il 27 aprile 1945.

Olivieri Luciana: Assassinata a Cuneo il 9 maggio 1945.

Ramella Maria: Assassinata a Cuneo il 5 maggio 1945.

Ravioli Ernesta: 19 anni, assassinata a Torino in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.

Recalcati Giuseppina, Recalcati Mariuccia, Recalcati Rina:  Madre e figlie assassinate a Milano il 27 aprile 1945.

Rigo Felicita: Assassinata a Riva di Vercelli il 4 maggio 1945.

Sesso Triestina: Gettata viva nella foiba di Tonezza, presso Vicenza.

Silvestri Ida: Assassinata a Torino l’1 maggio 1945, poi gettata nel Po.

Speranzon Armida: Massacrata, assieme a centinaia di fascisti nella Cartiera Burgo di Mignagola dai partigiani di “Falco”. I resti delle vittime furono gettati nel fiume Sile.

Tam Angela Maria: Terziaria francescana, assassinata il 6 maggio 1945 a Buglio in Monte (Sondrio) dopo aver subito violenza carnale.

Tescari -Ladini Letizia: Gettata viva nella foiba di Tonezza, presso Vicenza.

Ugazio Cornelia, Ugazio Mirella: Assassinate a Galliate (Novara) il 28 aprile 1945 assieme al padre.

Tra le vittime del massacro compiuto dai partigiani comunisti nelle carceri di Schio (54 assassinati nella notte tra il 6 ed il 7 luglio 1945) c’erano anche 19 donne, tra cui le 3 ausiliarie (Irma Baldi, Chiettini e Blandina Lavise) richiamate nell’elenco precedente. In via Giason del Maino, a Milano, tre franche tiratrici furono catturate e uccise il 26 aprile 1945. Sui tre cadaveri fu messo un cartello con la scritta “AUSIGLIARIE”. I corpi furono poi sepolti in una fossa comune a Musocco. Impossibile sapere se si trattasse veramente di tre ausiliarie. Nell’archivio dell’obitorio di Torino, il giornalista e storico Giorgio Pisanò ha ritrovato i verbali d’autopsia di sei ausiliarie sepolte come “sconosciute”, ma indossanti la divisa del SAF. Cinque ausiliarie non identificate furono assassinate a Nichelino (TO) il 30 aprile 1945 assieme a Lidia Fragiacomo e Laura Giolo. Al cimitero di Musocco (Milano) sono sepolte 13 ausiliarie sconosciute nella fossa comune al Campo X. Un numero imprecisato di ausiliarie della “Decima Mas” in servizio presso i Comandi di Pola, Fiume e Zara, riuscite a fuggire verso Trieste prima della caduta dei rispettivi presidi, furono catturate durante la fuga dai comunisti titini e massacrate.

Esecuzioni, torture, stupri Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega, scrive Giampaolo Pansa su "Il Giornale". C'è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell'introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull'esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un'altra, la loro. Tanto i partigiani comunisti che i miliziani fascisti combattevano per la bandiera di due dittature, una rossa e l'altra nera. Le loro ideologie erano entrambe autoritarie. E li spingevano a fanatismi opposti, uguali pur essendo contrari. Ma prima ancora delle loro fedeltà politiche venivano i comportamenti tenuti giorno per giorno nel grande incendio della guerra civile. Era un tipo di conflitto che escludeva la pietà e rendeva fatale qualunque violenza, anche la più atroce. Pure i partigiani avevano ucciso persone innocenti e inermi sulla base di semplici sospetti, spesso infondati, o sotto la spinta di un cieco odio ideologico. Avevano provocato le rappresaglie dei tedeschi, sparando e poi fuggendo. Avevano torturato i fascisti catturati prima di sopprimerli. E quando si trattava di donne, si erano concessi il lusso di tutte le soldataglie: lo stupro, spesso di gruppo. A conti fatti, anche la Resistenza si era macchiata di orrori. Quelli che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorderà nel suo primo messaggio al Parlamento, il 16 maggio 2006, con tre parole senza scampo: «Zone d'ombra, eccessi, aberrazioni». Un'eredità pesante, tenuta nascosta per decenni da un insieme di complicità. L'opportunismo politico che imponeva di esaltare sempre e comunque la lotta partigiana. Il predominio culturale e organizzativo del Pci, regista di un'operazione al tempo stesso retorica e bugiarda. La passività degli altri partiti antifascisti, timorosi di scontrarsi con la poderosa macchina comunista, la sua propaganda, la sua energia nel replicare colpo su colpo. Soltanto una piccola frazione della classe dirigente italiana si è posta il problema di capire che cosa si nascondeva dietro il sipario di una storia contraffatta della nostra guerra civile. E ha iniziato a farsi delle domande a proposito del protagonista assoluto della Resistenza: i comunisti. Ancora oggi, nel 2012, qualcuno si affanna a dimostrare che a scendere in campo contro tedeschi e fascisti e stato un complesso di forze che comprendeva pure soggetti moderati: militari, cattolici, liberali, persino figure anticomuniste come Edgardo Sogno. È vero: c'erano anche loro nel blocco del Corpo volontari della liberta. Ma si e trattato sempre di minoranze, a volte di piccole schegge. Impotenti a contrastare la voglia di egemonia del Pci e i comportamenti che ne derivavano. Del resto, i comunisti perseguivano un disegno preciso e potente che si è manifestato subito, quando ancora la Resistenza muoveva i primi passi. Volevano essere la forza numero uno della guerra di liberazione. Un conflitto che per loro rappresentava soltanto il primo tempo di un passaggio storico: fare dell'Italia uscita dalla guerra una democrazia popolare schierata con l'Unione Sovietica. Dopo il 25 aprile 1945 le domande sulle vere intenzioni dei comunisti italiani si sono moltiplicate, diventando sempre più allarmate. Mi riferisco ad aree ristrette dell'opinione pubblica antifascista. La grande maggioranza della popolazione si preoccupava soltanto di sopravvivere. Con l'obiettivo di ritornare a un'esistenza normale, trovare un lavoro e conquistare un minimo di benessere. Piccoli tesori perduti nei cinque anni di guerra. Ma le élite si chiedevano anche dell'altro. Sospinte dal timore che il dopoguerra italiano avesse un regista e un attore senza concorrenti, si interrogavano sul futuro dell'Italia appena liberata. Sarebbe divenuta una democrazia parlamentare oppure il suo destino era di subire una seconda guerra civile scatenata dai comunisti, per poi cadere nelle grinfie di un regime staliniano? Era una paura fondata su quel che si sapeva della guerra civile spagnola. Nel 1945 non era molto, ma quanto si conosceva bastava a far emergere prospettive inquietanti. Anche in Spagna era esistita una coalizione di forze politiche a sostegno della repubblica aggredita dal nazionalismo fascista del generale Francisco Franco. Ma i comunisti iberici, affiancati, sostenuti e incoraggiati dai consiglieri sovietici inviati da Stalin in quell'area di guerra, avevano subito cercato di prevalere sull'insieme dei partiti repubblicani, raccolti nel Fronte popolare. A poco a poco era emerso un inferno di illegalità spaventose. Arresti arbitrari. Tribunali segreti. Delitti politici brutali. Carceri clandestine dove i detenuti venivano torturati e poi fatti sparire. Assassinii destinati ad annientare alleati considerati nemici. Il più clamoroso fu il sequestro e la scomparsa di Andreu Nin, il leader del Poum, il Partito operaio di unificazione marxista. Il Poum era un piccolo partito nel quale militava anche George Orwell, lo scrittore inglese poi diventato famoso per Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali e 1984. Orwell aveva 34 anni, era molto alto, magrissimo, sgraziato, con una faccia da cavallo. Era arrivato a Barcellona da Londra alla fine del 1936. Una fotografia lo ritrae al fondo di una piccola colonna di miliziani del Poum. Una cinquantina di uomini, preceduti da un bandierone rosso con la falce e martello, la sigla del partito e la scritta «Caserma Lenin», la base dell'addestramento. Orwell stava sul fronte di Huesca quando i comunisti e i servizi segreti sovietici decisero la fine del Poum. Lo consideravano legato a Lev Davidovic Trotsky, il capo bolscevico diventato nemico di Stalin. In realta era soltanto un gruppuscolo antistaliniano con 10 mila iscritti. L'operazione per distruggerlo venne ordita e condotta da Aleksandr Orlov, il nuovo console generale dell'Urss a Barcellona, ma di fatto il capo della filiale spagnola del Nkvd, la polizia segreta sovietica. Nel giugno 1937, un decreto del governo repubblicano guidato dal socialista di destra Juan Negrin, succube dei comunisti, dichiaro fuori legge il Poum, sospettato a torto di cospirare con i nazionalisti di Franco. Tutti i dirigenti furono imprigionati. Se qualcuno non veniva rintracciato, toccava alla moglie finire in carcere. Gli arrestati si trovarono nelle mani del Nkvd che li rinchiuse in una prigione segreta, una chiesa sconsacrata di Madrid. Interrogato e torturato per quattro giorni, Nin rifiuto di firmare l'accusa assurda che gli veniva rivolta: l'aver comunicato via radio al nemico nazionalista gli obiettivi da colpire con l'artiglieria. Gli sgherri di Orlov lo trasportarono in una villa fuori città. Qui misero in scena una finzione grottesca: la liberazione di Nin per opera di un commando di agenti della Gestapo nazista, incaricati da Hitler di salvare il leader del Poum. Ma si trattava soltanto di miliziani tedeschi di una Brigata internazionale, al servizio di Orlov. Nin scomparve, ucciso di nascosto e sepolto in un luogo rimasto segreto per sempre. E come lui, tutti i suoi seguaci svanirono nel nulla. Quanto accadeva in Spagna fu determinante per la svolta ideologica di uno scrittore americano di sinistra, John Dos Passos. Scrisse: «Ciò che vidi mi provoco una totale disillusione rispetto al comunismo e all'Unione Sovietica. Il governo di Mosca dirigeva in Spagna delle bande di assassini che ammazzavano senza pietà chiunque ostacolasse il cammino dei comunisti. Poi infangavano la reputazione delle loro vittime con una serie di calunnie». Le stesse infamie, sia pure su scala ridotta, vennero commesse in Italia da bande armate del Pci, durante e dopo la guerra civile.

Foibe, 300 fascisti di Salò ricevono la medaglia per il Giorno del Ricordo. Le onorificenze concesse dal governo per celebrare le vittime delle Foibe. Tra i commemorati decine di repubblichini, di cui 5 accusati di uccisioni, torture e saccheggi, scrive Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”. Medaglie di onorificenza «in riconoscimento del sacrificio offerto alla Patria» per circa 300 combattenti di Salò (tra cui almeno 5 criminali di guerra accusati di avere torturato e ucciso a sangue freddo). Partiamo dall’inizio. Le decorazioni sono state concesse dai governi a partire dal 2004 in memoria delle vittime delle foibe come previsto dalla legge istitutiva del Giorno del Ricordo. La promosse l’esecutivo Berlusconi su proposta di un gruppo di parlamentari: in prevalenza Fi e An, ma non mancavano esponenti Udc e del centrosinistra. Oltre alla conservazione della memoria, il testo disciplina la consegna delle medaglie ai familiari delle vittime sino al sesto grado. Onorificenze estese a chiunque, tra Friuli e Slovenia, sia stato ucciso «per cause riconducibili a infoibamenti». Ovvero, nel periodo che va dall’8 settembre a metà del 1947, a seguito di «torture, annegamenti, fucilazione, massacri, attentati in qualsiasi modo perpetrati». Con queste «maglie» assai larghe, tra i commemorati sono stati inseriti profili controversi. Stando almeno a carte provenienti dalla Jugoslavia ma anche dall’Italia. Nell’elenco di coloro che hanno ricevuto quello stemma «in vile metallo» - così lo definisce il provvedimento che alla Camera venne approvato con soli 15 voti contrari e all’unanimità al Senato - compaiono cinque nominativi che secondo i documenti conservati a Belgrado, presso «l’Archivio di Jugoslavia», sono «criminali di guerra». Gente che - anche prima dell’8 settembre, raccontano quelle carte - a seconda dei casi ha ucciso e torturato civili italiani e jugoslavi, ammazzato a sangue freddo, incendiato case, saccheggiato, ordinato fucilazioni di partigiani e segnalato gente da spedire nei lager in Germania. Si tratta del carabiniere Giacomo Bergognini, del finanziere Luigi Cucè, dell’agente di polizia Bruno Luciani, dei militi Romeo Stefanutti e Iginio Privileggi e del prefetto Vincenzo Serrentino (il cui nome è citato anche nel relazione della commissione d’inchiesta parlamentare «sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti»). I primi tre, raccontano fonti diverse, sia italiane sia slave, «scomparsi» o «dispersi» a partire dai primi giorni del maggio 1945, verosimilmente gettati nelle foibe. Il quarto «ucciso da slavi». Il quinto «infoibato». Il sesto, prefetto a Zara (occupazione nazista, amministrazione Rsi) catturato dai partigiani di Tito e fucilato nel 1947 dopo essere stato condannato da un tribunale jugoslavo. Uno scenario, questo dei combattenti Rsi ricordati dalle medaglie, emerso per caso dopo che lo scorso 10 febbraio al capitano dei bersaglieri Rsi Paride Mori - ucciso il 18 febbraio 1944 «in un agguato organizzato dai partigiani titini, quelli con cui stava combattendo aspramente da mesi» per stare alle parole del figlio Renato - per mano del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio è stata dedicata la medaglia del Giorno del Ricordo. All’Anpi e in altre associazioni antifasciste si sono accorti però che Mori era sì un bersagliere. Ma repubblichino (il neologismo coniato da Radio Londra). Circostanza di cui si appreso solo dopo che dal comune di Traversetolo, nel Parmense, dove il soldato era nato, il sindaco ha deciso di revocare la dedica di una strada al bersagliere di Salò inizialmente passata nell’indifferenza. Da qui in poi, polemiche a non finire. A seguito delle quali è arrivato il mezzo ripensamento di Delrio che in un tweet ha chiarito che «se la commissione che ha vagliato centinaia di domande ha valutato erroneamente, il riconoscimento dovrà essere revocato». Appunto: una decisione che potrebbe essere presa già lunedì 23, quando il gruppo di esperti (10 in tutto: tra cui rappresentanti degli studi storici della Difesa, degli Interni e della Presidenza del consiglio e da storici delle foibe) prenderà in mano il dossier Mori. Che però potrebbe rivelarsi il meno problematico. L’elenco aggiornato dei riconoscimenti circa 300 persone. Solo alcuni solo civili spariti nelle Foibe perché vittime di rappresaglie titine. E altri - i casi eventualmente da riconsiderare, una cifra che oscilla tra i 270 e i 300 a seconda delle fonti - militari inquadrati nelle formazioni di Salò. Carabinieri dell’esercito regio confluiti nella Rsi. Al pari di poliziotti e finanzieri. Militi, volontari nella Guardia Nazionale Repubblicana. Fascisti «idealisti e patrioti» come il capitano Mori che - è il ricordo del figlio - risulta «essersi opposto ai rastrellamenti ordinati dai tedeschi: lui combatteva i titini, non gli italiani». Ma nella lista ci sono almeno 5 criminali di guerra, secondo quanto stabilito dalla giustizia jugoslava. Il carabiniere Bergognini - era l’8 agosto 1942 - partecipò a un raid nell’abitato di Ustje, in Slovenia. Case incendiate, famiglie radunate nel cimitero, picchiate. Sino a che 8 uomini «vennero presi, torturati di fronte a tutti e uccisi con il coltello o con il fucile». Il finanziere Cucè spedì nei lager e fece fucilare «diversi patrioti antifascisti» torturando gente così come fecero l’agente Luciani e i militi Privileggi e Stefanutti. Testimonianze (che sono riferite ai loro reparti) raccontano di «occhi cavati, orecchie tagliate, corpi martoriati, saccheggi nelle case». Serrentino, tenente nella Grande guerra, fiumano con D’Annunzio, fece fucilare decine di persone nella città di Zara, di cui era prefetto. Vicende, queste delle efferatezze commesse dai fascisti medagliati, ricostruite da due storici in lavori diversi: Milovan Pisarri (italiano che vive a Belgrado) e Sandi Volk (italiano della minoranza slovena). Pisarri - lavori sulla Shoah e uno in uscita sul Porrajmos, l’Olocausto dei nomadi - ha raccolto i dossier sui criminali di guerra italiani studiando documenti a Belgrado, all’Archivio Jugoslavo. Scuote la testa, ora: per le mani si è ritrovato non solo le accuse basate sulle testimonianze delle vittime. Ma anche« fascicoli in italiano, ordini e disposizioni provenienti soprattutto dall’esercito regio in rotta nei Balcani». Materiale «ancora da studiare, importantissimo». Volk si è invece occupato del conteggio dei repubblichini commemorati nel Giorno del Ricordo. «Con quelli di quest’anno si arriva a 300. Il 90 per cento apparteneva a formazioni armate al servizio dei nazisti dato che il Friuli dopo l’8 settembre era divenuto “Zona d’Operazioni Litorale adriatico”, amministrata direttamente dai tedeschi e non facente parte della Rsi». Le formazioni fasciste «non potevano avere nemmeno le denominazioni che avevano a Salò ed erano alle dirette dipendenze dell’apparato nazista». L’elenco asciutto delle motivazioni racconta tanto: anche di scelte devastanti, meditate, che legano caso, ideali ed eroismo. Quella del carabiniere Bruno Domenico, ad esempio. Che l’8 settembre (il giorno dell’armistizio, dunque Salò deve ancora nascere) nella stazione dell’Arma di Rovigno, in Istria, «rifiuta di consegnare le armi ai partigiani comunisti italo croati». Lo incarcerano assieme ad altre 16 persone: e di lui non si sa più nulla. Almeno 56 sono i finanzieri di Salò medagliati per il Ricordo. I loro nomi compaiono sul sito delle Fiamme Gialle: tutti dispersi, verosimilmente uccisi da «partigiani titini» o «bande ribelli». Spiccano le storie del maresciallo Giuseppe D’Arrigo: viene a sapere che la brigata che comanda è stata interamente catturata. Al che indossa la divisa e raggiunge i titini, per stare vicino ai suoi uomini trattandone magari la liberazione. Ma viene fucilato il 3 maggio 1945. La stessa sorte toccata a Giuseppe D’Arrigo che si unisce ai partigiani jugoslavi intenzionato a combattere i tedeschi: ma pure lui viene passato per le armi. Ennio Andreotti viene catturato dai tedeschi dopo l’8 settembre. In qualche modo si libera il 1° settembre 1944. Da questo giorno risulta disperso. «Fu presumibilmente catturato dai partigiani titini e soppresso».

Foibe, le 300 medaglie a fascisti Salò. La rabbia dell'Anpi: «Inammissibile. Legge sul Ricordo da sospendere». L'associazione dei partigiani: le onorificenze sono state concesse applicando la legge «in contrasto con i valori, princìpi e norme della Costituzione». Indagine sui dossier, continua Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”. Quelle 300 medaglie concesse dai governi in carica dal 2004 ai 300 combattenti di Salò per il «Giorno del Ricordo» dedicato alle vittime delle Foibe? Un fatto «grave e inammissibile» secondo l'Anpi (Associazione nazionale partigiani d'Italia). Le onorificenze sono state date applicando la legge - (la 92 del 2004 che ricorda le Foibe) - «in netto contrasto con i valori, princìpi e norme della Costituzione». Per questo occorre sospendere gli effetti del provvedimento, revocare i fregi già concessi dopo aver avviato «un'indagine accurata». La vicenda è emersa dopo che si scoperto che una delle medaglie date «in riconoscimento del sacrificio offerto alla Patria» era per un bersagliere della Repubblica Sociale di Salò, il capitano Paride Mori. «Un fascista idealista che non si è macchiato di nessuna colpa» è la testimonianza del figlio. Nell'elenco dei medagliati — circa 300: nella quasi totalità militari della Repubblica sociale di Salò — compaiono però altri nomi. Imbarazzanti assai. Soprattutto quello di un criminale di guerra sia per la giustizia italiana che quella jugoslava: ovvero il prefetto di Zara Vincenzo Serrentino (il cui nome è citato anche nel relazione della commissione d’inchiesta parlamentare «sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti»). Serrentino, tenente nella Grande guerra, fiumano con D’Annunzio, fece fucilare decine di persone. Catturato dai partigiani di Tito, venne fucilato nel 1947 dopo essere stato condannato da un tribunale jugoslavo. Stando inoltre a carte provenienti da Belgrado, dall'«Archivio di Jugoslavia» - l'archivio di Stato della ex Jugoslavia - ci sono altri quattro criminali di guerra tra i medagliati della foibe: si tratta del carabiniere Giacomo Bergognini, del finanziere Luigi Cucè, dell’agente di polizia Bruno Luciani, dei militi Romeo Stefanutti e Iginio Privileggi. Colpevoli, a seconda dei casi, di saccheggi, uccisioni a sangue freddo, torture. Le parole dell'Anpi sono tranchant: «Nessun riconoscimento – né per questa legge né per altre – può essere attribuito a chi militò per la Repubblica Sociale Italiana, in nome di una presunta pacificazione. Non c’è nulla da “pacificare”; c’è solo da rispettare la storia e la Costituzione, nata dalla Resistenza». Per questo la richiesta alla Presidenza del Consiglio è perentoria: bisogna «sospendere temporaneamente l’applicazione della legge sul Ricordo - (che, in sintesi, regola celebrazioni e consegna delle medaglie) e dar luogo a una indagine accurata sulle concessioni passate». Richiesta per cui l'associazione partigiana «svolgerà ogni azione necessaria». Parole, quelle dell'Anpi, cui si associa anche Giovanni Paglia, deputato di Sel, per il quale la consegna delle medaglie a «criminali di guerra riconosciuti» basterebbe a «rivedere l'intero impianto della legge e nel frattempo a liquidare l'attuale commissione» che ha valutato le richieste delle onorificenze. «Intanto, tuttavia, potrebbe bastare farla riunire - conclude Paglia - e farle adottare i provvedimenti dovuti a tutela della nostra memoria».

Foibe, le medaglie ai fascisti vanno “ritirate”. Ecco chi processa il Giorno del Ricordo, scrive Valerio Goletti su “Il Secolo D’Italia”. Dopo le polemiche sulla medaglia al capitano dei bersaglieri Rsi Paride Mori prosegue l’offensiva culturale contro la legge che istituisce la Giornata del Ricordo norma che prevede anche la consegna delle medaglie ai familiari delle vittime sino al sesto grado. Onorificenze estese a chiunque, tra Friuli e Slovenia, sia stato ucciso «per cause riconducibili a infoibamenti». La polemica contro Paride Mori fu sollevata dall’Anpi ed ora il Corriere rincara la dose, sottolineando che sono 300 i casi di onorificenze accordate a "Fascisti" da riconsiderare. 300 medaglie ai fascisti che non vanno giù agli storici contro le foibe. “L’elenco aggiornato dei medagliati per il Ricordo comprende più di 1000 persone – scrive Alessandro Fulloni su "Il Corriere della Sera"  – Molti di questi sono civili spariti nelle Foibe perché vittime di rappresaglie titine. E altri – i casi eventualmente da riconsiderare, una cifra che oscilla tra i 270 e i 300 a seconda delle fonti – militari inquadrati nelle formazioni di Salò”. Fulloni sostiene poi che nell’elenco delle medaglie “sospette” ci sarebbero anche 5 “criminali di guerra”. Ma chi lo ha stabilito? La giustizia jugoslava, e tanto gli basta.  Ma ancor di più Fulloni prende per oro colato le affermazioni dello storico Milovan Pisarri, il quale si sarebbe preso la briga si spuntare uno a uno i nomi degli ex militi Rsi che hanno ricevuto le onorificenze. In pratica si tratta di uno storico talmente super partes da definire la legge che istituisce la Giornata del Ricordo un episodio di “revisionismo di Stato” e non gli va giù che la Repubblica nata dalla Resistenza possa addirittura “premiare” dei fascisti. Un’offensiva contro la Giornata del Ricordo. Dei combattenti della Rsi che hanno ricevuto onorificenze da quando c’è la legge sulle vittime delle foibe (2004) si è occupato anche un altro storico molto “imparziale”: si tratta di Sandi Volk, uno che sostiene che la ricostruzione delle vicende delle foibe è viziata da “mistificazione” ideologica al servizio del neoirredentismo di destra. Si comincia con il dare spazio alle tesi di chi vorrebbe ancora occultare la verità sulle foibe per arrivare dove? Magari a chiedere di sopprimere la legge sulla Giornata del Ricordo?

Via la medaglia al fascista Mori. Grazie all’Anpi rivive l’odio di 70 anni fa, continua Valerio Goletti su “Il Secolo D’Italia”. Insignito di una medaglia alla memoria nel giorno del Ricordo, il 10 febbraio, quando l’Italia rende omaggio alle vittime delle foibe, il fascista Paride Mori è oggi al centro di un’anacronistica polemica che, per i catacombali testimoni del decrepito antifascismo, dovrebbe imbarazzare Palazzo Chigi e la presidente della Camera Boldrini. Mori non fu una vittima degli infoibatori comunisti (morì in un agguato dei partigiani il 18 febbraio del 1944) ma comunque un italiano valoroso, che fece parte del Battaglione Mussolini dei bersaglieri che dopo l’8 settembre del 1943 difese il territorio italiano dall’invasione delle truppe di Tito. Opera assai meritoria ma non abbastanza per la parte che dalle infamie del maresciallo Tito fatica a prendere le doverose distanze. In un libro la storia e la vita di Paride Mori. Come racconta Alberto Zanettini in un libro dedicato a Paride Mori era  il 9 settembre 1943 quando a Verona “alcuni ufficiali decisero di formare un Battaglione di Bersaglieri volontari, intitolato a “Benito Mussolini”, al quale aderirono in breve tempo, circa quattrocento uomini, il più giovane aveva 15 anni e il più anziano ne aveva 60 … il tenente Paride Mori era tra questi volontari”. “Per circa 20 mesi sopportarono le imboscate, la fame, il freddo, in numero molto inferiore al nemico, stimato ad uno a dieci, ma nonostante ciò resistettero e riuscirono a mantenere saldi alcuni confini nazionali che altrimenti sarebbero passati in mano alle orde comuniste di Tito. Poi il 30 aprile del 1945, a guerra finita, i bersaglieri si arresero ai partigiani di Tito con la garanzia di aver salva la vita e di poter raggiungere da subito le proprie case. Ma i comunisti di Tito non mantennero fede alle promesse, i bersaglieri furono imprigionati, torturati e fatti morire di fame e di stenti, i cadaveri, invece di seppellirli, li gettavano nelle buche che servivano da latrine per i prigionieri. I pochi sopravvissuti fecero rientro in Italia il 27 giugno 1947”. Che Mori non fosse un sanguinario nazista si evince dalle lettere alla moglie e al figlio, cui scriveva: “Come vedi io faccio il bravo soldato e servo la Patria con le armi ben salde nel pugno e tu devi fare il bravo ragazzo amando l’Italia, perlomeno quanto l’ama il tuo Papà e prepararti a servirla quando sarai grande”.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

TITOLATI SI’, TITOLATI NO!

Essere o avere: questo è il dilemma!

“Quando sento parlare Salvini mi rendo conto di quanti libri non ha letto, dei film che non ha visto, delle canzoni che non ha ascoltato. Basta sentirlo parlare per capire che è un fuoricorso che non si è laureato, nonostante gli sforzi“. Lo ha detto il leader di Ncd, Angelino Alfano, intervenendo alla convention del partito, di fatto proseguendo quello che è ormai un lungo “botta e risposta” fra lui e il segretario della Lega Nord.

Alfano a Salvini: "Io sono laureato e tu no". Quando lo scontro politico passa dai titoli. Il ministro dell'Interno usa la laurea per attaccare il segretario leghista. Ma scorda che nel suo governo in tre sono senza laurea. E riapre il calderone dei complicati rapporti tra i politici e i titoli di studio mancanti, inventati, presi in ritardo e messi in dubbio, scrive Susanna Turco su “l’Espresso”. In un’altra giornataccia delle sue, pur di trovare un argomento da lanciare contro il leader leghista Matteo Salvini, Angelino Alfano, capo dell’Ncd, l’ha buttata sul titolo di studio: “Basta ascoltare Salvini e si capisce perché è un fuori corso. Uno che non si è nemmeno laureato nonostante i notevoli sforzi”, ha detto. Con il che simpaticamente apparendo nello stesso tempo fuorimoda e d’una certa età. Non che, persino in politica, una laurea sia carta straccia s’intende. Ma, senza stare a scomodare Platone, è appena il caso di notare che in questo periodo i titoli di studio in politica non vanno per la maggiore: non tanto perché al governo ci sono tre ministri senza laurea. Ma soprattutto perché la memoria dell’era Monti, il governo non solo dei laureati, ma addirittura dei professori, sta andando a scatafascio, tra penose esperienze politiche e tragici lasciti di esodati e di pensionati da risarcire. A dimostrazione, una volta di più, di quanto non sia affatto scontato che il sapere tecnico vada a braccetto con l’arte politica, o perfino col fare le leggi. E per di più risfodera, Alfano, un argomento più vecchio persino dell’età che porta. L’idea cioè che la laurea sia un discrimine, la controprova di essere entrati in un campo di ottimati: roba che rimanda al mondo dei padri, più che a quello dei figli, per i quali la laurea può anche non darsi, ma comunque è una conquista relativa visto che non basta più, da sola, a fare la differenza. Non per caso, alle ultime politiche Beppe Grillo andava urlando ai quattro venti che il “più scemo” dei suoi candidati, mediamente giovanissimi, aveva per lo meno “una laurea e un master”: precisando, peraltro, che “Non contano solo questi titoli”, ma anche per esempio, l’esser madre di tre figli, con tutta la “esperienza ad amministrare” che ciò comporta. Né è da dimenticarsi che una delle ultime polemiche di governo sui laureati aveva il segno inverso: “Se non sei ancora laureato a 28 anni sei uno sfigato”, fu la celeberrima gaffe con la quale Michel Martone, giovane professore e sottosegretario al lavoro, oltre ad attirarsi un mare di simpatie, chiarì a suo modo cosa la laurea è diventata (per chi può permettersela): il prodromo a un master. L’orgoglio di rivendicarla capita invece per lo più a politici di una certa età. Esibire il titolo di studio che si ha, o che magari nemmeno si ha. Come fu il “grave errore dovuto a un complesso di inferiorità” di Oscar Giannino, giornalista economico, la cui esperienza politica fu appunto devastata nel 2013 dalla mancanza della sua propria asserita doppia laurea in Legge e in Economia (per non parlare del master a Chicago): il suo Fare per Fermare il declino, dopo quella vicenda, fu travolto al punto che le cronache riportano di come, dopo la tragedia, il capolista in Umbria Eugenio Guarducci girasse per la campagna elettorale portandosi appresso, tipo vessillo sacro, la sua laurea in architettura, con tanto di cornice dorata, prontamente staccata da una parete del corridoio di casa. Ecco, perché poi le più roventi polemiche del tipo “io sono laureato e tu no”, paiono appartenere in effetti ad un’altra stagione, ad altri uomini. In un Parlamento composto per due terzi da dottori in qualcosa (419 su 630 alla Camera, 210 su 315 al Senato) che Renzi sia laureato, come Angelino Alfano e Mara Carfagna, importa poco. Che non lo siano Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, Beatrice Lorenzin, ministro della Salute, Andrea Orlando, ministro della Giustizia, o Matteo Orfini, presidente Pd, importa altrettanto. E invece, giusto a proposito di Guardasigilli, c’è traccia di un piccato botta e risposta che Piero Fassino, da ministro della Giustizia, ebbe con il leghista Roberto Castelli, che peraltro sarebbe stato il suo successore a via Arenula: “Fassino ha fatto il classico come me, ma io sono laureato e lui no”. “Non è vero, mi sono laureato in scienze politiche con 110 e lode”. “E in che anno?”. “Nel 1998, a Torino”. “Ah, dunque ha studiato mentre faceva il sottosegretario agli Esteri…”. Insomma si arrivò a un passo da quel che fece poi Pier Luigi Bersani: pubblicare su Facebook la copia del suo libretto universitario (tutti 30, 30 e lode, un 28), dopo che da ministra dell’Istruzione Mariastella Gelmini gli aveva dato dello “studente ripetente”. Andando più indietro, c’è traccia di un comprensivo Clemente Mastella (“ho grande rispetto per chi ha studiato all’università della vita”) che tuttavia a Porta a porta chiarisce “io la laurea ce l’ho”, o di uno sdegnoso Pier Ferdinando Casini, che a un comizio precisa: “Mi chiami pure dottore, sono laureato a Bologna”. C’è l’affondo del forzista Francesco Giro contro Rutelli, che a un certo punto s’era detto pronto a fare “un corso di aggiornamento a Berlusconi”: “Lezioni di storia da Francesco Rutelli che non è stato capace di portare a termine i propri studi universitari di architettura? Sarebbe ridicolo”. In effetti è stato proprio Berlusconi l’uomo più affezionato al genere: il che forse spiega perché adesso Alfano ritiri fuori quell’argomento. Nel 2001 il Cavaliere ne fece un pezzo della propria campagna elettorale: “Quelli dell’Ulivo non sono neanche laureati”, andava dicendo. Fregandosene per esempio che Bossi fosse solo diplomato perito tecnico elettronico alla scuola Radio Elettra, che Marco Follini e Maurizio Gasparri fossero fermi alla maturità classica, a quella scientifica Francesco Storace e Gianni Alemanno (che poi si è laureato, da ministro, nel 2003), a quella linguistica Stefania Prestigiacomo (laurea triennale nel 2006). Tanto, di là, c’erano tra i non laureati appunto Rutelli, candidato premier, ma anche Massimo D’Alema (fermo a prima della tesi alla Normale di Pisa), Walter Veltroni e pure Fausto Bertinotti (perito industriale). Negli anni, ritrovandoselo poi come competitor nel 2008, Berlusconi se l’è presa soprattutto con Veltroni, definito “l’innovatore che invece di laurearsi si è diplomato in fiction”, colui che “dovrebbe prendersi una laurea visto che l’unica che ha è quella delle insolenze e delle menzogne”, quello da chiamare in caso di bisogno: “Lei signora fa l’attrice?”, chiese il Cavaliere a un incontro di partito, “allora si deve fare assumere da Veltroni. E’ lui che ha il diploma in cinematografia, io sono semplicemente un laureato con 110 su 110. Non può venire da me”, gigioneggiò il Cavaliere. Quel che è emerso poi, tra serate eleganti e bunga bunga, certo chiarisce da sé il peso sgocciolato di tali prese di posizione. Ma tant’è. Contro Berlusconi, il leader Idv Antonio Di Pietro intentò addirittura un processo per diffamazione, dopo che l’allora premier aveva detto, in un comizio a Viterbo, che l’ex pm di mani pulite “si era preso la laurea coi servizi segreti”. Un’onta che di Pietro ha continuato a citare, negli anni, come dimostrazione di tutte le menzogne berlusconiane: e che si è lavata in via definitiva solo di recente, quando l’ex magistrato ha accettato un risarcimento in denaro in cambio del ritiro della querela (ignoto il peso del gruzzolo). “E comunque il suo ex sodale Bettino Craxi non era laureato” resta in ogni caso a tutt’oggi la più chiara spiegazione di quanto a Di Pietro bruciasse l’accusa. A conti fatti, mentre per esempio nel centrosinistra si ha un atteggiamento molto noblesse (salvo adontarsi parecchio se i titoli vengono messi in dubbio, si sta sul: “Le esperienze maturate sul lavoro e nel volontariato valgono per lui molto di più anche delle mie due lauree”, come disse una volta Giuliano Pisapia) è proprio nella Lega che la faccenda risulta più problematica, faticosa da digerire. In questo, prendendo in giro Salvini, Alfano coglie qualcosa di vero. E se ora il leader leghista pur masticando amaro per i suoi cinque esami mancanti a Lettere spiega che “visti i risultati della Fornero sul lavoro, sono contento di non essermi laureato”, c’è da ricordare che Bossi all’inizio della sua attività politica (e persino alla prima moglie) fece credere d’essersi laureato. Mentre poi, anche degli studi del figlio Renzo talvolta accennò, prima che il Carroccio fosse travolto dalle inchieste sull’uso familista dei fondi del partito, dalle quali emerse una fantomatica laurea di Bossi junior conseguita in Albania. “Non ne so niente”, si difese Renzo. Così come fece anche la leghista Rosy Mauro, smentendo d’aver preso una laurea all’estero a spese della Lega con una argomentazione squisita: “Io ero asina a scuola, non mi ha mai neppure sfiorato l’idea di iscrivermi ad una università”. Va tuttavia detto che, nel mare delle lauree ad honorem che le università usano conferire ai politici (laureati e non), proprio Bossi è pressoché l’unico ad averla rifiutata: “Una laurea honoris causa in Scienze delle Comunicazioni a me? Sono stupidaggini. Avrei potuto fare il medico, invece ho scelto la Lega”. Almeno l’orgoglio, bontà sua.

Laurea e concorso pubblico “taroccati”. Guai per il fratello di Angelino Alfano, scrive Giuseppe Pipitone su “Il Fatto Quotidiano”. La squadra mobile di Palermo sequestra i documenti relativi alla nomina di Alessandro Alfano a segretario generale della Camera di Commercio di Trapani. L'ipotesi è che non avesse i titoli richiesti. Il caso si aggiunge all'inchiesta aperta sull'università del capoluogo siciliano. Laurea in economia e commercio fasulla e concorso pubblico per diventare segretario generale della Camera di Commercio di Trapani taroccato. E’ la pesante ipotesi accusatoria che gli inquirenti sollevano nei confronti di Alessandro Alfano, fratello minore di Angelino, segretario del Pdl. Ieri gli agenti della sezione reati contro la pubblica amministrazione della squadra mobile di Palermo sono entrati negli uffici della Camera di Commercio trapanese per sequestrare il fascicolo del concorso vinto da Alfano junior nel 2010. E proprio stamattina il fratello dell’ex Guardasigilli si è dimesso dall’incarico al vertice della Camera di Commercio di Trapani. All’inizio di dicembre Alfano era già finito tra i trenta indagati nell’inchiesta sugli esami comprati all’università di Palermo. L’indagine, che è coordinata dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci e dai sostituti Amelia Luise e Sergio Demontis, ha preso il via proprio nel capoluogo siciliano. Per l’esattezza negli uffici di segreteria della facoltà di Economia e Commercio. Dove conseguire la laurea era diventato semplicissimo. Bastava pagare, ovviamente in contanti, un’ impiegata della segreteria che in cambio inseriva nel database informatico dell’università esami mai sostenuti. E la laurea tanto agognata arrivava senza troppa fatica. L’indagine interna all’ateneo aveva già allontanato la dipendente infedele che aveva confermato di aver inserito nel sistema informatico esami fantasma in cambio di denaro. Adesso però l’inchiesta della magistratura sta cercando di far luce sui complici della segretaria corrotta e soprattutto sui corruttori. Ovvero gli studenti che acquistavano gli esami anziché studiare e sostenerli come tutti gli altri. E nella rete della procura palermitana è finito anche Alessandro Alfano, laureato nel 2009 alla triennale d’Economia e Commercio, quando aveva già compiuto 34 anni. Dal 2006 però, quando ancora non aveva conseguito il titolo di studio, Alfano era stato nominato segretario generale di Unioncamere Sicilia. Nel 2010 poi, dopo essersi finalmente laureato, il salto di qualità al vertice della Camera di Commercio di Trapani. Ben prima che si tenesse il regolare concorso pubblico, però, un esposto anonimo aveva incredibilmente predetto la vittoria del fratello dell’ex Ministro della Giustizia nella corsa alla segreteria generale. Nell’esposto si faceva anche riferimento al curriculum di Alfano Junior, tecnicamente insufficiente dato che il fratello del segretario del Pdl non avrebbe avuto alle spalle i cinque anni richiesti di esperienza dirigenziale, requisito fondamentale per partecipare alla corsa di segretario generale della Camera di Commercio trapanese. Adesso il fascicolo del concorso è al vaglio degl’inquirenti. Che stanno anche cercando di capire quali esami Alessandro Alfano avrebbe sostenuto all’università e quali invece figurerebbero nel suo piano di studi, senza che sia presente in archivio alcuna copia del verbale o dello statino. Alfano junior ostenta serenità : “Le mie dimissioni – ha spiegato – sono un atto di rispetto nei confronti di chi indaga e della Camera di commercio di Trapani affinché questa vicenda non abbia ripercussioni sull’attività svolta dallo stesso ente. Non voglio che questa vicenda si possa prestare a strumentalizzazioni politiche e pertanto ho deciso di dimettermi. Ribadisco di aver regolarmente sostenuto gli esami all’università oggetto di verifica e a tal riguardo sono pronto a dare tutte le spiegazioni necessarie alla magistratura”. Alfano è al momento indagato soltanto per frode informatica. Alcuni tra gli altri 29 ex studenti sono invece accusati anche di concorso in falso e corruzione, dato che sarebbero state trovate le prove dei pagamenti. Dal computer di Economia era possibile accedere anche ai database delle altre facoltà, e ogni tipo di esame avrebbe avuto il suo prezzo: fino tremila euro per quelli d’Economia, meno di mille per le materie di Scienze Politiche. Pagamenti rateali invece per gli esami d’Ingegneria.

Quando la laurea non serve: 7 famosi che non l’hanno mai presa, scrive Skuolanet su “La Stampa”. Da Steve Jobs a Benigni, da Mentana a Montale e Piero Angela, ecco 7 personaggi famosi che non hanno mai preso la laurea ma che hanno avuto lo stesso enorme successo nella loro carriera. Chi ha detto che la laurea nella vita è tutto? Ci sono personaggi famosi, noti alle cronache per grandi successi, che non hanno raggiunto l’ambito obiettivo che in molti si prefiggono: la laurea. Certo laurearsi è importante, ma non è l’esclusivo strumento per il successo. Vi dice qualcosa Apple o Facebook? Conoscerete sicuramente il signor Steve Jobs, con la t-shirt nera e i jeans, colui che ha inventato il Mac e l’iPhone. Ma ci sono molti altri personaggi acclamati di casa nostra che sono diventati qualcuno senza finire gli studi. Magari avrete sentito parlare di un certo Dario Fo, il Nobel per la Letteratura, il giornalista Mentana o l’esperto di Divina Commedia Roberto Benigni. Sono esempi di persone famose che non hanno ottenuto la laurea ma raggiunto lo stesso importanti traguardi. Ecco la lista:

7. Piero Angela - Il giornalista scientifico più famoso della Tv ha svelato da poco di non aver mai ottenuto la laurea. Niente titolo di studio universitario, ma grandi riconoscimenti professionali e share televisivi, per un signore che ha formato con i suoi programmi didattici migliaia di telespettatori di ogni età.

6. Enrico Mentana - E’ noto alle cronache per essere il giornalista con la lingua più veloce, rapido e scattante come un treno,si narra che in meno di 60 secondi riesce a leggere le scalette dei sommari del suo telegiornale. Enrico Mentana non ha la laurea, ma a quanto pare è riuscito lo stesso a diventare il direttore di uno dei giornali Tv più seguiti in Italia.

5. Eugenio Montale - Premio Nobel per la letteratura. Svariate centinaia di poesie scritte e insegnate nelle scuole. Il poeta degli “Ossi di Seppia” e del “Male di vivere”, grazie alle sue metafore e al suo umorismo sottile, nell’arco di 50 anni di letteratura è riuscito a segnare una traccia profonda forse più vivida dell’inchiostro per firmare un voto sopra un foglio istituzionale.

4. Roberto Benigni - Il cantore moderno della “Divina Commedia”, protagonista di alcuni tra i film più belli del cinema italiano e premio Oscar per uno dei lungometraggi più commoventi del cinema mondiale. Sicuramente un riconoscimento che vale molto più di un 110 all’università.

3. Dario Fo - “Mistero Buffo” è il titolo della sua opera teatrale più famosa, ma anche un attributo che calza bene alla faccia comica, misteriosa e umoristica che ha portato questo saltimbanco moderno a celebrare l’Italia nel mondo grazie al premio Nobel per la Letteratura. All’università non avrà preso la laurea, certo, ma ha guadagnato un riconoscimento forse più gratificante.

2.Steve Jobs - Una delle personalità più complicate quanto affascinanti degli ultimi trent’anni. Il visionario che ha rivoluzionato la tecnologia e il modo di usarla, l’uomo che ha creato uno stile cambiando radicalmente il concetto di tecnologia: all’università non ha mai preso la laurea. Dopo aver frequentato diversi corsi ha mollato tutto per un viaggio in India e nel giro di pochi anni ha fondato una delle aziende più famose e ricche del globo.

1. Mark Zuckerberg - Era partito come un gioco,poi Facebook è diventato la piattaforma più usata sul pianeta. Milioni di persone collegate unite sulla rete social più grande mai creata. Mark Zuckerberg ha avuto un’idea geniale che gli è valsa più soddisfazione della proclamazione ufficiale del suo college ad Harvard.

Se pensate che per diventare milionari sia strettamente necessaria una laurea, probabilmente non avete accortezza di come ad oggi va il mondo. Titoli magistrali? Dottorati di ricerca? Master? Niente di tutto questo favorirebbe, secondo un recente studio di Approved Index, il successo economico nell’avvio e nello sviluppo di un proprio business. I ricercatori hanno esaminato i profili delle 100 persone più ricche del pianeta, notando che ben 32 non sono laureate. Una maggioranza schiacciante rispetto agli altri gruppi rappresentati nell’indice, con 22 ingegneri, 12 dottori in business, 9 laureati in arte, 8 in economia e 3 in finanza. Posto che l’elenco considera come criterio quello strettamente economico – non si sta qui parlando di preparazione culturale o QI – pare proprio che per essere dei Paperoni una preparazione accademica conti ben poco.

Miliardari senza laurea. Un blog americano stila una classifica di 15 super-ricchi privi del titolo universitario, scrive Alessandra Carboni su “Il Corriere della Sera”. «Devi finire le superiori, così potrai andare all'università e poi, una volta laureato, sarai sicuro di trovare un lavoro in cui far carriera». Recita più o meno così l'adagio rivolto dai genitori ai figli nell'intento di convincerli a non mollare la scuola, perchè - si sa - «studiare è importante». Ma c'è anche chi è pronto a smontare l'equazione da un altro punto di vista, per dimostrare che per diventare imprenditori di successo non è sempre obbligatorio trascorrere la gioventù sui libri. A sostenere questa teoria è il fondatore del blog College Startup , che sulle sue pagine stila una classifica di celebri ricconi diventati tali pur non avendo frequentato l'università. I nomi chiamati in causa sono 15 - tutti decisamente eccellenti - elencati in rigoroso ordine alfabetico. Scorrendo la lista ci si imbatte subito nel patron di casa Virgin, Richard Branson, che ha abbandonatogli studi a 16 anni per dedicarsi alla sua prima impresa, la rivista Student Magazine. Successivamente, la sua insaziabile fame di business lo ha portato a diventare l'imprenditore di successo che sappiamo, attualmente proprietario di ben 360 aziende. Un successo nato dal nulla anche quello della stilista Coco Chanel - orfana e senza possibilità di frequentare la scuola ma determinata a «diventare qualcuno» - come pure quello di Michael Dell, che con mille dollari in tasca ed entusiasmo da vendere ha lasciato il college all'età di 19 anni per fondare PC's Limited, ovvero quello che poi è diventato uno dei più grandi nomi nel campo della produzione di Pc: Dell Inc. E che dire di Walt Disney? Il papà di Topolino ha smesso di studiare a 16 anni, ma questo non gli ha impedito di diventare il signor Disney. Oggi la Walt Disney Company produce utili per 30 miliardi di dollari. Non male. Come la carriera di Henry Ford, che sempre a 16 anni se n'è andato di casa per lavorare come apprendista macchinista, salvo poi diventare il fondatore della Ford Motor Company e rivoluzionare l'industria automobilistica. Non ultimi, ecco altri due non-laureati illustri: Bill Gates e il suo antagonista di sempre, Steve Jobs. Il fondatore di Microsoft ha abbandonato l'università e non si è mai laureato, ma domina ugualmente la classifica degli uomini più ricchi del mondo dal 1995; Jobs si è limitato a frequentare il college per un semestre (ma lui stesso ammette che dopo l'abbandono ufficiale lo ha frequentato «clandestinamente» per un anno) prima di iniziare a lavorare per Atari e successivamente fondare la sua Apple Computers. Infine, passando dall'architettura software a quella edilizia, non si può certo ignorare che anche il genio di Frank Lloyd Wright non deve il proprio successo ad alcun titolo di studio. L'architetto di Fallingwater non si è mai iscritto alla scuola superiore, ma è stato uno degli esponenti più influenti dell'architettura del ventesimo secolo. Genio, intuito, coraggio e fortuna sono alla base della storia di tutti questi personaggi di successo, ma è assai probabile che le cose sarebbero andate così così anche se avessero avuto un titolo di studio nel cassetto. Nel dubbio, vale comunque la pena di ricordare che il tempo trascorso sui libri non è mai tempo sprecato.

15 imprenditori ricchi e famosi nel mondo senza laurea, scrive Matteo Spigolon su “Azuleia”.

Mary Kay Ash. Il fondatore di Mary Kay Inc. ha iniziato commerciando cosmetici. Senza nessun tipo di formazione, ha creato con successo un marchio conosciuto in tutto il mondo. Ad oggi, circa mezzo milione di donne hanno iniziato a vendere cosmetici per Mary Kay. Il loro apprezzamento per Mary Kay Ash è incredibile.

Richard Branson. Richard Branson è meglio conosciuto per la sua ricerca del brivido, per tattiche di business estreme e spirito emotivo. Ha abbandonato la scuola all’età di 16 ed ha iniziato la sua prima avventura d’affari di successo, Student Magazine. Egli è il proprietario del marchio Virgin e di altre 360 aziende. Le sue aziende includono Virgin Megastore e Virgin Atlantic Airway.

Coco Chanel. Orfana per molti anni, Gabrielle Coco Chanel si è “allenata” come sarta. Determinata ad inventare se stessa, lanciò l’idea coraggiosa che il mondo della moda femminile si sarebbe reinventato usando il tessuto e gli stili normalmente riservati agli uomini. Un profumo che porta il suo nome, Chanel No. 5 è famoso in tutto il mondo.

Simon Cowell. Simon Cowell ha iniziato a lavorare nell’ufficio postale di una casa editrice musicale. Da allora è diventato un artista ed un responsabile dei repertori per Sony BMG nel Regno Unito, è un produttore televisivo e giudice per le gare più importanti di talent show, tra cui American Idol.

Michael Dell. Con 1.000 dollari, la dedizione ed il desiderio, Michael Dell ha lasciato il college all’età di 19 anni per avviare PC Limited, poi chiamata Dell. Dell Inc. è diventato il più grande produttore di PC al mondo. Nel 1996, “The Michael e Susan Dell Foundation” ha offerto 50 milioni di dollari di sovvenzione alla Università del Texas a Austin da utilizzare per la salute dei bambini e l’istruzione in città.

Barry Diller. Fox Broadcasting Company è stata avviata dopo l’abbandono degli studi universitari. Diller è ora presidente di Expedia, CEO di IAC / InterActiveCorp.

Walt Disney. Dopo aver abbandonato la scuole superiori a 16 anni, la carriera di Walt Disney e le sue realizzazioni sono sbalorditive. La casa di animazione più influente, Disney detiene il record per il maggior numero di premi e nomination. Nella sua immaginazione erano previsti cartoni animati Disney e parchi a tema. The Walt Disney Company ha oggi un fatturato annuo di $ 30 miliardi.

Debbi Fields. Come giovane casalinga di 20 anni senza alcuna esperienza di business, Campi Debbi ha avviato “Mrs. Fields Chippery Chocolate”. Con una ricetta per biscotti al cioccolato, questa giovane donna è diventata la maggior titolare d’azienda di successo nel campo dei biscotti. In seguito ha cambiato nome, come franchising, poi venduto, in “Mrs.Field Cookies”.

Henry Ford. A 16 anni, Henry Ford ha lasciato casa per fare l’apprendista come macchinista. In seguito avviato la “Ford Motor Company” per la produzione di automobili. Primo grande successo di Ford, il Modello T. Ford ha poi aperto una grande fabbrica per iniziare la produzione, utilizzando la catena di montaggio, rivoluzionando il processo industriale.

Bill Gates. Classificato come uomo più ricco del mondo dal 1995 al2006, Bill Gates ha abbandonato anche lui gli studi universitari. Ha avviato la più grande società di software, Microsoft Corporation. Gates e sua moglie sono filantropi, hanno una fondazione, “The Bill & Melinda Gates Foundation”, con un focus sulla salute globale e sull’apprendimento.

Milton Hershey. Con solo la quarta elementare, Milton Hershey ha avviato la sua azienda di cioccolato. “Hershey Chocolate Milk” divenne il primo cioccolato commercializzato a livello nazionale negli Stati Uniti. Hershey è inoltre concentrato sulla costruzione di una meravigliosa comunità per i suoi operai, nota come Hershey, in Pennsylvania.

Steve Jobs. Dopo aver frequentato un semestre di college, Steve Jobs ha lavorato per Atari, prima di co-fondare Apple Computers. Ora Apple ha inventato prodotti innovativi come l’iPod, iTunes, e più recentemente l’iPhone e l’iPad. Steve Jobs è stato anche il CEO e co-fondatore di Pixar, che  è stata poi rilevata dalla Walt Disney.

Rachael Ray. Pur non avendo alcuna formazione nelle arti culinarie, Rachel Ray si è creata un nome nel settore alimentare. Con numerose mostre sul Food Network, un talk show e libri di cucina. E’ anche apparsa in riviste prima di debuttare con la propria rivista nel 2006.

Ty Warner. Unico proprietario, CEO e presidente di Ty, Inc., Ty Warner è un esperto uomo d’affari. Ty, Inc., fatto $ 700 milioni in un solo anno, con la “Beanie Babies” mania, senza spendere soldi in pubblicità! Da allora ha ampliato l’offerta per includere le bambole Ty Girlz, in diretta competizione con le bambole Bratz.

Frank Lloyd Wright. Non avendo mai frequentato il liceo, Frank Lloyd Wright ha superato ogni previsione quando è diventato il più autorevole architetto del ventesimo secolo. Wright progettò più di 1.100 progetti, di cui circa la metà effettivamente costruiti. I suoi disegni hanno ispirato numerosi architetti a guardare la bellezza intorno a loro ed a migliorarla.

Un mito da sfatare: tutti all’università. La laurea non deve né può essere la massima delle aspirazioni. Ci sono professioni redditizie e indispensabili per una società che non richiedono affatto una formazione universitaria. Una buona formazione professionale basta. Dati USA, scrive Norberto Bottani su “Oxydiane”. Per riuscire nella vita e guadagnare bene non è indispensabile avere una laurea. Di cosa c’è bisogno per riuscire in una società? Quale è la chiave del successo? La laurea? Esperti americani contestano la pertinenza di questa ipotesi. Gli esperti di politiche scolastiche, le organizzazioni internazionali come l’OCSE, i macro economisti che si occupano di scuola, da decenni concordano sul fatto che la proporzione di una fascia d’età che si laurea è un fattore determinante della crescita economica . Tutti spingono dunque per aumentare la proporzione dei giovani che si laureano. Questo è uno degli indicatori con i quali si compar la qualità delle politiche scolastiche, ovverosia le politiche che riescono a portare all’università una proporzione rilevante e crescente di una fascia di età e a far sì che la percentuale di studenti che conclude con successo gli studi universitari con una laurea oppure con un dottorato sia sempre più alta. Questa è la via della massificazione degli studi superiori. Poco importa poi se questi laureati fanno fatica a trovare un posto di lavoro. In taluni paesi è più facile che trovi un posto di lavoro un diplomato dell’istruzione e formazione professionale che non un laureato. Questa situazione, non è la regola, ma è ormai assai comune e dovrebbe indurre a riflettere sugli indirizzi espansionisti delle politiche scolastiche. Il buonsenso popolare la pensa diversamente e ritiene che una laurea in generale sia garanzia di un lavoro migliore e di guadagni maggiori nella vita. Un diploma universitario è considerato come un fattore che assicura una vita più felice. Ci si deve però chiedere se l’iscrizione a un’università e la frequenza a corsi universitari siano la sola via per ottenere questi obiettivi, per essere più felici nella vita, per stare meglio, e "dulcis in fundo" per garantire la crescita economica di un paese.

A cosa servono gli studi universitari? David Leonhardt in un articolo pubblicato sul "New York Times" Il 17 maggio scorso intitolato "Il valore degli studi universitari" contesta l’opinione di coloro che ritengono che gli studi universitari sarebbero sopravalutati. Per esempio, è vero che oggigiorno occorrono molti più nano-chirurghi che non 10 o 15 anni fa ma il loro numero resta relativamente esiguo comparato al fabbisogno di infermiere e infermieri. Per funzionare il sistema della sanità necessita di migliaia di personale infermieristico nel prossimo decennio e non di migliaia di nano-chirurghi. Orbene, non è necessario andare all’università per diventare infermieri o infermiere. Questa formazione la si può impartire anche al di fuori dell’università. Un ragionamento analogo si può applicare per molte altre professioni. Questo argomento certamente pertinente mette in evidenza un punto debole alla formazione universitaria, ovverosia l’alto tasso di mortalità universitaria esistente in molti sistemi scolastici. Molte università falliscono la missione di laureare i loro studenti. Il risultato di questo disastro sono costi elevati per l’ente pubblico nonché delusioni per molti studenti che passano anni all’università senza ottenere nessun titolo. Quale lezione si deve trarre si chiede il New York Times da questa situazione? Dobbiamo persuadere molti studenti che non vale la pena andare all’università oppure dobbiamo mettere in atto i provvedimenti necessari che permettano di elevare la percentuale di laureati e dei dottorati, generalizzando la frequenza dell’università e tentando di ottenere a livello universitario quanto il sistema scolastico non riesce ad ottenere prima, ossia la riuscita di tutti gli iscritti? Per rispondere a queste domande il giornalista del New York Times ricorre a dati molto semplice e molto eloquenti: quelli riguardanti gli stipendi di un laureato rispetto a qualsiasi altro diplomato. Immaginiamo per un minuto che il divario tra la paga di un laureato e quella di qualsiasi altro sia andato calando negli anni recenti. In questo caso coloro che contestano l’opportunità dell’espansione degli studi universitari avrebbero ragione e potrebbero dimostrare, prove alla mano, che la laurea e il dottorato hanno perso di valore. Purtroppo però coloro che contestano la pertinenza di un’espansione degli studi universitari raramente tirano in ballo questo argomento perché altrimenti si troverebbero in difficoltà. È infatti appurato che la laurea o il dottorato garantiscono salari elevati e quindi una vita in linea di massima migliore, come dimostra la tavola seguente che riguarda l’evoluzione del guadagno medio settimanale di un laureato americano dal 1979 in poi. Come si può vedere molto bene dalla tavola, fa osservare Leonhardt, la paga reale dei laureati (in modo grossolano si considera in questo articolo il lessico "guadagno" analogo a quello di "paga") nel corso di questi ultimi 25 anni è aumentata mentre la paga reale di tutti gli altri gruppi di diplomati è diminuita. Il New York Times pubblica anche un’altra tavola che rende questo confronto ancora molto più eloquente. Nei confronti di qualsiasi altro gruppo, negli Stati Uniti, i laureati non hanno mai guadagnato così bene come ora sottolinea Leonahardt. In termini assoluti, ovviamente, anche loro sono stati penalizzati dalla profonda recessione iniziata alla fine del 2007. Però i laureati hanno sofferto molto meno, in media, di tutti gli altri lavoratori con un livello di istruzione inferiore. Inoltre, hanno corso minori rischi di perdere posti di lavoro e il loro livello di rimunerazione è resistito molto meglio di quello degli altri. In modo del tutto teorico, si può supporre che queste tendenze non abbiano nulla a che fare con i livelli d’istruzione che gli studenti universitari ricevono, afferma Leonhardt. Forse, il guadagno dei laureati ha poco o nulla che fare con l’università e rispetto a quanto gli studenti sapevano conosceva prima di frequentarla, ma l’economia è cambiata e favorisce attualmente le persone che hanno frequentato l’università e che hanno conseguito una laurea. Il beneficio che gli studi universitari generano è un problema difficile da risolvere e che va studiato attentamente. In ogni modo, non ci possono essere dubbi in proposito. Gli studi universitari procurano un vantaggio innegabile dal punto di vista salariale e dell’occupazione. Per dirla in altro modo, se voi foste uno studente di 19 anni che deve decidere se andare o meno all’università, sareste disposti a scommettere il vostro futuro sull’idea che le tavole qui presentate, riguardanti gli Stati Uniti, ma che in effetti possono essere applicate anche ad altri paesi, siano una pura coincidenza? Questa la domanda che pone l’autore dell’articolo del New York Times.

Studi universitari o superiori non sono sempre necessari. Secondo l’Ufficio federale americano di statistiche del lavoro che è un poco l’equivalente dell’ISFOL italiano, soltanto sette delle 30 categorie professionali che crescono molto rapidamente esigeranno nel prossimo decennio il possesso di una laurea; tra le 10 categorie in testa solamente due pongono questa condizione. In molte professioni gli studenti farebbero meglio a investire il loro tempo e i loro soldi iscrivendosi a corsi professionali piuttosto che andare all’università. Quest’argomento è difeso da pochi economisti i quali denunciano le pressioni politiche per avere molti più studenti all’università. Questa è una soluzione tra molte altre che meriterebbero di essere studiate in maniera più accurata. Ci sono risposte molteplici che meritano di essere prese in considerazione dal punto di vista della crescita economica. In altri termini ci vuole coraggio oggigiorno per sostenere che l’università non è per tutti, come lo dimostrano per esempio le statistiche sull’esito degli studi universitari. La mortalità universitaria in Italia per esempio è del 50%. Negli Stati Uniti soltanto il 30% della popolazione ha un diploma universitario. Si può pertanto chiedere se questo sia il problema scolastico più pressante è più urgente. Negli Stati Uniti , ma anche in Francia, in Germania, in Inghilterra, per non citare che alcuni paesi, un numero crescente di studenti si orientano dopo la maturità o dopo il diploma verso una formazione tecnica superiore a livello universitario e non si indirizzano più verso studi universitari tradizionali che sono molto costosi e molto più lunghi. L’idea secondo la quale cinque anni di università per conseguire un master siano essenziali per riuscire nella vita è contestata da un numero crescente di economisti, di politologi, di universitari e di responsabili politici. Sempre più si leggono articoli nei quali si afferma che altre opzioni meritano di essere prese in considerazione come per esempio quelle offerte dalle scuole universitarie professionali, questione alla quale, in Italia, la fondazione TRELLLE ha dedicato un seminario internazionale e un quaderno.

La transizione dalla formazione alla vita attiva. La transizione dalla formazione alla vita attiva è cambiata in questi ultimi decenni anche per i laureati i quali ovunque incontrano difficoltà crescenti per trovare un posto di lavoro che corrisponda alla loro formazione, ai sacrifici effettuati per laurearsi dopo anni di studio esigenti. Il numero dei laureati e dei dottorati che sono disoccupati resta elevato nonostante le considerazioni riguardanti i benefici che la laurea o il dottorato possono procurare nel corso dell’attività professionale. Un numero crescente di laureati e diplomati è costretto a svolgere professioni che nulla hanno a che fare con una formazione e i diplomi conseguiti come per esempio barista, conducente di torpedoni, camionisti, impiegati d’ufficio con contratti di durata determinata, camerieri, pizzaioli, eccetera. Questi studenti si consolano pensando che questa sia una tappa inevitabile, un trampolino, sulla via del successo. Nel frattempo, questi laureati preparano e spediscono decine di curriculum vitae sperando di ricevere una risposta positiva. Purtroppo, per la prima volta dopo la fine della seconda guerra mondiale, ossia dopo sessant’anni circa, nessuna generazione ha conosciuto difficoltà analoghe per trovare un posto di lavoro. Gli studi universitari non rappresentano più una promozione né funzionano come un ascensore sociale perché le prospettive di carriera sulle quali sfociano sono pessime. Secondo l’articolo pubblicato dal Wall Street Journal il 15 maggio scorso a cura di Joe Queenan i laureati di oggi sono confrontati a tre ostacoli formidabili.

Il primo è rappresentato dalla recessione economica. Il numero dei posti di lavoro è drammaticamente diminuito . Non ci sono più posti di lavoro e quelli che esistono non corrispondono al tipo di formazione al quale l’Università o gli istituti universitari professionali preparano e neppure a quanto hanno in mente i laureati che hanno speso anni ed anni di studio per diplomarsi.

In secondo luogo, i figli della classe media non sono stati mai educati emozionalmente alla transizione dalla formazione alla vita attiva e ad entrare nel mondo del lavoro con tutte le sue leggi e la sua durezza.

In terzo luogo, laddove gli studi universitari sono a pagamento, i debiti che il giovane ha dovuto assumere per completare gli universitari peseranno per decenni sulle loro spalle. Indubbiamente la situazione diventa drammatica. Non ci si deve neppure illudere: anche un’economia molto flessibile come quella americana dove è relativamente facile che non è in Italia costruire un’azienda o un’impresa, ricevere fondi e aiuti da una banca o da una fondazione, essere riconosciuti per l’originalità delle idee e delle proposte, queste competenze non sono affatto diffuse, non appartengono a tutti. In ogni modo questa una soluzione è del tutto particolare. Il problema immediato è soprattutto psicologico: la sconvolgente scoperta che il lavoro disponibile all’inizio del 21º secolo sarà piuttosto un inferno che non un paradiso. I giovani laureati avranno a che fare sul posto di lavoro con capi meno competenti e meno preparati di lavoro, che non esiteranno a umiliarli, che non prenderanno affatto in considerazione le loro qualità o i loro interessi. Occorrerà ingoiare molti rospi, accettare le umiliazioni.

La Laurea? Meglio non averla, scrive Bastiancontrario F. su “Valdichiana Oggi”. Questo di stasera è il sesto caso. Li ho contati tutti, uno dopo l'altro, in questo inizio Agosto. Amici o amiche laureate, fra i 25 e i 30 anni, col conto in banca prossimo allo zero e in cerca di lavoro. Magari subito dopo la laurea hanno iniziato a tentare di aprirsi qualche via nel campo per il quale avevano studiato, ma poi sapete com'è, c'erano solo gli stage (non retribuiti), i genitori cominciavano a rumoreggiare, le raccomandazioni mancavano e dopo 6 mesi o qualcuno in più di puro e semplice sfruttamento con illusioni poi restate tali hanno iniziato a farsi qualche domanda. Del tipo: qualche soldo dovrà iniziare a entrarmi nelle tasche, altrimenti tocca continuare a farsi mantenere dai genitori e non è tanto bello. Ergo. cerco un lavoro. Un lavoro "normale". Non c'entra niente con quello che sognavo di fare, non ha nulla a che vedere con quello che ho studiato e in cui potrei mettere a frutto le mie conoscenze e competenze, ma pazienza...almeno mi entra in tasca qualche soldo per un po', poi si vedrà. Il problema è andare a cercare un lavoro "normale" con la laurea in tasca. Sono appunto 6 gli amici/amiche con cui in questi ultimi giorni parlando è emerso sempre lo stesso identico problema. I datori di lavoro "normale" (che so...cameriere, commesso...) sembrano essere allergici ai laureati. Tant'è che è meglio non presentare il curriculum, o comunque non dire che si ha la laurea. Sei indizi, probabilmente, fanno una prova. "Ah, hai due lauree e vuoi venire a lavorare qui?" è la frase che risuona con annessa faccia a metà fra lo schifato e il diffidente ad ogni tentativo di farsi assumere, anche "a chiamata", part time o per poche ore a insindacabile giudizio e bisogno di chi ti dà il lavoro. Il tono è quasi pregiudiziale. Perchè? Chissà, forse pensano che uno laureato che viene a chiedere di fare il cameriere è lì perchè ha fallito nel suo ramo, e quindi non vale granchè. Oppure hanno paura che non si impegnerà, avendo studiato per qualcos'altro, oppure che pretendendo di più in quanto reduce da molti anni di studio potrà rivelarsi un insostenibile rompicoglioni. Oppure costoro sono semplicemente il simbolo di una classe imprenditoriale italiana sempre più squallida e incapace di gestire in modo degno le risorse umane (e infatti poi i risultati si vedono). Il bilancio finale è che se hai la laurea e vuoi fare il commesso ti passano avanti gli altri, quelli senza laurea. Ecco, forse piuttosto che continuare per settimane e settimane a discutere del ministro Kyenge e delle sue litigate coi leghisti, dei processi di Berlusconi o di chissà quale altra minchiata utile solo a gettare fumo negli occhi e guadagnare tempo consci di non essere in grado di fare niente (ma di non volersene comunque andare) i nostri governanti potrebbero ipotizzare una riforma del lavoro e incentivi alle assunzioni un po' diversi rispetto a quelli esistenti. Anche perchè all'estero a fare i camerieri ti ci prendono anche con la laurea e sarebbe brutto, dopo la fuga dei cervelli, trovarsi di fronte anche alla fuga dei camerieri.

Una laurea serve eccome, scrive Luca Ronchi su “Sardegna Reporter”. Anche oggi ho lavorato parecchio. Sono giorni di lavori casalinghi, questi. Spostamenti di roba, pulizia di magazzini, conservazione di vecchie cose, eliminazione di altre, accatastamenti il più possibile razionali di oggetti e mobili. Coloro che l’hanno fatto, sanno di cosa parlo. Ci si muove in ambienti angusti, a volte malsani, pieni di polvere e umidità e poco illuminati. Si ha fretta di finire per riposarsi e farsi una doccia ma si ha anche fretta di completare il lavoro per poterlo guardare con soddisfazione e dire. “Ah, come l’ho fatto bene!”. E in questi frangenti capita di doversi misurare con piccole questioni pratiche, che sarebbero anche semplici se non fosse per l’ambiente ostile in cui si opera. Tocca risolvere problemi rognosi, arrangiarsi con quel che c’è, prendere decisioni in fretta chè le mani sono due e le braccia più di tanto non ci arrivano a fare le cose. E allora l’inventiva, la fantasia, l’esperienza e -perché no- qualche nozione di fisica rimasta a circolare per le sinapsi da quei lontani giorni del liceo, concorrono a fare la differenza tra un lavoro di schifo e un lavoro fatto bene. E succede di capire che aver studiato fino alla laurea può avere il suo porco senso anche in questi casi limite. A me è capitato ieri. Stavo sistemando le parti di un mobile smontato in precedenza. Pezzi lunghi anche due metri, larghi più di un metro e pesanti, molto pesanti. Li stavo sistemando infilandoli, sdraiati sul lato lungo, in uno spazio stretto tra uno scaffale già traboccante di scatole e un altro mobile più alto di me. Per evitare di graffiarli strisciandoli contro il pavimento ruvido, avevo sistemato per terra dei listelli di legno. L’idea era di posarveli sopra, e così ho fatto. A lavoro quasi finito, con i listelli ormai bloccati dal peso di tutto  quel legname, mi accorgo che restava un po’ di spazio, una sorta di piccolo pozzo incastrato tra lo scaffale, il mobile più alto di me e i pezzi ormai mirabilmente affastellati dalle mie sapienti mani. Un piccolo spazio che, in quanto maschio raziocinante alle prese con un lavoro muscolare e intellettuale, avevo intenzione di sfruttare a pieno, sistemandovi altri pezzi di forma e dimensioni appropriate. Ma occorreva prima di tutto calare in fondo a quel pertugio un altro listello di legno, per proteggere i nuovi oggetti da graffi e urti. Esco dal magazzino, mi avvicino alla catasta del legname e individuo con fare sicuro un piccolo legno di lunghezza e spessore perfettamente adeguati all’uopo. Orgoglioso, mi avvicino all’anfratto e faccio per depositare il prezioso tacco sul pavimento. Le mie lunghe braccia (le ho veramente lunghe) non sono sufficienti a toccare il pavimento da quella posizione e dunque dovrò optare per un lancio calibrato del tacco verso la posizione utile. Il piccolo legno, per mia sfortuna, anziché depositarsi nel luogo da me individuato, con un rimbalzo inatteso va a sistemarsi di sbieco su una delle pareti del cunicolo, rappresentata da una porzione del mobile di cui sopra. Disdetta! Come fare? Il braccio non ci arriva. Non ho voglia di tornare fuori a prendere altri legni, che tra l’altro piove. Di spostare il mobilio già adagiato sui listelli non se ne parla, e in testa torna la domanda: che fare? D’improvviso, mentre il tarlo dello sconforto inizia a far merenda con i miei neuroni, alzo lo sguardo allo scaffale traboccante di oggetti e vi scorgo l’arma finale. Con serena disciplina allungo il braccio, la afferro, me la guardo compiaciuto. Me la giro un po’ tra le mani assaporando il momento in cui, grazie ad essa, assesterò il colpo ferale al recalcitrante oggetto. È perfetta, la mia arma. Cilindrica, robusta, leggera, cava. La sua lunghezza è quella giusta: quaranta centimetri. La sua larghezza è quella giusta: riempie perfettamente la mia mano, richiusa e serrata su essa. È micidiale. Sembra forgiata allo scopo da un’intelligenza antica. Armato di essa mi inchino verso il mio dovere, la dirigo sicuro verso il legno e, facendo leva con salda impugnatura, sistemo il tacco nella posizione prestabilita. È fatta. Le membra si rilassano mentre lentamente mi risollevo. Staziono così per qualche istante, indugiando con lo sguardo ora al lavoro compiuto, ora al cilindrico utensile che adesso riposa inerte nella mia mano. E l’occhio mi cade, dopo tanti anni, sulle scritte che compaiono lungo la sua superficie laterale: Università degli Studi di Pisa… Gent.mo Dr. Luca Ronchi… Il presente involucro contiene esemplare originale del Suo diploma di laurea. E poi dice che la laurea non serve. Caz.

Comunque la laurea è preferibile averla, meglio se meritata, ossia si siano capiti e memorizzati i dati e le nozioni studiati. Essere ignorante significa essere in balia degli stronzisti e cazzisti di turno, che ti propinano stronzate e cazzate per verità acclarate. Se le cose tu le sai, e non certo sapute dai media o da pseudo intellettuali partigiani, la verità gliela sbatti in faccia. Anche con le pezze al culo la tua soddisfazione arriverà! Perché ci si deve ricordare che chi ha, spesso, non sa, e costui, per disbrigare le sue necessità burocratiche o culturali, parte dei suoi averi li dovrà dare a chi sa.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.

IL MONDO DIVISO TRA COLTI ED IGNORANTI.

Lo spread del sapere. Il mondo diviso tra colti e ignoranti. L'accesso alla conoscenza è contraddistinto da disuguaglianze sempre più gravi. Se pensiamo, rispettivamente, alle possibilità per il futuro di una ragazzina che vive in una campagna isolata dell’Afghanistan, e di un ragazzino americano figlio di due professori di Harvard, possiamo capire quel che rischia di essere il futuro dell’umanità, scrive Marc Augè su “La Repubblica”. La crisi attuale dovrebbe fornire l’occasione per riflettere in maniera schietta sulle cause, sulla portata e sulle conseguenze della crescente diseguaglianza nel mondo, mentre a sua volta, per riprendere l’espressione di Jean-François Lyotard, la “grande narrazione” liberale perde colpi. Oggi la stragrande maggioranza degli economisti è d’accordo nel riconoscere che, se il divario di reddito tra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo globalmente si è un poco ridotto, è considerevolmente aumentato quello tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri, sia nei paesi ricchi sia in quelli poveri. Da ciò l’apparizione e l’incremento di una grande povertà nei paesi ricchi e di una miseria assoluta nei paesi poveri. Questo fenomeno, di cui siamo ogni giorno spettatori, implica diverse conseguenze. La prima è una minore disponibilità dei paesi ricchi ad aiutare i paesi poveri: l’incremento della povertà interna pone già loro abbastanza problemi. La seconda è un’instabilità sociale, testimoniata, in zone diverse e con modalità differenti, sia dalla crisi dei subprime, segno premonitore della tormenta attuale, sia dalle rivolte della fame. Ma un fenomeno connesso a quello della povertà, che si sviluppa parallelamente a esso e che evidentemente è ad esso collegato, quello delle crescenti diseguaglianze nell’ambito della conoscenza, è ancora più inquietante. Il problema della sopravvivenza in certi continenti e quello del potere d’acquisto in altri hanno infatti per effetto un decadimento delle riflessioni sull’insegnamento e la ricerca. Ora, anche se i temi della disoccupazione, della precarietà del lavoro e dei redditi bassi dominano legittimamente la nostra attenzione, non dovrebbero comunque distrarci e renderci ciechi sulle carenze delle nostre politiche educative, visto che anch’esse hanno conseguenze sull’aumento della povertà. Mentre la scienza progredisce a velocità esponenziale, tanto la scienza di base quanto le sue ricadute pratiche, il divario tra i suoi protagonisti, o almeno i dilettanti coltivati, e la massa di chi non ha la più pallida idea delle sue poste in gioco aumenta più rapidamente rispetto a quello dei redditi. Il divario tra i paesi che si impegnano nella ricerca scientifica e quelli che ne sono alieni, nonché, all’interno di ognuno di essi, tra l’élite scientifica e i più carenti nel campo della conoscenza, aumenta più velocemente di quello delle ricchezze. George Steiner ha fatto notare che il budget per la ricerca della sola Harvard University è superiore alla somma di tutti quelli delle università europee. Se nei paesi emergenti nascono dei poli di sviluppo scientifico, al loro interno le diseguaglianze in materia di istruzione e di conoscenze sono ancora più considerevoli che nei paesi sviluppati, dove pure continuano a crescere. Possiamo dunque temere di veder apparire, nel medio termine, non una democrazia diffusa su tutta la Terra ma un’aristocrazia planetaria del sapere, del potere e della ricchezza, contrapposta a una massa di semplici consumatori e a una massa, ancora maggiore, di esclusi sia dal sapere sia dal consumo. Saremo dinanzi a un’aristocrazia globale (nei laboratori delle università americane si incontrano già individui provenienti da ogni parte del mondo, molti dei quali non ritorneranno nel paese di origine). Saremo dinanzi a un’aristocrazia polare (nel senso che le reti di circolazione delle conoscenze si incroceranno in più punti del pianeta). Infine, e senza irrigidire necessariamente i rapporti di forza esistenti, essa tenderebbe a rinforzarli (dato che il costo degli studi e le condizioni di vita sociale giocano certamente un ruolo essenziale nella diffusione del sapere). Se pensiamo, rispettivamente, alle possibilità per il futuro di una ragazzina che vive a casa del diavolo, in una campagna isolata dell’Afghanistan, e di un ragazzino americano figlio di due professori di Harvard, possiamo capire quel che rischia di essere il futuro dell’umanità. La storia ha un senso? Quale senso? L’unico senso è la conoscenza. E l’unico ostacolo alla conoscenza è l’arroganza intellettuale degli allucinati di ogni sorta che vogliono imporre le loro convinzioni all’umanità. Certo, esistono diversi livelli di allucinazione, e non metto sullo stesso piano i teorici del liberalismo e i fanatici religiosi. Ma anche i primi sono ben lontani dalla modestia scientifica (parlo della modestia della scienza in sé, non di quella degli scienziati) che mira a spostare progressivamente le frontiere dell’ignoto. Alla fin fine, la storia dell’umanità sarà quella di questa conquista paziente, la cui necessaria conseguenza dovrà essere la liberazione di ogni individuo. Solo le procedure di esclusione, messe in opera sottilmente o violentemente dai preconcetti dei sistemi ideologici e religiosi, che fondano sulla natura la diseguaglianza e il destino degli esseri umani, si oppongono a questo movimento doppio e parallelo. Se un giorno ci sarà una rivoluzione sarà una rivoluzione dell’istruzione e dell’educazione alla libertà.

L’IGNORANZA DELLE PERSONE COLTE.

Solo i colti amano imparare; gli ignoranti preferiscono insegnare. (E. Le Berquier)

Le persone che hanno meno idee di tutti sono gli scrittori e i lettori, scrive “Le Meraviglie”. È meglio non sapere né leggere né scrivere, che non saper fare altro che questo. Quando si vede un fannullone con un libro in mano, si può essere quasi certi che si tratta di una persona senza né forza, né voglia di stare attenta a ciò che gli accade intorno, o dentro la testa. Di un tale individuo si può dire che porta il suo giudizio ovunque con sé, in tasca, o che lo lascia a casa, sullo scaffale dei libri. Ha paura di avventurarsi in qualunque ragionamento, o di fare una qualsiasi osservazione per proprio conto che non gli venga suggerita passando meccanicamente lo sguardo su alcuni caratteri leggibili; si ritrae dalla fatica di pensare che, per mancanza d’esercizio, gli è diventata insopportabile; e si accontenta di un continuo, noioso succedersi di parole e d’immagini abbozzate, che gli riempiono il vuoto della mente. L’istruzione troppe volte è in contrasto col senso comune; un surrogato del vero sapere. I libri vengono usati meno come “occhiali” per guardare la natura, che come imposte per tenerne lontana la forte luce e la scena mutevole da occhi deboli e temperamenti apatici. Il divoratore di libri si avvolge nella sua rete di astrazioni verbali, e vede solo la pallida ombra delle cose riflessa dalla mente altrui. La natura lo sconcerta. La visione degli oggetti reali, spogliati del travestimento delle parole e delle lunghe circonlocuzioni descrittive, è un colpo che lo fa vacillare, e la loro varietà lo turba, la loro rapidità lo fa smarrire. Si ritrae dalla confusione, dal chiasso, e dal turbinoso movimento del mondo intorno a sé (non avendo né l’occhio adatto a seguirlo nei suoi capricciosi mutamenti, né un’intelligenza che sappia ricondurlo a principi fissi), per tornare alla quieta monotonia delle lingue morte e alle meno sconcertanti e più intelligibili combinazioni delle lettere dell’alfabeto. Così va bene, va proprio bene. «Lasciatemi al mio riposo» è il motto dei dormienti e dei morti. Chiedere al paralitico di saltare dalla sua sedia e buttar via la gruccia, o, senza un miracolo, di «prendere il suo letto e camminare», è come aspettarsi dal lettore colto che posi il suo libro e pensi da sé. Ci resta attaccato per avere un sostegno intellettuale, e la paura di esser lasciato solo con se stesso è come il terrore che incute il vuoto. Riesce a respirare solo un’atmosfera colta, così come gli altri uomini respirano aria comune. È uno che chiede la saggezza in prestito dagli altri. Non ha idee proprie e deve quindi vivere di quelle altrui. L’abitudine di rifornirci di idee da sorgenti non nostre «indebolisce ogni forza di pensiero interiore», proprio come l’abuso di liquori distrugge il tono dello stomaco. Le facoltà della mente, se non vengono esercitate, o se vengono paralizzate dalla continua lettura di testi autorevoli, diventano svogliate, torpide e disadatte agli scopi del pensiero e dell’azione. Possono meravigliarci allora la stanchezza e il languore prodotti da una vita di istruzione indolente e ignorante, passata con gli occhi fissi su frasi e sillabe che riescono a suscitare idee o interesse poco più che se fossero scritte in qualche lingua sconosciuta, finché il sonno non chiude gli occhi, e il libro cade dalle mani indebolite? Preferirei essere un tagliaboschi, o il più misero garzone di fattoria, che tutto il giorno «suda sotto l’occhio di Febo e la notte dorme nell’Eliso», piuttosto che consumare la mia vita così, fra il sonno e la veglia. La differenza fra lo scrittore istruito e lo studente istruito consiste in questo, che il primo trascrive ciò che il secondo legge. Il dotto non è che uno schiavo letterario. Se lo mettete a scrivere una composizione propria, gli gira la testa, e non sa più dov’è. Gli infaticabili lettori di libri sono come gli eterni copisti di quadri che, quando provano a dipingere qualcosa di originale, trovano che manca loro l’occhio veloce, la mano sicura e i colori brillanti, e perciò non riescono a riprodurre le forme viventi della natura. Chiunque sia passato per i gradi regolari dell’educazione classica senza esser stato ridotto all’imbecillità, si può ritenere salvo per miracolo. I ragazzi che figurano a scuola non sono quelli che faranno la migliore riuscita quando saranno adulti ed entreranno nel mondo: è una cosa nota da sempre. Infatti le cose che un bambino è obbligato a studiare a scuola, e dalle quali dipenderà il suo successo, sono cose che non richiedono l’esercizio né delle più alte né delle più utili facoltà mentali. La memoria (e della specie più bassa) è la qualità necessaria per ripetere meccanicamente le lezioni di grammatica, di lingue, di geografia, aritmetica, ecc., cosicché il ragazzo che ha molta di questa memoria meccanica, e pochissimo interesse per le altre cose che invece dovrebbero naturalmente e con più forza attrarre la sua attenzione fanciullesca, sarà lo scolaro più brillante di tutti. Il gergo con cui si definiscono le parti del discorso, le regole per fare un conto, o le forme di un verbo greco, non possono avere un grande interesse per un ragazzo di dieci anni, a meno che altri non gliel’abbiano imposto come dovere, o non sia spinto dalla mancanza di gusto e di interesse per altre cose. Un ragazzo di costituzione malaticcia e di mente poco attiva, che arriva appena a ricordare ciò che gli è stato fatto notare, e non ha né l’intelligenza per distinguersi, né lo spirito per divertirsi, sarà in genere il primo della classe. Un fannullone a scuola, invece, sarà spesso un ragazzo di robusta salute e di temperamento vivace, che ha presenza di spirito e un fisico agile, che sente il sangue circolargli nelle vene e battergli il cuore, che a volte ride e piange nel medesimo istante, che preferisce dare la caccia alle farfalle o correre dietro a una palla, sentire l’aria fresca sulla faccia, vedere i prati e il cielo, seguire per curiosità un sentiero serpeggiante, prendere parte a tutti i piccoli conflitti e agli interessi dei suoi conoscenti e amici, invece che addormentarsi su un noioso abecedario, ripetere dei distici barbari col suo maestro, stare inchiodato ore e ore a un banco, e ricevere poi in risarcimento del tempo e del divertimento persi una medaglietta premio a Natale e a mezza estate. Esiste una stupidità che impedisce ai ragazzi di imparare le lezioni giornaliere e di arrivare a ottenere questi miseri onori accademici. Ma quello che passa per stupidità è assai più spesso mancanza di interesse e di un motivo sufficiente per stare attenti, e applicarsi con disciplina agli aridi e insignificanti scopi dello studio scolastico. Le migliori capacità sono molto al di sopra di questa schiavitù; così come le peggiori stanno al di sotto. I nostri uomini di più grande ingegno non si sono particolarmente distinti né a scuola né all’università.

Attenti alla petulanza degli ignoranti istruiti, scrive Giuliano da Empoli su “Il Sole 24 ore”. La spiegazione migliore della crisi attuale l'ha data un garbato reazionario spagnolo alla vigilia di un'altra grande depressione. «In passato – scriveva José Ortega y Gasset nella primavera del 1929 – gli uomini potevano essere divisi tra i colti e gli ignoranti, ma lo specialista non può essere ricompreso in alcuna di queste categorie. Egli non è colto, perché ignora formalmente tutto ciò che non rientra nella sua specialità, ma non è neppure ignorante, perché è uno scienziato e conosce assai bene la sua piccola porzione dell'universo. Potremmo definirlo un ignorante istruito». Tutti conosciamo la particolare petulanza degli ignoranti istruiti che pensano di poter controllare il mondo sulla base della conoscenza di una specifica materia: credono nell'infallibilità dei numeri e nella razionalità dei comportamenti umani; tutto ciò che è ambiguo li riempie di orrore. Soprattutto, disprezzano i non iniziati. Barricati dietro le loro credenziali accademiche e professionali, accettano di discutere solo con i loro pari. Cioè altri ignoranti istruiti che la pensano esattamente come loro perché hanno imparato a memoria gli stessi ritornelli. Se, fino a ieri, si pensava che il progresso camminasse sulle gambe di professionisti sempre più specializzati, oggi salgono alla ribalta i nuovi umanisti, una generazione di scienziati, di imprenditori e di artisti che ha iniziato a far saltare le barriere tra le diverse discipline per adottare un approccio più complesso alle sfide del nostro tempo. In campo scientifico, è sempre più raro leggere paper firmati da un unico ricercatore: la maggior parte delle scoperte è ormai appannaggio di squadre multidisciplinari. Nell'intrattenimento, non c'è molta differenza tra van Eyck che inventa la pittura a olio nel Quattrocento e John Lasseter, il fondatore della Pixar che rivoluziona la computer animation all'alba del Duemila. In entrambi i casi un artista si improvvisa scienziato per risolvere un problema tecnico che gli impedisce di appagare fino in fondo il suo desiderio di esprimersi. Nel frattempo, serie televisive come I Soprano o Lost hanno recuperato i principi della Poetica di Aristotele per adattarli al gusto di milioni di spettatori. In campo industriale, il designer è emerso dall'anonimato come l'artista sei secoli fa, diventando la figura chiave che unisce l'arte alla tecnologia per produrre il valore aggiunto che determina le sorti di interi rami d'azienda. In Rete, intanto, personaggi come Jaron Lanier hanno cominciato a porre le basi di un Digital Humanism che rimetta al centro il singolo individuo, anziché le masse di internauti trasformate in un algoritmo dai cervelloni di Palo Alto. Più in generale, fenomeni come il successo delle "Ted Conferences" o il culto para-religioso che si è sviluppato intorno alla figura di Steve Jobs dimostrano che l'ideale di un approccio in grado di superare le barriere disciplinari per confrontarsi il presente è più che mai attuale. Ecco perché è fuori luogo anche il piagnisteo degli accademici che lamentano il declino della cultura umanistica. Certo, è possibile che alcune polverose facoltà universitarie abbiano raggiunto lo stadio del coma irreversibile. Ma è altrettanto vero che, nel corso degli ultimi anni, un nuovo umanesimo ha fatto la sua comparsa in ambiti imprevisti. Un po' come l'antica Grecia, sconfitta militarmente dai romani, ma capace di contaminare la cultura romana fino a dominarla, le discipline umanistiche saranno anche in crisi all'interno dei campus, ma la loro diaspora sta cambiando il volto di interi pezzi della nostra società.

Le persone più ignoranti? Di solito sono coltissime. Non sanno nulla di scienza, vivono di citazioni, non "superano" mai i maestri. Ieri come oggi coloro che hanno meno idee di tutti sono proprio i letterati, scrive Massimiliano Parente su “Il Giornale”. «La differenza fra lo scrittore istruito e lo studente istruito consiste in questo, che il primo trascrive ciò che il secondo legge. Il dotto non è che uno schiavo letterario». Così scriveva William Hazlitt, critico shakespeariano e amico di Stendhal, sulla rivista London Magazine nel 1820, in un saggio intitolato L'ignoranza delle persone colte che dà il titolo a un meraviglioso pamphlet in uscita per Fazi (pagg. 112, euro 14,50). Hazlitt ce l'ha soprattutto con i letterati, e non ha torto, perché è l'unica cultura esentata da progresso epistemologico. Mi spiego: mentre nel pensiero scientifico nessuno citerebbe più Tolomeo o Aristotele per spiegare il mondo, nel campo umanistico il pensiero è sempre orizzontale e compresente, non esistono superamenti. Mai sentirete dire che Dante è stato superato, anzi il contrario. Il letterato, per definizione, cita, e ogni citazione ha lo stesso valore conoscitivo di qualsiasi altra. Da Platone a Kant, da Ariosto a Manzoni, la cultura letteraria e filosofica è una fabbrica di citazioni senza tempo, immobili, pietrificate. Non sanno niente delle particelle elementari di Copenaghen, se gli dici atomo ti citano Democrito e stanno bene così. Anzi se ne vantano. In altre parole un cimitero popolato di mummie parlanti. Così, sempre Hazlitt: «Le persone che hanno meno idee di tutti sono gli scrittori e i lettori. È meglio non saper né leggere né scrivere che non saper fare altro che questo». Il critico, in fondo, è uno «che prende la saggezza in prestito agli altri». Infatti per il letterato, allora come oggi, è tutto un «ismo»: platonismo, nichilismo, pessimismo (cosmico, di Leopardi), perfino la teoria evoluzionistica, alla base di tutta la biologia moderna, è diventata un darwinismo. È uno dei motivi per cui l'Occidente non ha più una cultura di riferimento: le giustifica tutte. Ne è nato anche un termine molto esemplificativo: il multiculturalismo. In base al quale, ormai, si assegnano perfino i premi Nobel, non esiste arretratezza culturale. Complice anche il cosiddetto postmoderno, una truffa critica che ha annientato ogni gerarchia culturale. Non per altro in Italia portò al Gruppo 63, ossia l'elevazione a arte del copia e incolla, cioè i ritagli di Nanni Balestrini&company. D'altra parte questo discorso rispecchia il refrain delle periodiche campagne di lettura, secondo cui leggere è bello. Dipende da cosa si legge, e da quello che si capisce. Sarà per questo che perfino i tweet di Samantha Cristoforetti dallo spazio sembrano scritti da Fabio Volo o da Fabio Fazio, le hanno insegnato che la poesia è quella. Già per Hazlitt il discorso era chiaro: «Quale beneficio reale ricaviamo dagli scritti di un Laud, del vescovo Bull, o del vescovo Waterland, dei Collegamenti di Prideaux, o da Beasonbre, Calmet, Sant'Agostino, Pufendorf, Vattel, o dai più letterari ma ugualmente dotti e inutili lavori dello Scaligero, di Cardano e dello Scioppius? Che perderebbe il mondo se domani fossero dati alle fiamme?». In effetti basta sostituire ai nomi citati quelli dei nostri letterati, la cui visione dell'uomo e dell'universo è rimasta più o meno al Medioevo. Quali studi sono stati pubblicati dai nostri critici letterari? Quale libro hanno pubblicato Alfonso Berardinelli, Carla Benedetti, Massimo Onofri, o Andrea Cortellessa che sia criticamente fondamentale? Alberto Arbasino buttò lì un'immagine ancora più semplice: «Chi non ha mai costruito neppure una capanna, può criticare un grattacielo?». Infatti cosa fanno i critici? Neppure leggono più, si leggono tra di loro e si citano l'un l'altro. Una volta Filippo La Porta mi disse che considerava la sua opera di critico importante quanto quella di un grande scrittore (gliel'aveva detto il suo maestro Berardinelli), e i saggi sulla Recherche di De Benedetti importanti quanto l'opera di Marcel Proust. A ognuno di costoro risponde Hazlitt, con duecento anni di anticipo: «Se desideriamo conoscere la forza del genio umano dobbiamo leggere Shakespeare. Se vogliamo constatare quanto sia insignificante l'istruzione umana possiamo studiare i suoi commentatori».

William Hazlitt. Sull’ignoranza delle persone colte e altri saggi.

Commento di Maglioni"Le persone che hanno meno idee di tutti sono gli scrittori e i lettori. È meglio non sapere nè leggere nè scrivere che non saper fare altro che questo". Pungente, sarcastica, elegantemente autoironica è la sferzata di Hazlitt nei confronti degli intellettuali, a cui lui peraltro apparteneva con fierezza, come testimonia la sua produzione letteraria sempre colta e inondata di citazioni: una miriade di riferimenti quasi divorano le sue frasi, dai classici latini alla Bibbia all'immancabile Shakespeare. Il modo di scrivere di Hazlitt si può definire, per usare una sua espressione, "pensare ad alta voce". Con uno stile aulico ma al tempo stesso discorsivo tipico dell'essay inglese - che affonda le sue radici nell'essai di Montaigne - Hazlitt costruisce equazioni morali per poi smontarle, contraddirle e riproporle continuamente sotto vesti diverse. Disserta "Sul pensiero e l'azione, Sul fare testamento, Sull'effeminatezza del carattere, Sulle istituzioni, Sugli svantaggi della superiorità intellettuale, Sulla paura della morte" in un alternarsi di "elogi in sistole e denigrazioni in diastole", come afferma Thomas McFarland, studioso e critico dello scrittore inglese. Questa collezione di saggi, tratti dalla raccolta Table-Talk (1821-22), offre al lettore una piacevole passeggiata attraverso lo spirito romantico e filosofico di Hazlitt facilitata da una buona "segnaletica stradale" a cura di Fabio de Propris.

Commento di Cristiano Cant. A chi non ha mai assaporato le delizie di una mente gentilmente rancorosa, a chi sta cercando il sollievo del sentirsi trainato da una guida sicura fra cianfrusaglie ignobilmente vacue, a chi fruga i quattro angoli della terra e si sta accorgendo che corre lungo un cerchio come e peggio di un povero cavallo nel circo. A tutta questa bolgia sfasata io imploro di acquistare e leggere questo libro, poi di tenerlo a portata sempre e poi di riaprirlo, ovunque siate e quale che sia lo stato d'animo che vivete. Se di gioia, per comprenderne la vana e sacrosanta brevità, se di pena per sentirne il morso dei suoi molari dorati. Un breviario di raffinata teologia sociale e letteraria, demolente ed etico più di un senso di colpa perenne; affronta il genio e le follie della mediocrità posata non meno delle arguzie di un cretino o della sfida per chiunque a venire a capo delle folli matasse del vivere. Ci sono libri forse non volutamente nati per dare felicità a un pubblico o a qualcuno, forse anche capaci di enorme irritazione a sapere che è questa la traccia che infine essi lasciano. Ma è questa la potenza della parola, il non controllo di sé e la linea deragliata del senso che un ragionamento o un discorso possono offrire nel loro distendersi intero. Libro indispensabile per chi ama la spina nella carne più dell'odioso e monotono profumo di rosa.

William Hazlitt (Kent 1778 – Londra 1830) fu un saggista molto particolare, inviso a tanti per il suo vizio di dire tutto quello che pensava e disposto perfino ad esporsi al ridicolo pur di mantenere la propria linea di pensiero, scrive “Il Lettore Comune”. Di lui Virginia Woolf nella seconda serie de Il lettore comune, così scriveva: In virtù del suo principio “è difficile odiare chi si conosce bene”, se avessimo conosciuto Hazlitt, lo avremmo di sicuro trovato simpatico. Ma Hazlitt è ormai morto da cent’anni, e dobbiamo forse chiederci se lo conosciamo abbastanza da superare il senso di violenta antipatia, vuoi personale vuoi intellettuale, che i suoi scritti ancora suscitano. Hazlitt – ed è uno dei suoi meriti principali – non era uno di quegli scrittori che evitando di pronunciarsi svaniscono nella nebbia e muoiono d’insulsaggine. Nei suoi saggi lui è presente, sempre e con enfasi. Senza remore e senza vergogna. Dice esattamente ciò che pensa e dice esattamente – confidenza meno lusinghiera – quel che prova. Aveva una straordinaria consapevolezza della propria esistenza; e siccome non passava giorno che non gli infliggesse uno spasmo d’odio o di gelosia, un fremito d’ira o di piacere, nel leggerlo entriamo presto in contatto con un carattere singolarissimo – bisbetico e insieme magnanimo; gretto e tuttavia nobile, assolutamente egoista eppure ispirato da genuina passione per i diritti e le libertà del genere umano. Sull’ignoranza delle persone colte è una raccolta di sette saggi, tratti da Table-Talk (1821-1822) tutti molto piacevoli da leggere, attuali e anche interessanti come si può evincere già dai titoli, oltre a quello che dà nome al libro gli altri sono: Sul pensiero e l’azione, Sul fare testamento, Sull’effeminatezza del carattere, Sulle istituzioni, Sugli svantaggi della superiorità intellettuale, Sulla paura della morte. Ognuno di essi presenta un sunto della tipologia umana che intende attaccare, ne viene fuori un ritratto spietato e ricco di sarcasmo di un’umanità il più delle volte gretta e inutilmente vanitosa che non accettando i propri limiti come parte essenziale di sé, scade sempre nel ridicolo. Il lato ridicolo del carattere umano in poche occasioni appare più vivo che nell’atto di fare testamento. È l’ultima possibilità che abbiamo di esercitare la naturale perversità del nostro carattere, e stiamo molto attenti a farne buon uso. La custodiamo gelosamente, la rimandiamo il più a lungo possibile, e poi prendiamo ogni precauzione perché il mondo non abbia a trar vantaggio dalla nostra morte. Quest’ultima azione della nostra vita raramente ne smentisce il tenore precedente per quanto riguarda la stupidità, il capriccio e l’insensata voglia di far dispetti. Sembra che il nostro pensiero dominante sia di sistemare le cose (facendo i conti con quelli che sono tanto maleducati da sopravviverci) in modo da fare il minor bene possibile, e di affliggere e deludere più gente che si può. Sul fare testamento è lo spaccato più esilarante di quest’umanità che si dibatte contro l’inevitabile, ovvero il fatto di essere mortale e l’attaccamento ai beni materiali supera l’intelligenza in molte occasioni. Hazlitt non lesina esempi, tratti non dalla sua immaginazione, ma da documenti reali, per quanto si tratti di comportamenti a dir poco bizzarri, dispettosi e infantili, che potremmo collocare più facilmente in una fiaba piuttosto che in un testamento redatto veramente. Può capitare perciò di ereditare una ricetta per la conservazione dei bruchi morti o una collezione di cavallette dell’anno precedente e perfino uno scarabeo cornuto. L’istruzione è la conoscenza di ciò che gli altri in genere non sanno, e che non possiamo apprendere che di seconda mano per mezzo dei libri, o di altre sorgenti artificiali. La conoscenza di ciò che è davanti o intorno a noi, che fa appello alla nostra esperienza, alle nostri passioni o ai nostri progetti, al cuore e agli affari degli uomini, non è istruzione. L’istruzione è la conoscenza di quello che solo le persone istruite conoscono. Il più istruito di tutti è colui che conosce meglio tutto ciò che vi è di più lontano dalla vita quotidiana, dall’osservazione immediata, che non è di alcuna utilità pratica, che non può essere provato dall’esperienza e che, dopo esser passato attraverso un gran numero di stadi intermedi, resta ancora pieno di incertezza, di difficoltà e di contraddizioni. È vedere e ascoltare con occhi e orecchie altrui, è credere ciecamente al giudizio degli altri. La persona istruita è fiera della sua conoscenza di nomi e di date, non di quella di uomini e cose. Non pensa e non s’interessa ai suoi vicini di casa, ma è al corrente degli usi e costumi delle tribù e delle caste degli indù e dei tartari calmucchi. Sull’ignoranza delle persone colte è l’unico dei sette che fu pubblicato prima di venire inserito nella raccolta Table-Talk, precisamente nel luglio 1818 sulla rivista The Edimburgh Magazine. Fin dall’inizio Hazlitt se la prende con un certo modo di istruire e di concepire la cultura, infatti secondo lui a passare troppo tempo sui libri si finisce con il perdere il senso della realtà che ci circonda, fino a divenire, da colti che ci si credeva a perfetti ignoranti, almeno a proposito degli aspetti pratici della vita, senza i quali tutto diviene falsato e mutilo. Puntare il dito addosso al modo di fare cultura ufficiale dell’epoca, di certo non gli avrà procurato grandi simpatie, andare contro lo sterile studio mnemonico che permette di incamerare dati senz’anima e dunque senza una vera comprensione è una critica che andava a colpire inevitabilmente anche i suoi amici letterati. Pian piano si fa strada l’idea di base del saggio che è quella di mostrare come la cultura sia portatrice di finzione. Laddove si insinua un pensiero che diventa norma e che non ha a che fare con l’aspetto pratico, allora inevitabilmente ecco affacciarsi l’impostura. Ecco come viene usato il sapere umano. Sembra che i lavoratori di questa vigna abbiano lo scopo di confondere il senso comune e le distinzioni fra il male e il bene per mezzo di massime tradizionali e di nozioni preconcette che diventano sempre più assurde col passare del tempo. Fanno ipotesi su ipotesi, ci innalzano montagne, finché non è più possibile giungere alla più semplice verità su alcunché. Vedono le cose non come sono, ma come le trovano nei libri, e “chiudono gli occhi e cancellano i dubbi” per non dover scoprire niente che sia in contrasto con i loro pregiudizi, o possa convincerli della loro assurdità. Si direbbe che la forma più alta della saggezza umana consista nel mantenere le contraddizioni e nel rendere sacro ciò che è insensato. Non c’è dogma, per quanto feroce o sciocco che sia, a cui questa gente non abbia apposto il suo sigillo, tentando di imporlo alla comprensione dei suoi seguaci come fosse la volontà del Cielo, rivestita di tutto il terrore e delle sanzioni della religione. L’intelligenza umana è stata ben poco diretta a ricercare l’utile e il vero!quanto ingegno sprecato nella difesa di credi e teologie! Quanto tempo, e quanto talento sono stati perduti in controversie teologiche, in processi, in politica, in critiche verbali, in astrologia giudiziaria e nella ricerca della pietra filosofale! Quest’ampiezza di vedute porta lo scrittore su terreni decisamente pericolosi che vanno a minare le roccaforti dell’inattaccabile pensiero occidentale. Nella sua animata critica contro il sapere Hazlitt rivela tutta la pericolosità di una fiducia cieca nella parola, va indietro nel tempo fino a riconoscere che tutta l’impostazione sociale è basata sulla menzogna. Se una cosa è vera solo perché qualcuno l’ha scritta ecco che il gioco dei potenti si fa ancora più facile, perché tutto diventa possibile, come smerciare gli scritti di uomini per parola divina in modo da porre sotto sigillo insindacabile le leggi più inique, oppure imporre un punto di vista apparentemente democratico, ma in realtà asservito al potere dominante e così via. E ancora si rimane letteralmente sbigottiti nel leggere il saggio, Sulle istituzioni, poiché a dispetto degli anni trascorsi e della diversità del luogo, il quadro della classe politica che dipinge Hazlitt è tristemente simile al disdicevole spettacolo che siamo costretti a sopportare quotidianamente qui in casa nostra: Le istituzioni sono più corrotte e più guaste degli individui, perché hanno più potere per fare del male, e sono meno esposte al disonore e alla punizione. Non provano né vergogna, né rimorso, né gratitudine, e neanche benevolenza. La coscienza individuale o naturale del singolo componente viene soffocata (non possiamo avere un principio morale nel cuore degli altri), e non si pensa ad altro che a dirigere meglio lo sforzo comune (liberato da scrupoli inutili) per ottenere vantaggi politici e privilegi, da spartirsi poi come bottino. Ciascun membro raccoglie il profitto, e rovescia la colpa sugli altri. Quante volte abbiamo sentito la frase: “lo abbiamo ereditato dal governo precedente”? Ma ecco un altro passo che ci riporta ai festini del cavaliere poco errante e molto stanziale (come tutti i colonizzatori di poltrone parlamentari del resto) che pur criticandosi l’un l’altro, tuttavia partecipano volentieri ai numerosi momenti di svago che annullano i confini imposti dai vari partiti ai quali appartengono: «La società gli deve veramente molto per quest’ultimo affare»; cioè, per qualche squallido inghippo, qualche manovra sottobanco per usurpare i diritti del prossimo, o per calpestarne le ragioni. Nel frattempo mangiano, bevono e gozzovigliano insieme. Affogano nei boccali da una pinta tutte le piccole animosità e le inevitabili differenze d’opinione. Le lagnanze della moltitudine si perdono tra il rumore delle stoviglie…Il filo conduttore di tutti questi saggi termina nella persona stessa di William Hazlitt, un uomo definito antipatico, per niente geniale, addirittura scontato, un uomo costretto a subire continui attacchi dall’esterno, vuoi per una certa selvatichezza caratteriale, ma anche per tutto quello che si percepisce in questi suoi scritti, soprattutto in quello più autobiografico, Sugli svantaggi della superiorità intellettuale, ovvero la costrizione dell’isolamento, perché sempre incompreso, perché troppo avanti e quindi invidiato e per l’insopportabile ostentazione di avere delle idee e dirle apertamente, senza fronzoli o paraventi. Un destino comune a molti pensatori. Il principale svantaggio di sapere di più, e di vedere più lontano degli altri, in genere è di non essere compresi. Chi è intellettualmente dotato tende a esprimersi per paradossi, e questo lo colloca subito fuori la portata del lettore comune. […] La grande felicità della vita è di non essere né migliore né peggiore della media di quelli che incontri. Se sei al di sotto, ti calpestano, se sei al di sopra degli altri trovi subito che il loro livello è inaccettabilmente basso, perché rimangono indifferenti davanti a ciò che t’interessa di più. A che serve essere virtuosi in un locale notturno, o saggi in un manicomio?

L’ignoranza delle persone colte: “Il desiderio di essere come tutti”, scrive “Eunews. Riflessioni su “Il desiderio di essere come tutti” di Francesco Piccolo, vincitore del premio Strega 2014. “C’è un certo genere e un certo grado dell’intelletto sul quale le parole fanno presa, ma in cui le cose non hanno il potere di penetrare. Un talento mediocre, con una costituzione morale un po’ fiacca, è il suolo che produce i più brillanti esemplari di scrittori di saggi premiati”.  William Hazlitt, Sull’ignoranza delle persone colte. Iniziamo da questo numero una nuova rubrica, “L’ignoranza delle persone colte”, dal titolo di uno dei più celebri saggi di William Hazlitt, il Montaigne inglese. Per il grande poeta inglese John Keats, non più di tre erano le “cose di cui godere” nella vita. Una di queste era “la profondità del gusto” di William Hazlitt. Secondo Hazlitt, se la vita è gioia, felicità ma allo stesso tempo crudeltà insensata, ignoranza, se è spavento e orrore, se è volgarità e presunzione, non c’è altro da opporre che l’eleganza e la forza di uno spirito libero. In questa rubrica, che non avrà cadenza fissa, non faremo recensioni di libri, ma ci faremo ispirare da essi. La prima ispirazione la prendiamo dal libro dello scrittore casertano Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, vincitore del premio Strega 2014. Non ci sono motivi particolari per scegliere questo libro piuttosto che un altro. Il libro di Piccolo ci è venuto in mente leggendo le parole pronunciate da papa Francesco durante una sua visita pastorale a Caserta. “È terribile, lo sfregio di questa bella terra,” ha detto il papa sorvolando in elicottero la cosiddetta “terra dei fuochi”. “Bisogna avere il coraggio di dire no a ogni forma di corruzione e di illegalità”. I protagonisti del libro di Piccolo sono Caserta e il segretario del Partito Comunista Italiano negli anni settanta e ottanta, Enrico Berlinguer, ma l’autore non fa nessun accenno ai fatti citati da papa Francesco e alle persone che ne sono responsabili. “L’abitudine è quella di sentirsi estranei agli errori, estranei alle brutture del Paese. L’estraneità rende impermeabile la conoscenza, e senza conoscere le ragioni degli altri, non si può combatterle,” dice Piccolo a conclusione del suo libro. Certo, anche a noi come a papa Francesco piacerebbe conoscere “le ragioni degli altri” di Caserta, ma se è questo che vi aspettate dalla lettura di questo libro, Il desiderio di essere come tutti non fa per voi. A differenza di alcuni nostri amici che avevano lodato, forse troppo, i racconti di Storie di primogeniti e figli unici e Momenti di trascurabile felicità per la loro scrittura ironica e sincera, avvolgente e a cerchi concentrici, che rispecchiava bene la sua generazione, e poi hanno ammirato il maschio seduttore de La separazione del maschio – egocentrico, autoreferenziale, continuamente a caccia di consensi (soprattutto sessuali), anche se il protagonista usciva fuori alla fin fine come uno cieco di fronte alle cose della vita –, a noi il libro vincitore dello Strega è piaciuto più di altri, non tanto per la scrittura, che nonostante rimanga sempre tesa e tenga incollati alla pagina, scivola verso un’elegante prosa giornalistica, povera di grandi illuminazioni, ma soprattutto perché è un libro che ci fa riflettere su un periodo della nostra storia – soprattutto quello degli anni settanta e ottanta – in modi nuovi e anche originali. La domanda che sembra essere al centro del libro è la seguente: ma Berlinguer era un perdente o un vincente? D’altra parte il tema di chi vince e chi perde viene reiterato continuamente nel corso del libro. Ci sono pagine e pagine sulle partite di tennis tra il protagonista del libro, Francesco Piccolo, e un suo amico democristiano, nipote del sindaco. “Perché la sconfitta non mette in gioco la quantità di problemi che mette in gioco la vittoria. È come se fossimo in un gigantesco spogliatoio, dopo la partita, e noi che abbiamo perso ci guardassimo tutti con soddisfazione, perché sappiamo di giocare meglio, in modo più elegante; gli avversari hanno vinto, ma sudano troppo”, commenta a un certo punto l’autore. Sul punto se Berlinguer fosse un perdente o un vincente si interroga continuamente Piccolo. Le sue risposte sono apparentemente contraddittorie. “Berlinguer lascia in eredità l’etica politica – un elemento necessario; ma non si affianca più alla strategia politica, bensì la sostituisce”.  Ma poco dopo, Piccolo aggiunge: “La risposta quindi, se Berlinguer avesse una propensione alla sconfitta, è un no deciso”. Pochi oggi ricordano che il primo grande sponsor delle politiche di austerity in Europa è stato proprio Enrico Berlinguer. Se uno andasse a rileggere i punti salienti del celebre “discorso dell’austerità” fatto da Berlinguer al Teatro Eliseo nel 1977, poco prima che il “compromesso storico” tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano si concretizzasse, vi noterebbe molte assonanze con i ragionamenti che fa da alcuni anni la cancelliera tedesca Angela Merkel. Secondo Berlinguer, il paese che era stato sempre governato dal 1948 in poi dalla Democrazia Cristiana era troppo spendaccione. Cosa avrebbe voluto Berlinguer? Un paese austero, appunto, che fosse “incline al passo giudizioso, non sperperante. Austero, appunto”, come nota Piccolo. Difficile non fare l’associazione con il celeberrimo “passo dopo passo” della cancelliera. I governi guidati dalla DC spendevano troppo, secondo Berlinguer, dimenticando che in quella spesa c’erano poste come l’educazione, in quote percentuali del Pil nettamente superiori a quella di oggi, e questo non era un essere semplicemente spendaccioni. D’altra parte, gli economisti del PCI non amavano molto John Maynard Keynes, a cui preferivano le teorie di Karl Marx. Forse non è un caso se ancora oggi, all’interno del governo di Matteo Renzi, ci siano ministri che all’epoca avevano sposato le tesi di Berlinguer; o se ancora oggi abbiamo un Presidente della Repubblica che all’epoca era nella fase eurocomunista di austerità ante litteram, dopo aver superato la fase fascista da studente negli anni quaranta, quella comunista filosovietica degli anni cinquanta – “L’intervento sovietico è stato il contributo decisivo non solo per impedire che l’Ungheria finisse nel caos e nella controrivoluzione, e difendendo gli interessi militari e strategici dell’URSS, ma anche salvando la pace nel mondo” – e quella anti-intellettuale degli anni sessanta – “Solo commentatori sciocchi e faziosi possono evocare lo spettro dello stalinismo, trascurando il modo in cui Solzhenitsyn ha portato le cose a un punto di rottura”. Francesco Piccolo, come spiritosamente racconta, diventò comunista e si innamorò di Berlinguer durante la partita tra Germania Ovest e Germania Est ai mondiali di calcio del 1974. Lui faceva il tifo per i poverini della Germania Est che indossavano tute sportive non all’altezza dell’eleganza richiesta dall’evento. Fece il tifo per Berlinguer durante la fase del “compromesso storico” e in quella successiva, quando Berlinguer, ormai totalmente sconfitto – il nuovo alleato della Democrazia Cristiana era ormai Bettino Craxi – lanciò nel 1980 la linea politica di “alternativa democratica”, cioè di dura opposizione alla Democrazia Cristiana. “Così, dalla sera alla mattina”, come scrive Piccolo, “decise di cambiare rotta per sempre: il Partito Comunista Italiano ritirava ogni intenzione di rapporto politico con la Democrazia Cristiana e con il Partito Socialista, sceglieva l’opposizione come collocazione stabile, in autonomia (in isolamento, per meglio dire). La decisione fu così repentina che molti dei dirigenti furono svegliati nel mezzo della notte, e alcuni altri, addirittura lo lessero la mattina dopo sulle pagine dell’Unità”. Scelta che gettò nello sconcerto tutto un ceto intellettuale di sinistra (sceneggiatori, politici, critici, produttori, giornalisti) che da allora in poi rimase scontento di tutto: della vita pubblica, di quella professionale e di quella privata, “che ha perduto prospettive e tensione morale. È un gruppo che si sente postumo, come se avesse mancato qualcosa”. Accidenti, se aveva mancato qualcosa! Alla presidenza della Rai sarebbe arrivato qualche anno più tardi il professore emerito di letteratura Walter Pedullà, e non il comunista Alberto Asor Rosa, colui che aveva sviluppato con grande impegno la tesi che la “letteratura impegnata” fosse soltanto una pura illusione populista, poiché la classe operaia non avrebbe mai potuto sperare di beneficiare delle arti e delle lettere in un mondo capitalista in cui la cultura era, per definizione, irrimediabilmente borghese (Asor Rosa, come Piccolo, è di origine piccolo borghese). Come se non bastasse, Pedullà, il critico letterario dell’odiato quotidiano socialista l’Avanti, cominciò a collezionare una serie impressionante di premi (il Vittorini, il Borghese, il Giusti, il Locri, il Melfi, l’Adelphi, il Regium Julii, il Sidereo, il Cortina, il Montesilvano tra i più noti e autorevoli) ed entrò a far parte di tutte le giurie letterarie d’Italia (Strega, Viareggio, Campiello, Mondello, Scanno, Pen Club, Flaiano, Bari nonché Penna, Pisa, Acquileia, Coni, Latina, Orient-Express, Trulli, Crotone, Vibo, Padula, Sidereo, Cortina, Montesilvano) con una capacità di lettura straordinaria. La leggenda racconta che per poter leggere tutti i libri dei premi a cui partecipava, facendosi aiutare dal figlio, fosse in grado di leggere cento libri al giorno. Anche per Piccolo, come per milioni di altri comunisti, il vangelo, dopo la svolta clamorosa del 1980, divenne la celebre intervista rilasciata da Berlinguer al direttore del quotidiano la Repubblica del  28 luglio 1981 che iniziava con il celebre attacco “I partiti non fanno più politica” e in cui Berlinguer poneva in modo forte e autorevole la questione morale al centro della vita del paese. In verità era il PCI che non era più in grado di fare nessuna politica che avesse uno sbocco concreto. Berlinguer invitava tutti a guardare il mondo dall’alto. Il PCI era il giusto sentiero, senza nei e senza macchie. Non si capiva più perché Berlinguer avesse voluto, solo alcuni anni prima, sporcarsi le mani addirittura con i corrotti politici della Democrazia Cristiana, politici che peraltro erano, per quanto riguardava la spesa pubblica, dei grandi spendaccioni. Una domanda che Eugenio Scalfari non pose a Berlinguer fu la seguente: ma non dimostrò il PCI durante il rapimento Moro di essere poco lucido? Cosa ci avrebbe rimesso Berlinguer se Moro fosse stato liberato? Veramente credeva che un piccolo gruppo come le Brigate Rosse potesse rappresentare una oggettiva minaccia per la democrazia italiana e che si sarebbero rafforzate dal rilascio di un pugno di membri che sarebbero stati sotto stretta sorveglianza da parte della polizia nel momento in cui fossero usciti dal carcere? Come ben ricorda Piccolo, “la decisione di chiusura totale alla trattativa l’aveva presa Enrico Berlinguer”. Come scrive lo storico britannico di orientamento marxista Perry Anderson, a lungo direttore della New Left Review, uno che certamente non può essere accusato di essere un anticomunista: La tesi che il prestigio dello Stato non sarebbe sopravvissuto ad una resa tale, o che migliaia di altri terroristi sarebbero spuntati fuori sulla scorta di quei fatti, non fu nient’altro che isteria instillata in maniera interessata. I socialisti lo capirono e si schierarono a favore delle trattative. Plus royalistes que le roi, i comunisti, ansiosi di dimostrarsi tra i più saldi bastioni dello stato, sacrificarono una vita e salvarono dal tracollo la loro nemesi, la DC… Durante questa crisi, una volta di più il PCI dimostrò di essere privo di umanità e buonsenso e denunciò qualunque trattativa per assicurarsi il rilascio di Moro in maniera più veemente di quanto facesse la stessa dirigenza della DC, che era comprensibilmente spaccata. Moro fu puntualmente abbandonato al suo destino. Se gli fosse stato permesso di vivere, il suo ritorno avrebbe sicuramente diviso la Democrazia Cristiana e avrebbe probabilmente posto un termine alla carriera di Andreotti. Concludiamo con una citazione nella citazione di Goffredo Parise, che negli anni settanta, come ricorda Piccolo, teneva una rubrica di dialogo con i lettori sul Corriere della Sera: “Questo mio Paese è l’Italia molto bella dei più, non il meschinissimo Paese dei meno: quello dei meno è un Paese dove non si nasce, non si mangia, non si ama, non si vive e non si fa nessuna cultura. Dove non si respira nemmeno l’aria, perché prima bisogna fiutare le arie che tirano e solo dopo si respira. Questo non è il mio Paese: il mio Paese è l’Italia piena di calore animale, quella ignorata dai poveri snob, dove mi piace vivere e scrivere”.

L’italiano medio è volgare e squallido, ma diverte. La recensione di Marita Toniolo su “Best Movie”. Sbarca al cinema l’opera prima del comico Maccio Capatonda, che vuole farci ridere e vergognare di come siamo diventati. Dopo i successi stratosferici di Zalone al botteghino, si torna a puntare forte su un volto “televisivo” con Maccio Capatonda e il suo Italiano medio, prossimo a sbarcare al cinema con 400 copie al suo esordio (il 29 gennaio). Maccio Capatonda, al secolo Marcello Macchia, è un fenomeno di culto del web amatissimo dai cinefili grazie ai suoi trailer parodia: un centinaio di secondi e poco più in cui Capatonda riesce a comprimere mirabilmente genio e follia, cinefilia e non-sense, giochi di parole e travestimenti, raggiungendo una popolarità che lo ha portato a sbarcare anche su MTV con la serie Mario. Lo attendeva al varco la sfida più tosta: il lungometraggio. Riuscire a essere altrettanto esplosivo in un tempo dilatato. Italiano medio, diretto, scritto e interpretato da Maccio, è infatti lo sviluppo del finto trailer di Limitless con Bradley Cooper: due minuti, in cui era un uomo intelligente e socialmente responsabile, che assumeva una pillola che gli cambiava totalmente la vita. Parodisticamente, rispetto alla Lucy di Besson che si ritrova ad avere a disposizione il 100% del cervello, Maccio deve capire cosa riuscire a fare con solo il 2%… E proprio da questa domanda prende il via il racconto. Giulio Verme è il perfetto emblema dell’uomo socialmente impegnato: allergico alla televisione sin da bambino, avverso a ogni massificazione, vegano convinto, sempre pronto ad aiutare gli emarginati, con la fissa per l’ambiente e le scelte etiche ed ecosostenibili. Addetto allo smistamento dei rifiuti a Milano, cerca di inculcare un po’ di senso civico nei colleghi, che gli rispondono a suon di scoregge. La radicalità delle sue scelte finisce per creare un muro tra lui e le persone che lo circondano: i genitori in primis, gli amici, i vicini e persino la fidanzata Franca, esasperata dal suo atteggiamento da uomo frustrato e ostile, ma fondamentalmente passivo. Giulio si ritrova isolato e disperato, sopraffatto dal “lerciume” che lo circonda, sempre più nevrotico e ansioso. Finché nella sua vita non approda l’amico Alfonzo, un ex compagno antipatico  delle elementari che gli offre una pillola straordinaria, che gli permetterà di usare solo il 2% del cervello, invece che il 20%. La metamorfosi sarà da Dottor Jekyll e Mr Hyde: da attivista rompiscatole e fanatico, Giulio diventerà un tronista beota con il mantra fisso dello “scopare”, della disco e del lusso cafonal, volgare e ignorante, carnivoro e menefreghista, guadagnandosi – impresa becera dopo l’altra – il diritto alla partecipazione al reality show più di culto del momento. L’apoteosi dell’italiano medio. Capatonda ha messo tutto se stesso in questa opera prima e il primo punto a favore gli deriva dall’enorme cura del dettaglio che il film mostra. Nulla è lasciato al caso, a partire dagli esilaranti titoli di testa (Tratto da una storia finta), che fanno partire in quinta il film e che denunciano da subito il pedigree cinefilo dell’autore. Che ha di fatto disseminato tutto il film citazioni filmiche facili da riconoscere via via. Tuttavia, il triplo salto carpiato dai video di 1/2 minuti al lungo di 100 equivalgono a passare dallo sguazzare in una piscina a nuotare nell’oceano. C’è un traccia coerente di fondo, ma i raccordi tra una scena comica e l’altra si stiracchiano troppo, portando con sé come conseguenza negativa la reiterazione di situazioni e tormentoni per allungare il brodo (amechemmenefregame, Sant’Iddio, Scopare…). Raccontare una metamorfosi in un video di 130 secondi risulta efficace, dilatarla con un continuo sdoppiamento di personalità ed esplicitando la lotta interiore sempre più opprimente che Verme si ritrova a combattere tra i suoi istinti primari da bifolco e gli intenti nobili, produce l’effetto di frammenti anche geniali, ma non ben incollati in un mosaico coerente. Se la struttura narrativa è il punto debole più evidente di Italiano medio, va invece segnalata – come altro punto a suo favore – il peso specifico delle riflessioni, per nulla superficiali. Lo sguardo di Maccio sull’Italia e i suoi concittadini è amaro e disilluso, quasi crudele. Con un disgusto e un disprezzo maggiore di quello dello storico Fantozzi verso l’impiegato piccolo piccolo, Maccio non risparmia colpi a colti e ignoranti, ricchi e poveri, impegnati e menefreghisti. Giulio Verme sdoppiato sintetizza le sublimi vette dell’arte del compromesso toccate dell’italiano, capace di essere vegano e mangiare il pollo fritto; andare in chiesa e avere mogli e amanti; difendere il bio e inquinare. Opposti apparentemente inconciliabili, che – come vedremo nel finale – invece, per gli abitanti del Bel Paese sono assolutamente ricomponibili, abituati come siamo ad accettare obbrobri edilizi che radono al suolo parchi bio, scandali sexual-politici, indecenze cultural-mediatiche dei reality (memorabili lo scandalo del bianchino nel privè, che ha portato all’esclusione di Kevin, e la “prova pippotto”), come se fossero parte integrante e inalienabile del sistema. Maccio non ce le manda a dire, ma stigmatizza tutti i nostri vizi, costringendoci a ridere (amaramente) di essi. Come sempre, è circondato dai soliti attori fidati: l’inseparabile Herbert Ballerina, che si trasforma in tre personaggi diversi; Rupert Sciamenna, imprenditore squalo con i capelli rosa; Ivo Avido, anche lui triplice. Molti i colleghi  che si sono prestati per differenti camei: lo Zoo di 105, Raul Cremona, Andrea Scanzi, Pierluigi Pardo e il principe assoluto del non sense Nino Frassica. L’impiego degli stessi attori in più ruoli e con costumi diversi, pur se giustificato dal surrealismo che ìmpera, genera spesso un effetto cabaret innestato nel cinema che non giova alla dimensione estetica del film. Sebbene gli vada anche riconosciuta una fotografia curata (di Massimo Schiavon), che alterna colori diversi quando la personalità di Giulio cambia, non abbiamo sempre la sensazione di trovarci di fronte a un film tout court, limite più forte dei comici italiani importati dalla Tv. Eppure, pensiamo che l’opera prima di Maccio vada premiata (anche per incoraggiamento, affinché continui a perfezionarsi, per giungere a una scrittura più equilibrata), perché regala sane risate, momenti di genio surreale (il folle “piano” finale degli attivisti) ed è una satira feroce che invita alla riflessione, come non accadeva da tempo in un film comico italiano.

Da Rodotà-tà-tà a onestà-tà-tà, viaggio pre-Quirinale nella spaesata piazza grillina senza capo né nome, scrive Marianna Rizzini su “Il Foglio”. Da Rodotà-ta-tà a onestà-tà-tà. Dopo quasi due anni di Parlamento e alla vigilia di una nuova elezione presidenziale, la piazza a Cinque Stelle parla d'altro ( la "mafia capitale" da non dimenticare: da cui la pubblica lettura delle intercettazioni tratte dall'omonima inchiesta – per la gentile interpretazione di Claudio Santamaria e Claudio Gioè, attori e volti da romanzi criminali su piccolo e grande schermo). Onestà-tà-tà, dunque, al posto del nome che non si farà, non si vuole fare e non si vuole neanche ascoltare (il deputato e membro del direttorio a Cinque Stelle Alessandro Di Battista a un certo punto legge e fa leggere alla pizza la dichiarazione-gran rifiuto: caro Renzi ecco la risposta del popolo – e pare quasi di sentir parlare un robot, la famosa futuribile app che renderà possibile conversare con amici virtuali come nel film "Her" con Scarlett Johansson nella parte dell'amante fatta di web, solo che qui il tono non è suadente: lei ha già deciso, Renzi, e al Nazareno non veniamo). Onestá-tá-tá, e altre parole di un lessico chiama-applauso in una Piazza del Popolo che all'inizio era mezza vuota e percorsa da interesse per l'altrove del sabato pomeriggio: gente che faceva vedere l'acquisto da saldo e giovani rapper -break dancer con tappeto di plastica per performance estemporanea sul selciato. "La gente è arrivata", esclama una signora quando il suo wishful thinking, finalmente, diventa realtá, e arriva pure Sabina Guzzanti comica non più comica, ché, prevale, nel suo intervento, l'invettiva-imitazione in teoria civile in realtá elitaria contro Maria De Filippi, emblema del paese in cui da vent'anni, dice Guzzanti, si è perduto ogni " stimolo intellettuale", e sembra impossibile fare qualcosa: le persone colte riescono a stare insieme per combinare qualcosa, è il concetto espresso da Sabina, le persone ignoranti no. Colpa della tv, è la sentenza che alla fine dell'invettiva tutti si aspettano, e le ragazze del bar all'angolo della piazza si domandano perché mai "Sabina se la prenda con la De Filippi". Ma gli applausi a quel punto sono già stati tributati alla divinità nascosta che la piazza omaggia a intervalli regolari: l'onestà, rieccola, parola buona per tutto e piena in fondo di niente, se non della generica riprovazione per le altre bestie nere della serata (persino il rapper Fedez le dice e non le canta: corruzione, resistenza, vergogna, marciume, e mafia mafia mafia). Tutto è mafia, dicono i deputati, senatori e consiglieri comunali grillini che sfilano sul palco (Roberta Lombardi, la veterana dei primi streaming a Cinque Stelle, dice che una mattina si è svegliata e ha trovato non l'invasore ma una città che diventa proprio quello che ora, chissà perchè, tutti evitano di ricordare: il teatro della mafia capitale. La senatrice stornellista Paola Taverna, in strana inversione di ruoli con Fedez, pare quasi una rapper quando intona lo slogan degli slogan: fuori la mafia dallo Stato. Fedez invece, sempre senza cantare, dice la frase che qualcuno nel pubblico trova "un po' cosi" nel giorno in cui l'Isis decapita un altro ostaggio, di nazionalità giapponese: abbiamo il nemico in casa ma non è di fede musulmana, dice Fedez, e le grandi stragi sono di matrice italiana. Il più grande nemico  dell'Italia sono gli italiani, continua, e a quel punto l'applauso arriva, forse per riflesso condizionato (sono già due ore che gli astanti sentono dire peste e corna dell'universo mondo nazionale). "Fuori i nomi, Renzi"', grida il tribuno Di Battista, e alla fine Beppe Grillo esce per dire la stessa cosa, ma con il marchio di fabbrica: vaffanculo! (Vaffanculo e fate i nomi). Il resto è uso traslato (e a volte insensato) di termini impossibili a odiarsi: valori, costituzione, libertà, partecipazione (povero Gaber), cultura. Grillo invece parla di sottocultura, insultando qui e lì Giorgio Napolitano per non aver riconosciuto "il miracolo" a cinque stelle, anche se il miracolo Grillo se l'è sfasciato da solo. Resta solo da dire no al "Nazareno", demone antropomorfo. Ed è subito sabato sera mentre gli attivisti sbaraccano, e sulla piazza che si svuota si diffonde, incongrua, la più classica canzone dei Pink Floyd ("another brick in the wall").

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene.  C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”.  Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.

"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie  quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude  quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».

Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione. 

Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte.  Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita.  Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».

Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».

Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.

Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.

Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte? 

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);

L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);

La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);

L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);

La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);

L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);

L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).

Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.

Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti.  Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.

I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.

Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.

In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.

In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.

“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?

Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.

La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.

Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.

La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.

Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.

La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.

Parlare di legge, bene o male, ogni  leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.

Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.

La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.

Essa vien da lontano.

E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.

La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.

Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.

Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.

Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.

Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.

Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.

- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?

- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…

- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.

- Le giuro…

- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.

- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.

Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?

Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.  

Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.

Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%  dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.

Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

Ma chi e quando le cose cambieranno?

Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".

Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.

Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.

"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere.  «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.

"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".

Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».

Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.

«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps.  «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.

Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.

Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase  processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.

Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.

La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. 

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”,  dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si  può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» 

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil. 

Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.

Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode. 

Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.

Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.

Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.

Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.

E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.

Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.

Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista. 

Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.

Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.

Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).

Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.

''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.

D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.

Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.

Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.

"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta,  Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario".  Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".

Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".

Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.

LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.

Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».

Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".

La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento  (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier  di partecipare all’udienza  del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri.  Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".

Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it,  è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali.  Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.

“VADA A BORDO, CAZZO!!”.

E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia.  Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio  il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.

De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?

Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»

De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»

Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»

De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».

Schettino: «Comandante le dico una cosa...»

De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».

Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».

De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.

Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:

« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».

« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».

Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).

Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.  Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.

Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.

E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.

Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.

Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.  Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.  

Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono:  “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.

Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".

I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».

«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.

L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.

Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.

C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.

Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.

Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.

Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è  di nove anni e quattro mesi di reclusione per  aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici.  Spaccarotella  era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.

Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino  è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.

Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.

Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.

Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.

Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle,  accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.

Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene  sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.

Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.

Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori  nei confronti della comunità romena di San Gregorio.

All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.

Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.

«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Taranto, Milano, l’Italia.

“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.

Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.

«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri. 

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.

Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).

Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.

Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.

VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.

C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.

Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.

E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.

E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.

Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.

Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.

Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.

La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.

La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.

Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.

L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.

La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.

La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.

Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.  

Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.  

Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.

Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.

In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media  di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.

113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.

E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».

Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La  sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio». 

A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!! 

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.

Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con  la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.

Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi.  La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».

La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.

TOGHE ROSA

Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".

È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.

Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».

Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".

Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.

Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.

Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.

Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.

Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?

Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?

Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.

Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.

Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.

Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.

A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.

A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula. 

La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti. 

Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.

Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.

Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre  a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali". 

Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».

Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».

Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.

Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.

Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.

E poi giudice donna è per il processo………

E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».

Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?

Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.

L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi  anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche  - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente  intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno  maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile  attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,  tracciando  un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.

Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?

Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.

Bene.  L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri)  e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.

Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.

Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.

Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.

Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».  Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso.  Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.

Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.

Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.

Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.

Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.

Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.

Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).

Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.

Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.

Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.

Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).

Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.

Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.

Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.

Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.

Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.

Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.

Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.

Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.

Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).

Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.

Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.

Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.

Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.

Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.

Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.

Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».

Ieri come oggi la farsa continua.

Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.

«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in  questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».

Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».

Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.

Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.

MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?

Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali? 

Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".

Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.

Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.

Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.

Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.

Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione  apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa,  ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente,  non può guardare in faccia i giudici di quella che  si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene  a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.

Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.

Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!

E la stampa censura pure…..

Pensavo di averle viste tutte.

La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.

La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di  cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.

Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.

Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.

I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre. 

«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».

«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».

«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio». 

Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".

Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».

Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.

Cosa????

Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.

Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Quando la tv criminalizza un territorio.

7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”

In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».

Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.

In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.

Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.

Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:

L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;

L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.  

Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.

Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?

Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.

La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.

Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.

Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.

Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".

Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?

Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -  senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del  giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza  entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato  anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”

Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.

La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.

Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.

Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).

Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.

 “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.

Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.

Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.

Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.

Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.

MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.

C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.

Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.

Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare.  Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".

«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.

Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.

Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».

Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?

«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».

Con le sue parole?

«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».

Strategia dei contenuti.

«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».

Il potere ha proprio l'oro in bocca.

«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».

Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?

«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».

Abbiamo perso anche questa occasione.

«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».

Ma era anche un invito a sognare.

«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».

In che senso?

«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».

E di cosa?

«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».

Ci faccia un esempio.

«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».

Cosa otterrà?

«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».

Sono passati un bel po' di anni.

«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».

La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.

STATO DI DIRITTO?

Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.  Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.  Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.  Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.  Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.  È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.  Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.  Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.  Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.» 

Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.

«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.

Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei. 

Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.

Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.

 “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?

Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.

Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?

Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che  - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.

Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.  

E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.

Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga  a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».

Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note.  I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.

Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

CHI E’ IL POLITICO?

Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.

L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.

L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.

Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.

CHI E’ L’AVVOCATO?

Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.

O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.

“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.

La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.

Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.

Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.

La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.

L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.

I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.

Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).

“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.

L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.

Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.

Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.

Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.

Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.

Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.

La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).

Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.

Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.

Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.

Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.

Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.

Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.

Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.

L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“ 

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

CHI E’ IL MAGISTRATO?

"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)».  Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso. 

Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta. http://imageceu1.247realmedia.com/0/default/empty.gif

Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.

L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e  Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.

Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.

 “La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.  Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori. 

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo? 

E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».

Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.

A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.

COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.

IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.

LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.

LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.

IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.

IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.

IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.

IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.

Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.

Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".

Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".

Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.

E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".

Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.

Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".

Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria". 

Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".

"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.

Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".

FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.

Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».

La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.

2,30 del mattino,  Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".

9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.

Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista  di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice  Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.

Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.

11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00. 

Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.

13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene  per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri.  “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”.  Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.

La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.

Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.

Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza. 

Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".

ITALIA DA VERGOGNA.

Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.

È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.

ITALIA BARONALE.

I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.

Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.

L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.

È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.

Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.

CASA ITALIA.

Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».

Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il bene placido delle Istituzioni.

Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.

L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?

Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.

Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

E gli alloggi di proprietà?

Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.

23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.

23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.

L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.

In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.

Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.

La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!

"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.

Cosa ha veramente la Cassazione?

L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.

Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.

La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condotta e dolo specifico.

L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).

Flagranza e procedibilità d'ufficio.

Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).

L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).

Come agire?

Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.

Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.

L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.

L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.

L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.

L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.

A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.

L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

Ma come sono cari  (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.

Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci  un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un  “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?

«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»

ITALIA: PAESE ZOPPO.

Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro  racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.

Che cosa c’è di nuovo in questo libro?

«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»

Filo conduttore?

«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»

Si parte dalla Conferenza di Versailles...

«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»

E l’Italia?

«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»

Che si affacciò al balcone...

«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»

Partiti dilanianti e latitanti?

«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»

Sarebbe a dire?

«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»

E gli italiani non se ne accorgono?

«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»

Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?

«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»

Come si chiama questa malattia?

«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»

La cura?

«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»

E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?

«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»

Beppe Grillo?

«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»

Enrico Letta?

«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»

Matteo Renzi?

«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»

Veltroni?

«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»

Pier Luigi Bersani?

«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»

Massimo D’Alema?

«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»

Silvio Berlusconi?

«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»

Giorgio Napolitano?

«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»

Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè,  quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007.  Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio.  Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.

«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.

E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.

Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.

Ed Ancora. Tre agenti di polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione falsificata.

Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.

Ecc. Ecc. Ecc.

G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.

La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.

Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.

Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”.  Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di  alcuni agenti.  Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.

Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico.  Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”

E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.

Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.

Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?

Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?

Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:

1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti.  Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?

2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.

Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».

Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».

3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.

Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»

La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.

E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.

Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.

Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.

Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?

Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.

Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.

Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.

C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.

Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.

E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».

Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.

Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti  alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.

Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.

Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista.  Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.

La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?

«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.

E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.

Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.

Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.

A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).

E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.

E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».

Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.

Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?

Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.

Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.

Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari.  Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente,  che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.

Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere».  E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».

Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho  con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento  di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la  mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.

Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).

«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.» 

La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive  Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti  confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....".  Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico  sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva  cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle   primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni.  Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso  annuncia con tono routinario, quasi  fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise".  Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da  Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E'  l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di  numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci  a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".

Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine  titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times  che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post  preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro  (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".

Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini  su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...

Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam  su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.

In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».

Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle  successive  torture  dell’imam  Abu  Omar,  non  si  è  presentato  mai    al  processo,  non  ha  mai  confessato  alcunché,  non  si  è  mai  pentito  del  gesto,  non  ha  chiesto  scusa  a  nessuno,  non  ha  mai  scontato  un giorno  di  carcere  e  per  la  giustizia  italiana  era  un  latitante  al  pari del  superboss  Matteo  Messina  Denaro.  La  grazia  giunse  dal  Colle dopo  appena  7  mesi  dalla  pronuncia  definitiva  della  Cassazione e  con  il  parere  contrario  dei  magistrati. C’è  ancora  qualche  anima  bella  o  dannata  disposta  a  sostenere  la  tesi  che  il  presidente  della  Repubblica  non  poteva  adottare  lo stesso  metodo  nei  confronti  di  Silvio  Berlusconi?  Chiamiamo  le cose  con  il  loro  nome:  è  mancato  il  coraggio  per  concedere  la grazia.  Il  provvedimento  avrebbe  aperto  una  fase  nuova  nella storia  di  questo  Paese,  sarebbe  stato  l’atto  di  non  ritorno  verso la  pacificazione  dopo  vent’anni  di  guerra  combattuta  nel  nome dell’eliminazione  per  via  giudiziaria  del  Cavaliere  il  quale,  statene certi,  avrebbe  abbandonato  la  politica  attiva.  Il  capo  dello  Stato ha  avuto  l’opportunità  di  consegnarsi  alla  storia  e  non  l’ha  fatto.  E solo  quando  giungerà  quel  famoso  giorno  in  cui  gli  avvenimenti  di oggi  potranno  essere  riletti  senza  veli  e  senza  partigianerie  capiremo se  al  suo  mancato  gesto  dovremo  aggiungere  i  caratteri  poco commendevoli  del  cinismo,  della  pavidità  o  del  calcolo  politico. Nel  quadro  tenebroso  dell’oggi  trova  un  posto  nitido  Enrico Letta,  il  presidente  del  Consiglio  che  ha  conferito  a  questo  Paese una  stabilità  degna  di  un  cimitero,  come  ha  giustamente  notato il  Wall  Street  Journal.  Incapace  di  avviare  le  riforme  oramai  improcrastinabili per  l’Italia,  Letta  non  è  stato  neppure  capace  di imporre  il  più  impercettibile  distinguo  sulla  giustizia  (settima anomalia)  ed  è  rimasto  avvinghiato  al  doroteismo  stucchevole di  una  linea  che  voleva  tenere  distinte  la  vicenda  di  Berlusconi e  le  sorti  dell’esecutivo  quando  anche  un  bambino  ne  coglieva l’intimo  intreccio.  Ma  i  bambini,  si  sa,  hanno  la  vista  lunga.  E  ora tutti  sanno,  anche  quelli  dell’asilo,  che  l’unico  orizzonte  di  Letta non  è  quello  di  varare  le  riforme,  giustizia  compresa,  ma  quello di  mantenere  il  potere. E  infatti  eccoci  all’ottava  anomalia,  Angelino  Alfano:  ha mollato  il  Pdl  per  fondare  il  Nuovo  centrodestra,  che  al  momento si  distingue  solo  per  la  fedeltà  interessata  al  governo.  Sarebbe toccato  proprio  ad  Angelino  costringere  Napolitano  e  Letta  a guardare  la  realtà,  a  spalancare  gli  occhi  sullo  scempio  del  diritto che  si  stava  consumando,  a  denunciare  con  argomenti  solidi  e  di verità  l’inganno  di  una  procedura  interpretata  in  maniera  torbida e  manigolda.  Come  quella  della  retroattività  della  legge  Severino sulla  decadenza  (nona  anomalia),  che  una  pletora  di  giuristi  e politici  di  buon  senso  non  affini  ma  certamente  lontani  dal  mondo berlusconiano  voleva  affidare  al  vaglio  della  Corte  costituzionale per  un’interpretazione  autentica. Anche  per  questo  motivo  il luogotenente  del  Cav  avrebbe  dovuto  elevare  il  caso  B  a  caso internazionale,  avrebbe  dovuto  sfidare  in  campo  aperto  i  satrapi dell’informazione  truccata.  E  invece  ha  preferito  chinarsi  sulla propria  poltroncina,  talmente  affascinato,  e  impaurito  di  perderla, da  consumare  lo  strappo  di  ogni  linea  politica  e  di  ogni  rapporto umano  con  il  proprio  leader. Napolitano,  Letta,  Alfano:  in  questo  triangolo  delle  Bermude, che  si  autoalimenta  nel  nome  dello  status  quo  e  di  un  governo fatto  solo  di  tasse  e  bugie,  c’è  finito  Silvio  Berlusconi.  E  la  conclusione della  storia  è  stata  ovvia:  l’hanno  inghiottito,  macinato  ed espulso  senza  tanti  complimenti.  Neppure  il  colpo  di  reni  finale hanno  sfruttato  i  tre  del  triangolo  mortale,  quello  offerto  dalle nuove  prove  squadernate  dall’ex  premier  per  chiedere  la  revisione del  processo.  Un  percorso  perfettamente  legalitario,  quello del  Cav,  condotto  all’interno  del  perimetro  disegnato  dal  Codice di  procedura  penale  e  che  avrebbe  dovuto  fermare  la  mannaia dell’espulsione  dal  Senato.  Per  mille  motivi,  ma  soprattutto  per una  possibile  e  atroce  beffa:  se  la  Corte  d’appello  darà  ragione al  Cavaliere  e  lo  proscioglierà,  lui  si  troverà  già  fuori  da  Palazzo Madama.  E  nessuno  potrà  dirgli:  «Prego,  ci  scusi,  si  accomodi  e riprenda  il  suo  posto».  Con  il  corollario  non  secondario  che,  senza lo  scudo  da  senatore,  i  picadores  in  toga  potranno  infilzare  il  Cav e  compiere  l’ultimo  sfregio:  l’arresto  (decima  anomalia). In  questa  cornice  assai  triste  tocca  togliersi  il  cappello  di  fronte al  coraggio  di  Francesco  Boccia,  deputato  del  Pd  di  prima  fila (almeno  fino  al  9  dicembre,  quando  Matteo  «Kermit»  si  presenterà sul  palco  della  segreteria  del  partito)  che  martedì  26  novembre, dopo  aver  visto  gli  elementi  esposti  da  Berlusconi,  ha  dichiarato: «Se  fosse  così  mi  aspetto  una  revisione  del  processo  come  per qualsiasi  altro  cittadino».  E  ancora:  «In  un  Paese  normale  si  sarebbe aspettata  la  delibera  della  Corte  costituzionale  sull’interpretazione della  legge  Severino».  Un  Paese  normale  questo?  È  una  battutona, ditelo  a  Matteo  «Kermit»,  che  magari  se  la  rivende.  Dovrà  fare  in  fretta, però.  Perché  adesso  inizia  un’altra  faida,  che  lo  metterà  contro Letta  e  Napolitano.  I  tre  non  possono  convivere:  i  loro  interessi  non sono  convergenti,  i  loro  orizzonti  non  corrispondono.  Per  questo, già  prima  dell’8  dicembre,  ne  vedremo  delle  belle.  Sarà  il  seguito della  politica  da  avanspettacolo  che  ci  hanno  rifilato  negli  ultimi mesi.  Successe  più  o  meno  la  stessa  cosa  ai  tempi  di  monsieur  de Robespierre  e  dei  giacobini.  Fatto  fuori  il  re,  si  illusero  di  avere  la Francia  in  pugno.  Manco  per  niente.  Iniziarono  a  scannarsi  l’un l’altro.  Fin  quando  un  giorno  accompagnarono  Robespierre,  l’Incorruttibile, al  patibolo.  Gli  gridavano  dietro:  «Morte  al  tiranno». Avete  capito  la  storia?

Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.

Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.

L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.

A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».

"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non  candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".

Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 -  che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.

E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.

E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.

Parcheggi abusivi, applausi abusivi,

Villette abusive, abusi sessuali abusivi;

Tanta voglia di ricominciare abusiva.

Appalti truccati, trapianti truccati,

Motorini truccati che scippano donne truccate;

Il visagista delle dive è truccatissimo.

Papaveri e papi, la donna cannolo,

Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.

Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.

Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:

C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.

Commando sì, commando no, commando omicida.

Commando pam, commando prapapapam,

Ma se c'è la partita

Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,

Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.

Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.

Primario sì, primario dai, primario fantasma.

Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;

Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:

"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.

Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".

Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh

Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.

Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.

Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.

Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.

Squerellerellesh, cataraparupai,

Italia perfetta, perepepè nainananai.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.

Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.

Italia sì: uè.

Italia no, spereffere fellecche.

Uè, uè, uè, uè,uè.

Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.

«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».

Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.

La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.

"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.

Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché  nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".

L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.

È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto». 

"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".

Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".

La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.

Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.

Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.

Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.

L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.

La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.

La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.

La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.

Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.

Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".

Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”

Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».

La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.

«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso.  Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica.  La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».

Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».

Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».

Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.

L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.

“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.

Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.

E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.

La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.

Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.

E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...

I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.

Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.

Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.

Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.

''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.

In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.

Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.

Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.

Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.

Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.

Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.

Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.

Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.

Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.

Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".

Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".

Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".

Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.

I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).

Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.

"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa ’classificà. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).

Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??

Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.

Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.

Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….

Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.

Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.

E che dire delle leggi?

Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.

La redazione degli atti deve essere:

chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;

semplice, concisa, esente da elementi superflui;

precisa, priva di indeterminatezze.

Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:

l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;

la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.

Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...

Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.

Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.

GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.

L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".

Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."

Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."

Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.

L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".

Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?

Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:

- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.

- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.

- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.

Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:

- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;

- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);

- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;

- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);

- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.

- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.

Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è imprescrittibile.

Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.

1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:

a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;

b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;

c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;

d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;

e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.

2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.

a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:

- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;

- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;

- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.

b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.

c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.

La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).

E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.

Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono  un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta  agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che,  in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal  fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.

Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a  formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento  illegittimo,  quindi  fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel  fatto che  si suole  farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti  avvertono come un’applicazione  così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che  la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la  problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.

Ve ne riporto alcune:

“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.

“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.

“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”

“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”

“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”

“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).

Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve  la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero,  l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento  risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni,  dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste  conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.

Il Parlamento abusivo rischia l'arresto. Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio Signorini  su “Il Giornale”.  Illegittimo il sistema elettorale che ha portato quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che, più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e, più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica, la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta. I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese, ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi - regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro. Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare), ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi. Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa. Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la Consulta - eletto con una legge illegittima.

Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.

Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali.  Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?

Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.

Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.

Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.

Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.

Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica.  A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.

«Abusivi».  Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre,  amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.

Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».

Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?

«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».

Quali, avvocato?

«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».

E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?

«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».

E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?

«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».

Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?

«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».

Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?

«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».

Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?

«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».

Al loro posto chi dovrebbe subentrare?

«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».

Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.

«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».

Che pericoli vede all’orizzonte?

«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».

Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?

«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?

Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?

Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma  nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato;  si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia  di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».

Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.

In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.

Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.

LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.

Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:

a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);

b) situazioni di povertà:

c) situazioni di reddito medio – basso.

Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?

Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!

Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?

«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»

Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.

«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?”  La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».

Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.

Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.

Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.

All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».

“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.

Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.

Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.

«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.

FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.  Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.

«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».

Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».

Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».

Alberto Stasi: «Io sono innocente».

Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.

Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?

Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".

Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.

Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.

I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...

Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.

Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?

Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»

C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)

Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

Vengo anch'io? No tu no

Per vedere come stanno le bestie feroci

e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera

Vengo anch'io? No tu no

Con la bella sottobraccio a parlare d'amore

e scoprire che va sempre a finire che piove

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

Vengo anch'io? No tu no

Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale

Vengo anch'io? No tu no

per vedere se la gente poi piange davvero

e scoprire che è per tutti una cosa normale

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed  i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:

- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.

- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.

- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.

- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.

- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.

- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.

- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.

- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.

E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.

Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.

Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»

Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI

PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO

“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.

E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.

L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo. 

Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.

Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”

NON VI REGGO PIU’.

Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.

"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.

A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:

" E allora amore mio ti amo

Che bella sei

Vali per sei

Ci giurerei. "

È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni d'amore..".  Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio dopo quarantaquattro anni.

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè con le canzoni

senza patria o soluzioni

La castità (Nun te reggae più)

La verginità (Nun te reggae più)

La sposa in bianco, il maschio forte,

i ministri puliti, i buffoni di corte

..Ladri di polli

Super-pensioni (Nun te reggae più)

Ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori,

diete politicizzate,

Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)

Auto blu, sangue blu,

cieli blu, amori blu,

Rock & blues (Nun te reggae più!)

Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)

DC-PSI (Nun te reggae più)

DC-PCI (Nun te reggae più)

PCI-PSI, PLI-PRI

DC-PCI, DC DC DC DC

Cazzaniga, (nun te reggae più)

avvocato Agnelli,

Umberto Agnelli,

Susanna Agnelli, Monti Pirelli,

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)

..Gianni Brera,

Bearzot, (nun te reggae più)

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,

Villaggio, Raffà e Guccini..

Onorevole eccellenza

Cavaliere senatore

nobildonna, eminenza

monsignore, vossia

cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)

Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)

abbasso e alè!

Il numero cinque sta in panchina

si e' alzato male stamattina

– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)

Il nostro è un partito serio.. (certo!)

disponibile al confronto (..d'accordo)

nella misura in cui

alternativo
alieno a ogni compromess..

Ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

si sarà la ress

Se quest'estate andremo al mare

soli soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore

che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia...

Dove sei tu? Non m'ami più?

Dove sei tu? Io voglio, tu

Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)

Uè paisà (..Nun te reggae più)

il bricolage,

il '15-18, il prosciutto cotto,

il '48, il '68, le P38

sulla spiaggia di Capo Cotta

(Cardin Cartier Gucci)

Portobello, illusioni,

lotteria, trecento milioni,

mentre il popolo si gratta,

a dama c'è chi fa la patta

a sette e mezzo c'ho la matta..

mentre vedo tanta gente

che non ha l'acqua corrente

e nun c'ha niente

ma chi me sente? ma chi me sente?

E allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

vale per sei

ci giurerei

sei meglio tu

nun te reg più

che bella si

che bella no

nun te reg più!

NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...

LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura

e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,

sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,

incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia

e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,

che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare

e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche avere un’opinione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza

e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,

con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo

e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche un gesto o un’invenzione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e  via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):

Noi fummo da secoli

calpesti, derisi,

perché non siam popolo,

perché siam divisi.

Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:

di fonderci insieme

già l’ora suonò.”

e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci

Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!

IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980

Io se fossi Dio

E io potrei anche esserlo

Se no non vedo chi.

Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente

Non sarei mica un dilettante

Sarei sempre presente

Sarei davvero in ogni luogo a spiare

O meglio ancora a criticare, appunto

Cosa fa la gente.

Per esempio il cosiddetto uomo comune

Com'è noioso

Non commette mai peccati grossi

Non è mai intensamente peccaminoso.

Del resto poverino è troppo misero e meschino

E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto

Lui pensa che l'errore piccolino

Non lo veda o non lo conti affatto.

Per questo io se fossi Dio

Preferirei il secolo passato

Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico

Dove si amava, e poi si odiava

E si ammazzava il nemico.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Non sarei mica stato a risparmiare

Avrei fatto un uomo migliore.

Si, vabbè, lo ammetto

non mi è venuto tanto bene

ed è per questo, per predicare il giusto

che io ogni tanto mando giù qualcuno

ma poi alla gente piace interpretare

e fa ancora più casino.

Io se fossi Dio

Non avrei fatto gli errori di mio figlio

E specialmente sull'amore

Mi sarei spiegato un po' meglio.

Infatti voi uomini mortali per le cose banali

Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti

Ci avete proprio una bontà

Da vecchi un po' rincoglioniti.

Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate

E tutti che ostentate la vostra carità.

Per le foreste, per i delfini e i cani

Per le piantine e per i canarini

Un uomo oggi ha tanto amore di riserva

Che neanche se lo sogna

Che vien da dire

Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.

Io se fossi Dio

Direi che la mia rabbia più bestiale

Che mi fa male e che mi porta alla pazzia

È il vostro finto impegno

È la vostra ipocrisia.

Ce l'ho che per salvare la faccia

Per darsi un tono da cittadini giusti e umani

Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani

E tante altre attenzioni

Per handicappati sordomuti e nani.

E in queste grandi città

Che scoppiano nel caos e nella merda

Fa molto effetto un pezzettino d'erba

E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.

Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti

Che usate gli infelici con gran prosopopea

Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare

Dalla rupe Tarpea.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti

Che certamente non sono brave persone

E dove cogli, cogli sempre bene.

Signori giornalisti, avete troppa sete

E non sapete approfittare della libertà che avete

Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate

E in cambio pretendete

La libertà di scrivere

E di fotografare.

Immagini geniali e interessanti

Di presidenti solidali e di mamme piangenti

E in questo mondo pieno di sgomento

Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:

Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti

E si direbbe proprio compiaciuti

Voi vi buttate sul disastro umano

Col gusto della lacrima

In primo piano.

Si, vabbè, lo ammetto

La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia

Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza

Non avrei certo la superstizione

Della democrazia.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.

Nel regno dei cieli non vorrei ministri

Né gente di partito tra le palle

Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.

E tutti quelli che fanno questo gioco

Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso

Come la febbre e il tifo

E tutti quelli che fanno questo gioco

C' hanno certe facce

Che a vederle fanno schifo.

Io se fossi Dio dall'alto del mio trono

Direi che la politica è un mestiere osceno

E vorrei dire, mi pare a Platone

Che il politico è sempre meno filosofo

E sempre più coglione.

È un uomo a tutto tondo

Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo

Che scivola sulle parole

E poi se le rigira come lui vuole.

Signori dei partiti

O altri gregari imparentati

Non ho nessuna voglia di parlarvi

Con toni risentiti.

Ormai le indignazioni son cose da tromboni

Da guitti un po' stonati.

Quello che dite e fate

Quello che veramente siete

Non merita commenti, non se ne può parlare

Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.

Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli

Sarebbe come scendere ai vostri livelli

Un gioco così basso, così atroce

Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.

Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto

E mi dispiace ma non son proprio capace

Di tacere del tutto.

Ci son delle cose

Così tremende, luride e schifose

Che non è affatto strano

Che anche un Dio

Si lasci prendere la mano.

Io se fossi Dio preferirei essere truffato

E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato

Preferirei la più tragica disgrazia

Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.

Signori magistrati

Un tempo così schivi e riservati

Ed ora con la smania di essere popolari

Come cantanti come calciatori.

Vi vedo così audaci che siete anche capaci

Di metter persino la mamma in galera

Per la vostra carriera.

Io se fossi Dio

Direi che è anche abbastanza normale

Che la giustizia si amministri male

Ma non si tratta solo

Di corruzioni vecchie e nuove

È proprio un elefante che non si muove

Che giustamente nasce

Sotto un segno zodiacale un po' pesante

E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.

Io se fossi Dio

Direi che la giustizia è una macchina infernale

È la follia, la perversione più totale

A meno che non si tratti di poveri ma brutti

Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.

Io se fossi Dio

Io direi come si fa a non essere incazzati

Che in ospedale si fa morir la gente

Accatastata tra gli sputi.

E intanto nel palazzo comunale

C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti

In modo tale che in questa messa in scena

Tutto si addolcisca, tutto si confonda

In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale

È una schifosa facciata immonda.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Vedrei dall'alto come una macchia nera

Una specie di paura che forse è peggio della guerra

Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti

È la camorra.

È l'impero degli invisibili avvoltoi

Dei pescecani che non si sazian mai

Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi

È l'impero dei mafiosi.

Io se fossi Dio

Io griderei che in questo momento

Son proprio loro il nostro sgomento.

Uomini seri e rispettati

Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati

Così sicuri dentro i loro imperi

Una carezza ai figli, una carezza al cane

Che se non guardi bene ti sembrano persone

Persone buone che quotidianamente

Ammazzano la gente con una tal freddezza

Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.

Io se fossi Dio

Urlerei che questi terribili bubboni

Ormai son dentro le nostre istituzioni

E anzi, il marciume che ho citato

È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri

Alla Camera e allo Senato.

Io se fossi Dio

Direi che siamo complici oppure deficienti

Che questi delinquenti, queste ignobili carogne

Non nascondono neanche le loro vergogne

E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi

E mostrano sorridenti le maschere di cera

E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.

Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato

Perché la macchia nera

È lo Stato.

E allora io se fossi Dio

Direi che ci son tutte le premesse

Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.

Con una deliziosa indifferenza

E la mia solita distanza

Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente

Sprofondare lentamente nel niente.

Forse io come Dio, come Creatore

Queste cose non le dovrei nemmeno dire

Io come Padreterno non mi dovrei occupare

Né di violenza né di orrori né di guerra

Né di tutta l'idiozia di questa Terra

E cose simili.

Peccato che anche Dio

Ha il proprio inferno

Che è questo amore eterno

Per gli uomini.

IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista

sono sensibile e altruista

orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista

da un po’ di tempo ambientalista

qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo

per carità lo dico in senso letterale

sono progressista  al tempo stesso liberista

antirazzista e sono molto buono

sono animalista

non sono più assistenzialista

ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

forse da buon opportunista si adegua senza farci caso

e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,

il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza

è un animale assai comune che vive di parole da conversazione

di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori

il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo

e farsi largo galleggiando

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario

sono femminista

son disponibile e ottimista

europeista

non alzo mai la voce

sono pacifista

ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone

il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione

è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie

poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato

vive e questo già gli basta e devo dire che oramai

somiglia molto a tutti noi

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che si vede a prima vista

sono il nuovo conformista.

Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.

Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.

Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:

“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

 il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

 forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”

La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.

LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997

Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.

DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001

Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.

La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

tutti i films che fanno oggi son di destra

se annoiano son di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po' di destra

ma portarle tutte sporche e un po' slacciate

è da scemi più che di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po' di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze è più che mai di destra

la pisciata in compagnia è di sinistra

il cesso è sempre in fondo a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po' di destra

mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione, l'ossessione

della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa, dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera è di destra

la Nutella è ancora di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il pensiero liberale è di destra

ora è buono anche per la sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po' degli anni '20, un po' romano

è da stronzi oltre che di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare

un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c'è

se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra

la mancanza di morale è a destra

anche il Papa ultimamente

è un po' a sinistra

è il demonio che ora è andato a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po' più di destra

ma un figone resta sempre un'attrazione

che va bene per sinistra e destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Basta!

IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003

La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.

TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:

Io G. G. sono nato e vivo a Milano.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell'inno nazionale

di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

se arrivo all'impudenza

di dire che non sento

alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

e altri eroi gloriosi

non vedo alcun motivo

per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

ma ho in mente il fanatismo

delle camicie nere

al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

questa democrazia

che a farle i complimenti

ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

pieno di poesia

ha tante pretese

ma nel nostro mondo occidentale

è la periferia.

Mi scusi Presidente

ma questo nostro Stato

che voi rappresentate

mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

agli occhi della gente

che tutto è calcolato

e non funziona niente.

Sarà che gli italiani

per lunga tradizione

son troppo appassionati

di ogni discussione.

Persino in parlamento

c'è un'aria incandescente

si scannano su tutto

e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

dovete convenire

che i limiti che abbiamo

ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

noi siamo quel che siamo

e abbiamo anche un passato

che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

ma forse noi italiani

per gli altri siamo solo

spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

son fiero e me ne vanto

gli sbatto sulla faccia

cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

forse è poco saggio

ha le idee confuse

ma se fossi nato in altri luoghi

poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

ormai ne ho dette tante

c'è un'altra osservazione

che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

noi ci crediamo meno

ma forse abbiam capito

che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

lo so che non gioite

se il grido "Italia, Italia"

c'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

o forse un po' per celia

abbiam fatto l'Europa

facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo

per fortuna o purtroppo

per fortuna

per fortuna lo sono.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.

E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio.  Ecco uno stralcio delle intercettazioni:

LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».

GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».

LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».

GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».

LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».

GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.

Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.

PRINCIPI COSTITUZIONALI

L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.

I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.

LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.

E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO  ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.

LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.

IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.

LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.

E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.

L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.

IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.

I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.

GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.

LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.

IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.

I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.

I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.

IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.

LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.

Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.

L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.

« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)

Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.

Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".

Non solo legisti.....

Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.

ADDIO AL SUD.

"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il  pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura  e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione  selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano'  del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.

Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:

«Finita la guerra prenderò congedo

e solo allora dirò a mia figlia

e solo allora dirò a mio figlio:

tu questo sei.

Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.

Adesso anche tu vieni da Sud».

Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.

Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».

Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.

Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.

Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”.  Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.

Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.

Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera”  — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.

Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.

“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.

L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.

"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.

Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista  raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.

Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.

Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.

Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.

La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.

Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.

Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non  previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.

Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.

A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.

Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.

Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.

A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.

La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.

Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.

Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………

Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.

Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…

Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.

Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.

Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!

Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino,  (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.

In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….

Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.

Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.

Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.

Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.

«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.

Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.

Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?

Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.

Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.

Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)

La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.

Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta,  “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi  hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.

Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.

Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).

Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.

Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.

Di che ci stupiamo?

Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che  sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore  della provincia di Bergamo, sposato e  padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio  2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno  ancora stato messo sotto processo come  inequivocabilmente colpevole. 

Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su  “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.

Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.

Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…

Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni  ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...

Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.

Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?

«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».

Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?

«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».

I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?

«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».

L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?

«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».

Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?

«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».

Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?

«Spero di scoprirlo presto».

In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.

«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».

Di fronte a tale affermazione come ha reagito?

«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».

In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…

«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».

Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?

«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».

Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…

«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».

Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?

«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».

Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?

«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».

Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?

«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».

Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di  appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.

Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.

Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruoscrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….

La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.

Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.

Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.

"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.

Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?

«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».

Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?

«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».

Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?

«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».

Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.

«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».

Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?

«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».

Ma all'inaudito non c'è mai fine....

Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

Oliviero Toscani, intervenendo alla trasmissione radiofonica "La Zanzara" su Radio 24, ha definito i veneti «un popolo di ubriaconi e alcolizzati. Poveretti, non è colpa loro se nascono in Veneto». «I veneti sono un popolo di ubriaconi - ha proseguito Toscani - Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». «Poveretti i veneti - ha ribadito - non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino. Basta sentire l’accento veneto: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino».

Oliviero Toscani e le offese ai veneti. Un pasticcio geografico da risolvere con le scuse. A «La zanzara» su Radio24 ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». Il presidente del Veneto: «Chieda scusa», scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Si chiama Toscani, è lombardo e ha fatto incavolare i veneti: bel pasticcio geografico. A «La zanzara» su Radio24 - il programma dovrebbe chiamarsi «Il ragno», visto quanti ne cattura nella sua rete - ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri (...) Poveretti i veneti, non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino (...) Basta sentire l’accento: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino». Perché lo ha fatto? Pensava di essere spiritoso. «Era una battuta divertente. Se gli unici a non divertirsi sono alcuni veneti, mi dispiace». Divertente? Mettiamola così: il fotografo Oliviero Toscani è più bravo con gli occhi che con la lingua. E l’umorismo sballato è un’aggravante, non un’attenuante. Infatti, in Veneto, sono partite proteste, querele, class action, dichiarazioni politiche (quelle non mancano mai). Significa che è vietato scherzare su nazioni, regioni, città? Certo che no. Vuol dire, come sostiene la correttezza politica, che «i caratteri dei popoli sono un’invenzione, ed esistono solo le persone»? Macché. Gli ambienti - la storia, la geografia, l’economia, la cultura - condizionano i comportamenti. Esiste un comun denominatore tedesco, come esiste un comun denominatore americano, russo, italiano. Chi lo nega è in malafede. E tra noi italiani esistono i lombardi, i toscani, i siciliani. I primi tendono all’entusiasmo, i secondi alla tattica, i terzi all’attesa. Come Berlusconi, Renzi, Mattarella. Come riassunto dell’elezione del presidente della Repubblica, vi piace? O è banale? Be’, comunque nessuno s’è offeso: non a Milano, non a Firenze, non a Palermo. Per un motivo semplice: lombardi, toscani e siciliani mi piacciono. Mi piace il fatto che esistano italiani diversi. E s’è capito anche in poche righe. Cosa sto cercando di dire? Una cosa semplice. Mai parlare, mai scrivere, mai giudicare pubblicamente un popolo, se non gli vuoi bene. Mai scegliere l’umorismo se non sei certo di saperlo maneggiare. L’ironia è la sorella laica della misericordia; il sarcasmo, il fratello odioso dell’intelligenza. Una sintesi affettuosa è consentita, gradita e utile. Una generalizzazione acida è inopportuna, sgradita e insidiosa. Oliviero Toscani, che non è né cattivo né sciocco, dovrebbe averlo capito. Chieda scusa e finiamola qui. Ostrega!

«Veneti ubriaconi», denunciato Toscani e sul web impazza la satira, scrive”Il Gazzettino”. Alcuni tribunali hanno ricevuto oggi esposti e ricorsi contro il fotografo Oliviero Toscani per le offese ai veneti definiti "Un popolo di ubriaconi, dei poveretti" , ma anche politici di vario colore si stanno attivando con iniziative: «Non può rimanere impunito, la giunta Zaia deve chiedere il rispetto della legge Mancino che punisce, anche col carcere, chi con azioni o dichiarazioni fa discriminazioni per motivi razziali, etnici o religiosi» attacca il consigliere regionale Giovanni Furlanetto del Gruppo Misto, che ha presentato un'interrogazione urgente «È necessario che la giunta difenda il proprio popolo, l'immagine che Toscani ha voluto dare è distorta e mirata a screditare un Popolo. Forse aveva bevuto prima di esternare tali pensieri verso una delle regioni più laboriose ed ingegnose d'Europa». Tornando agli aspetti legali a Padova mezza dozzina di cittadini si sono sentiti particolarmente offesi dalle dichiarazioni dell'ex pubblicitario del gruppo Benetton e ha chiesto un risarcimento danni. L'avvocato Giorgio Destro assiste Renza Pregnolato, interprete, una 59enne, nativa di Vescovana ma residente a Padova e spiega: «Abbiamo già presentato una citazione a giudizio per Toscani a comparire di fronte al Giudice di Pace, chiedendo 5 mila euro di risarcimento per danni morali per ingiuria e diffamazione - dice l'avvocato Destro - Se alla causa, che potrebbe essere discussa il 16 aprile prossimo, si aggiungeranno altre persone si può valutate una class action». Naturalmente ironie, satira e commenti stanno inondando il web.

Oliviero Toscani insiste: "Nessuna scusa ai veneti ''ubriaconi'', loro chiamano terroni i meridionali". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti..., scrive “Radio 24”. Toscani: "Non chiedo scusa ai Veneti, le ricerche mi danno ragione". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti: "Non devo chiedere scusa, non ho detto niente di male. Ci sono anche ricerche e statistiche. Il Veneto era una regione poverissima e l'unica ricchezza era la medicina, il vino e la grappa che si dava anche ai bambini per curarli. Un alcolismo atavico". "Chiedo scusa per loro dice Toscani ironicamente per quelli che non hanno capito la satira". Il governatore Zaia pretende le scuse, insistono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo: "Zaia non ha niente da fare (no ga gnente da far, benedetto, dice Toscani in dialetto, ndr) se si cura di una stupidata così. Ci rida sopra. E poi alzi la mano un veneto che non ha mai dato del terrone a un italiano del sud. Ditemi un veneto che non ha mai insultato un nero o un immigrato. Vi ricordate di Gentilini?". "Non penso di aver offeso nessuno spiega ancora il fotografo a Toscani: "Alzi la mano un veneto che non ha mai insultato il Sud o gli immigrati. Ho detto una cosa banale e scontata, un po' di senso di humor, dai. Una volta era un popolo che rideva, adesso hanno la coda di paglia. Forse si sono offesi perché quello che ho detto è un po' vero. Ho letto anche che dovrei sciacquarmi la bocca, sì ma col prosecco". Ma lei ha lavorato tanto tempo con aziende venete, sputa nel piatto dove ha mangiato?: "Che storia questa. Ho lavorato e se non fossi stato bravo non mi avrebbero pagato. Li ho fatto diventare famosi, anche per prodotti in cui i veneti non sono forti. Ho lavorato seriamente, cosa devo ringraziare?".

La mia amica terrona e la paura della Polentonia. Ho un’amica di origini terrone che vive a Milano, scrive “Marteago”. Per motivi di lavoro si dovrebbe spostare in Veneto. La sapete la sua preoccupazione? Ha paura del razzismo dei veneti nei confronti dei terroni. La cosa mi ha fatto pensare. Ma noi polentoni siamo davvero così cattivi? Peggio dei milanesi? La risposta é sì e anche no. Cioé dipende. C’é sicuramente del risentimento del veneto lavoratore che paga le tasse e se le vede sperperare da Roma che li passa a dei brutti soggetti al Sud. C’é anche una forte differenza culturale. Diciamoci la verità. Siamo popoli diversi. L’Italia é un’arlecchino messo assieme a forza. Un napoletano con un veneto centra tanto quanto un veneto con un austriaco. E’ ovvio: l’Austria é più vicina. Mi permetto di fare questa analisi in virtù della mia visione mondiale dei popoli. Cioé viaggio molto, vedo molti popoli, passo le frontiere e mi rendo conto di come spesso queste frontiere non corrispondano con le vere frontiere dei popoli. In Italia, se volessimo avere delle frontiere reali, ce ne sarebbe una dalle parti di Roma. Staremmo meglio noi, e starebbero meglio anche loro, che sono in gran parte vittime della Cassa del Mezzogiorno. Insomma, motivi per non amarci ce ne sono molti. Però…dobbiamo fare uno sforzo e capire un concetto fondamentale: il singolo non può essere ritenuto responsabile delle colpe collettive. Non possiamo incolpare il mio amico Jack di Shanghai del fatto che in Cina c’é la pena di morte. Non possiamo incolpare una ragazza rumena del fatto che ci sono i Rom che rubano. Non possiamo incolpare il Fullio del fatto che la gran parte dei politici sono dei brutti soggetti. Frasi inutili: é sempre più semplice generalizzare. Almeno all’inizio. Qui sta in effetti la soluzione. Ho detto alla mia amica che se viene in Veneto la gente che conoscerà  la tratterà  bene, perché é una brava ragazza. Ci saranno sicuramente delle situazioni poco simpatiche: la cassiera al supermercato che appena sente il suo accento scende di tre gradi centigradi e le crescono le unghie, il benzinaio ignorante e leghista che sfoga la sua frustrazione facendo cadere una goccia della benzina sulle sue scarpe da terrona pagate con le sue tasse e così via. Ma ci sarà  anche gente che le vorrà  bene, nuove amicizie e situazioni simpatiche. Non sarà  sempre facile. Mi sono permesso di usare il termine “terrona” proprio per svuotarlo dell’accezione negativa. Noi siamo polentoni e loro terroni. Domani vado a Riga con quattro catanesi, quindi non posso essere accusato di niente. Voi cosa ne pensate? Avete esperienze al riguardo? E se chi legge é del Sud..come siamo noi veneti? Che difficoltà  ci sono per chi viene da fuori? Perché siamo brava gente in fondo, o no?

Toscani, lettera di scuse a Zaia, «Ma dentro di me confermo tutto». Il fotografo risponde al governatore: sono lombardo e atavicamente leghista, come voi ho nell’anima il sentore di latte vaccino e quella voglia naturale di non pagare le tasse, scrive “Il Corriere del Veneto”.

«Caro Signor Presidente, Le scrivo con l’ansia e la fretta del Suo ultimatum di 48 ore che pende sulla mia testa. Deve riconoscere, Presidente, che persino le ingiunzioni dell’Isis lasciano 72 ore alla risposta. Premesso ciò, le dico che ho una cosa in comune con la lega: l’amore per le cose colorite. Sono leghista atavicamente, essendo lombardo. Ho anch’io, dentro di me, le due anime tipiche dei padani, che sotto l’illuminismo di Cesare Beccaria e Pietro Verri nascondono questo sentore del latte vaccino (che è l’alito della lega) e di quel localismo rurale che è fatto di terra, di cielo, di laghi, di nuvole, di paesaggio, di cibo, di vino; ma anche di naturale voglia di non pagare le tasse, di tenere tutto per sé, di non essere solidali, di essere intolleranti, di mettere i cani da guardia ai cancelli di ferro battuto della propria villetta a schiera, per azzannare chiunque sia diverso: “Va ben el mat in piaza, ma che non sia dea mia raza”. Purtroppo, da tanti anni, io non sono più completamente della Vostra “Razza”, deve capire che io ormai sono toscano di fatto, oltre che di nome, e sono sicuro che se avessi fatto questa battuta ai miei conterranei, saccenti e saputelli come siamo, mi avrebbero subito citato Baudelaire e il suo “Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre!”. Perché proprio così, siamo noi Toscani, sempre ubriachi di virtù, di poesia, di bellezza. E di vino. Però, il Vostro linguaggio, mi piace ancora, perché è eccessivo, iperbolico, espressionista, colorato; un linguaggio che morde e non accarezza, in una parola sola: un linguaggio, secondo me, atavicamente ubriaco. Quindi chiedo ancora scusa a Lei, che è il Presidente di tutti i Veneti astemi, degli alcolisti sobri e dei bevitori moderati per il linguaggio un po’ leghista che ho usato per fotografare i miei simpatici amici del Veneto. Nella sostanza, però, dentro di me, confermo tutto. Perché c’è un rapporto forte tra territorio, aria, fuoco, odori, saperi e sapori, sapori veneti come la polenta, il fegato alla veneziana, il baccalà alla vicentina, risi e bisi, il risotto alla trevigiana, e le bolle acide del Prosecco, l’alcolicità dell’Amarone, la tossicità del Clinto, la bella inconsistenza del Valpolicella, il tannino del Recioto di Soave, l’amarezza del Bardolino, l’asciuttezza del Pinot, il verdognolo del Verduzzo. Caro Presidente, ogni volta che La vedo, scorgo nella Sua faccia la gentilezza sotto l’asprezza, e l’asprezza sotto la gentilezza. Quindi, mi scusi e scusatemi. Sono sicuro che, questa volta, la Sua gentilezza e quella di tutti i Veneti prevarrà, sicuramente mi perdonerete, invece di perdere tempo, denaro, energia e simpatia nelle infinite vie legali. La ringrazio e ringrazio tutti i Veneti, sperando di incontrarvi presto per una fantastica bevuta alla salute dell’Italia Unita.

"L’Unità d’Italia? Da 150 anni gronda sangue dei terroni". Da direttore di Gente a paladino del Mezzogiorno col libro sui misfatti dei Savoia, Pino Aprile racconta come i 150 anni dell’Unità d’Italia grondino sangue dei terroni. A lui Al Bano al Festival di Sanremo dedica un inno, ma c’è chi lo minaccia di morte, scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. La rappresentazione plastica di come sia impossibile mettere d’accordo polentoni e terroni l’ho avuta davanti alla vetrina di una libreria di Verona. Siccome per la copertina del suo Terroni, edito da Piemme, Pino Aprile ha scelto una silhouette capovolta dello Stivale, con la Sicilia a nord e la Campania a sud, una zelante commessa ha pensato bene di correggergliela esponendo il volume col titolo a rovescio. In un solo colpo la libraia ha così ristabilito il primato del planisfero, confermato il sottotitolo dell’opera ( Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali» ) e ribadito senza volerlo la battuta di Marco Paolini riportata nelle pagine interne: «Quando non si vuole capire la storia, la si trasforma in geografia». Uscito dalla tipografia Mondadori printing di Cles, Trento, Val di Non (a dimostrazione che l’Italia unita almeno per gli editori è cosa fatta), Terroni è diventato nel giro di dieci mesi bestseller, oggetto di scontro, manifesto dell’orgoglio sudista, testo sacro per i revisionisti del Mezzogiorno, strumento di lotta politica e ora persino brano del Festival di Sanremo: Al Bano, 67 anni, pugliese di Cellino San Marco, inserirà nel suo Cd l’inno Gloria, gloria scritto da Mimmo Cavallo e ispirato al saggio di Aprile, 60 anni, pugliese di Gioia del Colle. Non basta. Terroni è l’edizione multimediale per iPad, con foto, interviste e spezzoni dal film E li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, in uscita a febbraio. Terroni è lo spettacolo teatrale che andrà in scena il 21 marzo al Quirino di Roma, «per rispondere a Umberto Bossi e alla sua arroganza, per dire basta a questo massacro che dura da 150 anni », proclama dalle pagine di Facebook l’attore-regista Roberto D’Alessandro, cresciuto alla scuola di Gigi Proietti. Terroni, insomma, è tifo da stadio: non a caso l’autore, pur avendo ormai perso il conto delle ristampe («almeno una ventina»), rivela d’averne venduto 150.000 copie, mentre su Wikipedia un biografo infervorato gliene attribuisce addirittura mezzo milione, il che, anche a voler considerare le brossure veicolate da Mondolibri e gli e­book scaricati da Internet, appare piuttosto esagerato. Pino Aprile è stato vicedirettore di Oggi e poi direttore di Gente. Prima d’avere come target fisso Carolina di Monaco («ho scoperto che era calva: scoop mondiale »), s’era sempre occupato di terrorismo e politica. Da pensionato pensava di dedicarsi alla passione della sua vita: il mare. Ha diretto il mensile Fare vela e ha scritto tre libri dai titoli sanamente monomaniacali: Il mare minore, A mari estremi e Mare, uomini, passioni. Poi gli è scappato Terroni ed è finito nell’oceano in tempesta: «Ho accettato finora quasi 200 presentazioni. Nel frattempo sono giunti all’editore altri 500 inviti. In teoria avrei l’agenda piena di appuntamenti sino alla primavera del 2012, se non ricevessi altre ri­chieste. Invece continuano ad arrivarne. Mi chiamano anche all’estero. La prima trasferta è stata in Svezia, quindi Londra, Zurigo, Manchester, New York... Sono distrutto».

Ma la invitano solo i circoli dei calabresi o anche quelli degli emigrati veneti?

«Università, centri di cultura, associazioni italiane, come la Dante Alighieri».

È il libro di saggistica che resiste da più mesi in classifica o sbaglio?

«Vero. Spero che mi venga perdonato».

Com’è nata l’idea di Terroni?

«Avevo delle domande, cercavo delle rispo­ste. Se davvero a fine Ottocento i meridiona­li erano poveri, arretrati e oppressi, perché mai reagirono contro i “liberatori” venuti dal Nord con una guerra civile durata a lungo e successivamente con la fuga, emigrando? Solo dopo molti anni ho pensato di farne un libro».

Ha ricevuto offese o minacce?

«Offese tante. Qualcuno mi chiede se non ho paura. E di che? Su Facebook un tale mi ha scritto: “Farai la fine di D’Antona”. Ho cercato di rintracciarlo, ma risultava inesistente. Del resto quella è una lavagna collettiva su cui compare di tutto: un estimatore mi ha dedicato lo slogan pubblicitario “Terroni, non ci sono paragoni”. È seccante la supponenza di chi crede di sapere già tutto e non è nemmeno sfiorato dal dubbio».

Alla presentazione di Torino s’è quasi sfiorata la rissa.

«Eravamo nella Sala dei Cinquecento, gli altri sono rimasti in piedi... Una persona ha inveito contro Roberto Calderoli, che non era presente, per gli insulti rivolti dal ministro leghista ai napoletani. Gli interventi di Marcello Sorgi, Massimo Nava e Pietrangelo Buttafuoco sono filati via lisci. Quando ha cominciato a parlare Giordano Bruno Guerri, che ha scritto un libro sul brigantaggio postunitario, la stessa persona lo ha offeso. Lo storico è sceso dal palco per regolare i conti e il contestatore s’è zittito. Meno male: Guerri discende dai pirati etruschi, ha profilo da pugile e mani da cavatore di ciocco».

Si può dire che Terroni abbia fatto venire al Sud la voglia di secessione che fino a ieri serpeggiava solo al Nord?

«No. È stato detto che Terroni incita i meridionali alla sollevazione. Figuriamoci! Il Mezzogiorno non ha voce: tutti i giornali nazionali, eccetto La Repubblica, si pubblicano al Nord e le tre reti televisive private sono di un editore lombardo che, da capo del governo, ha voce in capitolo pure in quelle pubbliche. Per la legge di prossimità, la stampa trova più interessante il miagolio del gatto di casa rispetto al ruggito del leone nella savana. Il Nord scopre che cosa sta accadendo dalle mie parti solo quando s’interroga sul successo di Terroni o del film Benvenuti al Sud . Ma Terroni è il dito che indica la luna, non la luna. Ci sono libri che cambiano il cuore degli uomini. Mi spiace, il mio non è fra questi: sono nato di febbraio e non ho avuto per padre putativo un mite falegname. La voglia di secessione del Sud germoglia come reazione agli insulti dei ministri del Nord. È meno forte e diffusa che in Lombardia o nel Veneto, ma cresce».

Quali sentimenti suscitano in lei i 150 anni dell’Unità d’Italia?

«Di delusione, talvolta di disgusto. In quale Paese può restare in carica un ministro che ha trattato la bandiera nazionale come carta igienica? O un sindaco che ha marchiato con simboli di partito la scuola dei bambini? L’Italia unita era da fare, perché ogni volta che cade una frontiera gli uomini diventano più liberi, più ricchi, più sicuri, più felici. Ma non era da fare con una parte del Paese schierata contro l’altra. La ricorrenza dei 150 anni poteva diventare l’occasione per fare onestamente una volta per tutte i conti con la storia. Così non è».

Che cosa pensa dei Savoia?

«Si sono trovati al posto giusto nel momento giusto. Mentre un’esigua minoranza, non più dell’1-2 per cento della popolazione, era animata dal pio desiderio di unificare l’Italia, loro ne avevano l’impellente necessità: strozzati dai debiti, potevano salvarsi solo con l’invasione e il saccheggio del Sud. Lo scrisse nel 1859 il deputato Pier Carlo Boggio, braccio destro di Cavour: “O la guerra o la bancarotta”. Fino al 1860, per ben 126 anni, i Borbone mai aumentarono le tasse. Nel Regno di Napoli erano le più basse di tutti gli Stati preunitari».

Bruno Vespa mi ha confessato la sua sorpresa nello scoprire solo di recente che nel regno borbonico le imposte erano soltanto cinque, contro le 22 introdotte dai Savoia.

«I soldi del Sud ripianarono il buco del Nord. Al tesoro circolante dell’Italia unita, il Regno delle Due Sicilie contribuì per il 60 per cento, la Lombardia per l’1 virgola qualcosa, il Piemonte per il 4. Negli Stati via via annessi all’Italia nascente, appena arrivavano i piemontesi spariva la cassa».

E di Giuseppe Garibaldi che cosa pensa?

«Romantico avventuriero, di idee forti, semplici, a volte confuse, ma più onesto di altri nel denunciare, solo a cose fatte però, le stragi e le rapine compiute nel Mezzogiorno. Qualche problema di salute, per l’artrosi che gli rendeva doloroso cavalcare: a Napoli arrivò in treno. Qualche disavventura familiare: la giovane sposa incinta di un altro. Qualche pagina oscura nel suo pas­sato sudamericano: la tratta degli schiavi dalla Cina al Perù. Ne hanno fatto un santino. Ma va bene così, ogni nazione ha bisogno dei suoi miti fondanti. Basta sapere chi erano veramente».

E di Camillo Benso conte di Cavour che cosa pensa?

«Grande giocatore, specie nell’imprevisto. Non voleva la conquista del Regno delle Due Sicilie: gli bastavano il Lombardo- Veneto e i Ducati. Già la Toscana gli pareva in più. Ma quando l’avventura meridionale ebbe inizio, in breve la fece propria, persuase il re, neutralizzò Garibaldi, ammansì chi si opponeva. Qualche suo vizietto sarebbe stato da galera. Come molti padri del Risorgimento, non mise mai piede al Sud: lo conosceva per sentito dire».

La peggiore figura del Risorgimento?

«Il generale Enrico Cialdini, poi deputato e senatore del Regno. Un macellaio che menava vanto del numero di meridionali fucilati, delle centinaia di case incendiate, dei paesi rasi al suolo. Prima di diventare eroe pluridecorato del Risorgimento, fu mercenario nella Legione straniera in Portogallo e Spagna. Uccideva i suoi simili a pagamento».

Quali sono gli episodi risorgimentali più rivoltanti, che l’hanno fatta ricredere sulla sua italianità?

«Non si può smettere di essere italiani. Però mi sono dovuto ricredere circa il racconto bello e glorioso sulla nascita del mio Paese che avevo imparato a scuola. Da adolescente fremi d’indignazione per gli indiani sterminati sul Sand Creek e da grande scopri che i fratelli d’Italia nel Meridione fecero di peggio. La mitologia risorgimentale cominciò a vacillare quando lessi La conquista del Sud di Carlo Alianello. Vi si narrava la storia di una donna violentata e lasciata morire da 18 bersaglieri, che già le avevano ammazzato il marito. Il figlioletto che assistette alla scena, divenuto adolescente, si vantava d’aver ucciso per vendetta 18 soldati di re Vittorio Emanuele a Custoza. Poi il massacro di Pontelandolfo e Casalduni, 5.000 abitanti il primo, 3.000 il secondo, due delle decine di paesi distrutti, con libertà di stupro e di saccheggio lasciata dal Cialdini ai suoi soldati, fucilazioni di massa, torture, le abitazioni date alle fiamme con la gente all’interno. E le migliaia di meridionali squagliati nella calce viva a Fenestrelle, una fortezza-lager a una settantina di chilometri da Torino, a 1.200 metri di quota, battuta da venti gelidi, dove la vita media degli internati non superava i tre mesi. Per garantire ulteriore tormento ai prigionieri, erano state divelte le finestre dei dormitori. Viva l’Italia!».

Gianfranco Miglio, ideologo della Lega, mi confidò che era ancora terrorizzato da certe storie atroci udite da bambino, quando il nonno gli raccontava che, giovane bersagliere in Calabria, aveva trovato un suo commilitone crocifisso su un termitaio dai briganti.

«Le ha anche raccontato che cos’aveva fatto quel bersagliere? Era in un Paese invaso senza manco la dichiarazione di guerra. Maria Izzo, la più bella di Pontelandolfo, fu legata nuda a un albero, con le gambe divaricate, stuprata a turno dai bersaglieri e poi finita con una baionettata nella pancia. A Palermo uccisero sotto tortura un muto dalla nascita perché si rifiutava di parlare. Riferirono in Parlamento d’aver fucilato, in un anno, 15.600 meridionali: uno ogni 14 minuti, per dieci ore al giorno, 365 giorni su 365. Ma il conto delle vittime viene prudentemente stimato in almeno 100.000 da Giordano Bruno Guerri. Altri calcoli arrivano a diverse centinaia di migliaia. La Civiltà Cattolica, rivista dei gesuiti, nel 1861 scrisse che furono oltre un milione. La cifra vera non si saprà mai».

Da Terroni :«“Ottentotti”, “irochesi”, “beduini”, “peggio che Affrica”, “degenerati”, “ritardati”, “selvaggi”, “degradati”: così i meridionali vennero definiti, e descritti con tratti animaleschi, dai fratelli del Nord scesi a liberarli». Io sono veneto. Ha idea di quante ce ne hanno dette e ce ne dicono? Razzisti, analfabeti, beoti, ubriaconi, bestemmiatori, evasori fiscali, sfruttatori di clandestini. Non crede che se cominciamo a tenere questo genere di contabilità, non la finiamo più?

«Devono finirla i Bossi, i Calderoli, i Borghezio, i Salvini, i Brunetta. Quella degradazione dei meridionali ad animali preparò e giustificò il genocidio. Ricordo le parole di un intellettuale di Sarajevo: “Non è stato il fracasso dei cannoni a uccidere la Jugoslavia. È stato il silenzio. Il silenzio sul linguaggio della violenza, prima che sulla violenza”. Un ministro della Repubblica ha minacciato il ricorso ai fucili. In Italia, adesso. Non a Sarajevo, allora».

Lei scrive che Luigi Federico Menabrea, presidente del Consiglio dei ministri del Regno, nel 1868 voleva deportare in Patagonia i meridionali sospettati di brigantaggio. Che cosa dovrebbero dire i veneti deportati per davvero da Benito Mussolini nelle malariche paludi pontine per bonificarle?

«Menabrea voleva deportare i meridionali per sterminarli. I veneti nelle paludi pontine non furono deportati: ebbero lavoro, casa, terra risanata con i soldi di tutti e a danno di quelli che vi morivano di malaria da secoli per trarne pane. Ma vediamo il lato positivo: fra poveri s’incontrarono. E dove il sangue si mischia, nasce la bellezza. La provincia oggi chiamata Latina ha dato all’Italia la più alta concentrazione di miss da calendario per chilometro quadrato. E pure Santa Maria Goretti, che si fece uccidere per difendere la propria femminilità».

Scrive anche: «La Calabria non appartiene, geologicamente, al Mezzogiorno, ma al sistema alpino: si staccò con la Corsica dalla regione ligure-provenzale e migrò, sino a incastrarsi fra Sicilia e Pollino». Recrimina persino sull’orografia?

«O è un modo per dire che a Sud vogliono venirci tutti?».

Si dilunga sul caso di Mongiana, che in effetti è impressionante. Però che cosa dimostra? Da Nord a Sud, ogni distretto industriale piange i suoi dinosauri.

«Mongiana, in Calabria, era la capitale siderurgica d’Italia e oggi contende alla confinante Nardodipace lo scomodo primato di Comune più povero d’Italia. I mongianesi, sradicati dal loro paese, si sono trovati a lavorare nelle fonderie del Bresciano: 150 famiglie, circa 500 persone, solo a Lumezzane, che è ormai la vera Mongiana. Dove prima 1.500 operai e tecnici siderurgici specializzati rendevano autosufficiente l’industria pesante del Regno delle Due Sicilie, adesso non è rimasto neppure un fabbro. Il più ricco distretto minerario della penisola fu soppresso dal governo unitario per un grave difetto strutturale: si trovava nel posto sbagliato, nel Meridione. Il Sud non doveva far concorrenza al Nord nella produzione di merci. E questo fu imposto con le armi e una legislazione squilibrata a danno del Mezzogiorno. La vicenda di Mongiana è esemplare, nell’impossibilità di raccontare tutto. Ma accadde la stessa cosa con la cantieristica navale, l’industria ferroviaria, l’agricoltura».

In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, la città di Gaeta vuol chiedere un risarcimento per l’assedio savoiardo del 1861: 500 milioni di euro. Mi ricorda il Veneto, che pretende i danni di guerra dalla Francia per il saccheggio napoleonico del 1797: 1.033 miliardi di euro.

«C’è una differenza: al risarcimento di Gaeta s’impegnò il luogotenente, principe di Ca­rignano, in nome del quale il generale Cialdini, responsabile di quelle macerie, garantì per iscritto: “Il Governo di Sua Maestà provvederà all’equo e maggiore possibile risarcimento”. Quando gli amministratori comunali andarono per riscuotere, il nuovo luogotenente, Luigi Farini, già distintosi con moglie e figlia nel patriottico furto dell’argenteria dei duchi di Parma, consigliò loro di rivolgersi “alla carità nazionale”».

Lei è arrivato al punto da dichiarare che Giulio Tremonti ruba al Sud per dare al Nord. Forse dimentica che il Veneto ha solo 225 dirigenti regionali mentre la Sicilia ne ha 2.150. L’855 per cento in più. Che si aggiungono ai 100.000 dipendenti ordinari. Allora le chiedo: chi ruba a chi, se non altro lo stipendio?

«I fondi per le aree sottoutilizzate sono, per legge, all’85 per cento del Sud, e invece sono stati abbondantemente spesi al Nord. I 3,5 miliardi di euro con cui è stata abbuonata l’Ici a tutt’Italia erano quelli destinati alle strade dissestate di Calabria e Sicilia. I cittadini della Val d’Aosta spendono il 10.195 per cento in più della Lombardia, pro capite, per i dipendenti regionali. Ma è una ragione a statuto speciale, si obietta. Giusto. Pure la Sicilia lo è. Il che non assolve né l’una né l’altra. Ma il paragone si fa sempre con l’altra».

Il sociologo Luca Ricolfi in "Il sacco del Nord" documenta che ogni anno 50 miliardi di euro lasciano le regioni settentrionali diretti al Sud. E lei me lo chiama furto?

«Intanto i conti andrebbero fatti sui 150 anni. E poi lo stesso Ricolfi spiega che quei dati, valutati diversamente, portano a conclusioni diametralmente opposte. Non tutti sono d’accordo sul metodo scelto da Ricolfi. Vada a farsi due chiacchiere col professor Gianfranco Viesti, bocconiano che insegna politica economica all’Università di Bari».

S’ode a destra uno squillo di tromba: Terroni. A sinistra risponde uno squillo: Viva l’Italia! di Aldo Cazzullo. Che l’ha accusata d’aver paragonato i piemontesi ai nazisti solo per vendere più copie.

«Incapace di tanta eleganza, a Cazzullo confesso che scrivo nella speranza di essere letto. E non capisco perché il suo editore spenda tanti soldi per pubblicizzare Viva l’Italia! se lo scopo è quello di non vendere copie. Il mio libro s’è imposto col passaparola».

Non nominare il nome di Marzabotto invano, le ha ricordato Cazzullo.

«Che differenza c’è fra Pontelandolfo e Marzabotto? Mettiamola così: il mio editore ha nascosto l’esistenza di Terroni, l’editore di Cazzullo ha fatto il contrario. Nessuno dei due ha ottenuto il risultato sperato».

Anche Ernesto Galli della Loggia e Francesco Merlo hanno maltrattato il suo pamphlet.

«Libera critica in libero Stato: non si può piacere a tutti. A me piace non piacere a Galli della Loggia, per esempio. Prima ha parlato di “fantasiose ricostruzioni”. Poi, al pari di Merlo e di qualche altro, ha obiettato che le stragi risorgimentali nel Sud erano note e da considerarsi “normali” in tempo di guerra. A parte che a scuola tuttora non vengono studiate, allora scusiamoci con i criminali nazisti Herbert Kappler e Walter Reder per l’in­giusta detenzione; critichiamo gli Stati Uniti che hanno inflitto l’ergastolo all’ufficiale americano responsabile dell’eccidio di My Lai in Vietnam; chiediamoci perché si condanni il massacro dei curdi a opera di Saddam Hussein. Insomma, solo l’uccisione in massa dei meridionali è “normale”?».

Sergio Romano sul Corriere della Sera s’è dichiarato infastidito dai «lettori meri­dionali che deplorano i soprusi dei piemontesi, l’arroganza del Nord, il sacco del Sud, e rimpiangono una specie di età dell’oro durante la quale i Borbone di Napoli avrebbero fatto del loro regno un modello di equità sociale e sviluppo economico». E vi ha ricordato che, per unanime consenso dell’Europa d’allora, «il Regno delle Due Sicilie era uno degli Stati peggio governati da una aristocrazia retriva, paternalista e bigotta».

«Senta, foss’anche tutto vero, e non lo è, questo giustifica invasione, saccheggio e strage?Mi pare la tipica autoassoluzione del colonizzatore: ti distruggo e ti derubo, però lo faccio per il tuo bene, neh? Infatti, l’Italia riconoscente depone ogni anno una corona d’alloro dinanzi alla lapide che ricorda il colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri, il carnefice di Pontelandolfo e Casalduni, e nega ai paesi ridotti in cenere rimasero in piedi solo tre case persino il rispetto per la memoria».

Lei ha fatto il servizio militare?

«Arruolato, C4 rosso, se non ricordo male: mi dissero che, se fosse scoppiata la guerra, sarei finito in ufficio. I miei polmoni non davano affidamento: postumi di Tbc e quattro pacchetti di Gauloises al giorno».

Se scoppiasse una guerra, difenderebbe l’Italia o no?

«Oh, ma che domande sono? Lo chieda a Bossi e a Calderoli! Io sono un italiano che pretende la verità critica su com’è nato il suo Paese e la fine della sperequazione e degli insulti a danno del Sud. La questione meridionale non esisteva 150 anni fa, il Consiglio nazionale delle ricerche ha dimostrato che prodotto lordo e pro capite erano uguali al Nord e al Sud. I meridionali, con un terzo della popolazione, diedero circa la metà dei caduti nelle trincee della prima guerra mondiale».

Silvius Magnago, lo storico leader della Svp, mi disse: «La patria è quella cui si sente di appartenere con il cuore. La mia Heimat è il Tirolo. Heimat, terra natia. Voi italiani non possedete questo concetto. Non potete capire». Che cosa significa patria per lei? E qual è la sua Heimat?

«Lo dico nell’esergo del mio libro, con parole rubate allo scrittore francese Emmanuel Roblès: patria è “là dove vuoi vivere senza subire né infliggere umiliazione” ».

Sarebbe favorevole a un’Italia divisa in cantoni, come la Svizzera?

«No. Una frontiera non migliora gli uomini. Al più, può peggiorarli. Ma se la Lega, dopo vent’anni di strappi, recidesse l’ultimo filo che tiene ancora unito il Paese, un attimo prima il Sud dovrebbe andarsene, contrattando l’uscita, per evitare di essere derubato di nuovo».

Su quali basi andrebberifatta l’Unità d’Italia?

«Eque. La forma garantisce poco la sostanza: vada a spiegare ai giovani che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. O che la legge è uguale per tutti. O che le Ferrovie dello Stato assicurano il servizio in tutto il Paese: Matera, amena località europea, è ignota alle Fs, lì il treno non è mai arrivato».

Fosse lei il presidente del Consiglio, che farebbe per ripulire Napoli dai rifiuti?

«Nominerei commissario Vincenzo Cenname, il sindaco che ha fatto di Camigliano, provincia di Caserta, un esempio virtuoso nello smaltimento, grazie alla raccolta differenziata che copre il 65 per cento del totale. Cenname s’è rifiutato di affidarne la gestione a un ente provinciale, la cui inefficienza è testimoniata dalle immondizie che vengono lasciate nelle strade per scoraggiare la raccolta differenziata a favore degli inceneritori. Per questo Cenname è stato rimosso dal prefetto, quasi fosse a capo d’una Giunta camorrista».

Siamo alla domanda delle cento pistole: i terroni hanno voglia di lavorare sì o no?

«Capisco che la domanda lei deve porla e immagino che le costi dar voce agli imbecilli. Se fossi maleducato, risponderei: ma mi faccia il piacere! Non lo sono e quindi rispondo: quei 5 milioni di meridionali che stanno nelle fabbriche del Nord, dall’abruzzese Sergio Marchionne in giù, come li vede? Sfaticati? Quei 20 milioni di emigrati nel mondo, che per la prima volta nella loro storia millenaria presero la via dell’esilio volontario dopo i disastri dell’Unità d’Italia, sono andati altrove a far nulla? La mia regione fu l’unica in cui per l’aridità della terra fallì il sistema di produzione dell’impero romano, imperniato sulla villa. Ebbene di quei deserta Apuliae, deserti di Puglia, la mia gente nel corso dei secoli, col sudore della fronte, ha fatto un giardino, rubando l’umidità alla notte con i muretti di pietra e piantando 60 milioni di ulivi. Mica come Bossi, che non ha lavorato un giorno in vita sua. Anzi, sa che le dico, senza offesa, eh? Ma mi faccia il piacere!».

Il 52 per cento della popolazione di Terzigno, provincia di Napoli, campa a carico dell’Inps. Sarà mica colpa dell’Inps?

«Se mi togli tutto, mi attacco a quello che c’è. Assistenza? Assistenza! Non mi piace, ma non ho altra scelta. A Parma, 170.000 abitanti, il ministero ha deciso di erogare lo stesso i soldi per la metropolitana progettata per 24 milioni di utenti, poi ridotti a 8, infine abbandonata, per vergogna, spero, nonostante lo studio costato 30 milioni di euro. È la città della Parmalat, la peggior truffa di tutti i tempi. Però la truffa del falso invalido scandalizza maggiormente. Be’, a me le truffe danno fastidio tutte. Quella del povero la capisco di più».

La metà delle cause contro l’Inps si concentra in sei città del Sud: Foggia, Napoli, Bari, Roma, Lecce e Taranto. A Foggia è pendente circa il 15 per cento dell’intero contenzioso nazionale dell’istituto. Tutti i 46.000 braccianti iscritti alle liste di Foggia hanno fatto causa all’Inps. Dipenderà mica dai Savoia.

«Per quanto possa sborsare l’Inps da Terzigno a Lecce, non si arriverà mai ai miliardi di euro che ci costano le multe pagate per colpa degli allevatori padani disonesti, grandi elettori della Lega. O assolviamo tutti, ed è sbagliato, o condanniamo quelli che lo meritano. Con una differenza: la truffa delle quote latte è già accertata. Aspettiamo di vedere come finiscono i procedimenti contro l’Inps».

C’è poco da aspettare: a Foggia, su 122.000 cause presentate, 25.000 sono state spontaneamente ritirate dagli avvocati. Erano state avviate per lo più a nome di persone morte o inesistenti.

«Ma non è detto che tutte le altre siano immotivate. Ripeto: aspettiamo».

Non sarà che lei mi diventa il Bossi del Sud?

«Già l’accostamento è offensivo. Io non giudico il mio prossimo dalla latitudine e ho sempre lavorato; né ho festeggiato tre volte la laurea, senza mai prenderla. Mi hanno offerto candidature, ma ho ringraziato e rifiutato, perché inadatto: sono incensurato, ho pagato la casa con i miei soldi e voglio morire giornalista».

Eppure Giordano Bruno Guerri ha scritto che Terroni è sostenuto da piccoli ma combattivi gruppi neoborbonici e dal Partito del Sud di Antonio Ciano, assessore a Gaeta, e potrebbe diventare il testo sacro di una futura Lega meridionale, contrapposta a quella di Bossi.

«Il libro, una volta uscito, va per la sua strada, come i figli. Non puoi dirgli tu dove andare. Terroni non è sostenuto: è letto. E chi lo legge ne fa l’uso che vuole, a patto di non attribuirlo a me. Stimo Ciano e seguo con attenzione il Partito del Sud, i Neoborbonici, l’Mpa del governatore siciliano Raffaele Lombardo, l’associazione Io resto in Calabria di Pippo Callipo, il movimento Io Sud di Adriana Poli Bortone. Ma resto un osservatore interessato ed esterno. Ero anche amico di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso dalla camorra con nove colpi di pistola. Ricordo i suoi funerali, con quei fogli tutti uguali attaccati alle saracinesche dei negozi chiusi e ai portoni delle case: “Angelo, il paese muore con te”. Oggi per fortuna Pollica va avanti nel suo nome. In una ventina d’anni da sindaco, Angelo aveva arricchito tutti, senza distruggere niente del territorio, vero capitale del paese. Ammiravo il suo coraggio, la sua fantasia, la sua capacità di trasformare le idee in fatti. Ho pianto accompagnandolo al cimitero. Se avesse potuto vedermi, si sarebbe messo a ridere».

Per chi vota?

«La prima volta votai Dc per ingenuità, su consiglio d’un amico. Delusione feroce. Poi a sinistra, senza mai avere un partito, cosa che ritengo incompatibile col giornalismo. Infine quasi stabilmente per i repubblicani di La Malfa, padre, ovviamente. Alle prossime elezioni forse non voterò, anche se so di fare un regalo ai peggiori».

Non mi pare che la sinistra, con l’unico presidente del Consiglio originario di Gallipoli, abbia migliorato la condizione del Sud.

«Massimo D’Alema ha il collegio elettorale a Gallipoli e la moglie pugliese. Ma è romano. E poi, ripeto, l’essere di qui o di là non significa nulla. Il meridionalismo è una dottrina solo italiana, nel mondo. È stata praticata da uomini eccelsi per cultura e moralità,ma è un’invenzione di italiani del Nord, specie lombardi. Solo dopo una generazione sono sorti i meridionalisti meridionali. Che mi frega di dove sei? Fammi vedere cosa fai!».

Lei lamenta l’invasione burocratica piemontese del Meridione, però Mario Cervi le ha ricordato che oggi il Sud amministra col proprio personale la macchina burocratica e giudiziaria dello Stato nell’Italia intera. E i risultati non sono brillanti.

«Tutti, ma proprio tutti gli enti, le banche, le aziende pubbliche o parapubbliche d’Italia sono in mano a settentrionali, in particolare lombardi, a parte un napoletano e tre romani. Vuol dire che se cotanti capi non riescono a raggiungere buoni risultati la colpa è dei sottoposti? Se si vince è bravo il generale e se si perde sono cattivi i soldati? Quando dirigevo un giornale, la mia regola era: chiunque abbia sbagliato, la colpa è mia».

Vuoi fare successo? Inventati una Gomorra! Uno scrittore fallito inventa un reportage su Scampia. E, sparando "ca...te senza pietà" arriverà alla gloria. La geniale parodia di Roberto Saviano fatta da Francesco Mari, scrive Nicola Mirenzi su “Il Giornale”. Francesco Mari, La ragazza di Scampia, Fazi, 2014. Altro che il vero. È lo spruzzo di realtà, specie se criminale, che scala le classifiche, diventa bestseller e assalto ai botteghini. Ecco la messinscena che Francesco Mari fa a pezzettini con il suo romanzo d’esordio, La ragazza di Scampia (Fazi Editore, 256 pp, 16 euro), prendendosi gioco dei prodigi dello storytelling camorristico nazionale, dove la scena di Napoli è sempre acchitata per compiacere l’occhio di chi guarda, desideroso di confermarsi nell’idea che “i napoletani abitano dentro un noir a cielo aperto”. Il protagonista, Franco, tardo trentenne funzionario del comune, ha una vita noiosa. Il momento di più alta eccitazione della giornata lo raggiunge quando si ficca le cuffie dell’iPod nelle orecchie andando in ufficio. “Niente Radiohead e niente Anthony and the Johnsons da queste parti. Niente nomi giusti e gusti ricercati, di chi di musica ne capisce. Qui si attinge l’illuminazione a botte di Madonna, Jennifer Lopez e Céline Dion”. Poi c’è la depressione del lavoro: “Otto ore quotidiane di ufficio in cui faccio questo: niente”. Per arrivare alla ciliegina sulla torta delle le donne: ““È quasi un anno che non scopo, Vale!”, Chi cazzo se ne frega della crisi economica, la disoccupazione, i problemi preadolescenziali di tuo figlio”. Un monologo interiore che si conclude sempre con la stessa resa: un bacio sulle guance. Franco però scrive. Rimugina la rivincita. Il piano è convincere un editore cool di Milano, uno di quelli che ti fanno svoltare da un giorno all’altro, di pubblicare un libro. S’inventa così di sana pianta un Reportage dall’inferno di Scampia (e dove, senno?). “Come Michael Douglas in Un giorno di ordinaria follia, ho imbracciato la mia arma e ho cominciato a sparare cazzate senza pietà”. Un cantante neo-melodico che svela i segreti dei clan. Il gruppo rap impegnato nel sociale. Una donna-coraggio che perde il fratello e decide di parlare senza paura di morire ammazzata: “I killer che mi verranno a fare fuori li aspetterò qua, a casa mia”. È una storia afrodisiaca. Combacia alla perfezione con l’ideologia del romanzo criminale. Il mafia-reality-show. L’editore si convince d’aver scovato il nuovo Saviano. Firma il contratto. Pianifica di far uscire il libro insieme a un film. “Faranno il botto”, presagisce. Sale su su sino al settimo cielo. Da dove non scenderà neanche quando scopre che è tutta una sceneggiata. Era la Napoli che voleva farsi raccontare. La racconterà. “Vera, falsa, che importanza ha?”.  A sfottere godiamo: siam settentrionali. 

ESSERE LIBERALI OD ESSERE DI SINISTRA?

Dover scegliere di essere egoisti e meschini o saccenti e cattivi?

Dante contro gli immigrati: "La mescolanza delle genti è causa dei mali delle città". Nel XVI canto del Paradiso Dante, tramite il suo avo Cacciaguida, lancia un'invettiva contro gli stranieri che hanno invaso Firenze e contro la Chiesa, complice dell'invasione, scrive Matteo Carnieletto su “Il Giornale”. Esiste un Dante Alighieri che Benigni non vuole o non può vedere. Un Dante reazionario. Reazionarissimo. Un Dante che sarà poi ripreso dal "cattolico belva" Domenico Giuliotti e da Ezra Pound. Questo Dante, il vero Dante, ha scritto parole durissime contro l'immigrazione e contro la Chiesa che si rende complice di questa tratta di uomini. Basta leggere il sedicesimo canto del Paradiso, dove Dante, accompagnato da Beatrice, è a colloquio con Cacciaguida, il glorioso avo che trovò la morte durante la seconda crociata. Dante chiede a Cacciaguida di parlargli di Firenze, di raccontargli come fosse nei tempi civili. Subito Cacciaguida si infiamma "come s’avviva a lo spirar d’i venti / carbone in fiamma, così vid’io quella / luce risplendere a’ miei blandimenti". Ricorda come gli abitanti di Firenze fossero un quinto rispetto a quelli che ci sarebbero stati 150 anni dopo dopo la sua morte: "Tutti color ch'a quel tempo eran ivi / da poter arme tra Marte e ‘l Batista, / eran il quinto di quei ch’or son vivi. Ma la cittadinanza, ch’è or mista / di Campi, di Certaldo e di Fegghine, / pura vediesi ne l’ultimo artista". Ovvero: la popolazione di Firenze, che ora è mescolata con gli abitanti di Campi Bisenzio, Certaldo, Figline Valdarno, era pura fino al midollo. Fino al più semplice degli artigiani. E di chi è la colpa, secondo Cacciaguida e, quindi, anche secondo Dante? Della Chiesa che favorisce l'immigrazione dei toscani a Firenze: "Se la gente ch’al mondo più traligna / non fosse stata a Cesare noverca, ma come madre a suo figlio benigna, / tal fatto è fiorentino e cambia e merca, / che si sarebbe vòlto a Simifonti, / là dove andava l’avolo a la cerca". Ovvero: se la Chiesa non fosse stata matrigna nei confronti dell'imperatore e fosse stata amorevole nei confronti del figlio, certi fiorentini che ora passano il tempo a cambiar valute e a mercanteggiare sarebbero rimasti a Semifonte a chiedere l'elemosina come facevano i loro avi. E Dante riconosce la causa prima della decadenza delle città nell'immigrazione indiscriminata: "Sempre la confusion de le persone / principio fu del mal de la cittade, / come del vostro il cibo che s’appone". Ovvero: la mescolanza delle genti provoca sempre il male delle città. Insomma, attenti progressisti e radical chic a leggere Dante. Potreste rimanere parecchio delusi.

Il Giornale: "Dante era contro gli immigrati". Ma il dantista Mirko Volpi li stronca: "Operazione forzata, non tirate Dante per la giacca", scrice Laura Eduati su L'Huffington Post. Sette secoli prima dell'arrivo dei barconi dall'Africa, Dante Alighieri si scagliava contro gli immigrati. O almeno questa è la lettura del quotidiano "Il Giornale" che cita il XVI canto del Paradiso, dove viene deplorato l'arrivo degli abitanti del contado a Firenze, città ora impura perché ha accolto genti di diversa provenienza. Per questo, avverte l'autore dell'articolo, "radical chic" e fautori dell'accoglienza dei profughi rimarrebbero delusi dalla lettura della Divina Commedia. Dante chiede a Cacciaguida di parlargli di Firenze, di raccontargli come fosse nei tempi civili. Subito Cacciaguida si infiamma "come s’avviva a lo spirar d’i venti / carbone in fiamma, così vid’io quella / luce risplendere a’ miei blandimenti". Ricorda come gli abitanti di Firenze fossero un quinto rispetto a quelli che ci sarebbero stati 150 anni dopo dopo la sua morte: "Tutti color ch'a quel tempo eran ivi / da poter arme tra Marte e ‘l Batista, / eran il quinto di quei ch’or son vivi. Ma la cittadinanza, ch’è or mista / di Campi, di Certaldo e di Fegghine, / pura vediesi ne l’ultimo artista". Ovvero: la popolazione di Firenze, che ora è mescolata con gli abitanti di Campi Bisenzio, Certaldo, Figline Valdarno, era pura fino al midollo. Fino al più semplice degli artigiani. Dopo aver sottolineato che la colpa della mescolanza era della Chiesa, così come ricorda lo stesso Cacciaguida, Il Giornale conclude riportando l'opinione di Dante sullo spostamento delle persone da un luogo all'altro: "Sempre la confusion de le persone / principio fu del mal de la cittade, / come del vostro il cibo che s’appone". Ovvero: la mescolanza delle genti provoca sempre il male delle città. "Si tratta di una indebita attualizzazione di Dante, una operazione forzata che tira l'autore della Divina Commedia per la giacca cercando di portarlo sugli argomenti di attualità e piegandolo alle proprie convinzioni", commenta Mirko Volpi, ricercatore e studioso di Dante all'Università di Pavia. "Dante non è moderno e non è modernizzabile, perciò quello che scriveva non può essere utilizzato in una polemica attuale come l'immigrazione, così come non si poteva usarlo in chiave anti-Islam". Volpi, che affianca il suo lavoro di filologo a volumi più leggeri come "Il Diario di Mirko V." e che a luglio sarà in libreria con "Oceano Padano" (Laterza), ricorda il senso reale delle terzine citate da Il Giornale: "Il dialogo con Cacciaguida si inserisce in una polemica differente: quella che Dante ha sempre nutrito nei confronti dell'avidità e della sete di ricchezza. Il trasferimento di commercianti e artigiani dal contado a Firenze è dunque visto come una conseguenza della fame di denaro, e perciò giudicato negativo e portatore di corruzione in una città che secondo la sua visione un tempo era stata pura e incontaminata". "Fare un parallelo tra lo spostamento di qualche centinaio di persone dalle colline alla città non può essere nemmeno lontanamente paragonabile con l'esodo dei profughi a bordo dei barconi nel Mediterraneo: anche questa è una forte sproporzione che indica una maniera sbagliata di leggere Dante. Non è Dante a dover arrivare nel 2015, siamo noi a dover tornare indietro e scoprire il Dante del suo tempo, con i valori eterni che promuove".

Perchè preferiamo Einaudi a Croce, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Si può tecnicamente affermare che ci siano più “Storie del pensiero liberale”, che pensatori liberali in circolazione. Ve ne consiglio una, fresca di stampa, scritta da Giuseppe Bedeschi per i tipi della Rubettino. Se l’autore non si offende, direi che la parte che vale di più è proprio la sua corposa introduzione. È una roba che può leggere chiunque: anche un autodidatta, come chi scrive. È semplice e ben organizzata. Molto chiara l’esposizione sul diverso fondamento filosofico del liberalismo delle origini. Quello di Locke basato su un diritto naturale alla libertà individuale, sacrosanto e sovraordinato a qualsiasi invenzione realizzata dagli uomini stessi. Hume contesta invece i presupposti del contratto tra individui con cui nascerebbe lo Stato nella teoria lockiana, sostenendo che dal punto di vista strettamente storico chi ci governa deve il suo scettro a qualche prepotenza o conquista del passato. E che dunque il liberalismo (conclusione simile a Locke) deve difendere i cittadini dallo Stato. Non ve la facciamo lunga, ma potremmo continuare con tante delle porte intellettuali lasciate aperte nella sua introduzione da Bedeschi. Il liberalismo come si concilia con la democrazia? Per l’autore la sintesi c’è. Ma non per l’intero pantheon degli autori che ricorda. E come mettere insieme eguaglianza e libertà? Insomma i grandi temi del pensiero liberale sono ben amalgamati nella prima parte del libro e poi rubricati in capitoli dedicati ai grandi pensatori nel prosieguo. Scrive Bedeschi che proprio queste numerose distinzioni tra pensatori liberali hanno fatto parlare qualcuno di “liberalismi” al plurale. Una posizione però inaccettabile. Vi consigliamo tra l’altro di leggere l’ultima parte dedicata ai liberali tra le due guerre. L’autore nota, giustamente, come sia il periodo meno fecondo per l’idea liberale. Ma sentite come definisce Benedetto Croce: “in un quadro generale di decadenza del liberalismo medesimo, sia in Kelsen sia in Croce si avverte l’indebolimento, o addirittura, il venir meno di alcuni motivi fondamentali del pensiero liberale”. E ancora: “Croce non può essere considerato un grande pensatore liberale”. Qualche pagina più avanti il suo famoso dibattito sulle libertà economiche con Luigi Einaudi, vi darà qualche elemento in più per giudicare. Se oggi dovesse aggiornare la sua storia del liberalismo, temo che Bedeschi farebbe ancor più fatica a trovare un grande pensatore liberale per il nuovo millennio.

Lev Tolstoi su “Il Giornale”: "La rivoluzione non si fa con la violenza". "La condizione dell’umanità attuale è tanto più deplorevole in quanto nei nostri cuori noi concepiamo la possibilità di un'altra vita, completamente differente, ragionevole e fraterna, senza pazzia del lusso di alcuni e la miseria e l'ignoranza degli altri, senza esecuzioni, dissolutezza, violenza, armamenti, guerre. Ma il regime presente, mantenuto dalla forza, si è radicato a tal punto che noi non possiamo immaginare una vita collettiva senza un’autorità governativa; noi ci siamo a tal punto abituati che cerchiamo di realizzare addirittura l’ideale di una vita libera e fraterna attraverso degli atti d’autorità, vale a dire con la violenza. Questo errore è alla base del disordine morale e materiale della vita passata, presente e futura della cristianità. Un esempio lampante ci è donato dalla Rivoluzione francese. Gli uomini della Rivoluzione hanno posto chiaramente gli ideali di uguaglianza, di libertà e di fraternità, in nome dei quali essi hanno desiderato trasformare la società. Da questi principi sorsero delle misure concrete: abolizione delle caste, ripartizione uguale delle ricchezze; soppressione dei titoli e dei gradi, della proprietà fondiaria, dell'esercito permanente, istituzione dell'imposta sul reddito, pensioni per i lavoratori; separazione della chiesa e dello stato, cioè l'istituzione di una dottrina razionale, comune a tutti. Queste misure, essendo sagge e benefiche, erano la conseguenza diretta dei veri principi di libertà, uguaglianza e fraternità posti dalla Rivoluzione. Questi principi, così come le misure che ne sono sorte, sono stati, sono e resteranno veri, e rimarranno come l'ideale dell'umanità fintanto che non saranno realizzati. Tuttavia, questo ideale non potrà mai essere realizzato con l'aiuto della violenza. Malauguratamente, gli uomini della Rivoluzione erano talmente abituati all'uso della forza come unico mezzo d'azione, che non si accorsero della contraddizione che conteneva l'idea di realizzare l'uguaglianza, la libertà e la fratellanza attraverso l'uso della violenza. Essi non si accorsero che l'uguaglianza è l'opposto della dominazione e della sottomissione, che la libertà è inconciliabile con la costrizione e che non si può avere della fratellanza tra coloro che comandano e coloro che obbediscono. Da questo fatto derivano tutte le atrocità del Terrore. L'errore non è tanto nei principi, come credono alcuni - essi sono stati e restano veri -, ma nei mezzi in cui si sono applicati. La contraddizione che spuntò così nettamente e brutalmente durante la Rivoluzione francese e che, al posto del bene, conduce al male, dimora fino al giorno d'oggi, rivelandosi in tutti i tentativi di migliorare l'organizzazione sociale. In effetti, si spera di realizzare questo miglioramento con l'aiuto del governo, cioè con la forza. Ancora meglio questa contraddizione si manifesta non soltanto nelle dottrine sociali attuali, ma nelle stesse dei partiti politici più progressisti: socialisti, rivoluzionari, anarchici, che prevedono la città futura. Insomma, gli uomini cercano di raggiungere l'ideale di una vita razionale, libera e fraterna attraverso l'aiuto della forza, quando questa, qualsiasi forma essa prenda, non è altro che il diritto ottenuto da alcuni per disporre degli altri e, in caso di insubordinazione, di contrastare questi con il mezzo estremo: l'assassinio. Vale a dire: realizzare l'ideale della felicità umana mediante l'omicidio. La grande Rivoluzione francese è stata l’enfant terrible che, in mezzo all’entusiasmo di tutto un popolo, davanti alla proclamazione delle grandi verità rivelate e all'inerzia della violenza, ha espresso, in maniera candida, tutta l'inettitudine della contraddizione nella quale si dibatté allora e si dibatte ancora l'umanità: «Liberté, égalité, fraternité ou la mort». \[…\] Ora, la meta - il bene di ognuno e di tutti - è raggiunta unicamente grazie alla trasformazione interiore dell'individuo, per l'elaborazione di una coscienza religiosa e indipendente, allo scopo di vivere in conformità con questa concezione personale. Nello stesso modo che una materia in combustione può da sola comunicare il fuoco a delle altre materie, solo la vera fede e la vera vita di un uomo possono essere trasmesse ad altri uomini, diffondere e consolidare la verità religiosa. Dunque, solo la propagazione e il consolidamento della verità religiosa migliorano le condizioni degli uomini. Ecco perché non c'è un mezzo per liberarsi da tutti i mali di cui soffrono gli uomini, compreso l'atroce male che commette il governo: il lavoro interiore che ognuno di noi deve fare al fine d'essere l'architetto del proprio miglioramento morale. \[…\] Ora, questa libertà vera può essere realizzata solamente con il rifiuto di sottomettersi a qualsiasi autorità, senza ricorrere alle barricate, assassini e nuove istituzioni ottenute e sostenute con il ricorso alla violenza. \[…\] Penso che proprio ora stia cominciando quella grande rivoluzione che si è andata preparando per duemila anni in tutto il mondo cristiano. Una rivoluzione consistente nella sostituzione del cristianesimo degenerato, di quel potere di pochi e la schiavitù di tutti gli altri, in un cristianesimo vero, alla base dell'eguaglianza di tutti gli uomini e di una libertà autentica, quella propria degli esseri ragionevoli. Lev Tolstoi"

25 APRILE 2015. 70 ANNI DALLA LIBERAZIONE. L'ALTRA RESISTENZA CONTRO IL RITO DELL'ANTIFASCISMO UN PO' FASCISTA.

L'Italia liberata dagli alleati. La storia scritta, invece, da chi si dichiara vincitore: Saccenti e cattivi sempre contro.

Dubbi e ricordi di Salandra. Così l'Italia entrò in guerra. Primo ministro fra il marzo 1914 e il giugno 1916 fu lui, con Sonnino, a "pilotare" il Paese dalla neutralità all'intervento a fianco dell'Intesa, scrive Francesco Perfetti su "Il Giornale". Il 2 giugno 1915 Antonio Salandra pronunciò in Campidoglio, nella bella sala degli Orazi e Curiazi, un celebre e appassionato discorso per illustrare le motivazioni che avevano spinto l'Italia a imbracciare le armi. Disse che la guerra, appena iniziata per l'Italia, era «santa» e si combatteva «a tutela delle più antiche e più alte aspirazioni, dei più vitali interessi della patria». Aggiunse che sarebbe stata «più grande di qualunque altra la storia» ricordasse e che avrebbe coinvolto tutti gli italiani. Per dare al discorso il carattere di un solenne atto di governo era stato scelto un giorno non festivo. Salandra aveva lavorato al discorso per due mattinate, ma gran parte di esso fu pronunciato a braccio sulla base di appunti. Cionondimeno ebbe successo e piacque persino a Benedetto Croce non certo tra i fautori dell'intervento, che vi trovò parole «veramente da italiano, da italiano antico e moderno, insieme borghese nel miglior senso della parola» e del quale gli piacque «quell'assenza completa di fanatismo nazionalistico, quella concezione patriottica e umana insieme, che è una delle più belle note dell'italianità». Salandra era succeduto a Giolitti nel marzo 1914. Aveva superato i sessant'anni e aveva alle spalle una lunga carriera politica: eletto deputato per la prima volta nel 1886, aveva poi ricoperto più volte incarichi di sottosegretario e ministro. Era, anche, uno studioso illustre di diritto amministrativo, formatosi culturalmente alla scuola di Francesco De Sanctis e di Silvio Spaventa. Liberal-conservatore, si era battuto per «l'unione di tutte le forze liberali» contro i partiti estremi e, formando il governo, si era ispirato al principio di creare una «concentrazione liberale» alla quale partecipassero esponenti della sinistra zanardelliana, del centro e della destra. Interessato soprattutto alla politica interna, all'amministrazione, al rafforzamento dello Stato e alla costruzione del grande partito liberale, si trovò subito a dover gestire la posizione dell'Italia, allora legata dalla Triplice Alleanza all'Austria-Ungheria e alla Germania, di fronte alla guerra scoppiata nell'estate del 1914. La sua prima scelta fu la neutralità, il 3 agosto di quello stesso anno. Poi venne, l'anno successivo, dopo le «radiose giornate» del maggio 1915, la decisione di prendere parte al conflitto per portare «a compimento il Risorgimento» ed «elevare l'Italia alla realtà di grande potenza». Proprio al periodo compreso fra la scelta neutralista e quella di entrare in guerra Salandra dedicò un importante volume di «ricordi e pensieri» intitolato L'intervento che la Fondazione Biblioteche Cassa di Risparmio di Firenze ha ristampato in una curata edizione anastatica e che verrà distribuito gratuitamente a tutti i partecipanti al grande convegno Niente fu più come prima. La Grande Guerra e l'Italia cento anni dopo , che si svolgerà a Firenze il 13 e 14 marzo. L'opera è una testimonianza che ricostruisce, sulla base dei ricordi di un protagonista e sulla documentazione, le trattative con l'Austria e quelle con l'Intesa, la stipulazione dell'accordo di Londra, le battaglie in piazza e in Parlamento fra neutralisti e interventisti, la crisi del maggio 1915, gli estremi tentativi diplomatici per evitare l'ingresso in guerra e le fasi della mobilitazione militare e civile. Salandra aveva cominciato a pensare che la neutralità fosse destinata a finire quando «l'ambizioso piano germanico della guerra di poche settimane» si era infranto sulle rive della Marna. C'erano, quindi, state, prima, la crisi governo per divergenze sul finanziamento del piano militare e, poi, la formazione del nuovo gabinetto del quale entrarono a far parte personalità come Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino. Quest'ultimo, nominato ministro degli Esteri, era legato a Salandra da una trentennale amicizia e da una «solidarietà politica» in nome di una concezione «forte» del liberalismo e della necessità di un «ritorno allo Statuto» per recuperare o tonificare il prestigio e l'autorità dello Stato. I veri protagonisti dell'attività diplomatica svolta in maniera sotterranea nei difficili e drammatici mesi compresi fra il novembre 1914 e la primavera del 1915 furono, proprio, loro due, Sonnino e Salandra. Questi lo riconosce senza mezzi termini: «del bene e del male a noi due spetta l'onore e il biasimo». Le trattative con Vienna e Berlino iniziarono nel dicembre 1914 ma si arenarono per l'insufficienza dei compensi offerti all'Italia dalle potenze della Triplice. Quelle con l'Intesa, che avrebbero portato al Patto di Londra e all'impegno italiano a entrare in guerra entro un mese, cominciarono all'inizio di marzo. La descrizione che Salandra fa della crisi di maggio è precisa e ricca di chiaroscuri. Il fronte interventista era costituito da intellettuali e studenti, nazionalisti, irredentisti, sindacalisti rivoluzionari. Era, per così dire, un vario interventismo raccolto attorno al progetto di completare l'unità nazionale e assicurare all'Italia un ruolo paritario fra le potenze. A esso si contrapponeva il fronte neutralista comprendente liberali giolittiani, socialisti e cattolici. Sottolinea Salandra come la spinta venisse proprio dal Paese: «mentre i neutralisti tenevano il campo a Montecitorio, gli interventisti occupavano le piazze». Poi, finalmente, ci fu la dichiarazione di guerra contro l'Austria. Dal volume emerge la personalità di un uomo che, liberale con una visione conservatrice della politica in linea con la tradizione della Destra storica, segnò la fine dell'età giolittiana e del tentativo di Giolitti di proporre un liberalismo fondato sull'arte del compromesso e sulla prassi della mediazione. Con la sua «politica nazionale» contrapposta alla «sana democrazia» di Giolitti, Salandra diventò il naturale punto di riferimento della «borghesia liberale» costituita dai nuovi ceti medi sorti dal processo di industrializzazione e modernizzazione dell'Italia postunitaria.

La stanza di Montanelli su “Il Corriere della Sera”: Ecco perchè Mussolini entrò in guerra. Caro Montanelli, Sono un giovane appassionato di argomenti storici e ultimamente sto leggendo il suo libro sulla storia d'Italia del Novecento. Per quanto riguarda il secondo conflitto mondiale, vorrei farle questa domanda. Secondo lei Mussolini proprio non avrebbe potuto fare a meno di entrare in guerra a fianco della Germania di Hitler nel giugno del 1940, e, magari, non avrebbe fatto meglio a fare come Franco, cioè il neutrale? Arduino Lapo. Caro Lapo, Se lei sta leggendo il libro mio e di Cervi sull'Italia del Novecento, dovrebbe avervi già trovato risposta alla sua domanda. Niente e nessuno costringeva Mussolini a entrare in guerra a fianco della Germania. Il problema si era posto il 3 settembre dell'anno prima (1939), quando la guerra era stata - controvoglia, molto controvoglia - dichiarata da Francia e Inghilterra alla Germania che aveva invaso la Polonia. E in quel momento forse Hitler avrebbe voluto che l'Italia si schierasse al suo fianco, come stabiliva il patto d'alleanza (il famoso e famigerato "Patto d' Acciaio") fra i due Paesi. Mussolini, addusse due motivi a giustificazione della sua - come oggi la si chiamerebbe - "desistenza". Il primo era quello di non essere stato nemmeno informato del colpo di mano sulla Polonia che non poteva non provocare l'intervento di Francia e Inghilterra, dati gl'impegni che alla Polonia le legavano. Il secondo era la condizione posta da Mussolini e, a quanto pare, accettata da Hitler, che la guerra non dovesse scoppiare prima di altri tre anni, quanti ne occorrevano all'Italia - da poco reduce dagli sforzi bellici compiuti in Abissinia e in Spagna - per prepararvisi. Tutto questo era noto solo nei ristretti ambienti della diplomazia. Ma io, che in quel momento mi trovavo a Berlino per conto di questo giornale, ricordo con quale disprezzo ci guardavano i tedeschi. "I soliti traditori" pensavano di noi italiani. Nel giugno del '40 le cose erano del tutto cambiate. L' esercito francese era stato spazzato via dalla Wehrmacht, solo un brandello di quello inglese era riuscito a reimbarcarsi e a tornare a casa. E la Germania, convinta di non aver più bisogno di aiuto per giungere alla vittoria, non solo non sollecitò l' intervento italiano, ma ne fu infastidita. (Che cosa i tedeschi pensassero di noi, mi era stato chiaro fin dal 1938, quando, di passaggio a Londra, venni a conoscenza di un episodio che governo e stampa inglesi avevano, per motivi di opportunità, tacitato. Un'associazione di reduci della prima guerra mondiale aveva invitato a una conferenza uno dei più autorevoli Marescialli tedeschi - Brauchitsch mi dissero, ma poi mi smentirono - sulle nuove tecnologie militari. Alla fine del banchetto che seguì, qualcuno gli chiese chi avrebbe vinto la prossima guerra. "Chi la vincerà, non lo so - avrebbe risposto l'ospite -, ma so con sicurezza chi la perderà: chi avrà per alleato l'Italia". Non giuro sul nome di Brauchitsch, ma sull'autenticità dell' episodio sì). Fu quindi di sua testa, e contro l'opinione dei suoi uomini migliori - Grandi, Balbo, Bottai - e dello Stato Maggiore a guida Badoglio, che Mussolini volle e decise la guerra. Perchè? Perchè era convinto che i tedeschi l'avessero già vinta, e che quindi convenisse sedere, al tavolo della pace, al loro fianco. Lei mi chiederà in quali documenti questo sta scritto. No, i documenti non ci sono nè potrebbero esserci. Sono i gesti, le parole e le decisioni di Mussolini a darcene la certezza, del resto condivisa da tutti coloro che avevano accesso a lui e coi quali ho a lungo e ripetutamente parlato. Mussolini era intelligente, ma abbastanza ignorante. Non sapeva cosa fossero l'Inghilterra e l'America. Uomo dell'Ottocento e di cultura ricalcata sulla pubblicistica francese della fine di quel secolo (i suoi autori erano Zola e Sorel), coltivava il mito della Grande Armee, e, quando la vide crollare in pochi giorni, si persuase che più nulla e nessuno potesse arrestare la marcia trionfale dell'odiato (sì, odiato: so quel che dico) alleato. Franco, molto meno intelligente, ma più scaltro, freddo e calcolatore di lui, non ci cascò ("Piuttosto che avere un altro colloquio con quel tipo - disse Hitler al termine del loro incontro nel '40, sulla costa basca -, preferirei farmi strappare tutti i denti"), e così salvò il suo Paese e se stesso. Nemmeno questo sta scritto nei documenti. Ma lo si ricava, senza possibilità di dubbio, dai fatti.

Aprile 1945: gli ultimi giorni di Mussolini. Il 16 aprile lascia il Garda. A Milano cerca inutilmente la mediazione con il CLNAI quando la RSI è ormai agonizzante e i tedeschi si ritirano,scrive Edoardo Frittoli su "Panorama". "Si, Giulio Verne,…ne riparleremo più avanti". Così Mussolini aveva ironicamente risposto al capo della polizia repubblicana Tamburini quando questi aveva fantasticato sulla possibilità di fuga del duce e dei gerarchi a bordo di un sottomarino costruito a Trieste e diretto in Argentina o Polinesia. Il Mussolini dei primi mesi del 1945 è lo spettro di sé stesso. L'ultima fiammata l'aveva spesa al Teatro Lirico di Milano nel dicembre precedente. I tedeschi ormai parlano sempre meno di armi segrete e saccheggiano sempre di più derrate e macchinari industriali nell'ottica di un'estrema difesa del Reich. La violenza e l'anarchia dei reparti "speciali" di Polizia Repubblicana e delle Brigate Nere lo avevano spinto allo scontro con alcuni membri del governo di Salò, sopra tutti Buffarini Guidi. Poi c'erano i battitori liberi come Roberto Farinacci, più vicini ai tedeschi che a Mussolini, che agitavano le acque nella speranza di una successione alla guida del fascismo repubblicano. E gli alleati germanici, con lo strapotere di plenipotenziari vicini a Hitler come Karl Wolff, Eugen Dollmann, Walter Rauff (uno dei padri delle Gaswagen, le camere a gas mobili). Nel marasma degli ultimi giorni della RSI Mussolini altalena tra il purismo del ritorno alla rivoluzione sansepolcrista e spinte neo-socialiste, reminiscenze della sua cultura pre-fascista. Si avvicina e lo avvicinano intellettuali e personaggi grotteschi, che gli propongono soluzioni impraticabili nell'imminenza della fine. Edmondo Cione, un allievo di Benedetto Croce, gli presenta un nuovo assetto politico del fascismo repubblicano, che avrebbe dovuto includere elementi dell'opposizione liberale e cattolica in senso critico. Divorato dall'ulcera, il Mussolini degli ultimi giorni di Salò sembra voler perseguire a tutti i costi la strada della "socializzazione" delle industrie e dell'agricoltura. Da un lato per cercare di preservare il patrimonio industriale del Nord dalla devastazione operata dai tedeschi. Dall'altra pensa ad un passaggio di mano dal fascismo ad uno stato socialista e anti borghese.  Il piano non sarà mai di fatto attuato per la risoluta avversione dei tedeschi e per la generale ostilità degli operai in continua agitazione, nonostante le concessioni salariali promesse dalla RSI. Con l'avvicinarsi degli Alleati e con la ripresa dell'azione da parte del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) il governo di Salò comincia a formulare ipotesi di estrema resistenza o, eventualmente, di fuga in Svizzera per poi giungere nella Spagna franchista e da qui in Sudamerica. Nasce in questi giorni il piano cosiddetto R.A.R. (Ridotto Alpino Repubblicano). Si trattava di fortificare la zona montuosa della Valtellina e resistere almeno fino all'arrivo degli Alleati. Il più convinto sostenitore del ridotto era Alessandro Pavolini, segretario del PFR. Il vecchio generale Graziani, rassegnato e depresso, lo aveva deprecato sin dall'inizio. Infatti mancavano le forze necessarie per realizzarlo e difenderlo. Risultò chiaro sin da subito che il ridotto sarebbe stato devastato in poco tempo dall'aviazione alleata. Mussolini asseconda i suoi e cerca di contattare gli Alleati, i quali rispondono categoricamente: resa incondizionata. Il CLNAI fa altrettanto, così che Mussolini cerca contemporaneamente due strade alternative. Dal 16 aprile il duce decide di andarsene dalle sponde del Garda e lascia Gargnano per Milano, dove si stabilisce in Prefettura. Nella capitale lombarda Mussolini cerca contatto con l'ambasciatore svizzero Troendle. Questi temporeggia, ponendo difficili condizioni alla richiesta di asilo per il duce e i ministri di Salò. L'altra via è la mediazione della Chiesa. Per questo l'Arcivescovo di Milano Idelfonso Schuster si attiva per organizzare un incontro con il governo del CLNAI. Incontro che avviene presso la sede dell'Arcivescovado il 25 aprile, giorno dell'insurrezione. Ad attendere Mussolini c'è il generale Raffaele Cadorna, comandante militare del CVL e c'è Riccardo Lombardi per il CLNAI. Per il governo della RSI ci sono il generale Graziani e il sottosegretario Francesco Maria Barracu, il fondatore dei "Volontari di Sardegna-Battaglione Angioy" , grande invalido e seguace di Mussolini fino alla fine. I colloqui di fatto non cominceranno mai perché al duce è annunciata la voce di una pace separata con gli Alleati voluta da Karl Wolff. Mentre in città echeggiano gli spari e i tumulti dell'insurrezione generale, Mussolini fa ritorno in Prefettura. In corso Monforte termina la sua permanenza a Milano. Verso le 19 raduna i suoi comunicando di fatto la volontà di lasciare la città alla volta di Como, per un "precampo" prima del tentativo di espatrio in Svizzera. A nulla valgono gli estremi tentativi di Carlo Borsani, il cieco di guerra, di far tornare il duce in Arcivescovado. Alle 19,30 circa l'autocolonna con Mussolini e il suo seguito lascia Milano per l'ultimo viaggio.

E alla fine arrivarono gli Alleati. Le divisioni britanniche e americane superarono il Po il 24 aprile. E appresero lungo la strada per Milano che la città era già stata liberata. E i primi carri armati alleati arrivarono in Duomo solo il 29 aprile, scrive Massimo de Leonardis su “Il Corriere della Sera”. Le liberazioni delle grandi città italiane ebbero caratteristiche diverse. A Roma, per ragioni strategiche e per la sua peculiarità di sede del Papato, non vi furono né battaglia né devastazioni: i tedeschi si ritirarono poco prima dell’arrivo degli alleati. Opposto il caso di Firenze, con la città divisa e aspri scontri, che durarono settimane. Torino fu aggirata dalle truppe tedesche in ritirata, ma vi si manifestò il fenomeno dei franchi tiratori fascisti. A Milano le truppe americane arrivarono con la città già in mano ai partigiani, tranne alcuni centri di resistenza tedeschi. Nell’aprile 1945, sotto il Comando Supremo Alleato nel Mediterraneo del britannico Generale Sir Harold Alexander, operava in Italia, agli ordini dell’americano Tenente Generale Mark W. Clark, il XV Gruppo di Armate, composto dall’8a Armata britannica del Generale Sir Richard L. McCreery, e dalla 5a Armata americana del Tenente Generale Lucian K. Truscott, Jr, che contava circa 270.000 soldati (con altri più di 30.000 di riserva), oltre 2.000 pezzi di artiglieria e mortai e migliaia di veicoli, ed era schierata sulla linea di montagna a zig zag dal mare Tirreno, all’altezza del Cinquale tra Viareggio e Massa, al Monte Grande, vicino alla via Emilia. Da qui, verso sud-est, partiva il fronte della 8a armata britannica, a cavallo dei fiumi Sillaro e Santerno, e poi a nord-est lungo la sponda sud del Senio fino alla riva meridionale della laguna di Comacchio sull’Adriatico. Le operazioni preliminari iniziarono sul fronte dell’8a armata alle 3 del 2 aprile nella laguna di Comacchio, mentre l’azione diversiva sulla costa tirrenica iniziò il 5 aprile. Alle 14 del 9 aprile, dopo massicci bombardamenti ed un intenso fuoco di preparazione dell’artiglieria, iniziò l’attacco generale della 8a armata e alle 9.45 del 14 quello della 5a Armata. La svolta nell’offensiva avvenne il 20; il 21 fu conquistata Bologna e a mezzanotte del 24 l’88a divisione di fanteria americana passò per prima il Po. Il Generale Truscott ordinò l’avanzata della 5a Armata verso Verona, conquistata il 26 aprile, per separare la 10a e la 14a Armata tedesca, bloccare le vie di ritirata verso il Brennero e rompere la linea dell’Adige. Più a Occidente la 1a Divisione Corazzata americana, gli «Old Ironsides», doveva bloccare le linee di ritirata verso l’Austria e la Svizzera tra i laghi di Garda e di Como. Il 27 la Divisione incontrò partigiani provenienti da Milano, apprendendo che la città era stata liberata dalle forze della Resistenza. La mattina di domenica 29, gli americani occuparono la periferia e i primi carri armati arrivarono fino al Duomo; la sera il Col. americano Charles Poletti, governatore militare alleato in Lombardia, fu ricevuto in prefettura dai membri del Clnai e del Cvl. Il pomeriggio del 30 entrò in città il Tenente Generale Willis D. Crittenberger, comandante del IV Corpo d’Armata americano, con il Combat Command “B”. Già dal 27 era comunque a Milano il Capitano Emil Quincy Daddario dell’Office of Strategic Services (antesignano della CIA). Il giorno precedente aveva arrestato a Cernobbio il Maresciallo Rodolfo Graziani e i Generali Bonomi e Sorrentino; li trasferì a Milano, prima all’Hotel Regina, poi al Grand Hotel et de Milan e infine al carcere di S. Vittore, da dove infine li condusse verso Bergamo. L’Hotel Regina, tra le vie Silvio Pellico e Santa Margherita, era sede del comando della Sicherheitspolizei-SD. Daddario negoziò la resa dei tedeschi, che avevano rifiutato di arrendersi ai partigiani. Il 30, protetti da mezzi corazzati americani e sotto le armi puntate dei partigiani, i tedeschi abbandonarono l’albergo. Una folla minacciosa tentò di assalirli e gli americani spararono raffiche di mitra in aria per “calmare gli animi”. Nel frattempo, intorno a Milano le truppe americane e brasiliane eliminarono sacche di resistenza di truppe tedesche e della RSI. Dal 9 aprile al 2 maggio 1945, data della resa in Italia, le perdite dei tedeschi e dei fascisti, tra morti, feriti e dispersi, furono di 70.000 uomini, quelle alleate di 16.700.

Professore ordinario di Storia delle relazioni e delle istituzioni internazionali e Docente di Storia dei trattati e politica internazionale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Dallo stop alle vendette alla «coabitazione»: Antonio Greppi, il sindaco della Liberazione. Rimasto nella memoria di tutti i milanesi, Antonio Greppi aveva visto morire un figlio, Mario, per mano della Legione «Ettore Muti». Ma non esitò a fermare le rappresaglie contro gli ex repubblichini, scrive Jacopo Perazzoli su “Il Corriere della Sera”. Per i milanesi è rimasto, fino all’ultimo, il sindaco della Liberazione, perché il socialista Antonio Greppi (1894-1982) a capo della nostra città c’era arrivato quando i nazisti erano ancora asserragliati nell’hotel Regina, a pochi passi da piazza della Scala. Non appena nominato dal Clnai il 27 aprile 1945, il neo primo cittadino si spese con determinazione per risolvere le gravi criticità lasciate sul campo dalla guerra. Fu così quando, per contrastare l’annoso problema del fabbisogno di alloggi per i milanesi, decise di nominare un commissario ad hoc e, al tempo stesso, di rivolgersi direttamente ai concittadini, perché coloro che ne avessero la possibilità mettessero a disposizione dei senzatetto alcuni locali: era l’inizio della coabitazione, che sarebbe rimasta nella memoria storica della città per molto tempo. Ma non soltanto. Per esempio, sul piano dell’assistenza sociale, il sindaco non perse tempo: pur in un regime di ristrettezza economica (nel 1945 le casse comunali disponevano di poco meno di 5 milioni di lire da spendere), optò per riorganizzare l’Ente comunale di assistenza, un organo ideato negli anni del fascismo. Esso fu affidato alla direzione di un altro socialista illustre, Ezio Vigorelli, che riuscì a fronteggiare con efficacia le conseguenze del caro viveri (nel secondo semestre del 1945 il costo della vita era infatti aumentato del 20,8%). Ugualmente riconducibile ai limitati mezzi finanziari fu un’altra scelta che contraddistinse l’operato di Greppi: nel 1945, quando uno dei problemi maggiori in città era rappresentato dal diffondersi della tubercolosi, il primo cittadino creò il cosiddetto «fondo penicillina», per coprire le spese necessarie all’acquisto del medicinale per i cittadini meno abbienti e chiese ai milanesi di finanziarlo, trovando un’adesione plebiscitaria. Un altro aspetto, questo di natura morale, ha contribuito a tramandare un’immagine positiva del «sindaco della Liberazione». Nei giorni immediatamente successivi alla resa delle forze nazifasciste, si scatenò in città un’ondata di vendette contro gli ex sostenitori della Repubblica di Salò. Da apprezzato avvocato penalista, Greppi non esitò a prendere posizione ufficiale contro quelle violenze, benché lui stesso fosse da considerare una vittima indiretta del fascismo, dato che suo figlio Mario, membro dell’VIII brigata Matteotti, era caduto a Milano nel corso di una rappresaglia attuata dalla legione Ettore Muti. La sua posizione contraria alla prosecuzione della violenza politica, una volta terminata la Resistenza, non toglie nulla al fatto che Greppi fosse una personalità integrata nell’antifascismo milanese. Il Clnai, su precisa volontà del suo presidente Alfredo Pizzoni, lo scelse quale primo cittadino anzitutto perché godeva di ottime credenziali da oppositore della dittatura. Nel 1938 e nel 1940 venne infatti internato a San Vittore poiché sospettato – non a torto – di attività clandestina antifascista (dal 1937 reggeva le sorti del Centro interno del Partito socialista), e il 26 luglio 1943 firmò, quale rappresentante del Psi, un manifesto dei partiti democratici milanesi con cui si chiedeva la liquidazione di qualsiasi traccia del ventennio mussoliniano. Sottoscrivere quel documento, soprattutto in seguito alla rinascita del fascismo sotto le vesti della Repubblica sociale, volle dire per Greppi prendere la via dell’esilio: dopo l’uccisione di Aldo Resega, il commissario federale di Milano della Rsi, fu costretto a riparare in Svizzera, visto che sul suo capo pendeva una condanna a morte. Dietro a quel motivo se ne celava però un altro che spinse i vertici del Clnai a puntare su Greppi. Partendo dal presupposto che scegliere un socialista quale sindaco di Milano significava ricollegarsi idealmente alla stagione dei suoi predecessori Caldara e Filippetti, venne indicato Greppi perché all’interno di quella famiglia politica era uno dei pochi che potevano contare su una buona esperienza amministrativa. Infatti, tra il 1920 e il 1922, seguendo un suggerimento giuntogli direttamente da Filippo Turati, aveva guidato l’amministrazione di Angera, la città da cui proveniva; nel piccolo centro lacustre impostò un’azione che avrebbe poi perseguito nel capoluogo lombardo, rappresentata dalla messa in campo di misure di politica sociale e culturale, insieme ad un forte sviluppo dell’edilizia convenzionata. Per questa serie di ragioni Sandro Pertini, allora capo dello Stato, parlò di «un grande vuoto nella vita democratica» lasciato da Greppi con la sua scomparsa, avvenuta il 22 ottobre 1982. L’autore fa parte del dipartimento di Studi umanistici dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale «Amedeo Avogadro»

Primo Maggio e 25 Aprile: ma è ancora festa? Momenti di patriottismo per altri soltanto ponte. E c'è chi pensa di abolirle, scrive Carmelo Caruso su "Panorama". E poi è subito 2 maggio. E prima ancora era stato il 26 aprile. Portate via dal giorno successivo, affievolite dalle proteste che non mancano (A Napoli quest’anno con evento sospeso). 25 Aprile e 1 maggio, celebrazioni con appendice musicale “segnato dal tempo”, ha avuto modo di dire perfino Susanna Camusso, segretario della Cgil, tanto da far ipotizzare la fine di quello che è divenuto la foto del primo maggio ovvero il concertone di piazza San Giovanni. Feste, certo e già lo storico Mario Isnenghi sottolineava come non ci sia festa il cui fine non sia la creazione di una memoria condivisa, strumenti per costruire una nazione. Forse. Divenute un lungo “ponte” per alcuni, a vedere le piazze sempre meno affollate, per altri un braccio di ferro sempre più vinto dalle catene commerciali che ne hanno fatto una crociata del lavoro senza attenuanti. Serrare le saracinesche o tenerle aperte? A Firenze un anno fa fu protesta condivisa perché fosse festa di tutti, ma peggio provò a fare Giulio Tremonti, ex ministro dell’Economia, quando si disse pronto ad abolirle o meglio “a spostarle” alle domeniche tutte quelle feste repubblicane che compongono il calendario laico di un paese: 25 aprile, 1 maggio e 2 giugno, provocando la solita polemica tra abolizionisti e antiabolizionisti. Rientrò subito dopo le proteste di storici e dell’Anpi con la benedizione del nostro presidente. Del resto l’idea di abolire le feste era passata in mente anche a Giulio Andreotti che abolì nel 1976 addirittura l’Epifania poi reintrodotta da Bettino Craxi, ma l’abolizione del primo maggio la realizzò solo Benito Mussolini che nel 1925 volle sopprimere la festa dei lavoratori che nel frattempo erano stati trasformati in cocci delle “corporazioni”, il compromesso storico inventato dal duce tra padroni e operai. Polemica stantia, salvo registrare, come appunto la Camusso, un qualcosa che sa di logoro e non per il simbolo quanto per la contingenza. «Il concerto del Primo Maggio vuole parlare ai giovani con un linguaggio che ci permette di interloquire con loro. Il prossimo è il 25simo. Tutte le cose sono segnate dal tempo». E ha precisato: «Bisogna fare una riflessione ma non voglio dire comunque che questo sia l'ultimo». “Magari andrebbe ripensata con nuove formule, ciò non toglie che queste siano e rimangono feste di tutti – convinto risponde il presidente dell’Anpi, Carlo Smuraglia che proprio nel 2006 decise di aprire le porte dell’associazione - prima eravamo solo partigiani, adesso anche i giovani vengono ad iscriversi. E’ stato un modo per rigenerare. Proprio per questo credo che il concerto non bisogna eliminarlo, rimane un modo per fare uscire dall’isolamento i giovani. E’ il classico momento d’incontro. Poi è inevitabile che una festa come il Primo Maggio abbia subito dei contraccolpi a causa della crisi”. Un riflusso che addolora per primi i padri della Repubblica, quei Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano che di fatto si sono “inventati” la festa del 2 giugno togliendole quella patina di retorica e parata per riconsegnarla alla memoria degli italiani come battesimo e genetliaco della Repubblica. Notizia vuole che il presidente abbia deciso di celebrare per quest’ anno un 2 giugno “sobrio” senza ricevimenti con i diplomatici e c’è chi come Sel di Nichi Vendola auspica la sospensione della parata, ecco. Del resto ci sono date che s’iscrivono e che devono farsi stele dice la storica dell’arte Antonella Sbrilli ricordando l’uso che il pittore Jacques Louis David ne fece nel suo “La Morte di Marat”, attraverso quella data che si legge nel testamento del giacobino il quadro si fa monumento annotò lo scrittore Michael Butor. E credere che ci avrebbero unito anche se così non sembrerebbe, almeno a leggere quanto accaduto ieri a Napoli, alla Città della Scienza, da poco incendiata. Tafferugli tra Cobas e sindacati, insomma frazionismo sindacale con i Cobas che gridavano: “Non c’è niente da festeggiare”. Sicuri? Proprio anni fa su questo stesso giornale lanciava la sua provocazione Paolo Guzzanti premettendo l’accusa a cui sarebbe andato incontro: “Lo so mi tacceranno di revisionismo”. Eppure era proprio quel polemista di Guzzanti stroncandolo a ricordare un primo maggio che oggi sa di sbiadito: “Grumi di memorie inconfessate, se non Spartaco Polizza da Volpedo, almeno le cariche della Celere di Mario Scelba o l’eco dei bambini minatori e di David Copperfield. Quel che non va è proprio la retorica di un mondo morto e non ci sono ingaggi di musica sotto il palco che possono dare vita a ciò che è morto”. La pioggia ieri ha fatto il resto e se si aggiunge il contro concertone (brutto definirlo così) organizzato a Taranto da David Riondino, il più noto commissario Montalbano giovane, le somme si tirano da sé, piazze divise e il pericolo di un deja vu che sa di stanchezza e scoramento. Di solito è questo il destino di qualsiasi data e il poeta Valerio Magrelli ne ha cantato in una sua poesia la caducità: “Luce di stella morta/ giunta da un trapasso presente/ il suo oggi è lo ieri/luce salma/ memoria di un oltretomba quotidiano”. Che sia colpa dell’impossibilità di allungare le date? Probabile, visto che ogni celebrazione è destinata a finire troppo presto, allungarle è soltanto un desiderio che l’incedere quotidiano ha impedito. Sarà per questo che nel testo irridente di Elio e le Storie Tese “Il complesso del primo maggio”, gioco satirico di controinformazione sui clichè della festa, la voce di Eugenio Finardi subentra a ricordare una verità: “Il primo maggio è fatto di gioia, ma anche di noia…”. Nel frattempo è già tre maggio, meno un mese al due giugno…

25 aprile, una festa lunga 70 anni. Iniziative, immagini e celebrazioni per l'anniversario della Liberazione. 25 aprile, cinque libri per la Festa della Liberazione. Dai classici di Calvino e Vittorini ai più recenti di Aldo Cazzullo e Giacomo Verri, cinque romanzi per ricordare, scrive Andrea Bressa su "Panorama". Come ogni anno, il 25 aprile ci si ferma per un giorno a ricordare e celebrare la liberazione dal giogo fascista e dalla barbarie della guerra. La nostra Festa della Liberazione la vogliamo passare anche tra le pagine di chi ha saputo raccontare i drammi di quegli anni, magari anche impegnato nella lotta in prima persona. Ecco dunque cinque libri per riflettere sul significato di una ricorrenza tanto importante.

La mia anima è ovunque tu sia – Aldo Cazzullo (Mondadori)

Nella primavera del 1945 i tedeschi sono ormai costretti a ritirarsi abbandonando i frutti delle loro razzie. Nella città di Alba i tesori dei nazisti vengono spartiti tra il capo dei partigiani e un rappresentante della Curia. Più di cinquant’anni dopo, un misterioso omicidio scuote la città e sembra riportare a galla gli eventi di quei giorni febbrili.

Uomini e no – Elio Vittorini (Mondadori)

Il primo romanzo in assoluto sulla Resistenza, scritto quando la lotta per la liberazione dal nazifascismo era ancora in corso. Il capitano Enne 2 guida il suo gruppo di partigiani alla scoperta di una Milano spettrale e deserta, ormai abbandonata alle violenze e ai soprusi della guerra.

Il partigiano Johnny – Beppe Fenoglio (Einaudi)

Questo classico della letteratura partigiana ha il sapore di una moderna epopea. Il giovane Johnny, studente di letteratura inglese, decide di prendere parte alle azioni di guerriglia per difendere le sue amate Langhe dall’invasore nazista. Il romanzo s’ispira in larga parte alla biografia dell'autore.

Il sentiero dei nidi di ragno – Italo Calvino (Mondadori)

La guerra civile al tempo della Resistenza è narrata dal punto di vista di Pin, un bambino che osserva con stupore e con sinistra ammirazione le imprese compiute dai ‘grandi’. L’apparente sicurezza con cui affronta fascisti e partigiani cela in realtà un profondo disagio, quello dell’orfano di guerra abbandonato da tutti.

Partigiano Inverno – Giacomo Verri (Nutrimenti)

Un ragazzino innamorato, un giovane irrequieto e un pensionato mite e disorientato, sullo sfondo di una Resistenza raccontata in forma di epica contemporanea. Dal passato non arriva solo la storia narrata, ma anche il registro e la voce di un mondo lontano.

C’è un antifascismo un pò fascista. Scrive Piero Sansonetti su "Il Garantista". Esistono tre modi di concepire l’antifascismo, e quindi di celebrare il settantesimo anniversario della Liberazione, che cade sabato prossimo, 25 aprile.

Il primo è un modo freddo e storico. Che si limita a osservare la grandiosità di quella data che rappresenta la caduta del nazi-fascismo, e cioè di un fenomeno e di una leadership politica dell’Europa occidentale che trascinò l’intero continente sull’orlo del baratro, al limite della fine della civiltà. E’ talmente gigantesco l’obbrobrio politico creato dal fascismo e dal nazismo – e che ha avuto il suo apice nel razzismo e nello sterminio della popolazione ebraica e dei rom – che la sua sconfitta militare (in Italia sancita dall’ingresso a Milano dell’esercito anglo-americano) segna uno spartiacque nella storia del nostro paese e del continente.

Il secondo è il modo della retorica. Il più diffuso. L’antifascismo proclamato non come un valore ma come una ”appartenenza”. Una bandiera. L’antifascismo come luogo degli eletti, al di fuori del quale c’è solo feccia e vermitudine, e dunque chiunque non entri con baldanza e convinzione nel cenacolo antifascista, e non si sottoponga ai riti e alle giaculatorie, è condannato ad essere scacciato tra i reietti. Questo è l’antifascismo più diffuso. E’ l’antifascismo delle cerimonie, ed è una specie di sotto-ideologia, dai confini molto vasti -dalla vecchia Dc ai centri sociali – che ha permesso per anni alle forze politiche di sinistra di rinunciare ad una propria struttura politica – di idee e di progetto – perché questa struttura era sostituita dal pacchetto-già-pronto dell’antifascismo e della militanza antifascista. Dentro questo antifascismo non ci sono idee o valori: c’è ”identità”. Anzi, questo modo di concepire l’antifascismo è esso stesso ”identità”. E questa “identità”, siccome è molto debole, labile, perché non sia dispersa, è “militarizzata”.

Poi c’è un terzo modo di pensare l’antifascismo. Ed è quello di ricercare, di ricostruire e poi di affermare i suoi valori. Quali sono i suoi valori? Sono il rovesciamento delle caratteristiche più reazionarie del fascismo, e cioè delle caratteristiche che lo hanno portato alla condanna della storia. Proviamo ad elencarle. L’autoritarismo. L’illiberalismo. L’intolleranza e la richiesta di appartenenza. Il militarismo. Il pensiero unico. La violenza, fisica e culturale. L’arroganza. Il senso di superiorità. Il razzismo e la xenofobia. Lo statalismo. La repressione. Il disprezzo per lo stato di diritto. L’antifascismo del ”terzo tipo” è quello che trasforma in valori la lotta contro queste tendenze. Ed è un antifascismo attualissimo, perché queste tendenze non solo sono presenti, e radicate, nello spirito pubblico italiano di oggi, ma sono larghissimamente maggioritarie e prevalenti. E sono trasversali, uniscono destra e sinistra, così come fu trasversale il movimento fascista. Quasi tutte queste tendenze si ritrovano, esasperate, (ma in misura variabile) nel leghismo, nel grillismo, nel travaglismo. E si ritrovano anche, meno esasperate, ovunque. Il ”renzismo”, se lo vogliamo chiamare così, non è certo esente dalla retorica fascista, sia nei suoi aspetti autoritari (riduzione del parlamento a bivacco di manipoli …) sia nel suo linguaggio politico (spianiamo tutto, chissenefrega del dissenso, abbasso i vecchi evviva la giovinezza, se avanzo seguitemi…). E anche nella violenza della polemica politica.

Dei tre tipi di antifascismo che ho citato, il primo è scarsamente rilevante, il secondo è dilagante, il terzo è del tutto marginale. E come tutti gli antifascismi che si rispettano è quasi clandestino…Il problema drammatico è che l’antifascismo di secondo tipo, quello retorico e militarista, che ha dominato il dibattito politico durante tutto il tempo della prima e della seconda repubblica, oggi sta assumendo caratteristiche sempre più militariste, autoritarie e intolleranti, quasi sovrapponendosi allo stesso fascismo. E’ un antifascismo di tipo fascista. E tuttavia è l’unico antifascismo con diritto di parola. Se fino a qualche anno fa il suo limite era l’assenza di pensiero e il trionfo del conformismo, ora le cose si sono complicate, perché si è mescolato con i grandiosi populismi di destra e di sinistra di questi anni, ed ha subito un fortissimo degrado. Basta ascoltare le posizioni di gran parte del mondo politico e giornalistico sull’immigrazione. Sono posizioni che sempre più spesso “sdoganano” principi di tipo nazista. E alle quali non si oppone quasi nessuno, al di fuori della Chiesa cattolica. Oppure basta seguire le polemiche più diverse, su tanti giornali, e la carica di intolleranza e di rifiuto del dialogo, e di senso di superiorità che vi si trova. Mi ha colpito un articolo di Antonio Padellaro – persona mite e seria – pubblicato ieri sul “Fatto”. Giustamente Padellaro in quell’articolo rivendica il diritto ad essere “buonisti” e rivendica persino il valore della tolleranza contro quello dell’intransigenza. E una riga esatta dopo aver scritto questo, si ricorda che sta scrivendo sul ”Fatto” e si rivolge ai suoi avversari politici, che ha visto in un certo talk show, e li definisce la ”feccia di qualche zoo del Nord-est”. E’ questo il problema: a nessuno viene in mente che rivendicare la tolleranza e definire feccia chi dissente (a qualunque titolo e su qualunque posizione) non funziona.  E però ci avviamo a celebrare un 25 aprile in questo clima. Che non credo sia molto diverso da quello del 1922.

A chi il 25 aprile? Ai soliti noti (ma su Raiuno). Prima serata a rischio retorica con Saviano, Pif, Albanese, Paolini e Ligabue, scrive Maurizio Caverzan su "Il Giornale". Ci saranno tutti o quasi. Dite un nome e lo trovate. Fazio e Saviano, Albanese e Marco Paolini, Pif e Ligabue. E poi chissà quanti altri. Del resto, il momento è solenne, bisogna ammetterlo: settant'anni dalla Liberazione del 25 aprile 1945. Quindi, per l'occasione, Raiuno si traveste da Raitre o, se preferite, Raitre trasloca su Raiuno. Una grande serata unificante, dal titolo schietto e festoso: Viva il 25 aprile! col punto esclamativo. Una serata che avrà nella Piazza del Quirinale il cuore pulsante della celebrazione officiata da Fabio Fazio. «Perché le vere feste si fanno in piazza - recita il comunicato di Raiuno - e la piazza del Quirinale è la piazza di tutti». E ancora: «Il 25 aprile è una festa di compleanno e quest'anno ricorre il 70° compleanno della Libertà». Insomma, diciamola tutta, una grande serata a rischio retorica. Per la quale il servizio pubblico non ha lesinato sulle risorse. Ordunque, Fazio all'ombra del Quirinale, Pif in collegamento dalla Sicilia, Roberto Saviano da Montecassino, Marco Paolini ed Elisabetta Salvatori da Sant'Anna di Stazzema, Antonio Albanese da Alba, Ligabue e Francesco De Gregori in concerto da un'altra piazza di Roma. En plein. Dicono i beninformati che a volere la grande serata unificante sia stato il direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi. E che abbia orchestrato l'operazione in perfetta sintonia con Andrea Vianello, direttore di Raitre, con il quale peraltro l'intesa è consolidata dalle trattative sul caso Floris e dalla scelta di trasmettere Gomorra sulla Terza rete con lancio della coppia Fazio-Saviano, e non, per esempio, su Raidue. Secondo queste fonti il capo di Raiuno, Giancarlo Leone, avrebbe fatto buon viso a forza maggiore. E ora aspetterebbe di vedere come va il mezzo trasloco, il cambio di tasto sul telecomando con conseguente, probabile, spaesamento del pubblico. Tuttavia, non c'è tanto da stupirsi. Perché comunque, questa strana serata nasce da un equivoco che viene da lontano. Ovvero che la Liberazione della Seconda guerra mondiale e la Resistenza siano esclusive di una certa sinistra, più salottiera che militante, ma pur sempre sinistra (come se non esistessero partigiani non comunisti o azionisti). E, di conseguenza, che l'anniversario di uno dei momenti fondanti della Repubblica non possa essere gestito se non dai soliti noti. Ma siccome quest'anno il «compleanno della Libertà» è più solenne perché trattasi del settantesimo, cifra tonda, ci voleva la rete ammiraglia, il primo canale, la massima potenza di fuoco. Sarà davvero difficile restare alla larga dalla retorica.

Quest'anno torna la retorica. La Storia invece fa il ponte. Per la festa il diktat è archiviare il "revisionismo", scrive Matteo Sacchi su "Il Giornale". Ma la Resistenza quanto dura? La risposta di qualcuno è semplice, da corteo: «Ora e sempre Resistenza!». Viene da una poesia di Calamandrei, per carità, ma senza la dedica al generale Kesselring (che voleva un monumento dagli italiani) perde di senso. E così, a 70 anni dal 25 aprile, se uno sfoglia i giornali o va in libreria si trova davanti una serie di richiami alla lotta al nazifascismo che dà l'impressione che Kesselring prema di nuovo contro il baluardo alpino. Anzi, se in questi anni qualche tentativo di ragionamento più pacato lo si è fatto, la cifra tonda e l'inserimento della ricorrenza nel calendario del Comitato storico-scientifico per gli anniversari di interesse nazionale sono visti da qualcuno come l'occasione per tornare alla «Resistenza perfetta». Lo storico Giovanni De Luna lo teorizza nel suo volume intitolato proprio La resistenza perfetta (Feltrinelli). Dice di provare «un insopportabile disagio» quando si indaga sulle imperfezioni della Resistenza: «Dagli anni '90 in poi si è messa in moto una valanga di fango e detriti inarrestabile, alimentata da una storiografia punteggiata da aneddoti poco edificanti». Meglio mettere tutto sotto lo zerbino e buttarla in retorica, allora? Qualche esempio. A Modena lo scorso weekend c'è stato il Festival play , un poco resistenziale festival del gioco. Si è dovuto comunque colorirlo di «memoria». Si è giocato alla staffetta partigiana. Oppure a Radio Londra. Niente di male, però la caccia al tesoro che parte da dove si uccise Angelo Fortunato Formiggini e finisce alla lapide per i fucilati è un po' troppo. Meglio allora lo spiegamento di libri del Corriere della Sera che sino al 26 settembre proporrà letteratura partigiana. Promuovendo l'operazione con titoli tipo: «Raccontare la Resistenza, un impegno di libertà». E c'è anche un po' di confusione, visto che tra i libri resistenziali finiscono dei racconti di Mario Rigoni Stern che con la Resistenza hanno poco a che fare ( Aspettando l'alba ). Ma siamo alle solite, tutto è Resistenza, persino Rigoni Stern, volontario fascista, che scriveva: «Non vi è stata una guerra più giusta di questa contro la Russia sovietica». Certo, si dirà: ha cambiato idea mentre era in un lager tedesco, dopo l'8 settembre. Forse. Di sicuro il 25 aprile stava ancora cercando di tornare a piedi dalla Polonia, rientrò a casa il 5 maggio. Del resto qualsiasi cosa, in attesa del 70º, può essere «partigianizzata». Mettiamo che si decida di parlare di una mostra di Mario Dondero, come ha fatto La Stampa il 10 aprile. Dondero è un grande della fotografia. Fra le altre cose ha fatto il partigiano in Val d'Ossola, ma questo poco o nulla ha a che fare con i suoi scatti. Però il titolo diventa: «Dondero, la guerra all'ingiustizia del partigiano con l'obiettivo». L'intervistatore sentirebbe pure la necessità di denunciare «il revisionismo diventato senso comune». Meno male che il revisionismo è diventato senso comune: proprio La Stampa pubblica in prima pagina un «conto alla rovescia» per il 25 aprile a firma Paolo Di Paolo, scrittore «inviato nel 1945». L'inviato raccoglie a piene mani virgolettati d'epoca di Togliatti. E il quotidiano propina anche titoli equilibrati come: «Il momento della scelta tra barbarie e civiltà». Per non dire di come è stata strumentalizzata la lettera del presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Micromega . Di tutto ciò che ha scritto, nelle titolazioni di alcuni giornali come il Fatto , si è isolata (quando non forzosamente interpretata) solo la frase sull'evitare «pericolose equiparazioni tra i due campi in conflitto». Lo storico Angelo D'Orsi, sempre sul Fatto esulta per «la fine del “rovescismo” alla Pansa», e nella sua visione persino Luciano Violante, che osò «salutare i ragazzi di Salò», sembra un apologeta. Beh, certo ma quel che conta, chioserà qualcuno, è la tv! Iris, canale Mediaset dedicato al cinema, da oggi al 24 aprile, presenterà il ciclo «Storie di libertà», omaggio alla Resistenza. A commentare la rassegna, Fausto Bertinotti. Quanto ai titoli: Il Generale della Rovere , Il delitto Matteotti , I piccoli maestri ... E anche l'hollywoodiano Il mandolino del Capitano Corelli che, a essere sinceri, trasforma l'eccidio di Cefalonia in un polpettone romantico a cui forse bisognerebbe «resistenzialmente» ribellarsi. Raiuno invece imbastirà una serata affidata a Fazio. Ospiti i soliti noti: Saviano, Paolini, Albanese, Ligabue... Che sia un po' sbilanciata a sinistra? Sulle librerie sarebbe meglio non far parola. Oscar Farinetti, il patron di Eataly, in Mangia con il pane (Mondadori) racconta le avventure del padre Paolo Farinetti. Il comandante Paolo ha un curriculum bellico di tutto rispetto: liberò dalle carceri di Alba 22 detenuti politici. Ma la biografia si trasforma in una narrazione edulcorata. E Farinetti jr., quando può, si ritaglia anche uno spazietto per spiegare quanto è bella Eataly: «Non è un impero, è piuttosto un gruppo di lavoro di circa 4mila persone che si sbattono per celebrare la meraviglia dell'agroalimentare italiano». Insomma, resistere oggi è mangiare bene. Del resto a Milano si va dal «tutto è Resistenza» alla Resistenza a rischio di antisemitismo. La brigata ebraica non è gradita in piazza. Perché? Perché si fa resistenza anche a Israele. Abbastanza per far adirare anche il presidente della Fondazione Anna Kuliscioff, Walter Galbusera: «I veri partigiani... sono rimasti in pochi e i gruppi dirigenti non sempre hanno atteggiamenti costruttivi». Polemiche non dissimili si sono sviluppate anche a Roma. Dove c'è chi ha detto - e la presidente della Camera gli ha dato ragione - «si dovrebbe togliere la scritta “Dux” dall'obelisco del Foro Italico a Roma». Cancellare i nomi è un modo un po' strano di rievocare la storia. Ecco, la Storia? Quella il 25 aprile fa il ponte.

Giorgio Albertazzi: "Io, il duce, piazzale Loreto", scrive “Libero Quotidiano”. Sta per tornare il 25 aprile. E come accade tutti gli anni, torna la retorica della Liberazione. Prima sui giornali e poi sulle piazze. Uno dei quotidiani che si è portato avanti è Il Fatto Quotidiano, che dedica al 25 Aprile due pagine, una delle quali dedicata a una intervista a Giorgio Albertazzi. Che fu negli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale tra i fascisti di Salò. E su quanto accadde in piazzale Loreto ha un giudizio sicuramente controcorrente. "Piazzale Loreto fu solo macelleria messicana. Niente altro. Fu uno schifo, per chi l' ha voluto e chi l' ha portato a termine quel disegno. Ma non poteva essere evitato, non nel senso politico del termine, ma perché l' uomo è quella cosa lì. Un animale? Il peggiore degli animali". Lui non c'era, quel giorno a Milano: "Non ero in Italia. Io ero a combattere. Paradossalmente contro i tedeschi che erano i nostri alleati. Ma nella confusione di quei giorni ci trovammo a sparare ai tedeschi, in Austria, tra le montagne innevate. Senza più niente". La fama di fascista non me la sono mai scrollata di dosso. Andai a Salò come tanti ragazzi, convinto che lì si combattesse per l' Italia, ma con altro spirito, e soprattutto consapevole che in quel momento stavo dalla parte di chi già aveva perso". Finì due anni in carcere, per essere stato coi Repubblichini: "Come dissi in un' intervista all' Espresso nella sentenza del Tribunale militare che mi ha assolto in istruttoria dopo due anni di carcere preventivo, c' è scritto che ho messo in salvo 19 ebrei. Ma non l' ho mai raccontata questa cosa. Non mi andava. le mie responsabilità, seppur di ventenne, me le prendo tutte".

Il 25 aprile nei diari conservati all'archivio di Pieve Santo Stefano. Quel giorno di 70 anni fa a Milano raccontato dalle parole di chi era lì. Nove storie selezionate tra quelle conservate nell'archivio diaristico nazionale, scrive Nicola Maranesi su “L’Espresso”. Sono trascorsi settant’anni da quel mercoledì 25 aprile 1945. Il giorno della Liberazione, il giorno in cui l’Italia ha debellato il nazifascismo e chiuso l’oscura esperienza della Repubblica Sociale Italiana. Milano è stata e resta il luogo simbolo di quel passaggio storico. Una città che in pochi giorni ha vissuto gioie estreme e dolori estremi, distribuiti tra centinaia di migliaia di persone che tornavano ad abbracciarsi e altrettante che continuavano a uccidersi. Con le vittime e i carnefici a passarsi il testimone, in uno di quei momenti della storia in cui è impossibile tracciare un confine universale tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Per comprendere cos’è accaduto in città in quei giorni di 70 anni fa non esiste racconto più efficace di quello racchiuso nei diari e nelle memorie di chi c’era. Centinaia di questi sono conservati presso l’ Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano , in provincia di Arezzo. Una rapida perlustrazione di questo fondo in gran parte inedito lascia affiorare le voci dei protagonisti. Ne abbiamo scelte nove, che ci sembrano rappresentative di sentimenti e stati d’animo diversi e complementari.

A partire da quella dell’operaio della Compagnia generale elettricità Antonio De Palo ("Due fucilati") che il 24 assiste a uno degli ultimi crimini commessi dai fascisti, che “per impressionare le maestranze” fucilano due partigiani prelevati dal carcere di San Vittore nel piazzale antistante la sede della Compagnia. C’è poi quella della giovane studentessa di ragioneria Maria Rachele Ciccarelli (“Liberi? Sembra impossibile”), che riassume l’enorme impatto delle novità che si stanno abbattendo sulla vita di tutti con una semplice frase, pronunciata dal sanatorio dov’è in cura: “Liberi. Cosa vuol dire per noi liberi. Mi sembra impossibile”. Una libertà che sfugge a Rina Alberici ("Trentasette morti"), che nella sua testimonianza racconta ancora di esecuzioni sommarie, ma che vedono invertirsi le parti tra vittime e carnefici. Allo stabilimento Breda gli operai insorti hanno imprigionato il personale dirigente. Compilano una lista di capi d’accusa e si fanno giustizia da soli. Tra i reclusi c’è anche Aurelio, marito di Rina, che verrà risparmiato e tornerà a casa salvo, facendosi però strada tra i cadaveri di trentasette colleghi ammucchiati di fronte al cancello della fabbrica. Non rischierà la vita ma subirà una violenta aggressione la giovanissima Maria Luisa Torti ("Picchiata dai partigiani") che sarà picchiata e rasata dai partigiani per essersi rifiutata di baciare una lercia bandiera rossa. Sono gli episodi più tragici di una riconquista della città che annovera molte tappe pacifiche, come quelle che Antal Mazzotti ("Scene dalla Liberazione") e il membro del Comitato di liberazione nazionale Vella Folgore ("La riconquista di Milano") descrivono minuziosamente nei rispettivi diari. Sono i rovesci inaspettati che il partigiano ed ex repubblicano Luigi Mingozzi riassume alla perfezione nella sua biografia e nel racconto delle giornate che seguono il 25 aprile ("Vendette, festeggiamenti, amori"). Tutte queste storie di gente comune rappresentano tasselli che aiutano a comprendere la Storia. E a rispondere agli interrogativi. Come quelli che è lecito porsi al cospetto della compassione che prova il piccolo Mauro Pistolesi ("Più pietà che odio" ) pur trovandosi di fronte ai fascisti fiancheggiatori dei nazisti, responsabili dei delitti ai quali ha assistito. Come quello di cui parla un altro testimone, Claudio Cimarosti ("A otto anni ho visto il duce a testa in giù"), nella sua memoria. Claudio ha otto anni quando il 29 aprile il padre lo conduce a piazzale Loreto per vedere i cadaveri di Mussolini, Clara Petacci e dei gerarchi. “Come hai potuto pensare di portare un bambino?”, ha chiesto al genitore anni dopo. “Mi sembrò assolutamente normale portare anche te”, la risposta. “Tutti gioivano che il fascismo avesse fatto quella fine. Che fosse finita la guerra, le lotte civili, la dittatura. E mi sembrò giusto far partecipare anche te a questa gioia”.

"A otto anni ho visto il duce a testa in giù". A soli otto anni Claudio Cimarosti è già abituato a guardare la morte in faccia. Non solo quella che gli appare a piazzale Loreto nei volti del Duce, di Clara Petacci e dei gerarchi, al cospetto dei quali è posto dal padre senza alcun indugio. Tra partigiani assassinati e violenze verbali, Claudio può dire di aver bruciato presto le tappe della vita. Quel giorno in piazzale Loreto io c’ero. Prima ancora che fossero appesi a testa in giù alla pensilina del distributore di benzina, la notizia che Mussolini e la Petacci erano stati uccisi ed erano in piazzale Loreto si sparse per la città. Anche mio papà lo seppe, prese immediatamente la bicicletta, mi mise in canna e partimmo per piazzale Loreto. In piazzale Loreto c’era una folla enorme. Mio papà, con me per mano, tentò di avvicinarsi al punto dove c’erano i cadaveri di Mussolini, della Petacci e degli altri gerarchi, ma fu impossibile anche perché, ad un certo punto, la strada era stata completamente allagata. […] Poco dopo che fummo arrivati furono appesi a testa in giù alla pensilina di un distributore di benzina e noi potemmo vederli. Forse credo […] che quello non debba essere stato uno spettacolo molto edificante per un bambino di otto anni! E questo ebbi modo di dirlo a mio papà, una sera, chiacchierando, qualche anno prima che lui morisse. “Come hai potuto pensare – gli chiesi – di portare un bambino di otto anni a vedere dei cadaveri esposti in piazza?”. E lui mi diede ragione. “Oggi – mi disse – Non lo rifarei sicuramente, ma questo ti deve far capire che clima c’era in quel periodo, che aria si respirava in quei giorni. Tu sai che in vita mia non sono mai stato un esagitato, però quel giorno mi sembrò assolutamente normale portare anche te, perché quello era un avvenimento storico eccezionale, ma soprattutto perché tutti gioivano che il fascismo avesse fatto quella fine. Che fosse finita la guerra, le lotte civili, la dittatura. E mi sembrò giusto far partecipare anche te a questa gioia”. […] D’altro canto non era la prima volta che vedevo dei cadaveri. Era una cosa quasi normale in quel periodo. Una mattina io ed i miei amici, nel bel mezzo del parco Solari che dovevamo attraversare per andare alle scuole di via Ariberto, trovammo, steso in un prato, il cadavere di un partigiano. Evidentemente era stato ucciso nel corso della notte e giaceva là da ore senza che alcuno se ne curasse. Un’altra volta andammo a vedere due partigiani che erano stati fucilati a piazza Cantore. E di morti se ne sentiva parlare ogni giorno. Uccisi da entrambe le parti, partigiani e fascisti. E si sentiva parlare di gente arrestata, di persone sparite, si sentiva parlare di torture che avvenivano nelle carceri.

Trentasette morti. Madre del piccolo Pierpaolo e moglie di Aurelio, un dirigente della Breda, Rina Alberici ha lasciato una testimonianza autobiografica sul 25 aprile priva di entusiasmi. Nelle ore che accompagnano la Liberazione, ore che definisce “della caccia all’uomo, sanguinosa e fratricida”, un pericolo di morte minaccia la sua famiglia: Aurelio è stato sequestrato dagli operai insorti. Il diario di Rina Alberici (foto di Luigi Burroni)Io e Pierpaolo (il figlio di Rina, ndr) sembravamo due senza fissa dimora; la maggior parte del tempo lo passavamo per strada, scrutando qua e là in attesa di un arrivo. Un pomeriggio, guardando verso viale Umbria vidi stagliarsi nella luce fra gli alberi una sagoma e mi parve di riconoscere Aurelio. “Non è lui” mi dissi “Aurelio non viaggia in bicicletta”. Quell’uomo pedalava piuttosto forte tenendo il manubrio con una sola mano poiché nell’altra aveva una ciambella con coperchio per W.C. Scuotendo la manina Pierpaolo gridavo: “Guarda è papà, papà; Aureliooo” e scoppiai a piangere. Aurelio stava bene, non aveva né fame né sete; in quei tre giorni, rinchiusi nei sotterranei, mangiarono e bevvero come nababbi; non gli fecero mancare neppure il fumo. Secondo gli “aguzzini” si trattava degli ultimi pasti della loro vita. […] All’entrata in Milano degli americani gli operai misero in atto repentinamente la loro “rivolta”; già armati (un’organizzazione fatta a regola d’arte) presero possesso di tutto lo stabilimento (Breda, dove lavorava Aurelio, ndr) convogliando il personale dirigente o con alte cariche nei sotterranei che avevano funzionato come rifugi antiaerei. Il Comitato promotore disponeva della lista di coloro su cui pendevano i capi d’accusa; di mano in mano ne prelevarono quattro o cinque, ma non facevano più ritorno. Aurelio, fra i rinchiusi, quando sentiva l’appello gli sembrava che il cuore volesse scoppiargli. Ne furono prelevati una quarantina circa; non era difficile immaginare la fine che fecero. Il terzo giorno Aurelio si sentì chiamare, le gambe gli tremavano ed un incaricato gli disse che poteva andare a casa; su di lui non pendevano capi d’accusa. Non gli sembrò vero. […] Uscendo dal cancello dovette scavalcare circa 37 morti fucilati, abbandonati in mucchio per terra. La fretta e la paura non gli diedero la possibilità di riconoscerli; là si fucilava senza regolare processo. Presa una bicicletta qualsiasi incominciò a pedalare, ma visto un posto di blocco si fermò rifugiandosi in un negozio di servizi igienici e per non fare la figura del fuggiasco trattò l’acquisto della famosa ciambella.

Picchiata dai partigiani. Quando giunge il 25 aprile e la Liberazione Maria Luisa Torti ha una sola certezza. Il peggio è passato. Purtroppo sbaglia. Mentre osserva senza favori l’ingresso degli americani a Milano, è vittima di una ritorsione immotivata da parte dei partigiani. Il diario di Maria Luisa Torti (foto di Luigi Burroni)Era il giorno che era logico pensare che chiunque avrebbe come minimo avuto la forza di alzare la testa, di guardare avanti, perché ognuno di noi sopravvissuti potevamo dire “io ho già pagato!”. Invece io, proprio io, non avevo ancora finito di pagare. Il tempo, le ore non avevano misura, so che non era ancora del tutto buio [… so che la porta venne spalancata improvvisamente ed entrarono due partigiani, ovvero così si presentavano in quei momenti di caos, tutti coloro che avevano voglia di alzare la voce. Questi due ragazzi (perché non avevano più di sedici-diciassette anni) che conoscevo bene perché abitano due palazzi oltre il mio, prima buttarono all’aria la casa, cassetti e armadi in cerca di che cosa non so, perché infatti non presero nulla, poi guardandomi dissero “tu vieni con noi”. Ricordo solo le labbra di papà che erano diventate due fessure dipinte di bianco. I vicini di casa silenziosi che avevano riempito la stanza e io (ancora oggi per quanti sforzi faccia, non ricordo come scesi le scale, come mi trovai in quel piccolo giardino di quella villetta) io mi vedevo lontana, non vivevo in prima persona. C’era una macchina accanto a me da dove scendevano tanti partigiani, erano aggrappati alle portiere, e avevano tutti i capelli e la barba lunghi, e tutti avevano intorno al collo un fazzoletto rosso, e tutti cantavano continuamente fino a drogarsi col canto “…e bandiera rossa sempre vincerà…e bandiera rossa sempre vincerà…”. I due stupidini che mi avevano prelevata a casa dissero al compagno Lupo: “Questa è una repubblichina”. Dieci, cento mani mi spinsero, mi toccarono, mi spinsero, i bottoncini della camicetta bianca erano saltati ed il mio seno era semiscoperto. Ero una fanciulla di una figura meridionale bruna e prorompente, perciò maggiormente tutti erano eccitati. I due ragazzi che mi avevano portata non c’erano più; forse chi era più grande di loro e che mi conosceva sapeva che io non c’entravo per niente con tutto ciò, ma la voce del compagno Lupo mi portò alla realtà perché mi gridò: “Bacia la bandiera”. Davanti a me c’era una specie di tovaglia rossa, lercia, sporca, bagnata, strappata, puzzava di sudore e di sangue e il tessuto (non il simbolo) mi fece schifo e voltai la faccia…non l’avessi mai fatto! Il volto mi fu riempito di schiaffi, il primo mi colpì subito la bocca, mi si ruppe il labbro superiore e sentivo il sapore dolciastro del mio sangue, i mei capelli lunghi si sparpagliavano intorno al mio volto e ogni tanto sentivo: “Bacia la bandiera”. E io cretina continuavo a voltare la faccia finché i miei capelli, che mi coprivano il volto, e che mi entravano in bocca quando prendevo fiato per urlare di nuovo…improvvisamente il mio volto era libero. E i miei bei capelli neri e riccioluti, erano in terra più in là. E quelli ridevano e quello con la forbice che faticava a tagliare. E quelli che mi tenevano la testa. E io che urlavo e poi una voce forte che grida “Basta!”. Basta. […] Fui sollevata da terra e Glauco, un ragazzo che conoscevo da piccola ed ora già adulto, pulito, con gli occhiali i capelli normali e diventato qualcuno di importante durante la vita partigiana, presami per un braccio mi disse: “Stai tranquilla, è stato un errore…”.

L'altra Resistenza. Quella che nessuno vuole più ricordare. Il saggio di Ugo Finetti ricostruisce le vicende di militari e partigiani dimenticati Erano patrioti e lontani dal Pci, per questo nei libri di storia non c'è stato posto per loro, scrive Matteo Sacchi su "Il Giornale". Tra l'8 settembre del 1943 e il 25 aprile del 1945 (data ufficiale della Liberazione, anche si sparò ancora un bel po') chi ha combattuto per liberare l'Italia dall'occupazione tedesca supportata dalle forze (assolutamente gregarie) della Rsi? La risposta all'apparenza è molto semplice. In primo luogo gli anglo-americani e gli alleati, tra cui andrebbe citato il numerosissimo contingente polacco che arrivò a contare 75mila uomini. In secondo luogo le forze cobelligeranti italiane, il Corpo Italiano di liberazione, ovvero ciò che restava del regio esercito. Che crebbe di consistenza durante il conflitto per arrivare a contare 22mila uomini perfettamente armati e disciplinati. Poi le formazioni partigiane di diversa estrazione ideologica e politica. Nel '43 i loro organici erano ridottissimi. Nell'aprile del '44 secondo la maggior parte delle fonti contavano circa 22 mila uomini. Le formazioni comuniste erano le più numerose, ma ben lontane da rappresentare la maggioranza assoluta delle forze partigiane. Quello fatto sin qui potrebbe sembrare un bigino inutile ed ovvio. Però a settant'anni dal 25 aprile del '45 l'immagine che ci viene regalata della Liberazione è ancora molto distorta. Ideologizzata. Il contributo delle truppe regolari italiane marginalizzato, i partigiani raccontati come se avessero tutti al collo un fazzoletto rosso (ma rosso comunista, perché anche sui socialisti già si potrebbe storcere il naso), gli anglo-americani rimossi, anzi quasi colpevoli di averci negato la possibilità di essere inclusi nel Patto di Varsavia. È del resto di qualche giorno fa un titolo delle pagine di Repubblica che recitava così L'Armata Rossa che fece la Resistenza. Racconta le vicende dei soldati sovietici che fuggiti ai tedeschi cooperarono coi partigiani. Sulla loro consistenza numerica non occorre fare molti conti, nel testo si spiega che se ne sa poco, ma il titolo fa ben capire dove si vuole andare a parare. Se si vuole sfuggire a questo clima, che ha stravolto la storiografia per decenni, è di aiuto il testo di Ugo Finetti che proponiamo in allegato con il Giornale nella nostra biblioteca storica, La Resistenza cancellata (pagg. 376, euro 7,60 più il prezzo del quotidiano). Finetti, ex giornalista della Rai con all'attivo moltissime inchieste e reportage, ricostruisce in questo saggio l'uso politico della Resistenza fatto nel Dopoguerra. Spiegando quanto quest'uso politico abbia fatto male alla stessa Resistenza. Per usare le sue parole: «Quando l'antifascismo diventa un marchio di cui una minoranza pretende di avere l'esclusiva, e si accusa quotidianamente di fascismo la maggioranza, si scava un fossato tra antifascismo e opinione pubblica». Ma soprattutto Finetti dà largo spazio alla storia dei resistenti dimenticati. In prima istanza i militari. E rende loro giustizia dopo decenni di oblio: «La resistenza non fu infatti una guerra civile tra due élites - i rivoluzionari comunisti e gli irriducibili di Salò - ne ebbe come caratteristica la lotta di classe. Vide alla nascita come protagonisti militari guidati da ufficiali “legittimisti”... Le prime formazioni hanno come denominazione richiami risorgimentali e gli Alleati ne favorirono la nascita. Il Partito comunista, dal 25 luglio 1943 fino all'aprile 1944, svolse un ruolo del tutto secondario». E l'opera di ricerca di Finetti è pregevole soprattutto quando aiuta a riscoprire personaggi importanti come il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, che fu il vero organizzatore della lotta antitedesca a Roma. Partecipa all'inutile tentativo di difendere la città sotto l'attacco tedesco. Si dà alla clandestinità. Il 10 dicembre 1943, quale comandante riconosciuto dal governo Badoglio, dirama a tutti i raggruppamenti militari nell'Italia occupata dai nazifascisti la circolare 333/op, nella quale vengono indicati gli obbiettivi dell'organizzazione clandestina e le direttive per la condotta della guerriglia. Le sue parole d'ordine erano: «guerra al tedesco et tenuta ordine pubblico». Cosa che lo metteva in forte concorrenza con i Gap (Gruppi di azione patriottica) e getta una luce sinistra sul suo arresto e la sua fucilazione alle fosse ardeatine. Ma non è un caso isolato. Anche Edgardo Sogno, medaglia d'oro della Resistenza, contatto principale di Radio Londra tra i resistenti italiani, è stato ostracizzato. Stessa sorte per Alfredo Pizzoni che subito dopo l'8 settembre 1943, pur non appartenendo ad alcun partito politico, fu scelto per presiedere il Cln lombardo, che nel febbraio 1944 divenne il ClnaI. Nei libri di storia non compare, troppo borghese. Finetti rende giustizia a quei patrioti, come i militari che resistettero alla Wehrmacht mentre per colpa del Re e di Badoglio il Paese finiva allo sbando, che sono stati rimossi dalla memoria perché non omologabili. È revisionismo? O il revisionismo di comodo è stato il precedente oblio?

Non erano tutti comunisti. La Resistenza fuori dal mito. Una lunga mistificazione, scrive Francesco Perfetti su "Il Giornale". Vent'anni or sono, nel 1995, Renzo De Felice, dopo aver ricordato che la Resistenza era stato «un grande evento storico» che nessun revisionismo sarebbe riuscito a negare, richiamò l'attenzione sul fatto che i numeri di quanti avevano preso parte attiva alla lotta partigiana erano ancora controversi. Ma, quali che ne fossero le dimensioni, quel che sembrava certo allo studioso, era il fatto che, al contrario di quanto si sosteneva generalmente, non era possibile «definire la Resistenza un movimento popolare di massa» se non nelle settimane che precedettero la resa dei tedeschi e la vittoria delle truppe alleate. Del resto anche uno dei suoi principali protagonisti, il generale Raffaele Cadorna aveva scritto nelle sue memorie che, al momento della liberazione, il numero dei partigiani era cresciuto «a dismisura» e aveva aggiunto: «Un semplice fazzoletto rosso al collo bastava a tramutare un pacifico operaio o un contadino in partigiano persuaso di avere acquistato larghe benemerenze nella liberazione della patria». L'amara verità è che la grande maggioranza degli italiani, ormai stanca della guerra, aveva preferito evitare di schierarsi in maniera palese a favore della Resistenza o della Repubblica sociale italiana. Il sentimento collettivo era andato coagulandosi, non per opportunismo ma come scelta di «mera necessità» e come «male minore», in una sorta di «zona grigia» costituita essenzialmente da «quanti riuscirono a sopravvivere tra due fuochi, impossibile da classificare socialmente, espressa trasversalmente da tutti i ceti, dalla borghesia alla classe operaia». La tesi di De Felice sembrò dirompente perché metteva in discussione non già la Resistenza in quanto tale ma piuttosto il suo uso politico e ideologico, la sua strumentalizzazione. Quello dello storico era, in realtà, un invito a rileggere e studiare la Resistenza al di fuori del «mito» che ne era stato accreditato soprattutto ad opera dei comunisti. Questi ultimi erano riusciti a far prevalere l'idea non solo di una grande rivolta popolare di massa ma anche, e soprattutto, di un fenomeno unitario a guida comunista. Cosa che non era affatto vera perché alla Resistenza, nelle sue varie fasi, presero parte, oltre ai comunisti e agli azionisti con le brigate «Garibaldi» e «Giustizia e Libertà», anche esponenti di altre forze politiche, dai cattolici ai socialisti, dai liberali ai monarchici inquadrati in brigate e formazioni autonome, talora in dissenso sulle scelte operative. Per non dire, infine, del contributo alla lotta di liberazione da parte dei militari italiani del Corpo italiano di Liberazione e di quell'altra e coraggiosa forma di resistenza rappresentata dal rifiuto di collaborare con i tedeschi da parte dei soldati internati nei campi di concentramento, gli Imi dei quali fece parte anche Giovannino Guareschi. Alle origini del processo di mistificazione storica della Resistenza c'era un preciso disegno portato avanti dal Partito comunista e, in via subordinata, dal Partito d'azione, quello di accreditare che la Resistenza fosse il vero e il solo evento rivoluzionario della storia dell'Italia unita. Il che spiega, per inciso, il motivo per il quale le formazioni autonome, quelle cioè che facevano riferimento a forze politiche diverse dal Pci o dal Pda, fossero guardate con diffidenza se non addirittura con ostilità. Rientra, per esempio, in questo quadro - e vi entra in maniera emblematica delle lotte intestine all'interno del movimento partigiano - il caso dell'eccidio della malga di Porzûs, dove un gruppo di partigiani della Brigata Osoppo di orientamento cattolico e laico-socialista fu barbaramente liquidato da parte di partigiani comunisti. Spiega, ancora, perché si dovesse glissare sul contributo militare, importante ed anzi essenziale, degli Alleati alla liberazione del Paese e perché si inventasse quella dubbia categoria interpretativa della Resistenza come «secondo Risorgimento» giustamente criticata da un grande ed equilibrato storico come Rosario Romeo. E spiega, infine, come, per molto tempo, la storiografia ufficiale della Resistenza, quella che De Felice avrebbe definito la vulgata, si fosse preoccupata non soltanto di minimizzare, di fatto sottovalutandola, la partecipazione delle componenti non comuniste all'epopea resistenziale. Quando, nel 1991, venne pubblicato il volume di Claudio Pavone dal titolo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza , sembrò che si aprisse una stagione completamente nuova rispetto, per esempio, al classico libro, la Storia della Resistenza , che uno storico militante come Roberto Battaglia aveva scritto, quasi a caldo e sotto la guida ispiratrice di Luigi Longo, presentando, in chiave marxista, la Resistenza come una guerra di popolo egemonizzata e guidata dai comunisti. La novità stava, in primo luogo, nel recupero, in ambito storiografico, della nozione di «guerra civile» prima sdegnosamente rifiutata e utilizzata solo nella polemica politica e in talune ricostruzioni provenienti dall'ambiente neofascista. Adesso la «guerra civile» non era più rifiutata, ma diventava un aspetto della Resistenza accanto ad altri due, quelli di una «guerra patriottica» e di una «guerra di classe». Ma si trattava di una novità apparente perché, al fondo del discorso, rimaneva in piedi l'equazione che tendeva a collegare l'idea della Resistenza con l'idea di una rivoluzione politica e sociale. Non è un caso che la ponderosa, e pur importante, opera di Pavone liquidasse la vicenda di Porzûs in una nota e sottovalutasse il contributo delle componenti non comuniste o azioniste della Resistenza: come dimostra, per esempio, il fatto che le citazioni del nome di un liberale come Edgardo Sogno si contino sulla punta delle dita. Il proposito comunista di accreditare l'immagine di una Resistenza unitaria guidata dai quadri dirigenti del partito comunista e farne il fondamento legittimante dello Stato democratico post-fascista era funzionale al disegno di Palmiro Togliatti, e dei suoi accoliti, di conquistare il potere attraverso l'affermazione della «democrazia progressiva». Era un proposito di natura «pedagogica» e politica al tempo stesso che si risolveva, però, in un vero e proprio «tradimento» della Resistenza stessa e dei suoi valori. La storia della Resistenza raccontata dalla vulgata comunista e azionista è contenuta in un libro ideale pieno di pagine stracciate e cancellate che solo da poco tempo alcuni volenterosi ricercatori stanno tentando di restaurare o ricostruire. È la storia di una «Resistenza rossa» che si sarebbe affermata, come sostenne Luigi Longo durante le celebrazioni del primo decennale, vincendo le opposizioni di cattolici e liberali e di tutti quegli antifascisti che, troppo legalitari, ne boicottavano il carattere di movimento popolare di massa e ne ostacolavano l'evoluzione in senso classista. Ma è una storia falsa che ha avuto successo soltanto grazie all'egemonia culturale gramsci-azionista che per molto tempo, per troppo tempo, ha condizionato le menti degli intellettuali italiani. È ora di riscrivere la storia vera della Resistenza, con le sue luci e le sue ombre, per assegnarle il posto che, legittimamente, le spetta. Al di là e al di fuori del mito. E, soprattutto, delle speculazioni politiche.

La guerra dei sette giorni dei «repubblichini» traditi. Dopo il 25 aprile del 1945, i tedeschi sacrificarono gli italiani per proteggere la propria ritirata verso il Brennero. E per gli uomini della Rsi il conflitto proseguì fino al 2 maggio, scrive Rino Cammilleri su "Il Giornale". Nel 70º anniversario del «25 aprile» l'editore D'Ettoris ha pubblicato un libro che mancava: Il gladio spezzato. 25 aprile-2 maggio 1945: guida all'ultima settimana dell'esercito di Mussolini (pagg. 144, euro 14,90). L'autore, Andrea Rossi, dottore di ricerca in Storia Militare, colma una lacuna. Sì, perché, come dice Francesco Perfetti nella prefazione, permane «la convinzione che il 25 aprile 1945 siano cessate definitivamente le ostilità in Italia». Ma «il conflitto durò ancora per una settimana provocando perdite fra militari e civili almeno fino al 2 maggio 1945. Questi sette giorni sono stati poco esplorati dalla storiografia». Con una precisione da consumato studioso, Rossi ci informa nel dettaglio su ciò che avvenne in quella settimana fatale. Che conobbe il caos, le diserzioni, il «si-salvi-chi-può», i voltagabbana, ma anche pagine di autentico valore e di lotta disperata. Già, perché fu subito chiaro, a chi voleva vederlo, che «i tedeschi intendevano sacrificare gli italiani per proteggere la propria ritirata verso il Brennero», cosa che fin dal febbraio 1945 era stata decisa in una riunione a Parma dei vertici militari tedeschi. Del resto, che cosa questi pensassero degli italiani era stato bene espresso in un giudizio del generale Eugen Ott, ispettore della Wehrmacht per le divisioni della Rsi: «Conoscendo la qualità militare e la mentalità dell'italiano \ non ci si può aspettare molto da questa truppa». Così, i repubblichini furono praticamente lasciati a vedersela con l'avanzata anglo-americana e i partigiani. E i fedeli del Duce sapevano bene che questi ultimi non erano inclini a fare prigionieri. «Come bene aveva intuito Renzo De Felice (e, a onor del vero, assai prima Beppe Fenoglio) nella sua opera postuma e, purtroppo, incompleta, fu guerra civile “senza se e senza ma”, e il solo fatto che se ne parli a quasi settanta anni di distanza accalorandosi come se tali eventi fossero di attualità, dimostra a volumi - se ancora ce ne fosse bisogno - che come tale essa è percepita ancora oggi da molti italiani». Fenoglio nel 1949 aveva intitolato una sua prima raccolta di scritti Racconti della guerra civile , ma l'editore Einaudi l'aveva modificato in Racconti barbari . Il termine «guerra civile» dilagò solo dopo la pubblicazione, nel 1991, del libro di Claudio Pavone Una guerra civile (Bollati Boringhieri). In quei giorni parossistici il destino dell'agonizzante repubblica fascista e delle sue forze armate era l'ultimo dei pensieri non solo dei tedeschi, ma anche degli Alleati, per i quali l'Italia rappresentava un teatro di guerra secondario nello scacchiere europeo. Inoltre «i leader occidentali (Winston Churchill su tutti) temevano una replica dell'amara esperienza greca, dove alla liberazione era seguita una feroce guerra civile fra nazionalisti e comunisti nella quale le truppe britanniche erano rimaste pesantemente coinvolte». La guerra era ormai praticamente conclusa e l'evitare un insensato sacrificio di vite umane fu il problema che occupò le lunghe trattative in Svizzera tra Karl Wolff, plenipotenziario delle forze armate tedesche, e Allen Dulles, responsabile dell'Oss (Office of strategic service), che negoziarono la resa tedesca in Italia. Ma che fare dei prigionieri repubblichini? «Questi ultimi erano considerati dagli Alleati alla stregua dei tedeschi, ossia reparti combattenti i cui componenti ricadevano pienamente sotto la convenzione di Ginevra». Così non la pensava Giovanni Messe, capo di stato maggiore del regio esercito, per il quale, essendo l'Italia di Vittorio Emanuele III ufficialmente in guerra con la Germania dall'ottobre 1943, i soldati di Salò erano colpevoli di tradimento per aver collaborato in armi «con il tedesco invasore». E dire che il Messe era stato a suo tempo decorato dai tedeschi con la croce di ferro di prima e seconda classe e, per giunta, era l'unico Maresciallo d'Italia ad avere ottenuto l'ambitissima Ritterkreuz che neanche Graziani, capo delle forze armate repubblichine, aveva. Per quanto riguardava il Cln, questo aveva stabilito l'instaurazione di tribunali straordinari che avrebbero dovuto giudicare i «collaborazionisti». Il Cmrp (Comitato militare regione Piemonte), da parte sua, decise di passare subito per le armi tutti coloro che avessero militato nelle forze armate di Salò. Né i fascisti, d'altro canto, si comportavano in modo granché diverso con i partigiani catturati. I marò repubblichini furono abbandonati dal generale tedesco Eccard von Gablenz, che contrattò il ritiro dei suoi uomini con i partigiani senza dirlo agli italiani. Questi, decimati dall'aviazione alleata durante la fuga, il 26 aprile 1945 decisero di sciogliersi. Tutti a casa (forse). Quelli di Brescia, responsabili di una rappresaglia, nello stesso giorno «con poca accortezza» si consegnarono al Cln di Lumezzane. Con il risultato che il loro comandante, tenente colonnello Mario Zingarelli, e venticinque marò furono fucilati il 10 maggio. E così via. Italiani contro italiani. Più guerra civile di così...

Ecco le memorie inedite dei "repubblichini" di Salò. I ragazzi di Salò erano spesso giovani che avevano perso tutto e mossi da ideali patriottici. Ecco le loro testimonianze, scrive Roberto Chiarini su "Il Giornale". Parafrasando Carl Schmitt, si potrebbe affermare che, se nello stato di eccezione si costituisce una nuova legittimità, della legittimità in quello stesso passaggio si definiscono anche i principi fondativi. Il nostro stato d'eccezione è stata la Liberazione. Si fissarono allora i criteri ispiratori del nuovo Stato. Il 28 aprile è il giorno in cui i partigiani passarono per le armi l'artefice della dittatura, l'8 maggio quello in cui finì la guerra in Europa, ma è il 25 aprile, giorno della sollevazione di Milano contro l'occupante nazista e il collaborazionista fascista, che è stato assunto come data simbolo della nuova Italia. La Repubblica, nata dalla Resistenza, ha fatto dell'antifascismo lo statuto valoriale che ha tracciato il confine della legittimità democratica. Ne è derivato che l'assolutizzazione della «giusta causa» dei partigiani contro la «causa sbagliata» dei militi della Rsi abbia portato ad assolutizzare uniformandole anche le ragioni della lotta ingaggiata dai due campi nemici: delle avanguardie consapevoli al pari delle maggioranze gregarie. Quel che vale per un giudizio storico-politico complessivo sulla Liberazione, non è detto però valga anche come criterio nella considerazione delle singole vicende personali. Non tutti i «ragazzi di Salò» furono volontari. Non tutti furono fascisti irriducibili. Non tutti furono sanguinari, anche se tutti si caricarono sulle spalle la responsabilità di sostenere la causa di un'Italia e di un'Europa destinate a divenire baluardi di regimi totalitari e razzisti. Del fascismo repubblicano disponiamo di una ricca letteratura fatta di memoriali o di ricostruzioni redatte per lo più da gerarchi o da personaggi in vista del regime, tutte ovviamente più o meno auto-assolutorie. Meno conosciuti sono, invece, i percorsi esistenziali, morali, alla fine anche inesorabilmente politici dei - chiamiamoli - «giovani qualunque», seppure essi costituissero la gran massa di quanti vestirono la divisa saloina. Per quel che si è riusciti a indagare, il mondo dei giovani dell'esercito di Salò risulta più variegato e complesso di quanto sommari giudizi abbiano sinora lasciato intendere. Ecco due casi a nostro giudizio istruttivi.

Umberto, un ragazzo di Padova non ancora diciottenne, in una giornata di sole della primavera del 1944 va con gli amici a giocare la sua solita partita al pallone. Torna a casa e scopre di essere diventato orfano di entrambi i genitori e per giunta anche ridotto sul lastrico. Non c'è più nemmeno la sua casa, colpa di un bombardamento. Non sapendo a quale santo votarsi, non trova di meglio per campare che arruolarsi in Marina, nelle file della X Mas. Viene dislocato in Friuli, dove nel corso di uno scontro finisce prigioniero dei partigiani. Liberato dai suoi commilitoni, è trasferito sul Senio, nei pressi di Castel Sampietro. Qui è impiegato in rischiose azioni sulla linea del fronte. Ferito nel corso di un bombardamento, dopo un trasferimento avventuroso, è ricoverato prima nell'ospedale di Argenta, poi in quello di Verona. Le sue condizioni peggiorano per le molteplici, gravi ferite riportate. È salvato in extremis da un ufficiale medico tedesco che gli asporta decine di schegge. Non ha ancora finito la convalescenza che si vede costretto a fuggire dall'ospedale per non finire nelle mani dei partigiani ormai alle porte di Verona. È a Padova, a casa di una zia dove si sta curando le ferite, quando viene sorpreso dal 25 aprile. Fugge. Tenta inutilmente di rifugiarsi in Francia. Ripiega allora su Bardonecchia. Qui riesce a sopravvivere e soprattutto ad occultare il suo passato da repubblichino facendo il garzone da un fornaio comprensivo. Sospettato di nascondere un passato da milite della Rsi, alla fine del 1945 lascia Bardonecchia per Padova, dove riesce ad arruolarsi nella Guardia di Finanza. Conduce poi una vita nell'ombra, ben guardandosi da compiere atti che facciano riesumare il suo passato compromettente. È la figlia a metterlo nei guai sposando - parole sue - «un comunista» che non manca di riaprire la ferita. Ma il colpo più duro lo riceve allorché l'adorata nipotina, di ritorno dalla scuola, lo apostrofa corrucciata: «Ma tu nonno è vero che sei un massacratore di partigiani?». L'anziano «ragazzo di Salò» scoppia in un pianto sconsolato. Prende allora la decisione di registrare a futura memoria la sua esperienza di combattente della Rsi. Scopo - confessa - lasciare testimonianza perché un giorno la nipotina, divenuta adulta, possa rendersi conto che suo nonno non si è macchiato di delitti né di azioni infamanti.

Tre amici ricevono la chiamata alle armi dall'esercito di Salò. Hanno tutti un'educazione fascista ma nessuno è un ardente mussoliniano. Pur senza entusiasmi, accettano di arruolarsi. Uno, Vaifro, finisce sul fronte orientale dove troverà la morte. Gli altri due, Amilcare e Lucio, sono inviati sul fronte occidentale, in Liguria, in due unità diverse. In occasione di una licenza, Lucio riceve dalla madre del commilitone una lettera e un pacco da consegnare all'amico. Al suo rientro, si presenta alla caserma di Amilcare ma, non appena fa il suo nome, suscita allarme: viene a sapere che ha disertato unendosi a una formazione partigiana. Temendo che nella lettera siano presenti indicazioni compromettenti, Lucio decide di consegnare ai superiori solo il pacco. L'amico finirà comunque catturato, torturato e ucciso. Lucio invece finisce la guerra sempre sotto le insegne della Rsi. A fine guerra, tornando al paese teme di finire oggetto di una qualche attenzione non benevola da parte dei partigiani del posto. Non gli succede invece nulla di tutto questo. La madre di Amilcare, sorella del sindaco socialista insediatosi dopo la Liberazione, lo mette sotto la sua protezione. Mostra in tal modo la sua riconoscenza per il gesto con cui Lucio, tenendo per sé la lettera a suo tempo consegnatagli, aveva coperto la fuga dell'amico. Da allora fino alla morte, avvenuta qualche anno fa, Lucio non manca mai di onorare ogni anno nel giorno dei morti con una corona di fiori la memoria dei suoi due amici, Vaifro e Amilcare, l'uno repubblichino, l'altro partigiano.

Albero della Vita in piazza Loreto, ma l'Anpi: "Offusca ricordo dei partigiani". Secondo il comune, la torre simbolo di Expo potrebbe finire in piazzale Loreto, "per cancellare un momento storico controverso". I partigiani insorgono: "Confonderebbe le idee", scrive Ivan Francese su "Il Giornale". Ha sempre diviso e continua a dividere gli animi dei milanesi e degli italiani, piazzale Loreto.  Prima teatro della barbara esposizione dei cadaveri di quindici partigiani, fucilati nell'agosto 1944 dalle forze della Repubblica di Salò e quindi lasciati esposti al pubblico ludibrio; poi, nell'aprile 1945, testimone dell'altrettanto barbara esposizione dei cadaveri di Mussolini, Claretta Petacci e altri gerarchi, in quella che lo stesso comandante partigiano Ferruccio Parri definì un'oscena "macelleria messicana". Da novembre piazzale Loreto potrebbe ospitare l'ormai celeberrimo "Albero della Vita" progettato per diventare il simbolo di Expo. La torre di 35 metri di Marco Balich potrebbe venire trasferita nella piazza alla fine di corso Buenos Aires su proposta dell'assessore al Verde Chiara Bisconti. "Per cancellare un momento storico controverso con un inno alla vita", spiega la Bisconti. Una proposta che ha subìto scatenato le ire dei partigiani: "Sarebbe una nota stonata che creerebbe solo confusione - protesta il presidente milanese dell'Anpi Roberto Cenati - Il simbolo di piazzale Loreto c'è già ed è il monumento che ricorda i 15 partigiani, che da tempo chiediamo che venga restaurato. L'installazione di Basich resti sul sito di Expo". Più favorevole, invece, il centrodestra. Non si oppone, ad esempio, l'ex vicesindaco Riccardo De Corato, che però avverte: "Prima dovremmo mettere anche una targa che ricordi che qui è stato appeso Mussolini".

NON APRITE QUELL’AZIENDA. PER ESEMPIO UNA CASA EDITRICE. LA BUROCRAZIA VI UCCIDERA’.

Non aprite quella casa (editrice). Se no la burocrazia vi ucciderà. Tasse, regole complicatissime, distribuzione bloccata e lungaggini Lanciarsi nel mercato editoriale è un'impresa titanica. Parola di esperto, scrive Gianluca Barbera su “Il Giornale”. Volete aprire una casa editrice? Vi hanno detto che oggi fare impresa è più facile? Avete prestato fede alle promesse di Renzi di ridurre la burocrazia e le tasse? Alle parole di Monti quando assicurava che i giovani avrebbero potuto costituire una società con un euro? Se avete creduto a tutto questo avete vinto il Premio Babbeo dell'Anno. La verità è che chi vuole fondare una casa editrice deve affrontare non solo un surplus di burocrazia e costi, ma anche rischiare di finire in un reparto di Neuropsichiatria. Partirò da un indovinello. Giovanni, Marco e Paola vogliono aprire una casa editrice. Su suggerimento del commercialista (figura immancabile della contemporaneità, come il prete nell'Ottocento) optano per una società a responsabilità limitata, 10mila euro di capitale sociale (il minimo consentito). Dopo aver depositato in banca i tre decimi del capitale previsti dalla legge, si recano dal notaio, firmano l'atto costitutivo e, dopo aver pagato l'onorario (non meno di 1800 euro), si sentono dire: «C'è però un piccolo problema. Per ottenere la partita Iva e l'iscrizione alla Camera di Commercio, come la legge impone, bisogna disporre di una PEC (casella di posta certificata). Ma per ottenere una PEC occorre avere già la partiva Iva». I tre si scambiano un'occhiata fra l'incredulo e il divertito. «Ci sta dicendo che per ottenere la partita Iva dobbiamo avere la PEC e per ottenere la PEC dobbiamo avere la partita Iva?». «Proprio così» risponde il notaio allargando le braccia. «E allora come si fa?» domandano allibiti. Inizia un balletto di telefonate: il notaio parla col commercialista, il commercialista coi tre aspiranti editori, questi con una società che fornisce PEC, ma non se ne viene a capo. I ragazzi perdono la pazienza: «Non saremo certo i primi! Come fanno gli altri?». Dopo un attimo di esitazione: «Purtroppo sono le nuove disposizioni di legge, e una soluzione non c'è... Ognuno trova il modo di arrangiarsi come può... Basta individuare l'anello debole della catena e trovare una scappatoia». E ora, che fare? Come sapete, con un po' di buona volontà in Italia una soluzione si trova sempre. Lascio al lettore scovare la soluzione. Ma questo, ovviamente, non è che il principio. Perché un istante dopo il notaio aggiunge che, PEC o non PEC, senza il supporto di un commercialista non può inoltrare richiesta di partita Iva. E infine ricorda loro che devono saldare con un assegno perché il pagamento deve essere tracciabile e dunque serve un conto in banca. Riassumiamo: notaio, commercialista, banca. Restano solo il geometra e l'avvocato e poi non manca nessuno. Ma il peggio deve venire. Il giorno dopo, col morale sotto i tacchi, i tre si recano dal commercialista, che presenta subito il conto: 355 euro per l'iscrizione nel registro delle imprese, 1.480 per la comunicazione d'inizio attività alla Camera di commercio, 395,17 per la vidimazione dei libri sociali, 115,80 per la famosa PEC, un importo variabile per l'iscrizione all'Inps. E naturalmente c'è l'onorario del commercialista di cui tenere conto. I ragazzi mettono mano al portafogli e a fine giornata si rendono conto che, prima ancora di aver cominciato a lavorare e a produrre qualcosa, il capitale sociale si è già quasi dimezzato. E non è finita. C'è da farsi assegnare il codice Isbn (quello che trovate sul retro di copertina dei libri), indispensabile per commercializzare le loro pubblicazioni: costo dell'operazione 292,80 euro. C'è poi da registrare il marchio: altri 245 euro, oltre alla pazienza di cui ci si deve armare per far fronte all'indolenza e ignavia dei funzionari dell'ufficio marchi e brevetti, distaccato presso la Camera di commercio. E poi c'è la banca presso la quale vi recherete per aprire il conto: vi farà cascare dall'alto ogni cosa, vi chiederà di sottoscrivere un documento chiamato «antiriciclaggio» di cui nessuno pare capire l'utilità (se riciclate denaro, non sarete così stupidi da dichiararlo). Dovrete rispondere a un fuoco di fila di domande ed esibire una quantità di documenti di cui sul momento non disporrete e per ottenere i quali dovrete rivolgervi nuovamente al notaio e al commercialista. E poi naturalmente la società andrà censita e se volete operare con l'home banking bisognerà fare richiesta di un codice operativo. Altro tempo, altri costi. Se per di più avete fatto domanda per un piccolo fido, vi aspettano decine di firme da apporre. E guardatevi bene dal cambiare la sede sociale: sarebbero altri 380 euro alla Camera di commercio. Ma ora finalmente si parte, direte voi. Certo. Ma tenete presente che il proprietario dell'ufficio che avrete affittato vi chiederà una lauta caparra più il primo mese o trimestre anticipato. E ve la dovrete vedere coi tempi della Telecom per l'allaccio delle linee telefoniche e dell'Adsl, con la società elettrica, con quella del gas, con le loro arzigogolate procedure di attivazione, con le ore di attesa quando vi rivolgerete ai loro numeri verdi. Imparerete a convivere con adempimenti burocratici pressoché quotidiani, in un quadro normativo che cambia ogni anno in peggio, con una sfilza di tasse da far accapponare la pelle: Iva, Ires, Irap, Tari, Tasi o Tares o Tirsu o Trise (o come diavolo si chiama), ritenute d'acconto, acconti su imposte future, contributi previdenziali, tasse camerali, tasse annuali sui libri sociali, costi per la frequenza obbligatoria a corsi di primo soccorso e sicurezza sul lavoro (e relativi aggiornamenti periodici). E poi il famigerato Entratel, il modello 770, il redditometro, lo spesometro, la nuova Certificazione Unica (centinaia di pagine da stampare e spedire in triplice copia, alla faccia dell'informatizzazione e delle campagne per il risparmio della carta). E ancora la tenuta del libro dei verbali, il registro delle tirature, il foglio delle presenze, il libro matricola, il Dps (documento programmatico per la sicurezza), quello della valutazione dei rischi, la redazione del bilancio annuale coi suoi rovelli interpretativi, la compilazione degli studi di settore, la fattura elettronica per chi lavora con enti pubblici (te le fa il commercialista, ovviamente non gratis), la dichiarazione dei redditi. Per non parlare dei folli interessi bancari sui fidi... E non abbiamo ancora fatto cenno al fatto che vi servirà un buon distributore, altrimenti i libri come ci arrivano in libreria? E questo è l'ostacolo degli ostacoli. Anche perché è in atto una rivoluzione. Si sta passando da una situazione di relativa concorrenza a una di quasi monopolio. Il tutto con l'avallo dell'Antitrust, che ha autorizzato la fusione tra il gruppo Messaggerie Libri e Feltrinelli (socio unico di Pde, l'altro distributore storico), assai più nefasta per il pluralismo editoriale del paventato matrimonio tra Mondadori e Rizzoli. Grazie a una sentenza dell'Antitrust del dicembre 2014, per trovarsi un distributore tutto si è fatto più complicato. Dovrete presentare una mole di documentazione prima non necessaria. Vi verrà richiesto di esibire documenti attestanti la solidità finanziaria della vostra azienda: in soldoni, si tratterà di dimostrare di non avere gli ultimi due bilanci in perdita (ma se sei nuovo come fai a esibire gli ultimi due bilanci?) e di non essere gravato da protesti. Dovrete dimostrare inoltre di possedere una solida rete di promozione. Ma fermiamoci qui, per carità, benché ci sarebbe altro da aggiungere. Anche perché a questo punto i nostri baldi giovani sono invecchiati perlomeno di cinquant'anni, se non all'anagrafe perlomeno nello spirito. Ma in fondo sono stati fortunati. A semplificargli le cose ci ha pensato Renzi. Altrimenti, sai che dolori!

VUOI CANTARE? IL CONCORSO E' TRUCCATO.

Brogli a Sanremo, parte la denuncia. Michelangelo Giordano, cantautore 36enne calabrese approdato a Milano in cerca di gloria, si è ritrovato con una lettera di esclusione in mano, scrive Martino Villosio su “Il Tempo”. L'appuntamento è per il 13 aprile 2015, tribunale civile di Imperia. È lì che andrà in scena la prima "puntata" di un dopo Festival al vetriolo. Una querelle diversa da quelle costruite ogni anno per insapidire le tradizionali settimane sanremesi, perché stavolta di mezzo c'è una causa per danni, e le accuse - la cui eventuale fondatezza toccherà ai giudici riscontrare - di un giovane cantautore calabrese. Si chiama Michelangelo Giordano, ha 36 anni e nel suo curriculum rivendica alcuni guizzi pregevoli, come la vittoria del premio "Una canzone per Amnesty 2013", oltre ad un mentore del calibro di Mogol che lo avrebbe notato durante un seminario di musica organizzato dalla scuola di musica fondata dallo stesso paroliere (il CET) incoraggiandolo a trasferirsi dalla Calabria a Milano. Il concorso Giordano, lo scorso settembre 2014, decide di iscriversi alla manifestazione "Area Sanremo 2014", promossa con bando pubblico e gestita dalla società "Sanremo Promotion" controllata dal comune ligure. Il concorso, che ha aperto le porte della partecipazione al Festival della canzone italiana 2015 ai suoi due vincitori, prevedeva nella sua prima fase la selezione di 40 finalisti da parte di un'apposita commissione di valutazione, composta dalla storica voce dei Pooh Roby Facchinetti (presidente), dalla cantante Giusy Ferreri e dal produttore e rapper Dargen D'Amico. A novembre, Giordano si è esibito davanti a quella giuria eseguendo il brano "Chi bussa alla porta", tema impegnato (il panico e la sofferenza di chi è vulnerabile ai suoi attacchi), parole e musica scritte da lui. Al termine, come riportano i suoi avvocati Marzia Eoli e Luca Fucini nell'atto di citazione presentato ad Imperia contro la Sanremo Promotion, i giudizi della commissione sarebbero stati "entusiasti", sia per "l'originalità del brano prescelto" che per la musica e il testo. Un giudizio positivo che troverà riscontro, evidenziano ancora gli avvocati, nella scheda di valutazione di Giordano al quale Roby Facchinetti attribuirà addirittura quattro dieci su quattro. La doccia fredda Cinque giorni dopo, però, l'artista riceve da Sanremo Promotion la comunicazione del mancato superamento della fase eliminatoria. Chiede di poter visionare la propria scheda di valutazione, e davanti ai giudizi "più che lusinghieri" (scrivono i suoi due avvocati) che la inchiostrano rimane ancora più sconcertato. Decide così di fare un accesso agli atti, per confrontare la sua scheda con quelle dei 40 finalisti, per conoscere i criteri di valutazione adottati e per visionare i verbali della commissione contenenti questi ultimi. Punteggi più alti Dalle schede, recita ancora l'atto di citazione, emerge che "alcuni candidati ammessi alla successiva fase finale riportano giudizi espressi, sia con punteggi numerici e sia con il giudizio complessivo, di gran lunga inferiori a quelli riportati da Giordano". Nella scheda di valutazione, in effetti, il cantautore ha un 9,17 (media finale dei punteggi ottenuti per le singole componenti dell'audizione e cioè voce, presenza scenica, performance e brano) e un 9 (giudizio complessivo espresso dai commissari). Altri quattro concorrenti selezionati al suo posto tra i 40 finalisti, portati come esempio nella citazione, hanno tutti voti inferiori al 9, oscillanti tra l'8,80 e l'8,50. "Perché", si chiede l'artista, "sono stato scartato dopo essere stato valutato così positivamente?". Il verbale Nel verbale stilato dalla commissione e che data a prima dell'inizio delle selezioni, in realtà, si dice che "al termine di ogni audizione la commissione compilerà una scheda dell'esibizione. La commissione stabilisce che le valutazioni contenute nelle suddette schede non determineranno la classifica finale dei candidati e quindi non saranno in alcun modo vincolanti in ordine alla scelta dei finalisti". Quelle valutazioni formulate dai giurati andrebbero considerate alla stregua di consigli utili ai giovani concorrenti per individuare i propri punti forti e quelli da perfezionare. Per gli avvocati di Giordano, invece, le cose non starebbero così. Le schede di cui si parla nel verbale sono definite "dell'esibizione" e non "di valutazione", dicono. Nel bando di concorso che disciplina "Area Sanremo 2014", riportano inoltre nella citazione, all'articolo 6 si legge che "la commissione di valutazione adotterà le proprie decisioni in seduta segreta secondo i criteri che saranno resi noti ai candidati prima dell'inizio delle selezioni mediante pubblicazione sul sito internet www.area-sanremo.it". Il bando e i criteri delineati nel sito, sostengono gli avvocati di Giordano, sarebbero pertanto l'unica "legge di gara" individuabile e le schede di valutazione "l'unico elemento di giudizio in cui la commissione ha espresso un punteggio numerico per ogni parametro ispirato ai criteri fissati sul sito internet". "Siamo di fronte a una selezione con bando pubblico", afferma Giordano al telefono da Sesto San Giovanni, "un parametro di valutazione trasparente doveva esistere e i punteggi delle schede di valutazione sono l'unico che si possa individuare in questo concorso". Gli avvocati del cantautore chiedono alla Sanremo Promotion 250.000 euro, puntando su un risarcimento per "perdita di chance" dal momento che il loro assistito, escluso dalla selezione finale malgrado l'alto punteggio ottenuto, non ha potuto esibirsi davanti ai rappresentanti delle principali case discografiche multinazionali e ai manager musicali ammessi all'ascolto dei 40 finalisti. Chiedono anche il ristoro dei 3.860 euro che l'artista, al pari degli altri 3876 concorrenti, ha dovuto spendere per poter partecipare alla selezione. Inclusi, riportano ancora gli avvocati, i soldi versati per la partecipazione ad un corso di formazione per gli iscritti, obbligatoria per poter accedere alle selezioni vere e proprie, con vitto, alloggio e viaggio a carico dei cantanti. Il comune di Sanremo, da noi contattato, non ha inteso per il momento commentare la vicenda. Abbiamo fatto pervenire una richiesta di replica anche a Sanremo Promotion, posta in liquidazione a febbraio dopo il voto a maggioranza del consiglio comunale cittadino, senza però venire ricontattati.

Denis Fantina, la star di Amici rifiutato al talent The Voice di Rai 2, scrive “Libero Quotidiano”. Il talent The Voice quest'anno è diventato l'ultima spiaggia di tanti cantanti quasi dimenticati. Dopo Chiara Iezzi di Paola e Chiara, nell'ultima puntata del talent in onda su Rai 2 si è presentato Denis Fantina, vincitore della prima edizione di Saranno Famosi, oggi conosciuto come Amici, ben 15 anni fa. I giudici però lo hanno bocciato clamorosamente. Denis ha cantato il brano di Marco Mengoni "Credimi ancora" e, una volta capito chi fosse, i giudici hanno cercato di giustificarsi. Il primo ad arrampicarsi sugli specchi è stato il giudice Francesco Facchinetti: “Per quanto riguarda il team Fach eravamo quasi sul pulsante, hai fatto trenta e non hai fatto trentuno”. Cerca di metterci una pezza anche Piero Pelù: “Io non mi sono girato perché tu hai portato questo pezzo di Mengoni e lo hai cantato con un piglio metallaro ma se tu ti fossi buttato più sul versante heavy metal ti avrei votato. Complimenti perché hai cantato da Dio”. Un'amara consolazione, senz'altro.

Le Blind Audition di The Voice 3 sono terminate, scrive "Panorama”. Il 25 marzo 2015 i quattro coach hanno infatti completato le loro squadre, che comprendono 16 talenti per team, e dal prossimo mercoledì si passa dunque alla seconda fase del talent show, ovvero le Battle: accoppiati due a due dal proprio giudice, i cantanti dovranno scontarsi per rimanere in gara cantando la stessa canzone. In queste puntate, l’eliminato avrà la possibilità di essere ripescato da un altro giudice. È il momento di osare e di fare il grande salto, è l’ultima chance per molti degli aspiranti cantanti, visto che i quattro team sono quasi chiusi. Nella lunga carrellata di talenti che si sono esibiti ieri sera, ce n’è uno già noto: alle audizioni al buio si è presentato anche Dennis Fantina, vincitore di Saranno Famosi, cioè la prima edizione di Amici. “Quando vinci credi che il tuo mondo cambi totalmente, invece non è così – racconta nell’rvm di presentazione – Oggi collaboro con un bar, si fa fatica, meno male che mia moglie lavora. Dopo il programma ho fatto album e concerti, poi il fermento è venuto meno. Voglio masticare nuovamente musica: della mia voce mi fido molto, dell’emozione no. Me la gioco e vediamo cosa accade”. Così sale sul palco e canta Credimi ancora di Marco Mengoni – e su Twitter Fiorello sottolinea la scelta sbagliata del brano - ma nessuno dei giudici si gira. Il primo a riconoscerlo è Francesco Facchinetti, poi a ruota gli altri. Quando torna nel backstage Fantina è visibilmente contrariato e intanto i giudici commentano la sua esibizione. “Se canta Zarrillo, spacca”, azzarda Facchinetti e J-Ax replica ironico: “Ma nessuno vuole che canti Zarrillo, nemmeno Zarrillo”. Francesco e Roby Facchinetti - ribattezzato “il sommo maestro, l’eccelso cantore”, per via delle perifrasi ardite, dal conduttore Federico Russo – sono i primi a chiudere il team scegliendo Giulia Pugliese. Dunque il cantante dei Pooh non può più schiacciare il “pirellone”, come aveva erroneamente ribattezzato il pulsante che consente alla sedia di girarsi. Il #teamFach è al completo. “Abbiamo iniziato col botto, cioè con la tua caduta, e finiamo alla grande”, commenta Francesco. In totale, padre e figlio portano alla Battle dieci donne e sei uomini: “Abbiamo trovato quello che cercavamo”. Noemi e Piero Pelù hanno un solo cantante da scegliere, J-Ax invece ancora due. Tocca a Noemi tagliare il traguardo per seconda e chiudere il team dei fiori d’acciaio – così lo chiama perché, spiega, delicato ma al tempo stesso solido – e scommette su Giuseppe Izzo. “Quest’anno il team Noemi spacca. Non mi sono focalizzata su un solo tipo di voce: ho timbri unici e super pop, è molto eterogeneo”. Contenta e soddisfatta. Restano tre posti a disposizione e Pierluca Tevere ipoteca l’accesso alle Battle conquistando Piero Pelù, che pigia il pulsante poi s’infila sotto il tendone che nasconde il cantante a tutto il pubblico. “Stavo svenendo quando ho visto la testa di Piero”, commenta Pierluca. “Mi aspettavo una donna, è stato un piacevolissimo shock. Il team Diablo ha una grandissima varietà di timbri e di personalità”, commenta il coach. Il quindicesimo posto nel team J-Ax se lo aggiudica invece Edoardo Esposito, in arte Edo Sparks, poi il rapper la tira per le lunghe, fa esibire quattro diversi aspiranti cantanti ma non trova quella che definisce “una voce killer”. Alla fine punta su Maurizio Di Cesare, cagliaritano di 22 anni, che lo conquista e chiude la Blind Audition. “Questa è la voce che volevo: mi fa perdere la testa. Ora il team loser 2.0 è chiuso: mi sono lasciato guidare da istinto ed emozione, ho tentato di cercare cose non precise o intonate, ma stilose”.

The Voice, Dennis Fantina fuori: “Hai cantato la canzone sbagliata”. E lui su Facebook: “Il brano non l’ho scelto io”, scrive Michele Monina su “Il Fatto Quotidiano”. L'eliminazione dell'ex vincitore di Amici non è certo un caso di Stato ma fa un po' specie che si escluda un professionista accampando scuse ridicole. Così come fa specie che i giudici, specie Noemi, la cui carriera è tutta da costruire, e Francesco Facchinetti, si lascino andare a commenti lapidari non si capisce bene da che altezza. Ci risiamo. Ieri sera si sono chiuse le Blind audition di The Voice, terza stagione, e come era già capitato in passato con la cantante dei Jalisse, eliminata alla cieca, i cinque baldi giudici hanno seccato Dennis Fantina, primo vincitore di Amici di Maria De Filippi, una vita fa. E esattamente come è capitato con colei che ha reso Fiumi di parole uno dei peggiori incubi della nostra giovinezza, via a scuse e supercazzole per giustificare l’aver escluso incautamente un professionista dalla futura competizione televisiva. Ora, partiamo da un presupposto fondamentale, The Voice è un programma tv. Niente a che fare con la musica. Nessun cantante di successo è uscito da li, neanche altrove. Chi ne esce rafforzato, molto, è il giudice, che in Italia, come altrove, vede spesso una carriera morta di colpo rinata. Ma di musica, niente. Dennis è stato sputato sul palco a giochi praticamente fatti. Pochi i posti disponibili rimasti, e quindi selezioni più ardue. I giudici, mentre cantava, ne hanno decantato le doti, ma nessuno si è girato. Bye bey Dennis. La canzone non è adatta, hanno detto, aprendo un piccolo caso. Perché, anche qui, ci si pone una domanda: chi decide le canzoni da proporre? Spesso gli autori stessi. Quindi, decidono di giocare un volto conosciuto a giochi fatti, gli scelgono la canzone e tanti saluti. Chiara di Paola e Chiara, per dire, la cui presenza sicuramente è più interessante rispetto a quella d Dennis, un po’ usurato dal tempo, è stata messa in condizione di passare a scatola chiusa, tra le prime a esibirsi. Non che l’eliminazione di Dennis sia un caso di Stato, chiaro. Ma fa un po’ specie che si escluda un professionista accampando scuse ridicole. Così come fa specie che i giudici, specie Noemi, la cui carriera è tutta da costruire, e Francesco Facchinetti, si lascino andare a commenti lapidari non si capisce bene da che altezza. Diciamolo, The Voice, che l’anno scorso ha avuto un po’ di successo non certo per la voce di Suor Cristina, ma per il famoso abito che fa la monaca, è il talent con meno talento tra quanti si vedono in giro. E quando un talento c’è, spesso, viene lasciato scappare, per pura opportunità televisiva. Non è un caso che Laura Pausini si sia guardata bene dal venire a fare il giudice in Italia, andando prima in Messico e poi, ora, in Spagna. Ora le squadre sono chiuse, c’è una trans, qualche caso umano, Chiara Iezzi e poco altro di interessante. C’è j-Ax coi suoi stucchevoli Axforismi, Noemi con la sua boria, i due Facchinetti che mettono in scena un quadretto familiare tutto da dimostrare e Piero Pelù, l’unico che sembra affrontare la cosa con un minimo di cuore. Poi c’è la gara, ma fortunatamente non lascerà traccia dietro di sè.

POVIA ED I MORALIZZATORI.

Saccenti e cattivi. Ecco a voi i sinistroidi.

I moralizzatori della rete prendono di mira Povia. Ovviamente sono quasi tutti utenti fake, scrive Riccardo Ghezzi su “Quelsi”. Giuseppe Povia come Red Ronnie. Amaro destino per artisti o personaggi pubblici che non fanno del “politicamente corretto” la loro ragione di vita. Guai a dire qualsiasi cosa che non strizzi l’occhio al pensiero unico e dominante della kultura, ossia al pensiero, se così si può chiamare, della sinistra. Anche un innocente post come “L’Italia va gestito da italiani”, in riferimento alla nomina del ministro italo-congolese Kyenge la “nera”, può scatenare una reazione turbolenta da parte degli evangelizzatori giustizieri della rete. Era già successo a Red Ronnie quando aveva osato andar contro il guru Giuliano Pisapia in piena campagna elettorale per le amministrative di Milano, ora la medesima sorte è riservata a Povia, reo di avere espresso un semplice parere su facebook. La fan page di Povia non è invasa come quella di Red Ronnie ai tempi, ma il cantante riceve quotidianamente messaggi di insulti o disprezzo, a volta dal contenuto palesemente diffamatorio, altre con minacce od inviti a “suicidarsi”. Povia, pazientemente e pacatamente, risponde a tutti. Anche agli utenti con nome e foto palesemente fittizi. Inutile dire che i leoni da tastiera si sottraggono regolarmente alla discussione, preferendo la “toccata e fuga” di insulti.

Da qui l'intervento tramite facebook di Antonio Giangrande in favore di Povia. «Sig. Povia, lei conosce Antonio Giangrande? Basta mettere il suo nome su Google e vedere le pagine web che parlano di me e poi, cliccare su libri. Li si vedranno i titoli di tutti i saggi che ho scritto, ciascuno di 800 pagine circa. Dimostro in fatti, quello che lei, traduce nei suoi testi. Libri che ho scritto dopo 20 anni di ricerche. Sono censurato, come lei, perché scomodo. Le devo dire, però, caro compagno di viaggio, orgogliosi di essere diversi, che a quelli come noi liberi e non omologati alla cultura sinistroide, non rimane che raccontare con i propri libri e con le proprie canzoni la realtà contemporanea ai posteri ed agli stranieri, perché in Italiopolitania, Italiopoli degli italioti, siamo un seme che mai attecchirà.»

«Antonio, grazie, pubblicalo sulla mia bacheca quello che hai scritto, che mi fai sentire meno solo e guardati questi video sennò non capisci bene. Ci vediamo in live Giuse.»

"Chi comanda il mondo": il web si schiera pro e contro sulla canzone di Povia, scrive di Don Ferruccio Bortolotto su “Riviera 24”. Ho deciso di condividere con i nostri lettori questo video perché non ho voglia di sonnecchiare in questo momento di estrema debolezza culturale per la nostra Europa. Domanda, denuncia vie di soluzione ed un’aggressiva quanto risanatrice profezia sono nel ritmo della canzone di Povia «Chi comanda il mondo». Ho guardato e riguardato il video, che mi è stato inviato da un amico, con la matita in mano per fermare sulla carta i frammenti della visione del cantautore, che come pugni rompono i muri di pietra degli occhi e della testa. «La musica può arrivare dove le parole non possono» - canta Povia – ed è vero: le sue percussioni e la sua voce scavano un solco che non può lasciare indifferenti. In questo caso la musica riesce a diventare un imperativo ascoltato dalla nostra volontà intorpidita e saccheggiata di dolore e di potere. Ho deciso di condividere con i nostri lettori questo video perché non ho voglia di sonnecchiare in questo momento di estrema debolezza culturale per la nostra Europa. Cerco un silenzio che non sia quello che precede ed accompagna il sonno, ma quello di chi con attenzione veglia custodendo il fuoco di un desiderio profondo che tutti abbiamo nel cuore: la voglia di sapere.  Non difendere questo desiderio è acconsentire alla tirannia.

Povia e Assotutela: botte da orbi sul web. L'artista accusato di "istigare l'odio razziale" nel suo ultimo brano "Chi comanda il mondo?", scrive Chiara Rai su “Il Tempo”. Il cantautore Giuseppe Povia e il presidente di Assotutela Michel Emi Maritato danno spettacolo su Facebook. Ad accendere la miccia non è stato l'artista: l'ultima canzone di Povia ha mandato su tutte le furie Maritato il quale non digerisce le parole contenute nell'ultimo brano dell'artista a tal punto da minacciarlo di denuncia per istigazione alla violenza e all'odio razziale. Queste accuse pesanti come macigni sorgono, secondo Maritato, da alcuni passaggi che conterrebbero messaggi subliminali che alimenterebbero l'antisemitismo. Così, sicuro della sua veste di paladino della causa, il presidente di Assotutela non risparmia commenti al vitriolo: "Ha perso un’altra occasione per stare zitto il cantautore Giuseppe Povia - esordisce Maritato - in questi giorni difficili dove il mondo è minacciato dall'Isis e le comunità ebraiche sono in tensione per il timore di eventuali attacchi, ci mancava la genialata di Povia a gettare fuoco sulla benzina. Il nuovo brano ‘Chi comanda il mondo?’ contiene anche nel clip ufficiale immagini riferimenti a personaggio e messaggi subliminali che a nostro avviso alimentano l’antisemitismo". E poi minaccia: "Nelle prossime ore, in collaborazione con i nostri legali - conclude -  stiamo valutando un esposto alla procura di Roma per istigazione alla violenza e all'odio razziale, mi meraviglio della superficialità con la quale vengano elaborati certi testi e vengono accostate alcune simbologie apparentemente contro gli Ebrei, spero vivamente non sia stata una trovata pubblicitaria di un’ormai stella cadente, ma solo un grande fraintendimento". In pratica la tesi di Assotutela è questa: dato che Povia sarebbe in decadenza, l'unica forma di promozione è lanciare un pezzo shock per alimentare le polemiche e dunque vendere più dischi. Ma la risposta del cantautore non si è fatta attendere. Povia non ci sta e le canta al presidente Maritato: "Addirittura una denuncia? Invece di valutare un esposto, valuterei il dialogo, stiamo tutti dalla stessa parte". E poi l'artista spiega meglio: "La canzone 'Chi comanda il mondo?' è chiaramente riferita alla dittatura finanziaria mondiale che sta impoverendo il mondo, punto". Povia, rivolgendosi poi direttamente ad AssoTutela commenta: "Se vi riferite alla frase "messo sulla croce in Israele" vuol dire semplicemente e simbolicamente che Gesù Cristo che doveva salvare questo mondo, è stato messo sulla croce un tempo nell'attuale Gerusalemme. Se fosse stato messo sulla croce a Carmagnola o a Sacrofano o a Santa Marinella, avrei cantato quei nomi. Se vi riferite ad un'altra frase, ditemi pure". Il cantautore infine conclude con un invito invito al dialogo: "Sono contento che invece la maggioranza abbia capito il brano. Invece di valutare una denuncia, valuterei il dialogo, stiamo tutti dalla stessa parte ma come dice la canzone: 'siamo divisi dai simboli, noi singoli' ed è quello che vogliono i grandi potenti. Ci vogliono divisi. Non cascateci". Ma la questione non sembra chiusa qui, a quanto pare le spiegazioni sembrano non essere sufficienti. Soltanto la conclusione del continuo tam tam di messaggi sul social network potranno dirci chi dei due avrà la meglio sull'altro.

Testo - Chi comanda il mondo? – Povia

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e disegnate i colori

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore

e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire

Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire

Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire

e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele

C’è una dittatura di illusionisti finti

economisti equilibristi

terroristi padroni del mondo peggio dei nazisti

che hanno forgiato altrettanti tristi arrivisti stacanovisti

gli illusionisti, che ci hanno illuso con le parole libertà e democrazia

fino a portarci all’apatia

creando nella massa, una massa grassa di armi di divisione di massa

media, oggetti, nomi, colori, simboli

la pensiamo uguale ma siamo divisi noi singoli

dormiamo bene sotto le coperte

siamo servi di queste sorridenti merde

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e www.nuovecanzoni.com disegnate i colori

Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni

Fate la nanna bambini volati nei cieli

Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà

e l’uomo più forte del mondo diventerà

portando in alto l’amore

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, dice sempre che va tutto bene

La libertà e la lotta contro l’ingiustizia

non sono né di destra né di sinistra

la musica può arrivare nell’essenziale

dove non arrivano le parole da sole

gli illusionisti ci hanno incastrati firmando i trattati

da Maastricht a Lisbona

siamo tutti indignati perché questi trattati

annullano ogni costituzione

quì bisogna dare un bel colpo di scopa

e spazzare via ogni stato da quest’Europa

se ogni stato uscisse dall’Euro davvero

magari ogni debito andrebbe a zero

perché per tutti c’è un punto d’arrivo

nessuno lascerà questo mondo da vivo

vogliamo una terra sana, sana

meglio una moneta sovrana (che una moneta puttana)

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e disegnate i colori

Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni

Fate la nanna bambini volati nei cieli

Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà

e l’uomo più forte del mondo diventerà

portando in alto l’amore

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore

e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire

Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire

Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire

e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele

Fate la nanna bambini volati nei cieli 

Povia e il coraggio di dire di no: meglio una moneta sovrana che puttana, scrive Gloria Sabatini su “Il Secolo d’Italia”. Chi comanda il mondo? Chi comanda il mondo? È la domanda ossessiva che dà il titolo all’ultimo album di Giuseppe Povia, che, piglio naif e linguaggio scomodo, apre uno squarcio di luce potente sull’attualità mettendo in musica il suo gigantesco no al dominio planetario della grande finanza, di «illusionisti e finti economisti». C’è una dittatura – canta Povia – un dittatura senza volto, fatta di balle e finte illusioni che vorrebbe un popolo inebetito. «Silenzio / fate la nanna bambini / verranno tempi migliori / Chi comanda il mondo? / C’è una dittatura, c’è una dittatura / Non puoi immaginare quanto fa paura / Chi comanda il mondo? / Oltre che il potere /  vuole il tuo dolore / e dovrai soffrire / e sarai costretto ad obbedire…», è l’incipit del brano che farà discutere e solleverà lo sdegno delle anime belle del progressismo planetario, quelle sempre pronte a gridare allo scandalo e al complotto. «C’è una dittatura di illusionisti finti economisti equilibristi, terroristi padroni del mondo peggio dei nazisti che hanno forgiato altrettanti tristi arrivisti stacanovisti…Ci hanno illuso con le parole libertà e democrazia fino a portarci all’apatia». La dichiarazione di guerra all’eurocrazia non potrebbe essere più esplicita: «Gli illusionisti ci hanno incastrati firmando i trattati da Maastricht a Lisbona, siamo tutti indignati perché questi trattati annullano ogni costituzione». Povia conferma la sua verve provocatoria e anti-ideologica quando canta che «la libertà è la lotta contro l’ingiustizia non sono né di destra né di sinistra, la musica può arrivare nell’essenziale dove non arrivano le parole da sole». Un passo avanti a molti politologi e opinionisti. E per finire un appello contro i grand commis di oggi e di ieri: «Qui bisogna dare un bel colpo di scopa e spazzare via ogni Stato da quest’Europa. Se ogni Stato uscisse dall’euro davvero magari ogni debito andrebbe a zero. Vogliamo una terra sana sana, meglio una moneta sovrana che una moneta puttana».

Messo in croce dal web. L’autore de I bambini fanno oh e di Luca era gay non è nuovo ad attacchi e isterie online. Qualche giorno fa Michel Emi Maritato, presidente di Assotutela, ha ingaggiato un derby a distanza dalla sua bacheca Facebook accusando Povia di contenuti antisemiti e arrivando a minacciare denunce «per istigazione alla violenza e all’odio razziale». «In questi giorni difficili dove il mondo è minacciato dall’Isis e le comunità ebraiche sono in tensione per il timore di eventuali attacchi, ci mancava la genialata di Povia a gettare fuoco sulla benzina».  A dir poco squallida la tesi di Assotutela secondo la quale l’artista   avrebbe lanciato il pezzo shock per  vendere più dischi e risalire dalla “decadenza”. «Addirittura una denuncia – risponde elegantemente Povia – invece di valutare un esposto, valuterei il dialogo, stiamo tutti dalla stessa parte. La canzone Chi comanda il mondo? è chiaramente riferita alla dittatura finanziaria mondiale che sta impoverendo il mondo, punto». Dov’è lo scandalo? «Se vi riferite alla frase “messo sulla croce in Israele”, vuol dire semplicemente e simbolicamente che Gesù Cristo, che doveva salvare questo mondo, è stato messo sulla croce un tempo nell’attuale Gerusalemme. Se fosse stato messo sulla croce a Carmagnola o a Sacrofano o a Santa Marinella, avrei cantato quei nomi». Geniale.

Povia e la denuncia per Chi Comanda il Mondo?: il Dott. Maritato fa chiarezza su “New Notizie”. Da due giorni circola inarrestabile sul web la notizia secondo la quale Povia rischierebbe di essere denunciato per il suo ultimo brano Chi comanda il mondo?: a detta di diverse fonti sul web, la denuncia potrebbe partire dall’Associazione per la tutela del cittadino AssoTutela, presieduta da Michel Emi Maritato. Ma facciamo una breve cronistoria di quanto accaduto. Il 5 Marzo Povia pubblica sul proprio canale YouTube il brano Chi comanda il mondo?, brano di denuncia che tende a sottolineare le dinamiche di potere – a volte occulte – che governerebbero il mondo e costringerebbero l’umanità ad una sorta di schiavitù. Passa circa una settimana (e giungono alcune decine di migliaia di views per il video, che vi proponiamo in coda) e si diffonde la notizia secondo la quale AssoTutela sarebbe pronta a sporgere denuncia contro il cantante per le tematiche proposte (vedremo che, in realtà, non è esattamente così). Pronta, quindi, giunge la replica di Povia attraverso Facebook. Dal canto nostro, abbiamo avuto modo di sentire telefonicamente il Dottor Michel Emi Maritato che, disponibilissimo, ci ha spiegato la propria personale posizione: “Per Povia ho una grande stima e mi ritengo un suo fan. Condivido le tematiche espresse nel brano; dal canto mio sono un signoraggista, lavoro quotidianamente per combattere contro l’usura bancaria e gli abusi di Equitalia. Ciò che non condivido è un certo tipo di simbologia esoterica, presente all’interno del video. Una simbologia che sottende una lotta al potere ebraico e che rappresenta una scelta quantomeno poco felice in un momento come quello attuale, con l’incombenza della minaccia dell’Isis”. “Il messaggio poteva passare anche senza determinate immagini, in maniera più delicata”. Circa la denuncia, quindi, il Dottor Maritato ha detto: “La denuncia è al vaglio dei legali. Saremmo comunque felici se Povia accettasse un confronto e spiegasse le sue posizioni, magari attraverso i nostri mezzi di comunicazione”. Per poi concludere: “Povia è una grande arista. Un artista anticonformista che con le sue scelte rischia di essere tagliato dai circuiti mainstream. Chi ha confezionato il videoclip, d’altro canto, ha inserito dei simboli che possono incitare all’odio razziale. Ciò magari è stato fatto senza che Povia ne fosse consapevole, ma rimane il fatto che una determinata simbologia si sarebbe potuta evitare”.

AssoTutela contro Povia per il brano ''Chi comanda il mondo'', scrive “Il Mamilio”. Al centro della vicenda il brano ''Chi comanda il mondo''. “Ha perso un’altra occasione per stare zitto il cantautore Giuseppe Povia”. Lo dichiara in una nota il presidente di AssoTutela Michel Emi Maritato. “In questi giorni difficili dove il mondo è minacciato dall’Isis e le comunità ebraiche sono in tensione per il timore di eventuali attacchi ci manca la genialata di Giuseppe Povia benzina sul fuoco. Il nuovo brano Chi comanda il mondo contiene anche nel clip ufficiale immagini riferimenti a personaggio e messaggi subliminali che a nostro avviso alimentano l’antisemitismo. Nelle prossime ore, in collaborazione con i nostri legali, stiamo valutando un esposto alla procura di Roma per istigazione alla violenza e all’odio razziale, mi meraviglio – conclude Maritato nel comunicato – della superficialità con la quale vengano elaborati certi testi e vengono accostate alcune simbologie apparentemente contro gli Ebrei, spero vivamente non sia stata una trovata pubblicitaria di un’ormai stella cadente, ma solo un grande fraintendimento''. La reazione di Povia, direttamente dal suo profilo Facebook, non  si è fatta attendere: ''La canzone "Chi comanda il mondo" - scrive - è chiaramente riferita alla dittatura finanziaria mondiale che sta impoverendo il mondo, punto. Se vi riferite alla frase "messo sulla croce in Israele" vuol dire semplicemente e simbolicamente che Gesù Cristo che doveva salvare questo mondo, è stato messo sulla croce un tempo nell'attuale Gerusalemme''. ''Se fosse stato messo sulla croce a Carmagnola o a Sacrofano o a Santa Marinella - continua il cantante -  avrei cantato quei nomi. Se vi riferite ad un'altra frase, ditemi pure. Sono contento che invece la maggioranza abbia capito il brano. Invece di valutare una denuncia, valuterei il dialogo,  stiamo tutti dalla stessa parte ma come dice la canzone:  "Siamo divisi dai simboli, noi singoli"  ed è quello che vogliono i grandi potenti. Ci vogliono divisi. Non cascateci''.

Per la canzone mi dicono: “VENDUTO!! GUADAGNI SOLDI!!” (Leggete dai..non è possibile), scrive Povia sul suo Blog Lunedì, 09 Marzo 2015. Il video della canzone “Chi comanda il mondo” è stato visto in meno di 4 giorni da oltre 40 mila persone senza pubblicità. SONO SOLO LO VOLETE CAPIRE? SOLO! SENZA PUBBLICITA’. Solo con il vostro PASSAPAROLA e vi dico G R A Z I E! Anzi devo ringraziare anche rispettivamente i creatori di Facebook e Youtube che mi permettono di diffondere un minimo la mia musica e ciò che penso. La canzone l’ho prodotta di tasca mia e il video mi è stato concesso da Marco Carlucci, uno dei più grandi registi social-underground che ci sono nel panorama italiano. Neanche lui è un venduto, sennò non avremmo trovato intesa su certi argomenti che toccano la finanza. Lui è lo stesso che mi fece i video di “Luca era gay” e  “La Verità” realizzati soprattutto per ammirazione artistica e intellettuale nei miei confronti. Abbiamo pensato che poteva nascere un video da quest’altra canzone, punto.  Come andava andava. Senza aspettative. (Parlo di “chi comanda il mondo”). VENDUTO? IO? Dai..vi prego.. Non voglio dire parolacce o insulti perchè non servono in questo caso ma vorrei chiarire che non solo non sono un venduto e non lo sono mai stato davvero, ma non guadagno soldi su questo brano per il seguente ed elementare motivo: Non l’ho caricato sui portali a pagamento, E’ GRATIS, lo potete ascoltare e vedere quando e come volete. Lo ripeto QUANDO E COME VOLETE. Scommetto che ce lo avete già sull’I-pod in mp3 vero? E’ GRATIS. E sarei VENDUTO? E DOVE LI GUADAGNEREI I SOLDI SENTIAMO? Bene, la notizia vera però è questa: SONO IN VENDITA!!!  SONO IN VENDITA, CERTO CHE SI! Ma non ho bisogno di qualcuno che mi produca solo un disco, ho bisogno che sposi il mio pensiero, la mia spiritualità, il mio carattere la mia arte e il mio combattere questo ANTISISTEMA che sta degenerando tutte le nuove generazioni vendendo una “Libertà” fatta di troppa devastazione, troppo eccesso di droga, sesso e amore venduto come quello che si vede sui siti porno gratuiti. IO SONO IN VENDITA! MA NON SONO VENDUTO, MAI! AVREI PARTECIPATO ALL’ISOLA DEI FAMOSI, UN PROGRAMMA PER IDIOTI. Non ce l’ho con chi ci partecipa ma con chi lo guarda. Non è l’abbondanza il problema, ma chi se la beve. e si, ho detto che combatto contro L’ANTISISTEMA, avete capito bene! Il problema è proprio L’ANTISISTEMA! Quello che ci fa sentire in colpa se esprimiamo il nostro normalissimo pensiero. Insultate i vostri idoli! Insultate coloro che vi dicono ciò che volete sentirvi dire. Quelli che girano intorno al problema ma non lo centrano come si deve, perchè si cagano addosso. Quelli che rinnegano i loro testi, le loro canzoni, le loro dichiarazioni. Quelli che parlano di un'umiltà che non ha nessuno in questo mondo e che fanno i finti umili. Insultate quelli che vogliono farvi credere che non si vendono ma che invece in quest’ambiente di cani e cagnette in calore tutti messi a pecora, ci sguazzano e ci si ritrovano proprio bene. Quelli sono i veri VENDUTI e voi i loro COMPLICI PERFETTI. Io sono solo, artisticamente solo e non piango: MI CI GIOVO, ME NE VANTO, GODO! SONO LIBERO.

Povia ad Affari: "Il concerto del Primo Maggio? Non ci vado solo perché fa figo". Intervista di Giovanni Bogani Martedì, 11 aprile 2006. Il piccione di Povia? Abitava su un tetto, nel centro di Firenze. Quello che ha ispirato la canzone che ha vinto a Sanremo, quello che si accontentava delle briciole, quello che volava basso, perché il segreto è volare basso. Stava su un tetto fiorentino. “E neanche lo sopportavo”, dice lui, fiorentino per amore, da cinque anni: per amore della sua donna Teresa, che gli ha dato da poco una figlia. “Ogni mattina, a mezzogiorno, io appena sveglio, e questo piccione a tubare, ad amoreggiare e a rumoreggiare, con tutti i suoi rumorini da piccione. E io, piano piano, mi sono chiesto se non avesse ragione lui, con il suo amore così semplice, in qualche modo così assoluto. E ho cominciato a scrivere una canzone su di lui”. Povia, nelle strade medievali di Firenze, tra i vicoli intorno a Ponte Vecchio, ha vissuto anni di bohème. E in questi anni, ha maturato il suo talento. Ha coltivato i suoi sogni, tra un turno e l’altro del suo lavoro di cameriere. Lo incontriamo in un bar. E ci facciamo raccontare i suoi anni anonimi. Quando ancora il successo era un miraggio lontano, da afferrare, semmai, o forse da non raggiungere mai.

Povia, quali erano i luoghi della tua Firenze?

“Piazza Santo Spirito, dove mi ritrovavo con il mio amico Simone Cristicchi, che aveva anche lui una fidanzata a Firenze; il Porto di Mare e l’Eskimo, due locali dove si fa musica dal vivo, ai quali sono molto legato. E piazza della Passera: lì, al caffè degli Artigiani, un piccolo caffè frequentato da turisti americani, nel mezzo del cuore della Firenze antica, ho lavorato per due anni”.

Hai lavorato a lungo come cameriere?

“In tutto, diciotto anni. Di qua e di là, a Milano, a Porto azzurro all’isola d’Elba, e poi a Firenze”.

Che cosa si impara?

“La pazienza, prima di tutto. E poi si impara a riconoscere le brave persone. E anche gli altri, quelli che brave persone non sono”.

Ci sono stati momenti in cui hai pensato di smettere, di mollare tutto?

“Praticamente, in continuazione. Pensavo sempre: basta, adesso smetto. In questo mondo, nessuno ti apre le porte. Stavo male, mi sentivo a mio agio solo con la mia fidanzata…”.

Quando l’hai conosciuta, Teresa?

“L’ho conosciuta in modo classico, in una discoteca all’isola d’Elba. Dodici anni fa. Teresa è di Firenze; ci siamo visti per sette anni attraversando l’Italia da una parte all’altra. Poi, cinque anni fa, sono venuto ad abitare qui”.

E ora chi sei?

“Uno che non si considera un artista, ma uno che vorrebbe scrivere canzoni per tutti. Per comunicare alla gente. Uno che vorrebbe essere semplice, e chiaro, e dare emozioni. Insomma, vorrei essere ‘pop’. E non sono né di destra né di sinistra. Ho cantato per il papa, ma non per vestirmi di una bandiera. Perché ci credo io, e basta”.

Insomma, tu non ti schieri. Ma la religione è importante per te. Da quando?

“Da quando ero depresso, praticamente disperato. Non riuscivo a sfondare con la musica, passavo da un lavoro di cameriere all’altro, non avevo neanche una città di cui potessi dire: è casa mia….E poi, nella sala di aspetto di una stazione, do un euro a un frate cappuccino che chiedeva, con molta discrezione, dei soldi. Lui mi dice: siediti. Come, siediti? Mi sono seduto, perché ho visto che aveva un volto intenso, serio, che aveva qualcosa da dire. Abbiamo parlato. E questo frate cappuccino mi ha cambiato la vita”.

Come è la tua vita adesso?

“Semplicissima. Sto con la mia donna, Teresa, con mia figlia Emma, che ha 15 mesi e comincia a ‘gattonare’. E vado a fare la spesa al supermercato, come tutti”.

E’ più bello scrivere le canzoni o cantarle?

“Per me, scriverle. Mi ci vogliono cinque minuti per avere un’idea, e mesi per finire una canzone. E nel mezzo, c’è il lavoro più bello del mondo. Dare vita a una melodia, a un’armonia, a delle parole. Creare qualcosa che prima non esisteva. A volte mi stupisco ancora, di questo miracolo che accade ogni volta”.

Una curiosità. Ma dove abitava il piccione della canzone con cui hai vinto Sanremo?

“Di fronte alla mansarda dove vivevo io, a Firenze. Mi svegliavo, e vedevo tutti i giorni questo piccione che tubava. Non lo sopportavo: io non amo i piccioni, per niente! Ma poi ho capito che aveva la sua ragione di vita, che aveva il suo diritto alla felicità, all’amore. E che, a suo modo, sui tetti di fronte a casa mia, lui  viveva l’amore in un modo assoluto”.

Quale canzone stai scrivendo?

“Una canzone sull’amicizia. Che sarà più bella di tutte quelle che ho scritto fino ad ora. Ma una canzone non si fa in cinque minuti. Ci vogliono mesi. In cinque minuti ti viene un’idea, un titolo, un ritornello. Il resto è lavoro, è fatica”.

Concerti? Farai quello del Primo Maggio?

“No. Ma non perché ho suonato per il Papa, e non faccio il Primo Maggio. Non lo faccio perché molti suonano in quel concerto per atteggiamento, e non per convinzione. Ci vanno perché fa figo”.

«Preferisco rinunciare sia a consensi, sia a compensi - spiega Povia in un video pubblicato sul suo profilo Facebook il 10 marzo 2015 - Perché tanto so che se dico di sì a uno, poi gli altri se la prendono e storcono il naso. Tanto sempre è andata così. Nel 2005 stavo partecipando con i”I Bambini fanno oh” al concerto del Primo maggio a Roma, ma poi mi dissero: se vieni da noi, poi non devi mai andare con gli altri. Allora risposi: no, grazie. E da lì il mio percorso è quello che conoscete, senza mai nessun appoggio politico o discografico e sempre pieno, pieno di critiche e di insulti che non tarderanno ad arrivare».

POVIA: SE CANTASSI "LUCA E’ TORNATO GAY" DIREBBERO CHE HO SCRITTO UNA CANZONE BELLISSIMA. Intervista di Davide Maggio. Con le sue canzoni ha fatto parlare spesso di sè negli ultimi anni. Prima “I bambini fanno oh” poi “Luca era Gay”, passando per “Vorrei avere il becco”, Giuseppe Povia è un cantautore che sa come colpire l’opinione pubblica. In occasione del suo impegno a I Migliori Anni,  abbiamo fatto una lunga chiacchierata con lui e ne è uscita fuori l’immagine di un cantautore con le idee chiare, che crede molto nel suo lavoro, consapevole del fatto che le critiche siano parte del gioco. L’importante, dice, è essere intellettualmente onesti.

Stai ricevendo consensi di pubblico a I Migliori Anni. Essere popolare ti lusinga o ti infastidisce perché allontana la tua immagine da quella del cantautore di nicchia?

«Quando hai qualcosa da dire devi essere popolare, perché a più persone arrivi e più puoi aiutare, altrimenti è inutile che fai arte, inutile che fai musica. Ci sono invece personaggi di nicchia che vogliono rimanere nella nicchia… ma se la raccontano. Io guardo fissa la telecamera perché la gente deve riconoscere in me uno che canta delle canzoni che possono aiutare a vivere meglio. La musica può cambiare tantissime cose. I bambini fanno oh ha aiutato dei bambini a uscire dal coma».

In Italia esistono dei cantautori di serie A e di serie B?

«Sono gli addetti ai lavori che ti accreditano o screditano. Ogni artista ha un consenso da una parte e poco consenso dall’altra. Io, per esempio, vengo attaccato da varie fazioni per le tematiche che tocco, da altre invece vengo acclamato. E’ chiaro però che mi sento cantautore a 360 gradi e non posso parlare solo d’amore. De Gregori fu attaccato dalla critica velatamente perché lo accusarono di aver offeso le persone obese con La Donna Cannone, oppure De Andrè fu criticato perché istigava alla prostituzione con Bocca di Rosa. Non mi sto paragonando a loro, dico solo che la strada che seguo nella musica è quella del cantautore. Se scrivo “Luca era gay” o “La verità”, ispirata alla storia di Eluana Englaro, ci sono dei motivi che vanno oltre la furbizia per far parlare di me. Ma poi chi non è furbo in questo ambiente? (ride) E meglio esserlo su argomenti intellettualmente onesti che per le movenze o per i vestiti»

Conosci Pierdavide Carone?

«Si, l’ho sentito a Sanremo dove ha portato un pezzo che mi piaceva con Dalla e poi ha cantato “Di Notte”, una canzone che andava su parecchie radio. So che è un autore giovane e gli autori giovani servono in Italia. E poi è uno dei pochi che scrive pure per gli altri e non solo per sé».

Il tuo rapporto con i talent, dunque?

«Non ce l’ho con i talent. Da una parte è positivo perché parla di musica e dall’altra parte è deleterio perchè  su 40 persone che partecipano non ce la possono fare tutti. Se hai una squadra di persone che ti stanno dietro e che fanno un progetto per te come è stato fatto per la Amoroso, Giusy Ferreri o Marco Mengoni può funzionare. Se fai il primo singolo che magari non va tanto bene e ti abbandonano, vai in crisi psicologica».

Sottolinei spesso l’importanza del cantautorato.

«I cantautori, dal dopoguerra in poi, hanno fatto la storia della musica italiana attraverso filosofie di pensiero e emozioni nuove. Attraverso le loro canzoni hanno parlato di satira, di politica e di tante tematiche sociali. La figura del cantautore dovrebbe tornare a essere qualificata perché negli ultimi dieci anni è stata un po’ sorpassata.  Oggi si tende più ad omologare la musica a un unico genere, a un unico suono. Io ho la sensazione di sentire sempre la stessa canzone cantata da cantanti diversi. Il suono deve essere quello, altrimenti radiofonicamente sei penalizzato. Voglio togliermi dalla testa la parola radiofonico».

Hai inaugurato anche una scuola per cantautori.

«Sì, la scuola è il CMM di Grosseto che è aperta dal 1994 e si occupa di musica a 360 gradi. Al suo interno ho aperto la sezione cantautori che non ha la presunzione di insegnare a scrivere le canzoni, perché le emozioni non si insegnano da nessuna parte. Arrivano molti ragazzi giovani che hanno del talento insegno loro quello che Giancarlo Bigazzi, che per tre anni è stato il mio maestro, ha insegnato a me».

Nel tuo inedito, Siamo Italiani, presentato a I Migliori Anni, avresti potuto essere più cattivo con la nostra descrizione. C’è una strofa che avresti voluto inserire ma poi hai preferito tagliare?

«A essere cattivi ci pensano agli altri, io sono il buonista. Dicono che “siamo italiani è populista”.  Populista è un termine nobile, a parte che finisce per ista. Dovrebbe essere populesimo che è ancora più bello. E’ un termine patriottico, popolare e poi in questo caso è un termine che parla al cuore degli italiani. “Siamo italiani” è una canzone che parla dei nostri pregi e dei difetti. Siamo uno stivale al centro del mondo e tutti ci vogliono mettere i piedi dentro, anche se ci criticano».

Una strofa della tua canzone dice: “siamo italiani, ed è ora di cambiare questa storia. ci meritiamo di vivere in un mondo che abbiamo inventato noi”.

«Gli italiani sono positivi, sono quelli che si rialzano. Non è una canzone cattiva, ma positiva. Sono tutti bravi  a fare gli oratori, ma alla fine l’ipocrisia non paga. Se uno riesce a dire le cose che pensa veramente fa più bella figura anche se ci si brucia una parte di pubblico. Quindi “siamo italiani… su le mani”».

Su le mani, perché?

«Qualcuno intende su le mani perché ci stanno puntando una pistola, invece qualcun altro intende su le mani perché possiamo conquistare pure il cielo. E questo è vero».

Già deciso per chi votare?

«Non ancora, non c’è una faccia nuova. Mi piaceva molto Renzi, l’ho conosciuto e avrà tempo per farsi strada. Non è che io sia politicamente disilluso, perché un pensiero ce l’ho, che è quello che va a favore di famiglia, di ricerca, sanità, strutture, di cultura, però alla fine dentro un partito ci sono tre leader che litigano… ti sembra una cosa un po’ una comica e la prendi a ridere. Probabilmente, credo che non andrò a votare perché non mi sento stimolato».

Luca era gay è del 2009.  A cantarla oggi le polemiche sarebbero state le stesse di allora?

«Si, certo. Se cantassi: “Luca non sta più con lei ed è tornato gay” tutti direbbero che ho scritto una canzone bellissima. Io ho cantato “Luca era gay e adesso sta con lei” e sono stato accusato di aver detto che un gay è malato. Io ho rispetto per la parola malattia che credo sia una parola con cui nessuno voglia avere a che fare: nella canzone c’è una strofa che dice “Questa è la mia storia, solo la mia storia, nessuna malattia, nessuna guarigione”. Parlavo della storia di una persona che se non si trova in una condizione può cambiare perché – al di là del fatto che la storia sia vera – è vero che si può.  Non ho cantato la parte che avrebbero voluto sentire quelli che fanno i finti paladini difensori. Ho raccontato una storia e non pensavo che succedesse tanto casino. La racconterò tutta la vita. Ad avercene di “Luca era gay”, anche perché è una canzone intellettualmente onesta».

Cosa ne pensi delle adozioni gay?

«Secondo me, un bambino dovrebbe avere una figura paterna e una materna. Questa è pedagogia. Poi da una parte ci sarà la gente che ritiene che sia meglio affidare i bambini a una coppia omosessuale che si vuole bene piuttosto che abbandonarli in un bidone o affidarli ad una casa famiglia. Secondo il mio pensiero personale, e quindi condivisibile o meno, nelle case famiglia lavorano persone preparate e che conoscono i bambini e poi ci sono tantissime coppie eterosessuali in attesa inutilmente che gli venga affidato un bambino».

A differenza che in quello della musica, nel mondo del calcio, l’omosessualità è ancora un argomento tabù.

«Si arriverà anche nel calcio a parlarne. perché il mondo sta andando in quella direzione. Bisogna riuscire ad accettare una persona nella condizione in cui sta bene. Io sono stato scambiato per quello che ce l’ha con i gay, e se fosse così  lo direi. Mi hanno dato dell’ omofobo e adesso quando faccio i concerti spiego cosa significa davvero omofobia. Io non ho paura degli omosessuali. Credo che nessuno ne abbia. Omofobia è un termine politicamente inventato negli ultimi anni. Forse il nuovo termine è “poviafobia.” A Firenze (dove vive, ndDM) non ho nessun problema a entrare in un locale gay, ma in quel momento sento di esser guardato male e allora chi è che discrimina?»

Al posto di Morgan a XFactor o al posto di Grazia Di Michele ad Amici?

«Morgan è uno che giudica e ha il suo carattere, è un cantautore e non ha mai scritto una canzone che ha scalato le classifiche. E’ molto stimato perché ha una grande cultura. Vorrei avere la cultura di Morgan e il buon senso di Grazia Di Michele».

Parliamo di televisione, qual è il programma che proprio non riesci a guardare?

«La pubblicità (ride). Non lo so, non c’è un programma. A parte il calcio, la televisione non la guardo tanto. Guardo Violetta, a cui mi ha fatto appassionare mia figlia Emma. E’ la storia di una ragazzina che canta. Quando verrà in Italia, le ho promesso che la porterò al concerto».

Vasco Rossi o Ligabue?

«Io son cresciuto con Vasco Rossi, con i suoi testi, con il suo stile di vita. Sono stato due anni in comunità perché ho fatto delle cavolate ai tempi in cui avevo venti, ventidue anni. Vasco l’ho ascoltato perché le sue canzoni mi davano la speranza di vivere in una condizione migliore. Cosa che poi è accaduta. Ligabue è molto più preciso. Ha dei testi ultimamente molto più forti..Scrive cose tipo “l’amore conta – conosci un altro modo per fregar la morte” che è una cosa che avrei volto scrivere io».

Devi scegliere un cantante con cui fare un tour. Chi sceglieresti?

«Non sopporto i duetti e queste operazioni discografiche. Forse con Baglioni, ma a cantare i suoi pezzi. Se dovessi  fargli da corista, allora sì».

Il prossimo brano che interpreterai a I Migliori Anni?

«Tanta voglia di lei dei Pooh. E’ la prima canzone che ho cantato…e non è detto che la canti bene».

Sei nella condizione di poter invitare a cena fuori una tua collega de I Migliori Anni, chi scegli?

«Alexia. Non che ci sia qualcosa, per carità (ride). E’ una ragazza intelligente, piacevole, con la quale puoi parlare di tantissime cose.  Ha un cervello, è mamma e a me piacciono le donne mature di testa».

Guarderesti Italia’s Got Talent se non fossi impegnato con I Migliori Anni?

«A me di solito piacciono i programmi di cose inedite. Gli darei un’occhiata per curiosità, ma poi non so».

Hai mai detto in un’intervista qualcosa di cui poi ti sei pentito?

«Si, ma alla fine bisogna dire quello che si pensa. Certo, un cantautore o un personaggio di spettacolo deve stare attento a pesare le parole. Qualunque cosa io dica vengo sempre catalogato in una casella politica. Non mi piace che ogni volta alcuni giornalisti facciano il gioco della collocazione politica dell’editore».

Quando uscirà il tuo disco?

«Esce il 19 novembre che è il giorno del mio compleanno e si chiamerà Cantautore. E poi nel 2014 porterò in giro per i teatri uno spettacolo. Parlerà di tutto, d’amore, di politica, di ironia, di satira, tematiche sociali. Sono 90 minuti di chitarra e voce per rilanciare il concetto del cantautore, far capire, più a me stesso che alla gente, che una canzone resta in piedi anche se è solo chitarra e voce. Una volta fatto questo si può riarrangiarla come vuoi. Oggi invece si fa un po’ il contrario».

Guarderai Sanremo?

«Si. Fazio, bisogna rendergliene merito, ha fatto un Sanremo rischioso, secondo i suoi gusti e con un cast apparentemente di nicchia Con un cast così il rischio è che anche questo Sanremo sarà costruito più sul contorno che  sulla musica. Sono curioso di sentire la canzone di Marco Mengoni che mi piace un sacco. Secondo me potrebbe vincere. E’ uno, che non so come faccia, ma canta come Freddy Mercury».

Hai un look ben distinguibile, all’apparenza sembri uno di quelli che non ci pensa tanto e invece…

«L’abito fa il monaco (ride). Non mi vesto mai in maniera distratta. Sabato scorso ai Miglior Anni ero vestito di bianco, che dà sempre l’idea di pulito… e poi bianco fuori un po’ sporco dentro. Quando mi vesto di nero, metto una collana che fa luce, mi piacciono gli accessori, i capelli lunghi e lo scegliere le scarpe intonate».

EPPURE CHE GUEVARA ERA CONTRO I GAY.

Eppure Che Guevara organizzò il primo campo di concentramento per gay, scrive Enrico Oliari su “Quelsi”. Il medico argentino che condusse la rivoluzione cubana organizzò i lager per i dissidenti e gli omosessuali. Questi ultimi furono da lui perseguitati in quanto tali: il “Che” non fu secondo nemmeno ai nazisti. Ecco un ritratto che Massimo Caprara, ex segretario di Palmiro Togliatti, ha descritto del rivoluzionario. Con la fuga del dittatore Fulgencio Batista e la vittoria di Fidel Castro, nel 1959, il Comandante militare della rivoluzione, Ernesto “Che” Guevara, ricevette l’incarico provvisorio di Procuratore militare. Suo compito è far fuori le resistenze alla rivoluzione. Lasciamo subito la parola a Massimo Caprara (*), ex segretario particolare di Palmiro Togliatti: “Le accuse nei Tribunali sommari rivolte ai controrivoluzionari vengono accuratamente selezionate e applicate con severità: ai religiosi, fra i quali l’Arcivescovo dell’Avana, agli omosessuali, perfino ad adolescenti e bambini”. Nel 1960 il procuratore militare Guevara illustra a Fidel e applica un “Piano generale del carcere”, definendone anche la specializzazione. Tra questi, ci sono quelli dedicati agli omosessuali in quanto tali, soprattutto attori, ballerini, artisti, anche se hanno partecipato alla rivoluzione. Pochi mesi dopo, ai primi di gennaio, si apre a Cuba il primo “Campo di lavoro correzionale”, ossia di lavoro forzato. È il Che che lo dispone preventivamente e lo organizza nella penisola di Guanaha. Poi, sempre quand’era ministro di Castro, approntò e riempì fino all’orlo quattro lager: oltre a Guanaha, dove trovarono la morte migliaia di avversari, quello di Arco Iris, di Nueva Vida (che spiritoso, il “Che”) e di Capitolo, nella zona di Palos, destinato ai bambini sotto ai dieci anni, figli degli oppositori a loro volta incarcerati e uccisi, per essere “rieducati” ai principi del comunismo. È sempre Guevara a decidere della vita e della morte; può graziare e condannare senza processo. “Un dettagliato regolamento elaborato puntigliosamente dal medico argentino – prosegue Caprara, sottolinenado che Guevara sarebbe legato al giuramento d’Ippocrate – fissa le punizioni corporali per i dissidenti recidivi e “pericolosi” incarcerati: salire le scale delle varie prigioni con scarpe zavorrate di piombo; tagliare l’erba con i denti; essere impiegati nudi nelle “quadrillas” di lavori agricoli; venire immersi nei pozzi neri”. Sono solo alcune delle sevizie da lui progettate, scrupolosamente applicate ai dissidenti e agli omosessuali. Il “Che” guiderà la stagione dei “terrorismo rosso” fino al 1962, quando l’incarico sarà assunto da altri, tra cui il fratello di Fidel, Raoul Castro. Sulla base del piano del carcere guevarista e delle sue indicazioni riguardo l’atroce trattamento, nacquero le Umap, Unità Militari per l’Aiuto alla Produzione (vedi il dossier di Massimo Consoli in queste pagine), destinati in particolare agli omosessuali. Degli anni successivi, Caprara scrive: “Sono così organizzate le case di detenzione “Kilo 5,5″ a Pinar del Rio. Esse contengono celle disciplinari definite “tostadoras”, ossia tostapane, per il calore che emanano. La prigione “Kilo 7″ è frettolosamente fatta sorgere a Camaguey: una rissa nata dalla condizioni atroci procurerà la morte di 40 prigionieri. La prigione Boniato comprende celle con le grate chiamate “tapiades”, nelle quali il poeta Jorge Valls trascorrerà migliaia di giorni di prigione. Il carcere “Tres Racios de Oriente” include celle soffocanti larghe appena un metro, alte 1.8 e lunghe 10 metri, chiamate “gavetas”. La prigione di Santiago “Nueva Vida” ospita 500 adolescenti da rieducare. Quella “Palos”, bambini di dieci anni; quella “Nueva Carceral de la Habana del Est” ospita omosessuali dichiarati o sospettati (in base a semplici delazioni, ndr). Ne parla il film su Reinaldo Arenas “Prima che sia notte”, di Julian Schnabel uscito nel 2000″. Anni dopo alcuni dissidenti scappati negli Usa descriveranno le condizioni allucinanti riservate ai “corrigendi”, costretti a vivere in celle di 6 metri per 5 con 22 brandine sovrapposte, in tutto 42 persone in una cella. Il “Che” lavora con strategia rivolta al futuro Stato dittatoriale. Nel corso dei due anni passati come responsabile della Seguridad del Estado, della Sicurezza dello Stato, parecchie migliaia di persone hanno perduto la vita fino al 1961 nel periodo in cui Guevara era artefice massimo del sistema segregazionista dell’isola. Il “Che”, soprannominato “il macellaio del carcere-mattatoio di “La Cabana”, si opporrà sempre con forza alla proposta di sospendere le fucilazioni dei “criminali di guerra” (in realtà semplici oppositori politici) che pure veniva richiesta da diversi comunisti cubani. Fidel lo ringrazia pubblicamente con calore per la sua opera repressiva, generalizzando ancor più i metodi per cui ai propri nuovi collaboratori. Secondo Amnesty International, più di 100.000 cubani sono stati nei campi di lavoro; sono state assassinate da parte del regime circa 17.000 mila persone (accertate), più dei desaparecidos del regime cileno di Pinochet, più o meno equivalente a quelli dei militari argentini. La figura del “Che” ricorda da vicino quella del dottor Mengele, il medico nazista che seviziava i prigionieri col pretesto degli esperimenti scientifici.

LA PICCOLA EGUAGLIANZA, IL POPULISMO E LA CADUTA PARZIALE DEGLI DEI (I MAGISTRATI).

Eguaglianza «aritmetica» o «proporzionale», secondo la distinzione di Aristotele? Nel punto d'arrivo o di partenza? Verso l'alto o verso il basso, come vorrebbero le teorie della decrescita? Se due mansioni identiche ricevono retribuzioni differenti, dovremmo elevare la peggiore o abbassare la piú alta? Ed è giusto che una contravvenzione per sosta vietata pesi allo stesso modo per il ricco e per il povero? Sono giuste le gabbie salariali, il reddito di cittadinanza, le pari opportunità? E davvero può coltivarsi l'eguaglianza fra rappresentante e rappresentato, l'idea che «uno vale uno», come sostiene il Movimento 5 Stelle? In che modo usare gli strumenti della democrazia diretta, del sorteggio e della rotazione delle cariche per rimuovere i privilegi dei politici? Tra snodi teorici ed esempi concreti Michele Ainis ci consegna una fotografia delle disparità di fatto, illuminando la galassia di questioni legate al principio di eguaglianza. Puntando l'indice sull'antica ostilità della destra, sulla nuova indifferenza della sinistra verso quel principio. E prospettando infine una «piccola eguaglianza» fra categorie e blocchi sociali, a vantaggio dei gruppi piú deboli. Una proposta che può avere effetti dirompenti.

Michele Ainis racconta le ingiustizie italiane nel nuovo "La piccola eguaglianza". In un libro il costituzionalista denuncia le piccole e grandi storture che inquinano la vita pubblica e professionale del Paese. E le colpe della sinistra, scrive Tommaso Cerno su “L’Espresso”. C'è una mappa italiana che la sinistra fa finta di non vedere. Racconta centinaia di piccole ingiustizie, una miriade di micro diseguaglianze, di stravaganti contraddizioni, iniquità, storture di un Paese dove essere uguali a parole è l’obiettivo di tutti, nei fatti resta un traguardo lontano. Michele Ainis ne traccia una radiografia tanto dettagliata quanto inquietante nel suo libro-breve “La piccola eguaglianza” (Einaudi, 136 pagine, 11 euro), un viaggio da costituzionalista ma prima ancora da cittadino dentro la contraddizione che fonda il sistema-Italia: nella teoria, siamo tutti uguali davanti alla legge, nella pratica la Repubblica nulla fa per rimuovere - come da mandato dei padri costituenti - gli ostacoli che impediscano di godere a pieno di tale principio. Con una denuncia chiara e nitida delle responsabilità della politica e, in particolare, della sinistra. Se Norberto Bobbio, spiega il costituzionalista, «scolpì la distinzione fra destra e sinistra in base al loro atteggiamento verso l’idea dell’eguaglianza», tanto da farne la stella polare dei progressisti, nei fatti tutti questi paladini dei più deboli, dei diseredati, dei potentati economici non si vedono. Anzi, aggiunge Ainis, «in Italia resistono i privilegi di stampo feudale», denunciati sempre e soltanto dai movimenti liberali e radicali. Poco, anzi pochissimo, dai riformisti di governo. La copertina del libro di Michele Ainis L’elenco del professore è serrato: bancari che lasciano il posto ai figli (siamo al 20 per cento dei casi in Italia), famigliari di ferrovieri che ancora nel 2015 viaggiano gratis sui treni, assicuratori che ci propinano le polizze più care d’Europa, e ancora tassisti che si proteggono con il numero chiuso. E avanti con farmacisti e notai, definiti da Ainis “creature anfibie”, nel senso terrestre della funzione pubblica e in quello acquatico dei guadagni privati. Spesso grazie a strafalcioni semantici, come nel caso dei medici che per prendersi lo stipendio dell’Asl e quello del privato a caccia di un luminare che risolva l’enigma di una malattia si affidano, portafoglio alla mano, all’intramoenia extramuraria. Uno scioglilingua che sembra scritto apposta per fregare i cittadini. Eppure, denuncia Ainis, gli unici a reclamare non sono quelli della sinistra parlamentare. Un saggio, dunque, ma anche un manuale delle fregature italiche che la politica finge di non vedere. Una guida ragionata del delirio di una democrazia che si professa a parole e non si applica nei fatti. Ainis spazia dal lavoro, dove di fronte a tassi di disoccupazione da record, non c’è alcuna trasparenza dell’offerta, nessuno “bandisce” i posti, consentendo una vera concorrenza. Per non parlare delle donne, abbandonate a se stesse, senza aiuti reali per educare i figli, dalla scarsità dei nidi alla casa, e rese dunque non eguali nella concorrenza con gli uomini. D’altra parte, avverte il professore, la sinistra «è anche quella che accetta i benefit di cui gode il Vaticano o in generale lo statuto di favore attribuito alla confessione cattolica» in un’Italia che, Costituzione alla mano, non ha certo una religione di Stato. Fino al caso dei famosi prof di religione, che finiscono per mettere in tasca più quattrini dei colleghi di ginnastica. Tanto per dimostrare anche nel portafoglio, come lo spirito e il corpo non valgano uguale in Cielo, ma nemmeno sulla Terra. E tanto per ricordare, come Ainis fa, che la legge sulla libertà religiosa fu proposta «dal più democristiano fra i politici democristiani (Andreotti durante il suo sesto governo, nel 1990), e poi mai approvata dagli esecutivi di sinistra che si sono alternati nel quarto di secolo successivo». Vale a dire Prodi, per due volte, D’Alema, Amato, Letta e Renzi. Per diventare un paese dove essere poveri o nullatenenti sembra l’unico modo per non essere attaccati o sospettati di chissà quale furto allo Stato o ai concittadini. In un’escalation pauperista indegna di una democrazia. «Dunque fermiamoci, finché siamo ancora in tempo», avverte Ainis. «Perché da un malinteso ideale di giustizia deriva la massima ingiustizia». E perché da un’ideologia del genere sgorga un veleno che può uccidere la democrazia stessa nel nome del quale si è generato.

Non tutte le eguaglianze sono eguali (e alcune fanno male), scrive Sabino Cassese su “Il Corriere della Sera”. Nei primi giorni di gennaio, l’incontro tra scienziati sociali e economisti americani tenutosi a Boston, nel quale l’economista francese Thomas Piketty ha esposto le sue idee sulle crescenti diseguaglianze di reddito e di ricchezza nelle società capitalistiche, ha suscitato accesi dibattiti, trasformando una compassata riunione di circa 12 mila studiosi in un campo di battaglia, diviso tra coloro che ritengono accettabile il livello di diseguaglianza delle nostre società e quelli che, all’opposto, pensano che occorra porvi rimedio, semmai con una tassa mondiale sulla ricchezza. Questo è solo un indizio dell’importanza del tema dell’eguaglianza, al quale opportunamente Michele Ainis dedica un breve libro (“La piccola eguaglianza”, Einaudi) che è, nello stesso tempo, di riflessione e di divulgazione. Ainis parte da una ricchissima illustrazione di casi di incongruenze amministrative e normative, di irrazionalità, di piccole iniquità, di storture, per poi passare in rassegna piccole e grandi diseguaglianze ed esporre e sviluppare, in forma divulgativa, idee maturate nei suoi lavori scientifici. Spiega che alla eguaglianza in senso formale (tutti sono eguali di fronte alla legge) si è venuta ad accostare l’eguaglianza in senso sostanziale (per cui la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto l’eguaglianza). Rileva che le due declinazioni dell’eguaglianza sono in conflitto. Infatti, la prima si esprime attraverso misure negative, la seconda con azioni positive. La prima tende a conservare lo status quo , la seconda a ribaltarlo. La prima comporta eguaglianza degli stati di partenza, la seconda eguaglianza dei punti di arrivo. La prima ha come destinatario il singolo, la seconda riguarda gruppi o categorie. Infine, la prima spinge verso discipline uniformi, la seconda verso discipline differenziate. Per far consistere le due declinazioni dell’eguaglianza, ambedue necessarie — continua Ainis — occorre convincersi che la prima deve funzionare come regola, la seconda come eccezione temporanea, destinata a durare finché le discriminazioni a danno di particolare categorie siano finite. Le azioni positive «possono opporsi alle piccole ingiustizie, quelle che penalizzano gruppi o classi di soggetti all’interno di una comunità statale. La piccola eguaglianza, l’eguaglianza “molecolare” è tutta in questi termini. E i suoi destinatari sono i gruppi deboli, le minoranze svantaggiate». L’altra lezione che Ainis trae dalla sua ampia rassegna di casi è quella che l’egualitarismo è pericoloso. L’eguaglianza radicale è l’antitesi dell’eguaglianza, perché appiattisce i meriti e perciò salva i demeriti. Così come l’appiattimento dei destini individuali, ispirato all’ideologia del pauperismo, discende da un malinteso ideale di giustizia, da cui deriva la massima ingiustizia. In un’Italia affamata di giustizia, temi come questi dovrebbero divenire motivi di discussione quotidiana. Stanno maturando altre esigenze di eguaglianza, mentre istituti chiamati ad assicurare l’eguaglianza producono vistose diseguaglianze. Consideriamo solo quattro ostacoli all’eguaglianza. Il primo è quello che deriva dall’accesso privilegiato al lavoro e colpisce specialmente i giovani. Alle difficoltà del mercato del lavoro, derivanti dalla limitatezza dell’offerta di posti di lavoro, si aggiunge la scarsa trasparenza dell’offerta. Né i datori di lavoro privati né quelli pubblici «bandiscono» i posti, consentendo conoscenza e concorrenza in modo eguale a tutti. Al lavoro si accede, quindi, attraverso procedure privilegiate, la famiglia, le conoscenze personali, i legami di «clan» politici, i canali «mafiosi». Un secondo ostacolo è quello che non consente alle donne l’accesso al lavoro. Carenza di provvidenze per la famiglia, scarsità di asili nido, mancanza di supporti ai nuclei familiari escludono le donne dal lavoro (con il paradosso che la loro presenza in ogni grado di scuola è prevalente, mentre diminuisce sensibilmente negli altri luoghi di lavoro, con poche eccezioni, quali l’insegnamento e la magistratura). Un terzo grave problema di giustizia sociale riguarda gli immigrati. Sia i giudici sia il Parlamento stanno estendendo a loro favore, ma in maniera contraddittoria e parziale, i diritti politici, i diritti di libertà e i diritti a prestazioni da parte dello Stato (accesso alla scuola, al sistema previdenziale, al sistema assistenziale, alla sanità) spettanti ai cittadini. Ma dopo quanto tempo gli immigrati cominciano a godere di questi diritti, avvantaggiandosi della solidarietà della collettività nella quale sono entrati? Perché alcuni di questi diritti vengono riconosciuti e altri non lo sono? Quali costi il riconoscimento comporta e quali condizioni, quindi, bisogna porre a esso? Infine, lo Stato del benessere opera principalmente a favore dei pensionati, meno per gli inoccupati e i disoccupati. Lo squilibrio delle risorse conferite, per vincere le diseguaglianze, ai diversi rami del welfare produce, paradossalmente, altre diseguaglianze.

Questo breve saggio sul principio di eguaglianza e su ciò che lo mette in crisi si articola in sei capitoli, scrive Fulvio Cortese.

Il primo chiama subito in causa la disperante concretezza del tema e si risolve in una carrellata di esempi, tratti dalla cronaca, su quale sia, nel nostro paese, la varia e diffusa fenomenologia della discriminazione.

Il secondo capitolo spiega preliminarmente quale sia l’approccio migliore per garantire l’eguaglianza, suggerendo che il principio possa garantirsi in modo credibile solo in una prospettiva relativa – definita dall’Autore come “molecolare” – e quindi resistendo alla tentazione di “alzare gli occhi al cielo” e di voler realizzare un’impossibile eguaglianza assoluta.

Proprio in questa direzione, il terzo capitolo chiarisce in modo sintetico, ma efficace, come la dottrina costituzionalistica e la Corte costituzionale abbiano elaborato e consolidato precise tecniche di analisi per verificare il puntuale rispetto del principio da parte del legislatore.

Il quarto capitolo si domanda se esitano anche dei criteri positivi per guardare all’eguaglianza, da un lato evidenziando che il principio non esige sempre una parità di trattamento verso l’alto o verso il basso (dipende dalla rilevanza costituzionale del “diritto” cui di volta in volta si ambisce), dall’altro ricordando che alla base di una corretta metabolizzazione dell’eguaglianza sta la consapevolezza che essa non serve per assicurare a tutti un identico punto d’arrivo, bensì per consentire a ciascuno di esprimere le proprie capacità.

Il quinto capitolo, allora, è la mise en place delle acquisizioni maturate nel corso della trattazione, volgendo così lo sguardo, in modo talvolta originale, a fattori differenzianti ancora e sempre particolarmente spinosi (il sesso, l’età, l’etnia, la provenienza territoriale, la religione; ma anche la pericolosa e strutturale frattura che si insinua invariabilmente tra governanti e governati).

Il sesto capitolo, infine, non ha un valore veramente conclusivo. Preso atto che la sinistra ha ormai abbandonato il suo ruolo di essere paladina dei più deboli, il libro si chiude con la sconsolata ricognizione del dibattito pubblico dei nostri giorni e della costante e strisciante tentazione di molti a risolvere la percezione della propria diseguaglianza nella speranza che i destini individuali si appiattiscano e nell’affermazione dell’infelicità altrui. Nella parte in cui si limita a rievocare – in modo peraltro riuscito – il succo della giurisprudenza costituzionale  sul principio di eguaglianza, la tesi “molecolare” illustrata da Ainis non presenta profili di particolare novità, se non per un pubblico totalmente digiuno del contributo che il diritto sa dare alla razionalizzazione delle discriminazioni. Spunti intelligenti, però, ci sono, e si trovano soprattutto dopo p. 84, nella parte in cui (capitolo quinto) l’Autore affronta le “categorie dell’eguaglianza” e si pronuncia su come sciogliere i fattori differenzianti sopra ricordati. Sulla diseguaglianza sessuale, si ribadisce l’importanza delle affirmative actions, ma si ricorda che lo strumento va usato con cura e a tempo, e si guarda con scetticismo all’introduzione delle quote di genere nelle competizioni elettorali. Si esprime, poi, cautela anche nei confronti della tendenza giovanilistica che pretende di rimuovere le diseguaglianze anagrafiche con una netta espulsione dei più vecchi; si critica la perdurante situazione di minorità cui sono condannati gli stranieri, rimarcando come l’impossibilità di esercitare il diritto di voto, specie a livello locale, comporti un’aperta violazione del principio cardine “no taxation without representation”; si sottolinea la sopravvenuta insostenibilità delle differenze di regime tra nuove e vecchie minoranze (tanto che lo Stato appare “forte con i deboli, debole con i forti”); si argomenta l’opportunità di considerare apertis verbis le differenze socio-economiche Nord-Sud, ripescando l’esperienza della gabbie salariali; si insiste sul carattere indispensabile di una legge sulla libertà religiosa (per non dover più ammettere, con Orwell, che “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”); si guarda, infine, alle lezioni degli antichi per ristrutturare i vizi della democrazia dei moderni (ipotizzando, ad esempio, non solo il ricorso a forme di recall, ma anche l’introduzione del sorteggio per talune cariche pubbliche, e anche per affidare ad una rappresentanza qualificata di cittadini alcune funzioni su cui i parlamentari versano in conflitti di interesse: “la verifica dei poteri, le cause di ineleggibilità e d’incompatibilità, il giudizio sulle loro immunità, la legge elettorale, la misura dell’indennità percepita da deputati e senatori, il finanziamento dei partiti”). Michele Ainis – che oltre ad essere un apprezzato costituzionalista e un noto opinionista, è anche un romanziere – si conferma uno scettico costruttivo, che non cede mai al fascino di visioni radicali e ottimalistiche, e il cui sforzo appare quello di fornire, come se fossero pillole, un po’ di istruzioni per l’uso a chi siede nella cabina di pilotaggio delle riforme.

Eguaglianza molecolare, scrive l'8 febbraio 2015 Il Sole 24 Ore, ripreso da Stefano Azzara sul suo Blog "Materialismo Storico". In un episodio della serie Dr. House, il medico televisivo politicamente scorretto si trova di fronte un paziente di colore, il quale si aspetta la prescrizione di un farmaco largamente usato dalla popolazione bianca, che però sarebbe inefficace a causa delle caratteristiche genetiche dell’uomo (data cioè la sua appartenenza etnica). Quando House gli prescrive un diverso farmaco, il paziente lo insulta, accusandolo di razzismo. Il nostro ritiene tempo perso cercare di spiegargli la questione, e se ne libera accontentandolo, cioè discriminandolo rispetto a un bianco per quanto riguarda l’appropriatezza del trattamento. Le decisioni che si prendono in ambito medico continuano a essere utili, come lo erano per Socrate, Platone e Aristotele, per ragionare sulla logica delle regole da usare per trattare gli altri e governare una società con giustizia, nonché sugli aspetti della psicologia umana che interferiscono con l’efficace uso di tali regole. La medicina e i medici non sono più quelli dell’antichità o di prima dell’avvento della medicina sperimentale, nel senso che fanno riferimento al metodo scientifico per controllare l’adeguatezza dei trattamenti. Un metodo che ha stabilito il principio che i pazienti vadano trattati in modo eguale, salvo che non vi siano ragioni valide, cioè dimostrabili e controllabili, per fare diversamente. Il biologo molecolare e premio Nobel Francois Jacob ha ricordato che l’eguaglianza, come categoria morale e politica, è stata inventata «precisamente perché gli esseri umani non sono identici». Lo studio dei contorni concreti della diversità biologica in rapporto all’idea astratta e controintuitiva dell’eguaglianza politica e morale, usando i risultati che scaturiscono dalla ricerca naturalistica e che dimostrano le difficoltà psicologiche individuali di elaborare un’idea razionale di giustizia, può essere un’ottima opportunità di avanzamento anche per le scienze umane. Che comunque arrivano a conclusioni coerenti e valide anche confrontando i risultati che derivano dall’uso di idee diverse di eguaglianza. Infatti, anche per il costituzionalista Michele Ainis, «la storia del principio di eguaglianza è segnata dalla differenza, non dalla parità di trattamento. [...]è segnata dalla progressiva consapevolezza della necessità di differenziare le situazioni, i casi, per rendere effettiva l’eguaglianza». Il libro di Ainis passa in rassegna le diseguaglianze o i soprusi causati da leggi ideologiche o etiche, che prevalgono in Italia rispetto ad altri Paesi. E argomenta che non è prendendo di mira le macro-diseguaglianze (es. sconfiggere la povertà nel mondo) che si riesce a migliorare il funzionamento delle società umane, ma concentrandosi sulle dimensioni micro, dove si può più agire per ripristinare una concreta giustizia sociale e politica. Se si osservano le diseguaglianze con il microscopio, invece che con il cannocchiale, e si va alla ricerca di un’«eguaglianza molecolare», cioè non tra individui, ma tra gruppi o categorie, ci si può aspettare almeno una gestione «minima, ma non minimale» dei problemi e delle sfide. Ainis ricorda un fatto, dietro al quale esiste una montagna di prove, cioè che l’eguaglianza ha a che fare con la giustizia, e che siamo disposti ad accettare un danno piuttosto che un’ingiustizia. Si tratta di una predisposizione evolutiva che funziona come un universale umano, e implica che si devono negoziare politicamente i valori, sapendo che questi tendono a variare nelle società complesse, e che la loro diversità è una risorsa da valorizzare. Ciò può essere fatto usando tre criteri: a) evitando di pensare che eguaglianza equivalga a identità; b) le decisioni che differenziano i diversi casi devono avere una base di ragionevolezza; c) usare proporzionalità o misura, per stabilire un vincolo oggettivo grazie al quale le decisioni legali continuino a dimostrarsi migliori nel discriminare e pesare fatti e contesti, rispetto alla politica. Il libro di Ainis è una salutare lezione di politica e diritto in chiave liberale, cioè suggerisce una strategia che coincide con i principi di fondo del liberalismo, per governare efficacemente società umane complesse e fortemente dissonanti rispetto alle predisposizioni evolutive che condizionano il comportamento umano. È un fatto che nell’età moderna i sistemi liberali si sono dimostrati, col tempo, le strategie migliori, anzi meno peggio di tutte le altre, per evitare che le diversità naturali diano luogo a diseguaglianze e quindi ingiustizie e sofferenze. Ma perché le idee liberali sono migliori? A parte la banale considerazione che non incarnano una credenza cioè non riflettono un’ideologia, ma un metodo, alla domanda risponde l’ultimo libro di Michael Shermer, editor di Skeptic e uno dei più lucidi sostenitori dell’esigenza di superare l’antinaturalismo che ancora caratterizza in larga parte l’epistemologia delle scienze umane. Shermer riassume lo stato delle conoscenze e dei dati che dimostrano che nel corso degli ultimi due secoli si è avuto un massiccio progresso morale, e che tale risultato è dovuto al prevalere della scienza e della razionalità negli affari umani. Soprattutto per quanto riguarda l’economia e il governo della società. L’efficacia del metodo scientifico e i presupposti sociali per farlo funzionare hanno ispirato anche la logica del costituzionalismo liberale. Rilanciando alcune idee di James Flynn e di Steven Pinker e passando in rassegna una serie impressionante di prove, intercalate da storie e aneddoti, Shermer ritiene che la diffusione della scienza, e in modo particolare del metodo scientifico, abbia determinato uno sviluppo delle capacità di astrazione e quindi un livello di razionalità che ha consentito alle persone di capire l’infondatezza e l’ingiustizia delle discriminazioni di genere, religione, sesso o appartenenza tassonomica. L’immagine dell’arco morale è presa da un celebre discorso di Martin Luther King, per il quale tale arco «è lungo, ma flette verso la giustizia». Shermer ritiene che le forze che hanno piegato l’arco morale sono la scienza e la razionalità.

Siamo tutti bravi a sciacquarci la bocca sull'uguaglianza. Ecco il fenomeno dei populisti.

Il Populismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il populismo (dall’inglese populism, traduzione del russo народничество narodničestvo) è un atteggiamento culturale e politico che esalta il popolo, sulla base di principi e programmi ispirati al socialismo, anche se il suo significato viene spesso confuso con quello di demagogia. Il populismo può essere sia democratico e costituzionale, sia autoritario. Nella sua variante conservatrice è spesso detto populismo di destra. Prende il nome dall'omonimo movimento sviluppatosi in Russia tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento che proponeva un miglioramento delle condizioni di vita delle classi contadine e dei servi della gleba, attraverso la realizzazione di un socialismo basato sulla comunità rurale russa, in antitesi alla società industriale occidentale. Un partito populista (Populist o People’s party) venne fondato nel 1891 anche negli Stati Uniti da gruppi di operai e agricoltori che si battevano per la libera coniazione dell’argento, la nazionalizzazione dei mezzi di comunicazione, la limitazione nell’emissione di azioni, l’introduzione di tasse di successione adeguate e l’elezione di presidente, vicepresidente e senatori con un voto popolare diretto; sciolto dopo le elezioni presidenziali del 1908. Il termine è stato riferito alla prassi politica di Juan Domingo Perón (vedi la voce peronismo e la sua recente variante di sinistra, il kirchnerismo), al bolivarismo e al chavismo, in quanto spesso fanno riferimento alle consultazioni popolari e ai plebisciti, perché il popolo decida direttamente nei limiti della Costituzione. Il movimento precursore di questa idea di democrazia può essere indicato e riconosciuto nel bonapartismo (Napoleone I e Napoleone III, in accezione cesaristica) e nella rivoluzione francese, specialmente nelle fazioni che si rifacevano alle idee politiche del filosofo Jean-Jacques Rousseau, come i giacobini. In Italia è stato spesso usato con accezione negativa, nei confronti del fascismo o del berlusconismo, e di vari movimenti leaderistici, spesso affini alla destra, ma anche al centro-sinistra (come l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro); spesso questi gruppi hanno rifiutato questa etichetta. L'accezione del termine in senso positivo, come "vicinanza al popolo e ai suoi valori", è stata invece rivendicata da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio per il proprio movimento politico. La parola populismo può avere numerosi campi di applicazione ed è stata usata anche per indicare movimenti artistici e letterari, ma il suo ambito principale rimane quello della politica. In ambito letterario si intende per populismo la tendenza a idealizzare il mondo popolare come detentore di valori positivi. Il largo uso che i politici e i media fanno del termine "populismo" ha contribuito a diffonderne un’accezione fondamentalmente priva di significato: è rilevabile infatti la tendenza a definire "populisti" attori politici dal linguaggio poco ortodosso e aggressivo i quali demonizzano le élite ed esaltano "il popolo"; così come è evidente che la parola viene usata tra avversari per denigrarsi a vicenda – in questo caso si può dire che "populismo" viene talvolta considerato dai politici quasi come un sinonimo di "demagogia". La definizione di "populismo" data dal vocabolario Treccani è "...atteggiamento ideologico che, sulla base di princìpi e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi. Con significato più recente, e con riferimento al mondo latino-americano, in particolare all’Argentina del tempo di J. D. Perón (v. peronismo), forma di prassi politica, tipica di paesi in via di rapido sviluppo dall’economia agricola a quella industriale, caratterizzata da un rapporto diretto tra un capo carismatico e le masse popolari, con il consenso dei ceti borghesi e capitalistici che possono così più agevolmente controllare e far progredire i processi di industrializzazione.".

La definizione di "populismo" data dal dizionario Garzanti è:

1. atteggiamento o movimento politico, sociale o culturale che tende all’elevamento delle classi più povere, senza riferimento a una specifica forma di socialismo e a una precisa impostazione dottrinale;

2. (spreg.) atteggiamento politico demagogico che ha come unico scopo quello di accattivarsi il favore della gente;

3. (st.) movimento rivoluzionario russo della seconda metà del XIX secolo, anteriore al diffondersi del marxismo, che teorizzava il dovere degli intellettuali di mettersi al servizio del popolo.

Per alcuni tale nozione sembra essere più volta a spiegare fenomeni politici passati che non a descrivere il significato attuale del termine. Populista, oggi, è piuttosto chi accetta come unica legittimazione per l'esercizio del potere politico quella derivante dal consenso popolare. Tale legittimazione è considerata unica e di per sé sufficiente a legittimare un superamento dei limiti di diritto posti, dalla Costituzione e dalle leggi, all'esercizio del potere politico stesso. Il termine non ha alcun legame con una particolare ideologia politica (destra o sinistra) e non implica un raggiro del popolo (come al contrario implica la demagogia), ma anzi presuppone un consenso effettivo del popolo stesso. Per altri la parola in ambito politico conserva il senso dispregiativo sinonimo di demagogia. Il termine nasce come traduzione di una parola russa: il movimento populista è stato infatti un movimento politico e intellettuale della Russia della seconda metà del XIX secolo, caratterizzato da idee socialisteggianti e comunitarismo rurale che gli aderenti ritenevano legate alla tradizione delle campagne russe. Allo stesso modo il termine può essere considerato legato al People's Party, un partito statunitense fondato nel 1892 al fine di portare avanti le istanze dei contadini del Midwest e del Sud, le quali si ponevano in conflitto con le pretese delle grandi concentrazioni politiche industriali e finanziarie, e anch’esso caratterizzato da una visione romantica del popolo e delle sue esigenze.

Gli studiosi di scienze politiche hanno proposto diverse definizioni del termine ‘populismo’. «A ognuno la sua definizione di populismo, a seconda del suo approccio e interessi di ricerca», ha scritto Peter Wiles in Populism: Its Meanings and National Characteristics (1969), il primo testo comparativo sul populismo internazionale curato da Ernest Gellner e Ghita Ionescu. Tuttora giornalisti e studiosi di scienze politiche usano spesso il termine in maniera contraddittoria e confusa, alcuni per fare riferimento a costanti appelli alla gente che ritengono tipici di un politico o un movimento, altri per riferirsi a una retorica che essi considerano demagogica, altri infine per definire nuovi partiti che non sanno come classificare. Negli ultimi anni diversi studiosi hanno proposto nuove definizioni del termine allo scopo di precisarne il significato. Ad esempio, nel loro volume Twenty-First Century Populism: The Spectre of Western European Democracy, Daniele Albertazzi e Duncan McDonnell hanno definito il populismo come «una ideologia secondo la quale al ‘popolo’ (concepito come virtuoso e omogeneo) si contrappongono delle élite e una serie di nemici i quali attentano ai diritti, i valori, i beni, l’identità e la possibilità di esprimersi del popolo sovrano». Regimi come quello fascista nella persona di Mussolini, quello nazista di Hitler e in generale la maggior parte delle dittature, sono un perfetto esempio del rapporto diretto fra il leader e le masse che si definisce populismo. Ma al di là di questo e di alcune caratteristiche retoriche, la definizione di populismo è rimasta estremamente vaga, facendone per lungo tempo una comoda categoria residuale, buona per catalogare una grande varietà di regimi difficili da classificare in maniera più precisa ma nei quali era possibile ritrovare qualche elemento comune. Questi elementi erano la retorica nazionalista ed anti-imperialista, l’appello costante alle masse e un notevole potere personale e carismatico del leader. Questa concezione nebulosa del populismo è stata utile durante la seconda metà del Novecento per inserire in una categoria comune vari regimi del Terzo Mondo, come quello di Juan Domingo Perón in Argentina, Gamal Abd el-Nasser in Egitto e Jawaharlal Nehru in India, che non potevano essere definiti democrazie liberali né socialismi reali. Un’altra accezione di populismo (ma neanche questa tenta di dare al termine una definizione precisa) è quella che lo rende un “contenitore” per movimenti politici di svariato tipo (di destra come di sinistra, reazionari e progressisti, e via dicendo) che abbiano però in comune alcuni elementi per quanto riguarda la retorica utilizzata. Per esempio, essi attaccano le oligarchie politiche ed economiche ed esaltano le virtù naturali del popolo (anch’esso mai definito con precisione, e forse indefinibile), quali la saggezza, l’operosità e la pazienza. Il populismo guadagna perciò consensi nei momenti di crisi della fiducia nella "classe politica". Il politologo Marco Tarchi, in "L'Italia populista", ricostruisce le vicende del populismo in Italia, dove i momenti di minima fiducia nella politica (e nei politici) si sono avuti con la Seconda guerra mondiale e con la denuncia della corruzione del sistema politico a seguito delle inchieste di Mani Pulite. Tarchi si sofferma soprattutto sui due movimenti più schiettamente populisti: l'Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini (l'"uomo qualunque" contro l'"uomo politico") e la Lega Nord (il "popolo del nord" contro "Roma ladrona"). Nella politica italiana contemporanea per Guy Hermet Forza Italia è invece un esempio di «neo-populismo mediatico», ovvero una forma di demagogia che fa dei mass media il suo veicolo di diffusione.

Tutti populisti, scrive Leopoldo Fabiani su “L’Espresso”. Chi è più populista, Beppe Grillo o Matteo Salvini? E se scoprissimo che a battere in breccia tutti e due fosse invece Matteo Renzi? Volendo, ognuno potrebbe divertirsi a compilare la propria classifica, seguendo le indicazioni fornite da Marco Tarchi nel libro Italia populista (il Mulino, 380 pagine, 20 euro), seconda edizione sostanziosamente aggiornata rispetto alla prima del 2003. Partiamo dalla definizione: più che un'ideologia o uno stile politico, dice Tarchi, il populismo è una mentalità.«Che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l'integrità all'ipocrisia, all'inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche sociali e culturali e ne rivendica il primato, come forma di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione». Alla luce di questa definizione e seguendo il percorso del libro tra le varie formazioni italiane ed europee che populiste possono essere classificate, si potrebbe dire che oggi tutta la politica è populista. A destra come a sinistra. E in fondo, si può aggiungere, quando Angela Merkel sostiene che non si capisce perché l'operaio tedesco dovrebbe pagare per l'incapacità e le ruberie dei governanti greci, ecco che anche l'austera cancelliere propone un discorso populista, sia pure in un'inedita forma “transnazionale”. Se la mentalità populista è ormai così pervasiva da aver egemonizzato tutta la politica, si potrebbe essere tentati di concludere che è inutile oggi demonizzare il populismo, che i politici sono in qualche modo obbligati a parlare questo linguaggio. E che poi quello che conta è quello che fanno. Ma proprio qui c'è un problema: si sono visti molti leader ottenere consensi, anche ampi, esaltando questa mentalità. Qualcuno, Berlusconi per esempio, così è anche riuscito ad andare al potere. Ma nessuno poi è stato capace di governare. Almeno finora.

Siamo tutti populisti. Se è comunicazione personale diretta, allora va ben oltre la Lega, Grillo e Berlusconi. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, scrive Ilvo Diamanti su “La Repubblica”. C'è un fantasma che si aggira in Europa e in Italia. Inquietante e opprimente. Il populismo. Una minaccia diffusa, che echeggia in questa confusa campagna elettorale, in vista delle Europee. Eppure "mi" è difficile spiegare di che si debba avere "paura". Il populismo, infatti, associa forze politiche diverse e, talora, opposte fra loro, ma "unite" contro l'Unione Europea e contro l'Euro. Il termine, ad esempio, viene applicato al Front National, in Francia, e alla Lega, in Italia. Insieme ad altri partiti, di altri Paesi, fuori dall'Euro. Come l'Ukip, in Inghilterra. Anche se il Fn e l'Ukip si oppongono alla Ue in nome della sovranità, rispettivamente, della Francia e dell'Inghilterra. La Lega, invece, in nome dell'indipendenza dei popoli padani e contro la sovranità dell'Italia. Fino a poco più di vent'anni fa, al contrario, era a favore dell'Europa - delle Regioni. Ma la Lega è abituata a cambiare idea, in base alle convenienze. Come ha fatto nei confronti dei veneti(sti). Nel 1997, al tempo dell'assalto al campanile di San Marco, i Serenissimi, secondo Bossi, erano "manovrati dai servizi segreti italiani". Oggi, invece, sono perseguitati dall'imperialismo romano. Ma la lista dei populisti va ben oltre. Coinvolge gli antieuropeisti del Nord Europa e quelli dell'Est. Per tutti e fra tutti, il Fidesz di Viktor Orbán che ha trionfato di recente in Ungheria (dove Jobbik, movimento di estrema destra, ha superato il 20%). Oltre ad Alba Dorata, in Grecia. In Italia, però, il populismo è un'etichetta applicata senza molti problemi. Riguarda, anzitutto, il M5s e Beppe Grillo. Per il loro euroscetticismo ma, soprattutto, per l'esplicita opposizione alla democrazia rappresentativa. In nome del "popolo sovrano" che decide da solo. Senza rappresentanti. Grazie al referendum che ormai si può svolgere in modo permanente nella piazza telematica. La Rete. Naturalmente, il Popolo, per potersi riconoscere come tale, ha bisogno di riferimenti comuni. Così si rivolge a un Capo. Che comunichi con il Popolo direttamente. Senza mediazioni e senza mediatori. Attraverso i Media. La Rete, ma anche la televisione. Dove il Capo parla con me. Direttamente. In modo "personale". Non a caso, il Grande Populista del nostro tempo è stato Silvio Berlusconi. Il Berlusconismo, in fondo, è proprio questo: partito e Tv riassunti nella persona del Capo. La Rete ha moltiplicato il dialogo personale. Perché tutti possono parlare con tutti. Con il proprio nome, cognome, account e alias. Associato a un'immagine, una fotina, un marchio, un profilo. Naturalmente, c'è bisogno di un blogger, che orienti il dibattito e che, alla fine, tiri le somme. Ma che, soprattutto, dia un volto comune a tanti volti (oppure un "voto" comune a tanti "voti"). Che fornisca una voce comune a un brusio di messaggi fitto e incrociato. Senza Grillo, il M5s non sarebbe un MoVimento. Ma un'entità puntiforme priva di "identità". Grillo, d'altronde, sa usare la Tv, oltre che la Rete (guidato da Gianroberto Casaleggio). La maneggia da padrone. C'è sempre senza andarci mai. È la Tv che lo insegue, nelle piazze e, ora e ancora, nei teatri. Riprende e rilancia i suoi video, prodotti e postati nel suo blog. Ma se il populismo è comunicazione personale diretta senza mediazione, allora va ben oltre la Lega, Berlusconi e Grillo. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, politicamente. Perché deve saper usare la Tv e i nuovi media. Diventare protagonista di quella che Georges Balandier ha definito "La messa in scena della politica". Come ha fatto Matteo Renzi. Capace, meglio di ogni altro, di parlare direttamente al "popolo". Di lanciare sfide simboliche e pratiche. In Italia, d'altronde, ogni riforma promessa è rimasta tale. Imbrigliata da mille difficoltà, mille ostacoli. Renzi, per questo, va veloce. E parla direttamente al popolo. A ciascuno di noi. Guarda dritto nella macchina da presa. E ci chiama per nome. È per questo che Grillo lo ha preso di mira, come il suo principale, vero "nemico" (politico). Perché il popolo ha bisogno di un capo che gli indichi i suoi nemici. Gli "altri" da cui difendersi. L'Europa, la globalizzazione, le banche, i mercati. Gli "stranieri". Gli immigrati, i marocchini, i romeni, i veneti, i romani, gli italiani. E, ancora, le élite, la classe politica, i partiti, i giornalisti, i giornali, i manager, le banche, i banchieri. Così il catalogo dei populismi si allarga, insieme all'elenco dei populisti. Berlusconi, Grillo, Marine Le Pen (per non parlar del padre), Renzi. Ma anche Vendola, con il suo parlar per immagini e il suo partito personalizzato. Lo stesso Monti, bruciato dal tentativo di diventare pop, con il cagnolino in braccio (che fine avrà fatto Empy?). Uscendo dal "campo" politico, Papa Francesco è, sicuramente, il più bravo a parlare con il suo "popolo". Il più Pop di tutti di tutti. D'altronde, alle spalle, ha esempi luminosi, come Giovanni Paolo II e, ancor più, Giovanni XXIII. E poi è argentino, come Perón. Scivola sull'onda di una lunga tradizione. Non è un caso, peraltro, che la fiducia nei suoi confronti sia molto più alta di quella nella Chiesa. Perché Francesco, sa toccare il cuore dei fedeli (e degli infedeli). E supera ogni confine. Ogni mediazione. Va oltre la Chiesa. Parla al suo popolo, senza distinzioni (visto che la fiducia nei suoi riguardi viene espressa da 9 persone su 10). Per questo, diventa difficile dire chi sia populista. O meglio, chi non lo sia. Perché tutti coloro che ambiscano a imporsi sulla scena pubblica debbono usare uno stile "populista". E lo ammettono senza problemi, mentre ieri suonava come un insulto. Echeggiando Jean Leca: "Quel che ci piace è popolare. Se non ci piace è populista". Oggi invece molti protagonisti politici rivendicano la loro identità populista. Grillo e Casaleggio, per primi, si dicono: "Orgogliosi di essere insieme a decine di migliaia di populisti. (...) Perché il potere deve tornare al popolo". Mentre Marine Le Pen si dichiara "nazional-populista", in nome del "ritorno alle frontiere e alla sovranità nazionale". Meglio, allora, rinunciare a considerare il "populismo" una definizione perlopiù negativa e alternativa alla democrazia. Per citare, fra gli altri, Alfio Mastropaolo, ne fa, invece, parte. Come il concetto di "popolo". Il quale, quando ricorre in modo tanto esplicito e frequente, nel linguaggio pubblico, denuncia, semmai, che qualcosa non funziona nella nostra democrazia "rappresentativa". Perché il "popolo" non trova canali di rappresentanza efficaci. I rappresentanti e i leader non dispongono di legittimazione e consenso adeguati. Perché il governo e le istituzioni non sono "efficienti" e non suscitano "passione". Così non resta che il populismo. Sintomo e al tempo stesso diagnosi del malessere democratico. Meglio non limitarsi a scacciarlo con fastidio. Per guarire dal populismo occorre curare la nostra democrazia.

«Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Molti puzzano perché tengono lo stesso vestito per settimane. Si costruiscono baracche nelle periferie. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano in 2 e cercano una stanza con uso cucina. Dopo pochi giorni diventano 4, 6, 10. Parlano lingue incomprensibili, forse dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina; spesso davanti alle chiese donne e uomini anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano sia perché poco attraenti e selvatici, sia perché è voce diffusa di stupri consumati quando le donne tornano dal lavoro. I governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, di attività criminali. Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione».

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Fonte: Relazione dell'Ispettorato per l'immigrazione del Congresso degli Stati Uniti sugli immigrati italiani, ottobre 1919.

Razzismo, la gaffe di Germano: falso il testo letto ai bimbi rom. Elio Germano, attore figo, impegnato e perciò di sinistra, ha pensato bene di dare il suo contributo alla mobilitazione contro Salvini. Ma ha fatto una clamorosa gaffe, scrive Giampaolo Rossi su “Il Giornale”. Elio Germano, attore figo, impegnato e perciò di sinistra, ha pensato bene di dare il suo contributo alla mobilitazione delle anime belle contro Salvini e il pericolo della destra intollerante e, soprattutto, ignorante. Per questo ha realizzato un video contro il razzismo; ha preso un gruppo di bambini Rom sullo sfondo di una roulotte, si è seduto in mezzo a loro e ha iniziato a leggere un documento con tono recitato (come si addice ai grandi attori) e l’aria di chi sta svelando al mondo una verità nascosta ma scontata. Il testo è una descrizione offensiva e razzista degli italiani emigrati in America agli inizi del ‘900, definiti ladri, puzzolenti, stupratori, abituati a vivere dentro baracche fatiscenti e organizzati secondo regole di clan. Elio Germano spiega che quel testo è un documento dell’allora Ispettorato per l’Immigrazione degli Stati Uniti. L’obiettivo dell’attore è ovvio: dimostrare che certi italiani di oggi sono razzisti verso gli immigrati e i Rom, come lo erano gli americani verso gli italiani all’inizio del secolo. Tutto molto bello e politically correct, se non fosse che, a quanto pare, quel documento è una patacca, un falso. Il testo, che gira da molti anni su internet, fu già utilizzato nel 2013 da Roberto Saviano (uno che di patacche se ne intende) nel salottino televisivo di Fabio Fazio. Più recentemente, Carlo Giovanardi, l’agguerrito deputato di centrodestra, ha pubblicato il vero documento originale della Commissione Dillingham sull’Immigrazione, che non contiene nulla di quanto letto dagli antirazzisti di mestiere, ma al contrario è un’attenta analisi dell’immigrazione italiana del periodo. Che giudizi sprezzanti e spesso offensivi contrassegnassero l’opinione pubblica americana nei confronti degli italiani (soprattutto meridionali) è cosa appurata storicamente da diversi studi. Ma quel documento che i fulgidi artisti di sinistra si passano di mano in ogni occasione per dare del razzista a chiunque contesti l’immigrazione clandestina, è una patacca degna della loro inutile demagogia.

Saviano va in tv a spiegare che una volta eravamo noi italiani gli zingari d’America. Ma è una bufala. Giugno 12, 2013 Carlo Giovanardi. Ospite di Fabio Fazio, lo scrittore cita «un documento dell’Ispettorato per l’immigrazione Usa» che tratta gli italiani come zecche. Peccato che sia una patacca Domenica 26 maggio Roberto Saviano, intervistato da Fabio Fazio nella trasmissione Che tempo che fa, per combattere quella da lui definita l’ondata di «odio morale verso gli immigrati» ha letto un testo. Cito testualmente le sue parole: «Avevo visto e trascritto qui alcune parole della relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso americano, quindi un documento ufficiale del governo americano del 1912, così descrive gli italiani». Ecco il testo letto da Saviano: «Gli italiani sono generalmente di piccola statura e di pelle scura, non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane, si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Si presentano di solito in due, cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci, tra loro parlano lingue a noi incomprensibili probabilmente antichi dialetti. Molti bambini  vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, fanno molti figli che poi faticano a mantenere. Dicono siano dediti al furto, e le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici, ma perché si parla di stupri o agguati in strade periferiche. Propongo che si privilegino le persone del nord, veneti e lombardi, corti di comprendonio e ignoranti, ma disposti più degli altri a lavorare». Concludeva poi Saviano: «Incredibile che il nostro paese tutto questo non lo ricordi, non ne faccia memoria attiva, ma lo trasferisca quando si rivolge ad altre comunità o “etnie”». Conosco bene la storia dell’emigrazione italiana e delle terribili discriminazioni e umiliazioni di cui i nostri connazionali sono stati vittime all’estero ma, trovandomi per caso quella sera davanti alla tv di Stato, mi è parso del tutto evidente il fumus di “patacca” che emanava da frasi così volgari ed offensive in un documento ufficiale del Senato degli Stati Uniti nei confronti di un intero popolo. Una rapida ricerca su Google mi ha permesso di scoprire che già Paolo Attivissimo sul sito del CICAP (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale), aveva a suo tempo verificato che di quel testo erano in circolazione varie versioni, una delle quali, lanciata da Rainews24, citava come fonte il giornalista e conduttore televisivo Andrea Sarubbi che nel 2009  aveva pubblicato un articolo con quella citazione. Sarubbi, interpellato, aveva precisato di non aver tratto la citazione direttamente dal documento statunitense originale. La sua frase: «Ho fra le mani un documento dell’Ispettorato per l’immigrazione», non era quindi letterale, ma derivava da una fonte italiana, «un articolo pubblicato un anno fa sul giornale Il Verona dall’avv. Guarenti». Guarenti, a sua volta, dichiarava di averlo trovato «in un libro di un anno fa» ma  non era in grado di citare il titolo del libro. Insomma, concludeva Attivissimo: «Siamo di fronte ad una situazione almeno di terza mano di cui non si sa la fonte intermedia». Sulla traccia di Attivissimo ho interpellato pertanto formalmente l’ambasciata americana che mi ha risposto il 30 maggio: «La commissione sull’immigrazione degli Stati Uniti conosciuta come la Dillingham Commission dal nome del senatore del Vermont che l’ha presieduta ha lavorato dal 1907 al 1911 e ha pubblicato 41 volumi  di rapporti contenenti dati statistici sull’immigrazione negli Stati Uniti, l’occupazione degli immigrati, le condizioni di vita, la scolarizzazione dei bambini, le organizzazioni sociali e culturali, delle comunità degli immigrati e la legislazione sull’immigrazione a livello statale e federale». Continuava poi l’ambasciata americana: «Questi sono gli unici rapporti ufficiali sull’immigrazione elaborati in quegli anni e disponibili al pubblico. Da una visione superficiale, la citazione da lei riportata nella sua mail non appare in nessuno di questi rapporti, ma per esserne certi bisognerebbe eseguire una ricerca più accurata, per la quale purtroppo noi non siamo in grado di aiutarla in questo momento». Aiutati che Dio ti aiuta, ho consultato tramite la mail inviatami dall’Ambasciata tutti i volumi senza trovar traccia del documento citato da Saviano, ma viceversa una interessantissima disamina sull’immigrazione dell’Italia che ho fatto tradurre dall’inglese e si può leggere sul sito www.carlogiovanardi.it. Per il resto ringrazio Saviano che mi permette di aggiungere il XII ed ultimo capitolo al libro intitolato Balle che sto pubblicando, dove spiego come l’opinione pubblica italiana fonda le sue convinzioni su vere e proprie bufale che vengono troppo spesso disinvoltamente spacciate come verità.

61ª legislatura, Documento n. 662, RELAZIONI DELLA COMMISSIONE SULL'IMMIGRAZIONE. DIZIONARIO DELLE RAZZE O POPOLI. Presentato da DILLINGHAM il 5 dicembre 1910 alla Commissione sull'immigrazione [...] ITALIANO. La razza o il popolo dell'Italia. L'Ufficio dell'immigrazione [Bureau of Immigration] divide questa razza in due gruppi: Italiani settentrionali e Italiani meridionali. Fra i due gruppi vi sono delle differenze materiali, riconducibili a lingua, aspetto fisico e carattere, e delle differenze relative, rispetto alla distribuzione geografica. Il primo gruppo identifica gli italiani nativi del bacino del Po (compartimenti del Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emelia [sic], i distretti italiani in Francia, Svizzera e Tirolo (Austria) e i loro discendenti. Tutti i popoli della penisola geograficamente definita e delle isole della Sicilia e della Sardegna sono Italiani meridionali. Anche Genova è meridionale.

Linguisticamente, l'italiano rappresenta una delle grandi divisioni del gruppo di lingue romanze derivate dal ceppo latino della famiglia ariana. Esso è articolato in molti dialetti, la cui separazione e conservazione è favorita dalla configurazione geografica dell'Italia. Hovelacque divide questi dialetti in tre gruppi: superiore, centrale ed inferiore. Il primo comprende i dialetti genovese, piemontese, veneto, emiliano e lombardo; il gruppo centrale comprende toscano, romanesco e còrso; il gruppo inferiore comprende napoletano, calabrese, siciliano e sardo. Questi dialetti differiscono fra di loro molto più che i dialetti inglesi o spagnoli. Si dice che è difficile per un Napoletano o un Sardo farsi capire da un nativo della pianura padana. Forse più che in qualsiasi altro paese, le classi colte restano tenacemente aggrappate all'uso del dialetto in àmbito familiare, preferendolo alla forma letteraria nazionale della lingua. Tale forma letteraria è rappresentata dal dialetto toscano di Firenze, come codificato nella letteratura di Dante, Petrarca e Bocaccio [sic] nel XIV secolo. Anche altri dialetti, tuttavia, hanno una considerevole letteratura, soprattutto il veneto, il lombardo, il napoletano e il siciliano. Quest'ultimo ha una poesia particolarmente ricca. Tutto il gruppo superiore di dialetti – per restare alla definizione di Hovelacque – tranne il genovese, è settentrionale. Tali dialetti contengono molti elementi gallici o celtici e mostrano affinità con le lingue provenzali e retoromanze (ladino e friulano), con le quali confinano ovunque tranne che al sud. Il genovese e i dialetti del gruppo centrale ed inferiore sono parlati dagli Italiani meridionali.

Fisicamente, gli Italiani sono una razza tutt'altro che omogenea. La catena montuosa degli Appennini forma una linea geografica che costituisce un confine fra due gruppi etnici distinti. La regione a nord di questa linea, la valle del Po, è abitata da persone – i Settentrionali – abbastanza alte e con la testa larga (la razza "alpina"). Gli abitanti delle zone orientali ed occidentali di questa regione mostrano apporti teutonici in Lombardia ed un'infusione di sangue slavo in Veneto. Tutta l'Italia a sud dell'Appennino e tutte le isole adiacenti sono occupate da una razza "mediterranea", di bassa statura, scura di pelle e con il viso lungo. Si tratta dei "Meridionali", che discenderebbero dall'antica popolazione italica dei Liguri, strettamente imparentati con gli Iberici della Spagna e i Berberi del Nordafrica. Il principale etnologo italiano, Sergi, li fa derivare dal ceppo amitico (v. Semitico-Amitico) del Nordafrica. Bisogna ricordare che gli Amitici non sono negritici, né veri africani, sebbene si possa rintracciare un apporto di sangue africano in alcune comunità in Sicilia e in Sardegna, oltre che in Nordafrica. L'Ufficio dell'immigrazione pone gli Italiani settentrionali nella divisione "celtica" e quelli meridionali in quella "iberica". La commistione fra i due gruppi etnici è stata relativamente scarsa, anche se molti Italiani settentrionali hanno doppiato gli Appennini ad est, facendo ingresso nell'Italia centrale. Pertanto, la linea di demarcazione fra Emiliani e Toscani è molto meno netta che fra Piemontesi e Genovesi. Un sociologo italiano, Niceforo, ha indicato che questi due gruppi etnici differiscono profondamente fra di loro, da un punto di vista sia fisico sia caratteriale. Egli descrive il Meridionale come irritabile, impulsivo, molto fantasioso, testardo; un individualista poco adattabile ad una società ben organizzata. Al contrario, descrive il Settentrionale come distaccato, risoluto, paziente, pratico e capace di grandi progressi nell'organizzazione politica e sociale della civiltà moderna. Sia i Settentrionali sia i Meridionali sono dediti alla famiglia, d'animo buono, religiosi, artistici ed industriosi. Sono quasi tutti di religione cattolica. La maggior parte dell'immigrazione italiana negli Stati Uniti è reclutata fra le classi contadine ed operaie. In America, tuttavia, essi non hanno conseguito successo come agricoltori, con l'eccezione della frutticoltura e dell'enologia, soprattutto in California, dove figurano ai primi posti.

L'esperto di statistica italiano Bosco ammette che l'Italia è tuttora al primo posto in termini di numero di reati contro la persona, anche se questi sono diminuiti notevolmente in seguito al miglioramento del sistema di istruzione e all'ampio flusso di emigrazione. Su questo versante l'Italia è seguita nella graduatoria dall'Austria, dalla Francia e, a una certa distanza, dall'Irlanda, la Germania, l'Inghilterra e la Scozia. Niceforo indica, sulla base dei dati statistici italiani, che tutti i reati, soprattutto i crimini violenti, sono molto più numerosi tra i Meridionali che tra i Settentrionali. Il gioco d'azzardo è diffuso. Il gioco del lotto è un'istituzione nazionale che viene utilizzata per alimentare le casse dello Stato. Il brigantaggio è ormai pressoché estinto, fatta eccezione per alcune parti della Sicilia. Le organizzazioni segrete come la Mafia e la Comorra [sic], istituzioni molto influenti tra la popolazione che esercitano la giustizia in proprio e sono responsabili di molta parte della criminalità, prosperano nell'Italia meridionale. La maggiore difficoltà nella lotta alla criminalità sembra risiedere nella propensione degli Italiani a non testimoniare contro alcuno in tribunale e a riparare i torti ricorrendo alla vendetta (v. Còrsi).

E' indicativo il fatto che l'Italia sia uno dei paesi con il maggiore tasso di analfabetismo in Europa. Nel 1901 il 48,3% della popolazione dai sei anni in su non sapeva leggere e scrivere. In quell'anno in Calabria, la parte più meridionale della penisola, il tasso di analfabetismo tra le persone dai sei anni in su era pari al 78,7%. Il tasso di analfabetismo più basso si registra nella valle del Po, nell'Italia settentrionale. I Lombardi e i Piemontesi sono gli italiani più istruiti. La situazione è tuttavia migliorata dopo che il governo ha reso l'istruzione gratuita e obbligatoria tra i 6 e i 9 anni nei comuni dove vi erano le sole scuole elementari e dai 6 ai 12 anni nei comuni dove erano presenti scuole di più alto grado.

Tra le classi più umili la povertà è estrema; le persone vivono in alloggi miseri e hanno accesso a un'alimentazione carente, basata principalmente su granoturco mal conservato. Perfino a Venezia sembra che un quarto della popolazione viva ufficialmente di carità.

I confini geografici della razza italiana sono più ampi di quelli dell'Italia. Gruppi numerosi sono presenti in paesi vicini come Francia, Svizzera ed Austria. Le province del Tirolo e dell'Istria, in Austria, sono per un terzo italiane.  Ampi gruppi sono inoltre presenti nel Nuovo Mondo. L'Italia stessa è quasi interamente italiana. Ha una popolazione di 34 milioni di persone e comprende solo piccoli bacini di altre razze (circa 80.000 Francesi nell'Italia nordoccidentale, 30.000 Slavi nell'Italia nordorientale, circa 30.000 Greci nell'Italia meridionale, circa 90.000 Albanesi in Italia meridionale e in Sicilia e 10.000 Catalani (Spagnoli) in Sardegna. Un certo numero di Tedeschi, forse meno di 10.000, è presente nelle Alpi italiane. Circa due quinti della popolazione dell'Italia si trovano nella valle del Po, ovvero in meno di un terzo della lunghezza del paese. Suddivisa approssimativamente in compartimenti, la popolazione di quest'area, occupata da Italiani settentrionali, conta circa 14 milioni di persone. Questa cifra include i Friulani dell'Italia nordorientale i quali, pur parlando una lingua latina distinta dall'italiano, sono difficilmente distinguibili dagli Italiani settentrionali. Il loro numero si situerebbe, a seconda delle diverse stime, tra 50.000 e 450.000. La popolazione dei distretti meridionali è di circa 19.750.000 persone, di cui 125.000 appartengono ad altre razze. La maggior parte degli Italiani della Francia, della Svizzera e dell'Austria sono sul piano della  razza Italiani settentrionali. Quelli della Corsica, isola appartenente alla Francia, sono Italiani meridionali.

Distribuzione degli Italiani (stima riferita al 1901)

In Europa:

Italia 33.200.000

Francia 350.000

Svizzera 200.000

Austria 650.000

Corsica 300.000

Altre parti d'Europa 300.000 

Totale 35.000.000 

Altrove:

Brasile 1.000.000

Rep. Argentina 620.000

Altre parti del Sudamerica 140.000

Stati Uniti 1.200.000

Africa 60.000 

Totale 3.020.000

Totale nel mondo (cifra approssimata) 38.000.000 

A partire dal 1900, in alcuni anni oltre mezzo milione di italiani è emigrato nelle diverse regioni del mondo. All'incirca la metà di tale flusso ha come destinazione altri paesi europei ed è di carattere temporaneo, in quanto riguarda sopratutto la popolazione maschile. Dal 1899 fino a tutto il 1910  negli Stati Uniti sono stati ammessi 2.284.601 immigrati italiani, ed è stata altresì consistente  l'immigrazione italiana verso l'America del Sud. La maggior parte delle persone che giunge negli Stati Uniti rientra successivamente in patria. Tuttavia, soprattutto a New York e negli altri Stati dell'Est il numero di coloro che rimangono è elevato. Nel 1907 gli immigrati provenienti dall'Italia meridionale sono stati oltre 240.000, un numero più che doppio rispetto alla razza di immigrazione che come consistenza si colloca subito dopo quella degli immigrati italiani meridionali. Il numero degli arrivi di Italiani settentrionali è solo un quinto di tale cifra. La notevole capacità della razza italiana di popolare altre parti del mondo risulta evidente dal fatto che la presenza italiana supera numericamente quella degli Spagnoli nell'Argentina spagnola e dei Portoghesi in Brasile, nonostante quest'ultimo sia un paese "portoghese". (vedi Ispanoamericani).  Attualmente, ai fini dello studio del fenomeno dell'immigrazione il flusso migratorio degli Italiani verso gli Stati Uniti è forse il più significativo, e non solo perché risulta essere molto più consistente di ogni altro gruppo nazionale in qualunque anno di riferimento e perché è elevata la percentuale degli Italiani per ogni mille immigranti che entra sul territorio degli Stati Uniti. Ancora più significativo è il fatto che questa razza  è più numerosa di qualsiasi altra tra la decina di razze che figurano ai primi posti come tasso di immigrazione. In altre parole, in virtù di una popolazione di 35.000.000 e di un elevato tasso di natalità, questa razza continuerà a primeggiare anche quando la spinta delle altre razze, attualmente responsabili dell'ondata di immigrazione, tra cui gli Ebrei (8.000- 000[sic]), gli Slovacchi (2.250.000) e il gruppo Sloveno-Croato (3.600.000), sarà esaurita,  come di fatto sta già avvenendo per gli Irlandesi. Un fatto non necessariamente noto è che nel decennio 1891-1900 l'Italia era il principale paese di origine dell'immigrazione in America. All'inizio degli anni ottanta, ovvero quasi trent'anni fa, l'Italia aveva già cominciato a guadagnare terreno rispetto ai paesi dell'Europa settentrionale. Tuttavia bisognava attendere il 1890 per vedere gli Stati Uniti sorpassare  l'America meridionale come destinazione privilegiata dei flussi migratori provenienti dall'Italia. Nel decennio precedente e nei periodi antecedenti il Brasile ha accolto più italiani della Repubblica Argentina, sebbene si ritenga erroneamente che sia quest'ultima ad ospitare la più grande comunità italiana dell'America meridionale. Nel 1907 gli Stati Uniti hanno accolto 294.000 dei 415.000 Italiani emigrati oltreoceano. Nello stesso anno le persone emigrate, per lo più temporaneamente, dall'Italia verso altri paesi europei sono state 288.774. L'immigrazione italiana negli Stati Uniti è stata finora prevalentemente di carattere temporaneo. Mosso calcola che il periodo medio di permanenza degli Italiani negli Stati Uniti sia di otto anni. L'emigrazione più consistente verso oltreoceano dall'Italia ha la sua origine nelle regioni a sud di Roma, abitate dagli Italiani meridionali. Gli emigrati provengono soprattutto dalla Sicilia e dalla Calabria, ovvero dai territori meno produttivi e meno sviluppati del paese. L'emigrazione dalla Sardegna (Vedi) è scarsa. Il compartimento della Liguria, territorio di provenienza dei Genovesi, anch'essi appartenenti alla razza degli Italiani meridionali, registra più emigrazione di qualsiasi altra provincia dell'Italia settentrionale. Il flusso complessivo dell'immigrazione verso l'America da alcuni compartimenti italiani  ha raggiunto proporzioni  ingenti, al punto da superare più volte il tasso di crescita naturale della popolazione. Questo ha già causato il parziale spopolamento di alcuni distretti agricoli. Se confrontati con altre razze di immigrati e con il numero assoluto degli arrivi, gli Italiani meridionali sono i più numerosi: 1.911.933 nei dodici anni compresi tra il 1899 e il 1910, seguiti dagli Ebrei, 1.074.442, dai Polacchi, 949.064, dai Tedeschi, 754.375 e dagli Scandinavi, 586.306. I  Settentrionali sono al nono posto nell'elenco relativo allo stesso periodo: 372.668, subito dopo gli Inglesi e gli Slovacchi, ma prima dei Magiari, dei Croati e degli Sloveni e dei Greci. Per quanto riguarda il tasso del movimento transatlantico, è piuttosto evidente un contrasto tra Settentrionali e Meridionali: ad esempio, nel 1905 l'emigrazione dalla Calabria è stata undici volte maggiore di quella proveniente dal Veneto. Nel 1907 l'indice dello spostamento dei Settentrionali verso gli Stati Uniti è stato di circa il 3 per 1000 della relativa popolazione presente in Italia, mentre quello degli Italiani meridionali è stato del 12 per 1000. L'indice di movimento dei Settentrionali è stato più o meno lo stesso di quello degli Svedesi e dei Finlandesi, è stato il triplo di quello dei Tedeschi, ma solo la metà di quello dei Ruteni provenienti dall'Austria-Ungheria. Il tasso di movimento dei Meridionali verso gli Stati Uniti, d'altra parte, è superato solo dal gruppo Croato-Sloveno, che nel 1907 è stato del 13 per mille della popolazione, e dagli Ebrei e dagli Slovacchi che, nello stesso anno, è stato del 18 per mille della popolazione. Gli immigrati italiani giungono negli Stati Uniti, oltre che dall'Italia, principalmente dai seguenti paesi: il Nordamerica britannico (3.800 nel 1907), l'Austria-Ungheria (1.500), il Regno Unito (600), il Sudamerica (600) e la Svizzera (200). Quelli provenienti dalla Svizzera e dall'Austria-Ungheria generalmente sono Settentrionali.

Nei dodici anni tra il 1899 e il 1910, le principali destinazioni negli Stati Uniti dei due gruppi di Italiani sono state le seguenti:

Settentrionali

New York 94.458

Pennsylvania 59.627

California 50.156

Illinois 33.525

Massachusetts 22.062

Connecticut 13.391

Michigan 13.355

New Jersey 12.013

Colorado 9.254 

Meridionali

New York 898.655

Pennsylvania 369.573

Massachusetts 132.820

New Jersey 106.667

Illinois 77.724

Connecticut 64.530

Ohio 53.012

Louisiana 31.394

Rhode Island 30.182

West Virginia 23.865

Michigan 15.570

California 15.018 

Una poesia per i pataccari di sinistra, scrive “L’Anarca” (Giampaolo Rossi ) su “Il Giornale”. I discepoli intellettuali del politically correct hanno l’abitudine di prendersi troppo sul serio; succede sopratutto quando si cimentano nel nobile mestiere dell’impegno sociale mettendo la loro fama e la loro arte a disposizione della lotta all’oscurantismo reazionario. È successo anche a Elio Germano, l’attore militante che ha realizzato il video-patacca contro il razzismo di cui abbiamo denunciato il falso in questo articolo di ieri. Il video si conclude con l’attore che legge, ad un gruppo di bambini Rom visibilmente annoiati e usati come scudi della sua vanità ideologica, una poesia di Trilussa in romanesco. Per non essere da meno, ho deciso di scrivere una poesia anche io, proprio nel dialetto di Trilussa, dedicandola a Elio Germano, ai maestrini radical-chic e alle loro false “verità assolute” diffuse come un virus. Un piccolo omaggio ironico all’abitudine pataccara della sinistra intellettuale e artistica di spargere scemenze spacciandole per verità.

L’ARTISTA DE SINISTRA

Il razzismo, se sa, è brutta robba.

È segno de incivile intolleranza tipica de chi ragiona co’ la panza.

Ma, di certo, ‘na cosa assai più brutta

è l’intellettuale quanno rutta.

Quanno se erge cor dito moralista

e come er Padreterno,

dei buoni e dei cattivi fa la lista.

Filosofo o scrittore, poeta o cantautore, attore o saltimbanco,

è come se la storia s’inchinasse all’astio livoroso e intelligente

de chi se crede sempre er più sapiente.

Spesso nun sa manco de che parla, ma parla per parla’

e per l’impegno preso e coltivato con lo sdegno

de chi è convinto che deve lascià un segno.

L’artista de sinistra in tracotanza,

dall’alto del suo ego trasformato,

diventa un drogato de arroganza.

Lui se convince de esse come un Faro,

invece, spesso, è solo un gran Cazzaro.

Con gli islamisti non si può dialogare. Un cosa è combattere militarmente il terrorismo per ragioni di sicurezza; un'altra è venire politicamente a patti con una teocrazia, scrive Piero Ostellino su “Il Giornale”. Rispetto al fondamentalismo islamico, e all'esigenza di conviverci senza danni per noi, alcuni studiosi americani suggeriscono che l'Occidente prenda ad esempio la propria storia degli ultimi cinquecento anni. Gli Asburgo, la maggior dinastia europea, «erano dei principi - scrive John M. Owen in Confronting political Islam, Six lessons from the West's Past - non dei preti». E si comportarono di conseguenza. Di fronte al radicalismo genericamente anticattolico del protestantesimo, non fecero di ogni erba un fascio, confondendo eretici estremisti ed eretici moderati e trattandoli allo stesso modo, ma constatarono che il protestantesimo era diviso fin dalla nascita in varie fazioni - luterani, calvinisti, anabattisti - e si acconciarono a sfruttarne le divisioni. Fu un grosso rischio? L'approccio non era meno rischioso di quello di fare la faccia feroce ad entrambi, ma ha funzionato. Parimenti, nel XX secolo, gli Stati Uniti dovettero fronteggiare la moderna sinistra politica, ostile alla democrazia liberale, al capitalismo e al libero mercato. Ma non la considerarono, e per lo più non la trattarono, come faceva la destra, come fosse un monolite, bensì utilizzarono ciò che divideva i socialisti dai comunisti. E hanno avuto la meglio sul comunismo. L'islamismo moderato - a differenza di quello fondamentalista, che ricorre volentieri alla violenza - utilizza i mezzi pacifici e legali della democrazia liberale per diffondere la sharia, la morale islamica. Non è liberale, ma rimane una teocrazia che ha fatto una scelta strategica contro la violenza. Ciò non significa, ovviamente, che l'Occidente possa, e debba, instaurare con esso «un dialogo», come suggeriscono certe nostre anime belle. La stessa storia della cooperazione fra gli Asburgo, cattolici, e i protestanti contro i calvinisti insegna che distinguere fra fondamentalisti e moderati non è sempre facile e, se può rivelarsi positivo nel breve termine, minaccia di essere fallimentare nel lungo. La prudenza non è mai troppa. Un cosa è combattere militarmente il terrorismo per ragioni di sicurezza; un'altra è venire politicamente a patti con una teocrazia; che, rispetto alla democrazia liberale, rimane pur sempre una soluzione clericale. Forse, c'è un altro esempio che l'Occidente dovrebbe seguire: quello di Edmund Burke, il liberal-conservatore che difese il diritto delle colonie americane di tassare i propri cittadini solo secondo i dettami delle proprie assemblee e non secondo quelli del Parlamento di Londra. «I vostri affari - aveva scritto Burke ai suoi amici francesi a proposito della Rivoluzione del 1789 - riguardano voi soli; noi ce ne siamo occupati come uomini, ma ce ne teniamo alla larga perché non siamo cittadini della Francia». È il linguaggio che, auspicabilmente, l'Occidente dovrebbe usare nei confronti dell'islamismo...

Niente paura, leggete il Corano. Ci troverete le radici del Male. Per 56 anni ho creduto che l'islam potesse essere riformabile grazie a musulmani moderati come me. Mi sbagliavo. Il libro sacro è la negazione della civiltà, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. «Allah Akhbar! Allah Akhbar! Ash-hadu an-la ilaha illa Allah, Ash-hadu anna Muhammad-Rasul Allah». «Allah è Grande! Allah è Grande! Testimonio che non c'è altro dio all'infuori di Allah, Testimonio che Maometto è il Messaggero di Allah». Per vent'anni la mia giornata è stata cadenzata dall'adhan, l'appello alla preghiera diffuso dall'alto dei minareti nella mia città natale, Il Cairo, ribattezzata la «Città dai mille minareti». Per 56 anni mi sono impegnato più di altri, da musulmano moderato, ad affermare un «islam moderato» in Italia, aderendo e sostenendo sostanzialmente la tesi del Corano «creato», che per l'ortodossia islamica pecca ahimè di una fragilità teologica che scade nell'eresia. Perché così come il cristianesimo è la religione del Dio che si è fatto Uomo e che s'incarna in Gesù, l'islam è la religione del loro dio Allah che si è fatto testo e che si «incarta» nel Corano dopo essere stato rivelato a Maometto attraverso l'Arcangelo Gabriele. Per i musulmani quindi il Corano è Allah stesso, è della stessa sostanza di Allah, opera increata al pari di Allah, a cui ci si sottomette e che non si può interpretare perché si metterebbe in discussione Allah stesso. Per contro, la tesi del Corano «creato», che sottintende che solo Allah è increato, consente l'uso della ragione per entrare nel merito dei contenuti del Corano, che possono essere oggetto di culto da parte della fede ma anche oggetto di valutazione e critica; così come consente la contestualizzazione nel tempo e nello spazio dei versetti rivelati per distinguere ciò che è da considerarsi attuale e lecito da ciò che è invece è da ritenersi prescritto e caduco; ci mette in ultima istanza nella possibilità di poter affermare la dimensione «plurale» dell'islam e, in questo contesto di pluralismo, ci consente di far primeggiare la scelta dell'«islam moderato» che concili la prescrizione coranica con il rispetto dei valori fondanti della nostra comune umanità. Per 56 anni ho scelto di battermi in prima persona, costi quel che costi, per affermare la bontà del Corano quale testo sacro dell'islam pur nella denuncia del terrorismo islamico. Nel 2003, dopo aver conosciuto Oriana Fallaci ed aver instaurato con lei un rapporto che, al di là della reciproca stima professionale, della condivisione della denuncia del terrorismo islamico e della pavidità dell'Occidente, si fondava su un affetto sincero e una solida amicizia, tuttavia il nostro rapporto fu turbato dal mio rifiuto di abbandonare l'islam e di concepire che la radice dell'islam risieda nel Corano. Mi sentivo contrariato quando scriveva: «L'islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà». Eppure, all'indomani della mia conversione al cristianesimo il 22 marzo 2008, ho scritto: «Ho dovuto prendere atto che, al di là della contingenza che registra il sopravvento del fenomeno degli estremisti e del terrorismo islamico a livello mondiale, la radice del male è insita in un islam che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale». L'errore in cui incorsi fu di immaginare che l'islam potesse essere riformabile al suo interno grazie all'impegno dei musulmani moderati. Alla fine, dopo oltre cinque anni trascorsi da condannato a morte dai terroristi islamici e reiteratamente minacciato dagli estremisti islamici, mi sono arreso di fronte all'evidenza: si può essere musulmani moderati come persone, ma non esiste un islam moderato come religione. Oggi più che mai dobbiamo avere l'acume intellettuale e il coraggio umano di leggere ad alta voce il Corano e di affermare pubblicamente i suoi contenuti. Non possiamo essere vittime, da un lato, dei musulmani moderati che difendono aprioristicamente e acriticamente l'islam pur di salvaguardare la loro credibilità ed onorabilità, dall'altro, degli occidentali che per paura di offendere i musulmani sostengono in modo altrettanto aprioristico e acritico che il Corano insegna l'amore e la pace, che i terroristi islamici non centrano nulla con l'islam. Solo leggendo il Corano scopriamo la specificità di una religione che condanna di eresia l'ebraismo e il cristianesimo; la realtà di Allah che era il dio supremo del Pantheon politeista arabo, clemente e misericordioso con chi si sottomette all'islam ma vendicativo e violento con i miscredenti; la verità di Maometto che è stato un guerriero vittorioso che ha fondato una «Nazione di credenti» combattendo e uccidendo i suoi nemici per ordine di Allah. Solo leggendo il Corano potremo capire le radici di un'ideologia che legittima l'odio, la violenza e la morte, che ispira il terrorismo islamico ma anche la dissimulazione praticata dai «musulmani moderati», perseguendo il comune obiettivo di sottomettere l'intera umanità all'islam, che è fisiologicamente incompatibile con la nostra civiltà laica e liberale negando la sacralità della vita di tutti, la pari dignità tra uomo e donna, la libertà di scelta. Solo leggendo il Corano potremo capire chi siamo veramente noi, se siamo ancora o non più in grado di riscattare la civiltà di verità e libertà, di fede e ragione, di valori e regole. L'Italia non ha subito gravi attacchi dal terrorismo islamista, ma non può considerarsi al sicuro se si tiene conto che da anni diversi imam predicano odio, dozzine di centri islamici sono impegnati nel proselitismo e nel finanziamento a gruppi terroristici e che il Paese sta esportando combattenti nei teatri della jihad. Lo rileva un rapporto del Centro militare di studi strategici del ministero della Difesa. La comunità islamica italiana è composta da 1,6 milioni di persone, un terzo degli stranieri presenti, cui si aggiungono 60-70mila convertiti. Sono una ventina le organizzazioni principali, più di 100 le moschee, 159 i centri islamici, decine le scuole coraniche, tanti i siti internet. Secondo il dossier, «la radicalizzazione della comunità islamica rappresenta una potenziale seria minaccia». Dal 2001 ad oggi, circa 200 persone sono state arrestate con l'accusa di terrorismo. Milano è l'epicentro del radicalismo islamico in Italia.

Ecco l'Italia che trasforma il Tricolore in uno straccio. La bandiera nazionale va esposta per legge davanti a scuole e uffici pubblici. Ma nessuno se ne cura. E lo spettacolo è avvilente, scrive Nino Materi su “Il Giornale”. L'Italia è l'unico Paese al mondo in cui la Bandiera nazionale, invece che garrire al vento, rantola in aria. Come un impiccato sul pennone più alto. Tanto in alto che nessuno si premura di prendersene cura. Triste, tristissima la vita del nostro glorioso Tricolore: tradizionale simbolo di (dis)amor di Patria. Un vessillo di cui ci ricordiamo solo in occasione dei Mondiali di calcio, almeno quelli in cui gli Azzurri non fanno figuracce. Ma poi nella vita di tutti i giorni il vessillo Bianco, Rosso e Verde tende a virare in commedia, assumendo i toni del bianco, rosso e verdone. Un film tragicomico (più tragico che comico) che va «in onda» quotidianamente su ogni edificio pubblico: scuole, biblioteche e uffici. Da Nord a Sud l'Unità d'Italia è fatta, ma si incarna in quel pezzo di stoffa che viene vergognosamente esposto alla stregua di uno straccio con cui si è appena smesso di fare le pulizie. E dire che nella Costituzione figura un preciso dettato normativo sancito dalla Legge 5-02-1998 n.22 e dal Dpr 07-04-2000 n. 121, il cui capo IV (punto 9) recita testualmente: «Le Bandiere vanno esposte in buono stato e correttamente dispiegate». Roba che se la violazione venisse effettivamente perseguita, dovrebbe essere denunciata la maggior parte dei funzionari statali. Non fanno eccezione neppure gli edifici sedi di istituzioni «prestigiose» come prefetture, questure, tribunali. Ma anche qui il Tricolore sventolante appare in salute come un moribondo. Non c'è spettacolo più avvilente per un cittadino orgoglioso di essere italiano che vedere la Bandiera della propria nazione ansimare sporca e stracciata. Fateci caso. Quando entrate in un ufficio alzate lo sguardo e, nove volte su dieci, sulla vostra testa vedrete curvo su se stesso un Tricolore sdrucito e sozzo. Nessun direttore, funzionario, dirigente, impiegato, segretario (fin giù a all'ultimo degli inservienti) che si ponga il problema non dico di lavare una bandiera annerita o sostituirne una a brandelli. No. Si cambiano con periodica perizia le merendine dalle macchinette degli uffici, ma del Tricolore non frega nulla a nessuno. Lui può morire d'inedia nell'indifferenza generale. Beh, quasi generale. Considerato che, almeno una persona, ha deciso di levare un urlo di dolore in difesa di un simbolo per il quale sono morti migliaia di soldati. Si tratta del Maggiore Gennaro Finizio, dell'Unuci (Unione ufficiali in congedo) che in una lettera aperta al sito Basilicata24 denuncia lo scandalo-Bandiera: «Se si vuol valutare l'orgoglio di un Popolo e pesarne il livello di diffusione e condivisione del concetto di identità nazionale, è sufficiente osservare se, ed in quale modo, espone la propria Bandiera; nel nostro caso, il Tricolore. Ebbene, le condizioni in cui sono esposte le nostre Bandiere, sulle facciate degli edifici pubblici e sedi di Istituzioni, riflettono chiaramente il livello di crisi sociale e di sfiducia, segnalando la dimensione di un Paese che ha perso i suoi punti di riferimento; un Paese impoverito nei Valori». Chi disonora il Tricolore, infanga la propria Storia. E poi: «Non sfuggirà, all'osservatore attento, che un po' ovunque sono presenti Tricolori laceri, sporchi e, nella migliore delle situazioni, esposti in modo errato; Bandiere offese indecorosamente sino al punto da sembrare private della forza di sventolare. Come si legge questo degrado sociale? Abbiamo, forse, perso la nostra dignità e la volontà di sentirci orgogliosamente italiani? Forse non crediamo più nel nostro simbolo, perché derubricato a semplice icona della Nazionale di calcio?». Il Maggiore Finizio prova anche a dare delle risposte: «Temo che tutto questo sia da ascrivere a semplice, ma deleteria, incuria e mancanza di sensibilità. Quella stessa sensibilità che troviamo ad esempio negli statunitensi, negli inglesi, francesi e tedeschi». Da noi, invece, fino a qualche tempo fa, l'ex leader della Lega poteva impunemente urlare in piazza contro una signora che esponeva il Tricolore alla finestra: «Signora, con quella bandiera può anche pulirsi il culo...».

Un Paese invivibile, scrive Livio Caputo su “Il Giornale”. Nei due mesi scorsi mi sono dedicato a un esercizio che si è rivelato molto deprimente: ho chiesto a cinquanta amici e conoscenti quanti di loro avessero subito, negli ultimi tre anni, scippi, furti in casa o in strada, truffe, vandalismi, violenze,richieste di pizzi o tangenti, o altri “attacchi” da parte dei vari tipi di delinquenza, organizzata e non. Ebbene, il risultato è stato 47, cioè quasi il 95 cento. Tra i racconti che ho raccolto c’era di tutto e di più, perfino quello di due sedicenti dipendenti comunali che si sono introdotti con un pretesto nell’abitazione di una signora e, forse ipnotizzandola, forse drogandola, l’hanno persuasa a consegnare “spontaneamente” tutti i suoi preziosi. Comunque, il campionario dei reati subiti, che peraltro avrei potuto mettere insieme anche compulsando attentamente la cronaca nera dei giornali, era talmente vario da poterci scrivere un trattato di criminologia.  L’impressione complessiva, comunque, era che il Paese, nonostante le statistiche che danno un certo numero di reati in calo, sia sempre più fuori controllo e che un senso di insicurezza si sia ormai impadronito della maggioranza dei cittadini. Un altro dato inquietante emerso dalla mia indagine è che buona parte delle vittime ha ormai rinunciato a denunciare i reati subiti se non ci sono esigenze assicurative di mezzo. Che senso, infatti, ha perdere tempo a denunciare il furto di una bicicletta, lo scippo subito in un parco, una casa svuotata dagli zingari, quando le possibilità di recuperare la refurtiva sono pari a zero? E, comunque, che soddisfazione ricava il cittadino se l’autore del reato, nell’ipotesi remota che venga individuato e arrestato, viene poi subito messo in libertà, libero di reiterare il suo crimine anche l’indomani? O, se anche viene processato, se la cava con pene lievi con la condizionale, o esce comunque di galera assai prima di quanto dovrebbe per condoni, buona condotta, eccessivo affollamento delle carceri o quant’altro? Una delle mie interlocutrici si è particolarmente infuriata leggendo che una donna rom che l’aveva derubata è stata arrestata – mi pare – una dozzina di volte e sempre rilasciata. In effetti, una delle cause principali per cui non solo aumenta la delinquenza nazionale, ma bande di ladri, rapinatori e scassinatori arrivano da ogni parte d’Europa per operare nel nostro Paese è la quasi impunità di cui, alla fine, finiscono di godere. Come reagiamo di fronte a questi fenomeni, che ci rendono tutti più timorosi e insicuri?  Riducendo i mezzi a disposizione delle forze dell’ordine, abbastanza numerose se confrontate con quelle degli altri grandi Paesi occidentali, ma spesso impegnate in altre funzioni, come le scorte a politici, ex politici e compagnia cantante, che li distolgono dai loro compiti primari. Depenalizzando una serie di reati cosiddetti minori, che in realtà colpiscono la cittadinanza nella sua esistenza quotidiana anche peggio di altri. Svuotando periodicamente le carceri perché eccessivamente affollate e non in grado di garantire i diritti dei detenuti, invece di costruirne di nuove o utilizzando quelle già esistenti, ma lasciate vuote per carenza di guardie penitenziarie. Tenendoci gli innumerevoli stranieri che delinquono (la loro percentuale tra i detenuti è molto superiore a quella degli italiani) invece di espellerli appena espiata la pena. Se la percentuale di cittadini carcerati rispetto alla popolazione è metà di quella della Francia e della Gran Bretagna e addirittura un decimo di quella degli Stati Uniti non ci si può poi meravigliare se il tasso di delinquenza, denunciata e non denunciata, è così alto. Un altro scandalo è quello dello scarsissimo numero di cosiddetti colletti bianchi, e in particolare di esponenti di rilievo della burocrazia e della finanza, anche accusati di reati infamanti, di furti e truffe milionari o di reati particolarmente dannosi per la comunità che finiscono effettivamente in galera. Tra appelli, prescrizioni, condoni, sono pochissimi, e nei (rari) casi in cui ciò avviene fa addirittura notizia. La maggior parte, anche se, sulla carta, condannata ad anni di reclusione, continua a godersi la vita in perfetta libertà, con un effetto negativo sulla credibilità della giustizia, specie tra i giovani, che può riuscire devastante. La durata infinita dei processi, e i mille cavilli che la nostra legislazione consente di usare agli avvocati difensori, non fanno che rendere la situazione ancora più insostenibile. Potrei continuare per pagine e pagine, riprendendo episodi incredibili che si incontrano quasi ogni giorno sui giornali, ma sarebbe superfluo. La conclusione sarebbe comunque la stessa, che la qualità della vita dei cittadini onesti va continuamente peggiorando. Ricordo che, ormai molti anni fa, un mio amico inglese, corrispondente di un grande giornale da Roma, soleva dirmi:”Il vostro è il Paese in cui si vive meglio in Europa, basta non avere a che fare con l’autorità (intendendo fisco, burocrazia, vigili, tribuanli, ecc.). Oggi non è più vero. Bisogna aggiungere “….se si ha la fortuna, sempre più rara, di non imbattersi in qualche malfattore”.

I nuovi mostri dei Soliti Idioti "L'Italia? Un inferno da ridere". Biggio e Mandelli rivisitano Dante nel film: «Abbiamo raccontato con affetto le deformità di ciascuno di noi», scrive Cinzia Romani su “Il Giornale”. Nati non foste a viver come bruti. Lo rammentano i Soliti Idioti con la rappresentazione plastica degli abominevoli peccati italiani al giorno d'oggi. Tipo abbruttirsi al bar alle otto di mattina, uccidere per questioni di traffico all'ora di punta, travolgere gli altri al supermercato, stare sempre connessi o farsi irretire dalla pubblicità invasiva. Per forza, poi, ci vuole il Ministero della Bruttezza a dirimere le controversie dei consumatori di laidume. Così col loro terzo film, La solita Commedia. Inferno (da giovedì in sala), Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli puntano alla versione 2.0 de I nuovi mostri , accatastando sketch e personaggi come in pista sul web, dal quale provengono. Pur essendo relativamente giovani (Biggio è classe '74, Mandelli è del '79), gli infernali registi, qui in tandem con Martino Ferro, nonché protagonisti e sceneggiatori d'un racconto corale, rimpiangono il passato. Quando si usava il telefono a gettoni, come fa Minosse (Mandelli) per chiamare il suo superiore, un Dio che tracanna whiskey e fuma. O quando si picchiavano i tasti della macchina per scrivere, come fa un tenente (Biggio), pronto a scagionare due poliziotti dal reato di abuso di potere nei confronti d'una macchinetta che non dà resto. Perché prima era tutto più bello, ancora non ci aveva invasi la Grande Bruttezza: altro che Isis. Siamo dalle parti della surrealtà più dichiarata, con tanti attori che interpretano dai 21 ai 7 ruoli a testa per raccontare una società malata. E c'è pure Tea Falco, già musa di Bertolucci, nei panni d'un Gesù tosto, quando sequestra a un precario di nome Virgilio (ancora Biggio) i suoi attributi. Che riavrà se accompagnerà Dante (ancora Mandelli) a catalogare i nuovi peccati commessi sulla terra, segnatamente a Milano, postaccio caotico zeppo di hackers, pornomani e tecno-incontinenti. «Volevamo raccontare con affetto l'Italia e gli italiani. E la mostruosità di ognuno di noi, guardando a I nuovi mostri », dice Biggio. Ironia a parte, alcune categorie vengono prese di petto. Quella dei poliziotti, per esempio, raffigurati come paranoici violenti. Diverte l'interrogatorio stile Csi della macchinetta del caffè, rea di non rendere gli spicci ai piedipiatti, ma fa pensare a un certo tipo di giudizio. «Ci piace provocare e dar fastidio, però non vogliamo descrivere tutta la polizia così. Come ci piace l'idea d'un Dio indaffarato nei suoi casini. Il nostro padre Pio, non me ne voglia Castellitto, è il migliore. Non temiamo le risposte dei cattolici», spiega Mandelli. E in effetti, l'idea d'intruppare i santi in una specie di Camera, a decidere come procedere per catalogare nuovi peccati terreni, non è male. «Ci piace forzare il pubblico, vedere come rispondono i cattolici», butta lì Biggio. Di sicuro, il duo comico è maturato e cerca un nuovo sbocco. «Ci avevano proposto di fare il terzo film dei Soliti idioti , ma ci siamo messi alla prova con una cosa diversa. Chi fa il nostro mestiere, cerca sempre di uscire dalla zona comfort. Come abbiamo fatto a Sanremo: stare su quel palco, è stata una sfida», puntualizza Mandelli. Colpisce, a ogni modo, che per smarcarsi dall'ennesima commedia all'italiana, i Soliti Idioti abbiano realizzato un'idea semplice e geniale: sciorinare i più brutti vezzi italioti contemporanei, in stile Nanni Loy, dopo aver riferito tic e nevrosi del Bel Paese nei loro lavori precedenti. È andato in questo senso pure Maccio Capatonda con Italiano medio e non a caso il duo pensa a una collaborazione col comico abruzzese. Costato 3 milioni e finanziato pure dalla Film Commission del Lazio (la maggior parte delle scene, tuttavia, si svolge a Milano),il film è prodotto dalla Wildside di Mario Gianani, marito della Madia e di Lorenzo Mieli, figlio di Paolo. E non a caso il Ministero della Bruttezza Biggio&Mandelli lo affiderebbero «a Gasparri, Alfano e Salvini», che non è gente di sinistra.

L’italiano medio è volgare e squallido, ma diverte. La recensione di Marita Toniolo su “Best Movie”. Sbarca al cinema l’opera prima del comico Maccio Capatonda, che vuole farci ridere e vergognare di come siamo diventati. Dopo i successi stratosferici di Zalone al botteghino, si torna a puntare forte su un volto “televisivo” con Maccio Capatonda e il suo Italiano medio, prossimo a sbarcare al cinema con 400 copie al suo esordio (il 29 gennaio). Maccio Capatonda, al secolo Marcello Macchia, è un fenomeno di culto del web amatissimo dai cinefili grazie ai suoi trailer parodia: un centinaio di secondi e poco più in cui Capatonda riesce a comprimere mirabilmente genio e follia, cinefilia e non-sense, giochi di parole e travestimenti, raggiungendo una popolarità che lo ha portato a sbarcare anche su MTV con la serie Mario. Lo attendeva al varco la sfida più tosta: il lungometraggio. Riuscire a essere altrettanto esplosivo in un tempo dilatato. Italiano medio, diretto, scritto e interpretato da Maccio, è infatti lo sviluppo del finto trailer di Limitless con Bradley Cooper: due minuti, in cui era un uomo intelligente e socialmente responsabile, che assumeva una pillola che gli cambiava totalmente la vita. Parodisticamente, rispetto alla Lucy di Besson che si ritrova ad avere a disposizione il 100% del cervello, Maccio deve capire cosa riuscire a fare con solo il 2%… E proprio da questa domanda prende il via il racconto. Giulio Verme è il perfetto emblema dell’uomo socialmente impegnato: allergico alla televisione sin da bambino, avverso a ogni massificazione, vegano convinto, sempre pronto ad aiutare gli emarginati, con la fissa per l’ambiente e le scelte etiche ed ecosostenibili. Addetto allo smistamento dei rifiuti a Milano, cerca di inculcare un po’ di senso civico nei colleghi, che gli rispondono a suon di scoregge. La radicalità delle sue scelte finisce per creare un muro tra lui e le persone che lo circondano: i genitori in primis, gli amici, i vicini e persino la fidanzata Franca, esasperata dal suo atteggiamento da uomo frustrato e ostile, ma fondamentalmente passivo. Giulio si ritrova isolato e disperato, sopraffatto dal “lerciume” che lo circonda, sempre più nevrotico e ansioso. Finché nella sua vita non approda l’amico Alfonzo, un ex compagno antipatico  delle elementari che gli offre una pillola straordinaria, che gli permetterà di usare solo il 2% del cervello, invece che il 20%. La metamorfosi sarà da Dottor Jekyll e Mr Hyde: da attivista rompiscatole e fanatico, Giulio diventerà un tronista beota con il mantra fisso dello “scopare”, della disco e del lusso cafonal, volgare e ignorante, carnivoro e menefreghista, guadagnandosi – impresa becera dopo l’altra – il diritto alla partecipazione al reality show più di culto del momento. L’apoteosi dell’italiano medio. Capatonda ha messo tutto se stesso in questa opera prima e il primo punto a favore gli deriva dall’enorme cura del dettaglio che il film mostra. Nulla è lasciato al caso, a partire dagli esilaranti titoli di testa (Tratto da una storia finta), che fanno partire in quinta il film e che denunciano da subito il pedigree cinefilo dell’autore. Che ha di fatto disseminato tutto il film citazioni filmiche facili da riconoscere via via. Tuttavia, il triplo salto carpiato dai video di 1/2 minuti al lungo di 100 equivalgono a passare dallo sguazzare in una piscina a nuotare nell’oceano. C’è un traccia coerente di fondo, ma i raccordi tra una scena comica e l’altra si stiracchiano troppo, portando con sé come conseguenza negativa la reiterazione di situazioni e tormentoni per allungare il brodo (amechemmenefregame, Sant’Iddio, Scopare…). Raccontare una metamorfosi in un video di 130 secondi risulta efficace, dilatarla con un continuo sdoppiamento di personalità ed esplicitando la lotta interiore sempre più opprimente che Verme si ritrova a combattere tra i suoi istinti primari da bifolco e gli intenti nobili, produce l’effetto di frammenti anche geniali, ma non ben incollati in un mosaico coerente. Se la struttura narrativa è il punto debole più evidente di Italiano medio, va invece segnalata – come altro punto a suo favore – il peso specifico delle riflessioni, per nulla superficiali. Lo sguardo di Maccio sull’Italia e i suoi concittadini è amaro e disilluso, quasi crudele. Con un disgusto e un disprezzo maggiore di quello dello storico Fantozzi verso l’impiegato piccolo piccolo, Maccio non risparmia colpi a colti e ignoranti, ricchi e poveri, impegnati e menefreghisti. Giulio Verme sdoppiato sintetizza le sublimi vette dell’arte del compromesso toccate dell’italiano, capace di essere vegano e mangiare il pollo fritto; andare in chiesa e avere mogli e amanti; difendere il bio e inquinare. Opposti apparentemente inconciliabili, che – come vedremo nel finale – invece, per gli abitanti del Bel Paese sono assolutamente ricomponibili, abituati come siamo ad accettare obbrobri edilizi che radono al suolo parchi bio, scandali sexual-politici, indecenze cultural-mediatiche dei reality (memorabili lo scandalo del bianchino nel privè, che ha portato all’esclusione di Kevin, e la “prova pippotto”), come se fossero parte integrante e inalienabile del sistema. Maccio non ce le manda a dire, ma stigmatizza tutti i nostri vizi, costringendoci a ridere (amaramente) di essi. Come sempre, è circondato dai soliti attori fidati: l’inseparabile Herbert Ballerina, che si trasforma in tre personaggi diversi; Rupert Sciamenna, imprenditore squalo con i capelli rosa; Ivo Avido, anche lui triplice. Molti i colleghi  che si sono prestati per differenti camei: lo Zoo di 105, Raul Cremona, Andrea Scanzi, Pierluigi Pardo e il principe assoluto del non sense Nino Frassica. L’impiego degli stessi attori in più ruoli e con costumi diversi, pur se giustificato dal surrealismo che ìmpera, genera spesso un effetto cabaret innestato nel cinema che non giova alla dimensione estetica del film. Sebbene gli vada anche riconosciuta una fotografia curata (di Massimo Schiavon), che alterna colori diversi quando la personalità di Giulio cambia, non abbiamo sempre la sensazione di trovarci di fronte a un film tout court, limite più forte dei comici italiani importati dalla Tv. Eppure, pensiamo che l’opera prima di Maccio vada premiata (anche per incoraggiamento, affinché continui a perfezionarsi, per giungere a una scrittura più equilibrata), perché regala sane risate, momenti di genio surreale (il folle “piano” finale degli attivisti) ed è una satira feroce che invita alla riflessione, come non accadeva da tempo in un film comico italiano. Da Rodotà-tà-tà a onestà-tà-tà, viaggio pre-Quirinale nella spaesata piazza grillina senza capo né nome, scrive Marianna Rizzini su “Il Foglio”. Da Rodotà-ta-tà a onestà-tà-tà. Dopo quasi due anni di Parlamento e alla vigilia di una nuova elezione presidenziale, la piazza a Cinque Stelle parla d'altro ( la "mafia capitale" da non dimenticare: da cui la pubblica lettura delle intercettazioni tratte dall'omonima inchiesta – per la gentile interpretazione di Claudio Santamaria e Claudio Gioè, attori e volti da romanzi criminali su piccolo e grande schermo). Onestà-tà-tà, dunque, al posto del nome che non si farà, non si vuole fare e non si vuole neanche ascoltare (il deputato e membro del direttorio a Cinque Stelle Alessandro Di Battista a un certo punto legge e fa leggere alla pizza la dichiarazione-gran rifiuto: caro Renzi ecco la risposta del popolo – e pare quasi di sentir parlare un robot, la famosa futuribile app che renderà possibile conversare con amici virtuali come nel film "Her" con Scarlett Johansson nella parte dell'amante fatta di web, solo che qui il tono non è suadente: lei ha già deciso, Renzi, e al Nazareno non veniamo). Onestá-tá-tá, e altre parole di un lessico chiama-applauso in una Piazza del Popolo che all'inizio era mezza vuota e percorsa da interesse per l'altrove del sabato pomeriggio: gente che faceva vedere l'acquisto da saldo e giovani rapper -break dancer con tappeto di plastica per performance estemporanea sul selciato. "La gente è arrivata", esclama una signora quando il suo wishful thinking, finalmente, diventa realtá, e arriva pure Sabina Guzzanti comica non più comica, ché, prevale, nel suo intervento, l'invettiva-imitazione in teoria civile in realtá elitaria contro Maria De Filippi, emblema del paese in cui da vent'anni, dice Guzzanti, si è perduto ogni " stimolo intellettuale", e sembra impossibile fare qualcosa: le persone colte riescono a stare insieme per combinare qualcosa, è il concetto espresso da Sabina, le persone ignoranti no. Colpa della tv, è la sentenza che alla fine dell'invettiva tutti si aspettano, e le ragazze del bar all'angolo della piazza si domandano perché mai "Sabina se la prenda con la De Filippi". Ma gli applausi a quel punto sono già stati tributati alla divinità nascosta che la piazza omaggia a intervalli regolari: l'onestà, rieccola, parola buona per tutto e piena in fondo di niente, se non della generica riprovazione per le altre bestie nere della serata (persino il rapper Fedez le dice e non le canta: corruzione, resistenza, vergogna, marciume, e mafia mafia mafia). Tutto è mafia, dicono i deputati, senatori e consiglieri comunali grillini che sfilano sul palco (Roberta Lombardi, la veterana dei primi streaming a Cinque Stelle, dice che una mattina si è svegliata e ha trovato non l'invasore ma una città che diventa proprio quello che ora, chissà perchè, tutti evitano di ricordare: il teatro della mafia capitale. La senatrice stornellista Paola Taverna, in strana inversione di ruoli con Fedez, pare quasi una rapper quando intona lo slogan degli slogan: fuori la mafia dallo Stato. Fedez invece, sempre senza cantare, dice la frase che qualcuno nel pubblico trova "un po' cosi" nel giorno in cui l'Isis decapita un altro ostaggio, di nazionalità giapponese: abbiamo il nemico in casa ma non è di fede musulmana, dice Fedez, e le grandi stragi sono di matrice italiana. Il più grande nemico  dell'Italia sono gli italiani, continua, e a quel punto l'applauso arriva, forse per riflesso condizionato (sono già due ore che gli astanti sentono dire peste e corna dell'universo mondo nazionale). "Fuori i nomi, Renzi"', grida il tribuno Di Battista, e alla fine Beppe Grillo esce per dire la stessa cosa, ma con il marchio di fabbrica: vaffanculo! (Vaffanculo e fate i nomi). Il resto è uso traslato (e a volte insensato) di termini impossibili a odiarsi: valori, costituzione, libertà, partecipazione (povero Gaber), cultura. Grillo invece parla di sottocultura, insultando qui e lì Giorgio Napolitano per non aver riconosciuto "il miracolo" a cinque stelle, anche se il miracolo Grillo se l'è sfasciato da solo. Resta solo da dire no al "Nazareno", demone antropomorfo. Ed è subito sabato sera mentre gli attivisti sbaraccano, e sulla piazza che si svuota si diffonde, incongrua, la più classica canzone dei Pink Floyd ("another brick in the wall").

Il linciaggio di Pansa: a sinistra era un dio a destra è un infame. Per anni i salotti di sinistra hanno acclamato Pansa come un dio. Ma da quando non dice più quello che piace loro, lo hanno relegato tra i reietti della penna, scrive Vittorio Feltri su Il Giornale. Giampaolo Pansa, noto giornalista che ha lavorato alla Stampa, al Giorno, al Corriere della Sera, alla Repubblica, all'Espresso, al Riformista (ora è a Libero ), ha scritto un altro libro: La destra siamo noi. Ne ha pubblicati tanti e ne ho perso il conto. Il titolo dell'ultimo fa capire subito il contenuto: pendiamo tutti da qualche parte, dipende dai momenti e dalla convenienza. Giampaolo è stato povero. Da ragazzo era molto studioso, obbediente alla famiglia e si è laureato con una tesi pubblicata da Laterza (che è un editore e non il numero delle scopate messe a segno in un sol giorno dall'autore). Finita l'università trovò subito un posto in redazione e cominciò l'attività di cronista, quella in cui è riuscito meglio. Si è guadagnato da vivere con le virgole, ha svirgolato per anni e anni e seguita a svirgolare come un pazzo. Credo che per lui riempire fogli di parole sia come bucarsi per un drogato: non può farne a meno. Senza la «roba» nero su bianco, Pansa non campa. Se sta tre ore senza picchiettare sui tasti, va in crisi di astinenza. Il mestiere di scrivere è il peggiore. Quando ti dedichi a esso, ti ammali di una malattia grave, pensi che la tua esistenza abbia un senso solo se la racconti; altrimenti non ha significato, sei morto. Giampaolo è stato un maestro inimitabile di giornalismo finché ha dato l'impressione di essere di sinistra, stando cioè dalla parte dei vincitori, sempre di moda. I suoi articoli sul Corriere e sulla Repubblica erano considerati gioielli, giustamente. Egli in effetti si era inventato un modo di narrare i fatti italiani e le gesta dei protagonisti talmente originale da piacere a chiunque, anche a coloro che lo invidiavano. Per lustri e lustri fu indicato al popolo come il più bravo della categoria. Poi, dato che il tempo è democratico, invecchiò e iniziarono per lui i guai. Guai si fa per dire. Poiché non era direttore (l'unica figura professionale non soggetta a licenziamento per questioni anagrafiche), fu cortesemente invitato a sloggiare dall' Espresso , testata che fornisce a chi vi lavora il certificato di autentico progressista. Se ne andò in pensione, ma non smise di scrivere. E furono libri, uno dietro l'altro, uno più dissacrante dell'altro e, per giunta, di successo. Il sangue dei vinti ebbe sui lettori un effetto clamoroso: quelli di destra lo apprezzarono, soddisfatti di constatare che finalmente uno scrittore dicesse il contrario rispetto alla vulgata sinistrorsa; quelli di sinistra, automaticamente, lo condannarono con una sentenza inappellabile: Pansa si è rovinato, è diventato fascista. Da quel momento, il maestro è stato collocato fra i reietti della corporazione degli scribi, espulso dall'elenco degli autori di qualità, meritevole di uscire dal club dei grandi maestri e di entrare in quello dei cattivi maestri. I libri di Giampaolo si vendono, eccome se si vendono, ma sono giudicati dagli intelligentoni merce avariata. La vicenda di quest'uomo talentuoso e perbene è paradigmatica dell'imbecillità italiana; il tuo voto in pagella non dipende da ciò che fai, bensì dalla consorteria cui appartieni. Pansa di sinistra era un dio; Pansa di destra è una grandissima testa di cazzo. I cittadini (non solo italiani) hanno opinioni variabili, tanto è vero che una volta votano di qua e un'altra di là, ma si arrogano il diritto di dare della banderuola ai giornalisti che mutano fede pur non avendone una e che si limitano a osservare la realtà con spirito laico, riferendo ciò che vedono e sentono, filtrando il tutto attraverso il proprio spirito critico. Una realtà complessa e in continuo divenire la cui valutazione non può avvenire sempre con lo stesso metro, ma necessita di costanti revisioni e aggiornamenti. Non c'è nulla di statico a questo mondo, tantomeno il cervello degli uomini che s'imbottisce quotidianamente di nuove informazioni e, perché no, suggestioni. Pansa, che conosco da 40 anni, non è mai stato fermo nelle proprie convinzioni come un paracarro; è stato ed è un coltivatore di dubbi, disponendo di un'intelligenza superiore alla media. Quando era di sinistra aveva qualche pensiero di destra; ora che dicono sia di destra ha qualche inclinazione a sinistra e la manifesta senza ipocrisia. Non fosse che per questo, Giampaolo è da ammirare. Uno della cui onestà bisogna fidarsi. La sua prosa non è contraddittoria; è frastagliata, ricca di umori e di amori. Va accettata per quello che è: lo specchio del casino nel quale ci dibattiamo in Italia da secoli.

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: Ma il Caselli aggredito dai No Tav si fida di questa sinistra? Ho sempre avuto stima e simpatia per il magistrato Gian Carlo Caselli. Per una serie di motivi a cominciare dalle origini famigliari abbastanza simili alle mie e dall’età che lo vede in vantaggio di poco: tra un paio di mesi compirà 76 anni. Lui ha origini alessandrine, io monferrine. Noi del Monferrato non siamo mai andati troppo d’accordo con i mandrogni. Ma esistevano altri fatti a renderci vicini. I nonni contadini a Fubine, il papà operaio, la laurea a Torino. Oggi Caselli è in pensione, ma ha conservato la figura asciutta e il carattere forte di quando dava la caccia al terrorismo rosso. All’inizio degli anni Settanta era giudice istruttore a Torino. E dobbiamo pure a lui se le prime Brigate rosse, quelle fondate e capeggiate da Renato Curcio, furono sconfitte. Il mitico Renè venne catturato. L’unico errore dei magistrati fu di rinchiuderlo nel piccolo carcere di Casale Monferrato. Per la moglie Mara Cagol si rivelò uno scherzo entrare in quella prigione e portarsi via il marito, senza sparare un colpo. Caselli è sempre stato un coraggioso. Le Br miravano anche ai magistrati. A Genova, nel giugno 1976, accopparono il procuratore generale Francesco Coco e i due carabinieri che lo scortavano. Penso che pure Caselli rischiasse la pelle. Ma una volta fatto il proprio dovere a Torino, nel 1992, dopo l’assassinio di Giovanni Falcone, si candidò all’incarico di procuratore capo a Palermo e si trasferì lì per un bel po’ di anni, comportandosi con onore. Insomma, siamo di fronte a un uomo che ha fatto tanto per la nostra sicurezza. Gli italiani gli debbono molto. Voglio dirlo adesso che la magistratura sta declinando come il resto del paese. E non si può fingere che gli uomini e le donne in toga siano senza responsabilità. Perché questi brevi cenni sul percorso di Caselli? Perché accade che Gian Carlo sia preso di mira da gruppi di antagonisti violenti. A cominciare dai guerriglieri anti Tav e per finire ai loro compagni di Firenze, non vogliono che lui parli in pubblico. L’hanno preso di mira e non smetteranno. Caselli e i suoi tanti sostenitori non s’illudano. Mi sembrano vane le lezioni di democrazia che lui tenta di impartire a certe bande. L’ultima è apparsa venerdì sul Fatto quotidiano. Il dotto articolo di Caselli era intitolato: «Il bavaglio. La storia riscritta dagli squadristi». Uno sforzo inutile. Spiegare al sordo che è sordo non serve a nulla: lui non ti sentirà. Lo dico perché sono passato anch’io per le stesse forche caudine imposte a Caselli. Con la differenza che lui viene difeso, sia pure inutilmente, dalle molte sinistre. Il Pansa, invece, fu lasciato solo, tanto da essere costretto a rinunciare di parlare in pubblico. Ossia a uno dei diritti che la Costituzione garantisce a tutti, specialmente a chi fa politica, ai magistrati ormai fuori carriera, a chi scrive sui giornali e pubblica libri. La mia colpa erano proprio i libri. Nel 2003 avevo pubblicato «Il Sangue dei vinti», una ricostruzione senza errori di quanto era accaduto in Italia dopo il 25 aprile 1945. Era un libro che abbatteva il muro di omertà che aveva sempre nascosto la sorte dei fascisti sconfitti. E per questo ebbe subito un successo imprevisto e strabiliante. I violenti rossi dell’epoca lì per lì non se ne accorsero, forse perché non leggono i giornali e non frequentano dei luoghi chiamati librerie. Se ne resero conto soltanto tre anni dopo. Così, a partire dall’ottobre 2006, cominciarono a darmi la caccia, non appena pubblicai un altro dei miei lavori revisionisti, «La Grande bugia». Il primo assalto lo sferrarono il 16 ottobre 2006. Una squadra capeggiata da un funzionario di Rifondazione comunista, arrivata apposta da Roma con un pulmino, cercò di impedire la prima presentazione in un hotel di Reggio Emilia. Mentre stava per iniziare il dibattito tra me e Aldo Cazzullo, generosa firma del Corriere della sera, la squadra ci aggredì. Ci lanciarono contro copie del libro, poi tentarono di coprirci con un lenzuolo tinto di rosso, che recava la scritta «Triangolo rosso, nessun rimorso». Volevano farci scappare, ma a tagliare la corda furono gli aggressori, cacciati dalla reazione del pubblico. Il giorno successivo ero atteso in una grande libreria di Bassano del Grappa. Ma nella notte i balilla rossi avevano bloccato con il silicone le serrature degli ingressi. Una squadra di fabbri lavorò a lungo per liberarle. Allora tentarono di entrare e di leggere un loro proclama, ma la polizia lo impedì. Il giorno dopo, a Castelfranco Veneto, nuovi fastidi. L’indomani mi riuscì di parlare a Carmignano sul Brenta, protetto da agenti della polizia guidati dal capo della squadra mobile di Padova. Era un dirigente giovane, intelligente ed esperto. Mi avvisò che in Veneto avrei incontrato dappertutto gli stessi problemi. Aggiunse: «Comunque verrà sempre difeso da noi. Conosciamo bene questi gruppi e li terremo a bada». Fu allora che mi posi un problema di etica pubblica. Chiesi a me stesso: «Quale diritto ho di mobilitare reparti di polizia e di carabinieri per proteggere le presentazioni dei miei libri? Le forze dell’ordine hanno compiti ben più importanti, dal momento che tanta gente è vittima di furti, rapine, scippi, aggressioni». Se ci ripenso a nove anni di distanza, sono ancora convinto che fosse una domanda sensata. E altrettanto fu la risposta che mi diedi. Studiai l’agenda e mi resi conto che erano previsti una trentina di incontri per la «Grande Bugia». Ne annullai quattordici, in città come Bologna, Ferrara, Piacenza, Parma, Crema, Treviso, Vicenza, Padova, Valdagno. A decidermi furono le parole di un amico: «Tu vieni nella mia libreria, protetto dai poliziotti. Presenti il tuo libro, poi riparti. Ma noi restiamo qui, senza difese». A qualcuno capitò di vedersi sfasciare la vetrina. A una grande libreria emiliana spararono un colpo di rivoltella contro una vetrina. L’aspetto più sgradevole della faccenda stava nel fatto che in quegli stessi momenti c’erano giornali che mi attaccavano per i miei libri revisionisti, tentando di farmi il vuoto attorno. Si andava da Liberazione, il quotidiano rifondarolo, alla Stampa di Torino e a Repubblica, passando per una serie di giornali provinciali del Gruppo Espresso. Alla Stampa c’era un collega che non mi poteva soffrire. Voglio farne il nome perché oggi conta più di allora: Massimo Gramellini, il socio televisivo di Fabio Fazio. Era un vicedirettore della «Bugiarda», così la chiamavano gli operai torinesi. E arrivò a telefonarmi con arroganza melliflua per sapere se avevo letto la pagina contro di me, vantandosi di averla confezionata con le sue manine. Dopo l’assalto di Reggio, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, stilò un comunicato in mia difesa. Ricevetti in via privata le telefonate di Romano Prodi, Piero Fassino e Walter Veltroni. Sul versante della sinistra furono i soli a farsi vivi. Sono campato lo stesso e i miei libracci hanno sempre avuto molti lettori. Ma l’esperienza di allora mi induce a rivolgere una domanda a Gian Carlo Caselli: ti fidi ancora delle sinistre italiane che oggi ti portano sugli scudi? Con l’aria che tira, e sotto i bombardamenti pesanti del Cremlino renzista, avranno bisogno di raccattare tutti i voti possibili. Tu conti per uno soltanto. Prima o poi ti molleranno, a favore delle bande che occupano gli atenei. Troppo tollerate e persino blandite.

Il grido di allarme ignorato: al Tribunale di Taranto condanna certa, perché è impedito difendersi e criticare. La rivelazione di Antonio Giangrande. Dalla relazione fatta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2014 dal presidente vicario della Corte d’Appello di Lecce, Mario Fiorella, il numero di processi proprio a carico di magistrati, anche tarantini, sono ben 113. Il dato ufficiale si riferisce ai procedimenti aperti nel 2013 ed il Distretto di Corte d'Appello comprende i Tribunali di Taranto, Brindisi e Lecce. Come riporta Chiara Spagnolo su “la Repubblica”, sono stati infatti quelli i numeri degli iscritti nel registro degli indagati, inchieste poi trasferite per competenza a Potenza, mentre 92 sono i magistrati che risultano parti offese. I dati sono fuorvianti, in quanto, a ben vedere si scoprirà, che le accuse agli imputati magistrati si tramuteranno in archiviazioni tacite, mentre le accuse in cui i magistrati sono parti offese si trasformeranno in condanne certe e roboanti: perché così va il mondo. Magistrati giudicandi, ma ingiudicati!

Per esempio, il 5 marzo 2015 si tiene a Potenza l’ennesima udienza contro Antonio Giangrande, presieduta dal giudice monocratico Lucio Setola, già sostituto procuratore di quel Foro. Processo per diffamazione e calunnia su denuncia del giudice di Taranto, Rita Romano, persona offesa costituita parte civile.

La colpa di Antonio Giangrande è di aver esercitato il sacrosanto diritto di difesa, per non vedersi esser condannato ingiustamente, e per gli effetti aver presentato 3 richieste di ricusazione contro la Rita Romano, perché questa non si era ancora astenuta nei tre processi in cui giudicava il Giangrande, nonostante nel procedere in altri processi collegati già si era espressa in sentenza addebitando la responsabilità all’imputato, sebbene questi non fosse sotto giudizio, e contro il quale già aveva manifestato il suo parere in sentenze di altri processi definendolo in più occasioni, di fatto, soggetto testimonialmente inattendibile. La ricusazione oltre che fondata era altresì motivata con una denuncia allegata presentata contro la stessa Rita Romano ed a Potenza risultata archiviata, nonostante la fondatezza delle accuse e delle prove. Inoltre gli avvocati difensori De Donno e Gigli per la ricusazione presentata hanno rinunciato alla difesa. Fatto sta che i processi ricusati, con la decisione di altri giudici, però, hanno prodotto il proscioglimento per l’imputato. Sulla attendibilità di Antonio Giangrande, poi, parlano le sue opere ed i riscontri documentali nelle cause de quo.

Altro esempio è che il 30 aprile 2015 si tiene presso il Tribunale di Potenza l’ennesima udienza contro Antonio Giangrande, presieduta dal giudice monocratico Natalia Catena. Processo per diffamazione su denuncia presentata da Alessio Coccioli, quando era sostituto procuratore a Taranto prima di passare a Lecce, perché la Gazzetta del Sud Africa, e non Antonio Giangrande, pubblicava un articolo in cui si definiva il Tribunale di Taranto il Foro dell’ingiustizia, elencando tutti i casi di errori giudiziari, e per aver pubblicato l’atto originale della richiesta di archiviazione, poi accolta dal Gup, e le relative motivazioni attinenti una denuncia per un concorso truccato per il quale il vincitore del concorso a comandante dei vigili urbani di Manduria era colui il quale aveva indetto e regolato lo stesso concorso.

Come si vede le denunce a carico dei magistrati di Taranto sono 113 quelle presentate in un solo anno a Potenza e di seguito archiviate, e non sono di Antonio Giangrande, però Antonio Giangrande è uno dei tanti imputati su denuncia dei magistrati di Taranto a sottostare a giudizio, e sicuramente a condanna, per aver esercitato il suo diritto di critica e o il suo diritto/dovere di difesa. Diritti garantiti dalla Costituzione ma disconosciuti sia a Taranto, sia a Potenza.

Una delle frasi più amare del grande scrittore Franz Kafka è: “Qualunque impressione faccia su di noi, egli è servo della Legge e come tale sfugge al giudizio umano”. Viene da pensare a questa frase quando a venire giudicato è chi dovrebbe amministrare una giustizia chiara ed imparziale, scrive Roberto De Salvatore su “Lecce Cronaca”. Dicendo questo mi riferisco alla vicenda che ha visto Antonio Giangrande (nella foto), presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia, chiamato a rispondere davanti al tribunale di Taranto di diffamazione e calunnia. Il motivo che aveva dato origine alla vicenda era un caso di corruzione per un concorso truccato per un posto di comandante dei vigili urbani a Manduria, a detta del Giangrande ampiamente documentata. La vicenda processuale ha prodotto una serie di procedimenti nei confronti di ben 113 magistrati tarantini, ma non solo. Sono questi come riporta Chiara Spagnolo su “la Repubblica”, i numeri degli iscritti nel registro degli indagati, inchieste poi trasferite per competenza a Potenza, mentre 92 sono i magistrati che risultano parti offese. I dati sono fuorvianti, in quanto, a ben vedere si scoprirà, che le accuse agli imputati magistrati si tramuteranno in archiviazioni tacite, mentre le accuse in cui i magistrati sono parti offese si trasformeranno in condanne certe e roboanti: perché così va il mondo. Magistrati giudicandi, ma ingiudicati!

Ciascuno dovrebbe aver diritto ad un equo processo, a prescindere dalla categoria cui appartiene, nella convinzione (forse ingenua) che quanto si legge scritto sui muri dei tribunali ‘la legge è uguale per tutti’ non sia solo uno slogan. Non sappiamo giudicare dove sia il torto e dove la ragione, né siamo abilitati a farlo se non esprimendo un parere da cittadini, nella speranza che ancora sia permesso esprimere una opinione liberamente, ancorché però non sfoci nella calunnia. Viene in mente la recente legge sulla responsabilità dei magistrati e la levata di scudi della categoria contro questa legge rea a loro dire di mettere il bavaglio alla magistratura. A mio avviso invece è una legge civile a salvaguardia della certezza del diritto.

Certo speriamo che i potenti non siano gli unici beneficiari di tale legge, ma che serva di monito a compiere il proprio dovere senza preconcetti, o peggio ancora ispirati da concezioni politiche che con la democrazia non hanno nulla a che fare. I magistrati devono essere assimilabili a qualunque categoria del pubblico impiego per le quali chi sbaglia è giusto che paghi. Non hanno nulla da temere coloro che fanno da sempre il loro dovere, ma i tempi dei Viscinsky di staliniana memoria devono terminare, i normali cittadini sono stanchi di considerare la magistratura qualcosa di assolutamente divino e di intoccabile. E basta con le toghe rosse, nere o grigie, la toga di un magistrato non deve avere un colore, ma rappresentare un baluardo di imparzialità verso tutti.

Decine di saggi di inchiesta suddivisi per tema o per territorio dove la cronaca diventa storia e dove luoghi e protagonisti sono trattati allo stesso modo e sullo stesso piano.

Vi siete mai chiesti perché non conoscete Antonio Giangrande? Perché egli, pur avendo scritto di Mafia, Massoneria e Lobbies, non abbia la notorietà generalista di Roberto Saviano, lo stesso che a Scampia gli hanno dedicato un motto: “Scampia-moci da Saviano”? Vi siete mai spiegati il motivo sul perché, avendo Antonio Giangrande scritto decine di saggi di inchiesta e ben due libri sul delitto di Sarah Scazzi ed essendo egli stesso avetranese, mai sia stato invitato nei talk show televisivi a render presente la posizione anti giustizialista, a differenza della Roberta Bruzzone che presenzia in qualità di esperta in conflitto di interessi essendo ella autrice di un libro su Sarah Scazzi ed allo stesso tempo presunta parte offesa in un procedimento connesso?

Il motivo è chiaro. Egli non è allineato, conforme ed omologato e scrive fuori dal coro sistematico ed ideologico. Di fatto è stato estromesso dai salotti buoni e di conseguenza ignorato dal pubblico generalista.

La sua storia è paradigmatica dell'imbecillità italiana, dove il tuo valore si misura non per ciò che fai, bensì dalla consorteria cui appartieni e dove dipende tutto dai momenti della convenienza. Devi per forza dare il senso di appartenenza a sinistra, difendere lo status quo ed osannare i magistrati. Non puoi dire il contrario rispetto alla vulgata sinistrorsa. I cittadini devono essere imbottiti non di informazioni ma di suggestioni.

Come dire: sui social network girano le foto di otto cadaveri appesi a testa in giù ad una struttura metallica di Hawija, nella provincia di Kirkuk, allora si parla di barbarie dell’Isis, come è giusto che sia. Quando i comunisti appesero Mussolini e la Petacci in Piazzale Loreto o infoibarono gente innocente nel Carso, si parlò di atti di eroismo dei partigiani.

Se qualcuno racconta la verità e presto tacciato di mitomania o pazzia. Quando non dici più quello che piace al sistema, composto da amici e compari, ti relegano tra i reietti della penna o della tastiera, se non addirittura dietro le sbarre di una prigione: Così va questa Italia!

Questa recensione non è un tentativo di promuovere uno spot gratuito per interessi economici.

I libri di Antonio Giangrande li trovi su Amazon.it o su Lulu.com o su CreateSpace.com o su Google Libri. Ma si possono leggere parzialmente free su Google Libri ove vi sono circa 60.000 mila accessi al dì, come si possono leggere gratuitamente anche su www.controtuttelemafie.it , il sito web della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, sodalizio nazionale antimafia antagonista a Libera di Don Ciotti e della CGIL.

Si provi a leggere solo l’articolato dei capitoli per rendersi conto che in quei libri si troveranno le malefatte della mafia, ma anche gli abusi dell’antimafia. In quei libri si parla dell’Italia e degli italiani e di tutti coloro che a torto si mettono dalla parte della ragione e si lavano la bocca con la parola “Legalità”, pur vivendo nell’illegalità. Si troverà per argomento o per territorio quanto si fa fatica a scrivere. Si provi a leggere quanto nella propria città succede ma non si dice.

Fino a che la maggior parte di giornalisti, scrittori, editori, saranno succubi dell’ignavia, della politica e dell’economia, ci sarà sempre bisogno di leggere i saggi di Antonio Giangrande, giusto per conoscere una versione diversa dei fatti, così come raccontati da quelle solite esposizioni omologate che si vedono in tv e si leggono sui libri, o sui giornali, o sui siti web o blog dei soliti noti.

La caduta (parziale) degli Dei, scrive Piero Sansonetti su "Il Garantista". Il segretario dell’Anm, il dottor Maurizio Carbone, dice che la riforma delle norme sulla responsabilità civile dei magistrati, approvata l’altro ieri dal Parlamento, «è un tentativo di normalizzare la magistratura». Lo ha dichiarato ieri, durante la conferenza stampa dell’ Anm, che è su tutte le furie per questa piccola riforma. Già: «normalizzare». Cioè rendere normale. Oggi la magistratura non è normale: è l’unica istituzione dello Stato ad essere al di sopra dello Stato, della legge, ad essere – nell’esercizio delle sue funzioni – immune dalla legge, e insindacabile, e non dipendente dallo Stato ma sovraordinata allo Stato. «Normalizzare» la magistratura, cioè toglierle la sua caratteristica di ”deità” (che non è la ”terzietà” di cui spesso l’Anm parla) non sarebbe una cosa cattiva. Libererebbe forse l’Italia da un sovrappeso ”feudale” che ancora ne condiziona profondamente la struttura democratica, e che probabilmente è in contrasto con lo spirito della Costituzione, che è una Costituzione Repubblicana e che prevede l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Alcuni magistrati dicono: ma noi siamo magistrati, non cittadini. E su questa base pretendono di non dover sottostare alla legge. Ritengono – temo in buona fede – che la saldezza di una società, e la sua moralità, e il suo essere ”società etica” (successivamente si passa all’idea dello ”Stato Etico”) non possono che essere affidati ad una entità e ad un gruppo di persone migliori degli altri (”aristoi”) i quali siano in grado di ”sapere” la vita degli altri, valutarla, giudicarla, punirla. Non è questa una funzione – pensano – che possa essere affidata alla democrazia, o al libero svolgimento delle relazioni umane e sociali, perché la democrazia è un buon sistema di governo ma è viziato da corruzione. E l’eccesso della libertà, della deregolamentazione, sono pericolose per la collettività. La democrazia deve essere ”corretta”, o comunque controllata, e anche la società, da qualcosa di superiore e di ”certamente morale”: e cioè da i giudici. Contestare questa funzione dei giudici vuol dire contestare la loro indipendenza. E mettere in discussione l’indipendenza dei giudici vuol dire correre il rischio che la magistratura finisca per non essere più autonoma dalla politica. L’autonomia dalla politica non è vista come una condizione di funzionamento della magistratura, o come un elemento necessario nell’equilibrio dei poteri, ma come un valore assoluto al quale una società ”morale” deve sottomettersi, e in assenza del quale la società diventa ”immorale” e la democrazia, e le istituzioni, scendono in una condizione di subalternità alla politica. La politica è ”il male” , la giustizia (lo dice la parola stessa) è il bene, e il bene può governare il male, e può redimerlo, correggerlo, sottometterlo. Il male non solo non può governare il bene, ma non può aspirare ad essere alla pari col bene. Ecco, questo ragionamento è alla base delle molte dichiarazioni rilasciate ieri dal dottor Carbone, e anche dal presidente dell’Anm Sabelli. Il quale ha rimproverato al governo di avere promesso una riforma della Giustizia in 12 punti, e di avere realizzato invece l’unico punto che non va bene, e cioè la riforma della responsabilità dei giudici. I magistrati invece – ha spiegato – vogliono cose diverse: per esempio la riduzione della prescrizione, l’estensione dei poteri speciali ”antimafia” anche ad altri reati, il processo telematico (cioè la cancellazione del diritto dell’imputato ad essere presente al suo processo), la riduzione dei gradi di giudizio, eccetera. In sostanza, la proposta dell’Anm (che più o meno è stata organicamente strutturata nella proposta di riforma del dottor Nicola Gratteri) è quella di escludere norme che riportino alla normalità la magistratura, ristabilendo la legittimità dello Stato liberale e dell’equilibrio dei poteri, ma, viceversa, decidere un forte aumento dei poteri della magistratura, un ridimensionamento drastico dei diritti dell’imputato, e un rafforzamento della condizione di preminenza e di insindacabilità dei pubblici ministeri. Sabelli ha anche annunciato che l’Anm ha chiesto un incontro al Presidente della Repubblica. Per dirgli cosa? Per esprimere le proprie rimostranze contro il Parlamento. Già nella richiesta dell’incontro c’è un elemento di scavalcamento dell’idea (puramente platonica in Italia) dell’indipendenza dei poteri. La magistratura ritiene che il suo compito non sia quello semplicemente di applicare le leggi, ma di condizionarne il progetto e la realizzazione. L’associazione magistrati chiede al Presidente della Repubblica di frenare, o condizionare, o rimproverare il Parlamento. E vuole discutere nel merito delle leggi. La magistratura considera inviolabile la propria indipendenza dagli altri poteri, e inaccettabile la pretesa di indipendenza degli altri poteri dalla magistratura. Devo dire che la passione con la quale i magistrati hanno reagito alla miniriforma della responsabilità civile mi ha colpito soprattutto per una ragione: questa riforma è quasi esclusivamente simbolica. La responsabilità dei giudici resta limitatissima. L’unica vera novità è la rimozione del filtro che in questi vent’anni aveva permesso solo a 4 cittadini di ottenere un risarcimento per la mala-giustizia (nello stesso periodo sono stati processati e condannati 600.000 medici). Tutte le altre barriere restano. I magistrati saranno giudicati solo in caso che sia accertata una colpa grave, o addirittura un dolo nel loro comportamento, saranno giudicati non da una autorità esterna ma dai loro colleghi (visto che oltretutto non esiste una divisione delle carriere) e se alla fine saranno ritenuti colpevoli pagheranno con una sanzione che in nessun caso potrà superare la metà dell’ammontare di un anno di stipendio. Voi conoscete qualche altra categoria professionale protetta fino a questo punto? La probabilità di essere condannati per i magistrati è così bassa, e l’esiguità della pena così forte, che chiunque può mettersi al riparo pagando una assicurazione con poche decine di euro. Cosa che non vale per i medici, o gli ingegneri (non parliamo dei giornalisti) che essendo espostissimi al rischio di condanna (anche senza dolo e senza colpa grave) se vogliono sottoscrivere una assicurazione devono pagare migliaia e migliaia di euro. Diciamo che il privilegio non è affatto toccato da questa riformetta. Appena appena scalfito. E allora? Il fatto è che comunque la riforma ha un valore ideale, è una specie di metafora. Il Parlamento, per una volta, non si è inginocchiato davanti alla magistratura. E’ questa la novità che ha messo in allarme i settori più corporativi della magistratura. Il timore è che davvero possa cambiare il clima politico e possa essere aperta una via alle riforme vere, e al ridimensionamento della ”Divina Giustizia”. No, la riforma non comporterà la caduta degli Dei. Solo che gli Dei non sopportano gli oltraggi. Sono permalosi. E’ sempre stato così, dai tempi di Omero. E questa legge è uno sberleffo inaccettabile, anche se innocuo.

Magistrati: ecco perché non pagheranno mai. La nuova riforma della responsabilità civile dei magistrati? Non cambierà nulla. Perché l’arma è già spuntata in partenza, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Vi hanno detto che adesso cambia tutto? È un bluff. Non hanno pagato un euro negli ultimi 26 anni e non pagheranno nemmeno domani. Il 25 febbraio la Camera ha approvato la nuova legge sulla responsabilità civile, e da allora magistrati e giudici gridano all’indipendenza violata, strepitano all’attentato alla Costituzione. I più vittimisti ne parlano addirittura come di una «punitiva ditata negli occhi». Tutti paventano «uno tsunami di ricorsi». Ma è solo una pantomima. Ne sono convinti molti giuristi e ne sono certi soprattutto gli avvocati, che continueranno a non utilizzare lo strumento. Perché non funziona e non funzionerà. Sergio Calvetti, penalista di Vittorio Emanuele di Savoia, ha appena incassato 39 mila euro dalla Corte d’appello di Roma che ha riconosciuto al suo cliente l’ingiusta detenzione del 2006, più danni accessori e d’immagine. Calvetti, però, non è riuscito nell’impresa invocando la responsabilità civile del magistrato che a Potenza condusse l’indagine, quell’Henry John Woodcock che fu star di cento inchieste tanto roboanti quanto avare di risultati: «Abbiamo ottenuto questo risultato come risarcimento da ingiusta detenzione» spiega il legale «e questo anche se subimmo la pervicace volontà di trattenere in quella sede il processo, pur senza alcuna competenza territoriale». Francesco Murgia, con Calvetti difensore storico di Vittorio Emanuele, aggiunge che in realtà una citazione per responsabilità civile fu presentata nei confronti di Woodcock nel dicembre 2011, quando cadde l’ultima accusa contro il loro cliente. Ma fu dichiarata inammissibile perché il tribunale stabilì fosse «non tempestiva»: avrebbe dovuto partire nel giugno 2006, ai tempi dell’ordine di custodia cautelare. Perché questo, assurdamente, prevede la legge (e oggi viene confermato dalla sua riforma): che per agire il cittadino aveva due anni, ora tre in base alla riforma. Con il trucco, però: perché l’orologio scatta dal momento in cui l’arresto o il primo provvedimento cautelare viene respinto. «Ma come faccio a iniziare un’azione di responsabilità, se sono ancora sotto scacco?» protesta Murgia. È con ostacoli come questo che la Legge Vassalli, varata il 13 aprile 1988 come (inadeguata) risposta al referendum radicale che un anno prima, con l’80 per cento di sì, aveva cancellato tre articoli del codice che proteggevano come un castello medievale magistrati e giudici dalle azioni civili dei cittadini, ha continuato a garantire piena protezione alla categoria. Da allora sono state appena 410 le azioni intentate da vittime di malagiustizia, e sono state più che decimate dalla valutazione di ammissibilità, il cosiddetto «filtro»: un giudizio preventivo svolto nel tribunale competente per territorio. C’è chi, come Piercamillo Davigo, giudice di Cassazione e fondatore della nuova corrente giudiziaria Autonomia e indipendenza, nonché nemico della riforma, analizza il dato con sarcasmo: «La responsabilità civile dei magistrati non è un problema, visto che i cittadini fanno poche domande». Altri numeri in realtà dimostrano che in Italia un problema di malagiustizia esiste, ed è grave. Prima della Legge Vassalli, dal 1945 al 1988, l’Eurispes e l’Osservatorio permanente sulle carceri calcolano 4,5 milioni di errori giudiziari. Possibile che dopo il 1988 il fenomeno sia scomparso? Certo che no. Il punto è che le citazioni per responsabilità civile sono state poche perché la legge non ha mai funzionato. Dal 1988 a oggi la Cassazione ha stabilito sette risarcimenti in tutto, uno ogni 7,5 milioni di processi penali aperti nel periodo. C’è il caso di un’azienda agricola grossetana fallita nel 1998 per l’errato sequestro di una tenuta, deciso in un’inchiesta per reati ambientali (500 mila euro risarciti). C’è il caso di un pm siciliano che nel 2002 non tenne nel debito conto una serie di lettere, acquisite dai Carabinieri, che avrebbero potuto evitare un omicidio-suicidio di coppia: i familiari della donna uccisa, nel 2009, hanno ottenuto 95 mila euro. Ma in nessun caso, mai, lo Stato si è rivalso sui pm o sui giudici ritenuti colpevoli di dolo o colpa grave. Nessuno di loro ha mai pagato nulla. L’ultima pronuncia, per ora ferma al primo grado, riguarda un’inchiesta guidata nel 2004 dall’ex pm calabrese Luigi De Magistris, poi migrato in politica. Lo scorso 3 dicembre il Tribunale di Roma ha condannato lo Stato a pagare meno di 25 mila euro a Paolo Antonio Bruno, un magistrato di Cassazione che nel 2004 fu ingiustamente accusato di associazione mafiosa da De Magistris. Si vedrà come finirà il caso. Non ha mai nemmeno pensato di avvalersi della Legge Vassalli, invece, l’imprenditore calabrese Antonio Saladino, che pure dal 2006 si proclama vittima di un’altra, mitica inchiesta di De Magistris: la «Why not», che nel 2006 piazzò Saladino al centro di una ragnatela di presunte corruttele ma poi si risolse praticamente in nulla: «Citarlo in giudizio? Quell’inchiesta mi ha rovinato economicamente» dice Saladino «però io non ci ho mai nemmeno pensato. Sarebbe stata una povera battaglia contro i mulini a vento, e credo lo sarebbe anche oggi». È così. Avvocati e presunte vittime di giustizia hanno presto capito che la Legge Vassalli era utile come un cucchiaio bucato e hanno scelto altre strade. Dal 1991, per esempio, cioè da quando esistono i risarcimenti per l’ingiusta detenzione, in 23.326 hanno ottenuto un risarcimento: in 23 anni lo Stato ha versato loro 581 milioni di euro. La riforma, purtroppo, rischia di non cambiare nulla. «Oggi i magistrati si lamentano, ma è lo stesso vacuo bla-bla di 26 anni fa, con le medesime parole d’ordine» dice Gian Domenico Caiazza, penalista romano e presidente della Fondazione Piero Calamandrei. Caiazza è un’autorità, in materia. Nell’aprile 1988 era nel collegio che, a nome di un Enzo Tortora morente di cancro, chiese il risarcimento per il disastro giudiziario che cinque anni prima, a Napoli, aveva coinvolto il giornalista in un’inchiesta su camorra e droga. Era stato proprio il caso di Tortora, riconosciuto innocente dopo sette mesi di custodia cautelare e una gogna aberrante, a dare il là al referendum e a garantirne il successo. Nell’aprile 1988 la Legge Vassalli, appena varata, conteneva un articolo che ne impediva l’applicazione retroattiva. Poiché il referendum aveva abrogato le norme antecedenti, i difensori di Tortora si trovarono nella peculiare situazione di agire senza limiti. «Per la prima e forse unica volta nella storia di questo Paese facemmo causa ai magistrati come se fossero normali cittadini» ricorda Caiazza. «Ma poi il Tribunale di Roma passò la palla alla Consulta. Questa stabilì che l’articolo sulla irretroattività della Legge Vassalli era incostituzionale nella sola parte che riguardava il filtro sulla fondatezza delle nostre pretese: quella mancanza violava il principio d’indipendenza e autonomia della magistratura». Insomma: il filtro del giudizio di ammissibilità doveva esserci, per forza. Risultato? «A quel punto per il risarcimento avremmo dovuto partire daccapo» dice Caiazza «ma con quella pagliacciata avevamo perso due anni. Decidemmo di lasciar perdere». Il ricordo dell’avvocato di Tortora è preciso (la sentenza della Consulta è la n. 468 del 22 dicembre 1990) e oggi fa scoppiare come una bolla di sapone la principale, presunta innovazione della riforma appena varata. Caiazza ne è certo: «La questione sull’abolizione del filtro potrà essere sottoposta in ogni momento alla Corte costituzionale, che con tutta probabilità confermerà il suo orientamento di 25 anni fa». Anche Davigo è d’accordo: «La Consulta si è già pronunciata: l’eliminazione del filtro, con tutta evidenza, è costituzionalmente illegittima». Suona quindi troppo ottimista il tweet di Gaia Tortora, che la sera in cui è stata varata la riforma l’ha salutata come una vittoria alla memoria di suo padre (e il premier Matteo Renzi si è subito appropriato di quella generosa certificazione con un re-tweet). Anche perché intanto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si sbraccia per tranquillizzare l’Associazione nazionale magistrati. Il Guardasigilli ha già garantito alla categoria che non c’è nulla di cui preoccuparsi, che il governo «non ha alcun intento punitivo», che «resterà deluso chi si aspetta che i giudici siano condannati ogni due per tre», e addirittura che tra sei mesi sarà fatto «un tagliando» per verificare «eventuali eccessi». Nella storia d’Italia non s’era mai vista una legge con «retromarcia integrata». Beniamino Migliucci, presidente dei penalisti, è critico: «Il tagliando è un’assurdità giuridica e politica. E chi ipotizza una valanga di ricorsi fa disinformazione. Perché un imputato non può citare il suo giudice: il ricorso è improcedibile, impossibile, fino a quando non c’è una sentenza di Cassazione». Anche Giuseppe Di Federico, docente emerito di diritto penale a Bologna e tra i maggiori giuristi italiani, è scettico: «Non credo cambierà nulla. La nostra giustizia è del tutto deresponsabilizzata: la valutazione delle carriere dei magistrati fa passare tutti, al contrario di quanto accade in altri Paesi, e manca un vero sistema sanzionatorio. E poi voglio proprio vederli, gli avvocati, che si espongono a fare causa al loro giudice…». Una causa, oggi, non la farebbe nemmeno Pardo Cellini, il penalista che pure ha scoperchiato il più grave errore giudiziario italiano di tutti i tempi: quello che è costato 39 anni di processi a Giuseppe Gulotta, un muratore trapanese che nel 1976, a 18 anni, fu arrestato per l’omicidio di due carabinieri e solo dopo  22 anni di carcere, nel febbraio 2012, è stato riconosciuto innocente e liberato. Fin dalle prime udienze Gulotta dichiarò che la confessione gli era stata estorta con violenze e torture da parte dei Carabinieri. «E i suoi processi sono stati viziati da errori e lacune» dice Cellini. «Però abbiamo preferito chiedere il risarcimento come danno da errore giudiziario». Perché? Ma perché l’avvocato conosce a perfezione quali siano le tortuosità della responsabilità civile: «È un sistema che non funziona e non funzionerà» sospira. Il problema di Gulotta, che a 57 anni oggi vive della carità di un parroco, è che sono trascorsi già 36 mesi dalla sua riabilitazione ma non ha ancora visto un euro: l’avvocatura dello Stato si oppone, insiste nella tesi paradossale che il processo fu originato dalla sua confessione, per quanto estorta.«La vicenda Gulotta» conclude Cellini «mostra la resistenza dei tribunali e il disinteresse delle istituzioni. E io non vorrei proprio dirlo, ma temo che casi come il suo potrebbero accadere ancora. Per questo la responsabilità civile va rivoluzionata».  Più positivo, a sorpresa, è un penalista che non ha mai simpatizzato con la magistratura: «La nuova legge è equilibrata e migliorerà la situazione» dice Maurizio Paniz, ex deputato del Pdl e avvocato di Elvo Zornitta, l’ingegnere veneto che fu ingiustamente accusato di essere «Unabomber», l’autore di una serie di 30 attentati dinamitardi dal 1994 al 2004, con sei feriti. Scagionato nel 2009, oggi Zornitta sta per chiedere il risarcimento allo Stato: non per responsabilità civile, però, ma ancora una volta come riparazione di un errore giudiziario. Per partire, Paniz aspetta le motivazioni della Cassazione che in dicembre ha condannato Ezio Zernar, il poliziotto che confezionò false prove per incastrare Zornitta. «La nuova responsabilità civile è migliore della vecchia» dice Paniz «perché specifica come cause di punibilità la manifesta violazione della legge e il travisamento delle prove. È un bene: a me sono capitati diversi processi in cui, a volte dolosamente, una prova veniva valutata in modo errato». La morale? La tira Grazia Volo, tra i più noti penalisti italiani: «Questa riforma arriva troppo tardi, 28 anni dopo il referendum. È una riforme sfilacciata, scritta da un legislatore superficiale e giustizialista, che intanto aumenta insensatamente le pene. E non cambierà nulla». Una morale ancora più severa? Dice Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, da sempre controcorrente: «Il magistrato che manda in galera un indagato contro la legge non deve pagare. Dev’essere buttato fuori dalla magistratura». Chissà se il ministro Orlando ne terrà conto, nel suo «tagliando».

Ma ora i magistrati saranno più responsabili? La legge sulla responsabilità civile cambia poco. Con un rischio: l'eliminazione del giudizio preventivo di ammissibilità potrà ingolfare i tribunali, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Uno legge le cronache giudiziarie di oggi, perse come sono tra gli altissimi lamenti sulla fine dell'autonomia della magistratura e le infinite proteste di categoria, e pensa: caspita, che rivoluzione dev'essere questa riforma della responsabilità civile. Poi va a leggersi i 7 articoletti della legge e pensa: caspita, ma qui cambia davvero poco. Perché, in base alla legge varata ieri in via definitiva dalla Camera, da oggi in poi dovrebbe venire punito il magistrato che si macchia di una "violazione manifesta della legge", oppure di un "travisamento del fatto o delle prove". Ma questo cambia obiettivamente molto poco rispetto alla Legge Vassalli dell'aprile 1988. Questa, fino a ieri, prevedeva che ogni cittadino potesse chiedere i danni allo Stato se un magistrato  adottava un atto o  un provvedimento giudiziario "con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni, ovvero per diniego di giustizia"; e dava  facoltà al cittadino "di agire contro lo Stato" anche "per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale". Differenze? Mah... Ecco, sì, la nuova legge specifica meglio che da oggi il cittadino può chiedere anche la punizione del magistrato che ha sbagliato nell'emissione di "un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge, oppure senza motivazione". Quanto al resto, poco cambia. Sì, è vero, si allungano di un anno (da due a tre) i termini per avviare l'azione legale. E oggi il governo è obbligato a esercitare l'azione di rivalsa nei confronti del magistrato ritenuto colpevole. Aumenta anche la quota di stipendio che il magistrato stesso dovrà restituire allo Stato: al massimo metà del suo stipendio di un anno (prima era un terzo), senza però che si possa superare un terzo del suo stipendio mensile nel caso di pagamenti mediante trattenuta. Ma queste non sono certo modifiche sostanziali. E allora? Non cambia davvero nulla? No: una modifica sostanziale riguarda il cosiddetto "filtro". La Legge Vassalli all'art. 5 prevedeva infatti che la domanda di risarcimento presentata dal cittadino dovesse ricevere una valutazione preventiva di ammissibilità: in tre gradi di giudizio (fra tribunale, corte d'appello e Cassazione) i giudici dovevano stabilire se la domanda fosse o no "manifestamente infondata". Così, per stabilire se un magistrato dovesse effettivamente pagare per un suo errore, servivano così nove gradi di giudizio: tre per stabilire l'ammissibilità del giudizio, tre per stabilire il fatto in sé, e altri tre per la rivalsa da parte dello Stato nei confronti del magistrato che aveva agito con dolo o colpa grave. È per questo che pochissimi finora hanno pagato. Per darvi un'idea: tra 1988 e 2014 tale è stata la fiducia degli italiani nella Legge Vassalli che sono state presentate in tutto 410 domande, davvero poche. Quelle ritenute "ammissibili" sono state appena 35, nemmeno una su dieci, e di queste soltanto sette alla fine sono state accolte (per l'esattezza 2 a Perugia e una a testa a Brescia, Caltanissetta, Messina, Roma, Trento). La riforma, però, abolisce il giudizio di ammissibilità e l'art. 5. Questo riduce a sei i gradi di giudizio. Secondo alcuni c'è il rischio che questo possa esporre i tribunali italiani a una valanga di ricorsi. Tant'è vero che i magistrati sono riusciti a strappare al governo l'impegno a fare un "tagliando" della riforma tra sei mesi. Sul punto è abbastanza scettico invece Giuseppe Di Federico, uno dei primi giuristi italiani (è docente emerito di diritto penale a Bologna ed ex membro del Csm), che nel 1987 fu tra i promotori del vittorioso referendum radicale sulla responsabilità civile, poi rintuzzato dalla Legge Vassalli. "Non mi attendo uno tsunami di ricorsi" dice a Panorama.it "perché mi domando quanti avvocati saranno disposti a esporsi in casi di questo genere. E comunque prevedo un estremo rigore da parte dei tribunali".

Berlusconi, vent’anni di rapporti con la magistratura. Dalle «toghe rosse» ai ringraziamenti per i giudici della Cassazione che hanno confermato l’assoluzione nel processo Ruby. Dal 22 novembre 1994 - data in cui Berlusconi, capo del governo, riceve un invito a comparire dalla Procura di Milano che sta indagando sulle tangenti alla Guardia di finanza - fino a oggi, sono stati altalenanti e spesso conflittuali i rapporti del leader di Forza Italia con la magistratura, scrive “Il Corriere della Sera”.

1. Il pool «Mani Pulite» e l’avviso di garanzia del 1994. Il primo interessamento della giustizia nei confronti di Berlusconi risale al 1983 quando la Guardia di finanza segnalò un suo presunto coinvolgimento in un traffico di droga con la Sicilia. L’inchiesta venne archiviata. La prima condanna, invece, è del 1990: la Corte d’appello di Venezia, dichiara Berlusconi colpevole di aver giurato il falso davanti ai giudici, a proposito della sua iscrizione alla lista P2. Nel settembre 1988, infatti, in un processo per diffamazione da lui intentato contro alcuni giornalisti, Berlusconi aveva dichiarato al giudice: «Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo che è di poco anteriore allo scandalo». Nonostante la Corte d’appello di Venezia dichiari Berlusconi colpevole (il giudice era Luigi Lanza), il reato è considerato estinto per l’amnistia del 1989.  Il 22 novembre del 1994 Berlusconi, capo del governo, mentre presiede la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità transnazionale, riceve un invito a comparire dalla Procura di Milano che stava indagando sulle tangenti alla Guardia di finanza. Le tangenti servivano per alleggerire le verifiche alle società Mondadori, Mediolanum, Videotime, Telepiù: in primo grado Berlusconi è stato condannato a 2 anni e 9 mesi; in appello, grazie alle attenuanti generiche, è scattata la prescrizione.

2. All Iberian, dalle accuse alla prescrizione. Il 12 luglio 1996 Silvio Berlusconi, l’ex segretario del Psi Bettino Craxi, l’amministratore delegato di Mediaset Ubaldo Livolsi vengono rinviati a giudizio con altre nove persone per l’ inchiesta sul presunto finanziamento illecito della Fininvest, attraverso la società All Iberian, al Psi nel 1991. Il processo inizia il 21 novembre 1996 davanti ai giudici della seconda sezione penale del tribunale di Milano. Il pm Francesco Greco chiede per Berlusconi 5 anni e 6 mesi di reclusione e 12 miliardi di multa poi, dopo lo stralcio del reato di falso in bilancio, riformula la richiesta in due anni e mezzo di reclusione e 12 miliardi di multa. Nel 1998 Berlusconi viene condannato in primo grado (2 anni e 4 mesi). «I giudici hanno riscritto il codice penale per allineare le norme alle esigenze repressive della procura» dichiara Berlusconi. In appello però, nel 2000, sempre per le attenuanti generiche scatta la prescrizione.

3. Colombo, il caso Lentini e la prescrizione. C’e’ anche un capitolo «sportivo»: versamento in nero di una decina di miliardi dalle casse del Milan a quelle del Torino, per l’acquisto di Gianluigi Lentini. Il dibattimento si conclude con la dichiarazione che il reato è prescritto, grazie alla legge che abolisce il falso in bilancio. È lo stesso pubblico ministero Gherardo Colombo a chiedere l’applicazione della prescrizione, dopo che il tribunale respinge la sua eccezione di incostituzionalità della normativa varata nel marzo 2002 in materia di falso in bilancio.

4. Il tribunale civile e il risarcimento a De Benedetti. Berlusconi è poi coinvolto in una lunga serie di processi per la corruzione dei giudici romani in relazione al Lodo Mondadori e al caso Sme. Sono i processi che hanno protagonista Stefania Ariosto, il teste «Omega» e Cesare Previti. Condanne per Cesare Previti e il giudice Metta. Per quanto riguarda il Lodo Mondadori, dopo una guerra durata vent’anni, si stabilisce che Berlusconi deve risarcire De Benedetti. Luigi de Ruggiero, Walter Saresella e Giovan Battista Rollero sono i tre giudici della seconda sezione civile della Corte d’Appello di Milano che emettono la sentenza nell’ambito della vicenda del Lodo Mondadori che condanna Fininvest al pagamento di circa 560 milioni di euro. La cifra diventa 494 milioni dopo la Cassazione.

5. De Pasquale e l’accusa nel caso Mills, ma è prescrizione. Le procure di Caltanissetta e Firenze che hanno indagato sui mandanti a volto coperto delle stragi del 1992 e del 1993 hanno svolto indagini sull’eventuale ruolo che Berlusconi e Dell’Utri possono avere avuto in quelle vicende. L’inchiesta è stata chiusa con l’archiviazioni nel 1998 (Firenze) e nel 2002 (Caltanissetta). La procura di Palermo, inoltre, ha indagato su Berlusconi per mafia: concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio di denaro sporco. Nel 1998 l’indagine e’ stata archiviata per scadenza dei termini massimi concessi per indagare. Definitiva la prescrizione per il caso Mills, l’avvocato inglese che avrebbe ricevuto 600 mila euro da Berlusconi per testimonianze reticenti ai processi per All Iberian e tangenti alla Gdf.  A sostenere l’accusa contro Berlusconi il pm Fabio De Pasquale.

6. Caso Ruby, Boccassini è pubblica accusa. Il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, insieme al pm Antonio Sangermano, rappresenta la pubblica accusa nel processo di primo grado sul caso Ruby. I rapporti di Berlusconi con Boccassini sono conflittuali. L’ex premier respinge le accuse e condanna l’operato dei pm di Milano.

7. Tre donne per la condanna in primo grado. Il 24 giugno 2013, nel processo Ruby, Silvio Berlusconi viene condannato in primo grado a 7 anni per entrambi i reati contestati: concussione per costrizione e prostituzione minorile. Il collegio della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che giudica Berlusconi è composto da donne: la presidente Giulia Turri, che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per il “fotografo dei vip” Fabrizio Corona; Carmen D’Elia, che già nel 2002 aveva fatto parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi; Orsola De Cristofaro, la terza componente del collegio, con un passato da pm e gip, già giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita.

8. L’assoluzione in appello. Il presidente si dimette. Il processo d’appello per il caso Ruby si tiene davanti alla seconda Corte d’Appello: Enrico Tranfa è il presidente, Concetta Lo Curto e Alberto Puccinelli i giudici a latere. Berlusconi viene assolto dal reato di concussione «perché il fatto non sussiste» e dal reato di prostituzione minorile «perché il fatto non costituisce reato». L’ex Cavaliere commenta che «la maggioranza magistrati è ammirevole». Enrico Tranfa, il presidente, si dimette subito dopo aver firmato le motivazioni della sentenza, in dissenso con la sentenza presa a maggioranza con il sì degli altri due giudici. E così, dopo 39 anni di servizio, a 15 mesi dalla pensione, il magistrato lascia anzitempo la toga. Tranfa ha esercitato la professione in gran parte a Milano. Negli anni 90 è stato all’ufficio Gip. Come giudice delle indagini preliminari, nel periodo di Mani Pulite, si era occupato di uno dei filoni dell’inchiesta sugli appalti Anas e di quella sulla centrale dell’Enel a Turbigo per cui dispose l’arresto, tra gli altri, dell’ex assessore lombardo in quota alla Dc Serafino Generoso. Nel 2002 è stato nominato presidente del Tribunale del Riesame sempre di Milano. Come giudice d’appello ha confermato, tra l’altro, la condanna a tre anni di carcere per Ubaldo Livolsi per la bancarotta di Finpart. Concetta Lo Curto, entrata in magistratura nel 1990, è stata giudice al Tribunale di Milano, prima all’ottava sezione penale e poi alla terza dal 1995 al 2013 quando poi è passata in Corte d’Appello. Nel 2010 assolse l’allora deputato del Pdl Massimo Maria Berruti, imputato per la vicenda Mediaset (la sua posizione era stata stralciata da quella di Berlusconi e degli altri). Puccinelli, entrato in magistratura nell’89, è stato il giudice relatore al processo di appello che si è concluso con la prescrizione per Berlusconi, imputato per la vicenda del «nastro Unipol».

9. Processo Ruby, il pg De Petris contro l’assoluzione. La sesta sezione penale della Corte di Cassazione confermato l’assoluzione, che diventa definitiva, di Silvio Berlusconi nel processo Ruby. Il sostituto procuratore della Corte d’Appello Pietro De Petris aveva fatto ricorso in Cassazione contro l’assoluzione.

10. Processo Mediaset, l’accusa di De Pasquale e Spadaro. Il 18 giugno 2012 i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono una condanna a 3 anni e 8 mesi di reclusione per Silvio Berlusconi, imputato di frode fiscale nel processo sulle presunte irregolarità nella compravendita dei diritti tv da parte di Mediaset.  Il 26 ottobre 2012 l’ex premier viene condannato a 4 anni di reclusione, cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e tre anni di interdizione dagli uffici direttivi delle imprese.

11. Pena più severa di quanto richiesto. Il presidente del collegio che condanna Berlusconi in primo grado è Edoardo D’Avossa con i giudici a latere Teresa Guadagnino e Irene Lupo). La pena è maggiore di quanto chiesto dai pm. Berlusconi commenta: «È una condanna politica, incredibile e intollerabile. È senza dubbio una sentenza politica come sono politici i tanti processi inventati a mio riguardo».

12. Il giudice Galli conferma in appello. L’8 maggio 2013, dopo quasi sei ore di camera di consiglio, i giudici della seconda Corte d’Appello di Milano, presieduti da Alessandra Galli (nella foto Brandi/Fotogramma), confermano la condanna a 4 anni di reclusione, di cui tre coperti da indulto, per Silvio Berlusconi, accusato di frode fiscale nell’ambito del processo sulla compravendita dei diritti tv Mediaset. Berlusconi parla di «persecuzione» da parte della magistratura che vuole eliminarlo dalla scena politica.

13. Esposito, la Cassazione e l’intervista contestata. Il primo agosto 2013 la Cassazione conferma la condanna a quattro anni di carcere. A leggere la sentenza sul processo Mediaset è il presidente della sezione feriale della corte di cassazione Antonio Esposito. Nei giorni successivi, il giudice Esposito finisce nella bufera per un’intervista a «Il Mattino» in cui parla della sentenza sul processo Mediaset-Berlusconi. Lo stesso magistrato farà seguire una smentita riguardo ad alcuni passaggi. In particolare, Esposito smentisce anche «di aver pronunziato, nel colloquio avuto con il cronista - rigorosamente circoscritto a temi generali e mai attinenti alla sentenza, debitamente documentato e trascritto dallo stesso cronista e da me approvato - le espressioni riportate virgolettate: “Berlusconi condannato perché sapeva non perché non poteva non sapere».

10 marzo 2015. La Corte di Cassazione assolve. Questa donna (la Boccassini) ha distrutto il Paese Ma resterà impunita. Anche un magistrato come Emiliano si indigna: "Chieda scusa". E nonostante tutto Ilda Boccassini rimarrà al suo posto come sempre, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Per La Repubblica, Berlusconi non è un innocente perseguitato ma un «colpevole salvato», come si evince dal titolo che racconta con stizza dell'assoluzione definitiva in cassazione sul caso Ruby. Il Corriere della Sera affida invece al suo segugio Luigi Ferrarella la difesa senza se e senza ma dell'operato dei pm milanesi. Un ufficio stampa della procura non avrebbe saputo fare di meglio e, ovviamente, Ferrarella tace sul fatto che lui stesso e autorevoli colleghi del suo giornale nel corso di questi anni avevano già emesso la sentenza di colpevolezza in centinaia di articoli nei quali si spacciavano per prove certe i farneticanti teoremi dell'accusa. Non sappiamo invece il commento di Ilda Boccassini, la pm che ha fatto da redattore capo di quella grande messa in scena truffaldina ed esclusivamente mediatica che è stata l'inchiesta Ruby. Una cosa però conosciamo. E cioè che la Boccassini, grazie a questa inchiesta, è stata inclusa dalla rivista statunitense Foreign Policy al 57esimo posto nella lista delle personalità che nel corso del 2011 hanno influenzato l'andamento del mondo nella politica, nell'economia, negli esteri.Non stiamo parlando di un dettaglio. Anche dall'altra parte dell'Oceano erano giunti alla conclusione che le notizie costruite dalla procura di Milano e spacciate da Corriere e Repubblica non costituivano un mero fatto giudiziario ma avevano contribuito in modo determinante a modificare giudizi sull'Italia con ricadute decisive financo sul piano internazionale. Oggi, grazie alla sentenza di Cassazione, sappiamo che si trattò di una iniziativa scellerata, completamente falsa, paragonabile a un complotto per destabilizzare un Paese sovrano. Complotto ordito da magistrati e sostenuto da complici, o almeno utili idioti, nelle redazioni dei giornali nazionali ed esteri, nelle stanze di governi stranieri e in quelle della politica di casa. A partire da quella più prestigiosa del Quirinale, allora abitata da Giorgio Napolitano. Il quale non solo non mosse un dito per fermare il linciaggio del suo primo ministro, ma, proprio sull'onda di quella destabilizzazione, ricevette in segreto banchieri, editori e imprenditori di sinistra per organizzare un controgoverno (Monti, per intenderci) nonostante quello in carica godesse ancora della piena fiducia del Parlamento. Alla luce di tutto questo, e in attesa che la Corte europea faccia giustizia di un'altra bufala giudiziaria (la condanna di Berlusconi per evasione fiscale, avvenuta grazie al trucco di assegnare la sentenza non al giudice naturale, ma a un collegio costruito ad hoc, guarda caso su sollecitazione del Corriere della Sera ), ora si pongono problemi seri che meritano risposte veloci e all'altezza di un Paese libero e democratico. Riguardano la permanenza nelle loro delicate funzioni dei responsabili e la riabilitazione politica della vittima Berlusconi. Nessuno, su questo, può permettersi di fare il pesce in barile.

Il giallo Tranfa e quei Servizi rimasti muti, scrive Giovanni Maria Jacobazzi su “Il Garantista”. Il processo Ruby non è stato un processo come tanti. Molti aspetti, oscuri, hanno connotato questa vicenda penale che ha portato alla caduta di un governo e allo sfascio di un partito. Tralasciando lo sputtanamento internazionale e il ludibrio planetario che hanno investito Silvio Berlusconi e, di riflesso, il Paese. Due, principalmente, sono gli episodi che fanno riflettere e che ad oggi non hanno avuto risposta. Episodi che riguardano proprio l’inizio e la fine dell’inchiesta. Il primo riguarda le modalità con cui sono state condotte le indagini preliminari da parte della Procura della Repubblica di Milano. Il secondo le dimissioni del giudice Enrico Tranfa, il presidente del collegio che in appello ha assolto Silvio Berlusconi dopo la condanna in primo grado a sette anni. Per scoprire cosa accadesse la sera nella residenza di Arcore, la Procura di Milano non ha lesinato energie. Con un dispiegamento di forze senza pari in relazione ai tipo di reato perseguito, una ipotesi di prostituzione minorile e di concussione, i pubblici ministeri milanesi hanno posto in essere un numero elevatissimo di intercettazioni telefoniche. Tranne Silvio Berlusconi che, essendo parlamentare, non poteva essere intercettato, chiunque entrasse in contatto con Villa San Martino si ritrovava il telefono sotto controllo. Decine di ragazze, ma non solo, furono intercettate per mesi. Ogni loro spostamento accuratamente monitorato. Centinaia i servizi di osservazione, controllo e pedinamento come si usa dire in gergo questurile. All’epoca dei fatti, il 2009, Silvio Berlusconi era il presidente del Consiglio. Il suo uomo più fidato, Gianni Letta, sottosegretario di Stato con delega ai Servizi. Come è stato possibile effettuare una attività investigata di queste proporzioni, migliaia le intercettazioni effettuate, senza che nessuno, in maniera ovviamente riservata,  facesse arrivare il  “messaggio” all’indagato eccellente di prestare attenzione alle persone frequentate ed ai comportamenti da tenere? Nessuna indicazione dai gestori telefonici? Nessun dubbio circa questa anomala concentrazione di utenze sotto controllo proprio nella residenza privata del presidente del Consiglio, sottoposta a misure di massima sicurezza secondo la legge 801 che disciplina il segreto di Stato? Ma il rapporto anomalo con gli apparati di sicurezza è anche alla base dell’accusa più grave caduta sulla testa di Berlusconi. Quella di concussione nei confronti del capo di gabinetto della Questura di Milano. Come mai il presidente del Consiglio, residente a Milano, città dove ha il centro dei suoi interessi e dove vive la sua famiglia, non si rivolge, per motivi di opportunità e riservatezza, direttamente al Questore ma passa attraverso il suo capo di gabinetto, peraltro chiamatogli al telefono dal suo capo scorta? Essendo il Consiglio dei ministri preposto alla nomina dei questori delle città, non si può proprio dire che l’allora premier non conoscesse chi fosse al vertice della pubblica sicurezza del capoluogo lombardo. E infine le dimissioni improvvise e inaspettate del giudice Enrico Tranfa, il presidente del collegio di Appello che ha assolto Silvio Berlusconi, subito dopo il deposito delle 330 pagine delle motivazioni della sentenza. Come si ricorderà, dopo aver depositato la sentenza di assoluzione, Enrico Tranfa fece domanda per essere collocato in pensione. Poteva restare in servizio altri quindici mesi. Decise di anticipare l’uscita dalla magistratura. Campano di Ceppaloni, il paese che ha dato i natali anche a Clemente Mastella, collocabile nella corrente di Unicost, Tranfa era dal 2012 a Milano in Corte d’Appello come presidente della seconda sezione penale. Equilibrato, molto preparato, mai una parola fuori posto. Un persona mite. Nulla che potesse far prevedere una reazione del genere. Le sue dichiarazioni, a chi gli chiedeva il perché di una simile decisione, furono soltanto “è una decisione molto meditata, perché in vita mia non ho fatto niente di impulso. Tutti sono utili, nessuno è indispensabile”. Per poi aggiungere: “Il compito di un giudice non è quello di cavillare con i tecnicismi, ma prendere un fatto, valutarlo alla luce delle norme, e poi fare un atto di volontà, decidendo. Altrimenti è la giustizia di Ponzio Pilato”. Sul caso montò la contrapposta lettura politica: “Solidarietà” dal Pd e dure critiche da Forza Italia. Le dimissioni in polemica con l’assoluzione scatenarono anche le ire del presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio. “Se dettate da un personale dissenso per l’assoluzione di Silvio Berlusconi non appaiono coerenti con le regole ordinamentali e deontologiche che impongono l’assoluto riserbo sulle dinamiche della Camera di consiglio”, disse Canzio, “trattasi di un gesto clamoroso e inedito”. Se per ogni disaccordo in un collegio il magistrato dovesse dimettersi, in magistratura rimarrebbero in pochi. Ma quell’anomalia, come la prima, con ogni probabilità rimarrà senza risposta.

Processo Ruby, pool di Milano: le lettere segrete delle toghe rosse alla giudice che assolse Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. Le toghe rosse di Milano si attendevano l'annullamento dell'assoluzione in secondo grado. Volevano Silvio Berlusconi di nuovo alla sbarra nel processo Ruby. Ma così non è andata. Confermata l'assoluzione. E dopo la conferma, oltre al Cav, ci sono state diverse persone che si sono levate dei sassolini dalle scarpe. Una di queste era la giudice Concetta Locurto, toga stimata e progressista, già coordinatrice milanese di Area, il cartello tra le correnti di sinistra di Magistratura Democratica. Una, insomma, che aveva il "pedegree" giusto per condannare Berlusconi in secondo grado. Già, perché la Locurto la scorsa estate era la relatrice della sentenza di assoluzione del Cav nel processo Ruby. L'assoluzione scatenò un vespaio di polemiche in magistratura, culminate con le dimissioni del suo collega e presidente del collegio, Enrico Tranfa, che con il passo indietro volle dissociarsi da un verdetto che non condivideva. La Locurto, al tempo, non volle commentare. E non ha voluto commentare neppure dopo la conferma dell'assoluzione che, nei fatti, ha confermato la bontà del suo operato. E il silenzio le deve essere costato, perché come spiega il Corriere della Sera la toga che ha assolto Berlusconi ha vissuto mesi da incubo, tra "attacchi e implicite insinuazioni di cosa di oscuro potesse essere accaduto attorno al processo" per spingere Tranfa alle dimissioni. Ha taciuto, la Tranfa. Almeno in pubblico. Già, perché secondo quanto scrive sempre il Corsera, la toga avrebbe scritto una piccola lettera ai colleghi (agli stessi colleghi che nei mesi precedenti tempestavano la sua email parlando di "torsione del diritto"). Il Corsera ha provato a chiederle del contenuto della lettera, ma la Tranfa, fedele alla sua riservatezza, ha scelto di non parlare. Eppure qualcosa è emerso. Nonostante il rifiuto della giudice, è stato ricostruito quanto abbia detto interpellando i destinatari della missiva. La Tranfa non giudicava la bontà della sentenza, ma metteva in guardia dai rischi di "una malevola dietrologia faziosa", del "pregiudizio", dei "pensieri in libertà da chiacchiera da bar" della quale è stata vittima per mesi per aver fatto il suo lavoro, che nella fattispecie prevedeva di assolvere Berlusconi. La Tranfa avrebbe scritto dei "magistrati che giudicano senza conoscere, finendo - proprio loro - per partecipare al tiro al piccione senza alcun rispetto per l'Istituzione e le persone". E il piccione, in quel momento, era proprio lei. E il "piccione", ora, si toglie le sue soddisfazioni. Nella missiva avrebbe aggiunto l'invito ai colleghi ad "andarsi a rileggere i provvedimenti redatti nel corso dell'intera carriera, piccoli o grandi che fossero, per avere certezza dell'identità di metro di valutazione utilizzato indifferentemente per extracomunitari e potenti". Quel metro di giudizio imparziale che però, i colleghi, le rimproverano: se c'è il Cav alla sbarra deve essere condannato.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: logica da pm. Se Silvio Berlusconi conosce Noemi Letizia, è colpevole. La Cassazione doveva confermare o non confermare l’assoluzione di Silvio Berlusconi (caso Ruby) per concussione e prostituzione: dopodiché, lo schema era il solito. La Corte che si riunisce nel primo pomeriggio, i giornalisti italiani e stranieri che ciacolano, la consueta assicurazione che la sentenza arriverà «in serata» e che perciò potranno scriverne, hurrà. Ma forse i giudici non erano aggiornati: non sapevano che i quotidiani hanno le chiusure sempre più anticipate, mannaggia: come possono non tener conto delle sacre esigenze mediatiche? Come possono aver saltato i telegiornali della sera? I giudici (presidente Nicola Milo, consiglieri Giorgio Fidelbo, Stefano Mogini e Gaetano De Amicis) dovevano prendere esempio dal procuratore generale Eduardo Scardaccione, che nel pomeriggio aveva esposto una requisitoria mediaticamente perfetta. Niente di strano che abbia chiesto di annullare - con rinvio in Appello - l’assoluzione di Berlusconi per entrambi i reati: è ciò che ci si attendeva da lui, un’apologia di quel processo che in primo grado aveva condannato il Cav a sette anni. Mentre invece le assoluzioni di luglio scorso - pochi mesi fa: la giustizia italiana sa essere velocissima - secondo Scardaccione andavano polverizzate: altro che «il fatto non sussiste» (concussione) e «il fatto non costituisce reato» (prostituzione minorile). Sin qui tutto normale. Ma sono altri argomenti che ha adottato - poi - a farci pensare ancora una volta che taccuini e telecamere andrebbero tenuti lontani dai palazzi di giustizia. Scardaccione ha detto che le accuse sono «pienamente provate» (vabbeh) e che la Corte d’appello non doveva riaprire il processo bensì rideterminare la pena di primo grado: e ci sta anche questo. Poi lo show: «L’episodio nel quale Berlusconi racconta che Ruby è la nipote di Mubarak è degno di un film di Mel Brooks e tutto il mondo ci ha riso dietro». Uhm. Purtroppo «il mondo» non ha testimoniato a processo. E neppure Mel Brooks. A ogni modo il procuratore Scardaccione ha proseguito spiegando che la concussione c’è stata, anzi «c’è stata una violenza irresistibile» per ottenerla. Lo proverebbe il fatto che dal momento in cui ha ricevuto la telefonata di intervento da Berlusconi il capo di gabinetto della Questura di Milano «non capisce più nulla e fa ben 14 telefonate: c’è spazio per ritenere che la pressione fosse resistibile?... No... L’intervento ha avuto una potenza di fuoco tale da annullare le scelte autonome del funzionario». Par di capire che qualsiasi telefonata di Berlusconi in quel periodo - essendo lui premier ed essendo Berlusconi - avesse una potenziale valenza concussoria: chiunque ne riceveva una andava praticamente in palla e veniva annullato nella volontà, una forma di ipnosi. Il procuratore generale non ha contemplato che i dirigenti della Questura fossero banalmente eccitati all’idea di poter fare un favore al presidente del Consiglio: cosa che avrebbe avuto una valenza più che ambigua se solo avessero fatto qualcosa che non dovevano fare. Ma ciò che fecero (identificazione di Ruby, foto segnalazione e ricerca di una comunità per l’affido) corrispondeva alla prassi in vigore. Ma secondo Scardaccione no, c’è stata «una violenza grave, perdurante e irresistibile anche a margine della consegna di Ruby a Nicole Minetti». Il dettaglio è che l’idea di consegnare Ruby alla Minetti non fu un’idea di Berlusconi bensì una soluzione escogitata in questura. Ma - possiamo dirlo? - ci sta anche questo. È passando al reato di prostituzione minorile che si giunge all’incredibile: perché Scardaccione ha tirato in ballo Noemi Letizia, una ragazza che non c’entra un accidente - mai tirata in ballo in nessun processo, in nessun modo - perché la circostanza che Noemi e Ruby fossero due minorenni «non è una coincidenza» e rende «non credibile» che Berlusconi non sapesse della minore età di Ruby. Scardaccione ha ricordato quanto aveva detto Ruby in un’intercettazione: «Noemi è la sua pupilla e io il suo culo». Cioè: il fatto che due amici di Berlusconi avessero una figlia minorenne non poteva essere un caso. E chissà - aggiungiamo noi - quanti milioni di elettori di Forza Italia, negli ultimi vent’anni, hanno avuto figlie minori. Insomma: se Berlusconi sapeva che la figlia di due suoi amici era minorenne, beh, doveva sapere anche l’età di tutta la carovana di signorine che la sera gli portavano a casa con la carriola. Pagandole, certo: perché Franco Coppi, l’avvocato di Berlusconi, ieri non l’ha negato: «La sentenza d’appello ammetteva che ad Arcore avvenivano fatti di prostituzione, cosa che non contestiamo nemmeno noi difensori: ma manca, in fatto, la prova che Berlusconi prima del 27 maggio sapesse che Ruby era minorenne». Sempre che i processi si facciano ancora con le prove.

Il caso Ruby c’è costato mezzo milione. Per i pm le spese ammontano a 65mila euro, ma facendo altri calcoli si sfiorano i 600mila, scrive Simone Di Meo su “Il Tempo”. Quanto è costata l'inchiesta Ruby alle casse dello Stato? La classica domanda da un milione di dollari ha una doppia risposta. La versione minimalista, accreditata dai conti della Procura della Repubblica di Milano contenuti nel faldone 33 del procedimento, parla di appena 65mila euro così suddivisi: in sei mesi sono stati pagati 26mila euro per le intercettazioni e 39mila euro per trascrizioni di interrogatori, traduzioni dall’arabo, per il noleggio auto, la più costosa delle quali - una Golf - è stata pagata 4mila euro, e per l’acquisto di registratori digitali. Pochi spiccioli anche per le trasferte dei poliziotti in alcuni hotel di Rimini: poco meno di 200 euro per tre diversi viaggi. Insomma, per questa scuola di pensiero il procedimento penale del pm Ilda Boccassini non ha prosciugato le casse del ministero della Giustizia ma si è mantenuto addirittura al di sotto dello standard della Direzione distrettuale antimafia. Questione risolta, allora? Mica tanto perché a questa immagine light dell'inchiesta se ne contrappone una più approfondita che zavorra con almeno uno zero la cifra iniziale portandola a oltre mezzo milione di euro. Ci sono alcuni costi che, nel computo del pubblico ministero, non vengono infatti elaborati. Sarà sicuramente una distrazione, ma bisogna fare chiarezza. Stiamo parlando dei cosiddetti costi fissi che riguardano l'utilizzo della polizia giudiziaria per condurre un'indagine fatta a pezzi dalla Corte d'appello e dalla Cassazione dopo una prima condanna a sette anni nei confronti di Silvio Berlusconi. Un'indagine fondata su due capi di imputazione che tecnicamente non hanno retto al vaglio delle toghe. Perché è vero che un poliziotto o un carabiniere viene ugualmente stipendiato dallo Stato (e ci mancherebbe) ma c'è un particolare di cui non tutti si ricordano: il poliziotto o il carabiniere in questione avrebbe potuto essere impiegato su un altro versante giudiziario, magari più interessante e utile. E questo - dal punto di vista aziendalistico - è un costo che non può essere omesso se si vuole davvero fare una descrizione esatta del valore contabile del fascicolo Ruby. Dare per scontate queste voci di costo è un errore. Così come è un errore non calcolare il noleggio dell'apparecchiatura utilizzata per geolocalizzare i cellulari che hanno agganciato la cella di Arcore alla ricerca delle utenze delle partecipanti alle "cene eleganti". Un'attrezzatura che, secondo quanto risulta a Il Tempo costa in media 1000 euro al giorno: è probabile che fosse già in dotazione agli uomini del Servizio centrale operativo cui sono state delegate le attività investigative, ma il suo utilizzo, in termini economici, dev'essere adeguatamente riportato nello schema della Procura. I "target" di intercettazioni e acquisizioni di traffico telefonico e di tabulati sono stati circa trenta per oltre 115mila conversazioni monitorate. Nell'intera operazione è presumibile che siano stati impegnati oltre cento poliziotti che, per la durata delle indagini, sono stati distolti da altri fascicoli, ovviamente. Non sbirri qualunque, ma uomini dello Sco, l'organo investigativo di punta del Viminale che solitamente dà la caccia a mafiosi, narcotrafficanti e serial killer. Per dire: i due superlatitanti del clan dei Casalesi, Antonio Iovine e Michele Zagaria, sono stati presi anche con la collaborazione del Servizio centrale. Che, nel caso in esame, è stato invece sguinzagliato sulle tracce delle olgettine e del ragionieri Spinelli, lauto pagatore ufficiale del Cav. Anche i loro stipendi, anche i loro straordinari, anche i loro ticket sono dei costi a carico dello Stato (e quindi dei cittadini) che devono essere inseriti nel bilancio Ruby. Alla fine, calcoli alla mano, l'indagine di "Ilda la rossa" tra costi fissi (quelli appena descritti, che riguardano l'intera struttura) e costi variabili (i famosi 65mila euro, che dipendono appunto dalle necessità investigative del momento) ha gravato sulle casse dello Stato per circa 600mila euro. È una stima prudenziale ma che ha un suo fondamento considerato che un poliziotto viene pagato in media 100 euro lordi al giorno. Qualcuno ci aggiungerebbe anche i costi dei processi (stipendi dei giudici, dei cancellieri, del personale amministrativo, fotocopie) ma entriamo nel fantastico mondo delle ipotesi e allora tutte le ricostruzioni sono possibili.

Signori del Csm, quell’inchiesta è senza ombre? Scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista. Sono politici, non morali, i motivi per cui è andato in onda per cinque anni il Pornofilm del Bungabunga che ha messo nel tritacarne un presidente del Consiglio, preso a picconate il suo partito, distrutto la sua reputazione nel mondo, insieme alla sua immagine personale e i suoi affetti. Tutto nasce non tanto dal fermo, in una serata di maggio del 2010, di una giovane marocchina. Né dalla successiva telefonata di Berlusconi alla questura di Milano. Casomai dall’uso che dell’episodio venne fatto dalla Procura della Repubblica più famosa e discussa d’Italia. E’ negli uffici del quarto piano del palazzo di giustizia di Milano, già allenati dalla caccia al cinghialone ai tempi di Craxi e di Tangentopoli, che parte la crociata di stampo talebano che prende di mira il presidente del Consiglio per i suoi costumi sessuali. Ma il Pornofilm è solo l’involucro, un uovo di pasqua con sorpresa. La sorpresa è tutta politica. Se il Consiglio superiore della magistratura volesse occuparsene, potrebbe rilevare parecchie anomalie, dentro quell’uovo. Prima cosa: Ruby viene fermata e rilasciata in una notte di fine maggio. Che cosa è successo tra quella data e quella in cui Silvio Berlusconi viene iscritto nel registro degli indagati (21 dicembre 2010) e in seguito raggiunto da un invito a comparire (14 gennaio 2011)? Succede che Ruby viene ripetutamente interrogata, una serie di persone che frequentavano la casa di Arcore viene monitorata e intercettata e si tende la tela del ragno che deve catturare la preda. Che la preda sia un Arcinemico di certa magistratura e certi Pubblici ministeri non è un segreto. Che dalle parti di Milano si usino metodi disinvolti sulle competenze territoriali (un presidente del Consiglio non dovrebbe essere giudicato dal Tribunale dei ministri?) è cosa altrettanto nota. Ma quel che succede a Milano è qualcosa di ben più mostruoso: per sette-otto mesi vengono fatte indagini su un contesto che ha al centro una persona che non è indagata, vengono disposte intercettazioni a persone che parlano al telefono con un parlamentare senza che sia chiesta, come prescrive la legge, l’autorizzazione alla Camera di appartenenza. Nei fatti si indaga su una persona in violazione delle normali procedure di legge. A nulla valgono le proteste degli avvocati, le interrogazioni parlamentari del deputato di Forza Italia Giorgio Stracquadanio, la curiosità che comincia a serpeggiare nella stampa italiana e anche straniera. La Procura di Milano tira dritto. Apparentemente arrogandosi il diritto di moralizzare i costumi altrui, in realtà con obiettivi ben più ambiziosi. Ma un’altra anomalia esplode clamorosa a un certo punto, la rissa da cortile tra il procuratore capo Bruti Liberati e il suo aggiunto Robledo sulle competenze tematiche e le assegnazioni delle inchieste. Perché le indagini su Berlusconi e il “caso Ruby” vengono assegnate a Ilda Boccassini, titolare delle inchieste sulla mafia e non a Robledo che si occupa di Pubblica Amministrazione? Berlusconi non è forse accusato di aver abusato del suo potere di presidente del Consiglio, con quella famosa telefonata in questura che gli costerà la condanna in primo grado per concussione? Questo aspetto della vicenda giace nelle scartoffie (nei fatti archiviate) del Csm sulla querelle Bruti-Robledo, che nessuno pare avere la curiosità di esaminare più. Sarebbe bene, invece, che l’organo di autogoverno di Pm e  giudici riaprisse gli occhi, su questo punto, e si chiedesse “perché” fosse così importante quella sostituzione di Robledo con Boccassini in un’inchiesta dal sapore squisitamente politico. Questo è il succo della vicenda: forzature e anomalie per il raggiungimento di uno scopo. Addirittura il procuratore generale di Milano, pur di fare il ricorso in Cassazione, si è appellato a questioni di merito, trascurando il fatto che il terzo grado di giudizio può riguardare solo questioni di legittimità. Un’altra delle anomalie “lombarde”, che la Cassazione avrebbe dovuto rilevare subito, rigettando il ricorso in dieci minuti. Nove ore di discussione sono un bel tributo alle tricoteuses di tutta Italia. In ogni caso,tutto il resto è contorno, il Pornofilm, il Bungabunga, sparsi a piene pani tramite un ventilatore in funzione permanente con lo scopo dello Sputtanamento. Oggi, con Berlusconi che porta a casa con una certa velocità (quattro anni per tre gradi di giudizio sono un’altra, piacevole, anomalia) l’assoluzione piena da due reati infamanti, resta il reato di Sputtanamento ancora vivo e vegeto nelle immagini del Pornofilm, tanto che gli avvocati sono stati costretti a dire (un po’ andando di fantasia) che, in fondo si, forse un po’ di prostituzione ad Arcore c’è stata, per rafforzare la realtà dei fatti sulla non conoscenza dell’età di una quasi-diciottenne che dimostrava, a detta di tutti, almeno venticinque anni. E che probabilmente era più una mantenuta che una prostituta. Anche in questo il processo Ruby è stato speciale. Ma non può finire qui. Il Csm ci deve spiegare se tutte queste violazioni sono consentite, se anche il nuovo corso “renziano” ha intenzione di chiudere gli occhi, come già si fece 20 anni fa con Tangentopoli, su questi metodi machiavellici, per cui la finalità politica può fare a pezzi le regole dello Stato di diritto e prevale sempre la filosofia del “tipo d’autore” (individuo la tipologia del colpevole, poi colpisco la persona), per cui la responsabilità penale non è più personale ma esplicitamente politica. Alla faccia dell’obbligatorietà dell’azione penale.

«Cittadini impotenti davanti ai magistrati», scrive Daniel Rustici su “Il Garantista”. «Il Csm cominci a fare sul serio il suo lavoro che fino ad oggi ha svolto, per usare un eufemismo, in modo deficitario. Sono stati puniti solo i magistrati fuori dal coro, mai quelli che hanno sbagliato nell’esercizio della professione. Il caso più emblematico è quello del processo Tortora dove i giudici di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia hanno fatto carriera. Il Csm dovrebbe essere meno indulgente e ”perdonista” nei confronti dei magistrati che commettono gravi errori». Chi parla è uno dei giudici più intransigenti e celebri per le sue feroci polemiche contro pezzi del mondo politico, e a difesa della magistratura: Antonio Ingroia. In un’intervista al nostro giornale ha detto che bisogna difendere i cittadini che talvolta sono troppo deboli di fronte ai magistrati e ai loro eventuali errori. Ha parlato anche di carcerazione preventiva, e ha detto che «in un Paese in cui i tempi per arrivare a una sentenza definitiva sono così lunghi, è facile che si arrivi ad utilizzare la carcerazione preventiva come una sorta di anticipazione della pena prevista in caso di condanna dopo i tre gradi di giudizio».

Ingroia, stanno facendo molto rumore le sue dichiarazioni sulla responsabilità civile dei giudici. Ha parlato di cittadini «impotenti» davanti al potere della magistratura. Detto da un’ex toga…

«Voglio precisare prima di tutto che sono contrario alla responsabilità civile dei magistrati. Penso invece che per garantire i diritti dei cittadini bisognerebbe che il Csm cominci a fare sul serio il suo lavoro che fino ad oggi ha svolto, per usare un eufemismo, in modo deficitario. Sono stati puniti solo i magistrati fuori dal coro, mai quelli che hanno sbagliato nell’esercizio della professione. Il caso più emblematico è quello del processo Tortora dove i giudici di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia hanno fatto carriera. La verità è che all’interno della magistratura troppo spesso si va avanti sulla base dell’appartenenza a questa o a quella corrente piuttosto che grazie al merito».

Cosa non la convince del disegno di legge del governo sulla punibilità dei giudici?

«La responsabilità civile non è uno strumento idoneo per difendere i cittadini. In primo luogo non lo è perché può portare il magistrato ad assumere una posizione di soggezione davanti all’imputato, specie se questo è ricco e potente. E non lo è perché moltiplicherebbe il lavoro nei tribunali e quindi, dilatando ancora di più i mostruosi tempi della nostra giustizia, paradossalmente andrebbe contro gli interessi degli imputati stessi. Lo ripeto, il vero problema è il Csm che dovrebbe essere meno indulgente e ”perdonista” nei confronti di chi commette gravi errori».

Sparare sul Consiglio nazionale della magistratura ora che ha smesso i panni di pm,non è troppo facile?

«Queste cose le ho sempre dette. Qualcuno potrebbe anche dire che parli male del Csm per come sono stato tratto io, per le parole contro le mie partecipazioni a manifestazioni pubbliche. Allora non parliamo di me, ma di un altro magistrato: Di Matteo. Perchè il Csm ostacola la sua nomina alla Procura nazionale antimafia e favorisce invece personaggi obiettivamente con meno competenze in materia?»

Perché?

«La risposta è semplice: ci si muove in base a logiche burocratiche e correntistiche invece che di sostanza».

Faceva prima riferimento alle sue contestate partecipazioni a manifestazioni politiche quando era ancora magistrato. È una scelta che rivendica?

«Sì. Mi è capitato di fare il pm nella stagione sbagliata. Trent’anni fa nessuno si scandalizzava se Terranova partecipava ai convegni del Pci e negli anni 70 nessuno si sognava di mettere in discussione la professionalità di Borsellino perché andava a parlare di giustizia nei consessi del Movimento sociale italiano. Resto convinto che un magistrato vada giudicato per quello che fa nell’orario di lavoro e che abbia tutto il diritto di esprimere le proprie opinioni. Io però sono stato subissato da attacchi, sia da parte del mondo politico sia dalla magistratura stessa…»

Nelle scorse settimane si è molto discusso delle ferie dei giudici. Ha ragione Renzi a volerle tagliare?

«Penso si tratti di un falso problema. Effettivamente 45 giorni sono tanti ma io, ad esempio, non ho mai goduto dell’intero periodo di ferie e come me la maggior parte dei giudici. Sostenere che la lentezza della giustizia italiana dipenda dalle toghe fannullone è solo un modo di trovare un capro espiatorio».

Quali sono invece le ragioni di questa lentezza e come si può intervenire per accelerare i tempi dei processi?

«Credo sia arrivata l’ora di mettere in discussione l’esistenza del processo d’appello. Con un grado secco di giudizio e un unico processo che decreti l’innocenza o la colpevolezza di un imputato si risparmierebbero un sacco di soldi e di energie. Ritengo poi necessario mettere fine alla corsa alla prescrizione, limitando l’abuso di questo strumento».

A proposito di abusi, cosa pensa dell’uso molto disinvolto della carcerazione preventiva che spesso viene fatto dai giudici?

«In un Paese in cui i tempi per arrivare a una sentenza definitiva sono così lunghi, è facile che si arrivi ad utilizzare la carcerazione preventiva come una sorta di anticipazione di quella prevista in caso di condanna dopo i tre gradi di giudizi».

Sì, ma è incostituzionale: esiste la presunzione d’innocenza.

«Certo nessuno vuole mettere in discussione la sacralità della presunzione d’innocenza ma ribadisco, finché i tempi della giustizia saranno questi credo che la carcerazione preventiva verrà ancora usata con questa  frequenza».

Ora che esercita la professione di avvocato, come è cambiata la sua prospettiva sul mondo giudiziario?

«Cambiando osservatorio, sono rimasto delle mie opinioni: viviamo in un Paese profondamente ingiusto perché indulgente con i potenti e forte con i deboli».

Cosa significa per lei la parola ” garantismo”?

«Garantismo significa dare la garanzia a tutti i cittadini di un processo giusto e assicurare il diritto di difesa. Chi vede il garantismo come un modo per disarmare i pm però sbaglia. Essere garantisti significa anche fare in modo che la legge sia davvero uguale per tutti e permettere di punire chi ha sbagliato».

Ha dichiarato di essere pronto a tornare in politica e di guardare con attenzione a Landini. Pensa si aprirà davvero un nuovo spazio politico a sinistra del Pd?

«Credo che il nostro Paese abbia bisogno che emerga una nuova soggettività politica progressista, popolare e di sinistra. Mi sento politicamente vicino a Landini e Rodotà, e sono pronto a dare il mio contributo per la costruzione di una coalizione sociale per l’equità, la lotta alla criminalità organizzata e ai reati dei colletti bianchi».

Ok, basta coi professionisti dell’Antimafia. Ma adesso chi combatterà le mafie? E’ la domanda che si pone Gaetano Savatteri su “Gli Stati Generali”. L’antimafia è morta. L’antimafia dei movimenti, delle associazioni di categoria, dei bollini e dei certificati, ma anche quella dei magistrati e della politica. L’antimafia, quella che abbiamo visto e conosciuta fino ad oggi, è definitivamente sepolta. Perché le ultime vicende – l’arresto di Roberto Helg per una mazzetta conclamata o l’indagine per mafia sul presidente della Confindustria siciliana Antonello Montante, per dichiarazioni di pentiti ancora tutte da chiarire e che potrebbero nascondere una manovra di delegittimazione – sanciscono in ogni caso e definitivamente la fine di un modello che per molto tempo, e fino all’altro ieri, è stato visto con favore e incoraggiato perché segno di una “rivoluzione” che metteva in prima linea la cosiddetta società civile. Attilio Bolzoni su Repubblica, lo stesso giornale che ha sparato per primo la notizia dell’indagine su Montante, ha posto un interrogativo: “Forse è arrivato il momento di una riflessione su cos’è l’Antimafia e dove sta andando”. Ma probabilmente la domanda più corretta è un’altra: potrà esserci ancora un’antimafia? Peppino Di Lello, a lungo magistrato del pool antimafia di Palermo, quello di Falcone e Borsellino, scrive sul Manifesto che “i bollini, le autocertificazioni, gli elenchi incontrollati e incontrollabili degli antimafiosi doc sono ormai ciarpame e bisogna voltare pagina riappropriandosi di una qualche serietà nella scelta di esempi di antimafia vera, scelta fondata sulla prassi, sui comportamenti che incidono realmente in questa opera di contrasto”. Di Lello, giustamente, attacca la retorica dell’antimafia, citando non a caso l’ormai storico articolo del 1987 di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Ma le ultime vicende e un sottile veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia (don Luigi Ciotti ha fornito qualche anticipazione: “Mi pare di cogliere, e poi non sono in grado di dire assolutamente altro, che fra pochi giorni avremo altre belle sorprese, che sono in arrivo, che ci fanno soffrire. Perché riguardano personaggi che hanno sempre riempito la bocca di legalità, di antimafia”) percuotono chi, per entusiasmo o per mestiere o, usiamo pure questa parola, per “professionismo”, si è iscritto negli ultimi anni nel fronte antimafia. Serpeggia il disorientamento tra quanti si chiedono: e adesso, infranti alcuni simboli dell’antimafia, non si rischia di veder naufragare il lavoro fatto in tanti anni, compresi i buoni esempi concreti realizzati? L’indagine della Commissione parlamentare antimafia sull’antimafia, per individuare quando questa sia stata reale o di facciata – paradosso segnalato da Giuseppe Sottile sul Foglio – pone una questione centrale. Se molti movimenti, associazioni, progetti nelle scuole, iniziative si sono riempiti, nella migliore delle ipotesi, di un tot di vuota retorica e, nella peggiore, di piccoli o grandi interessi economici sotto forma di finanziamenti, privilegi, guadagni, chi dovrà stabilire da ora in poi la genuinità della natura antimafia? La struttura dello Stato italiano, per oltre centosessant’anni, ha costruito soggetti e ruoli incaricati di definire e individuare le mafie, arrivando a darne nel 1982 perfino una definizione normativa con l’articolo 416bis del codice penale. Ma l’Italia non ha, e forse non poteva avere, strumenti per individuare con esattezza la natura antimafiosa di soggetti, singoli o plurali, se non in termini di opposizione: in parole semplici, era antimafioso chi combatteva la mafia. Con opere o parole. Così, per lungo tempo, l’antimafia sociale – cioè quella non costituita da magistrati e poliziotti incaricati, per ragioni d’ufficio, dell’azione di contrasto e repressione – finiva per autodefinirsi. E’ bastata, per un lunghissimo periodo, la petizione di principio di dichiararsi antimafia per essere considerati tali. In un Paese che fino a una quarantina d’anni fa ancora sosteneva, spesso anche nelle sedi giudiziarie, che la mafia non esisteva, già il fatto stesso di dichiararne l’esistenza e di porsi in posizione alternativa a essa, era sufficiente per attribuirsi o vedersi attribuita la patente antimafia. Se oggi questo non basta più, quale sarà il criterio futuro per definire la nuova antimafia? I fatti, i comportamenti e la prassi, dice Di Lello. Tutto ciò è facilmente verificabile, ad esempio, nell’attività delle associazioni antiracket che convincono i loro associati a testimoniare nei processi, li sorreggono, si costituiscono accanto a loro parte civile. Ma questo principio può valere per associazioni culturali, singoli di buona volontà, gruppi di opinione, insegnanti la cui unica forza risiede solo nella dichiarazione d’intenti?  E’ ovvio che laddove le parole non coincidano con i fatti (come nel caso della tangente che ha fatto finire in galera Helg), la contraddizione è talmente stridente che non ci sono dubbi. Ma anche in questo caso, è una dimostrazione al contrario: il fatto (cioè la mazzetta) mostra la non appartenenza di qualcuno al fronte autenticamente antimafioso. Ma quale può essere il fatto che, giorno dopo giorno, possa dimostrarne invece l’appartenenza? Per Confindustria Sicilia, ad esempio, sembrava già rivoluzionario e significativo che un’associazione di categoria che per molto tempo aveva ignorato la mafia o ci aveva convissuto, con molti casi di imprenditori contigui o aderenti a Cosa Nostra, avviasse una inversione di rotta pubblica, con l’annuncio di espulsioni dei propri soci che non avessero denunciato le estorsioni. Era certamente un fatto capace di attribuire identità antimafiosa a quell’associazione. Naturalmente, il movimento antimafia nel suo complesso si è nutrito di errori e di eccessi. E questi nascono probabilmente dall’evidenza che ogni movimento antimafioso, per sua natura, tende ad occupare tutti gli spazi morali a sua disposizione. La discriminante etica, ragione fondante, tende ad allargarsi e spostarsi sempre più avanti in nome della purezza antimafia, escludendo altri soggetti e movimenti. Qualsiasi movimento antimafia, poiché si costituisce e si struttura in alternativa e in opposizione a qualcosa, in primo luogo la mafia e i comportamenti che possono favorirla o sostenerla, non può tentare di includere tutto, ma deve per forza di cose escludere. Ecco perché dentro il mondo dell’antimafia non c’è pace, e ciascun gruppo di riferimento tende a vedere negli altri gruppi degli avversari, se non dei nemici insidiosi o subdoli. L’antimafia spontaneistica e aggregativa dal basso si contrappone a quella ufficiale in giacca e cravatta e viceversa, quella sociale si contrappone a quella di Stato e viceversa. La vocazione alla supremazia della leadership del mondo antimafioso, diventa allarmante quando l’antimafia non è più esclusivo appannaggio di gruppi sociali d’opposizione (i preti di frontiera contro la Chiesa ufficiale timorosa, le minoranze politiche contro le maggioranze o i governi prudenti o contigui, gli studenti contro la burocrazia scolastica troppo paludata, tanto per fare alcuni esempi), ma comincia a diventare bandiera dei gruppi dominanti. Al potere economico o politico, finisce così per sommarsi il potere di esclusione di potenziali concorrenti, che può essere esercitato anche facendo baluginare legami oscuri o poco trasparenti. L’antimafia può servire al politico di governo per demonizzare gli avversari. Siamo di fronte a quel meccanismo che viene indicato come “la mafia dell’antimafia”, definizione che non amo perché rischia di far dimenticare che nel recente passato in Sicilia, e non solo, politici,  imprenditori e funzionari contigui o affiliati alla mafia facevano eliminare i loro avversari direttamente a colpi di kalashnikov. In questi giorni, in queste ore, il mondo dell’antimafia, soprattutto quello siciliano, il più antico e radicato, il più organizzato e selezionato negli anni delle stragi e delle mattanze mafiose, si trova davanti a molte domande. Chi dovrà stabilire, nel futuro prossimo, la genuinità dei comportamenti antimafia? I giornali? La tv? Il governo? Il Parlamento? Non esistono organismi o autorità morali in grado di fornire garanzie valide per tutti.  La domanda principale finisce per riguardare l’esistenza stessa di un’antimafia diffusa. Se l’antimafia, per come è stata fino ad oggi, è morta, potrà esserci ancora qualcosa o qualcuno in grado di dichiararsi antimafia? Ma, soprattutto, chi potrà crederci ancora?

Imprenditori e giornalisti cantori dell’antimafia, non ci mancherete per niente. Abbiamo letto su queste colonne l’annuncio della morte dell’antimafia. Un annuncio articolato. Esteso, ragionato, scrive Salvatore Falzone su “Gli Stati Generali”. Forse però vale la pena allungare il necrologio, non foss’altro che per rispetto del de cuius e delle sue gesta. Il decesso, diciamocelo, è stato causato da colpi di toga. Ancora una volta, purtroppo. Perché se non spuntano i primi fascicoli con l’intestazione “Procura della Repubblica”, nel Belpaese tutto è lecito e tutto va bene. Prima di leggere paroline come “arresto”, “tangente”, “indagine”, “pentiti”, nessuno s’interroga, nessuno ha dubbi. Succede così che da qualche anno a questa parte un’antimafia che non è antimafia ha messo le mani sulla città, per dirla con Rosi, per fare affari e costruire carriere. Nel nome della legalità, s’intende, e con l’avallo di una torma di pensatori, magistrati, prefetti, questori e alti ufficiali che non hanno fatto altro che alimentare una colossale bugia (Giovanbattista Tona, consigliere della Corte d’Appello di Caltanissetta: “Come il mafioso di paese otteneva rispetto perché passeggiava col sindaco, col parroco, col maresciallo e col barbiere, l’antimafioso 2.0 può esercitare potere su tutto sol perché in confidenza con ministri, magistrati e autorità”. Giuseppe Pignatone, capo della Procura di Roma: “Bisogna fare l’esame di coscienza: non è che tra magistrati e forze dell’ordine ci sono soltanto santi, eroi e martiri. Ci sono, come in tutte le categorie, persone per bene e persone meno perbene”). C’era bisogno di scoprire Helg con la mazzetta in mano? Dovevamo leggere Bolzoni su Repubblica – che ha dato notizia di un’inchiesta per mafia a carico del presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante – per accorgerci che dalle parti di Caltanissetta l’antimafia ha i pennacchi impastati di gel? E’ mai possibile che quel “cretino” del professor Laurana continua a morire in una zolfara abbandonata, “sotto grave mora di rosticci”, senza sapere ciò che tutti sanno? Già, perché tutti sanno, e tutti sapevano. Ecco perché la meraviglia e il disorientamento del giorno dopo sono espressioni vuote, bianche come quelle di certe statue. La Sicilia è un salone da barba. E anche Roma lo è. E pure Milano. Mentre in questi anni si firmavano protocolli ai tavoli delle prefetture, mentre si stilavano codici etici, mentre procuratori generali inauguravano l’anno giudiziario magnificando le imprese dei nuovi paladini dell’antimafia, dal barbiere si sussurrava e si rideva. Si rideva (con gli occhi) e si facevano smorfie (con la bocca). Ora ci si chiede se, dopo le scosse telluriche delle ultime settimane, possa esserci ancora un’antimafia. E perché no? Un’antimafia ci sarà. Ma non questa. Non questa che ha mandato in solluchero, da nord a sud, cronisti e narratori, i “cuntastorie – come ha scritto Sergio Scandura su Gli Stati Generali – dello storytelling epopea che danno voce ai Pupi: ora con la prodezza, la tenacia e l’enfasi di battaglia, ora con l’incanto-disincanto e la passione della bella Angelica di carolingia memoria”. Sì, ci sarà un’altra antimafia. Anzi, c’è già. C’è sempre stata da quando esiste la mafia. Silenziosa, non remunerativa. E’ l’antimafia del proprio dovere quotidiano, che non fa regali, che non compra e che non paga. Un siciliano illuminato, Cataldo Naro, l’arcivescovo di Monreale scomparso nel 2006, parlava di legalità e santità nelle parrocchie tra Partinico e Corleone. A proposito di Chiesa e mafia, diceva che il cristiano non può non vivere secondo il Vangelo, e che il Vangelo è di per sé incompatibile con la mafia: il discorso vale per tutti, spiegava il presule, per il carabiniere, per il politico, per il professore, per il bidello, per il magistrato, per la guardia municipale… Ma lasciamo stare i santi e torniamo ai diavoli. Adesso che succede, adesso che l’antimafia in ghingheri traballa e che non ci sono ammortizzatori che tengono? Il tema non è “il veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia”, né l’esistenza o meno di una “manovra di delegittimazione” ai danni del leader degli industriali siciliani. E neppure i progetti delle scuole, le navi della legalità che attraccano a Palermo in un’esplosione di cappellini o altre simpatiche pagliacciate. Il tema è molto più – come dire? – terra terra: ed è quello del proverbio “predicare bene e razzolare male”. Il tema è la trasparenza delle azioni di chi afferma di combattere il malaffare. E’ la concretezza – oltre che la qualità – dell’impegno sul fronte della legalità (parola che Michele Costa, il figlio del procuratore di Palermo ucciso nel 1980, propone giustamente di abolire). Da questo punto di vista non c’è bisogno di attendere misure cautelari o sentenze definitive per mettere in discussione l’operato non dei “professionisti” (lasciamolo in pace il maestro di Racalmuto) ma degli “imprenditori dell’antimafia”: etichetta, quest’ultima, che ben si attacca alle giacchette dei nostri eroi. Perché debbono scriverla i giudici la storia di questa ennesima truffa? La scrivano gli artisti, se ce ne sono ancora. O gli intellettuali, ma non quelli “col senno del poi”. La raccontino le inchieste dei giornalisti e degli scrittori che non prendono soldi, i registi di cinema e di teatro… Materiale ce n’è in abbondanza. Certo per raccoglierlo bisogna superare lo Stretto, penetrare nell’entroterra incontaminato, fra colline che d’inverno sono così verdi che sembra di stare in Irlanda, e fare un salto nella “Piccola Atene”, la Caltanissetta dove la leggenda vuole che a metà degli anni duemila sia nata la rivoluzione degli imprenditori (che qualcuno, con parole misurate, ha definito copernicana). Ma va detto che nella Caltanissetta delle mitologie c’è stato pure chi in questi anni ha lavorato sul serio resistendo alle bordate sia dalla mafia che dall’antimafia. Il pm Stefano Luciani, in una requisitoria a conclusione di un processo in cui la Procura riteneva di avere scoperto estorsioni non denunciate dagli imprenditori e accordi tra imprenditori e mafiosi proprio in terra nissena, aveva evidenziato che ancora si aspettava l’effetto dell’impegno di Confindustria sul comportamento della categoria. Era il 23 gennaio 2012. Bè, dopo pochi giorni il giornalista Filippo Astone scriveva un pezzo intitolato “Le incredibili dichiarazioni del pm nisseno Stefano Luciani”: l’accusa era che il magistrato, non riconoscendo i meriti degli imprenditori antimafia, non si rendeva conto di aiutare oggettivamente la mafia. Dunque l’antimafia è morta? Macché. Se l’antimafia è quella di Helg e di Montante possiamo stracciare il necrologio e stappare champagne. Perché non è morta l’antimafia. Ma un sistema di potere che ha occupato tutti gli spazi (non morali), che controlla ogni angolo del territorio, che dai tempi di Raffaele Lombardo gestisce nell’Isola il potente assessorato alle Attività Produttive, che tiene in pugno giornali e giornalisti: l’ordine di Sicilia ha aperto un’inchiesta sui finanziamenti elargiti dalla Camera di Commercio di Caltanissetta, di cui Montante è presidente, a testate e pubblicisti. “Potrà dunque esserci un’antimafia?” Sì. “Chi dovrà stabilire nel futuro prossimo la genuinità dei comportamenti antimafia?”. Non certo questi signori. Gaetano Savatteri, sempre su Gli Stati Generali, si è chiesto chi potrà credere ancora all’antimafia… Ma la domanda va forse ribaltata: chi ci ha mai creduto a questa antimafia? E se qualcuno ci ha creduto, perché?

Detto questo sembra evidente che si abbisogna di una legge di tutela per i cittadini contro i magistrati che delinquono indisturbati.

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.

Si stava meglio quando si stava peggio? Italia, declino inevitabile: dove andremo a finire?

A leggere i giornali od a seguire i Tele Giornali o i talk show in tv cerco di carpire qualche notizia che parli di me: di me cittadino. Cerco qualcuno che parli dei miei problemi.

La pagina politica parla delle solite promesse, dei soliti sprechi e dei soliti privilegi.

La pagina della giustizia parla dei soliti morti, dei soliti arresti e delle solite condanne, oltre che della solita mafia: una rassegna dei successi di magistrati e forze dell’ordine, insomma.

La pagina degli esteri parla delle solite guerre e dei soliti cattivi da eliminare.

La pagina finanziaria parla di default, tasse e soldi per lo Stato che non bastano mai e della ovvia evasione fiscale dei soliti ricchi.

Per lo spettacolo e lo sport la solita rassegna di pettegolezzi di star e starlette senza arte né parte.

A parer dei media sembra che la vita scorra monotona lungo questi binari, salvo qualche problema che, però, a parer dei lettori e telespettatori, appare colpire solo gli altri.

Ma non è così. A spulciare nelle notizie, c’è tutta una quotidianità di cui nessuno parla: la lotta alla sopravvivenza delle famiglie italiane nella assoluta solitudine e nel generale sottaciuto abbandono.

Chi ha qualche anno di vita, (chi troppi, chi pochi) ricorda che:

prima il potere era del popolo: oggi non più, il potere è delle mafie, delle caste, delle lobbies e delle massonerie deviate;

prima c’era meno illegalità, meno obblighi, meno sanzioni e c’erano meno leggi da rispettare, specie quelle a carattere emergenziale: oggi anche un giurista insigne pecca di ignoranza giuridica;

prima nel nome della legalità c’era meno illegalità ed iniquità: oggi l’ingiustizia abbonda e gli abusi di potere strabordano;

prima c’era più rispetto e credibilità negli anziani, nei magistrati e nelle istituzioni: oggi non ci sono più esempi degni da seguire e non abbiamo stima nemmeno per noi stessi;

prima pur con tangentopoli, c’era meno ladrocinio e le mafie non avevano invaso l’Italia: oggi la corruzione e l’abuso di potere è la normalità e la mafia è dappertutto;

prima l’usuraio era l’amico: oggi non più, usuraio è lo Stato o le banche;

prima si pagava un decimo di tributi rispetto ad oggi e si otteneva 10 volte tanto in termini di servizi;

prima nella disgrazia potevi parlare con il politico che votavi ed il minimo che succedeva era che ti ascoltava ed il favore lecito, spesso, ci scappava: oggi non è più così, perché i politici sono tutti degli emeriti sconosciuti e se ti rapporti con loro disattendono il loro mandato;

prima nell’errore speravi nella coscienza delle istituzioni e tutto si aggiustava secondo equità: oggi non è più così, perché più che il principiò di legalità vale l’interesse estremo a punire, per salvaguardia finanziaria del proprio status di sanzionatore;

prima c’era più Empatia, ci si metteva nei panni dell’altro, si condividevano sentimenti, emozioni e sofferenze: oggi non più, c’è più Dispatia, ovvero l'incapacità o il rifiuto di condividere i sentimenti o le sofferenze altrui, ovvero c’è più Alessitimia, ossia il disturbo specifico nelle funzioni affettive e simboliche che spesso rende sterile e incolore lo stile comunicativo delle persone;

prima nell’avversità c’era qualcuno che pubblicamente denunciava sui giornali la tua questione: oggi la notizia è omologata nella censura e se, al contrario, è resa pubblica, lo scandalo non produce effetti;

prima nell’avversità c’era una famiglia, spesso numerosa e con genitori pensionati, che ti sosteneva: oggi siamo soli nell’indifferenza, nell’indisponenza, nell’insofferenza e gli anziani non hanno più figli al capezzale ma solo badanti straniere;

prima si era più ricchi di affetti e di beni materiali: oggi amici non ne hai ed i parenti meglio non averli e se hai un bene materiale te lo toglie la criminalità o lo Stato;

prima nel bisogno il lavoro era tutelato e comunque si trovava, anche negli uffici di collocamento, o addirittura anche a nero o sottopagato: oggi non più assolutamente, nonostante i centri per l’impiego e le agenzie interinali;

prima a veder un clandestino era un’eccezione, oggi è la regola;

prima gli unici ad essere discriminati erano i meridionali: oggi si discrimina tutto e tutti e si uccide per questo (religione, razza, sesso, ideologia politica, tifo sportivo, gusti sessuali, ecc.);

prima si era più sinceri e diretti: oggi si è politicamente corretti, perbenisti e buonisti, ossia più demagoghi, utopistici, falsi e bugiardi;

prima nell’intraprendenza l’agricoltura, l’allevamento, la pesca, nonostante i disastri meteorologici, erano attività in cui si riusciva ad andare avanti: oggi le campagne sono abbandonate, troppi, cavilli, oneri e spese;

prima nel rischio le imprese, grandi o piccole, riuscivano a produrre reddito: oggi non più, perché sono vessate dallo Stato da controlli, oneri, cavilli e balzelli e tributi e comunque da questo Stato non tutelate dalla competitività estera, o taglieggiate dalla criminalità, o sequestrate e portate al fallimento dallo stesso Stato perché accusate di essere colluse con la criminalità, o, seppur operanti da decenni, chiuse ora perché inquinanti;

prima le professioni si potevano esercitare: oggi non più, perché hanno chiuso gli ospedali ed i tribunali ed impediscono di esercitare. Prendiamo per esempio la professione di avvocato. Hanno chiuso moltissimi tribunali. Hanno impedito la tutela legale per i sinistri stradali e le sanzioni amministrative. Settori utili per i neo professionisti. Non sono certo, però, diminuite, come promesso, le polizze assicurative. Hanno eliminato di fatto il gratuito patrocinio, con condanne inevitabili per gli indigenti, ed in generale il ricorso all’autorità giudiziaria, con il contributo unico unificato elevato. Tra Giudici onorari di Tribunale, Giudici di Pace, Conciliazione obbligatoria e Negoziazione assistita hanno eliminato quasi tutto il lavoro dei magistrati togati, impegnati come sono a fare esclusivamente politica,  ma la lentezza della giustizia è rimasta. Hanno imposto ai giovani avvocati in tempo di crisi l’iscrizione alla Cassa Forense ed imposto in tempo di vacche magre l’esercizio della professione legale in maniera continuativa e prevalente. Ecco i punti fissati dal Governo:

a) la titolarità di una partita Iva;

b) l’uso di locali e di almeno un’utenza telefonica destinati allo svolgimento dell’attività professionale, anche in forma collettiva (associazione professionale, società professionale, associazione di studio con altri colleghi);

c) la trattazione di almeno 5 affari per ogni anno dei 3 presi in considerazione, anche se l’incarico è stato inizialmente conferito ad altro legale;

d) la titolarità di un indirizzo Pec comunicato al Consiglio dell’ordine;

e) l’avere assolto l’obbligo di aggiornamento professionale secondo modalità e condizioni stabilite dal Cnf;

f)la stipula di una polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile che deriva dall’esercizio della professione;

g)la corresponsione dei contributi annuali dovuti al Consiglio dell’ordine;

h) il pagamento delle quote alla Cassa di previdenza forense.

Sig. direttore, lei, meglio di me, sa che prima si poteva criticare e protestare: oggi non più perché abbiamo un bavaglio. Tra la legge sulla privacy e lo spauracchio delle norme penali sulla diffamazione tutto ciò è impedito.

Oggi non puoi nemmeno recriminare con una imprecazione: “Italia di Merda” perchè segue una condanna certa.

Allora… si stava meglio quando si stava peggio? E dove andremo a finire? E comunque, per gli italiani perché non vale la teoria sull’evoluzione migliorativa naturale della specie?

Europa, i napoletani guadagnano meno dei polacchi. E in altre zone d'Italia non va meglio. Secondo i dati più recenti dell'istituto di statistica europeo il reddito medio in provincia di Napoli è ormai inferiore a quello medio della Polonia. Nei primi si ferma a 16.100 euro l'anno, mentre per i secondi è più alto di 300 euro, scrive Davide Mancino su “L’Espresso”. Se un amico di Napoli vi confida che vuole emigrare in Polonia, non chiedetegli se è diventato matto: per come vanno le cose l'idea potrebbe quasi avere senso. Secondo i dati dell' Istituto di statistica europeo , aggiornati al 2011, il reddito medio dei napoletani è ormai inferiore a quello dei polacchi. Nei primi si ferma a 16.100 euro l'anno, mentre per i secondi è più alto di 300 euro. L'area d'Europa con il PIL più alto è invece la parte occidentale di Londra, cuore finanziario della Gran Bretagna, dove la media supera i 150mila euro. Ma in Italia c'è chi è messo ancora peggio. Nella provincia di Medio Campidano, in Sardegna, il reddito è di 11.200 euro l'anno: poco meno che in Bulgaria. Seguono Caserta e Agrigento, intorno ai 13mila e qualche centinaio di euro in più rispetto a un abitante medio della Romania. Resta forte la divisione nord-sud, anche se in quest'ultimo spicca la provincia di Catanzaro che supera i 20mila euro l'anno – fatto praticamente unico nel meridione –, mentre al centro si distingue Rieti; chi vi abita ha in media un reddito più basso di quello dei vicini. Roma è un caso a parte. Essere il centro della burocrazia italiana, con il relativo carico di retribuzioni elevate, non può che portare a risultati maggiori: un elemento che in qualche misura sposta i redditi – ma non per forza quanto poi si produce davvero – verso l'alto. Al nord invece i milanesi hanno un reddito medio di 45.600 euro, quasi il doppio della media europea. Un valore senz'altro elevato, ma forse neppure troppo per quello che dovrebbe essere il centro della borghesia produttiva italiana. Senza neppure arrivare a Londra, in cui i tanti stranieri della City finanziaria renderebbero il confronto poco sensato, basta andare in Francia o in Germania – a Monaco, Parigi o Bonn – per trovare diverse aree in cui il reddito si aggira o supera i 60-70mila euro a persona. I dati non considerano solo quanto le persone producono, ma tengono in conto anche il diverso costo della vita. Affitti più alti e beni più economici, servizi a buon mercato o meno: tutti fattori che nella vita concreta contano almeno quanto lo stipendio che riceviamo. Si tratta del modo più accurato per capire qual è il reale tenore di vita delle persone in un regione piuttosto che in un'altra. Come succede di consueto quando si calcola il PIL, è inclusa anche una stima (più o meno accurata) dell'evasione fiscale. Eppure basta tornare qualche anno indietro per capire come i problemi italiani siano tutt'altro che nuovi. La crisi non ha fatto che pesare su un sistema già affaticato – in alcune zone più che in altre. Basilicata, Puglia e Calabria, per esempio, già prima della recessione del 2008 crescevano poco – meno dell'1% l'anno. Emilia Romagna, Marche e Lazio avevano invece un ritmo più elevato, intorno al 2%. Il motore pare inceppato da tempo: già intorno al 2002-2003 in diverse regioni il reddito ha fatto un salto indietro, per poi calare a picco dal 2008. In Molise la recessione ha fatto più danni: fino al 2011 l'economia è decresciuta in media del 2,9% l'anno; meno in Campania, con una caduta dell'1,8%. Seguono Calabria (-1,7%), Sicilia e Basilicata (-1,6%). Quando gli altri cadono – magra consolazione – anche restare fermi è un segnale positivo. È il caso di Lombardia e provincia di Bolzano, dove invece le cose sono rimaste stabili oppure la diminuzione è stata minima. Guardando a come vanno le cose provincia per provincia abbiamo un quadro più dettagliato, ma anche meno recente – per il momento i dati arrivano solo al 2011. Che napoletani e siciliani abbiano recuperato qualcosa, nel frattempo? L'unico modo per farsi un'idea è guardare a come sono andati i paesi nel loro complesso. Anche così, però, l'Italia resta quella che fa peggio. Non solo l'economia non recupera quanto aveva perso dall'inizio della recessione, ma continua a cadere ancora. Nel 2012 e 2013 la crescita media è stata molto negativa: la Spagna arretra ma meno, Francia e Germania crescono – molto poco – mentre nel Regno Unito va abbastanza meglio. Nulla di impressionante, certo, eppure nel regno dei ciechi l'orbo è re. Dunque è ancora vero che i napoletani guadagnano meno dei polacchi? Una cosa è certa: negli ultimi due anni questi ultimi sono andati avanti, mentre l'Italia è tornata ancora più indietro. Non solo il divario potrebbe essere rimasto, ma ci sono buone ragioni per pensare che sia aumentato. Chi più in fretta, chi trascinando i piedi, resta il fatto che diversi paesi stanno cominciando a uscire dalla crisi. Molti, ma non l'Italia. Chissà che l'amico napoletano non abbia tutti i torti.

Disoccupazione, i numeri fanno paura. Quella verità nascosta nelle statistiche. Fermarsi a leggere solo il dato generale di chi non ha un lavoro è un errore: i numeri in nostro possesso mostrano  fenomeni meno noti, che interessano soprattutto donne e giovani. Mentre il titolo di studio sembra ancora l'unico antidoto al rimanere senza impiego. Naviga i nostri grafici interattivi, scrive Davide Mancino su “L’Espresso”. Una manifestazione del 2011 contro la disoccupazione giovanile Quando si parla di disoccupazione la cosa più semplice è elencare il solito numero - i soliti due numeri - e fermarsi lì. Sono quelli che sono stati ripetuti negli ultimi giorni: il tasso di disoccupazione generale è al 12,6 per cento, quello dei giovani fra 15 e 24 anni è al 43,3 per cento. Al crescere dell'età le cose migliorano, certo, ma restano tutt'altro che confortanti. Eppure la realtà è più complicata, e se si scava più a fondo nelle statistiche il quadro diventa forse ancora più buio: sicuramente più sfaccettato. Eurostat e Istat raccolgono informazioni sul lavoro anche a livello regionale, aggiornate al 2013; e sono dati che mostrano l'enorme differenza che esiste non solo fra paesi europei, ma anche all'interno degli stessi. Eppure, nel fare confronti fra paesi, i dati vanno guardati con prudenza. Il tasso di disoccupazione indica infatti quante sono le persone senza lavoro, ma solo fra quelle che un lavoro lo stanno cercando. Più di tre milioni, secondo le ultime stime: certo non un italiano su dieci o un giovane su due, come si sente dire ogni volta, ma comunque troppo. Il paragone naturale è con i vicini spagnoli. Ma proprio in Spagna, che nella mappa della disoccupazione risalta come una grande macchia rossa, secondo la Banca Mondiale la partecipazione al mercato del lavoro è più alta - in particolare per le donne e nelle aree più povere. In questi gruppi, ovvero, sono molti coloro che dichiarano di essere alla ricerca di un impiego. In Italia vale l'opposto: sono meno le persone che risultano alla ricerca di un lavoro e questo spinge il dato della disoccupazione verso il basso. D'altra parte in Italia e Spagna il numero di persone effettivamente occupate, rispetto al totale della popolazione, è più o meno lo stesso. Dunque la differenza, tutto sommato, è molto minore di quello che sembra. Non è il solo caso. In generale, prima di fare paragoni, bisogna fare attenzione a quei paesi in cui, per esempio, donne e giovani tendono a partecipare di più al mercato del lavoro. È il caso di Germania, Francia e - appunto - della stessa Spagna. Questo però non vuol dire che la situazione sia grave ovunque allo stesso modo; al contrario. Proprio in Italia considerare solo il tasso di disoccupazione generale nasconde le situazioni più diverse: soprattutto in alcune province, soprattutto per i giovani - e ancora di più per le donne. Tutti casi in cui la realtà è molto più difficile di quello che sembra. Prendiamo tre persone diverse: Luca, 40 anni, di Milano; Giulia, una trentenne romana; Sofia, appena diplomata a Napoli. Il primo è riuscito a trovare lavoro, e come lui diversi amici e amiche: a Milano essere uomo o donna non fa grande differenza. Giulia salta da un breve impiego all'altro, ma con la crisi le cose sono diventate più complicate. Trovare un nuovo lavoro è difficile, e non solo per lei: a Roma succede lo stesso a una donna su sei nelle sue condizioni. Sofia invece vorrebbe cominciare a lavorare subito dopo aver finito la scuola, ma non può. A Napoli per andare avanti ci vuole fortuna e bravura - o entrambe - quando tre ragazze su cinque come lei, pur cercandolo, un lavoro non lo trovano. Altrimenti la soluzione è la solita: emigrare. Anche qui però bisogna fare attenzione: fra i 15 e i 24 anni molti ragazzi studiano ancora, quindi non cercano lavoro né sono - tecnicamente - disoccupati. Un gruppo che rientra nella categoria degli “inattivi”, come li chiama l'Istat, composto da poco meno di quattro milioni e mezzo di persone. Il problema vero riguarda invece 685mila giovani di quell'età che, usciti da scuola, un lavoro lo vorrebbero ma non ce l'hanno. I dati smentiscono anche un altro luogo comune: che studiare non serve. Di nuovo, è vero l'opposto. Le persone con titoli di studio più elevati sono quelle meno esposte alle disoccupazione, e questo vale sia per gli uomini che per le donne. Una differenza che - soprattutto al sud - è enorme: le laureate calabresi, per esempio, hanno un tasso di disoccupazione di 8 punti percentuali più basso delle diplomate, mentre le campane arrivano a 10. Per gli uomini è lo stesso, basta guardare la differenza fra laureati e diplomati siciliani: fra questi ultimi, ai tempi della crisi, il tasso di disoccupazione è doppio. Altro che perdita di tempo: uno degli antidoti alla crisi, se mai ce ne fosse uno, sembra proprio lo studio.

CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI. 

Le Prove. La Prova scritta.

La prova scritta è in genere un tema o una griglia di test a risposta sintetica o una prova pratica. Solitamente è svolta in 1 o più giornate differenti su materie differenti, e può essere indifferentemente un giorno un tema ed il successivo una prova pratica, o una prova a risposta sintetica ed un tema ecc. ecc. Come nella prova preselettiva al candidato vengono consegnate due buste, una con il materiale d’esame e l’altra con il cartoncino su cui indicare il proprio nome, cognome e data di nascita. Lo scritto va fatto – brutta e bella – utilizzando esclusivamente i fogli messi a disposizione, che poi il candidato inserirà nella busta grande insieme alla busta piccola (chiusa) contenente il cartoncino con le generalità. Il bando dà indicazioni sui testi che è possibile portare con sé – normalmente il dizionario di italiano ed i codici senza commenti se la prova è di tipo giuridico. Attenzione, all’ingresso i testi possono venire aperti per un controllo e, se non rispondono per qualche ragione a quanto previsto, non vengono fatti entrare. Eliminate perciò fogli di appunti, temi, schemi ecc…Evitate per quanto possibile di portare fotocopie, che possono subire la stessa sorte. Se sono proprio necessarie, portatele ben rilegate. Tenete conto che le operazioni di controllo all’ingresso possono durare a lungo, specialmente nei concorsi con grande affluenza. E’ quindi molto frequente che dall’orario di convocazione – in genere le 9 del mattino – all’ora in cui ha effettivamente inizio la prova, possono passare 2,3,4 ore. Se aggiungete a queste le ore di durata effettiva della prova, capite quanto può essere importante avere con sé qualcosa da mangiare e da bere. Solitamente non è possibile alzarsi per le prime due ore.

Domande a risposta sintetica. Si tratta di un numero limitato di domande (di solito non più di sei) che hanno, oltre alla classica opzione della risposta multipla, anche alcune righe per la risposta sintetica. E’ un tipo di prova molto comune soprattutto sulle materie giuridiche ed è un tipo di scritto abbastanza ostico. Scrivere di diritto non è facile, essere sintetici ancora meno. Il testo scritto deve essere breve (tra le dieci e le venti righe), coinciso e il più possibile chiaro. Non deve semplicemente ripetere con altri termini la risposta già scelta tra le riposte fornite dal test, ma deve aggiungere qualcosa: la motivazione della risposta già data, il contesto, casi specifici ed eccezioni, ecc. Nell’allenarsi alla prova a risposte sintetiche, è sconsigliabile tentare di imparare quelle contenute nei testi di preparazione: quasi sempre niente ritorna alla memoria al momento opportuno, mentre è utilissimo allenarsi a scrivere testi brevi, utilizzando qualunque tipo di domanda a risposta multipla.

Prova pratica. E’ una prova pratica quella ispirata alla verifica delle reali capacità operative del candidato nel ruolo specifico che gli verrà affidato. Essendo diversa da mansione a mansione è quindi qui impossibile estrapolare degli esempi (la sua applicazione va dalla multa al caso clinico). Di solito quando un concorso prevede una prova di questo tipo, le editrici specializzate inseriscono uno schema all’interno dei testi di preparazione. Il suggerimento anche qui è di utilizzare il buon senso: la prova serve a verificare quanto il candidato riesca effettivamente ad utilizzare nella pratica le nozioni che ha acquisito, quindi va benissimo imparare schemi (moduli, procedure ecc), ma questi vanno utilizzati tenendo in debito conto del quesito proposto (che come sempre va letto molto attentamente) ed anche della nozioni teoriche sottese (implicate).

Tema. Il tema è una composizione scritta abbastanza lunga ed articolata – circa 3/5 facciate di foglio protocollo - ampiamente utilizzata nelle prove di concorso. Nei concorsi per diplomati, è più spesso di cultura generale, storia, italiano; si tratta quindi di uno scritto del tipo di quelli che si fanno alle scuole superiori. In questo caso quello che conta è che l’elaborato sia in italiano corretto e che sia chiaro e non contenga informazioni errate. Se invece il tema è di argomento giuridico la faccenda cambia. Il tema di diritto mette in difficoltà un po’ tutti, chi è laureato in materie giuridiche infatti è raramente abituato a scrivere, chi ha fatto altri percorsi di studio teme di non saper utilizzare adeguatamente il linguaggio giuridico. In tutti i casi, non c’è da perdersi d’animo: ci si riabitua a scrivere semplicemente allenandosi. Certo, specialmente chi non ha un background giuridico fa bene a seguire dei corsi, per affinare la terminologia in modo da non incorrere in errori concettuali gravi. Se chiarezza e completezza sono le carte vincenti, non vanno dimenticate la calligrafia – che deve essere il più possibile leggibile, e la lunghezza totale, che non deve essere eccessiva.

Diario di un commissario del concorso per magistrato: i trucchi per copiare, dal bagno alla nursery, scrive Lionello Mancini su “Il Sole 24ore”. Nelle ore immediatamente successive alla prova scritta per un posto da magistrato, uno dei 29 commissari, ha voluto riassumere in quattro paginette di appunti la sua esperienza al padiglione fieristico di Rho-Pero e aggiungere alcuni suggerimenti per rendere meno macchinosa, più corretta e trasparente la selezione dei togati. Ecco alcuni passi degli appunti del commissario, una probabile traccia per l'audizione davanti alla IX commissione del Csm. Durante i tre giorni delle prove scritte, a seguito di violazioni delle regole concorsuali, la commissione ha deciso diverse espulsioni, pare 70, anche se non conosco il numero esatto. Io stesso ho espulso un buon numero di candidati in poche ore. La maggior parte delle irregolarità consisteva nella detenzione di testi non consentiti. Ho sentito dire da più parti che con ogni evidenza il controllo dei codici non ha funzionato. Ma è proprio così? Per non drammatizzare inutilmente, basterebbe un semplice conteggio: ogni concorrente si presenta alla prova scritta con almeno 5 "pezzi" tra codici, raccolte di leggi, stampe da Internet ecc. Moltiplicando questa cifra (ottimistica) per 5.600 partecipanti, risulta che noi commissari abbiamo controllato non meno di 28mila testi. Se solo 2 su 1.000 sono sfuggiti al controllo – frazione senz'altro fisiologica se non virtuosa – possiamo concludere che una sessantina di casi sono apparentemente tanti, ma sono invece relativamente pochi. Esistono molte edizioni dei codici, quasi tutte volutamente ai limiti dell'ammissibilità e spesso con tanto di scritta in copertina che rassicura l'acquirente sul fatto che potrà usarlo durante la prova scritta. Ed è così: l'irregolarità non è per niente scontata e dipende dall'interpretazione della norma che esclude i testi con "note, commenti, annotazioni anche a mano". E allora perché tante edizioni border line? Alcuni di questi tomi sfruttano l'indice analitico che arriva così a occupare centinaia di pagine ed è talmente strutturato da poter fungere da tracce di elaborati; altri volumi recano abbondanza di richiami che non possono essere vietati perché riportati da tutte le edizioni, "Gazzetta Ufficiale" compresa. I candidati sono suddivisi per lettera in tante file e consegnano i testi ad altrettanti desk con un commissario che decide i casi dubbi. È ovvio che per evitare disparità di giudizi che finiscano in difformità sui criteri di sequestro, la soglia di ammissibilità è tenuta bassa. Anche perché, spesso si tratta di codici costosi, non pacificamente inammissibili, magari curati da colleghi magistrati, spesso recanti scritte rassicuranti e persino timbri di concorsi precedenti. Soprattutto, sequestrare i codici a Rho-Pero in prossimità della prova, significa di fatto lasciare il candidato senza testi da consultare perché, data la distanza dalla città, non è possibile andare in una libreria a Milano e tornare in tempo per l'esame. Oltre alle edizioni border line, è sempre più frequente che i candidati si presentino con pacchi di stampe dal computer: formati ammissibili, ma di difficile controllo. Ci sono poi i testi annotati a mano, non vietati automaticamente ma da valutare nel loro contenuto. Ci sono candidati disposti, per evitare il sequestro, a strappare o sigillare le parti vietate e rendere così utilizzabile un codice (sulla cui copertina resterà comunque scritto "commentato", cioè di fatto vietato). E va considerato che la legge di fatto incoraggia i tentativi di introdurre materiale illegale perché in sede di controllo pre-esame consente solo l'esclusione del testo e non anche del candidato: insomma, abbiamo dovuto vedere in aula candidati che il giorno prima avevano cercato di introdurre un vocabolario di italiano farcito con temi di diritto. È stato escluso il tomo, ma non il suo detentore. A parte i difficoltosi controlli dei giorni precedenti, anche il giorno della prova il materiale irregolare entra facilmente: la polizia penitenziaria esegue una perquisizione "leggera" all'ingresso, ma le piccole fotocopie nascoste sotto gli abiti ovviamente passano. I servizi igienici sono usati sia per scambiarsi parole veloci durante le code per entrare, sia per passare il materiale da una inaccessibile fodera a una comoda tasca. Da qui il divieto di andare al bagno prima di una certa ora, cui vengono opposte continue affermazioni di gravi problemi fisici, difficili da contestare in assenza di un commissario-medico. Ecco il motivo delle numerose deroghe al divieto, pur accompagnate da precauzioni aggiuntive come le perquisizioni prima e dopo, a meno che il candidato non accetti di lasciare la porta del bagno aperta, vigilato da un agente dello stesso sesso. Altro luogo "tentatore" è la nursery cui hanno diritto le candidate con infante da allattare. Ovviamente il bimbo è accudito da un parente, magari adatto a consultazioni o che si presta a "importare" materiale proibito.

Questo succede durante le prove scritte. Nessuno sa quello che succede dopo. La verità si scopre attraverso i ricorsi al Tar.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

Medicina, storia del concorso delle polemiche. "Test copiati, quiz rimossi e compiti modificati". L'esame per l'accesso alle scuole di specializzazione dello scorso novembre 2014 doveva eliminare il problema dei baronati. Ma dopo le polemiche sulle domande sbagliate, l'Espresso ha visionato il ricorso presentato dai candidati al Tar. E dentro viene denunciato davvero di tutto, scrive Martino Villosio su “L’Espresso”. Doveva essere il concorso del merito, della trasparenza, dei parametri standard di valutazione, immune finalmente da localismi e al riparo dalle grinfie dei baroni. Tutti i candidati, dal Friuli alla Sicilia, davanti a un pc, niente carta e penna, un salvataggio a fine prova, un meccanismo di correzione costruito per essere impermeabile a qualunque ipotetico sospetto di violazione dell'anonimato. A distanza di tre mesi, invece, la lista completa di verbali, atti e documenti relativi al primo concorso pubblico per l'accesso alle specializzazioni di medicina gestito a livello nazionale con graduatoria unica svela il tracollo di premesse e promesse. Un tradimento che ha già portato tanti giovani medici ad abbandonare l'Italia, ancor prima di attendere le decisioni della giustizia amministrativa sommersa dai ricorsi. Punteggi sbagliati, pc in rete. Sedi non idonee, controlli non omogenei delle singole commissioni, router nascosti nei cappotti e pc collegati in rete durante le prove in alcuni atenei, foto che mostrano chiaramente come in certe aule i candidati fossero seduti a distanza ravvicinata tanto da costringere il Miur a sferzare le commissioni con una circolare dopo il primo giorno di test. E ancora singole aule in cui tutti i candidati hanno totalizzato punteggi stellari e perfettamente combacianti, centinaia di black out e guasti ai computer che hanno consentito ai più fortunati di veder raddoppiato il tempo a disposizione per rispondere alle domande, "bachi" nel sistema informatico, punteggi affissi in graduatoria diversi da quelli visualizzati dai candidati al termine delle prove e ricorretti in fretta e furia solo grazie all'attenzione e alle proteste degli interessati. Computer così vicini da permettere di copiare. A suggello di tutto le mani non meglio identificate di chi, denunciano gli avvocati dei ricorrenti, ha potuto incredibilmente entrare nelle prove di tutti i candidati modificandole dall'interno in violazione dello stesso principio che il nuovo concorso era nato per salvaguardare: proprio quello dell'anonimato. Tutto questo viene oggi ad aggiungersi a quanto di clamoroso emerse a inizio novembre, a concorso appena finito: il pasticcio dell'inversione dei quesiti di due differenti aree del test (quella medica e quella dei servizi clinici) da parte del consorzio Cineca incaricato di preparare le prove, il ministero dell'Università e della Ricerca che prima annuncia la scelta di annullare quelle oggetto dell'errore poi, dopo due giorni, fa marcia indietro e sentito il parere dell'Avvocatura sceglie di abbonare quattro domande (in seguito diventate sei) a tutti i candidati, dando loro il massimo punteggio a prescindere dalla maggiore o minore correttezza delle risposte fornite. Uno scandalo già rimosso. Un caso dai contorni surreali, l'ultimo pugno nello stomaco di una generazione di aspiranti camici con la valigia in mano, archiviato dai media e dal dibattito politico con molta più fretta di quanto ci si sarebbe potuti aspettare nell'Italia che insegue la svolta all'insegna della gioventù e della meritocrazia. L'Espresso ha potuto visionare in anteprima questa galleria di irregolarità e superficialità, alla vigilia dell'udienza del 12 febbraio davanti al Tar del Lazio chiamato a prendere in esame parte dei ricorsi presentati per l'annullamento delle graduatorie. Una lista contenuta nella lunga memoria depositata lo scorso 26 gennaio dall'avvocato Michele Bonetti, il legale che tra l'estate e l'autunno dello scorso anno ha già ottenuto l'ammissione con riserva ai corsi di laurea delle facoltà di medicina di tutta Italia di 5.000 studenti respinti ai test d'ingresso e che, insieme al collega Santi Delia, ha curato anche i ricorsi degli aspiranti specializzandi. Insomma un elenco fornito da una parte con precisi e concreti interessi nella partita, ma puntellato da un corposo dossier di carte ufficiali finito all'attenzione della magistratura in sede penale. Aule inidonee, punteggi stellari. Il primo cardine su cui doveva poggiare il nuovo concorso, ovvero l'omogeneità della selezione a livello nazionale, ha retto a stento davanti alle carenze organizzative di alcune aule. L'articolo 2 comma 4 del bando disponeva che almeno 20 giorni prima della prova di esame il Miur dovesse comunicare sedi e orario di svolgimento. Le aule però sarebbero state reperite solo qualche giorno prima dei test, non solo nelle università ma anche in centri di formazione professionale e istituti privati. Come emerge da alcuni verbali e dalle foto pervenute al sito de "l'Espresso", in alcune di esse i candidati erano talmente vicini da consentire a tutti di poter leggere tranquillamente dallo schermo del collega. Un monitor che, a differenza dei classici fogli A4 contenenti 4 o 5 domande, proiettava a visione intera un solo quesito alla volta con la relativa risposta del candidato. Più piccole erano le aule, riporta l'avvocato Bonetti nella sua memoria, più palese è stato il numero di concorrenti con punteggi identici. Come a Catania, dove nell'aula 10 - durante l'ultimo giorno di prova - su 12 partecipanti concorrenti per Anestesia, in 10 hanno avuto l'identico alto punteggio di 17,4 su 20. O a Bari, dove il 31 ottobre durante la prova dell'area dei servizi di fatto non di competenza dei candidati (perché si scoprirà che le domande erano state invertite con quelle di area medica) in un'aula 12 candidati su 14 ottengono lo stesso score: di nuovo 17,4 su 20. A Milano i candidati chiedono che sia messo a verbale che i pc sono troppo vicini e corrono voci di "copiature frequenti e uso di cellulari presso altre sedi". A Trieste è addirittura la stessa commissione ad alzare bandiera bianca: "Risulta materialmente impossibile", recita il verbale del 30 ottobre per l'aula F, "collocare tutti i candidati in modo alternato, si decide di far prendere posto ai candidati seduti necessariamente vicini nelle posizioni di massima visibilità". Black out, web libero e bug informatici. Sono centinaia i casi a verbale di black out energetici in diverse sedi di concorso. In alcune i candidati, dopo aver letto le domande e addirittura aver terminato la prova, hanno potuto ripeterla visto che i pc si spegnevano o non rispondevano ai comandi. Aule intere hanno subito la sospensione dell'energia dopo che erano state lette le domande della prova. Durante le operazioni di ripristino, a Chieti, i candidati hanno addirittura potuto riprendere i propri cellulari collegati in rete. In altre sedi, come risulta a verbale, i pc erano invece collegati via cavo alla rete LAN o avevano accesso alla rete wi-fi consentendo la navigazione sul web attraverso router portatili lasciati dai candidati nei cappotti. Uno di questi casi è documentato a Napoli, presso l'università Suor Orsola Benincasa. Alla Seconda Università di Napoli, il 31 ottobre, dopo 16 episodi di malfunzionamento dei pc la prova viene interrotta e fatta ripetere ai candidati. A Ferrara addirittura salta un'intera fila di computer, obbligando ormai a fine prova a far rifare il test a tutti i candidati della fila. Tragicomici, poi, alcuni degli episodi segnalati sempre a verbale: come a Padova, dove durante la prova un candidato - ricontrollando i test - si rende conto a un certo punto che in alcuni casi le risposte da lui date risultano modificate. Colpa di un bug informatico che fa sì che il concorrente, anche semplicemente muovendo il mouse sulla parte bianca dello schermo, intervenga sull'opzione appena spuntata senza rendersene conto. Un'anomalia denunciata anche a La Sapienza. Centinaia anche le segnalazioni di aspiranti specializzandi che hanno trovato un punteggio affisso diverso da quello visualizzato dopo la prova e regolarmente salvato. Come a Genova, dove lo score di una candidata era stato prima salvato come 34,1 e poi - il giorno dopo - riverificato essere 33,8. Se l'interessata non avesse chiesto di eseguire un controllo, essendo convinta del suo risultato iniziale, l'accaduto non avrebbe mai potuto essere ricostruito. Pipì nel cestino. Anche nella severità con cui le commissioni hanno fatto rispettare i regolamenti emergono forti discrepanze. Nonostante il bando del 4 agosto 2014 specifichi chiaramente che "il Ministero definisce ogni elenco d'aula avendo cura di distribuire i candidati secondo l'ordine anagrafico", in alcune sedi è stato concesso agli aspiranti specializzandi di scegliere liberamente il posto. In un verbale dell'ateneo di Udine viene riferito candidamente che "ciascun candidato si colloca a sua scelta in una delle postazioni disponibili". A Palermo la commissione controbatte addirittura a un candidato che, bando alla mano, chiedeva il rispetto dell'ordine alfabetico. D'altro canto persino il video esplicativo sulla procedura di accesso alle aule del Miur, disponibile sul sito , indicava la possibilità di scegliere liberamente dove sedersi in piena contraddizione con il bando. Il video è stato poi successivamente modificato a concorso concluso. Il rigore in ordine sparso delle varie commissioni ha riguardato anche la possibilità di andare in bagno: a Pisa e Pavia è stato consentito, a Firenze invece un candidato è stato costretto a urinare nel cestino della carta. Le domande abbonate: nuovi interrogativi. Non è la prima volta che il consorzio interuniversitario Cineca, incaricato di somministrare i test nei concorsi, combina errori che impattano su vite e carriere. Basti pensare al "famoso" concorso del 2012 per l'accesso ai TFA, i tirocini formativi per l'abilitazione all'insegnamento, nel quale 25 domande su 60 furono annullate. Questa volta l'anomalia è avvenuta nella fase di preparazione delle buste: le domande che avrebbero dovuto essere sottoposte ai candidati per le scuole di area medica il 28 ottobre sono state invece somministrate il 31 ottobre nella prova per l'area dei servizi clinici, e viceversa. Il primo novembre il Miur annuncia con un comunicato stampa sul sito che le prove in questione sono da ripetere. Due giorni dopo, al termine di una riunione tra il ministro Stefania Giannini e la Commissione nazionale incaricata di validare le domande dei quiz, sempre tramite nota stampa arriva il contrordine: siccome l'inversione ha riguardato solo le 30 domande comuni a ciascuna delle due aree, e non i 10 quesiti specifici per ciascuna tipologia di scuola (cardiologia, necrologia, endocrinologia etc.), l'esito dei test si può salvare "neutralizzando" le sole due domande per ciascuna area che sono state giudicate non pertinenti dalla Commissione di esperti. In pratica a tutti i candidati, a prescindere dalla maggiore o minore correttezza della risposta fornita, viene assegnato per quelle domande il massimo punteggio. Da quel momento, e dopo le dimissioni rassegnate dal presidente del Cineca Emilio Ferrari, si chiude il sipario mediatico sulla vicenda. Adesso però, dai verbali delle singole commissioni sparse per l'Italia, da quello della riunione del 3 novembre tra Miur e Commissione nazionale e da una perizia di parte del dottor Gianluca Marella (docente a Tor Vergata e consulente tecnico della procura di Roma) emergono elementi nuovi. Emerge chiaramente, ad esempio, come in diversi casi gli stessi candidati abbiano riscontrato e segnalato ai commissari l'inversione dei quiz già nel corso delle prove, che tuttavia non sono state interrotte. Nel verbale della riunione di Roma del 3 novembre, inoltre, si legge che "delle 30 domande contenute nella prova di area medica del 29 ottobre, 27 sono riconducibili ai 5 settori scientifici disciplinari comuni tra l'area medica e quella dei servizi, 1 quesito è riferibile al settore scientifico disciplinare della farmacologia". Tradotto: le domande non pertinenti all'area medica, e quindi da abbonare, in base a quanto dichiarato dalla stessa Commissione nazionale non sono due ma tre. Perché allora il quesito di farmacologia non è stato abbonato? Non solo. Nel verbale del 3 novembre la Commissione conclude che la scelta di invalidare le quattro domande di area non influisce sulla validità complessiva dei test, perché le domande più importanti - quelle relative alle scuole di specialità cui sono attribuiti il doppio dei punti - non hanno determinato problematiche. Eppure, dopo la stesura dell'atto, sulla base di un altro verbale, che conclude una riunione del 4 novembre cui prendono parte solo il presidente della medesima Commissione nazionale e un rappresentante della società Selexi, si provvederà ad abbonare altre due domande: stavolta relative proprio ad altrettante scuole di specializzazione (una di Cardiologia e un'altra di Endocrinolgia). Un totale di 6 quesiti abbonati attraverso dei semplici verbali, senza l'intervento di un apposito provvedimento ministeriale indispensabile - sostengono gli estensori dei ricorsi - per modificare un bando di concorso approvato con decreto. Prove modificate dall'interno. Alla scelta di abbonare le sei domande, accusano i legali dei ricorrenti, è seguita una procedura inedita. Invece di limitarsi ad aggiungere il punteggio delle domande in questione alla graduatoria finale, Cineca e Miur sono entrati nei singoli compiti inserendo a livello informatico i codici fiscali e hanno modificato dall'interno le risposte dei candidati, che non hanno in questo modo neanche più la certezza di quali risposte abbiano fornito, visto che le prove erano soltanto digitali. La decisione di intervenire sulle prove già svolte è avvenuta dopo che i punteggi dei singoli candidati erano già pubblici e le graduatorie già in mano al Cineca: cioè dopo che ad ogni compito era stato dato un nome. E così, tra accessi non verbalizzati nei compiti e interventi postumi sulle domande, lo scopo principale del nuovo concorso a graduatoria nazionale, quello di garantire la segretezza e la trasparenza della selezione e l'anonimato dei candidati, potrebbe essere stato compromesso. Mancano i soldi. Davanti a questo nutrito elenco di contestazioni, l'Avvocatura dello Stato ha messo le mani avanti. "Nella denegata ipotesi in cui i ricorsi relativi al contenzioso venissero accolti", recita un documento redatto dal Miur e da poco depositato davanti al Tar del Lazio, "una ammissione in sovrannumero comporterebbe ripercussioni economiche considerevoli, in quanto imporrebbe allo Stato il reperimento delle risorse finanziarie necessarie all'erogazione di ulteriori contratti di formazione specialistica". "Anche l'ammissione di un solo medico in più", prosegue minaccioso il documento, "comporterebbe l'onere di reperire risorse aggiuntive da stanziare tramite appositi provvedimenti legislativi (circa 125.000 euro in più per ogni specializzando)". Una mossa legittima, anche se i giovani ricorrenti meriterebbero forse un giudizio - decisivo per il loro futuro - capace di entrare nel merito delle irregolarità denunciate senza fermarsi davanti allo spauracchio della spesa pubblica. Dal Paese che li spinge in massa verso l'estero dopo anni di sacrifici sui libri, meriterebbero maggiore considerazione e trasparenza.

Concorsi pubblici, tutti i casi sospetti. Il pasticciaccio delle scuole di specializzazione in medicina, per il quale i giovani medici manifestano a Roma, è l’ultimo episodio di un lungo elenco di irregolarità, favoritismi e trucchi. Dalla Farnesina alla Polizia penitenziaria nessuno è escluso. A partire dalle selezioni per insegnanti e ricercatori, scrive Michele Sasso su  “L’Espresso”. Una manifestazione di specializzandi di medicina a Roma. Le prove, l’errore e il dietrofront. Dopo giorni di polemiche, il ministero dell’Istruzione cerca di mettere una pezza al pasticciaccio  del concorsone per l’accesso alla scuole di specializzazione in medicina. Un test fondamentale per accedere alle oltre cinquemila borse di studio diventato tristemente famoso per l'annullamento che ha colpito più di 11mila candidati. Dopo avere rilevato una “grave anomalia” il ministro Stefania Giannini ci ripensa e annuncia: «Le prove per l’accesso del 29 e 31 ottobre non dovranno essere ripetute. Abbiamo trovato una soluzione che ci consente di salvare i test». Una pezza dopo l’annuncio di una valanga di ricorsi. Le dimissioni di Emilio Ferrari, il responsabile del Consorzio universitario che ha preparato il test di ingresso, non sono servite a stoppare la manifestazione davanti al Miur. In piazza i giovani medici che la settimana scorsa hanno partecipato alle selezioni. Non è la prima volta che un concorso pubblico finisce con una figuraccia e una protesta di piazza. Tra caos, ricorsi, graduatorie ritoccate e interventi della Magistratura non c’è settore della pubblica amministrazione immune all’aiutino. Il prestigioso posto di ambasciatore junior del ministero degli Esteri si è trasformato, secondo le critiche, in una corsia preferenziale per chi ha parentele famose. In ballo 35 posti per il gradino più basso della carriera alla Farnesina: la questione è finita con otto interrogazioni parlamentari e ombre pesanti sul ministero degli Esteri. Perfino alle prove per diventare poliziotti si scoprono bluff. Lo scorso maggio alla scuola di formazione della Polizia penitenziaria di Roma si aprono le porte ai concorrenti al concorso pubblico per 208 posti di agente. Test e prove attitudinali per andare a lavorare nelle carceri italiane. Durante gli scritti la commissione esaminatrice scopre tre aspiranti con in tasca le risposte esatte ai quiz di selezione. L’elenco delle valutazioni sballate, superficialità e grossolani errori per scegliere gli insegnanti della scuola italiana è lungo. Nel 2010 nel concorso per dirigente scolastico il Ministero mette online i temi delle prove e arrivano una valanga di segnalazioni. Tanti, troppi errori e un quiz su sei viene ritirato. Nonostante gli accorgimenti all‘apertura delle buste nei cento quiz c’erano ancora degli strafalcioni. Per i tirocini formativi attivi (Tfa) obbligatori per diventare insegnanti si replica con ancora quiz errati e si ottiene ammissione dei ricorrenti alle prove scritte. Per l’ultimo concorso a cattedra la Giannini è stata costretta a un decreto correttivo. «Ogni volta è la stessa storia», commenta Marcello Pacifico del sindacato Anief:«Non sono le dimissioni di un presidente ma la gestione delle prove selettive che non trova mai un responsabile. Non è possibile che proprio le domande e le risposte per accertare il merito contengano degli errori». Tra le maglie delle selezioni anche casi clamorosi di familismo amorale e concorsi truccati su misura. A Palermo la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio dell'ex preside della facoltà di Medicina Giacomo De Leo e di Salvatore Novo, professore ordinario e direttore della scuola di specializzazione in Cardiologia dell'università locale insieme ad Alberto Balbarini, docente di malattie cardiovascolari a Pisa. Complici e menti (con l’accusa di truffa, soppressione di atto pubblico e falsità ideologica) di un presunto concorso truccato per un posto da ricercatore universitario nel loro dipartimento bandito nel lontano 2004. Il concorso, secondo gli inquirenti, venne truccato per consentire alla figlia di Novo, Giuseppina, l'aggiudicazione del posto. L'inchiesta parte da Bari, e indaga su una serie di concorsi truccati in diverse facoltà della Penisola. Secondo gli investigatori, ci sarebbe stato un vero e proprio accordo tra Novo e De Leo per far vincere il concorso alla figlia del cardiologo. A garantire il posto assegnato a tavolino doveva essere Mario Mariani, altro docente universitario di Pisa, nominato membro della commissione esaminatrice. All'ultimo momento, però, Mariani scopre di essere indagato dai pm baresi e fa un passo indietro. È allora che, secondo i magistrati, i due docenti distruggono il verbale con cui Mariani era stato designato commissario d'esame e lo sostituiscono con uno identico in cui mettono il nome di Balbarini. Quest'ultimo, vicino a Mariani, sarebbe stato al corrente di tutto. Dopo dieci anni la ricercatrice ha fatto carriera e oggi può vantare il titolo di docente alla scuola di specializzazione in cardiochirurgia. L’ateneo? Quello di Palermo, naturalmente.

VA TUTTO BEN MADAMA LA MARCHESA. INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO E LAVAGGIO DEL CERVELLO.

Il “Tutto va ben, madama la marchesa” trae le sue origini da una vecchia canzone francese che narra di un servitore che cerca di rassicurare una marchesa al telefono, mentre le comunica che il suo palazzo è andato a fuoco in seguito al suicidio del marito.

Questa è la cultura contemporanea.

Editto Bulgaro, Bertolino: «Me lo aspettavo». Verro (Cda Rai) nel 2010 scrisse a Berlusconi. Nel mirino 8 trasmissioni. Tra cui Glob. Il comico e conduttore: «Ora capisco tante cose. La satira dà ancora fastidio», scrive Francesca Buonfiglioli su “Lettera 43”. Enrico Bertolino cade dalle nuvole. «Sa che si dice che anche il suo programma Glob fosse nella lista nera di Antonio Verro, consigliere di amministrazione Rai?». «Francamente no, ero all'estero. Me lo sta dicendo lei», risponde il comico e autore a Lettera43.it. Ma non è stupito più di tanto. «Adesso ho capito perché hanno cancellato il programma», aggiunge ridacchiando amaro. «Me lo aspettavo». Poi scherza: «Adesso faremo i martiri per un po' di tempo». La lettera scritta da Verro all'allora premier Silvio Berlusconi nel 2010 - e scoperta da Il Fatto Quotidiano - è già stata ribattezzata «Editto bulgaro bis». Il consigliere d'amministrazione Rai esprimeva la sua preoccupazione all'allora ancora Cav circa «otto trasmissioni» che lo preoccupavano. Delle quali aveva addirittura allegato schede sintetiche. Nel mirino, ci sarebbero state anche Annozero di Michele Santoro, Parla con me di Serena Dandini, Che tempo che fa di Fabio Fazio, Ballarò di Giovanni Floris In 1/2 Ora di Lucia Annunziata, Report di Milena Gabanelli e Lineanotte di RaiTre. Tutti programmi pericolosi perché, è la spiegazione, «fortemente connotati da teoremi pregiudizialmente antigovernativi». La missiva si concludeva poi con un «grosso abbraccio» che tradisce quali fossero i rapporti ben oltre l'istituzionale tra il gran capo di Mediaset e parte del Servizio Pubblico. Ma se il condannato Berlusconi ora è all'opposizione, Verro si trova ancora al suo posto. «Ora mi spiego perché nel 2010 siamo stati fermi un giro...», dice Bertolino. «Spero solo che questa lettera non valga ancora».

DOMANDA. Che effetto fa essere un sovversivo?

RISPOSTA. Piacevolissimo. Soprattutto perché qui in Italia non ci sono le modalità di lotta alla satira francesi. Diciamo che siamo più cautelati.

D. Secondo lei perché Glob era considerato scomodo?

R. Perché, a differenza di altri programmi, veniva seguito da destra e da sinistra. Insomma, ci rivolgevamo agli indecisi. Quelli più influenzabili.

D. La satira, anche sulla comunicazione, fa ancora paura?

R. La satira sì. La politica per molto tempo ha chiesto e sopportato solo la parodia.

D. Cioè?

R. Le imitazioni. Quelle celebrano, mentre la satira dà fastidio.

D. Con costi ridotti riuscivate a ottenere comunque un discreto successo.

R. Le decisioni della Rai raramente seguono logiche industriali. Glob tra l'altro costava un'unghia, era una produzione Itc-Rai, quindi interna, ed è stato una fucina di autori...

D. E lo share?

R. Andavamo in onda in tardissima serata. E poi, va detto, come tutte le trasmissioni, vivevamo di traino. C'erano serate difficili e serate in cui riuscivamo a portare a casa percentuali a doppia cifra.

D. Solo merito del traino?

R. No, sono convinto che gli spettatori crescessero perché si addormentavano col telecomando in mano (ride, ndr).

D. Lei pare affezionato agli editti bulgari.

R. Già, ero già finito nel mirino. Ma non sono certo paragonabile a Daniele Luttazzi o Sabina Guzzanti che hanno pagato pensantemente...

D. Non era simpatico a Berlusconi.

R. Ma arrivavo dopo Gene Gnocchi e Dario Vergassola.

D. L'allora direttore generale di Viale Mazzini Mauro Masi la apostrofò con «quel comico bergamasco». Uno smacco?

R. Un po'. Però fu una grande pubblicità. Come quella volta che ci cacciarono da un teatro di Imperia...

D. Perché?

R. Scajola aveva organizzato una manifestazione con Berlusconi e fummo sfrattati dal teatro.

D. Un cursus honorum il suo. E adesso chi disturberebbe Glob?

R. Adesso mi incuriosisce molto lo stile di Matteo Salvini.

D. E che stile sarebbe?

R. Molto social. Come altri politici twitta gli appuntamenti che ha in tivù e poi interroga la Rete su cosa ha detto.

D. Salvini veramente twitta anche durante i talk...

R. E io proibirei l'uso dei cellulari e dei tablet durante le trasmissioni.

D. Sempre che i talk sopravvivano...

R. Negli Stati Uniti si sta sperimentando un nuovo linguaggio televisivo. Basta con le Ophra e i Letterman.

D. Restiamo a casa: da osservatore cosa nota nei salotti nostrani?

R. Mi incuriosiscono le persone sedute dietro i politici. Quelli che annuiscono. Con cui gli ospiti interagiscono per cercare una complicità diretta. Un esempio? Salvini che ha mostrato in diretta la felpa con la scritta «Renzi a casa» a una signora del pubblico.

D. Ma quello del talk non è un format è da rottamare?

R. Di sicuro non si sa più come vivacizzare le trasmissione. Io avrei una idea...

D. Dica.

R. Vorrei presentarmi da Ballarò vestito da Batman per illustrare i problemi di Gotham City con alle mie spalle Robin che annuisce.

D. E a parte gli scherzi?

R. Il problema è che ormai la televisione è piena da mattino a sera di opinionologhi.

D. Opinio che?

R. Opinionologhi. Se gli opinionisti hanno una loro idea, gli opinionologhi se ne creano una alla bisogna. Sono sempre gli stessi in video da Omnibus a Lineanotte. E twittano in continuazione. Vorrei capire quando scrivono sui giornali...

D. Un po' tuttologi.

R. Mi piacerebbe che ogni tanto qualcuno su un determinato tema dicesse di non avere un'opinione precisa. Ma il maestro di tutto questo è Gianfranco Funari.

D. Funari?

R. Una volta mi presentai a una sua trasmissione su Telemontecarlo. Quella con due tribune contrapposte. Mi disse: «Te, con gli occhi azzurri mettete da sta parte». Scoprì successivamente che dovevo sostenere la tesi di chi non si fa operare da un chirurgo donna.

D. E lei che fece?

R. Gli dissi che non ero d'accordo.

D. E lui?

R. Mi rispose: «E che te frega, mettete là e inventate qualcosa. Facciamo un po' di confusione».

D. Non è cambiata molto la televisione...

R. No, Funari in questo era un maestro, un demiurgo.

Mail di Oliviero Beha a Dagospia. Caro Dago, ho seguito con molto interesse la vicenda del Consigliere Rai di ora e di allora  Antonio Verro, dal cognome e la facies di antico romano, ripresa qui da Vulpio e per interposto “Libero” da Facci. Il mio interesse non si deve alla cosa in sé, alle solite menate Rai, all’ipocrisia dilagante da sempre ecc., tutto repertorio di pessima qualità che conosco come le mie tasche fino alla noia, bensì alle reazioni polemiche allo “scoop” ritardato, a partire da quella di Santoro. Se uno non sapesse come stanno davvero le cose in un Paese orrendo di mafie, mafiette, clan e camarille, di sedicenti buoni contro cattivi dichiarati in un’interpretazione partitocratica per bande fatte di banditi nei due significati, potrebbe pensare che la vita in carriera di Santoro sia stata un autentico calvario, con qualche salita e discesa dal Golgota. Non credo che sia andata biograficamente proprio così. Ha fatto egregiamente gli affari suoi per un quarto di secolo, ha travestito ottime trasmissioni spesso di parte da impegno politico in realtà vendendo (e benissimo) una merce, in primis se stesso, è entrato e uscito da Rai e Mediaset e Parlamento europeo (non credo esattamente da “intellettuale disorganico”…), ha detto rientrando in Rai dieci anni fa che si sarebbe battuto per gli epurati e non è accaduto, adesso ritira fuori il nome di Luttazzi strumentalizzando anche il bravissimo esiliato. Va tutto bene insomma, ma forse il nostro Michele ventrale (tv di pancia…) non è proprio la figura adatta, con le carte in regola, per parlare di censura, editto o non editto bulgaro. Anzi, presumo non sappia neppure dove stia di casa, la censura, concetto relativo che viene adoperato a proprio uso e consumo di volta in volta. Se vuole, ne possiamo parlare, anche pubblicamente… In tutto questo Verro, Tarantola (e Grilli, l’allora Ministro di competenza, e Ponzellini, e la Bpm, e l’indagine “sabbiosa” della Banca d’Italia ai suoi tempi, cara Presidente? Non sono cose che stanno insieme e che nessuno racconta agli italiani distratti ?), Gubitosi e tutto il profumato presepe Rai restano sullo sfondo, come retaggio di un costume che nessuno sa o vuole rottamare… Ma per favore, almeno prudenza nell’indignazione: chi ha davvero la faccia per parlare senza essere sputtanato?

L'antisemitismo di Vauro in tribunale non esiste. Ma ci perseguita da sempre. Naso a becco e stella di Davide: nella vignetta usata la simbologia dei razzisti. I giudici lo assolvono, io lo citerò alla Corte per i diritti umani, scrive Fiamma Nirenstein su “Il Giornale”. Quando guardo la vignetta di Vauro con la mia caricatura, che di nuovo un tribunale italiano ha assolto accusando invece contro ogni logica Peppino Caldarola che ne ha denunciato il significato, penso: bravo Vauro, ha saputo compendiare tutto il significato dell'antisemitismo contemporaneo in una sola immagine. Ambiguo, polivalente, saldamente ancorato nella tradizione antisemita classica, io col naso a becco, un mostro, un essere deumanizzato, con la stella di Davide cucita come esigevano i nazisti con gli ebrei, e moderno, consapevole del fatto che basta trovare una qualche ragione popolare per odiare gli ebrei e appiccicarglielo, come quel distintivo del Pdl accanto al fascio littorio appiccicato a me. Proprio a me? Sono Fiamma? Con la mia storia di femminismo? Diritti umani? Iraniani perseguitati? Tanti libri? Tanta storia? No, sono l'ebrea di Vauro. L'antisemitismo all'Onu, forse non è un fatto molto noto, non si enuncia mai in quanto tale dopo la Shoah: nel '64 la parola «antisemitismo» non venne ammessa come riferimento nella «convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale», perchè, si disse, era un problema di intolleranza religiosa. Fra le intolleranze religiose, non fu ammessa perchè era un problema razziale. Non ci sono effetti o conseguenze nelle risoluzioni dell'Onu per gli antisemiti, perchè non esistono. Anche Vauro non è antisemita: non esistono. Ovunque l'odio è seminato da vignette come quelle di Vauro, una delle tante aggressioni antisemite che ho ricevuto nella vita. Ma io posso parlare, scrivere e viaggiare, una scorta della polizia italiana mi ha protetto per tanti anni da minacce insistenti e reiterate, ma stavolta bisogna che dica a Vauro: basta con l'incitamento. Io la citerò alla Corte europea dei diritti umani, e cercherò giustizia perché come dice Shylock, mangiamo lo stesso cibo, siamo feriti dalle stesse armi e se si punge un ebreo, forse che non sanguina? Io sanguino, quel naso è mio, quello spregio al corpo femminile nella sua vignetta è al mio proprio corpo di donna, la stella di Davide è sul mio petto, quelle ferite per evocare Frankenstein di fatto inconsciamente lei le ha disegnate su un corpo ossuto come quelli dei morti ad Auschwitz, come quelli dei miei nonni. Io so cos'è l'antisemitismo: ho scritto parecchio sull'argomento, fra cui un libro intitolato L'antisemita progressista. Non ce n'è uno che ammetta di esserlo. È dal 2008, quando Vauro stampò la vignetta sul Manifesto, che mi porto quella stella di David, la sua, e non va bene. Invece lo schiaffo è stato reiterato dalla sentenza in appello. L'antisemitismo oggi è inconsapevole, e anche giustificato, Vauro di certo mi ha messo quel fascio addosso perchè decide lui se un ebreo possa scegliere di candidarsi con il Pdl. Altri decisero a suo tempo, se poteva avere un negozio, o una cameriera cristiana, o se poteva andare a scuola con gli altri studenti, o lavorare in Banca, come mio nonno che ne fu cacciato. Anche la bambina che alle elementari mi chiese se avevo la coda non sapeva affatto di essere antisemita, lo chiedeva per curiosità. Non lo sanno quelli che mi hanno accusato di essere la capa della lobby sionista in Italia e alla Camera finché ci sono rimasta, e persino tutti quelli che mi hanno minacciato di morte. I più recenti che mi hanno preso di mira citano la mostrificazione che fa di me Vauro. Basta giuocare la battaglia sul campo contiguo, quello in cui non si parla di niente, e l'antisemitismo è un giuoco ideologico. Eppure i morti ci sono.

"La sinistra è come l'islam chi dissente è perseguitato". Il vignettista Forattini va all'attacco: "Mi hanno fatto fuori, si possono toccare tutti tranne loro", scrive Eleonora Barbieri su “Il Giornale”. Giorgio Forattini è a Parigi. «Ho casa da vent'anni, qui nel Marais, a ridosso del quartiere ebraico». Non lontano dalla redazione di Charlie Hebdo . «Io mi sono disegnato a cavallo, con la matita in una mano che regge la bandiera francese e la scritta: Allons enfants de la satyre ».

In questi giorni hanno difeso tutti la libertà di satira, in piazza è scesa anche la sinistra. Lei fa vignette da quarant'anni. Che ne pensa?

«Intendiamo la sinistra italiana?».

La sinistra italiana.

«E che cosa vuole che ne pensi? Mi hanno sempre perseguitato: puoi toccare tutti, tranne loro. Detto ciò quello che è successo è una cosa atroce, tutti sono con tutti i satirici, fra l'altro quelli di Charlie Hebdo sono di sinistra. Ma la nostra sinistra credo sia ipocrita».

Perché dice che è stato perseguitato?

«Come in Unione Sovietica, o sotto il fascismo, la sinistra si muove come un partito totalitario, dittatoriale: o sei di sinistra o sei fascista, qualunquista, blasfemo, berlusconiano. Così mi hanno combattuto, mi hanno fatto subire processi, servendosi dei giudici che sono dalla loro parte, perché non hanno davvero l'idea della satira libera».

Ha ricevuto una ventina di querele, non si sarà lamentata solo la sinistra.

«Qualche cosa dalla Dc, dal Vaticano... ma i guai sempre da sinistra. Quando Berlusconi era al governo l'ho fatto in tutti modi: non mi ha mai querelato. A Repubblica avevano paura anche a sfottere Stalin».

Il caso più celebre è quello di D'Alema.

«Da allora la mia vita è cambiata. Nel '99 feci questa vignetta sull'affare Mitrokhin. Mi chiese tre miliardi, c'erano ancora le lire. Ero a Repubblica : non mi difese nessuno».

Nessuna solidarietà?

«Macché. Li ho avuti contro. E neanche l'Ordine mi ha difeso».

Neanche un po' di solidarietà dai colleghi?

«Molti sì, ma me lo dicevano a voce. Dai vertici niente, si tirarono indietro. Ma io sono un uomo libero e per me la satira è libertà».

Quindi?

«Quindi presi e andai via. Sa, tre miliardi di danni sono come uccidere un uomo. Per fortuna l'Avvocato mi fece un contratto splendido alla Stampa . E allora D'Alema ritirò la querela».

Quindi non si è scusato?

«No, non mi sono mai scusato, per carità. E ne sono fiero. Del resto sono uno dei pochi vignettisti e satirici indipendenti, tutti sono legati ai partiti».

Ma D'Alema l'ha più incontrato?

«Una volta, per strada. Io l'ho salutato, ma lui ha tirato dritto. Comunque anche da Repubblica non mi hanno più richiamato, davo fastidio».

Prima però non aveva avuto problemi.

«Davo fastidio anche prima. A volte mi dicevano: "Questa vignetta non possiamo pubblicarla", e io: "Non ne faccio un'altra, metteteci la foto del direttore". Oppure a una certa ora Scalfari mi diceva: "Allora, hai finito questa vignetta?" e io: "Un momento direttò, non mi si è ancora asciugato il bianchetto"... Poi sono stato sostituito da gente che stava agli ordini, io non facevo mai vedere prima la mia vignetta. Il fatto è che l'Italia e gli italiani non sono abituati alla satira».

In Francia è diverso?

«Quando raccontavo quello che succedeva, qui a Parigi si mettevano a ridere. C'è totale libertà. Anche per vignette molto violente, cattive. I politici non si sono mai azzardati a toccare gli autori, solo gli islamici l'hanno fatto, perché loro non si identificano con la Francia, ma solo con l'islam. Come da noi la sinistra».

In che senso?

«Per la sinistra o sei con loro o sei il nemico e ti perseguitano. Non puoi parlare di loro, come per gli islamici non puoi parlare dell'islam».

Ma lei ha fatto vignette sull'islam?

«Sì, in passato, contro i fanatici musulmani. Le ho fatte anche sulla Chiesa, ho preso in giro il Papa, qualche cardinale si è lamentato, ma nessuna minaccia o querela. Non sono arrivate le guardie svizzere a prendermi a casa».

A chi si è ispirato fra i vignettisti?

«Jacovitti. Un maestro. Sa, io ho grande solidarietà verso i disegnatori, ma non ne ho ricevuta nessuna da parte di quelli italiani».

Con chi ce l'ha?

«Per esempio Giannelli, l'ho messo io al Corriere . Il direttore Stille mi chiamò, ma all'epoca io stavo bene a Repubblica e così gli consigliai il numero uno di quelli che lavoravano con me a Satyricon , cioè Giannelli».

E poi?

«Poi lui mi fece disegnato da balilla e io lo mandai al diavolo. Mi telefonò e gli risposi che non bisogna mai essere schiavi dei partiti, che devi essere indipendente... Poverino».

C'è più censura oggi o quando ha iniziato negli anni Settanta?

«Più oggi. Perché la sinistra ha preso il potere. Io ho iniziato tardi, a 40 anni, sono entrato con un concorso a Paese sera , poi ho iniziato a occuparmi di politica e in contemporanea a fare vignette per Panorama , per anni sotto la Dc lavoravo tranquillo, ma anche con Berlusconi. Facevo Spadolini tutto nudo... Ora vede, nel mio ultimo libro ho fatto Renzi come Pinocchio, e Napolitano è mastro Geppetto».

Perché Renzi è Pinocchio?

«Gli ha mai sentito dire cose che si sono avverate? Come dicono a Roma, pure lui nun ce capisce niente. E poi ha quel naso lì».

I politici più permalosi?

«D'Alema il massimo. Craxi solo una volta mi ha chiesto 70 milioni, ma Repubblica lì mi aveva difeso».

Spadolini?

«Noo, aveva la raccolta dei miei disegni».

Andreotti?

«Pure. Lui stesso mi sfotteva, col suo humour».

Di Pietro?

«Ah, lui non mi ha mai perdonato. Ho ricevuto anche una condanna».

È vero che vedeva in anteprima le vignette?

«Qualcuno gliele faceva avere prima, sì, e lui era anche capace di non fare uscire i giornali... Un vero democratico. Io non faccio il santo, ma sono un italiano puro: non ho mai colpito l'Italia. Amo la Patria. E per questo sono fascista? No, sono un italiano vero».

Senta, Berlinguer?

«Un altro. Ammazza se s'arrabbiava. Tremendo».

Beh, l'ha disegnato che sorseggiava il tè in salotto, durante un corteo di operai...

«Certo, certo, quello il partito non l'ha mai sopportato».

Però ha anche fatto un sacco di soldi, coi difetti dei politici.

«Sì. Ma li avrei fatti lo stesso, anche libero da minacce. Querelare è un senso di non libertà».

Anche quando c'è un insulto?

«Io non ho mai insultato. Magari ho fatto qualcosa di forte, ma ho sempre rispettato la persona. Poi io ho fatto ventimila vignette, qualche decina di querele sono niente. Ma chi le fa, ecco, non sa che cosa sia la satira, non è un uomo libero».

Il limite qual è?

«L'onestà di chi disegna. Non deve essere espressione di un movimento politico, ma di estrema libertà».

C'è qualcosa di tabù?

«Il buongusto, il fare umorismo: è sberleffo, ma mai condanna, uccisione del nemico, anche con una vignetta. Non deve essere persecuzione ma facciamoci una risata, anche su di voi».

Quando la satira non fa ridere?

«Spesso. In Francia fa ridere, ma in Italia si fa per fare politica, per affossare la parte avversa».

È militante?

«Brava. Ma la satira militante non può essere satira. C'è qualcuno che fa satira, ma sono pochi e si autocensurano. Perché se no la sinistra e i giudici ti tappano la bocca: se uno ti chiede tre miliardi di danni, è come una condanna a morte».

Non esagera? Visto quello che è successo.

«È una battuta, certo, ma è come togliere il lavoro a una persona. E poi un capo del governo che colpisce per una vignetta, che cosa farebbe in una dittatura? Perciò si assimila molto agli islamici che la pensano così, che vogliono la distruzione del nemico, la ghigliottina per chi non la pensa come loro».

È ancora amico di Scalfari?

«Io sono stato tra i quaranta fondatori di Repubblica , fu lui a chiamarmi. Ma da quando ho lasciato non ci siamo più visti. Non abbiamo litigato, ma lui non mi ha difeso e io non posso perdonarlo. È ancora vivo?».

È vero che va sempre dal parrucchiere?

«Sì, tengo molto ai miei capelli. Li porto lunghi perché mi considero un uomo del Settecento. Però ogni tanto mia moglie mi bacchetta, e allora vado a tagliarli».

Ma i vignettisti, come si dice dei comici, sono sempre tristi?

«Sì, sono molto triste. Ho anche perso mio figlio pochi anni fa, aveva cinquant'anni, ci eravamo riavvicinati. Non mi sono più tirato su. Riesco a fare le vignette, faccio qualche battuta, ma mi ha cambiato la vita. Comunque è vero, in genere i satirici non sono degli allegroni. Come il nuovo numero di Charlie Hebdo , è pieno di vignette ma è anche pieno di lacrime».

La satira? Roba da miliardari comunisti! Scrive Bruno Giurato su “Il Giornale”. La satira non ha a che vedere col dire le parolacce: pupù e pipì e pisellino e fessurina. Quella è solo (e non necessariamente) la forma dell’espressione. L’oscenità o la blasfemia non sono garanzia di buona satira, perché la satira, prima di tutto, ha a che vedere con una cosa: dire la verità. Se non dice a verità, se non svela in inedito incontrovertibile, se non apre una radura di luce tra le stecchite boscaglie del luogo comune, il lavoro del satirico è una retorica come un’altra: seriosa, doverosa, pallosa. Ed ecco che arriva un grande e vero satirico e la verità la dice, tutta. Parliamo di Maurizio Milani. Uno che usa la maschera dell’umorismo surreale (immancabilmente definito “stralunato”, che noia!), e lombardo-padano per dire verità, anche pesantissime. A Modena BUK Festival domenica prossima, viene presentato il libro Je Suis Charlie? La satira riflette su se stessa ma le viene da ridere (Sagoma Editore, pp. 128, 9,50 euro). Il volume ospita contributi da Dario Vergassola a Moni Ovadia, da David Riondino a Staino, Marco Carena, Rita Pelusio, gli Skiantos, Pietro Sparacino, Cochi Ponzoni, Max Pisu. E poi c’è lui. Milani. Che in questo testo smonta bel bello tutta la retorica del “satiro” come eroe del nostro tempo. E per fortuna che c’è lui, Milani, che, come sempre facendo di tutto per NON essere preso sul serio scrive cose come: “In Italia la satira è sempre stata in mano ai comunisti. In trent’anni di cabaret ho partecipato a diversi show in tv e in teatro e non mi è mai capitato di conoscere un autore o un produttore della Democrazia cristiana”. Oppure: “Adesso è saltato fuori il problema di quanto la satira debba essere libera. Benissimo! Bel dibattito, molto completo, che lascio volentieri ai miliardari comunisti nelle loro tenute agricole in campagna. Dove si fa tutto Ogm free. Tanto per loro il raccolto è lo 0,5% del reddito che incassano con l’indotto. Indotto fatto per anni a scherzare su Mara Carfagna o Sandro Bondi, tutte persone notoriamente pericolose per le reazioni sproporzionate che potrebbero avere”. Ed è un colpo magnifico a tutto il birignao della satira di sinistra, ai “satiri” di professione, a quelli che citano etimologie latine e Dari Fo a ogni colpo di pedale sulla cyclette del già detto. Ci voleva Milani. Uno che la verità la dice davvero. E senza nemmeno un pipì-pupù-pisellino-fessurina. Senza nemmeno una parolaccia una.

La nostra satira? Attacca Bondi, altro che martiri. Quanta ipocrisia nei comici italiani neo paladini della libertà d'espressione: sono gli stesso gli stessi che emarginano da sempre chi è diverso e non la pensa come loro, scrive Maurizio Milani su “Il Giornale”. In Italia la satira è sempre stata in mano ai comunisti. In trent'anni di cabaret ho partecipato a diversi show in tv e in teatro e non mi è mai capitato di conoscere un autore o un produttore della Democrazia cristiana, il mio partito. Il più bello e il più completo. Dicevo: tutti, dico tutti, erano e sono comunisti. Qualcuno come me si adeguava, facendo finta di essere comunista. Non per vantarmi, ma fin da ragazzo sono sempre stato falso. Oggi, poi, ancora peggio. Se posso, truffo sempre il mio simile. Adesso è saltato fuori il problema di quanto la satira debba essere libera. Benissimo! Bel dibattito, molto completo, che lascio volentieri ai miliardari comunisti nelle loro tenute agricole in campagna. Dove si fa tutto Ogm free. Tanto per loro il raccolto è lo 0,5% del reddito che incassano con l'indotto. Indotto fatto per anni a scherzare su Mara Carfagna o Sandro Bondi, tutte persone notoriamente pericolose per le reazioni sproporzionate che potrebbero avere. Non per vantarmi, ma il mio problema è tirar su mille o millecinquecento euro al mese. Senza contare che finisco per farmi compatire e sbeffeggiare nelle pubbliche mense di Milano dove sono in fila: «Guarda come si è ridotto a non fare la tessera del Pd, aveva così un bel posto alla Rai». Un altro: «Ma è un povero scemo». Io: «Avete ragione, a questo punto parlo e faccio il pentito di cabaret. Dirò tutto: come si diventa affiliati, chi c'è dietro ai comici di regime e dove finisce parte dei compensi». Che io sappia, dovrei essere uno dei primi pentiti di cabaret. E visti i tempi che corrono, credo di poter rientrare nel programma di protezione della Dia. In alternativa, potrei assicurare ai satirici di Capalbio irreversibili vuoti di memoria in cambio di cinquantamila modesti euro in nero, da consegnare entro domani a piazza Eleonora Duse, dove ho il covo. Nel frattempo sono stato giustamente scaraventato fuori dal mondo del cabaret. Per cui mi arrangio con il bracconaggio. Cosa che facevo già prima, ma come hobby. E, già che siamo in confidenza, se avete biciclette rubate, o altro che sia facile da smerciare, portatele da me, sempre a piazza Duse al 2. Dispiace dirlo qui, però a questo punto parlo e vuoto il sacco: «Sì! Sono un ricettatore». Per queste affermazioni sono stato rinviato a giudizio per auto-calunnia, che è quello che volevo; mettermi in mostra verso l'opinione pubblica ed essere nominato al Parlamento in quota gruppo misto. Ma accetto anche una candidatura nel movimento di Grillo. Certo, parlo nel mio interesse; ma come ho fatto il ruffiano una volta, potrei farlo ancora. Cioè, tradire il mandato elettorale passando alla concorrenza. Che è sempre stato il mio sogno: deludere i miei amici facendo la spia.

La satira piace alla sinistra solo se è contro la destra. La Boldrini rimprovera Virginia Raffaele: «La sua ministra Boschi è sessista», scrive Sarina Biraghi su “Il Tempo. L’insostenibile leggerezza della satira. A sinistra. E sì, perché per la Sinistra non esiste la parità, né di genere né di satira. Come dire, gli imitatori possono essere irriverenti, inopportuni, feroci e autonomi soltanto quando il potere è a Destra. Infatti, l’imitazione fatta dall’attrice e comica Virginia Raffaele del ministro per le Riforme istituzionali, Maria Elena Boschi, andata in onda martedì su Ballarò, non è stata affatto digerita, neanche dalla diretta interessata. A manifestare questo storico disagio, ieri, un’altra donna, la presidente della Camera Laura Boldrini, ospite di «In Mezzora». «Mi è dispiaciuto vedere la satira della Boschi - ha detto Boldrini - Ci sono tanti modi per fare satira, ma quando si cede al sessismo diventa altro e l’apprezzo di meno». Per la verità, rispondendo alle domande di Lucia Annunziata, Boldrini ha detto anche che in passato alcune parlamentari di Forza Italia hanno «subito dei torti» dello stesso tipo. Quanto all’imitazione di Francesca Pascale, Boldrini ha aggiunto: «Non l’ho vista ma se aveva gli stessi accenti sessisti mi sarebbe dispiaciuto». A donna Laura è semplicemente dispiaciuto, ma ai Democrat ha dato molto fastidio visto che il renziano Michele Anzaldi, segretario della commissione di vigilanza Rai, ha scritto addirittura una lettera alla presidente Anna Maria Tarantola chiedendole se l’imitazione della Boschi fosse «servizio pubblico». Si sa che le imitazioni sono sempre feroci, ma quella della bella ministra fiorentina non ci è parsa così cattiva. La Raffaele l’ha descritta come una maestrina che sa a memoria il programma di governo ma quando un giornalista le rivolge qualche domanda concreta, parte in sottofondo l’indimenticabile colonna sonora di «Un uomo e una donna» e lei si trasforma: occhioni da cerbiatta, bolle di sapone, una sirena ammaliatrice che diventa una miagolante gattina. Certo, quando si è giovani non si sopporta di essere considerate più belle che brave, ma Maria Elena deve farci il callo, proprio lei che per il giuramento al Colle sfoggiò un tailleur pantalone blu elettrico attillato con decollete tacco 12 (giusto per non passare inosservata) e, ancor prima, nella famosa riunione della Leopolda, altro tacco 12 ma leopardato. E se a Ballarò, la sua compagna di partito Alessandra Moretti rideva di gusto, quando la Raffaele imitava Francesca Pascale con tanto di Dudù in braccio, non si è alzato nessun sinistro sgomento tanto da scomodare i vertici Rai... Certo bisogna riconoscere che l’onorevole Mara Carfagna, oltre ad essere bellissima, giovane e affascinante, è anche molto sportiva considerate le battute grottesche con cui veniva bersagliata da Enrico Lucci o dalle battute maschiliste di Neri Marcorè o dalle pure offese di un’altra donna come Sabina Guzzanti... Senza parlare di Nicole Minetti o Daniela Santanchè. Va bè, diciamolo, a sinistra la bellezza è più bellezza, la bravura è più bravura, la serietà è più serietà...la sinistra è diversa nella misura in cui è superiore perché le donne belle della Destra sono «messe lì» da qualche uomo ma non sono intelligenti e preparate, invece quelle della Sinistra sono brave, preparate, impegnate, conquistano per meriti le cariche in politica e soltanto incidentalmente possono essere belle donne... però battute sulla bellezza non si devono fare. Inutile poi rilevare il doppiopesismo anche nelle reazioni alla satira sulla Boschi. Perché Anzaldi può scrivere alla Tarantola e mettere in dubbio il servizio pubblico della Rai e l’eventuale deformazione nella considerazione delle donne, però quando il centrodestra insorgeva contro la satira dei fratelli Guzzanti durante il secondo governo Berlusconi era «inopportuna», o quando Berlusconi interveniva sugli attacchi, sempre sulle reti del servizio pubblico, di Biagi, Luttazzi e Santoro allora era «censura», era «editto bulgaro». Infine, il dem Anzaldi, sempre nella missiva alla presidente Rai, non risparmia una lezioncina sulla satira che «normalmente, secondo la definizione fatta propria anche dalla Cassazione, punta a “castigare ridendo mores”, ovvero a mettere in risalto in maniera comica caratteristiche esecrabili e discutibili di un personaggio pubblico. In questo caso la colpa del ministro sarebbe quella di essere affascinante?». E allora, mentre oggi si voterà la parità di genere nella riforma della legge elettorale, i comici sono avvertiti: le imitazioni soltanto di donne brutte altrimenti, di uomini.

Renzi, Grillo, Travaglio, Salvini: Ecco a voi i “nuovi Farinacci”, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Il capo del quarto ( o terzo) partito italiano, Matteo Salvini, l’altro ieri non è andato al colloquio con il presidente della Repubblica e ha motivato questa sua (legittima) decisione con una frase offensiva contro Mattarella (”Cosa dovevo andare a chiedergli, il numero di telefono del suo parrucchiere?”). Il Presidente del Consiglio chiama gufi i dirigenti del suo partito che esprimono dissenso nei suoi confronti, e dopo una riunione della Direzione del Pd nella quale ritenne di aver sconfitto Massimo D’Alema, ex presidente del Consiglio, commentò esprimendosi in questi termini: ”Lo ho asfaltato”. Volete che citi qualche dichiarazione di Marco Travaglio? Non c’è bisogno, credo, basta dire che il suo giornale una volta ha pubblicato un editoriale intitolato (”La repubblica delle troie”) e che lui abitualmente usa polemizzare storpiando il nome del suo interlocutore, o affibbiandogli un soprannome insolente. Di Grillo cosa posso dirvi? Che chiama Berlusconi il nano, Bersani lo chiamava, mi pare, Zombi o Gargamella, Renzi lo chiama ”bimbo-minchia”. Fermiamoci qui. Anche perché queste poche citazioni non servono in alcun modo a rappresentare il campionario vastissimo, dilagante, dell’uso dell’offesa, camuffata da sberleffo, per sostituire la polemica politica di sostanza. Io dico: sostituire. Non dico: rafforzare. La durezza dello scontro politico non è una novità, esisteva già nella prima Repubblica, quando la battaglia si inaspriva e i dissensi politici si allargavano e si drammatizzavano. Però, allora, lo spunto era il dissenso, la diversità di opinioni su una grande questione, e l’offesa era un di più. Ora l’offesa è la sostanza e il dissenso sfuma, non si vede o quantomeno è secondario. Mi ricordo, trent’anni fa, fu Claudio Martelli, educato filosofo milanese, a rompere le righe e usare il termine ”neuro-comunismo”(al posto di ”euro-comunismo”) per insultare Enrico Berlinguer. E successe il finimondo, perché fu considerato uno strappo alla buona educazione politica. Martelli lo fece nel corso di un intervento in Parlamento mentre era in corso un ostruzionismo del Pci contro il taglio della scala mobile che durò tre mesi e si concluse solamente, il 7 giugno del 1984, perché Berlinguer fu colpito da un ictus che poi ne provocò la morte. Lo scontro era feroce: ma su un tema sociale, non sulla ricerca dell’urlo, della clamorosità, della ferocia, dell’esaltazione dell’odio come strumento per radunare le proprie truppe. Anche l’ostruzionismo del Pci era uno strumento per radunare le truppe, ma non sull’adesione a un’invettiva bensì sulla difesa di un interesse di gruppo (di classe, si diceva allora) e cioè sul terreno del più puro e drammatico scontro sociale. La ”beatificazione” della volgarità, del trivio, del bullismo estremo, come metodo di lotta politica è invece una eredità del fascismo. C’era un famoso gerarca, che si chiamava Roberto Farinacci, origini popolari e poi breve carriera giornalistica in alcuni giornali locali prima socialisti e poi fascisti, che veniva definito dai suoi stessi camerati ”Farinacci il selvaggio”, era uno specialista in questo tipo di polemica politica. Annientare gli avversari, colpire basso, senza riguardi, puntare all’umiliazione, alla demolizione dell’interlocutore. E poi sorridere, e chiamare l’applauso del circo dei propri sostenitori. Salvini, Grillo, Travaglio e vari altri giornalisti, lo stesso Matteo Renzi, amano questo agonismo politico. Ieri il premier ne ha fatta un’altra. Ha detto che presto l’Italia supererà la Germania come potenza industriale, e diventerà la prima potenza industriale d’Europa. Voi sapete che Mussolini dichiarò: «Spezzeremo le reni alla Grecia». E che quella frase infelice (anche perché l’Italia in Grecia finì con le reni rotte) è diventata un po’ il simbolo della spacconeria politica idiota. Beh, a dire il vero aveva più probabilità Mussolini di vincere la guerra con la Grecia che Renzi di portare l’industria italiana a superare quella tedesca. Lo stile però è quello. Considerare la politica un campo nel quale si fa spettacolo, vince chi recita meglio. E questa scelta porta all’imbarbarimento del linguaggio, che è un imbarbarimento di sostanza. L’imbarbarimento prende il posto dello scontro tra visioni diverse, o dello scontro di classe, o della battaglia ideologica. Non c’è niente da fare, torna il mito di Farinacci. Sgrammaticato, un poco ignorante, digiuno della politica vera, ma aggressivo e capace di fare dell’aggressività la bandiera del fascismo. Io non credo che in Italia esista un pericolo fascista. Altre volte ho polemizzato contro la retorica antifascista, che è stata per settant’anni lo scudo dietro il quale la sinistra ha coperto le sue difficoltà politiche, e che ha usato per ricucire trame di unità quando era più divisa. Penso che quell’antifascismo, spesso illiberale, sempre retorico, militaresco, blindato, sia qualcosa da buttar via. Pericoloso, perché è un antifascismo che scimmiotta il fascismo. Quello del Pd, o dei centri sociali, è lo stesso. Oggi nella società ci sono tanti e diversissimi ”semi” illiberali, autoritari, razzisti, che attraversano come una lunghissima cicatrice tutto il campo politico, dalla sinistra estrema a Casapound. Senza distinzioni profonde. Condizionano il pensiero e il senso comune di partiti e di larghi ceti professionali e sociali, dalla borghesia al proletariato, dalla magistratura, alla chiesa, alla scuola, all’intellettualità. Dove mi pare che il fascismo – lo spirito di quello che a me sembra il fascismo moderno – emerge con più chiarezza è proprio in questo linguaggio della ”demolizione” e dell’odio. Farinacci aveva usato l’invettiva triviale – in parte degradando alcuni temi dannunziani o futuristi – con uno scopo rivoluzionario. Riteneva che quel linguaggio spezzasse luoghi comuni, rovesciasse tabù, potesse accompagnare un fortissimo rivolgimento sociale. ”Sparava sul quartier generale”, come più tardi fecero gli adepti di Mao Tse Tung nella rivoluzione culturale cinese. Il risultato – in un caso e nell’altro – fu la vittoria di chi odiava la libertà, la dignità, la storia. L’estrema conseguenza di quelle lotte triviale furono i falò di libri. Oggi non è molto diverso. Grillo e Travaglio, e con loro Salvini dicono che stanno radendo al suolo il quartier generale. Renzi dice che lui sta rottamando. Lo so che non lo sanno di esser fascisti. Lo so che molti possono ritenere che questo non sia un male. Io dico solo questo: che assomigliano tutti, maledettamente, a Farinacci ( per il quale, peraltro, ho molto rispetto: perché morì, eroicamente, fucilato senza processo da un tribunale del popolo).

Poi con questa cultura di sinistra tutto ha un altro colore.

Gino Paoli, i soldi in nero per la Festa dell'Unità (e quel fermo in frontiera in Svizzera), scrive “Libero Quotidiano”. Ombre (nere) su Gino Paoli, sospetto "furbetto" fiscale, accusato di evasione per aver trasferito un vero e proprio tesoretto in Svizzera. E nel day-after dello scandalo, ecco arrivare altri particolari succulenti sulla vicenda. Tra questi, uno forse lo è più degli altri: il cantautore avrebbe intascato soldi (in nero) per partecipare alle feste dell'Unità, quelle della sinistra per intendersi. E non solo: alla frontiera svizzera è stato fermato mentre cercava di rientrare in Italia con una eccessiva (e sospetta) quantità di contanti, e per questo è stato multato dai doganieri. Gino Paoli, 81 anni, è finito nell'occhio di ciclone. Lui tenta la difesa tramite il suo avvocato, Daria Pesce, che spiega: "E' assurdo che questa vicenda sia finita in pasto al pubblico, e comunque sono tutte balle e lo dimostrerò". Ma tant'è. L'attuale presidente della Siae nonché ex deputato del Partito comunista italiano, secondo la procura di Genova, in Svizzera avrebbe un conto da circa 2 milioni di euro. Mica bruscolini. Come detto, una parte consistente di questo denaro deriverebbe dai compensi ricevuti in nero per concerti svolti in tutta Italia e alle feste dell'Unità. Ma sui pagamenti in nero dei "compagni" non ci sono soltanto i sospetti. Già, perché ci sono quelle che assomigliano a granitiche certezze. Lo stesso Paoli, infatti, ha spiegato che all'epoca - tra il 2000 e il 2010 - era stato "costretto" ad accettare dei pagamenti in nero "alle feste dell'Unità, e adesso - aggiunge - quei soldi vorrei riportarli indietro". Parole e musica che emergono da una telefonata intercettata nei primi mesi del 2004. All'epoca il cantautore non era intercettato, ma lo era invece Andrea Vallebuona, commercialista di cui Paoli era cliente, finito in manette a maggio per truffa e riciclaggio di soldi proprio in Svizzera. La vicenda-Paoli si arricchisce poi con l'episodio dello scorso dicembre: il cantautore è stato fermato dai finanzieri a uno dei valichi di confine con la Svizzera. Stava tornando in Italia, ed è stato perquisito. Il risultato? Sono state trovate parecchie banconote. Troppe banconote, troppe almeno rispetto a quanto è consentito dalla legge: secondo le indiscrezioni si trattava di diverse migliaia di euro. Così è scattata una segnalazione fiscale e una sanzione pecuniaria.

Da Bandiera rossa ai fondi neri, scrive Renato Farina su “Il Giornale”. La Guardia di finanza ha appurato, dicono, che Gino Paoli ha portato in Svizzera due milioni di euro: evasione fiscale della più bella specie. In parte queste entrate occultate a Lugano, ripetono, si riferiscono a pagamenti in nero per esibizioni alle Feste dell'Unità. La nostra solidarietà va a Gino Paoli e alle Feste dell'Unità. Perché? Lo ha spiegato giovedì sera a Virus , intervistato da Nicola Porro, Vincenzo Visco, il famoso ministro delle Finanze di Romano Prodi. Ha detto Visco: «L'evasione fiscale è chiaramente di destra, perché le tasse servono a finanziare i servizi pubblici, e su questi temi la sinistra è chiaramente più sensibile». Chiaramente, il ragionamento non fa una grinza, anzi un Grinzane. Per questo solidarizziamo: Gino Paoli e il giornale fondato da Antonio Gramsci, con relativa festa, sono dei nostri, quinte colonne in territorio nemico, pronti a sacrificarsi agli ideali dell'evasione fiscale, che com'è notorio sono la nostra bandiera, espressione della nostra civiltà. Avevo a dire il vero già vissuto un'esperienza personalmente molto istruttiva un paio di decenni fa, andando per una sera a bere birra al Leonkavallo, il centro sociale guidato allora dal mio quasi omonimo Daniele Farina, attuale deputato anti-evasione di Sel. La bionda era buona, la scura meno, ma con il cavolo che vidi l'ombra di uno scontrino fiscale. Sono cose borghesi. Imparai allora una legge molto semplice e che è confermata dalle testimonianze di questi giorni: l'evasione fiscale è di destra, per dirla come Visco, «chiaramente di destra», ma gli evasori sono chiaramente di sinistra. Sono arrivato a maturare l'idea che sia una perfida astuzia dei (...)(...) compagni. Si noti: l'evasione di Gino Paoli e della Festa dell'Unità è del 2008. Chi andò allora al governo? Berlusconi. Dunque una forma di lotta politica antiberlusconiana poteva benissimo essere quella di incrementare l'evasione fiscale per darne la colpa a Silvio. Questa è pura dialettica marxista. O forse, andando alle purissime origini del marxismo-leninismo, bisogna risalire alla fase svizzera del bolscevismo. Quando Parvus e Stalin, al tempo in cui Lenin risiedeva lì, accumularono fondi neri per la rivoluzione nei forzieri delle banche di Zurigo, grazie a rapine, grassazioni finanziarie e matrimoni con ricche ereditiere. Così forse Gino Paoli, di cui si ricorda l'esperienza di deputato comunista, naturalmente indipendente. Esperienza che lo ha accomunato a Corrado Augias, ora anche lui - sia chiaro, da presunto innocente - accusato di essere golosissimo di prebende in nero dall'organizzatore del premio Grinzane-Cavour. Il rosso ama molto il nero, specie se è un artista, ed è una buona premessa per la riconciliazione nazionale. Ci resta una domanda. Chi sono stati, dagli anni dei Ds a quelli del Pd e fino al 2008 (anno del presunto transito di talleri da Genova alla Svizzera), i direttori dell' Unità la quale dava il suo bel nome alle sobrie feste dove girava allegro il nero tra le bandiere rosse? Ce ne sono tre: Furio Colombo fino al 2004, poi Antonio Padellaro fino ad agosto del 2008, quindi Concita De Gregorio. Idea: siete giornalisti ancora più famosi di allora. Mettete su una bella inchiesta su come si è costruito e occultato il falso in bilancio, sfruttando come testimonial le vostre facce di certo pulitissime? Domandatevi come mai quello che secondo Gino Paoli era un sistema a cui era impossibile sottrarsi è invece sfuggito persino al fiuto sgamatissimo dei vostri reporter così abili a prendersela con gli idraulici, i commercianti e i piccoli imprenditori. Un mito intoccabile, le Feste dell'Unità. Quando dopo la fine dei Ds e la nascita del Pd qualcuno minacciò di sopprimerle, cambiandone il nome, intervenne proprio Antonio Padellaro. Scrisse un memorabile panegirico in difesa della loro purezza, condita proletariamente di grasso e sudore colanti da salsicce e da militanti. Dopo aver ovviamente citato come minimo un premio Nobel, nel nostro caso per la precisione Elias Canetti, sentenziò: «Le Feste dell'Unità sono le Feste dell'Unità». Una delle poche verità, si suppone, apparse su quelle pagine dalla fondazione gramsciana. Aggiunse che non si può «cancellare qualcosa che resta comunque nel cuore di milioni di persone». Qualcosa resta nel cuore di milioni di persone; qualche milione resta nel conto svizzero di alcuni più persone degli altri. Ecco, Visco parla anche di falso in bilancio a Virus . Sostiene che «era preoccupatissimo fino all'altro ieri», ma poi con «l'allentamento del Patto del Nazareno» è più tranquillo. In che senso, scusi? Qualcuno lo informi: evasione è ideale di destra, ma falso ed evasione sono pratiche di sinistra. La morale? Come scrisse Montanelli: «Ho conosciuto molti mascalzoni che non erano moralisti, ma non ho mai conosciuto un moralista che non fosse un mascalzone».

Il M5S chiede le dimissioni di Gino Paoli, Grillo si scusa e lo difende, scrive “Il Secolo D’Italia”. «Premetto che Gino Paoli è mio amico e quindi potrei essere considerato poco obiettivo. Ma a questo gioco al massacro di una persona di 80 anni non pregiudicato, mai inquisito, per alcunché, che mi risulti, io non ci sto! I cittadini sono diventati vittime sacrificali, mostri da sbattere in prima pagina senza che possano difendersi». Così Beppe Grillo sul suo blog, si schiera col cantante indagato per evasione fiscale, che a quano pare ha sostenuto di essere stato “costretto” a incassare soldi a nero alla feste dell’Unità. Grillo è dalla sua parte: «Io non ho mosso i miei contro Gino Paoli. Aspetto la magistratura prima di emettere qualunque giudizio, alla faccia degli sciacalli dell’informazione». Il leader del movimento 5 stelle in mattinata aveva chiamato Paoli “per scusarsi con lui dopo gli attacchi del Movimento 5 stelle”. Lo ha riferito il legale del cantautore Andrea Vernazza. Nella giornata di ieri il gruppo alla Camera del M5s aveva infatti diffuso un comunicato nel quale si chiedeva a Paoli di “valutare seriamente le dimissioni dalla sua carica” alla presidenza della Siae. Una mossa non gradita a Grillo, che oggi spiega: «Il Secolo XIX ha pubblicato un titolo di condanna che non ammette replica: “Maxi evasione in Svizzera, blitz della Finanza a casa di Gino Paoli” dal quale un lettore distratto evince che Paoli avrebbe evaso senza alcun dubbio cifre persino superiori al Costituzionalista di Arcore condannato per truffa fiscale», scrive Grillo che parla di “un articolo costruito su delle ipotesi che si para il culo con l’uso dei condizionali”. «Sbatti il mostro in prima pagina. Nel caso Paoli risulti innocente, e questo lo decideranno i giudici e non i giornalisti, chi lo risarcirà?». Grillo continua: «Il Secolo XIX si sdegna per “la mancanza di rispetto dell’amico Beppe Grillo. Ieri il Movimento 5 Stelle che ha chiesto le dimissioni di Paoli da presidente della Siae. La fretta con la quale Grillo ha mosso i suoi, però, è sintomo di un giustizialismo cinico, per nulla democratico”. Io – scrive però il leader M5s in un post che si conclude con “Sapore di sale” – non ho “mosso i miei” contro Gino Paoli.

Beppe Grillo difende Gino Paoli: "E' un mio amico, non si massacra così un ottantenne", scrive “Libero Quotidiano”. "Io non ci sto". Beppe Grillo affida a un post sul suo blog la difesa di Gino Paoli, finito nell'occhio del ciclone per una presunta evasione fiscale milionaria. "Premetto che Gino Paoli è mio amico da molti anni e che spesso le nostre famiglie si incontrano vivendo nella stessa zona di Genova. Quindi potrei essere considerato poco obiettivo", scrive il leader del Movimento Cinque Stelle. "Ma a questo gioco al massacro di una persona di 80 anni non pregiudicato, mai inquisito, per alcunché, che mi risulti, io non ci sto!". Nel suo articolo, dal titolo #SaporeDiSale, Grillo denuncia: "I cittadini sono diventati vittime sacrificali, mostri da sbattere in prima pagina senza che possano difendersi in alcun modo". "Il Secolo XIX - prosegue Grillo - ha pubblicato un titolo di condanna che non ammette replica: 'Maxi evasione in Svizzera, blitz della Finanza a casa di Gino Paoli' dal quale un lettore distratto evince che Paoli avrebbe evaso senza alcun dubbio cifre persino superiori al Costituzionalista di Arcore condannato per truffa fiscale. Nell’articolo si legge 'Le Fiamme gialle stanno indagando su una presunta maxi evasione in Svizzera'. Quindi per ora 'l’evasione è presunta'. Continuiamo: 'Paoli risulta indagato: a metterlo nei guai sarebbero alcune intercettazioni di conversazioni avvenute con il suo commercialista'. Quindi 'sarebbero', che in italiano vuol dire forse che si, forse che no. Poi in una sola frase che vuole essere di condanna senza appello si introducono ben tre dubbi amletici: 'Secondo l’accusa il cantautore genovese (che attualmente ricopre la carica di presidente della Siae) avrebbe trasferito nel 2008 due milioni di euro all’estero, si ipotizza in Svizzera' Secondo l’accusa a cui si potrebbe ribattere il contrario scrivendo 'Secondo la difesa', 'avrebbe trasferito' e dagli con il condizionale. Paoli ha trasferito illegalmente i soldi o no? E infine la perla: 'si ipotizza in Svizzera', ma per questo si potrebbe ipotizzare qualunque posto nel mondo, per esempio dove hanno trasferito (qui senza condizionale) soldi pubblici i partiti. L’immagine che si vuole traferire", prosegue Grillo, "è quella di Paoli 'spallone' con un sacco pieno di euro che valica le Alpi, magari di notte con la luna piena. Nell’articolo è compresa anche una ricca fotogallery della visita dei finanzieri e giornalisti vari a casa di Paoli e poi un’altra coppia sensazionale di condizionali nel resto dell’articolo: 'L’evasione fiscale, secondo gli investigatori, ammonterebbe quindi a circa 800 mila euro e non sarebbero stati dichiarati nel 2009'.'L’evasione fiscale ammonterebbe ... che non sarebbero'". Secondo Grillo, "un articolo costruito su delle ipotesi che si para il culo con l’uso dei condizionali. Sbatti il mostro in prima pagina. Nel caso Paoli risulti innocente, e questo lo decideranno i giudici e non i giornalisti, chi lo risarcirà? Il Secolo XIX si sdegna per 'la mancanza di rispetto dell’amico Beppe Grillo. Ieri il Movimento 5 Stelle che ha chiesto le dimissioni di Paoli da presidente della Siae. La fretta con la quale Grillo ha mosso i suoi, però, è sintomo di un giustizialismo cinico, per nulla democratico". Io non ho "mosso i miei" contro Gino Paoli. Come ho scritto, aspetto la magistratura prima di emettere qualunque giudizio, alla faccia degli sciacalli dell’informazione. Sapore di sale".

Due pesi e due misure. Beppe Grillo difende Gino Paoli, furia del M5s: e il post sparisce dal blog, scrive “Libero Quotidiano”. Il post di Beppe Grillo con il quale difendeva Gino Paoli è sparito dal suo blog. Il post scritto dal leader M5S per difendere l'amico indagato con l’accusa di aver evaso il fisco, non è più visibile in home page né tantomeno nei link accessibili dalla colonna sulla destra. È possibile leggere la difesa di Grillo tramite apposita ricerca sul blog, ma il post non è più visibile agli internauti che aprono beppegrillo.it. Una mossa probabilmente dettata dall'esigenza di smorzare le polemiche degli attivisti che sotto il post lo avevano attaccato accusandolo di usare due pesi e due misure. "Tu hai espulso per molto meno", gli ricorda un militante con un commento sotto l'artico contro gli sciacalli dell’informazione' che sbattono il mostro in prima pagina. Un altro sottolinea che "difendere gli amici o attaccarli prima della certezza del reato a mio parere è sbagliato". Un altro dice perentorio: "No. No agli amici degli amici. L’onestà deve andare di moda, anche se i disonesti li conosciamo di persona". C’è chi è ancora più tranchant: "Grillo ma cosa stai dicendo? Ora siccome è tuo amico lo difendi? Stai prendendo una bella cantonata". E chi senza mezzi termini scrive: "Mi stai disgustando, e pensare che ti ho votato". E ancora, chi sarcastico spiega: "Anch’io vorrei spezzare una lancia a favore di un mio caro amico, Pepp’ò stuort, anche lui di 80 anni ed anche lui delegittimato da uno Stato che gli rema contro. I condizionali, i congiuntivi e bla, bla, bla...". Un altro attivista M5S attacca: "Beppe, a rischio di essere da te accusato di invecismo, ti dirò che invece ci dovresti proprio stare, anche se davvero si trattasse di gioco al massacro! È vero o non è vero che il M5S ha chiesto le dimissioni di Paoli dalla presidenza SIAE?! È vero! E allora?! Allora non dire che non ci stai quando ci sei già stato!". Un alto punta il dito: "Se ha rubato, e penso che lo abbia fatto, amico di Grillo o no è un ladro come i politici i vari merdosi pieni di soldi. Se non lo ha fatto, la verità uscirà, il Movimento non protegge gli amici di Grillo o amici di altri se ha rubato in galera". Anche perchè, come scrive un altro militante 5 stelle, "chi evade con intenzione e volontà le tasse è un ladro, non importa quanto. Chi protegge un ladro è un complice. Chi ruba un pezzo di pane per non morire di fame è un disperato, e molto probabilmente lo è proprio per colpa dei primi due". Tra i pochi commenti che si schierano al fianco di Grillo, invece, c’è chi se la prende con il giornalismo che "ormai in Italia è tutta una farsa, scrivono sempre per ipotesi, tanto se dopo la persona è innocente i giornalisti se ne fregano. Io da 5 anni non compro nessun giornale". E c’è chi fa dietrologia: "Gino Paoli ha commesso il gravissimo errore di aver detto, durante un’intervista recente, di condividere tutto ciò che dice Grillo. La stampa di regime non poteva non fargliela pagare". O anche: "Insomma anche Tiziano Ferro e la Giannini e chissà quanti altri hanno problemi con il fisco... Ho l’impressione - è la tesi - che siano 'bombe' mediatiche per distrarre l’opinione pubblica dal disastro renziano".

CINQUE STELLE CADENTI. Beppe Grillo fa il garantista Ma solo con gli amici. Il comico assolve Paoli ma condanna gli altri, scrive  Alberto Di Majo su “Il Tempo”. Ha chiesto le dimissioni di tutti. O quasi. Non ha mai guardato in faccia nessuno. Dal presidente della Repubblica (Napolitano) in giù. Non parliamo poi degli indagati. Li ha condannati su due piedi, sul suo blog o in Parlamento. Non ha perdonato nemmeno i «suoi»: ha espulso al volo dal MoVimento i consiglieri regionali finiti nelle inchieste sulle presunte spese pazze dei gruppi politici. Ben prima che le indagini finissero. Eppure stavolta, Beppe Grillo si scopre, improvvisamente, garantista. Tanto da spiazzare gli stessi esponenti del MoVimento. Di fronte a Gino Paoli, indagato per evasione fiscale, il comico è costretto a smentirsi da solo. L’ammette lui stesso all’inizio del suo post: «Premetto che Gino Paoli è mio amico da molti anni e che spesso le nostre famiglie si incontrano vivendo nella stessa zona di Genova. Quindi potrei essere considerato poco obiettivo». Poi aggiunge: «A questo gioco al massacro di una persona di 80 anni non pregiudicato, mai inquisito, per alcunché, che mi risulti, io non ci sto! I cittadini sono diventati vittime sacrificali, mostri da sbattere in prima pagina senza che possano difendersi in alcun modo». Ovviamente se la prende con i giornali: «Il Secolo XIX ha pubblicato un titolo di condanna che non ammette replica: "Maxi evasione in Svizzera, blitz della Finanza a casa di Gino Paoli" dal quale un lettore distratto evince che Paoli avrebbe evaso senza alcun dubbio cifre persino superiori al Costituzionalista di Arcore condannato per truffa fiscale. Nell’articolo si legge "Le Fiamme gialle stanno indagando su una presunta maxi evasione in Svizzera". Quindi per ora "l’evasione è presunta". Continuiamo: "Paoli risulta indagato: a metterlo nei guai sarebbero alcune intercettazioni di conversazioni avvenute con il suo commercialista". Quindi "sarebbero", che in italiano vuol dire forse che sì, forse che no». Ma tutte queste precisazioni (giuste, visto che «indagato» non significa «condannato») perché Grillo non le ha mai sollevate per i politici che, negli anni, ha preso di mira? Il comico attacca: «Nel caso Paoli risulti innocente, e questo lo decideranno i giudici e non i giornalisti, chi lo risarcirà?». E chi risarcirà i politici additati come «mafiosi» o «corrotti» da lui e dai 5 Stelle (ultimo il ministro dell’Interno Alfano) senza che siano state emesse le sentenze? O chi risarcirà gli ex 5 Stelle cacciati perché indagati? «Aspetto la magistratura prima di emettere qualunque giudizio, alla faccia degli sciacalli dell’informazione». In fondo, meglio tardi che mai.

Evadere sarà roba di destra ma gli evasori sono di sinistra. Visco spara sui moderati, ma dovrebbe guardare in casa propria. In quanti hanno avuto guai con le tasse, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. «Le tasse servono a finanziare i servizi pubblici e su questi temi la sinistra è chiaramente più sensibile». L'ex ministro dell'economia, Vincenzo Visco, in un'intervista concessa a Virus giovedì scorso, ha riproposto la propria personale teoria sociologica (che poi è la stessa di tutti coloro che hanno il cuore a sinistra e il portafogli dall'altra parte): «l'evasione è di destra». Senza se e senza ma, per Bacco. A sentir queste parole parrebbe di capire che la propensione a evadere sia un correlato genetico dell'uomo di destra. Esempio fulgido ne sarebbero i veneti. «Un popolo per natura antistatalista», ebbe a dire nel 2007 l'inventore del Grande Fratello fiscale che ficca il naso nel nostro conto in banca e in tutte i meandri della nostra vita. Ma il social-moralismo di Visco e dei suoi fans è una brutta bestia: l'etica e l'estetica (come la fisica) si fondano su schemi e tesi soggettive che l'esperienza spesso si incarica di smentire. E questo è il caso del nostro ex ministro che ha parlato proprio nel giorno nel quale a Gino Paoli è stata contestata una presunta evasione fiscale di 800mila euro per aver trasferito 2 milioni di euro in Svizzera senza dichiararlo. Le ironie sul web si sono sprecate (tipo «Il cielo in una banca, quattro amici al bar e due milioni in Svizzera») nei confronti dell'attuale presidente della Siae nonché ex deputato Pci che poi s'è giustificato pure affermando «alle feste dell'Unità ero costretto a prendere i soldi in nero» e, dunque, voleva rimpatriare i capitali non scudati in maniera regolare. Ecco, basterebbe già questo forse per dimostrare che un'icona della musica italiana e santino della sinistra (come tutta la scuola cantautorale genovese) non sia poi moralmente e geneticamente diverso da tutti gli altri. Però, se si analizzano alcuni fatti di cronaca più o meno recenti, non è che nelle citazioni si ritrovino solo personaggi con la tessera di Forza Italia o della Lega Nord negli elenchi, come Visco vorrebbe darci a intendere. Tornando indietro di qualche giorno, nelle dichiarazioni dell'inventore del Premio Grinzane Cavour, Giuliano Soria, emerge uno spaccato non proprio edificante del rapporto tra sinistra politico-intellettuale e il vil danaro. «Ho sostenuto l'allora sindaco Sergio Chiamparino in due occasioni», ha dichiarato ai giudici della Corte d'Appello aggiungendo che la ex presidente della Regione Mercedes Bresso «lo usava per le sue attività». Soldi per tutti giornalisti, attori e artisti. «Corrado Augias, era assillante sui pagamenti in nero: era vorace», ha aggiunto specificando che «partivo per Stresa con 100mila euro per gli attori», tra i quali viene citata Stefania Sandrelli, oltre che ex compagna di Gino Paoli nonché attiva partecipante ad alcune iniziative di Ds e Margherita. Tutti coloro che sono stati citati da Soria hanno respinto al mittente le accuse definendole calunnie. Sarà il magistrato a stabilire e ad accertare. Ma non si può non rilevare come il governatore piemontese, Sergio Chiamparino, abbia una storia tutta interna alla sinistra. E così pure per Corrado Augias che ogni giorno su Repubblica offre ai lettori la sua Weltanschauung. A proposito di Repubblica. Al gruppo Espresso, del quale è presidente la tessera numero uno del Pd Carlo de Benedetti, è stata contestata una presunta evasione fiscale da 225 milioni di euro. Un po' troppo per un editore che in tutti questi anni ha imputato a Silvio Berlusconi di aver corrotto la morale degli italiani. Ma, si sa, in Italia c'è chi è «inagibile» e chi invece ha la fortuna di battere strade meno impervie. Eppure per lanciare una fatwa bisognerebbe essere sopraffini esegeti, ma probabilmente nei testi sacri dell'Ingegnere manca qualche pagina. Idem per il direttore del quotidiano di Largo Fochetti, Ezio Mauro, «pizzicato» qualche anno fa a pagare parzialmente in nero (circostanza mai smentita) un immobile a Roma. Anche il noto giornalista utilizza spesso toni moraleggianti. Più che di etica della sinistra si potrebbe parlare di etica luterana. Pecca fortiter sed crede fortius , diceva l'eretico tedesco, ossia «Pecca fortemente, ma credi con ancora maggior vigore». Basta strologare sulla destra e si è perdonati. Qualche atto di contrizione in più dovrà recitarlo l'ex governatore sardo ed europarlamentare piddino, Renato Soru, alias Mister Tiscali. All'imprenditore, in quanto presidente del gruppo tlc, è stata attribuita una presunta evasione su un'operazione di prestito con una controllata britannica. Il dibattimento inizia il 6 marzo, ma intanto sul buon Soru pende una cartella Equitalia da 9 milioni dopo aver disatteso un accordo con il fisco. Lo dicevamo all'inizio, essere di «sinistra» in Italia è come avere uno speciale passaporto per l'oblio di tutto ciò che non è bellezza, rigore, solidarietà, misura, amore per il prossimo, impegno. Vale per Lorenzo «Jovanotti» Cherubini, referente ideologico del veltronismo che nel 1999 patteggiò una condanna per il reato di frode fiscale con un'ammenda di 1,2 milioni di vecchie lire: meno di 600 euro per chiuderla con un'omessa dichiarazione di circa ventimila euro. «Io lo so che non sono solo anche quando sono solo». Chissà se l'avrà cantata anche Pierino Tulli, imprenditore romano a capo di un gruppo di cooperative al quale è stata contestata 7una maxievasione da 1,7 miliardi. E dire che Veltroni lo voleva presidente della Lazio al posto di Claudio Lotito.

BELLA CIAO: INNO COMUNISTA E DI LIBERTA’ DI SINISTRA.

Il testo di “Bella Ciao”.

Una mattina mi son svegliato,
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
Una mattina mi son svegliato
e ho trovato l'invasor.

O partigiano, portami via,
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
O partigiano, portami via,
ché mi sento di morir.

E se io muoio da partigiano,
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
E se io muoio da partigiano,
tu mi devi seppellir.

E seppellire lassù in montagna,
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
E seppellire lassù in montagna
sotto l'ombra di un bel fior.

E le genti che passeranno
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
E le genti che passeranno
Mi diranno «Che bel fior!»

«È questo il fiore del partigiano»,
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
«È questo il fiore del partigiano
morto per la libertà!»

I testi di Faccetta nera e Giovinezza che mai faranno cantare a scuola.

FACCETTA NERA

Se tu dall'altopiano guardi il mare,

moretta che sei schiava tra gli schiavi,

vedrai come in un sogno tante navi

e un tricolore sventolar per te.

Faccetta nera, bell'abissina

aspetta e spera che già l'ora s'avvicina

quando saremo vicino a te

noi ti daremo un'altra legge e un altro Re.

La legge nostra è schiavitù d'amore

il nostro motto è libertà e dovere

vendicheremo noi camice nere

gli eroi caduti liberando te.

Faccetta nera, bell'abissina...

Faccetta nera, piccola abissina,

ti porteremo a Roma liberata

dal sole nostro tu sarai baciata

sarai in camicia nera pure tu.

Faccetta nera sarai romana,

la tua bandiera sarà sol quella italiana,

noi marceremo insieme a te

e sfileremo avanti al Duce, avanti al Re.

GIOVINEZZA testo del 1922

Su, compagni in forti schiere,

marciam verso l'avvenire

Siam falangi audaci e fiere,

pronte a osare, pronte a ardire.

Trionfi alfine l'ideale

per cui tanto combattemmo:

Fratellanza nazionale

d'italiana civiltà.

Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza,

nel fascismo è la salvezza

della nostra libertà.

Non più ignava nè avvilita

resti ancor la nostra gente,

si ridesti a nuova vita

di splendore più possente

Su, leviamo alta la faccia

che c'illumini il cammino,

nel lavoro e nella pace

sia la vera libertà.

Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza,

nel fascismo è la salvezza

della nostra libertà.

Nelle veglie di trincea

cupo vento di mitraglia

ci ravvolse alla bandiera

che agitammo alla battaglia.

Vittoriosa al nuovo sole

stretti a lei dobbiam lottare,

è l'Italia che lo vuole,

per l'Italia vincerem.

Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza,

nel fascismo è la salvezza

della nostra libertà.

Sorgi alfin lavoratore

giunto è il dì della riscossa

ti frodarono il sudore

con l'appello alla sommossa

Giù le bende ai traditori

che ti strinsero a catena;

Alla gogna gl'impostori

delle asiatiche virtù.

Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza,

nel fascismo è la salvezza

della nostra libertà

 

GIOVINEZZA testo successivo

Salve o popolo di eroi,

salve o Patria immortale,

son rinati i figli tuoi

con la fe' nell'ideale.

Il valor dei tuoi guerrieri

la virtù dei pionieri

la vision dell'Alighieri

oggi brilla in tutti i cuor.

Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza

della vita nell'asprezza, il tuo canto squilla e va.

Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza

del Fascismo è la salvezza per la nostra libertà.

Dell'Italia nei confini

son rifatti gli Italiani,

li ha rifatti Mussolini

per la guerra di domani

Per la gloria del lavoro

per la pace e per l'alloro

per la gogna di coloro

che la Patria rinnegar.

Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza

della vita nell'asprezza, il tuo canto squilla e va.

I poeti e gli artigiani

i signori e i contadini,

con orgoglio di Italiani

giuran fede a Mussolini.

Non v'è povero quartiere

che non mandi le sue schiere,

che non spieghi le bandiere

del fascismo redentor.

Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza

della vita nell'asprezza, il tuo canto squilla e va.

Bella Ciao. A 4 anni. Stamattina sono andato alla festa di fine anno dell’asilo di mio figlio qui a Milano, scrive Nicola Porro. Ha quattro anni e come i suoi coetanei ha indossato una maglietta colorata. Mi siedo e ascolto i cori che fanno le diverse classi: canzonette regionali rappresentative dell’unità d’Italia. Il tema generale erano i 150 anni dell’Italia e i bambini erano vestiti con magliette che formavano il tricolore. La recita va avanti con un repertorio di classici: Va pensiero, il Piave. E finalmente, si fa per dire, arriva Bella ciao. Si finisce poco dopo con l’inno d’Italia. Vi devo dire che non è mi è piaciuta. Che razza di scuola insegna ad un bambino di 4 anni, Bella Ciao?

Polemiche alle elementari di Porta Nuova sulla decisione di far cantare agli alunni un ritornello ispirato all' inno partigiano. Bella ciao a scuola. «E noi disertiamo la festa». Alcuni genitori minacciano di boicottare la recita di fine anno. Il preside: non è un canto sovversivo, scrive Sacchi Annachiara su “Il Corriere della Sera”. Canteranno in coro « Scuola ciao » . Per salutare i bambini di quinta elementare e dare l' arrivederci a compagni e insegnanti. Si metteranno in ordine per classe, come hanno imparato durante le prove. Il ritornello farà così: « Scuola ciao, scuola ciao, scuola c i a o c i a o ciao » , sulle note della canzone partigiana Bella ciao . E, a quel punto, un gruppetto di genitori minaccerà di andarsene. Portandosi via anche i figli. Festa di fine anno con polemica, quella di oggi alle elementari dei Bastioni di Porta Nuova. L' inno della Resistenza, scelto come « base » per il commiato dei bambini, ha incontrato prima qualche perplessità tra alcuni docenti e genitori per scatenare, poi, una vera e propria ostilità. « Le maestre sono state povere di idee: potevano scegliere qualsiasi altro motivo » . A parlare è la mamma d i uno dei 260 bambini iscritti. « Sono di origini friulane, per me quella canzone ha un significato forte. Certo, qui a Milano non ci sono ricordi drammatici come i nostri, ma è stato comun que un errore clamoroso, una grave leggerezza. E la cosa peggiore è che questa vicenda sarà strumentalizzata politicamente » . Polemiche o no, i bambini canteranno comunque. La festa seguirà fedelmente il programma: giochi all' aperto, mostra di manufatti e il grande coro finale. Lo ha deciso il preside dell' istituto, Alberto De Donno: « Bella ciao non è un canto sovversivo o anticostituzionale, fa parte della tradizione popolare. Certo, forse si poteva scegliere Ciao Mare , ma in ogni caso il nostro è un messaggio di auguri. Lo ripeto: non c' è nessuna volontà di dividere o di colorare politicamente la festa dei bambini. Il brano è stato scelto perché è molto orecchiabile » . Parole ribadite in una lettera scritta dal preside a insegnanti e famiglie: « È un canto innocente » . E per una nuova polemica ne riaffiora un' altra passata, quella sul presepe. « Sotto Natale, all' ultimo minuto - è la replica di alcune mamme - ci è stato spiegato che il presepe poteva offendere i bambini di religione non cristiana . Risultato: non si è fatto. Ma se siamo noi quelli offesi, allora non succede niente » . Sospira i l preside: « L' anno prossimo cercheremo di rendere più unita la scuola: questi, evidentemente, sono segnali di sofferenza. Sono dispiaciuto perché la festa voleva unire, non dividere. Speriamo solo che i genitori non ritirino i bambini al momento del canto » .

Il caso segnalato da “La Gazzetta di Modena”. “A scuola no ai canti di natale ma via libera a Bella Ciao?”. Barcaiuolo (Fratelli d’Italia) incredulo: «"Bella Ciao" insegnata ai bambini delle elementari dove invece è vietato insegnare canti natalizi o pasquali di matrice religiosa. Siamo in Italia o in Corea del Nord?». È quanto si chiede incredulo Michele Barcaiuolo capogruppo Fratelli d'Italia - Alleanza Nazionale che intende così denunciare pubblicamente qualcosa che non condivide. «In questi giorni sono stato contattato da molti genitori che scandalizzati, mi hanno segnalato l'atteggiamento che ormai in molte scuole modenesi gli insegnanti hanno assunto nei confronti delle svariate festività civili o religiose. - spiega - E' ormai noto a molti che sono moltissime le scuole modenesi , che per non urtare "altre sensibilità" scelgono, in occasione di festività come il S. Natale e la S. Pasqua di non insegnare ai bambini nessun canto, nessuna poesia che abbia qualsiasi riferimento alla matrice religiosa delle festività. Trovo questo atteggiamento e queste scelte incomprensibili, sopratutto in Italia dove perfino un ultrà laico come Benedetto Croce sosteneva "non possiamo non dirci cristiani per l'enorme influenza che la cultura, l'arte e l'architettura cristiana hanno in una Nazione come l'Italia". Ma se possibile , in questi giorni si sta facendo di peggio : in diverse scuole elementari di Modena ci sono insegnati che stanno insegnando ai bambini a cantare "Bella Ciao" come canzone prodromica a giustificare tutto ciò che e' stato fatto dai partigiani. Non sono certo bambini di 7, 8 o 9 anni a dover approfondire le pagine buie e le ombre della resistenza (cit. Giorgio Napolitano) ;ma certo indottrinare dei bambini con la vulgata storica voluta da chi in questa città da 70 anni continua a fare il bello e il cattivo tempo non e' il modo migliore per consegnare il domani alle nuove generazioni, sembra invece che a Modena ci siano aspetti educativi che più che a guardare alla formazione dei bambini guardino alla Corea del Nord». Voi che ne pensate?

“Bella Ciao. Controstoria della Resistenza”. Autore Giampaolo Pansa. Il 25 aprile chi va in piazza a cantare "Bella ciao" è convinto che tutti i partigiani abbiano combattuto per la libertà dell'Italia. È un'immagine suggestiva della Resistenza, ma non corrisponde alla verità. I comunisti si battevano, e morivano, per un obiettivo inaccettabile da chi lottava per la democrazia. La guerra contro tedeschi e fascisti era soltanto il primo tempo di una rivoluzione destinata a fondare una dittatura popolare, agli ordini dell'Unione Sovietica. Giampaolo Pansa racconta come i capi delle Garibaldi abbiano tentato di realizzare questo disegno autoritario e in che modo si siano comportati nei confronti di chi non voleva sottomettersi alla loro egemonia. Quando si sparava, dire di no ai comunisti richiedeva molto coraggio. Il Pci era il protagonista assoluto della Resistenza. Più della metà delle formazioni rispondeva soltanto a comandanti e commissari politici rossi. "Bella ciao" ricostruisce il cammino delle bande guidate da Luigi Longo e da Pietro Secchia sin dall'agosto 1943, con la partenza dal confino di Ventotene. Poi le prime azioni terroristiche dei Gap, l'omicidio di capi partigiani ostili al Pci, il cinismo nel provocare le rappresaglie nemiche, ritenute il passaggio obbligato per allargare l'incendio della guerra civile. La controstoria di Pansa svela il lato oscuro della Resistenza e la spietatezza di uno scontro tutto interno al fronte antifascista. E riporta alla luce vicende, personaggi e delitti sempre ignorati.

Dalla piazza greca di Tsipras alla Francia di Charlie Ebdo, dalle manifestazioni antigovernative in Turchia a quelle contro Yanukovich in Ucrainia, fino ai cortei di Occupy Hong Kong. Bella Ciao viene cantata in tutto il mondo. Ma come è nata? Quando? Perché è diventata globale?

Tutto il mondo (Italia esclusa) canta in piazza Bella ciao. La storia Da Atene a Parigi, da Istanbul a Hong Kong, la canzone della Resistenza diventa inno di libertà. Mentre nel nostro Paese è ritenuta a torto solo un manifesto comunista, scrive Francesco Merlo su “La Repubblica” A Parigi l'emozione di Bella Ciao è la resistenza della libertà d'espressione alla barbarie dei kalashnikov, ad Atene accompagna l'utopia populista di Tsipras, a Hong Kong scandisce l'opposizione alla Cina comunista, a Istanbul canta la rivolta contro l'Islam autoritario di Erdogan. Solo in Italia Bella Ciao è all'indice, confusa con Bandiera rossa e L'Internazionale , e mai cantata, come si dovrebbe, con l'alzabandiera del 25 aprile, ma trattata come un inno comunista, degradata da canto laico della liberazione e della concordia repubblicana a ballata dei trinariciuti, a manifesto del Soviet italiano. E invece, nel mondo, la canzone della Resistenza ha fatto la sua resistenza, e ha vinto, anche contro se stessa. È infatti evasa dalla gabbia del braccio armato e del pugno chiuso con la forza della melodia tradizionale, con quelle due parole "ciao" e "bella" che sono le password della nostra identità, con i timbri e i toni che sono il meglio della leggerezza di Sanremo, con la dolce malinconia del bel fiore sulla tomba, e ovviamente con il partigiano morto per la libertà e non per "la rossa primavera" della falce e martello e neppure per il sol dell'avvenire della filosofia classica tedesca. Insomma Bella ciao ce l'ha fatta a riaccendere le emozioni originarie che la resero colonna sonora della guerra partigiana al nazifascismo, quando fu preferita a Fischia il vento , proprio perché, "era più ecumenica ". E la sua storia e la sua memoria "la accreditano come la canzone che unifica le speranze e le attese della democrazia" ha scritto Stefano Pivato in Bella ciao. Canto e politica nella storia d'Italia ( Laterza, 2005). Fu insomma la canzone delle forze politiche costituenti, tutte laburiste antifasciste e repubblicane, anche se in modi diversi e tra loro conflittuali, ma tutte Bella ciao: un fiore di montagna come educazione civica. E per capire che è tornata ad essere un inno internazionale di libertà basta rivedere su Repubblica. it tutte quelle labbra che a Parigi scandiscono "Una mattina / mi son svegliato / e ho trovato l'invasor". Nessun professore comunista li dirige, nessun libro marxista li ispira quando fondono Bella ciao e La Marsigliese dondolando e mixando "sotto l'ombra di un bel fior" con gli evviva alla memoria degli artisti di Charlie Hebdo, e senza mai andare né fuori tempo né fuori moda. Ed è emozionante la compostezza del coro un po' stonato di Istanbul con tutti quei turchi che battono il tempo con le mani: "E se io muoio / da partigiano / tu mi devi seppellir " diventa resistenza al martirio di Kobane, agli arresti dei giornalisti, all'oscurantismo religioso. È un contagio che arriva sino ad Atene, si diffonde senza radio e senza Ipod, ricorda l'epoca euforica degli anni Sessanta: Bella ciao come i Beatles, il vecchio canto della libertà italiana come la musica dei progetti, delle illusioni e degli azzardi, il nostro fiore di montagna contro il terrorismo in Europa, contro la mortificazione delle donne in Turchia. E sorprende e diverte a Hong Kong la voce di un italiano contro la violenza di quel terribile mondo arcaico che è la Cina. Certo, la storia di Bella ciao era già una specie di leggenda. Agli inizi del Novecento fu il canto delle mondine nelle umide risaie attossicate: "Oh mamma che tormento / io mi sento di morir". E ci sarebbe persino una versione Yiddish incisa a New York nel 1919. Mille ricerche sono state fatte sul giro del mondo di questa canzone che è stata folk, ebrea, swing e tradotta anche in giapponese Ma, come accade talvolta in filologia, le ricerche riportano sempre al punto di partenza: Reggio Emilia, 1940. Nella geografia della memoria Bella ciao è infatti il luogo della Resistenza condivisa, il ritmo della lotta antifascista che fu comunista, cattolica e azionista, come la Costituzione. Ed è, Bella ciao, come "la ballatetta" di Guido Cavalcanti, che "va leggera e piana" e "porterà novelle di sospiri ... quando uscirà dal core ". Il dolce stil novo sapeva già, prima del pop, che la canzonetta è una febbre musicale, e come l'acqua fresca sembra niente ma è tutto, e se c'è nebbia fa vedere il sole, e dà coraggio a chi ha paura. E, infatti, fischiettata o cantata in coro, Bella ciao ha sconfitto quell'altra Bella Ciao , spacciata per eversione e per rivoluzione. Insomma il fiore del partigiano fu, a torto, classificato, non come uno dei pochi canti della democrazia , ma come politica cantata, accanto agli inni del movimento operaio, "Su fratelli su compagni / su venite in fitta schiera", e alle canzoni dolenti degli anarchici, "Addio Lugano bella / o dolce terra mia", e all'orrendo inno che la Dc fece suo: "O bianco fiore / simbolo d'amore / con te la pace / che sospira il core". I comunisti risposero: "Il 25 aprile / è nata una puttana / e le hanno messo nome / Democrazia cristiana ". Ecco, Bella ciao è un'altra storia, e sembrava che lo avessero capito tutti. La cantarono infatti Claudio Villa e Yves Montand, Gigliola Cinquetti, Francesco De Gregori e Giorgio Gaber, canzone impegnata e canzone scanzonata. Finché i leghisti al governo di alcune città del Nord (Treviso, Pordenone ...) proibirono di suonarla il 25 aprile. E Berlusconi, più potente, tentò di abolire la festa della liberazione dal nazifascismo sostituendola con la festa della liberazione da tutte le dittature. E gli pareva che "Forza Italia/ perché siamo tantissimi " fosse più nazionalpopolare di "È questo il fiore / del partigiano / morto per la libertà". Le ha proprio viste tutte, la nostra Bella ciao . È stata persino stonata in tv da Michele Santoro dopo l'editto bulgaro che lo cacciava dalla Rai con Biagi e Luttazzi. In quell'Italia pazza la solita serva Rai arrivò persino al tentativo di festeggiare i 150 anni dell'Unità suonando a Sanremo sia Bella ciao sia Giovinezza, e di nuovo la canzone della Repubblica fu spacciata per inno comunista attraverso il gioco della somiglianza- contrapposizione con l'apologia del fascismo, suonata per par condicio... Ebbene Bella ciao ha superato anche quell'oltraggio. E adesso che ha conquistato il mondo, forse riconquisterà anche l'Italia.

Il fenomeno. "Bella ciao", da canto partigiano a inno globalizzato. Dalla campagna elettorale di Tsipras alla solidarietà a Charlie Hebdo, la canzone folk più nota della Resistenza varca i confini e si fa sempre più attuale, scrive “la Gazzetta di Reggio”. "Bella ciao" eterna, anzi sempre più attuale. La canzone folklorica cantata dai simpatizzanti del movimento partigiano italiano durante e dopo la seconda guerra mondiale, che combattevano contro le truppe fasciste e naziste, si è trasformata negli ultimi anni in un inno alla libertà, risuonato un po' ovunque: dalle piazze in rivolta ai funerali, dalle manifestazioni di piazza agli studi televisivi. Solo in Italia, scrive Repubblica in articolo di Francesco Merlo, il canto è ancora oggi etichettato come un "manifesto comunista". La circolazione di Bella ciao, durante la Resistenza è documentata e sembra circoscritta soprattutto in Emilia. Dopo la Liberazione la versione partigiana di Bella Ciao venne poi cantata e tradotta e diffusa in tutto il mondo grazie alle numerose delegazioni partecipanti al Primo festival mondiale della gioventù democratica che si tenne a Praga nell’estate 1947, dove andarono giovani partigiani emiliani che parteciparono alla rassegna canora “Canzoni Mondiali per la Gioventù e per la Pace”, dove inventarono il tipico ritmico battimano.

Giovanna Marini ricorda che tutto nacque a Reggio Emilia, dalla mondina Giovanna Daffini. Nelle scorse ore, "Bella ciao" ha chiuso ad Atene la campagna elettorale per le elezioni politiche di Alexis Tsipras, nella versione dei Modena City Ramblers. «Siamo sempre molto colpiti dall'entusiasmo che suscita Bella Ciao anche fuori dall'Italia. È la canzone che porta con sé valori molto forti e sinceri». E se Tsipras dovesse vincere, la folk band modenese annuncia che «canteremo Bella Ciao in greco». La famosissima versione dei MCR era stata suonata anche all'ultima edizione di Festareggio al Campovolo. Come inno alla libertà, "bella ciao" è stata rispolverata anche all'indomani degli attentati terroristici di Parigi, ecco christophe Aleveque che la canta in una trasmissione tivu di solidarietà a Charlie Hebdo e alle sue vittime. A Istanbul, "Bella ciao" è risuonata in piazza nell'ottobre 2013, adottata da Occupy Gezi: cantata in turco, ma con il ritornello in italiano. E sempre nella capitale turca, ecco la band rivoluzionario-socialista Yorum che la suona dal vivo con decine di artisti sul palco. Persino a Hong Kong, il canto è stato rispolverato dalla Rivoluzione degli ombrelli, cantato dal prete italiano Franco Mella.

Bella Ciao? Oggi la potrebbe cantare anche Marine Le Pen, scrive Stefano Baldolini su L'Huffington Post. Cantata in piazza Omonia dai sostenitori del divo Tsipras, a Parigi dai cittadini colpiti a morte dalla strage di Charlie, "Bella Ciao" è tornata. O meglio (fortunatamente?) non se n'è mai andata. Protagonista anche in passato, in luoghi e situazioni improbabili e molto lontane tra loro, ma oggi la coincidenza è evidente. È un destino dei classici esser rivisitati e non perdere colpi, assumere connotati e senso diverso in funzione del contesto e del tempo. È stato così anche per il nostro inno di Mameli, tabù della sinistra negli anni in cui i nazionalismi erano tutti di destra e oggi intonato nei comizi e nelle direzioni del Pd. Vittima del frullatore post ideologico, "Bella Ciao" può essere cantata e strattonata da tutti, è talmente intensa e diretta da non finire sgualcita. Ma cosa reclama "Bella Ciao" oggi? Certo, non può prescindere da un afflato di libertà che è sempre preceduta da forme vitali di resistenza e protesta ("È questo il fiore del partigiano Morto per la libertà"). Solo, che oggi, da piazza Taksim a Occupy Wall Street, da Charlie a piazza Omonia, l'inno partigiano è rivendicazione - in primis - di sovranità. Di rivendicazione della propria sovranità di cittadini e popoli contro scelte imposte da altri, potenti con nome e cognome o istituzioni senza volto. Erdogan o i lupi di Wall Street, i terroristi integralisti che vogliono occupare lo spazio libero delle idee, la Bce. Chiunque attenti all'occupazione - percepita come abusiva - dello spazio individuale e collettivo, mentale o fisico, è considerato invasore. Da cacciare, da respingere. Ecco perché non dovrebbe sorprenderci se un giorno, vicino o lontano, un'esponente come Marine Le Pen, potrebbe cantarla. Non suoni come mera provocazione, ma solo come una logica conseguenza. Non foss'altro per semplice proprietà transitiva: se Marine Le Pen simpatizza per Tsipras e i sostenitori di Tsipras cantano Bella Ciao, il passo successivo è nelle cose. Perché l'obiettivo è lo stesso: quello di recuperare la sovranità del popolo contro "l'invasore" sovra-nazionale. L'ha cantata, per scherno e impropriamente, Matteo Salvini, contro "l'invasione degli immigrati", ma lo potrebbe fare - persino con maggiore legittimità - la sua amica leader del Front National.

LIBERTA'. TERMINE VACUO. PATRIA, ORDINE E LEGGE: SLOGAN CHE UNISCE DESTRA E SINISTRA.

Patria-ordine-legge lo slogan che unifica destra e sinistra, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Quando si decide di fronteggiare l’emergenza terrorismo con nuove leggi speciali – in uno Stato che annega, da anni, nelle leggi speciali – in realtà si realizza un’operazione molto semplice: quella di approfittare dell’insorgenza di un problema di sicurezza per ridurre il grado di libertà dell’intera comunità nazionale. E’ così da sempre. Da sempre le classi dirigenti – o , almeno, una parte consistente delle classi dirigenti – ritiene che per governare una società complessa sia necessario evi- tare livelli troppo alti di libertà. Alle classi dirigenti piace poco la libertà, per- ché la libertà, quando non è ingabbiata e controllata e plasmata, crea problemi di ogni genere: di sicurezza, di efficienza, di produttività, di gestione dell’economia, di difesa dei profitti. E la libertà, rafforzata da un sistema di diritti eccessivamente sviluppato, rende molto complicato il funzionamento – cioè il governo – sia dell’economia, sia dello Stato, sia – più in generale – del potere. Quando dico le classi dirigenti, non penso solo al ceto politico. Penso ai grandi manager, ai capitalisti, ai giudici, ai militari, e a un pezzo molto molto vasto dell’intellettualità e del giornalismo. E’ questo blocco, molto composito – sia politicamente, sia socialmente, sia come formazione culturale – quello che si compatta e diventa una testuggine che ogni volta produce nuove misure di ”blindatura” della libertà e di riduzione dello Stato di diritto. Una volta – tanti anni fa – questo blocco era essenzialmente un blocco reazionario, che si ispirava al principio di patria-ordine-legge. Ora le cose sono molto diverse. La parte più robusta e propositiva del blocco, e che svolge la funziona dirigente, è – seppure vagamente – catalogabile nella sinistra politica. La parola d’ordine, più o meno, resta la stessa: patria-ordine-legge. Il trasferimento in questo blocco di gran parte della sinistra politica (sia moderata che radicale, con qualche sfumatura nelle parole d’ordine, perché la sinistra radicale ha in uggia la patria, sopporta appena l’ordine, e ama solo la legge, che usa chiamare ”legalità”) ha cambiato radicalmente il terreno dello scontro politico sui questi temi. Anzi, ha più o meno cancellato sia il terreno che lo scontro. Una volta c’era l’urto tra la destra legalista e la sinistra libertaria. Ora lo scontro è tra un agglomerato fortissimo di pensiero unico, che unisce – ad esempio- giornali diversissimi come Il Giornale e ”Il Fatto”, e una piccola minoranza di ”sovversivi” , assolutamente minoritari anche dentro l’opinione pubblica. Quando è avvenuta questa svolta? In realtà è successo tanti, tanti anni fa. Quando in Italia imperversava la lotta armata – dico negli anni settanta – e il più importante partito della sinistra, e cioè il Pci, decise di schierarsi al fianco della magistratura per battere l’eversione. Il risultato fu quello di lasciar passare senza fiatare, anzi, con un po’ di godimento, un gran numero di leggi speciali, dette leggi d’emergenza, che hanno modificato il Dna del nostro stato di diritto. Iniziò nel 1975, se non ricordo male, con la famosa legge-Reale, che dava grandi poteri alla polizia, e aumentava anche il potere della magistratura, e fu usata per stroncare i movimenti di lotta di quel decennio. La Legge-Reale fu approvata quando la lotta armata era ancora allo Stato nascente, e certo non servì per colpire la lotta armata, servì per colpire l’estrema sinistra. Il Pci sostenne quella legge, con la sola opposizione di uno dei suoi padri nobili – un personaggio eccezionale e amabilissimo che ormai non si ricorda più nessuno, aveva 80 anni suonati e si chiamava Umberto Terracini. D quel momento è stata una cascata di leggi speciali. Contro il terrorismo, contro la mafia, contro la politica corrotta, contro qualunque cosa capitasse a tiro. Leggi antiterrorismo, leggi sui pentiti, ampliamento delle intercettazioni, carcere duro (41 bis) eccetera. E il nostro paese, dove regnava il conflitto sociale ma anche un certo grado di libertà e di liberalismo, divenne sempre più arcigno. I pentiti e le intercettazioni, come sapete, oggi sono gli unici due strumenti di indagine giudiziarie. Sebbene tutti sappiano che i pentiti quasi sempre mentono e che le intercettazione sono immensamente discutibili, interpretabili, manipolabili o del tutto incomprensibili. Ora siamo al nuovo atto. Lo spunto sono gli attentati francesi. L’obiettivo dichiarato è la Jihad. Il risultato sarà un ulteriore arretramento della nostra civiltà giuridica. Voi pensate che questa sia la strada per entrare nella modernità?

OMOFOBIA E CACCIA ALLE STREGHE. CARLO TAORMINA. QUANDO L’OPINIONE E’ DISCRIMINATA.

Taormina condannato per aver detto “Non assumo gay”, libertà d’opinione a rischio, scrive  Riccardo Ghezzi su “Quelsi” L’avvocato Carlo Taormina è stato condannato a pagare 10.000 euro di danni per una frase pronunciata durante una trasmissione radiofonica. A comminarla è stato il giudice del lavoro di Bergamo, Monica Bertoncini. Una notizia anomala, che crea pure un precedente nebuloso. Intanto non è chiaro per quale motivo sia stato messo in mezzo un giudice del lavoro, visto che non sussiste un caso di mobbing o di licenziamento per ingiusta causa. Proprio per questo non si capisce chi sia davvero la parte lesa. Andiamo con ordine: durante la trasmissione “La Zanzara”, condotta da Giuseppe Cruciani e David Parenzo, l’avvocato Taormina aveva definito i gay insopportabili, fastidiosi e contro natura, sottolineando che non ne avrebbe mai assunto uno per farlo lavorare nel proprio studio. Attenzione però: non ha licenziato un gay solo a causa della sua omosessualità. Ha semplicemente formulato un’ipotesi, esprimendo un’opinione. Taormina quindi è stato condannato per un reato d’opinione, tipico dei paesi autoritari. Ma neppure per diffamazione, ma da un giudice del lavoro. Dovrà pagare 10.000 euro. A chi? Al gay che ha licenziato? No, perché non esiste. La parte lesa è “Avvocatura per i diritti Lgbt – Rete Lenford”, una delle tante associazioni gay-friendly che strizzano l’occhio alla sinistra, ma che forse proprio per questo si dimenticano di quelle libertà individuali che dovrebbero far parte del loro patrimonio e dei loro ideali. Associazioni che chiedono e rivendicano spesso giusti diritti, ma pretendono di farlo cancellando la libertà di opinione e mettendo bavagli. Appurato che iniziative giudiziarie di questo tipo sono utili anche a fare arricchire tali associazioni, grazie a giudici compiacenti che gli danno ragione e condannano i malcapitati querelati, proviamo ad analizzare quali sarà il reale impatto della sentenza del giudice del lavoro:

1) Taormina continuerà a non voler assumere gay, essendo questo il suo orientamento. E probabilmente non ne assumerà mai qualcuno. Semplicemente, d’ora in poi eviterà di dirlo in pubblico. Non a caso si chiamano “reati di opinione”.

2) L’omofobia vera o presunta continuerà a esistere. I gay potrebbero continuare a essere discriminati all’interno del mondo del lavoro, ma se non sono appoggiati dall’associazionismo di sinistra non ne caveranno un ragno dal buco. Mentre i gay vengono discriminati, ardite associazioni lgbt chiedono risarcimenti danni a personaggi pubblici che parlano in radio ma non è dimostrato che facciano veramente ciò che dicono. A meno che la Rete Lenford e il giudice del lavoro di Bergamo non abbiano le prove che Taormina abbia discriminato omosessuali sul posto del lavoro. 3) Si può ipotizzare che un gay che dichiari di non voler assumere eterosessuali non verrebbe mai querelato né condannato, perché certe discriminazioni vere o presunte non smuovono il magico mondo dell’associazionismo
4) Un datore di lavoro che non assume gay o li discrimina sul posto di lavoro, ma evita di dirlo in radio, continuerà a passare inosservato e ad apparire come una persona di larghe vedute.

Ci sono poi risvolti “tecnici”. Ad ipotizzarli è il sito Horsemoon Post, secondo cui Taormina potrà chiedere il risarcimento per dolo o colpa grave. Il giudice del lavoro di Bergamo non solo non ha tenuto conto dell’articolo 21 della Costituzione italiana, ma ha del tutto frainteso il concetto di discriminazione. A questo punto poco importa se Taormina abbia agito con scienza e coscienza per tendere un trappolone alla magistratura usando i gay come “cavallo di Troia”, come ipotizzato dall’Horsemoon Post, oppure se abbia espresso una sua reale opinione, discutibile e antipatica finché si vuole, e solo ora s’è accorto di poter diventare il paladino della libertà di opinione. Quello che conta è che questa sentenza potrebbe fare storia, con implicazioni pesanti anche su quella che è la responsabilità civile dei magistrati.

«Non assumo gay», Taormina condannato per discriminazione. La difesa del noto avvocato: «Esiste la libertà d’espressione, sancita dalla Costituzione», scrive “Il Corriere della Sera”. Condanna per discriminazione anche in appello per l’avvocato Carlo Taormina. La Corte d’appello di Brescia ha infatti confermato la condanna che nell’agosto scorso il tribunale di Bergamo aveva inflitto all’ex parlamentare: risarcimento di 10mila euro ad un’associazione che tutela i diritti delle persone omosessuali e pubblicazione sul Corriere della Sera della sentenza. Nell’ottobre del 2013, durante la trasmissione «La Zanzara» di Radio 24, alla domanda del conduttore Giuseppe Cruciani se avrebbe mai assunto un omosessuale nel suo studio, l’avvocato Taormina aveva risposto «sicuramente no», precisando anche che «nel mio studio faccio una cernita adeguata in modo che questo non accada». Anche nel caso si fosse presentato nel suo studio un laureato a Yale, per Taormina non avrebbe potuto lavorare nel suo studio: «Perché lo devo prendere, faccia l’avvocato se è così bravo e così, diciamo, così capace di fare l’avvocato si apra un bello studio per conto suo e si fa la professione dove meglio crede», ha detto durante la trasmissione. L’associazione «Avvocatura per i diritti Lgbti», rappresentata dagli avvocati Caterina Caput e Alberto Guariso, aveva denunciato per discriminazione Taormina e in primo grado aveva vinto. Ora la conferma della condanna in appello. Secondo i giudici bresciani l’avvocato Taormina «ha manifestato, pubblicamente, una politica di assunzione discriminatoria» e «si tratta quindi di espressioni idonee a dissuadere gli appartenenti a detta categoria di soggetti dal presentare le proprie candidature allo studio professionale dell’appellante e quindi certamente ad ostacolarne l’accesso al lavoro ovvero a renderlo maggiormente difficoltoso». Il fatto poi che Taormina sia famoso e’ un’aggravante: «Questo non può che attribuire maggiore risonanza alle sue dichiarazioni, e quindi, parallelamente, maggiore dissuasività». Taormina nel ricorso in appello ha sostenuto che durante la trasmissione aveva solo espresso un’opinione e che la libertà di espressione è sancito dalla Costituzione. Per i giudici di Brescia, «è pure vero che l’articolo 21 della Costituzione garantisce la libertà di manifestare il proprio pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, ma è altrettanto vero che questa libertà incontra i limiti degli altri principi e diritti che godono di garanzia e tutela costituzionale. E’ quindi evidente che la libertà di manifestazione del pensiero non può spingersi sino a violare altri principi costituzionalmente tutelati». «Particolarmente contenta del risultato raggiunto». Così Maria Grazia Sangalli, Presidente dell’associazione avvocatura per i diritti lgbti, associazione difesa dagli avvocati Caterina Caput e Alberto Guariso. L’avvocato Caput ricorda come i giudici abbiano affermato che l’articolo 21 «non può spingersi a violare altri principi costituzionali che ha individuato nell’articolo 2 (tutela del singolo cittadino nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità, ovvero il luogo di lavoro), 3 (principio di uguaglianza), 4 (diritto al lavoro) e 35 (tutela del lavoro). La Corte ha interpretato le norme anti-discriminatorie alla luce della stessa normativa europea e della giurisprudenza della Corte di Giustizia, mentre in Italia, caso unico in Europa, si fatica ancora ad approvare una legge che sanzioni penalmente i reati d’odio verso le persone omosessuali e transessuali e a dare riconoscimento giuridico alle coppie formate da persone dello stesso sesso».

Omofobia, l'avvocato Taormina condannato anche in appello: "Niente gay nel mio studio". La Corte d'appello di Brescia ha confermato la sentenza del giudice del lavoro di Bergamo. Il legale dell'Avvocatura per i diritti Lgbt: "Finora in Italia non avevamo registrato decisioni analoghe", scrive Ilaria Carra su “La Repubblica”. L'avvocato Carlo Taormina «Niente omosessuali nel mio studio», aveva detto l’avvocato Carlo Taormina. E anche in secondo grado i giudici lo condannano per discriminazione. La Corte d’appello di Brescia ha confermato la sentenza con la quale, nell’agosto scorso, il giudice del lavoro di Bergamo aveva imposto all’ex parlamentare di Forza Italia un risarcimento di 10mila euro a un’associazione che tutela i diritti delle persone omosessuali. «Se la tenga lei l’omosessualità... io non ne ho alcune né in simpatia né in antipatia, non me ne frega niente, l'importante è che non mi stiano intorno (...). Mi danno fastidio. (...) Parlano diversamente, si vestono diversamente, si muovono diversamente, è una cosa assolutamente... eh... assolutamente insopportabile, guardi. È contro natura»: sono alcuni stralci delle affermazioni che Taormina aveva rilasciato il 16 ottobre 2013 rispondendo alle domande di Giuseppe Cruciani e David Parenzo, conduttori della trasmissione radiofonica La Zanzara in onda su Radio24. Frasi nelle quali, secondo i giudici bresciani, manifestano «pubblicamente una politica di assunzione discriminatoria», «espressioni idonee a dissuadere gli appartenenti a detta categoria di soggetti dal presentare le proprie candidature allo studio professionale dell’appellante e quindi certamente ad ostacolarne l’accesso al lavoro ovvero a renderlo maggiormente difficoltoso». Aggrava il fatto che Taormina sia noto al pubblico: «Questo non può che attribuire maggiore risonanza alle sue dichiarazioni e quindi, parallelamente, maggiore dissuasività». Esulta l’avvocato Alberto Guariso (Avvocatura per i diritti Lgbt): «È un bel risultato, una sentenza importante perché sancisce la tutela generalizzata delle persone che possono subire uno svantaggio anche da semplici dichiarazioni. Annunci pubblici che secondo il giudice hanno un effetto di limitare un’opportunità di lavoro, oltre che di una umiliazione personale. Sono due gradi di giudizio conformi: sentenze analoghe in Italia finora non ce n’erano». Come riporta il partale Redattore sociale, Taormina nel ricorso in appello ha

sostenuto che durante la trasmissione aveva solo espresso un'opinione e che la libertà di espressione è sancita dalla Costituzione. Per i giudici di Brescia, invece, "è pure vero che l'articolo 21 della Costituzione garantisce la libertà di manifestare il proprio pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, ma è altrettanto vero che questa libertà incontra i limiti degli altri principi e diritti che godono di garanzia e tutela costituzionale".

La reazione dei lettori de Il Giornale alla condanna di Taormina, scrive “Gay Burg”. Un tribunale ha condannato Carlo Taorima per discriminazione nei confronti dei gay, ma i lettori de Il Giornale pare non l'abbiano presa molto bene.
Ed è così che ch'è chi accusa la giustizia di voler imporre che i gay debbano piacer per forza, chi invoca la responsabilità civile dei giudici per chiedere la condanna chi ha emesso la sentenza o chi sostiene che non si sia nulla di discriminatorio nel dire che «non si assumerebbero fr*ci». Qualcuno aggiunge: «Ancora non esiste la legge contro la cosiddetta omofobia e già c'è chi la applica?», lasciando evidentemente intendere che quegli insulti dovrebbero rientrare nella tanto sventolata «libertà d'opinione». Non manca poi chi sottolinea che lo studio dell'avvocato sia privato e rivendica come «in casa sua uno possa decidere chi fare entrare». «Questi magistrati non hanno altro da fare? -scrive un altro- Mi pare che ci siano cose ben più gravi da perseguire». Già... perché perdere tempo con una causa in difesa dei gay quando la si potrebbe lasciar andare in prescrizione per occuparsi delle più meritevoli cause lanciate dai Giuristi per la Vita contro chiunque osi parlare di omosessualità? A coronare il quadro non poteva mancare chi si dice pronto a sostenere che i gay si auto-discrimino per il solo fatto di esistere: «Fino a prova contraria -dice- chi ha fatto della "discriminazione" il suo verbo sono i gay. Sono loro che si discriminano esattamente come afferma Taormina col loro modo i esprimersi, col loro vestire, con le loro pagliacciate che vanno sotto il nome di gaypride e l'elenco potrebbe continuare. L'orientamento sessuale dovrebbe essere una cosa prettamente personale e intima, lo sbandierare la propria omosessualità facendone un vanto è un insulto al buon gusto prima ancora che all'intelligenza. Ma evidentemente è di moda e sopratutto "rende", infatti ogni gay deve essere considerato come un discendente diretto di Pico della Mirandola se non si vuole essere subito tacciati di omofobia. Ormai i gay hanno ragione a prescindere e se sul lavoro sono nulli vietato dirlo e rimarcarlo». Non è bello far notare le cose, ma quest'ultimo personaggio dovrebbe forse notare come con il suo messaggio stia sbandierando la sua eterosessualità che, stando al suo ragionamento, dovrebbe essere una cosa prettamente personale e intima...Ma più di tutto è sempre interessante notare come a scrivere queste frasi inaccettabili siano le stesse persone che si dico convinte che la legge contro l'omofobia sia superflua dato che in Italia non c'è né omofobia, né discriminazione.

Difesa liberale di Taormina dal gay-correct, scrive di Corrado Ocone su “L’Intraprendente”. C’è da restare allibiti. Non ho altre parole per commentare la sentenza di condanna dell’avvocato Carlo Taormina a 10.000 euro di multa per aver affermato, nell’irriverente trasmissione radiofonica La zanzara, che nel suo studio non avrebbe mai assunto gay perché la loro è una tendenza sessuale “contro natura”. Sia beninteso, sono anche allibito del fatto che qualcuno pensi seriamente queste cose oggi, nell’anno di grazia 2014. Ma a parte il fatto che la vita è bella perché è varia, dovrebbe essere chiaro che la libertà di opinione è un valore non negoziabile, è la libertà senz’altro. Ognuno ha il diritto di pensare quello che vuole e come vuole. E, se non si è d’accordo con le idee di qualcuno, le si può sempre criticare. O, al limite, evitare di andare a cena con lui. È l’abc del liberalismo e dell’Occidente, direi. Tutto il resto è chiacchiera che lascerei alle Boldrini di turno. Ma già sento l’obiezione dei moralisti e quella dei legulei appellantesi ad una legge realmente esistente e voluta da alcuni sciagurati rappresentante di un Parlamento già da tempo delegittimato. Costoro si appelleranno alla legge contro la “discriminazione” e affermeranno che una cosa è avere un’opinione e altra cosa metterla in atto favorendo nel mercato del lavoro un determinato tipo di persone. Quasi come se il mercato del lavoro, così come ogni altro mercato, non fosse un luogo di libera contrattazione ove tutti volta a volta produciamo, acquistiamo o vendiamo prodotti o servizi in base ai nostri gusti e preferenze. Che se sono contrarie alle idee dell’avvocato Taormina possono sempre censurarle nell’unico modo possibile in un regime di libertà: non acquistando da lui i suoi servizi legali, anche se (è da dimostrare) fossero efficaci. Il fatto è che qui, in questo caso da manuale, si saldano in una miscela esplosiva tutti i vizi italici: l’odio per il privato (ognuno dovrebbe essere libero di fare quel che vuole a casa sua, in questo caso nel suo studio di avvocato); una concezione sostanzialistica della giustizia, a cui non viene semplicemente affidato il compito di far rispettare poche leggi formali e universali ma addirittura quello di cambiare il mondo e di punire per educare; una legislazione demagogica e velleitaria, volta a soddisfare ipocritamente il moralismo di un’opinione pubblica spesso immatura; il protagonismo di certi magistrati. È con l’acquiescenza stupida di un’opinione pubblica che, quando non è immatura, è sicuramente dormiente, che, poco alla volta, ci costruiamo le catene che limiteranno sempre più in futuro la nostra libertà. Sarebbe necessario fermarsi, ora che siamo ancora in tempo..

Libertà di pensiero. Anche per Carlo Taormina. Fatali le frasi contro i gay pronunciate a Radio24, scrive Alessandro Mlòn su “Il Tempo”. E' partita la caccia al Taormina. Brutto, sporco e cattivo. E pure razzista, becero e discriminante. Sarà. Forse sì. O magari no. Sta di fatto che la condanna da 10.000 euro inflitta all'Avvocato Professore, già Principe di Filettino, è ridicola e grave al tempo stesso. Ridicola, perchè Taormina ha espresso un'opinione prettamente personale, senza passare ai fatti. Grave, perchè crea un pericoloso precedente in materia di discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi e di natura sessuale. O presunti tali. Le affermazioni del Proff - pronunciate a La Zanzara il 26 ottobre 2013 (Niente omosessuali nel mio studio) - seppure condite dall'oramai consueta ed inconfondibile coloratissima irriverenza del Taormina 2.0 - non possono e non debbono in alcun modo rappresentare prova inconfutabile di reato per chicchessia cittadino del Belpaese. Incluso il Principato di Filettino. Perchè basterebbe semplicemente addurre che l'avvocato non è in alcun modo passato ai fatti per contraddire e confutare l'assoluta ipocrisia di una condanna che ha tutte le sembianze di esser stata più punitiva che legislativa. Come aver voluto dare una bella e sana lezione morale ed educativa al malvagio e disumano professor Carlo. Mentre una norma si applica a rigor di legge, in punta di codice, e attraverso il tanto acclamato e propagandato Stato di diritto. Non certamente perchè un individuo, tanto discutibile e spietato per quanto l'opinione pubblica possa dipingerlo, risulti simpatico od antipatico, buono o cattivo, liberale o conservatore, pro o contro i gay. Questo è il punto, cara giudice del lavoro di Bergamo Monica Bertoncini, che ne ha ordinato l'irrisoria e simbolica ammenda (roba che se voleva dar l'esempio almeno 100.000 dovevano essere, gli euri) e pure lei, cara Associazione per i diritti Lgbt-Rete Lenford, cui vanno i diecimila danari, oggi così trionfalista e su di giri per questa illusoria quanto controproducente vittoria anti-omofobia. Il punto è che anche il cittadino privato Carlo Taormina ha l'assoluta facoltà di esprimere la sua. Potendo in tutta libertà pronunciarsi su qualsivoglia argomento, dal calcio alla politica, dall'economia alle case chiuse, dalle lesbiche ai transessuali. E' ha tutto il fottutissimo diritto di aborrare i matrimoni gay, di schifare con tutta l'anima il Gay Pride, di ritenere gli omosessuali malati e contro natura, e pure di dichiarare al mondo intero di non voler assumere lavoratori omosex. Con buona pace del più esimio ed autorevole Ordine professionale, e anche delle infinite sigle d'associazionismo gay. Perchè Carlo Taormina è un privato cittadino, e non deve dare ne' fornire alcun esempio morale od educativo, se non nel rispetto della propria deontologia professionale. Perchè Carlo Taormina ha lo stesso potere di parola ed espressione che ha ogni altro libero cittadino italiano. Incluso quello di dire e manifestare la propria ripugnanza ed abominio, o quello che ai più viene considerato una sparata, una boiata pazzesca, una mostruosità. E, ancora, perchè Carlo Taormina ha detto semplicemente ciò che pensava, e che pensa. Senza sbatter la porta in faccia ad alcun gay. Senza pestare due uomini che si baciavano. Senza bloccare o fermare alcun carneval pride. E questo, Signori della Corte, si chiama libera manifestazione del proprio pensiero. E non può essere considerato reato. Perchè non rappresenta reato. Questa  condanna, da ascrivere in toto alla più classica ed insopportabile ipocrisia made in Italy, rischia seriamente (eufemismo) di sortire l'effetto opposto ai sensi della lotta all'omofobia che le associazioni gay si prefiggono. Primo, perchè viene fatta pubblicità gratuita alle frasi di Taormina, che ora può avvalersi di tutto lo spazio possibile per rilanciare, passando da carnefice a vittima predestinata del sistema. Secondo, perchè comunque l'avvocato potrà sempre 'respingere' le candidature gay che si presentano nel proprio studio, adducendo le più svariate e plausibilissime giustificazioni, senza che nessuno, tanto meno Grillini & co., possa venirne a conoscenza, e senza che ciò costituisca in alcun modo discriminazione alcuna. Terzo, perchè alle parole si risponde con le parole, mai con le sentenze. Ultimo, ma non per importanza, perchè tutto questo ennesimo non richiesto polverone sulle presunte questioni omofobe, non fa altro che discriminarli, i gay. Perchè la legge li considera 'hors categorie'. Perchè così appiano come una lobby, o ancora peggio come una casta. E perchè gli si toglie la loro legittima e sudatissima conquistata normalità. Etichettandoli dentro un ghetto giuridico e morale che anche loro - siamo pronti a scommetterci - rifiutano e combattono quanto noi. 

LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

La sinistra si batte per eliminare ogni simbolo che inneggia all'italica tradizione ed appartenenza in nome di una sudditanza ideologica e strumentale.

Storia del crocifisso nelle scuole pubbliche italiane di Rosci Valentina su “Diritto”. L’esposizione dei crocifissi nelle scuole pubbliche viene disposta mediante circolare con riferimento alla Legge Lanza del 1857 per la quale l’insegnamento della religione cattolica era fondamento e coronamento dell’istruzione cattolica, posto che quella era la religione di Stato. L’esposizione del crocifisso negli uffici pubblici in genere, è data con ordinanza ministeriale 11 novembre 1923 n. 250, nelle aule giudiziarie con Circolare del Ministro Rocco, Ministro Grazia e Giustizia, Div. III, del 29 maggio 1926, n. 2134/1867 recante “Collocazione del crocifisso nelle aule di udienza”, che recita: “Prescrivo che nelle aule d’udienza, sopra il banco dei giudici e accanto all’effige di Sua Maestà il Re sia restituito il Crocifisso, secondo la nostra tradizione. Il simbolo venerato sia solenne ammonimento di verità e giustizia. I capi degli uffici giudiziari vorranno prendere accordi con le Amministrazioni Comunali affinché quanto esposto sia eseguito con sollecitudine e con decoro di arte quale si conviene all’altissima funzione della giustizia”. In materia scolastica si ricordano, le norme regolamentari art. 118 Regio Decreto n. 965 del 1924 (relativamente agli istituti di istruzione media) e allegato C del Regio Decreto n. 1297 del 1928 (relativamente agli istituti di istruzione elementare), che dispongono che ogni aula abbia il crocifisso. Con circolare n. 367 del 1967, il Ministero dell’Istruzione ha inserito nell’elenco dell’arredamento della scuola dell’obbligo anche i crocifissi. Nei Patti Lateranensi e successivamente nelle modifiche apportate al Concordato con l’Accordo ratificato e reso esecutivo con la L. 25 marzo 1985 n.121, nulla viene stabilito relativamente all’esposizione del crocifisso nelle scuole o, più in generale negli uffici pubblici, nelle aule del tribunale e negli altri luoghi nei quali il crocefisso trova ad essere esposto. Con parere n. 63 del 1988, infatti, il Consiglio di Stato ha stabilito che le norme dell’art 118 R.D. 30 aprile 1924 n. 965 e l’allegato C del R.D. del 26 aprile 1928 n. 1297, che prevedono l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche non possono essere considerate implicitamente abrogate dalla nuova regolamentazione concordataria sull’insegnamento della religione cattolica. Ha argomentato il Consiglio di Stato: premesso che “il Crocifisso, o più esattamente la Croce, a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della Cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendentemente da specifica confessione religiosa, le norme citate, di natura regolamentare, sono preesistenti ai Patti Lateranensi e non si sono mai poste in contrasto con questi ultimi. Occorre, poi, anche considerare – continua il Consiglio di Stato – che la Costituzione Repubblicana, pur assicurando pari libertà a tutte le confessioni religiose, non prescrive alcun divieto alla esposizione nei pubblici uffici di un simbolo che, come il Crocifisso, per i principi che evoca e dei quali si è già detto, fa parte del patrimonio storico”. Le norme citate dovrebbero, però, ritenersi implicitamente abrogate dal d.lgs. 297/94 in cui all’art. 107, nell’elencazione puntuale delle suppellettili che compongono l’arredo si fa riferimento esplicito solamente all’attrezzatura, l’arredamento e il materiale da gioco per la materna. In modo più chiaro ed esplicito l’art. 159 stabilisce “Spetta ai comuni prevedere al riscaldamento, all’illuminazione, ai servizi, alla custodia delle scuole e alle spese necessarie per l’acquisto, la manutenzione, il rinnovamento del materiale didattico, degli arredi scolastici, ivi compresi gli armadi o scaffali per le biblioteche scolastiche, degli attrezzi ginnici e per le forniture dei registri e degli stampati occorrenti per tutte le scuole elementari…”. L’art. 190 stabilisce che “i Comuni sono tenuti a fornire (…) l’arredamento” dei locali delle scuole medie. Nessun riferimento al crocifisso. Sicchè si potrebbe sostenere che le norme dell’art. 118 R.D. 30 aprile 1924 n. 965 e l’allegato C del R.D. n. 1297 del 1928, dovrebbero ritenersi implicitamente abrogate ex art. 15 preleggi, perché il d.lgs. 297/ 94 regola l’intera materia scolastica. Tuttavia restano in vigore in forza dell’art. 676 dello stesso decreto intitolato “norme di abrogazione” il quale dispone che “le disposizioni inserite nel presente testo unico  vigono nella formulazione da esso risultante; quelle non inserite restano ferme ad eccezione delle disposizioni contrarie od incompatibili con il testo unico stesso, che sono abrogate”. Orbene, alla specificazione del contenuto minimo necessario delle locuzioni generali “arredi” ovvero “arredamenti” contenute negli artt. 107, 159 e 190 concorrono le due disposizioni regolamentari citate, comprendendovi anche il “crocifisso”. Così si può affermare che le disposizioni del d.lgs. 297/94, come specificate dalle norme regolamentari citate, includono il crocifisso tra gli arredi scolastici. Conclusivamente, poiché non appare ravvisabile un rapporto di incompatibilità con norme sopravvenute, né può configurarsi una nuova disciplina dell’intera materia, già regolata da norme anteriori, né, come ha ritenuto il Consiglio di Stato, attengono all’insegnamento della religione cattolica, né costituiscono attuazione degli impegni assunti dallo Stato in sede concordataria, le disposizioni di cui all’art. 118 R.D. 30 aprile 1924 n. 965 e quelle allegato C del R.D. 26 aprile 1928 n. 1297, devono ritenersi legittimamente operanti. La Corte di Cassazione (Sez. III, 13-10-1998) ha affermato in particolare, che non contrasta con il principio di libertà religiosa, formativa della Costituzione, la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche: “Il principio della libertà religiosa, infatti, collegato a quello di uguaglianza, importa soltanto che a nessuno può essere imposta per legge una prestazione di contenuto religioso ovvero contrastante con i suoi convincimenti in materia di culto, fermo restando che deve prevalere la tutela della libertà di coscienza soltanto quando la prestazione, richiesta o imposta da una specifica disposizione, abbia un contenuto contrastante, con l’espressione di detta libertà: condizione questa, non ravvisabile nella fattispecie”, nella quale si discuteva della lesività del principio di libertà religiosa proprio ad opera dell’esposizione del crocifisso nell’aula scolastica adibita a seggio elettorale. In una recente decisione, invece, la Cassazione ha ritenuto contraria al principio di laicità l’esposizione dei crocifissi nei seggi elettorali, prendendo ad esempio una decisione del Tribunale Costituzionale tedesco del 1995. Escluso che l’articolo 9 del nuovo Concordato con la Chiesa cattolica – in cui la Repubblica italiana prende atto che “i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano” – possa costruire idoneo fondamento normativo alla prassi amministrativa in materia, la Suprema Corte rigetta anche la “giustificazione culturale”, contraddicendo espressamente l’avviso del Consiglio di Stato. Non è sostenibile, infatti, “la giustificazione collegata al valore simbolico di un’intera civiltà o della coscienza etica collettiva”, per il contrasto in essa implicito con il divieto delle differenziazioni per motivi religiosi. È lecito esporre un crocifisso in un’aula scolastica, in un tribunale o in un ufficio pubblico, questa scelta può offendere la coscienza del non credente o dell’appartenente ad una confessione religiosa contraria a tale simbologia? L’esposizione contraddice la “laicità dello Stato”? E a che tipo di simbologia deve essere ascritto il crocifisso: identità religiosa o culturale? Nel corso dell’anno scolastico 2002-2003, Adel Smith, cittadino italiano di religione musulmana, domanda all’insegnante della scuola di Ofena (in provincia di L’Aquila), frequentata dai suoi figli, di rimuovere il crocifisso appeso alla parete o, in subordine, di appendervi un quadretto con la sura del Corano. L’insegnante accondiscende a questa seconda richiesta, ma viene smentita dal dirigente scolastico il quale impone di rimuovere il quadretto. Assistito da un avvocato, Adel Smith ricorre al Tribunale di L’Aquila per ottenere un pronunciamento d’urgenza. Investito della questione, il Tribunale ribadisce il carattere laico della Repubblica italiana e delle sue istituzioni e il 23 ottobre decreta la rimozione del crocifisso. Un’ordinanza successiva ha invece revocato tale rimozione poiché ha ritenuto che l’istanza presentata non integrasse una domanda “meramente risarcitoria”, ma si concretizzasse nella richiesta di una misura di carattere inibitorio idonea ad interferire nella gestione del servizio scolastico, dal che la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. La rimozione del crocifisso scatena un’aggressiva polemica pubblica e una vera e propria campagna per il rilancio del crocifisso così che la maggior parte degli italiani hanno fatto questo tipo di ragionamento: “L’offesa è grande. Insopportabile. Una prevaricazione. Un esproprio. Un Tizio entra nel tuo alloggio, si accomoda in poltrona, ha libero accesso al frigorifero, usa il tuo bagno e invece di ringraziare per l’ospitalità, ti ingiunge di togliere dalla parete quel “coso” lì. Sarà anche un coso ma permetti decido io se deve restare lì o sparire”. Un ragionamento un po’ rozzo ma tale vicenda ci fa comprendere che oggi la questione dei simboli religiosi, a partire dal sostrato argomentativo connesso alla rivendicazione della libertà di coscienza e della neutralità dello Stato, può trasformarsi in un momento di “scontro tra religioni e civiltà”. Una questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal TAR del Veneto, avente ad oggetto gli artt. 159 e 190 del d. lgls. n. 297 del 1994, come specificati dall’art. 119 allegato C del R.D. 26 aprile 1928 n. 1297 e dall’art. 118 del R.D. 30 aprile 1924 n. 965, nella parte in cui includono il crocefisso tra gli arredi scolastici, nonché l’art. 676 d.lgs. 297/94, nella parte in cui conferma la vigenza degli artt. 119 allegato C del R.D. 1297/28 e 118 del R.D. 965/24. Il Tribunale remittente sostiene che il crocifisso è essenzialmente un simbolo religioso cristiano, di univoco significato confessionale, che l’imposizione della sua affissione nelle aule scolastiche non sarebbe compatibile con il principio supremo di laicità, desunto dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19, 20 della Costituzione, e con la conseguente posizione di equidistanza e di imparzialità fra le diverse confessioni che lo Stato deve mantenere; che la presenza del crocifisso, che verrebbe obbligatoriamente imposta ad alunni, genitori e insegnanti, delineerebbe una disciplina di favore per la religione cristiana rispetto alle altre confessioni, attribuendo ad essa una ingiustificata posizione di privilegio. La Corte Costituzionale con ordinanza 389/2004 ha ritenuto di non doversi pronunziare in quanto le norme in esame hanno natura regolamentare, norme prive di forza di legge, sulle quali non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale, né conseguentemente, un intervento interpretativo. In questa prospettiva, l’ordinanza della Corte, con le sue argomentazioni tecniche, pare suggerire un inasprimento di toni senza rinunciare a continuare ad interrogarsi. Tuttavia il dibattito in corso sull’esposizione del crocifisso pare sempre meno legato alla religione, alla religiosità e alla fede e invece strumentalizzato dai politici di destra e di sinistra. 

Crocifisso a scuola, assolta l'Italia. Ribaltata la condanna del 2009. Chi ha ragione? si chiede G. Galeazzi su su “La Stampa”. Il crocefisso può restare appeso nelle aule delle scuole pubbliche italiane. Questo è quanto ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo, che con una sentenza definitiva della Grande Camera, votata da 15 giudici su 17, ha dichiarato che la presenza in classe di questo simbolo non lede nè il diritto dei genitori a educare i figli secondo le proprie convinzioni, nè il diritto degli alunni alla libertà di pensiero, di coscienza o di religione. Per il governo italiano e il fronte pro-crocefisso è una vittoria a tutto campo. Nel motivare la sua decisione la Corte afferma come il margine di manovra dello Stato in questioni che attengono alla religione e al mantenimento delle tradizioni sia molto ampio. Ma i quindici giudici che hanno votato a favore della piena assoluzione delle autorità italiane sono andati oltre. Nella sentenza si legge infatti come la Corte non abbia trovato prove che la presenza di un simbolo religioso in una classe scolastica possa influenzare gli alunni. E come nonostante la presenza del crocefisso (definito simbolo passivo) conferisca alla religione maggioritaria una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico, questo non sia sufficiente a indicare che sia in atto un processo di indottrinamento. Si sottolinea infatti che nel giudicare gli effetti della maggiore visibilità data al cristianesimo nelle scuole si deve tener conto che nel curriculum didattico non esiste un corso obbligatorio di religione cristiana e che l’ambiente scolastico italiano è aperto ad altre religioni. Nessun commento dall’avvocato Nicolò Paoletti, difensore di Soile Lautsi, la cittadina italiana di origini finlandesi che aveva presentato ricorso alla Corte. Dichiarazioni euforiche, invece, di coloro che hanno strenuamente difeso l’importanza della presenza del crocifisso nelle scuole italiane. «È una pagina di speranza per tutta l’Europa», ha commentato monsignor Aldo Giordano appena il presidente della Corte di Strasburgo, Jean Paul Costa, è uscito dall’aula dopo la lettura della sentenza. Il rappresentante della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa ha quindi sottolineato come la Corte abbia preso una posizione coraggiosa e abbia tenuto conto delle preoccupazioni che in questo momento gli europei esprimono nei riguardi delle loro tradizioni, dei loro valori e della loro identità. Gli ha fatto eco il vice ministro della giustizia russo, Georgy Matyushkin, che è intervenuto davanti alla Grande Camera in favore dell’Italia ed è volato appositamente da Mosca per assistere alla lettura della sentenza. Il minisro russo si è detto «molto soddisfatto per l’approccio della Corte». Ma anche il direttore dello European Centre for Law and Justice, Gregor Puppinck, ha definito la sentenza «un colpo che mette un freno alle tendenze laiciste della Corte di Strasburgo e che costituisce un cambiamento di paradigma». Lo European Centre for Law and Justice era una delle organizzazioni no profit che si erano costituite parte terza a favore dell’Italia nel procedimento. Alla lettura della sentenza, che è avvenuta in un’aula piena di studenti e funzionari del Consiglio d’Europa, erano presenti anche l’ambasciatore italiano Sergio Busetto, oltre agli ambasciatori cipriota e greco e ai rappresentanti della diplomazia armena, lituana, e di San Marino. Tutti Paesi che assieme a Bulgaria, Romania, Malta e Principato di Monaco erano intervenuti a favore dell’Italia. La sentenza emessa oggi mette la parola fine al ricorso «Lautsi contro Italia». Un fascicolo che fu aperto dalla Corte nel 2006 e che nel 2009, con una sentenza in primo grado a favore delle tesi della ricorrente, suscitò una vera alzata di scudi contro la Corte. L’indignazione fu tale che il governo italiano ricorse immediatamente, chiedendo e ottenendo la revisione del caso da parte della Grande Camera. In questo suo appello, andato a buon fine, l’Italia ha potuto contare non solo sui dieci Paesi che «ufficialmente» si sono presentati come parti terze davanti alla Corte, ma anche sul contributo di diverse ong, di parlamentari italiani ed europei e del lavoro diplomatico condotto dal rappresentante della Santa Sede. «Esprimo profonda soddisfazione per la sentenza della Corte di Strasburgo, un pronunciamento nel quale si riconosce la gran parte del popolo italiano. Si tratta di una grande vittoria per la difesa di un simbolo irrinunciabile della storia e dell’identità culturale del nostro Paese», ha dichiara il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini. «Il Crocifisso sintetizza i valori del Cristianesimo, i principi sui cui poggia la cultura europea e la stessa civiltà occidentale: il rispetto della dignità della persona umana e della sua libertà. È un simbolo dunque che non divide ma unisce e la sua presenza, anche nelle aule scolastiche, non rappresenta una minaccia nè alla laicità dello Stato, nè alla libertà religiosa. Oggi è un giorno importante per l’Europa e le sue istituzioni che finalmente, grazie a questa sentenza, si riavvicinano alle idee e alla sensibilità più profonda dei cittadini», ha concluso il ministro.

Toglie il crocifisso dall’aula. «Non me ne faccio nulla». Il simbolo religioso scompare pochi giorni dopo l’inizio della scuola. Gragagnani (Pdl): «Va rimesso, è una questione di libertà», scrive Francesco Alberti su “Il Corriere sella Sera”. Il caso di un’insegnante in una prima elementare. Il simbolo religioso scompare pochi giorni dopo l’inizio della scuola. Gragagnani (Pdl): «Va rimesso, è una questione di libertà». Via un altro. L’ennesimo. Tolto dalla parete a cui era appeso da anni. E scoppia la polemica. C’è chi parla di «strage dei crocifissi». E chi, più laicamente, si rifugia nel concetto di tolleranza e invita al reciproco rispetto. Siamo a Bologna, nella scuola elementare «Bombicci», classe prima B. Il simbolo religioso scompare pochi giorni prima dell’inizio delle lezioni. Qualcuno, probabilmente dall’interno della scuola, avverte l’ex parlamentare pdl Fabio Garagnani, personaggio piuttosto combattivo in materia, che parte in quarta, informando della rimozione il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, e il vicedirettore regionale dell’ufficio scolastico, Stefano Versari. Per nulla scandalizzato invece il preside del comprensivo di cui fa parte la scuola, Stefano Mari: «Non esiste alcuna legge dello Stato che impone l’obbligo di ostensione del crocifisso, ma solo un regolamento del 1928 sugli arredi scolastici, poi superato nel 1999 da norme che conferiscono autonomia ai singoli istituti: dipende dalla sensibilità dei docenti». A riprova di ciò, prosegue il dirigente, «negli istituti che fanno parte del mio comprensivo, che riunisce 1.400 studenti tra elementari e medie, in moltissime aule il crocifisso non c’è mai stato o è stato tolto, mentre in altre è presente». Un processo graduale, aggiunge, «avvenuto negli ultimi anni e quasi passato inosservato in un clima di reciproca tolleranza tra chi lo avrebbe voluto e chi no». Fino ad oggi. Ora la polemica rischia di montare. Il giornale dei vescovi, Avvenire , censura l’episodio, ricorda l’ordinanza del 2011 della Corte di Strasburgo che impose a una scuola media di Abano Terme (Padova) di riappendere il crocifisso, ma soprattutto riporta le parole di un calibro da novanta come il presidente emerito della Corte costituzionale Cesare Mirabelli, il cui parere giuridico è agli antipodi di quello del preside Mari: «Non è rimesso alla scelta di qualcuno se togliere o meno il crocifisso - afferma il giurista -, non ci possono essere interpretazioni da scuola a scuola. Se è vero che la regolamentazione vigente sui simboli religiosi, che li vuole affissi nelle aule, può sembrare datata, è altrettanto vero che, chiamato a esprimersi, il Consiglio di Stato ne ha riaffermato la validità». Ma il preside insiste: «Credo che la questione vada risolta a livello amministrativo, è finito il tempo in cui tutto veniva deciso centralmente dal ministero». L’insegnante che ha tolto il crocifisso preferisce non esporsi. Raccontano che a chi le chiedeva spiegazioni sulla rimozione del simbolo avrebbe sbrigativamente risposto «di non farsene nulla». Il preside fa da scudo: «È inevitabile che sia turbata dalle polemiche, ma continua il suo lavoro e per ora non si registrano proteste dalle famiglie degli alunni». Ma Garagnani incalza: «È un problema di libertà, i genitori non si facciano intimidire».

Ma non solo oil crocifisso si vuol togliere. Anche il Presepe.

Il sottosegretario all'Istruzione: "Sì al presepe a scuola; vietarlo non aiuta l'integrazione". Gabriele Toccafondi, coordinatore regionale Ncd Toscana, sottosegretario di Stato all’Istruzione, e l'intervento su La Nazione: "Non interrompiamo le nostre tradizioni".  Caro direttore, ho seguito con attenzione le inchieste dedicate da La Nazione ai “presepi vietati” nella nostra città. Questo tema ci permette di affrontare un dibattito sul rapporto tra identità e cultura nei Paesi occidentali secolarizzati e multiculturali, sui concetti di accoglienza e di dialogo. L’idea che per rispettare le altre culture e religioni sia necessario rinunciare alle proprie tradizioni, o rinnegarle, è un’idea decisamente bizzarra, che mai ha fatto parte della storia delle civiltà, e che si è affacciata nel mondo occidentale solo da pochissimi anni. Vietare il presepe non aiuta né il dialogo né l’integrazione, ma anzi sottolinea le differenze, allontana mondi che invece dovrebbero conoscersi e avvicinarsi. Come facciamo a dialogare con gli immigrati di altre culture e tradizioni, che vengono a vivere da noi, se non siamo in grado di trasmettere loro la nostra civiltà, le nostre usanze e le nostre credenze, ciò che abbiamo di bello? Il Natale è la memoria di un fatto storico e non solo un avvenimento di fede per molti credenti. E’ talmente un fatto riconosciuto e universale che ai bambini non puoi nascondere che si festeggia qualcosa durante Dicembre e così pur di nascondere la nascita di Gesù dentro una grotta in alcune scuole ci si inventa qualcosa da festeggiare: dall’albero di natale, alla neve fino a bizzarre creazioni come il topolino che porta i doni ai poveri o al pesciolino rosso dentro l’acquario. Non sarebbe più semplice dire le cose come stanno? E poi, sono davvero così sicuri, questi presidi e insegnanti che vietano il presepe, che gli alunni stranieri e le loro famiglie siano contrarie alla realizzazione della capannuccia negli istituti educativi? Io ricordo che proprio qui, a Firenze, esponenti di rilievo della comunità islamica locale dissero, qualche anno fa, che era opportuno e formativo che i loro figli potessero conoscere usanze e tradizioni del Paese in cui erano venuti a vivere. Impedire la realizzazione di un presepe in una scuola è un atto che reputo privo di ragioni, di un malinteso senso di laicità, che si nasconde dietro la presenza di alunni stranieri o di altre religioni, ma che nulla ha a che vedere con una sana laicità positiva, in grado di accogliere e valorizzare, non di censurare. Come stabilito anche dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 2011, neppure il crocifisso esposto nelle aule scolastiche viola il principio della laicità degli istituti educativi. Che male può fare un simbolo come il presepe? Mi auguro che i docenti e dirigenti scolastici che hanno impedito a tanti bambini di avere una capannuccia nelle loro scuole, riconsiderino la loro decisione, in questi ultimi giorni prima del Natale: perché un vero dialogo con chi appartiene a tradizioni culturali diverse si può impostare solo valorizzando e facendo conoscere le radici più profonde della nostra identità.

Il presepe, bersaglio sbagliato, scrive Edoardo Crisafulli su “Avanti On line”. Un Preside ha vietato il Presepe, “un focus cerimoniale e rituale che può risultare soverchiante”: gli alunni di origine straniera, cospicua minoranza nella sua scuola, subirebbero l’imposizione di “ciò che non appartiene” loro. Concordo sul fatto che “la scuola pubblica è di tutti e non va creata alcuna occasione di discriminazione.” Ma questa decisione mi pare assurda. Il Presepe fa parte della cultura italiana come l’arte sacra, la musica barocca e la Divina Commedia. Non è un mero simbolo di fede. Sarebbe folle pretendere che l’alunno islamico (o buddista o quel che è) si converta al cristianesimo. Ma chi vuole integrarsi in Italia deve assimilare la nostra cultura. Altrimenti sarà un cittadino privo di un’identità. Non c’è bisogno di credere nella resurrezione di Cristo per ammirare la pittura di Giotto e la poesia di Dante, così come non occorre compiere sacrifici a Giove per apprezzare la mitologia classica. Il cristianesimo, inteso come fenomeno culturale, non deve apparire estraneo, o alienante, a chi ha scelto di vivere a casa nostra. I cristiani d’Oriente non studiano forse il Corano, un vero e proprio capolavoro linguistico, nonché testo di base della civiltà arabo-islamica, cui anche loro appartengono? Nessun cristiano colto nega che l’arabo classico — la koiné di tutti gli arabi – è, essenzialmente, una lingua coranica. Se c’è un simbolo più religioso che culturale, quello è il crocefisso. Ma il Preside, che ha “cose più importanti” di cui occuparsi, ha deciso di lasciarlo “appeso ai muri”. Se lo togliesse, i credenti ne farebbero “una questione di Stato”. Più facile bandire l’innocuo Presepe, che spunta a ridosso del Natale, per poi svanire subito dopo l’Epifania. Una volta affermato il principio demenziale che il Presepe offende la sensibilità islamica, dove arriveremo? Proibiremo la lettura a scuola del Canto XXVIII dell’Inferno dantesco, perché il Profeta Maometto vi compare nella veste sommamente offensiva di un dannato squarciato dal mento fin dove si “trulla”; punizione vergognosa, riservata agli scismatici, ai seminatori di discordia, come erano reputati i musulmani nel Medioevo? E metteremo alla berlina il Manzoni cristiano in quanto credente in una divinità falsa e bugiarda? No, non è questo il compito di una scuola laica, che forma i cittadini della polis secolare. Il vero laico è un liberale, un libertario. La laicità è una neutralità attiva: lo Stato laico non propaganda né una singola religione né l’ateismo; crea semplicemente le condizioni politiche che garantiscono la libertà di culto. La censura del Presepe non è un’affermazione di laicità, e non è neppure frutto della degenerazione di uno spirito laico intollerante. È piuttosto figlia del politically correct saccente e confusionario che imperversa da anni negli Stati Uniti, e che ora è approdato sulle nostre coste. Un multiculturalismo di bassa lega, con una spruzzata di giacobinismo a senso unico (l’unica tradizione da azzerare è la nostra), viene spacciato come una riedizione dell’Illuminismo progressista. I sacerdoti del politically correct, in nome della tolleranza verso lo straniero e il diverso, impongono forme subdole di censura o di auto-censura: chi non si adegua ai loro dettami subisce una gogna mediatica. Il multiculturalista serio è fatto di tutt’altra pasta: ama la diversità, perché è consapevole che il pluralismo religioso/culturale arricchisce la società civile. A una condizione, però: che venga rispettata la libertà e la dignità di tutti. Solo così il principio liberale è adattabile al mondo cosmopolita d’oggi. La cifra del laico autentico, peraltro, è la coerenza: anche quando degenera nella polemica anti-religiosa, ha il coraggio di prendersela ex aequo con preti, rabbini, imam e monaci: per lui, tutte le religioni positive sono ricettacoli di superstizione e di fanatismo. Mica rinnega la sua tradizione culturale per esaltarne una straniera, esotica, perché così va di moda nei circoli radical-chic! In certi ambienti di sinistra invece si usano due pesi e due misure: si insorge (giustamente) quando viene offeso l’islam, ma si tace o si gongola se qualcuno dissacra il cristianesimo o inveisce contro il Papa (da questo punto di vista, Oriana Fallaci non aveva tutti i torti). Agli apostoli del multiculturalismo suggerisco la lettura di Innamorato dell’Islam, credente in Cristo, di Paolo Dall’Oglio, il gesuita rapito dai jihadisti in Siria, il quale ha dedicato la sua vita al dialogo interreligioso basato sulla reciprocità. Se noi dobbiamo rispettare l’islam, i musulmani devono fare altrettanto con noi. Il dialogo interreligioso è una faccenda maledettamente seria: Dall’Oglio, forse, ci ha rimesso la pelle. Ho avuto l’onore di conoscerlo a Damasco, nel 2011. È stato lui a insegnarmi una grande verità, valida anche per chi non è credente: per confrontarmi con chi crede in un Dio diverso dal mio, non devo rinnegare la mia religione. Tutt’altro: la devo professare (o difendere) con orgoglio. Cosa fare, allora? Abolire l’insegnamento del cattolicesimo nella scuola pubblica (unico vero vulnus alla laicità), oppure garantire, per equità, la medesima importanza a tutte le religioni professate dai cittadini italiani? A mio avviso, l’educazione religiosa, fatto di coscienza individuale, spetta alle famiglie, non allo Stato. Sarebbe sbagliato inaugurare una sorta di carnevale variopinto di tutte le fedi. Lo Stato, però, ha il dovere di insegnare la storia del cristianesimo, quale disciplina curricolare. Che sia un docente di lettere o di storia a insegnarla, laicamente. La nostra civiltà ha radici cristiane, oltreché pagane (greco-romane) – e qui consiglio, a chi pencola verso le tesi dei teocon, il saggio di Luciano Pellicani, Le radici pagane d’Europa. Il vero scandalo, oggi, non è il Presepe: è l’ignoranza: i nostri figli non conoscono le parabole evangeliche e le narrazioni bibliche. Senza quei codici culturali, tanta parte della nostra letteratura e della nostra tradizione artistica risulta incomprensibile. Anche la polemica sui crocefissi la risolverei in chiave culturale: sostituiamo quelli bruttissimi di plastica con riproduzioni di Giotto o di Cimabue. Che ogni classe adotti una croce dipinta della tradizione pittorica italiana. Trasformare un fenomeno artistico, qual è il Presepe, in un simbolo religioso, è anche un grave errore politico. I fascio-leghisti non si sono fatti sfuggire l’occasione per specularci sopra: “Ecco la sinistra che plaude all’Eurabia islamizzata!’ Non lasciamo la difesa delle nostre tradizioni alla Lega e a Casa Pound: la rappresentazione della natività – l’espressione più poetica della religiosità popolare italiana – fu inventata da San Francesco d’Assisi. Per testimoniare, ogni anno, la nascita in assoluta povertà e umiltà di Cristo. Un messaggio formidabile per i creso-cristiani d’ogni tempo, che difendono a parole la cristianità mentre la tradiscono trescando con i potenti di turno. Riappropriamoci, noi socialisti, del Presepe e denunciamo l’uso politico distorto che ne fanno coloro che annacquano lo spirito rivoluzionario, sovversivo del cristianesimo. Ecco perché io, agnostico e laico-socialista, amo il Presepe e lo voglio esposto nei luoghi pubblici, così com’è: un bambino adagiato in una mangiatoia, in una grotta. E a chi sparge a piene mani il seme dell’odio e dell’intolleranza ricordo i bei versi di Trilussa “Ve ringrazio de core, brava gente/ pe’ ‘sti presepi che me preparate,/ ma che li fate a fa? Se poi v’odiate,/ si de st’amore non capite gnente…”.

La sinistra a favore dei mussulmani contro i cristiani. L'Islam astio al principio di reciprocità.

La persecuzione dei cristiani in Medio Oriente, scrive Salvatore Lazzara. Gesù nel Vangelo, ricorda ai discepoli: “Beati voi quando, vi insulteranno, vi perseguiteranno e mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”. La promessa di Gesù non prevede per i suoi seguaci vita facile. E’ il mistero della sequela, un cammino che costa a quanti aderiscono, un prezzo altissimo. In alcuni casi è richiesto il dono della vita, per testimoniare la fede nel Signore morto e Risorto. Già nel nuovo testamento sono registrati i primi attacchi contro i cristiani: dopo la morte in croce del maestro, i discepoli ebbero paura ad annunciare ciò che avevano visto e udito, per paura di essere uccisi. E’ necessario che il Risorto stesso indichi ai discepoli con le apparizioni nel giorno dopo il sabato, la via da seguire. Durante una riunione a porte chiuse, presente la Madre di Gesù Maria, ricevono il dono dello Spirito Santo, il quale li abilita a proclamare che Gesù è il Signore, e quanti ascoltano la loro parola, gli abitanti di Tiro, di Sidone, della Cappadocia, intendono nella loro lingua il messaggio del Dio fatto carne e crocifisso per la salvezza degli uomini. Da questo punto in poi, i discepoli vivranno incomprensioni, delusioni, tradimenti, fino a versare il sangue per la fede. Il primo martire di cui abbiamo notizia è Stefano, il quale viene ucciso brutalmente perché si rifiutava di rinnegare Gesù. Sono esemplari le ultime parole pronunciate da questo discepolo del Signore, che ricalcano quelle dette da Gesù sulla croce prima di morire. La tradizione dei primi secoli ha tramandato alcuni atti dei primi martiri della fede, molto suggestivi e pieni di spunti di riflessione. Le persecuzioni si scatenano contro i cristiani quando non vogliono cedere ai compromessi o alle false divinità. Tutto ciò produce odio, perché la parola di Dio condanna il male e ciò che di brutto il mondo possiede. Cito per tutti san’Ignazio di Antiochia, il quale catturato non volle essere liberato per diventare nelle mandibole dei leoni frumento di Cristo macinato per la salvezza del mondo. Certamente non possiamo analizzare i motivi e le lunghe persecuzioni cruente dei cristiani nell’arco dei 2000 anni, ma possiamo sintetizzare i vari periodi per comprendere il faticoso annuncio della Parola di Dio all’umanità. Fino al quarto secolo, i vari imperatori romani nel vasto territorio sotto la loro giurisdizione, tentarono in tutti i modi di eliminare il Cristianesimo che si diffondeva sempre più attraverso le vie commerciali, con la complicità di alcuni ufficiali militari, che avendo sentito ciò che Gesù aveva fatto ad alcuni colleghi, come ad esempio la guarigione del figlio del centurione, -il quale prima dell’ingresso del Signore nella sua casa esclamò-: “Guarda io non sono degno che tu entri nella mia casa, ma dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito…”-, suscitava in quanti ascoltavano sentimenti profondi di commozione e di partecipazione. La “nuova fede”, fece breccia sugli schiavi, i quali vedevano nel Cristianesimo, la liberazione dalla condizione di oppressi. Sappiamo dai racconti, che molti di essi erano a servizio dei potenti del tempo. Venendo a contatto con loro, cominciarono a convertirsi per la fedeltà che i servi mostravano verso la nuova religione. Tutto ciò turbava gli equilibri politici, sociali e religiosi del tempo. Sentendo odore di minaccia al potere costituito il cristianesimo, cominciò ad essere perseguitato in tutto l’impero con le grandi campagne messe in atto da Diocleziano, Tito, Nerone, il quale accusò i cristiani di essere responsabili del famoso rogo-incendio di Roma, che lui stesso aveva fatto appiccare. Per giustificare le efferate esecuzioni e sbarazzarsi di questa nuova forma di religiosità, Nerone non ebbe scrupoli ad addebitare ai cristiani un atto che non avevano commesso, soltanto per placare la sua coscienza ed affermare il personale potere nei confronti dei sudditi. Con la conversione di Costantino al cristianesimo, cominciò un era di pace e di libertà. Cominciarono le costruzioni delle Basiliche, e il culto era permesso alla luce del sole. Il cristianesimo a poco a poco cominciò a diventare parte strutturale della società, arrivando a permeare la vita dei fedeli in modo totalizzante. Certamente non siamo qui ad esaminare tutti gli aspetti positivi e negativi del processo storico descritto, ciò che conta e comprendere la difficoltà in cui ad esempio si trova oggi l’espansione dell’Islam, alla luce di quanto ho affermato. Ai tempi di Costantino, il potere sociale e religioso erano uniti indissolubilmente. L’imperatore era il depositario, il custode del creato, perché da Dio riceveva la potestà di governare. Dunque dalla religione partiva ogni input per regolare la vita della società. Ogni cosa era subordinata alla Bibbia, e dalla Scrittura si prendeva ispirazione per stabilire le leggi etiche e morali. Questo sistema naturalmente ha subito parecchie modifiche nel tempo, fino ad arrivare ai tempi odierni, portando dietro di se integralismi, fondamentalismi, e tante volte scelte sbagliate che hanno causato la morte di tanta gente innocente. Dobbiamo purtroppo dire che lo schema citato, ha portato a persecuzioni accanite contro i cristiani e viceversa.   Questa struttura ancora oggi è usata dall’Islam nei paesi a maggioranza musulmana. E’ il Corano con le sue leggi a determinare il corretto svolgimento della vita dei cittadini. Ogni cosa prende spunto e trae ispirazione dalla parola di Allah. Tutto ciò che non coincide con il predicato religioso islamico, deve essere abbattuto con ogni mezzo. Ogni musulmano è chiamato ad osservare il Corano, e da esso prendere spunto per la vita familiare e relazionale. Le società islamiche oggi vengono classificate in moderate e radicali. E’ una divisione che a me personalmente crea diverse perplessità e problemi. Cosa significa essere moderati? Forse non usare la violenza per convertire? Oppure cosa significa radicali? Usare la violenza come via per raggiungere la conversione degli infedeli a scapito del dialogo e della civile e pacifica convivenza con chi non accetta l’Islam? Sono domande complicate, da cui nasce la confusione e la persecuzione di cui noi oggi siamo testimoni contro i cristiani in generale e le minoranze religiose. Nei paesi musulmani, generalmente ai cristiani è riconosciuta la libertà di professare la loro fede, ma con limitazioni in alcuni paesi. In Arabia Saudita è formalmente vietata ogni religione che non sia quella musulmana; la presenza di stranieri cristiani è tacitamente tollerata, ma essi non possono in alcun modo manifestare la propria fede. Persino il possesso della Bibbia è considerato un crimine. In generale nei paesi arabi i cristiani sono oggetto, da parte della popolazione musulmana, di forme di discriminazione più o meno gravi, che negli ultimi decenni hanno portato molti di loro a emigrare o a convertirsi all’Islam. La popolazione cristiana è in calo pronunciato in tutti i paesi del Medio Oriente. La conversione di musulmani al cristianesimo è poi vista come un crimine (apostasia) e, anche nei paesi in cui la legge la consente, i convertiti sono spesso oggetto di minacce e vendette da parte della popolazione. Mentre in Occidente si combatte ogni forma di religiosità di carattere cristiano in nome di una falsa laicità aggressiva, in alcuni paesi a maggioranza islamica il percorso è inverso. I musulmani al potere cercano in tutti i modi di “islamizzare” gli stati in cui sono a maggioranza con leggi che favoriscono lo sviluppo dell’Islam, ma che penalizzano di molto le altre religioni, le quali strette nella morsa della persecuzione diventano sempre più minoritarie. In Europa la confusione ideologica porta allo smantellamento culturale, causando effetti devastanti: la costruzione di moschee, il Real Madrid ha dovuto togliere la croce della scudetto perché il maggiore azionista della squadra è diventato un famoso emiro musulmano, le continue polemiche contro l’allestimento dei presepi, l’insegnamento della religione nelle scuole, il crocifisso nelle aule pubbliche, le difficoltà relazionali in alcune città europee importanti a maggioranza musulmana che avanza silenziosa, la natalità, gli investimenti economici, fanno parte di una persecuzione precisa e metodica contro i cristiani portata avanti dai cosiddetti moderati, che pur non prevedendo il sacrificio cruento con lo spargimento del sangue, condiziona la libertà del cristianesimo in nome della tolleranza e dell’accoglienza. A questo punto possiamo fare un accenno all’epoca delle Crociate, considerate a torto come persecuzioni contro i non cristiani, ma il tempo a disposizione è poco. Contrariamente a quanto è stato affermato dai libri di storia foraggiati dai nemici del cristianesimo, -come possiamo vedere dall’immagine- (foto 1), avevano uno scopo chiaro e limpido: difendere i luoghi santi dalle invasioni islamiche. Mentre le conquiste musulmane avevano ed hanno come obiettivo la conquista dei territori, per convertire all’Islam gli infedeli, contrariamente i crociati difendevano e riconquistavano con la forza i luoghi santi. Certamente non tutto è stato rose e fiori…. Ma permettetemi di dire che bisognerebbe rivedere con onestà queste pagine di storia senza i pregiudizi di quanti avversano in tutti i modi la presenza cristiana nel mondo. I cristiani a Gerusalemme e a Nazareth sono ormai il 2 per cento, mentre la nazione con il maggior numero di cristiani resta il Libano. Se ne contano approssimativamente il 35 per cento, ma in diminuzione rispetto a qualche anno fa. “Più i cristiani lasciano il Paese, più i cristiani diventano un’esigua minoranza, più alcuni principi della modernità, come ad esempio i diritti umani, vengono a cadere”, avverte il gesuita egiziano padre Samir, esperto di questioni mediorientali. “Con la diminuzione degli elementi cristiani si fa un passo indietro nell’economia ma, ancor di più nella politica, e soprattutto in tutto ciò che è legato ai diritti umani: la situazione della donna, la libertà religiosa, la libertà tout court, il progresso sociale, i diritti sociali per i più poveri e i deboli”. Anche per questo motivo sentiamo tra i musulmani – intellettuali e non solo, politici e anche gente di media cultura – dire: “Per favore, non andatevene! Rimanete! Abbiamo vissuto insieme per secoli!”. Dal 2000 ad oggi i cristiani vittime di persecuzioni sono stati 160.000 ogni anno. Ogni 5 minuti un cristiano viene ucciso a causa della propria fede.

Don Salvatore Lazzara - Sacerdote da 17 anni, è cappellano militare all’Accademia Aeronautica di Pozzuoli. Da Cappellano Militare ha svolto i seguenti incarichi: Maricentro (MM) La Spezia, Nave San Giusto con la campagna addestrativa nel Sud Est Asiatico, X° Gruppo Navale in Sinai per la missione di Pace MFO. Successivamente trasferito alla Scuola Allievi Carabinieri di Roma. Ha partecipato alla missione in Bosnia con i Carabinieri dell’MSU. Di ritorno dalla missione è stato trasferito alla Scuola Ufficiali Carabinieri di Roma. Dopo l’esperienza nei Carabinieri è tornato a Palermo presso i Lanceri d’Aosta (Esercito).  Per Da Porta Sant’Anna curava inizialmente la rubrica “Al Pozzo di Sicar”; da Luglio 2014 ha assunto il ruolo di Direttore del Portale.

E poi c'è lei. Peppa Pig. Oggetto di strali dei benpensanti.

E' attualmente il cartone animato più famoso e visto al mondo, ma anche dai genitori che, in caso di stanchezza giornaliera, piazzano i figli davanti alla  tv, incantati dal maialinio super star. Ma ora Peppa Pig finisce nell'occhio del ciclone. Tutto per una presunta parolaccia pronunciata dal maialino in un nuovo episodio. E ora le mamme protestano: "Siamo scioccate". A denunciare l'episodio è Natalie, una mamma inglese di 30 anni che si è resa conto del turpiloquio di Peppa Pig dopo che la sua bambina aveva ripetuto una strana parola. L'episodio incriminato è in un DVD in cui si fa un riferimento a una band. Da "Rocking Gazzelle" diventano "Fucking Gazelle", almeno secondo quanto ha capito la mamma. "Sono scioccata", ha detto la donna al Daily Mail. "Quando ho sentito mia figlia dire certe parole l'ho rimproverata ma poi mi sono resa conto che era tutta colpa del cartone". La donna si sente responsabile e colpevole e conclude dicendo che non permetterà mai più ai suoi bambini di vedere il cartone. Anche Peppa Pig potrebbe rimanere vittima dell’elevato livello di attenzione per la prevenzione degli attentati. La simpatica maialina rosa potrebbe essere messa al bando. Le nuove linee guida della Oxford University Press, la casa editrice dell'ateneo inglese che pubblica testi scolastici e prodotti editoriali educativi. Secondo queste indicazioni c’è il divieto di pubblicazione di riferimento al maiale e alla sua carne per non offendere i musulmani e gli ebrei. L’Università è un’autorità negli ambienti culturali inglesi e, se dovessero essere accolti i suggerimenti, il cartone animato che fa impazzire i bambini di tutto il mondo potrebbe essere messo al bando. La censura dell’Università arriva subito dopo gli attentati di Parigi. Sulla questione sono intervenute perfino le comunità ebraiche e musulmane che hanno definito la vicenda un tentativo “politically correct senza senso”.

Liberateci da Peppa Pig: sta rovinando i nostri bambini, scrive di Lucia Esposito su “Libero Quotidiano”. C'era una volta Heidi che faceva "ciao" alle caprette e aiutava l'amica Clara in carrozzina, c'erano i Barbapapà animalisti ed ecologisti che ci lasciavano di stucco coi loro "barbatrucchi" e le trasformazioni più improbabili. C'era Winnie the Pooh, l'orsetto grasso che lievitava all'ombra del bosco dei cento acri bevendo ettolitri di miele ma capace di grandissimi gesti di amicizia. C'era la cagnetta Pimpa che perdeva per strada le sue macchie rosse ma che faceva la felicità del suo padrone Armando… Mai si erano visti in televisione dei maiali che ruttano senza ritegno, grugniscono in continuazione, si rotolano nel fango allegramente e che, quando ridono, si ribaltano sul pavimento sbellicandosi come idioti. Liberatemi, vi prego, dalla famiglia Pig. Qualcuno mi spieghi cosa c'è di educativo in questo cartone che sta lentamente trasformando mio figlio di tre anni in un suino. «Tu sei mamma Pig», mi dice quando si sveglia. «No, Francesco io non sono un maiale», gli rispondo piccata. Lui arriccia il naso, dice «oink» e scappa via. Quando al mattino va a scuola, si guarda attorno con la stessa attenzione con cui un bracco ungherese cerca i tartufi nel bosco e, appena intercetta una pozza d'acqua, si fionda per saltarci dentro. «Come Peppa Pig» salta e ride mentre i suoi occhi roteano come biglie per individuare un altro specchio d'acqua fangoso in cui rotolarsi come un porcellino. Inutile provare a spiegargli che i maialini sono sporchi e puzzano e che la loro casa, il porcile, è un posto lurido e nauseabondo. Lui dice che «Patata City» (la città in cui vive la maledetta famiglia Pig) è bella e pulita. Per non parlare del rutto tra una portata e l'altra, diventato la colonna sonora dei miei pasti. Davvero non so come sia capitato ma lo spirito della famiglia Pig si è impossessato di lui e viene fuori senza alcun ritegno proprio quando tutti tacciono e non si può far finta di non aver sentito. «Non si fa, i maiali lo fanno» e lui: «Ma io sono Peppa Pig». Allontanarlo dal tavolo non fa che scatenare il processo di identificazione con la famiglia di suini perché invece di piangere, invece di starsene umiliato in camera, va in bagno, prende il braccio della doccia fa cadere acqua sul pavimento e si mette a saltare nella pozza. Per chi è fuori da questo incubo perché non ha figli tra i due e gli otto anni, Peppa Pig è un cartone animato che ogni sera ipnotizza mezzo milione di bimbi. È la storia di una famiglia di maiali (mamma Pig, papà Pig, il fratellino George di due anni e la protagonista Peppa di quattro anni). I suini non vivono in un porcile ma, pur mantenendo comportamenti propri della specie, sono umanizzati. Il povero signor Pig, il padre, è un pasticcione inetto, incapace di fare qualsiasi cosa (in un episodio per piantare un chiodo, fa crollare una parete) che si fa prendere in giro dai figli senza dire un «oink» sia perché è più grasso del normale sia perché è un fallimento che cammina. Lui e sua moglie non sono in grado di dare una sola regola comportamentale ai figli e, quando ci provano, non sono credibili. Non si fanno rispettare. Peppa e George fanno quello che vogliono, inzozzano di fango la casa, rompono il pc con cui la mamma lavora. Viziati e ribelli, trasmettono ai bambini l'idea che tutti sono uguali, che la loro parola-grugnito vale quanto quella dei genitori. Vogliamo poi parlare di George? A due anni dice solo e sempre «dinosauo», attaccato come una cozza al suo peluche verde ripete ossessivamente le stesse cose da centinaia di puntate senza che nessuno (tranne Peppa Pig che lo chiama «tontolone») si faccia delle domande sull'evoluzione del linguaggio del piccolo, senza che nessuno gli spieghi che si dice «dinosauro» e gli dia qualche informazione in più sull'animale preistorico. I dialoghi sono semplici, il vocabolario basico, i personaggi ripetono sempre le stesse parole, il disegno dei cartoni è elementare, eppure i bambini sono pazzi di questi porcellini. Molti esperti dicono che Peppa Pig piace tanto perché riproduce un modello di “famiglia normale”: i genitori che vanno al lavoro, i figli affidati ai nonni, le gite della domenica, i capricci a cui non seguono punizioni... Adesso, gli psicologi avranno anche le loro ragioni ma io da un po' ho vietato al mio bimbo di vedere «Peppa Pig»: perché per me non è normale che a cena rutti con lo stesso orgoglio di chi prende dieci in pagella. Ridatemi i barbatrucchi di Barbapapà!

E poi Peppa Pig è un maiale e non è corretto parlarne in un'Italia Islamica voluta dalla sinistra contro gli italiani cattolici.

Follia islam, fatwa per fatwa. Vietati rock, calcio, cani e bici. Le scomuniche religiose possono costare la vita. Ma osservarle tutte vuol dire non vivere più, scrive Massimo M. Veronese su “Il Giornale”. Ha una fama sinistra ma la fatwa, o fatawi al plurale, in fondo, è solo un codice di comportamento quotidiano e non è obbligatorio rispettarlo. Per avere valore deve uscire dalla bocca di un'autorità religiosa, ma in troppi, hanno denunciato alcuni analisti algerini, si attribuiscono un ruolo nell'Islam e si sentono autorizzati a dettare legge a caso. Le fatawi vietano gadget, oroscopi, la riproduzione di cd e dvd. Per non dire del nuovo profumo «Victoria's Secret: Strawberries and Champagne» ritirato dal governo dagli scaffali di Doha senza bisogno di una fatwa perchè «va contro le abitudini, le tradizioni e i valori religiosi del Qatar». Ma in questi anni abbiamo visto anche di peggio.

Le palle di neve. É l'ultima in ordine di apparizione: vietato costruire pupazzi di neve in Arabia Saudita, fatwa dell'imam Mohammad Saleh Al Minjed. Dice che realizzare uomini o animali di neve è contrario all'Islam. Unica eccezione, riporta Gulf News , i pupazzi di neve raffiguranti soggetti inanimati cioè navi, frutta o case. La reazione però è stata piuttosto gelida.

I pokemon. Pikachu, Meowih, Bulbasaur, sono stati accusati di complotto giudaico-massonico, e messi al bando dallo sceicco saudita Yusuf al-Qaradawi, ideologo dei Fratelli musulmani. Vietata la loro vendita in tutta l'Arabia Saudita. I Pokemon, sentenzia la fatwa, si sono coalizzati per far diventare ebrei i musulmani. Bastasse un cartoon.

I tatuaggi. Fresca anche questa. La Direzione Affari Religiosi di Turchia guidata dal Gran Mufti Mehmet Gormez, principale autorità religiosa islamica del paese, ha emesso una fatwa contro i tatuaggi: «Allah ha maledetto coloro che cambiano il loro aspetto creato da Dio». Spacciati Materazzi e Belen.

Il calcio. La fatwa dello sceicco Abdallah Al Najdi si basa sul principio che vieta ai musulmani di imitare cristiani ed ebrei. Si può giocare ma con regole diverse: niente linee bianche in campo, niente squadre di 11 giocatori, porte senza traverse, chi grida gol va espulso e niente arbitro perchè superfluo. Come del resto nel nostro campionato...

I croissant. Ad Aleppo una commissione sulla sharia ha emanato un editto religioso contro il consumo di croissant, considerati il simbolo della colonizzazione dell'Occidente. Il babà invece va bene ma solo se si chiama alì...

La chat. Chi chatta online attraverso i social network con persone dell'altro sesso commette peccato. Lo stabilisce la fatwa dello sceicco Abdullah al-Mutlaq, membro della Commissione saudita degli studiosi islamici. Poi hanno fatto retromarcia: si riferiva a un caso isolato da non generalizzare. Non mi piace.

Il rock. L'ha decisa in Malaysia la Commissione del consiglio per gli affari islamici secondo la quale la musica rock va spenta perché fa male allo spirito. E c'è una variante, il black metal, che essendo dominata dall'immaginario occulto, ha il potere di traviare e stravolgere le anime dei giovani musulmani. Il liscio non si sa.

Il sesso. Fare l'amore si può. Ma non nudi. «Esserlo durante l'atto sessuale invalida il matrimonio» la fatwa imposta dallo sceicco Rashar Hassan Khalil. Non tutti sono d'accordo. Il presidente del comitato delle fatwa di alAzhar, Abdullah Megawer, ha corretto, come si suol dire, il tiro: nudità ammesse, ma a patto che i partner non si guardino.

La bicicletta. A lanciarla è stata la guida suprema della Repubblica islamica, l'ayatollah Ali Khamenei in persona: proibisce nel modo più assoluto la bici alle donne iraniane.

Il cane. Nonostante sia per l'Islam un animale impuro, il cane è molto diffuso come animale domestico in Iran. Così il grande ayatollah Nasser Makarem-Shirazi ha emesso la sua fatwa: «Non c'è dubbio che il cane sia un animale immondo». Pur ammettendo che il Corano non dice nulla in proposito. E allora?

Lo yoga. Oltre 10 milioni di persone hanno partecipano in India a una lezione di massa di yoga per il Guinness dei Primati. La cosa però non è piaciuta ai vertici religiosi musulmani di Bhopal che hanno lanciato una fatwa per condannare l'esercizio come «antislamico» e «pagano» per il riferimento al dio Surya.

La festa di compleanno. Celebrare compleanni e anniversari di nozze non può avere spazio nell'Islam. Lo dice il Gran Muftì dell'Arabia Saudita, Sheikh Abdul Aziz Al-Alsheikh. «Un musulmano dovrebbe solo ringraziare Allah se i suoi figli stanno bene e se la sua vita matrimoniale è buona». Le classiche nozze con i fichi secchi.

L'eclisse. Una fatwa lanciata dal gran mufti d'Egitto proibisce ai musulmani di osservare l'eclissi. «Mette in pericolo la vista dell'essere umano e poiché l'islam proibisce all'uomo di mettere in pericolo la sua vita è peccato guardare l'eclisse». E con questa siamo al buio pesto.

La sinistra tace sulla mercificazione dei bambini.

Nuovo video shock Isis, bambino spara ai prigionieri. Ragazzino di 10 anni giustizia due uomini, scrive Benedetta Guerrera su “L’Ansa”. Non c'è limite all'orrore jihadista: dopo le bambine kamikaze in Nigeria, costrette dai terroristi di Boko Haram a farsi saltare in aria imbottite di esplosivo, un nuovo terribile video dell'Isis mostra un ragazzino che impugna una pistola e fredda due ostaggi come un boia consumato. Immagini scioccanti, che dimostrano come la follia del terrore non si fermi più davanti a nulla. Nei nuovi otto minuti di orrore, pubblicati sui siti jihadisti e rilanciati dal Site (il sito Usa di monitoraggio dell'estremismo islamico sul web), la scena è simile a tante altre diffuse in questi mesi di atroce propaganda da parte degli assassini dell'Isis. Solo che in questo caso, il boia ha il volto pulito di un bambino che non avrà neanche 10 anni. "L'Isis ha raggiunto un nuovo livello di depravazione morale: usano un bambino per giustiziare i loro prigionieri", ha commentato postando un fermo immagine del video sul suo account Twitter Rita Katz, la direttrice del Site. Le vittime vengono presentate come due kazaki, di 38 e 30 anni, accusati di essere "spie russe". Prima della loro esecuzione i due confessano di essere "agenti del Fsb", i servizi russi, inviati in Siria per raccogliere informazioni sui jihadisti e soprattutto sui 'foreign fighter' russi. Dalle parole delle due spie si evince che sono stati in Turchia sulle tracce di qualche 'pezzo grosso' dell'Isis, il cui nome è però omesso. Il più giovane dei due 'rivela' anche di essere stato reclutato per uccidere "un leader dello Stato islamico". Il filmato, intitolato "Uncovering the enemy within" (Scoprire il nemico interno) e targato al Hayat media center - la 'casa di produzione' dello Stato Islamico - è di ottima qualità e ha un montaggio quasi cinematografico. Al momento dell'esecuzione ad opera del bambino, i due uomini appaiono inginocchiati a terra e hanno le mani legate dietro la schiena. Non indossano la tradizionale tuta arancione dei prigionieri di Guantanamo, che di solito i jihadisti fanno mettere agli ostaggi occidentali, ma una divisa azzurra. Alle spalle dei due condannati ci sono il ragazzino armato di pistola e un terrorista con la barba lunga e il kalashnikov che parla in russo. E' lui che spinge il bambino verso le sue vittime. Proprio a questo punto, quasi a voler enfatizzare il momento, le immagini vengono trasmesse al rallentatore e con un gioco di dissolvenze, mentre il terrorista ripete le ennesime minacce ai "nemici di Allah": il ragazzino, che ha un vistoso orologio al polso e indossa una felpa nera e pantaloni mimetici come il suo 'superiore', solleva la pistola e spara un colpo alla testa di ciascuno dei due prigionieri. Un colpo secco, sulla nuca, con incredibile freddezza. I due cadono a terra, il ragazzino si avvicina e ne finisce uno con altri due spari. Poi solleva il braccio con la pistola in segno di vittoria e sorride. Un video agghiacciante, che potrebbe essere una squallida messa in scena, costruita ad arte dai jihadisti dell'Isis, abili comunicatori del terrore. Nonostante le due vittime vengano colpite alla testa infatti, non si vede il proiettile uscire, né il sangue sgorgare dalla nuca o dal collo. Ma sono immagini che comunque lasciano sgomenti. Anche perché subito dopo la sequenza dell'uccisione parte il frammento di un altro video che era già stato pubblicato dall'Isis a novembre in cui lo stesso ragazzino appare in un gruppo di bambini kazaki che si addestrano a usare i kalashnikov. "Sarò uno di quelli che vi sgozzerà, kafiri", diceva il ragazzino. Anche in quel caso il filmato era scioccante, quasi irreale. Una ventina di bambini che smontavano e riassemblavano kalashnikov e poi miravano inginocchiati ai loro bersagli. "Sono la nuova generazione, saranno loro che scuoteranno la Terra", recitava una voce fuori campo.

Quanti sono i bambini soldato nel mondo. Il report redatto dall'Ufficio del Segretario Generale delle Nazioni Unite prende in esame i paesi dove è stata confermato l'utilizzo di minori arruolati sia dalle forze governative che da altri gruppi armati, e riporta i dati, ove ci sono, dei nuovi reclutamenti confermati nel 2013, scrive Cristina Da Rold su “L’Espresso” Il fenomeno dei bambini soldato pesa sempre di più, ma non si può contare. Le stime riportate da Amnesty International parlano di 300 mila bambini coinvolti in conflitti armati nel mondo, il 40% dei quali sarebbero bambine. L'Onu ne stima 250 mila. Se si cerca di definire con maggior dettaglio i contorni del fenomeno, il profilo diventa infatti subito sfumato. UNICEF, Human Right Watch, Child Soldier International, Amnesty International, le Nazioni Unite e molte altre realtà che si occupano di salvaguardare le condizioni dei minori nelle aree colpite dalla guerra, riportano la presenza ancora oggi come cinquant'anni fa, di bambini soldato, maschi e femmine, in molti paesi del mondo, dall'Africa al Sud America, al Medio Oriente. Secondo le stime UNICEF per esempio sarebbero 9000 i bambini soldato coinvolti in Sud Sudan, 2500 in India e addirittura 10000 quelli che avrebbero abbracciato le armi nella Repubblica Centrafricana. Tuttavia non ci sono dati certi e le stime spesso divergono di molto fra di loro, soprattutto in ragione della fluidità del fenomeno. Ogni anno infatti vengono effettuati numerosi raid fra la popolazione civile, più o meno noti alle milizie internazionali, dove vengono reclutati nuovi bambini da inserire nelle file degli eserciti, governativi e non. Al tempo stesso però altri vengono sottratti alle forze armate grazie all'azione di realtà come le Nazioni Unite. Il bilancio è dunque difficile. Il punto di riferimento più recente e più dettagliato in questo senso è un Report redatto dall'Ufficio del Segretario Generale delle Nazioni Unite Children and armed conflict, che prende in esame i paesi dove è stata confermato l'utilizzo di bambini soldato sia dalle forze governative che da altri gruppi armati, e riporta i dati, ove ci sono, dei nuovi reclutamenti confermati nel 2013. Come emerge dalla mappa però, solo per una parte di questi paesi, quelli evidenziati in rosso, le Nazioni Unite sono in grado di fornire dei numeri. Per gli altri, quelli colorati in nero, la presenza di bambini soldato per quanto accertata, non è quantificata con esattezza.

Armi giocattolo e fiabe sui martiri, niente tv. Ecco come si educa un bambino al jihad. Nel manuale per la donna jihadista, i consigli pratici per diventare la mamma perfetta. E insegnare ai figli ad essere «combattenti e ad avere paura solo di Allah: la chiave è iniziare a istillare questi valori quando sono ancora piccoli», scrive Daniele Castellani Perelli “L’Espresso”. Niente tv. Sì a pistole giocattolo e freccette. E prima di andare a nanna una bella favola sul jihad. Queste sono solo alcune delle regole che deve seguire una mamma perfetta per educare un piccolo jihadista. Il testo è uno di quelli per cui un mese fa Runa Khan, una donna di Luton, mamma di 6 bambini, è stata condannata in Inghilterra a cinque anni per aver incitato su Facebook al terrorismo. Fa parte di un vero manuale per la donna jihadista, chiamato “Il ruolo della Sorella nel Jihad”. Ma la sezione più interessante è sicuramente quella dedicata all'educazione dei bambini, una specie di “Emilio” rousseauiano pensato per il jihad. Lo è alla luce del ruolo centrale che i bambini sembrano avere nella strategia e nella propaganda dei terroristi islamici, quasi fossero impegnati nella costruzione di un uomo nuovo, fin dai primi anni. Lo confermano ora due notizie macabre degli ultimi giorni: il video del bambino kazako che, puntando una pistola, ucciderebbe per lo Stato Islamico due presunte spie russe e poi festeggia il suo gesto (in realtà dal video non è dmostrato che sia stato lui a ucciderli), e l'uso di almeno una bambina ricoperta di esplosivo per degli attentati compiuti da parte dell'organizzazione nigeriana Boko Haram. Ma già in precedenza erano note le tante foto di bambini vestiti con i simboli dell'Isis che circolano da tempo su Twitter e gli altri social media, tra cui quelle del britannico Siddhartha Dhar in posa con neonato e fucile, ma anche quella di Ismail, di Longarone, in Veneto, che il padre Ismar Mesinovic ha portato con sé in guerra strappandolo alla madre cubana. Alla stessa Runa Khan, 35 anni, sono state trovate foto dei figli con pistole e spade, ma aveva anche indicato dettagli del modo in cui raggiungere la guerra in Siria dall'Inghilterra e su un sito per estremisti si era augurata che un giorno suo figlio diventasse un jihadista. Il manuale era già noto da qualche anno agli specialisti, ma secondo l'istituto americano Memri (Middle East Media Research Institute) ora è tornato particolarmente in auge proprio per l'Isis. Lo dimostra lo stesso caso di Runa Khan, che quel testo l'ha pubblicato su Facebook nel settembre del 2013. Ma cosa dice esattamente il manuale? Nel capitolo “Come educare bambini mujahid (combattente nel jihad, ndr)” si descrive questo compito come «forse il più importante per le donne». Si deve insegnare ai bambini, che siano maschi o femmine, «ad avere paura solo di Allah»: «La chiave è iniziare a istillare questi valori quando sono ancora piccoli. Non aspettate che raggiungano i sette anni, potrebbe essere troppo tardi!». Poi ecco i consigli: «Racconta loro storie della buonanotte che parlino dei martiri e dei mujahideen. Sottolinea che non devono colpire i musulmani, anzi perdonarli, e che devono esprimere la loro rabbia sui nemici di Allah che combattono contro i musulmani. Magari crea un surrogato di nemico, ad esempio un sacco da colpire, e incoraggia i bambini, specialmente i maschi, a usarlo, a costruire la propria forza così come a imparare a controllarsi e a saper dirigere la propria rabbia». E per quanto riguarda lo svago? «Elimina se puoi completamente la tv, che perlopiù insegna cose senza vergogna, anarchia e violenza casuale. Inoltre la tv instilla pigrizia e passività, e contribuisce a un abbandono mentale e fisico. Se non puoi proprio eliminarla, usala per video che trasmettano l'amore per Allah e per il jihad. Ce ne sono alcuni anche sull'addestramento militare». Per i videogiochi il discorso è simile. Meglio di no, ma se proprio non può farne a meno allora sì a quelli militari. Il manuale invita poi a comparare «queste caratteristiche con gli aspetti salutari del gioco e dello sport, da cui può trarre beneficio in termini di disciplina e forza fisica». Qualche esempio? Il tiro al bersaglio con armi giocattolo, il tiro con l'arco e le freccette, «che permettono di sviluppare un buon coordinamento mano-occhio», e giochi militari che siano divertenti. Quanto agli sport, sì a arti marziali, nuoto, equitazione, ginnastica, sci, e poi altre attività come la guida di veicoli, l'orientamento nei boschi, il campeggio e l'addestramento per la sopravvivenza. Ci sono anche consigli di lettura, ovvero libri militari («meglio se con le figure») e siti web, il tutto già a partire da quando il bambino ha «due anni o anche meno»: «Non sottovalutate l'effetto duraturo di ciò che quelle piccole orecchie e quei piccoli occhi possono assimilare nei primi anni di vita!». Il manuale ricorda che «i bambini imitano quello che fanno gli adulti», e invita a iniziare sin dai primi anni perché così «non affronteranno poi battaglie interne quando diventeranno più grandi e saranno più coinvolti nel mondo». Ma a giudicare dalle notizie degli ultimi giorni bisogna dire che questo è un testo a suo modo moderato, laddove ad esempio raccomanda di non tenere le armi vere alla portata dei bambini, e di non usarle davanti a loro, oppure di non uccidere altri musulmani. Vuol dire che Isis e Boko Haram hanno alzato ancora più in là l'asticella. È la conferma che il jihadista di oggi è ancora più spietato di quello di ieri. È una nuova generazione.

Non solo apologia dell'Islam, ma anche tentativo di resuscitare una ideologia morta in nome di una falsa tolleranza.

I partigiani e la lezione di comunismo alle elementari. In Romagna l'Anpi celebra il Pci in un libro per le elementari. E le famiglie romene insorgono, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Papà cosa vuol dire "utero in affitto"?». Domande che ti vengono, all'età di dieci anni, solo se ti capita di leggere di femminismo, comunismo, guerra partigiana e D'Alema, in un libretto gentilmente donato dall'Anpi locale alle scuole elementari di Cervia, nella rossa Romagna, nel corso di una serie di lezioni. L'autore del librettino è Giampietro Lippi, presidente dell'Associazione nazionale partigiani a Cervia, «esponente del Pd» secondo un genitore di una delle scuole coinvolte, Raffaele Molinari, che sul suo blog denuncia l'«indottrinamento di partito» a spese dei bambini. Nel libretto distribuito nelle classi di quinta elementare, nel corso di vari incontri a scuola, non si rievocherebbe solo la storia dei partigiani e delle staffette, perché «tutte le storie sono raccontate per rendere idilliaco il ricordo del Pci, con innumerevoli note dove si citano personaggi del grande Partito comunista, le immagini col pugno alzato... Insomma comunismo ovunque», lamenta Molinari. Il quale riporta alcuni passi del libretto per rendere meglio l'idea: «Ho incontrato allora tanta brava gente. Tra i tanti, uno che ricordo con stima e simpatia, era il padre del nostro D'Alema, che aveva come nome di battaglia "Braccio"». O anche quest'altro: «Le portava l'Unità , perché la leggesse e incominciasse ad interessarsi alle cose vere della vita, ed Anna poco alla volta capì che era importante scegliere il fronte politico con il quale accasarsi e scelse il Pci». I genitori hanno chiesto spiegazioni alla scuola: «Dalle informazioni raccolte in un colloquio con la maestra - spiega Molinari - è risultato che Lippi è stato autorizzato ufficiosamente dalla direzione didattica di Cervia. Non una visita occasionale, ma un vero e proprio programma di lezioni, per tre settimane. Una sorta di arruolamento in vista del settantesimo anno della liberazione di Cervia». Il presidente dell'Anpi di Cervia, invece, è sconcertato dalle accuse: «Assurde, fuori luogo, senza senso - ci spiega al telefono - Io non faccio politica, racconto la storia, se le staffette partigiane erano comuniste o socialiste cosa devo farci, nasconderlo? Io sono un ex democristiano, si figuri, anche se adesso sì, sono iscritto al Pd. Questa iniziativa nelle scuole è nata insieme all'amministrazione comunale (guidata dal Pd, ndr ) e alla direzione didattica, per coinvolgere le scuole nel settantesimo anniversario della Liberazione a Cervia. C'è una bella differenza tra fare propaganda di partito e parlare delle staffette partigiane! Sono sconcertato dal livello culturale di certa gente, non meravigliamoci se l'Italia va male». I più arrabbiati per la sua iniziativa sono i genitori immigrati dall'Europa dell'Est, che del comunismo hanno un ricordo più vivo. Sui cancelli della scuola hanno appeso dei cartelli: «No al comunismo nelle scuole», «Il comunismo rovina i nostri figli», in romeno e altre lingue slave. E, mentre si parla di denunce partite all'indirizzo del presidente Anpi, oggi i genitori inscenano un corteo silenzioso nel centro della città: «In piedi, senza schiamazzi, senza rumore, reggendo in mano un libro di storia come segno della nostra protesta».

"Sì agli immigrati, convinci un leghista". Così la scuola indottrina i nostri figli. Bufera per il tema assegnato da un insegnante agli allievi di una scuola vicentina. Il Carroccio: "È inaccettabile", scrive Giovanni Masini su “Il Giornale”. Un clamoroso caso di indottrinamento politico: è questa l'accusa con cui la Lega Nord del Veneto si scaglia contro un insegnante dell'istituto "Ceccato" di Thiene, in provincia di Vicenza, reo di aver assegnato agli studenti un tema dal titolo "Persuadi un tuo compagno leghista che l'immigrazione non è un problema bensì una risorsa". In difesa del Carroccio si è levata l'europarlamentare Mara Bizzotto, che della Lega è anche vicepresidente regionale: "Quanto successo all'istituto Ceccato è molto grave e conferma come esistano purtroppo insegnanti che mischiano, in modo scorretto e inaccettabile, i propri convincimenti politici con l'insegnamento - continua l'onorevole Bizzotto - La scuola dovrebbe essere un luogo di libertà e una palestra di educazione e di vita, non un luogo di indottrinamento politico secondo i convincimenti politici del professore di turno". "Bene hanno fatto i genitori e gli studenti che hanno segnalato questo grave comportamento da parte dell'insegnante che, mi auguro, sarà severamente ripreso dagli organi competenti - conclude la Bizzotto - I nostri ragazzi hanno bisogno di una scuola che insegni, che funzioni e che svolga il proprio ruolo: i professori che vogliono far comizi o proselitismi politici li devono fare rigorosamente fuori dalle classi e fuori dalle scuole!". L'episodio risale a qualche giorno prima delle ferie natalizie. "Un professore si permette - ha rincarato la dose il consigliere regionale leghista Nicola Finco - di dare giudizi politici in classe su un partito come se il problema in questi giorni non fosse l'islam; nel frattempo i benpensanti radical chic di sinistra si scandalizzano perchè l'assessore regionale all'Istruzione scrive alle scuole affinchè in classe si tratti del problema del terrorismo islamico che è solo e unicamente cronaca".

Tema: «Immigrati sono una risorsa convinci un tuo compagno leghista». La bufera sulla traccia assegnata agli studenti dell'istituto Ceccato di Thiene. Salvini: «Pazzesco». L’europarlamentare Fontana: Pd regali tessera al prof, scrive Elfrida Ragazzo su “Il Corriere della Sera”. La parola «leghista» nel testo di un’esercitazione di italiano scatena la polemica. A sollevarla è il Carroccio attraverso Michele Pesavento, della segreteria politica del partito di Vicenza. Sotto accusa è una traccia per un esercizio di argomentazione proposto da un’insegnante di lettere agli alunni di una classe terza dell’istituto tecnico Ceccato di Thiene. «Dopo aver preso in considerazione i dati sull’immigrazione in Italia e dopo aver letto l’articolo – si legge nel documento diffuso - scrivi un testo argomentativo in cui persuadi un tuo compagno leghista che il fenomeno migratorio non è un problema, bensì una risorsa». Venuto a conoscenza dell’accaduto da alcuni genitori, Pesavento attacca: «Quella traccia è offensiva e razzista, l’insegnante di lettere ha trasformato quell’aula in un “pensatoio politico”». Ed invita il preside a «vigilare su chi ha confuso l’istituto Ceccato con una tribuna elettorale» e la docente in questione «a lasciare a casa tessera e ideologie politiche». Interviene anche il segretario federale della Lega Matteo Salvini: «Pazzesco!», Scrive in un tweet. Il consigliere regionale della Lega Nord Nicola Finco ricorda il caso sollevato da lui stesso sulla presenza dell’eurodeputata Alessandra Moretti, candidata alle elezioni regionali venete per il Pd, ad una festa di un istituto comprensivo di Arzignano prima di Natale. «Basta con la politica in classe. Le aule scolastiche non sono circoli del Partito democratico o della sinistra, serve rispetto – dice – Altrimenti i veri fondamentalisti non sono i leghisti, bensì certi professori di cui si può fare volentieri a meno. Invece di preoccuparsi di leghisti da persuadere, il docente potrebbe spiegare ai ragazzi cosa accade nel mondo in queste ore». L’europarlamentare della Lega Nord Lorenzo Fontana commenta sarcastico il caso di Thiene, Fontana chiosa serio: «La scuola è luogo di istruzione e formazione, non di propaganda politica, anche se è noto come sia un vizio storico della sinistra metterci becco. E poi quel professore dà per scontato l’assunto che l’immigrazione è una risorsa. E se un alunno non la pensasse così che succede? Mi piacerebbe conoscere i metodi di questo prof». E conclude: «Quel professore se proprio ha la fregola della politica può sempre iscriversi al Pd, sempre che non lo sia già. Ma fossi del Partito democratico gli regalerei la tessera. Motivazione: alti servigi al partito e alla causa della sinistra».

«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri).

"La scuola italiana in tutti i suoi gradi e i suoi insegnamenti si ispiri alle idealità del Fascismo, educhi la gioventù italiana a comprendere il Fascismo, a nobilitarsi nel e a vivere nel clima storico creato dalla Rivoluzione fascista". Benito Mussolini. Il fascismo, fin dai primi anni in cui prese il potere si preoccupò di rafforzare le proprie basi ideologiche e il consenso sociale. Uno dei mezzi utilizzati era l'indottrinamento ideologico a partire dalla scuola. Dal neo-governo fascista venne, infatti, approvata la Riforma Gentile che proponeva una nuova forma di organizzazione scolastica, con l'introduzione dell'Esame di Maturità e la Religione come materia obbligatoria. Il partito si preoccupò anche di garantire un'impostazione dei vari programmi secondo un criterio nettamente di parte, introducendo testi scolastici come il noto libro di testo unico per le Elementari. All'organizzazione scolastica si aggiungevano varie forme di indottrinamento legate soprattutto all'attività fisica e alle parate.

Poi le cose son cambiate. E’ nato l’indottrinamento comunista e di sinistra in generale.

Scrive Giorgio Israel. Un ragazzino di 13 anni mi dice di detestare la letteratura. Il suo sguardo scettico, mentre gli vanto la bellezza dei classici e gli parlo della Divina Commedia, mi spinge a una sfida temeraria: «Te ne leggo un canto». Procedo temerariamente, aspettandomi sbadigli e il rigetto finale condito del tipico insofferente sarcasmo adolescenziale. E invece funziona. Tanto funziona che il ragazzino mi chiede se non potremmo fare altri incontri e continuare, e poi chiede: «Ma perché a scuola non ci fanno leggere testi così? Guarda invece cosa mi è toccato in questi giorni». È un brano di Gino Strada sugli “effetti collaterali delle guerre”. Lo leggo tutto e non ha niente di letterariamente valido: è una predica ideologica noiosa scritta in modesto italiano. Colgo l’occasione per sfogliare l’antologia del ragazzino: c’è da restare a bocca aperta. Al brano di Strada seguono due pagine di “competenze di lettura” dove l’alunno deve mostrare di aver capito il testo apponendo crocette nelle caselle giuste. Seguono pagine di indottrinamento sotto il titolo “che cosa succede nei paesi dove c’è la guerra”; poi ancora competenze di lettura e scrittura “contro la guerra”, per finire con una pagina incredibile. Contiene una serie di immagini, per lo più banali o stucchevoli, come quella di un gruppo di bambini a cavalcioni su un cannone, e prescrive il seguente compito: «osserva i cartelli contro la guerra, poi scrivi per ognuno una frase-slogan»…

Come la dobbiamo chiamare? Competenza di manifestazione di piazza? È finita qui?

Niente affatto. Seguono le “competenze grammaticali”, in cui l’alunno è invitato a mostrare di saper far uso della locuzione “sarebbe meglio”: riempi lo spazio con i puntini nella frase «Invece di fare la guerra, sarebbe meglio…», e così via. Seguono le “competenze di cittadinanza attiva”, in cui l’alunno deve dar prova di aver assimilato i concetti di conflitto, guerra e pace, costruendo una “mappa concettuale” sul tema. E, come se non bastasse, l’acme di un tormentone di decine di pagine è una “verifica di fine unità” e… una prova Invalsi. Non capisco in base a quale diritto la scuola pretenda di indottrinare i ragazzi all’idea che tutte le guerre siano egualmente sporche. Dovrei forse accettare che i miei figli considerino la guerra di liberazione dal nazifascismo – grazie alla quale sono potuti venire al mondo – alla stregua della guerra scatenata dalle armate hitleriane? Non saprei immaginare una prepotenza più oscena. Ma andiamo avanti. Ometto di fare un elenco completo degli autori che popolano l’antologia, per non offendere nessuno, anche se credo che né Jovanotti né Luciano Violante abbiano mai compreso nelle loro aspirazioni quella di competere con Tolstoj e Pirandello. Consiglio di sfogliare alcune delle antologie che circolano nelle nostre scuole per constatare che ormai questa è la concezione della letteratura che le ispira. E pongo alcune semplici domande.

Qualcuno può davvero seriamente pensare che questo sia un modo valido per instillare l’interesse per la letteratura, per la lettura, per la scrittura? Non è giunto il momento di interrogarsi seriamente sulla deriva che sta prendendo la funzione istituzionale dell’istruzione?

L’attuale dibattito sulla vicenda della lettura del romanzo di Melania Mazzucco in un liceo romano è tutto centrato attorno al dilemma se sia giusto o no scegliere dei testi adatti a combattere le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere o se tale scelta sia mera pornografia. Pare che per molti, inclusi alcuni dirigenti scolastici e insegnanti, la funzione della scuola sia ormai meramente ideologica. Si dirà che Melania Mazzucco è una vera scrittrice a differenza di Strada ma, la vera questione è se, a fronte del panorama sterminato di letteratura di livello indiscutibilmente alto, e con cui si potrebbero riempire decine di antologie, si preferisce cancellare Leopardi a vantaggio di testi il cui unico indiscutibile merito è di avere una funzione ideologica. Le denunce legali, che finiranno puntualmente nel nulla, sono un’azione senza senso. È più appropriato denunciare (in termini non legali) la deriva di una scuola che sta rinunciando all’educazione al bello, e la guarda con sarcasmo come se fosse orpello di altri tempi; che rinuncia ad appassionare i ragazzi al piacere di leggere prose e poesie di valore universale, a discuterli in classe senza questionari di competenze e senza pagine pieni di imbecilli quesiti a crocette; lasciando che la determinazione di posizioni su temi come il sesso, la famiglia, la guerra o l’ambiente, sia conseguenza della formazione libera di una personalità strutturata sull’amore per la conoscenza, la cultura, la bellezza artistica in tutte le sue forme. La scuola non dovrebbe impicciarsi di imbastire “lotte” contro questo o quello, di educare a pensare in questo o quel modo, di insegnare a compilare cartelli da portare in piazza, selezionando la letteratura su questi criteri. Perché, così facendo, la sua funzione educativa si trasforma in ciò che vi è di più brutto: l’indottrinamento ideologico. Brutto e diseducativo, perché è caratteristico delle società totalitarie e come tale stimola le peggiori forme di intolleranza.

Non potrò mai dimenticare che, all’indomani della caduta del Muro di Berlino, Alberto Lecco, un grande romanziere dimenticato – dal cui capolavoro “Anteguerra” si potrebbero trarre brani antologici ben più validi di quelli che vengono propinati – fece questo commento: «Il comunismo finito? Comincia solo adesso…». Aveva ragione. Il comunismo dei soviet, dei comitati centrali e delle commissioni centrali di controllo è finito da un pezzo. Ma il comunismo come costruttivismo sociale, come aspirazione a una società basata sull’indottrinamento ideologico, è più vivo che mai, metastatizzato nella forma del “politicamente corretto” che, sotto la veste di una bontà ipocrita e falsa, propina incessantemente le prescrizioni soffocanti di un conformismo sociale costruito a tavolino, in cui non c’è più spazio per il libero sviluppo della personalità.

L’intellighenzia sinistra non finisce mai di stupire, scrive “Il Fazioso”. Certi professoroni dei nostri licei, dopo l’abituale giro in sezione, si impegnano al massimo per trovare occasioni per fare della sana propaganda nelle scuole. E sono veramente fantasiosi se per il loro scopo piazzano a tradimento persino delle versioni di latino contro Berlusconi. Ora la prof mattacchiona tenta di difendersi in ogni modo, spiegando l’alta importanza didattica della versione. Il preside difende la docente parlando di tentativo di incuriosire gli studenti con l’attualità, ovviamente nessuno ha pensato all’opportunità di una versione palesemente contro il premier. Ma che sarà mai? Ci spiegheranno che non c’è dietrologia politica ma piuttosto educazione d’avanguardia. Il prossimo passo è portare Berlusconi nella matematica con qualche problema sul suo patrimonio finanziario (ovviamente condito da qualche passaggio denigratorio). Quanto sono furbi questi sinistri.

Istruzione o Indottrinamento? Si chiede David Icke su “Crepa nel Muro”. La "istruzione" esiste allo scopo di programmare, indottrinare e inculcare un convincimento collettivo in una realtà che ben si addica alla struttura del potere. Si tratta di subordinazione, di mentalità del non posso, e del non puoi, perché è questo ciò che il sistema vuole che ciascuno esprima nel corso nel proprio viaggio verso la tomba o il crematorio. Ciò che noi chiamiamo istruzione non apre la mente: la soffoca. Così come disse Albert Einstein, “l’unica cosa che interferisce con il mio apprendimento, è la mia istruzione.” Egli disse anche che "la istruzione è ciò che rimane dopo che si è dimenticato tutto quanto si è imparato a scuola." Perché i genitori sono orgogliosi nel vedere che i loro figli ricevono degli attestati di profitto per aver detto al sistema esattamente quanto esso vuole sentirsi dire? Non sto dicendo che le persone non debbano perseguire la conoscenza ma – se qui stiamo parlando di libertà – noi dovremmo poterlo fare alle nostre condizioni, non a quelle del sistema. C’è anche da riflettere sul fatto che i politici, i funzionari del governo e ancora giornalisti, scienziati, dottori, avvocati, giudici, capitani di industria e altri che amministrano o servono il sistema, invariabilmente sono passati attraverso la stessa macchina creatrice di menti (per l’indottrinamento), cioè la università. Triste a dirsi. Molto spesso si crede che la intelligenza e il passare degli esami siano la stessa cosa ... Una sera mi trovavo in discoteca, e la pista da ballo era vuota perché il DJ aveva messo su della musica che le persone non volevano ascoltare. Questo insopportabile egocentrico si rifiutò di cambiarla, e io chiesi se fosse una scelta così intelligente, date le circostanze. Quello si indignò. Aveva la prova di essere intelligente, avendo un diploma! Che ridere. La intelligenza fondamentalmente consiste nel rendersi conto che le persone non ballano perché la musica fa schifo, e nel mettere al suo posto qualcosa che piaccia; un diploma consiste nel dire al sistema ciò che esso ti ha detto di dire. Cosa c’è di intelligente in questo? Il sistema relativo alla istruzione, o Programma di Distribuzione Automatico di Salsicce è parte essenziale dello ipnotismo sistemico. Il programma della istruzione è organizzato in modo sistematico con tre principali obiettivi:

1 – Impiantare nella realtà un convincimento in linea con la illusione della Matrice. Questo è abbastanza semplice. Non devi fare altro che offrire agli studenti la versione ufficiale della scienza, della storia, della religione e del mondo in generale. Questo viene fatto programmando gli insegnanti attraverso la scuola, la università e la facoltà di magistero; poi li si manda fuori a programmare la generazione successiva con le stesse fesserie che è stato detto loro di insegnare e di credere. Come disse Oscar Wilde: “Quasi tutte le persone sono altre persone. I loro pensieri sono le opinioni di qualcun altro, le loro esistenze una parodia, le loro passioni una citazione.” La maggior parte degli insegnanti, come anche dei medici, degli scienziati, della gente del mondo della informazione, e così via,è ciò che il mio amico Mark Lambert definisce ‘i ripetitori’. Essi non fanno che ripetere ciò che qualcun altro ha detto loro, invece di accedere attraverso la coscienza alla propria verità. Si tratta di una realtà di seconda mano. Il procedimento è simile a quello dello scaricamento di informazioni su disco (insegnante) seguito dalla sua riproduzione in un gran numero di copie (ragazzi e studenti). Nell’ambito di scuole e istituti superiori si ha il permesso di discutere poco o nulla che esuli da questa versione convenzionale della vita, e i punti di riferimento alternativi dai quali osservare questa realtà indottrinata da una altra prospettiva sono scarsi, sempre ammesso che ve ne siano. I ragazzi passano attraverso questo distributore automatico mentale e nel frattempo vivono con adulti (altri ripetitori) che hanno già assorbito la stessa programmazione, e in più guardano mezzi di informazione (altri ripetitori) che ripete a pappagallo la stessa storia ‘ufficiale.’ Non c’è da meravigliarsi se i ragazzi credono che la illusione sia reale quando ogni fonte di ‘informazione’ dice loro che è così.

2 – Trasformare i ragazzi in robot che seguano gli ordini dell'insegnante (sistema). Ciò richiede il Programma del Bastone e della Carota. Si rende molto più facile ai ragazzi la accettazione del volere degli insegnanti (personificazione del sistema), piuttosto che il mettere in discussione la autorità ed i concetti in cui essi dicono di credere. Ricompensa uno e punisci l’altro. "Fa come ti dico e credi a ciò che ti racconto" viene instillato fin dalla più tenera età in quello indottrinamento che chiamiamo scuola, istituto superiore e università. Gli esami rappresentano il sistema che richiede di sentirsi dire ciò che ti hanno detto che devi pensare. Sono la prova che conferma se un download sia andato o meno a buon fine. Quando fate il download di qualcosa su un computer, appare un piccolo box con la scritta: "Vuoi aprire questo file adesso?" Voi lo aprite per assicurarvi che i dati siano stati scaricati correttamente. E’ questo che sono gli esami. I bambini indipendenti, che rifiutano il download, vengono considerati una influenza distruttiva. Avete notato che – mentre possono esserci disaccordi su come si insegna ai ragazzi – raramente vi sono discussioni su cosa viene loro insegnato? Questo perché la Matrice ha una tale presa sulla realtà umana che il cosa venga insegnato è accettato pressoché universalmente. In verità, se le scuole introducessero corsi sulla spiritualità in relazione alla Unità di tutto e alla illusione della forma, i genitori controllati dal Programma Divino protesterebbero furiosamente contro questa offesa alla loro fede cristiana, islamica, ebraica, ecc. ai bambini non solo viene somministrato del veleno per bocca, ma anche attraverso la mente.

3 – Soffocare nella popolazione/bersaglio (ragazzi) qualsiasi idea di unicità e spontaneità. Le scuole sono per lo più zone proibite alla spontaneità e al libero pensiero perché sono consumate dalle regole. Questa è una perfetta preparazione al mondo degli adulti, il quale è strutturato nello stesso modo. La unica differenza è che gli insegnanti per adulti si chiamano agenti di polizia, funzionari statali, ispettori del fisco, più tutti gli altri cloni - per la maggior parte ignari – al servizio della Matrice. Stavo leggendo che in Inghilterra, in una scuola secondaria, è stato proibito agli alunni di tenere per mano o abbracciare il proprio fidanzatino / fidanzatina allo interno dello edificio. Il preside si è giustificato dicendo che un tale comportamento non sarebbe stato consentito ad adulti sul luogo di lavoro. I ragazzi vengono plasmati per diventare una mente collettiva ad alveare, piuttosto che espressioni di unicità. Comportatevi allo stesso modo, e credete allo stesso modo. Un’ultima cosa: perché agli adulti non dovrebbe essere permesso di baciarsi e abbracciarsi sul luogo di lavoro? Accidenti, solo nella matrice lo affetto poteva essere sottoposto ad un regolamento.

Come ottenere l’obbedienza. L'indottrinamento scolastico, scrive Corrado su “Scienza Marcia”. Immaginiamo una ristretta cerchia di persone, un’oligarchia, che voglia mantenere il proprio potere politico/economico sopra una nazione sfruttandone il popolo: quali sono i metodi migliori per consolidare tale potere e renderlo inattaccabile? I metodi sono diversi, anche perché ci sono due strategie di fondo per mantenersi al potere:

1) Quella di esercitare il potere in maniera ferrea e dittatoriale, mostrando palesemente che chi si oppone rischia di venire incarcerato, torturato, ucciso;

2) Quella di fingere di fare tutto il possibile per il popolo, peccato che ci siano i nemici esterni, i nemici interni, le calamità naturali, le crisi ricorrenti del sistema economico, le recessioni, fattori difficilmente controllabili che vanificano gli sforzi che il potere fa “per il bene del popolo”.

Ovviamente questi sono due schemi di massima, che in realtà non si realizzano mai in maniera “pura”. Anche le dittature esplicite nel corso della storia hanno cercato di presentarsi di volta in volta come “necessarie per il bene del popolo, della repubblica, del regno, della nazione” ed hanno cercato di fingere di fare del bene per i propri sudditi. Anche le dittature implicite (come le odierne “democrazie”) pur fingendo di agire per il bene dei sudditi utilizzando il pungo duro con gli avversari più irriducibili, quelli che hanno capito l’ipocrisia del sistema politico e la denunciano, la combattono. Anche nelle nostre finte democrazie che si oppone radicalmente al sistema di potere smascherandone le menzogne rischia di essere incarcerato, torturato, ucciso. In tutti i casi però ci sono degli strumenti che vengono utilizzati da quasi tutte le oligarchie/dittature (esplicita o implicita) per mantenersi saldamente al potere:

- la creazione di finti nemici;

- la divisione del popolo in due o più fazioni che si contrappongono su tematiche di poca importanza (come dicevano i romani “divide et impera” ossia “dividi e governa”);

- il grande risalto dato a manifestazioni di nessun valore, giochi, sport, intrattenimenti futili (ai tempi dei romani c’erano i “circenses”, ossia i giochi del circo);

- la garanzia della sopravvivenza alimentare, senza la quale si rischia una seria rivolta (per governare i romani distribuivano “panem et circenses”, “pane e giochi circensi);

- l’infiltrazione nei movimenti di opposizione di massa per manovrarli a loro insaputa;

- l’utilizzo di tecniche di controllo di massa (tramite l’applicazione delle più raffinate tecniche derivate dallo studio della psicologia di massa, della sociologia);

- il controllo dell’emissione della moneta;

- il controllo sulla formazione della cultura;

- il controllo della scuola;

- il controllo dell’informazione (il cui utilizzo distorto serve anche a nascondere agli occhi della gente la maniera in cui si utilizzano tutti gli altri strumenti di controllo).

Quando avrò più temo forse mi metterò a dimostrare che le nostre “democrazie” sono oligarchie mascherate, che i veri poteri forti che stanno dietro ai burattini che siedono in parlamento non hanno scrupolo ad usare le peggiori forme di violenza e di coercizione contro chi si oppone ad essi. Basterebbe ricordare il clima di violenza e di repressione totalitaria che si è respirato a Genova nel 2001 (governo di destra), e a Napoli pochi anni prima (governo di sinistra) in occasione di due manifestazioni dei no-global per rendersi conto che il potere che comanda le nostre “democrazie” è violento per natura (detto questo non mi confondete con un aderente ai movimenti no-global per carità, non rientro né in quella né in altre etichette). Quando avrò più tempo mi impegnerò a dimostrare come i governi utilizzino tutte le strategie sopra elencate. Per adesso mi limito ad una sola affermazione: sarebbero stupidi se non le utilizzassero. Volete che governi che utilizzano le migliori e più raffinate tecnologie scientifiche (ad esempio per spiare e controllare tutto e tutti) e non usino le più sottili e raffinate strategie di controllo sociale, pensate davvero che si astengano dall’infiltrarsi nei gruppi di opposizione per pilotarli nascostamente ed utilizzarli per i propri fini? Non vi rendete conto che il leader della cosiddetta “opposizione no-global” è un medico che porta acqua al mulino del Nuovo Ordine Mondiale diffondendo il pregiudizio che l’AIDS sia causato dall’HIV? Non vi ricordate di quando il TG della RAI disse che “i servizi segreti italiani erano a conoscenza del piano per il rapimento di Aldo Moro due settimane prima che avvenisse la strage di Via Fani?”. Non vi ricordate di come in quei giorni arrivò una soffiata sul posto in cui era nascosto Moro e di come la polizia evitò di controllare l’informazione? Lo so, l’informazione dei mass-media non aiuta certo a ricordare certi “dettagli” di fondamentale importanza. Se riuscirò un giorno parlerò di come vengono utilizzate tutte queste tecniche di manipolazione/controllo/dominio, ma oggi voglio parlarvi di una di esse in particolare, perché ci lavoro: la scuola. Cosa c’è di meglio della scuola per indottrinare le persone? Se n’era accorta subito la chiesa quando lo Stato Italiano ha deciso di istituire una scuola elementare pubblica. “Orrore! Orrore! - hanno gridato il papa e tutti i preti in coro - sacrilegio! L’istruzione l’abbiamo sempre gestita noi fino ad ora, guai a chi la sottrae al nostro controllo”. Con questo non voglio certo affermare che lo stato abbia inaugurato una scuola pubblica incentrata sulla libertà, perché se l’educazione gestita dai preti era sicuramente di parte, anche la scuola pubblica serviva ad inculcare nei futuri cittadini tutta una serie di idee preconcette: “lo stato è buono”, “il potere è buono”, “il re è buono”, “il re è bello”, “il papa è santo”, “è giusto morire per la patria”, “non ribellarti al potere”. Un tipico esempio è quello della Germania/Prussia ai tempi di Bismarck , il quale affermò senza giri di parola che voleva utilizzare la scuola per infondere uno spirito militaresco nei allievi. A giudicare dai risultati che si sono ottenuti nel giro di 50 anni (Hitler, il nazismo, la seconda guerra mondiale) bisogna dire che quell’indottrinamento militare è stato decisamente “proficuo”. Cosa pensate che sia cambiato da quei lontani termini? La forma sì, certamente la forma è cambiata, ma la sostanza? Nel 2001 ad esempio è stato decretato dal ministro dell’istruzione Moratti l’osservanza di tre minuti di silenzio per commemorare i morti delle torri gemelle a New York, squallida manovra per indurre un’approvazione della guerra USA contro l’Afghanistan e della partecipazione Italiana al conflitto (sebbene in una maniera minore e molto subdola, inviando un contingente al comando degli USA solo dopo l’occupazione militare di quella Nazione e la caduta del vecchio governo). Forse qualcuno pensa che la scuola, almeno quella pubblica, garantisca un confronto fra diversi modi di pensare, diverse opinioni politiche, idee contrapposte. In realtà questo succede limitatamente al fatto che i professori e i maestri hanno diversi orientamenti politici, votano per partiti differenti, e quindi si lasciano sfuggire discorsi e battute contro questo o quell'uomo politico. Per il resto l'omologazione all'interno della classe docente é fortissima, soprattutto quando entrano in gioco la storiografia e la scienza ufficiale, oppure il "sentimento religioso" ed il cosiddetto "amor patrio" (che raramente coincide con il vero amore per la propria terra e per i propri connazionali, mentre troppo spesso é bieco nazionalismo). In tutti questi casi non solo vi é un quasi totale allineamento dei docenti sulle stesse posizioni, ma chi tenta di esprimere il suo dissenso viene spesso trattato come un folle o come un fastidioso rompiscatole. Nei primi anni del 2000 nella scuola italiana (a partire dal già menzionato episodio relativo ai morti dell’11 settembre 2001) si é preso il brutto vizio di indire dei minuti di silenzio per commemorare la morte di alcune persone, facendo così una ben curiosa distinzione fra morti da commemorare e su cui riflettere, e morti su cui é meglio non soffermarsi col pensiero. A quanto pare qualcuno vuole inculcare nelle menti delle persone, e dei alunni in particolare, l'idea che le vite degli esseri umani non abbiano tutte uguale dignità e valore. Per due volte l'iniziativa é stata imposta direttamente dal governo, ma le altre volte sono stati i singoli dirigenti scolastici a decidere "autonomamente" (le virgolette sono dovute al fatto che lo hanno fatto praticamente tutti adeguandosi ad un andazzo nazionale). Di conseguenza l'istituzione scolastica ha cercato di imporre una particolare visione politica della realtà secondo la quale, ad esempio, i 3000 morti delle torri gemelle sono da ricordare e commemorare e sono più importanti sia del milione di iracheni uccisi dalla guerra e dall'embargo negli anni '90, sia dei 3000 bambini che muoiono di fame ogni giorno. Alla stessa maniera i militari italiani (superpagati e volontari) morti a Nassirya sono da ricordare e commemorare per il loro "sacrificio per la pace" a differenza degli operai (sottopagati e sfruttati) che muoiono quotidianamente negli incidenti sul lavoro. In quell'occasione una mia timida espressione di dissenso é stata stigmatizzata dal preside (che era persino contrario alla guerra in Iraq). Non credo che abbia capito che, per quanto mi dispiacesse per la morte di quelle persone, non ritenevo opportuno che la scuola venisse utilizzata per imporre simili commemorazioni dal fine prettamente politico. Avete mai visto una simile commemorazione quando sono morti 10 operai di una fabbrica? A quanto pare per i mass media e per le istituzioni, scuola compresa, la vita di un operaio é meno importante di quella di un militare. Per altro molti militari inviati in Iraq facevano sfoggio nei loro alloggi di simboli fascisti, ed é quindi più che legittimo dubitare del fatto che fossero lì a rischiare la vita per la pace; forse molti di loro si sono ritrovati in Iraq perché attratti dall'alta paga e dalla voglia di un'avventura esotica. Ma la scuola con le sue commemorazioni calate dall'alto impone implicitamente un punto di vista, ed invece che organizzare una riflessione sul conflitto iracheno, una discussione sull'opportunità di quella missione militare all'estero, fa semplicemente da grancassa al trambusto mediatico, e contribuisce al risorgere di quel discutibile "sentimento della patria" che nasconde il rilancio della funzione offensiva dell'esercito; un esercito che, in barba alla costituzione, è stato impiegato in 15 anni per ben 4 volte in operazioni militari al seguito delle guerre statunitensi. Anche quando c'è stata la strage dei bambini in una scuola della Cecenia si è ripetuta a scuola la commemorazione silenziosa; curiosamente questa volta non é stata imposta direttamente dal governo, ma organizzata dal solito trambusto dei mass-media. Ma il copione non è per questo cambiato di molto: siccome i terroristi Ceceni venivano presentati come islamici e siccome gli USA ed i loro alleati erano impegnati in una serie di guerre contro il “terrorismo islamico” qualcuno deve avere deciso di utilizzare anche questo triste avvenimento per orientare la coscienza delle masse, e degli alunni in particolare. E che dire del Papa commemorato col solito minuto di silenzio e ricordato come "uomo di pace"? Proprio lui che col riconoscimento precipitoso delle repubbliche secessioniste della ex-Jugoslavia aveva accelerato un processo che avrebbe portato alla guerra fratricida? Proprio lui che dei preti uccisi nella guerra civile spagnola, aveva beatificato solo quelli fedeli al fascista Franco? E non parliamo delle sue discutibili scelte in ambito religioso per evitare di scrivere un trattato sull'argomento. Intendiamoci, non mi interessa in questa sede discutere sulla bontà o sulla presunta santità del defunto Papa Giovanni Paolo II, quello che intendo rilevare é che la scuola rendendo omaggio alla memoria di alcune persone e dimenticandosi invece di altre, fa una scelta che ha dei significati politici ben precisi, e che puzza tanto di indottrinamento. "La scuola dell'indottrinamento scientifico". Quanto al resto, o meglio, per quanto riguarda tutti gli aspetti controversi della cultura ufficiale che vengono esaminati in questo sito, di confronto e di contrapposizione ce n'é ben poca, ma quello che é peggio è che il confronto o viene vietato o viene ostracizzato in ogni maniera. Se é comprensibile il fatto che i docenti siano stati ingannati da un certo sistema di gestione del potere e della cultura e che quindi non discutano quasi mai argomenti che mettano in dubbio certe presunte verità (in particolare sull'affidabilità della medicina ufficiale, sugli espianti, sull'aids, sulla psichiatria, sulla preistoria), ben diverso é il fatto che quando ci si prova a prospettare un confronto su questi tempi si scatenino i peggiori isterismi che portano perfino a vietare l'approfondimento di certe tematiche controverse. La mia pluriennale esperienza di docente nella scuola superiore mi ha permesso purtroppo di verificare che su certe questioni l'atteggiamento di rifiuto del dissenso e di condanna di chi esprime opinioni difformi é del tutto generalizzato. Ecco un primo esempio.

Espianti e trapianti. Liceo scientifico di Caravaggio, agli inizi del 2000, su proposta di una professoressa la scuola approva una visita ad un ospedale per andare ad assistere in diretta ad un'operazione di trapianto. Al di là del fatto che una simile iniziativa si potrebbe subito giudicare di cattivo gusto, la cosa peggiore è stata la maniera in cui la scuola ha reagito alle proteste contro tale iniziativa. In seguito ad un volantinaggio di protesta della "Lega nazionale contro la predazione degli organi" che cosa ha pensare di fare l'istituzione scolastica per garantire una serena discussione di approfondimento su questo tema controverso? Semplice, ha chiamato un medico favorevole ai trapianti per tenere una conferenza rivolta soprattutto agli alunni delle ultime classi, senza pensare minimamente a prevedere alcun contraddittorio. Come lo volete chiamare questo? … "orientamento guidato"? ...Il caso ha voluto che il giorno stesso in cui era prevista quelle conferenza a favore dei trapianti io fossi stato invitato nella stessa scuola a tenere una relazione sull'embargo in Iraq. Si trattava di iniziative all'interno di quella che viene (spesso impropriamente) chiamata "autogestione", uno spazio di alcuni giorni dedicato a dibattiti, discussioni, approfondimenti su tematiche sociali e politiche di attualità. Finita la mia relazione sull'Iraq sono venuto a sapere che subito dopo iniziava la conferenza sui trapianti. Allora ho chiesto ad alcuni alunni responsabili dello svolgimento di quella "autogestione" se potevo partecipare alla conferenza per esprimere pareri opposti a quelli del conferenziere e permettere un contraddittorio. Per essere corretto non sono entrato nella sala in cui si svolgeva la conferenza prima di chiedere ed ottenere un permesso. Risultato: dopo 10 minuti in cui ho contestato alcune affermazioni del relatore ufficiale arriva il vicepreside ha "espellermi". Ma come, non era un'autogestione? No, risponde il vicepreside, in realtà si trattava di una "co-gestione", ossia un'iniziativa gestita dalla direzione scolastica in collaborazione con gli studenti, ed il mio intervento non era previsto. L'idea di approfittare della presenza di un esperto che potesse ravvivare il dibattito e creare un contraddittorio é ovviamente fuori dalla portata di certe persone. Dopo qualche anno è successo il bis in una scuola in cui insegnavo, quando con una collega di Italiano abbiamo affrontato il tema dei trapianti, facendo leggere articoli pro e contro la donazione degli organi (da notare che la mia collega è moglie di un medico che ha lavorato in rianimazione e certificato alcune “morti cerebrali”), ed a fine anno abbiamo pure organizzato una presentazione ai genitori ed alla scuola il lavoro da noi svolto. In questo “happening di fine anno” sono stati anche presentati i dati:

fra gli alunni di quella classe (primo liceo) che hanno approfondito l’argomento, nonché fra i genitori che erano stati coinvolti nella discussione, l’80% era contrario alla “donazione degli organi”;

fra gli alunni di un’altra classe (sempre una prima liceo), che non aveva mai approfondito la tematica, nonché fra i loro genitori, l’80% era favorevole alla “donazione degli organi”.

In quell’occasione io ho anche espresso (cercando persino di moderarmi a causa della mia “veste istituzionale”) alcune mie perplessità sulla donazione degli organi, mentre un dottore (il marito della mia collega) ha espresso la sua convinzione sulla correttezza della dichiarazione di “morte cerebrale” pur facendo alcuni distinguo sulle modalità con cui avveniva la “donazione”. Risultato: il preside mi ha additato al pubblico disprezzo come indottrinatore durante una riunione collegiale dei docenti della scuola (lo ringrazio per avermi considerato così bravo da indottrinare e convincere non solo i miei alunni ma persino i loro genitori che hanno solo ricevuto dei materiali di opposte tendenze sul trapianto e la donazione degli organi). Come se non bastasse durante un colloquio personale mi ha precisato che i docenti che avevano fatto propaganda esplicita alla donazione degli organi hanno agito bene, mentre io che ho provato (con tutti i miei limiti) ad informare sul pro e sul contro della questione ho agito male ed ho indottrinato gli studenti !!! Ah dimenticavo, il mio preside si vantava di “essere di sinistra” (e che vuol dire)? Ah dimenticavo, due anni dopo hanno fatto in un’altra classe un lavoro di ricerca sui trapianti, avendolo saputo mi sono offerto come collaboratore per contribuire ad una informazione non settaria. Non solo mi hanno escluso, ma nei lavori dei ragazzi non ho visto traccia del dubbio, nemmeno del dubbio, che trapianti/espianti potessero essere poco utili e poco etici. Avete capito come funziona la scuola?

E poi c'è ancora un'altra storia.

"Raccogliamo soldi contro il cancro". Sempre nella stessa scuola mi sono opposto alla raccolta di fondi per un’associazione che “lotta contro la leucemia”, che sostiene i trapiantati di midollo (e che quindi propaganda, sebbene indirettamente, il trapianto di midollo). Ho provato per 4 anni a chiedere su quali basi scientifiche si potesse affermare che il trapianto di midollo fosse utile nella cura della leucemia, e devo dire che a volte ho litigato ferocemente con alcuni docenti (povero me, com’ero ingenuo a quei tempi!). Per 4 anni mi hanno detto che “le prove ci sono”, “te le porteremo prima o poi”. Poi ho chiesto per telefono all’associazione “contro la leucemia” e avessero tali dati. “Non ne abbiamo - è stata la risposta - si rivolga ai medici dell’Ospedale”. Poi finalmente mi sono rivolto a Internet (perché non ci ho pensato prima?) e ho scoperto che la mortalità per leucemia è del 67%, quella per trapianto di midollo … indovinate! Intorno al 66% (con la maggior parte dei decessi nei primi due anni dal trapianto). Un’ottima cura quella del trapianto non c’è che dire, tanto è vero che in quella scuola si usava raccogliere fondi per “la lotta alla leucemia” in memoria di una ragazza leucemica che era stata trapiantata ben due volte ed era morta. Due insuccessi non sono bastati per aprire gli occhi. E adesso cosa credete che sia successo quando ho stampato quei dati (presi dal sito del ministero della sanità e dal sito dell’Istituto nazionale dei tumori) e li ho mostrati ai miei colleghi? Niente, niente di niente, tutto come prima. E si continuano a raccogliere fondi. Avete capito come funziona la scuola?

No, no, non è finita, perchè è la volta del'AIDS!

AIDS: Vietato dissentire. Sempre la solita scuola, propongo di realizzare in alcune classi un lavoro di confronto pro e contro l'ipotesi che l'HIV causi l'AIDS, mi riesco persino a procurare due medici relatori di opposte tendenze. Inizio ad approntare il materiale di studio, pro e contro, presento il progetto in presidenza (anche per i finanziamenti, per quanto piccoli, del caso), e per correttezza lascio (con grande anticipo) una copia del progetto ai colleghi di scienze per stimolare il dibattito e per verificare se da parte loro ci fossero eventuali perplessità. Risultato: i colleghi di scienze non dicono niente fino alla riunione del collegio docenti in cui si discutono i vari progetti ... poi d'improvviso in quell'occasione esplodono tuonando contro di me e dicendo che il mio progetto è pericoloso. E d'altronde come dargli torto? Sì, è pericoloso, i ragazzi potrebbe iniziare a pensare con la loro testa. Ma di cosa avevano paura? Se l'AIDS fosse sicuramente una malattia virale ci vorrebbe poco a smontare le tesi di chi pensa che siano altri i fattori che scatenano tale mortale sindrome. Se fosse tutto così vero, così sicuro, un approfondimento tematico da parte degli studenti, persino un confronto coi fautori di teorie differenti li rassicurerebbe sul fatto che l'AIDS è una malattia infettiva e che bisogna difendersi con ogni mezzo dal contagio dell'HIV. Eppure ... vietato, sissignori, vietato! I dogmi sull'AIDS non si possono discutere. Ovviamente tutti i colleghi intimoriti dalla levata di scudi del team di scienze cosa pensate che abbiano votato? Vietato, vietato, proposta da bocciare! Però questa volta c'è il lieto fine. Uno dei colleghi di scienze ha avuto il coraggio di approfondire la questione, leggere i libri dei "dissidenti" e degli "eretici", confrontare le loro tesi con quelle ufficiali, e poi alla fine dell'anno dichiarare di fronte ai docenti tutti che si era convinto che l'AIDS non fosse una malattia infettiva. Un'altra collega a fine anno mi ha confessato che aveva più dubbi che certezze sull'argomento. Due docenti di scienze su 5 non è poco, specie se sono gli unici che si mettono in discussione, perchè in tal caso la percentuale sale al 100%. Poi ho scopeto che una docente di scienze era particolarmente contraria al mio progetto: aveva lavorato come volontaria in Africa per "curare i malati di AIDS"! Penso proprio che non avrebbe mai accettato di mettere discussione il proprio operato.

Ooops, non è finita! Che ne dite di Telethon?

Soldi per la ricerca genetica. A me non piace per niente (a dire poco) perchè finanzia la vivisezione, perchè la ricerca genetica credo abbia finalità ben diverse da quelle dichiarate, perchè i geni sono solo una parte del problema ma è fondamentale l'interazione con l'ambiente: ci sono diversi casi di malattie "genetiche" che non si manifestano se si segue una certa alimentazione. Ma la lista sarebbe è lunga. Per farla breve, in un'altra scuola (tanto il problema è sempre lo stesso) l'anno scorso si sono raccolti fondi per Telethon, io ero contrario, ho comunicato la mia contrarietà ai docenti che hanno sostenuto l'iniziativa (tali iniziative ovviamente non vengono discusse in nessuna sede, vengono approvate tout court!) e al preside. Dietro mia richiesta e insistenza l'unica motivazione che sono riusciti a produrre per una tale raccolta di fondi è che "si spera che queste ricerche alla fine producano qualche risultato positivo". Qualcuno mi ha detto che però "i ragazzi sono stati informati", non hanno donato soldi a scatola chiusa. "Informati come?" chiedo io. "Con gli opuscoli Telethon!" è l'ingenua risposta. A quanto pare quando si parla di medicina la par condicio non esiste, la scienza ufficiale non si tocca. Avete capito come funziona la scuola?

“Si cambia partendo dai bambini”: prove tecniche di indottrinamento? Scrive il Comitato Articolo 26. Prima di questo, si consiglia di leggere l’articolo precedente (200 milioni per l'educazione di genere) per comprendere i presupposti a partire dai quali vengono sviluppati i ragionamenti qui riportati.

Istruzione: 200 milioni per l’educazione di genere! Introduzione dell’educazione di genere e della prospettiva di genere nelle attività e nei materiali didattici delle scuole del sistema nazionale di istruzione e nelle università  è il nome di una nuova proposta di legge che si pone, tra gli altri, l’obiettivo di prevenire  il femminicidio e di combattere le discriminazioni. Cosa ci potrai mai essere di male in una iniziativa simile e chi potrebbe non condividere finalità così nobili? Per esempio chi, informandosi e approfondendo, ha visto cadere il velo dell’apparenza e ha ormai chiaro che per “genere” non si intende (solo) il sesso femminile contrapposto al maschile, ma tutta una concezione della sessualità e della persona.  Al contrario, chi si limiterà a restare in superficie accontentandosi di qualche slogan senza volersi affacciare ai contenuti più profondi della “rivoluzione gender”, forse continuerà a ritenere le voci critiche come posizioni incomprensibili e reazionarie, ma con il rischio concreto di venire manipolato da un’ideologia che cerca di far credere che neppure esista. L’attuale classe politica avrà una responsabilità enorme nel caso in cui voglia volgere lo sguardo altrove per non vedere che dietro ai concetti di “educazione alla parità” o di “decostruzione degli stereotipi sessisti”, in realtà si cela una visione radicale ed inaccettabile della persona, dell’identità sessuale e della famiglia. Lo ripetiamo: se l’unica finalità di questi programmi fosse educare al rispetto tra maschi e femmine, valorizzare il ruolo delle donne nella storia o criticare l’oggettivazione dei corpi femminili nelle pubblicità, ne saremmo tutti ben lieti. Ma come è ormai manifesto nelle gender theories, come viene recepito da svariati documenti internazionali e poi messo in pratica anche in molte scuole di casa nostra, educare “alle differenze di genere” troppo spesso sottintende condurre i giovani all’indifferentismo sessuale e al non concepirsi come donne o uomini, ma come individui per i quali la caratterizzazione sessuale, l’identità di genere e l’orientamento sessuale sono fluidi, continuamente modificabili e in fin dei conti irrilevanti. E’ emblematico il fatto che quando si parla di  stereotipi di genere, si finisca sempre a parlare di stereotipi in base all’orientamento sessuale (come del resto fa anche la risoluzione n.2011/2116 per l’eliminazione degli stereotipi di genere in Europa, che la suddetta proposta di legge richiama). Il percorso classico è partire sottolineando le differenze individuali (una donna camionista o un ragazzo amante del  cucito) per arrivare ad affermare che le differenze non esistono affatto, vale a dire che non esiste un quid che sostanzia naturalmente l’umanità come divisa in maschi e femmine. Cosa ne deriva? Che non solo sarebbe indifferente come nasciamo, ma anche il nostro orientamento sessuale, pena il diventare discriminanti. E a partire da questo presupposto, la mamma che fa la torta o la bambina che culla la bambola diventano immagini che indurrebbero ad una disparità tra maschi e femmine e alimenterebbero una cultura misogina: ecco quindi che vanno eliminate dalle teste (e dai testi) degli studenti. Un esempio di educare alle differenze sarebbe il libro “Mi piace Spider Man”, che viene consigliato alla scuola materna dai 4 anni (?!?). La piccola protagonista deve combattere non pochi “stereotipi” per conquistare la sua cartella “da maschio” che le piace tanto. E va bene; ma perché qualche pagina dopo, le fanno dire – a lei che di anni ne avrebbe sei – che ha capito che “da grande potrà avere un fidanzato o una fidanzata”? A sei anni? Come ha scritto pochi giorni fa Karen Rubin su “Il Giornale” a tal proposito,  non si considera che “di un universo femminile che contempla più volti, i bambini piccoli conoscono solo la parte che li riguarda… Poco importa che faccia l’astronauta o la dottoressa: la mamma il piccolo la vorrebbe sempre con sé. E’ degradante tutto ciò?… Si sogna una società dove padri e madri siano interscambiabili e le torte non siano più menzionate, neanche fossero droghe pesanti… C’è un errore in tutto questo. La mamma che cucina e la bambina che culla la bambola non sono stereotipi, sono ruoli di genere che si legano strettamente all’identità di ogni essere umano. Se la mamma prepara il cibo per il suo piccolo non trasmette debolezza ma amore. Se il padre è virile perché protegge i figli e la moglie manda un messaggio di forza e coraggio. Se invece picchia la sua compagna non è una questione da ridurre a stereotipi”. E come conclude la Rubin “duecento milioni di euro – questo l’esborso per questa riforma scolastica a carico nostro, che siamo abituati ad autotassarci per dotare di carta igienica le scuole  dei nostri figli - sono davvero sprecati per censurare le immagini. Usiamoli per educare gli uomini e lasciamo in pace i bambini“.

In un paese democratico sui banchi di scuola ci si dovrebbe sedere per imparare l’arte lunga e difficile della vera libertà, e non per subire un indottrinamento, che appoggia per altro su discutibili basi filosofico-teoretiche spacciate per scientifiche. Da quanto si evince da una recente intervista apparsa su La Repubblica, non la pensa così Valeria Fedeli, PD, vicepresidente del Senato, che parla proprio di un insegnamento che si vuole rendere normativo e vincolante e il cui contenuto ormai dichiarato è l’ideologia gender. In questa intervista con poche parole viene liquidata un’intera civiltà, basata sulla legge di natura e sulla forma corrispondente di razionalità: “i luoghi comuni che inchiodano maschi e femmine a stereotipi, che ignorano quanto l’altra metà del cielo ha fatto in tutti campi”. Come se la porzione più consistente di questi importanti conseguimenti femminili non fosse stata realizzata all’interno della suddetta civiltà. Ci viene da chiederci se la Fedeli si renda conto che la società che programma di decostruire partendo dalla scuola è proprio quella che l’ha condotta a ricoprire il ruolo di vicepresidente del Senato (mentre una donna presiede la Camera e si riscontra una parità tra ministri di sesso maschile e femminile); citando delle frasi della sua intervista ci viene da tranquillizzarla, perché i fatti già dicono altro: oggi parlare come fa lei di passività delle donne può giusto essere un vecchio ricordo stereotipato, mentre il tempo di crisi che le famiglie concrete stanno affrontando ha già messo in fuga tutti i principi azzurri su piazza, per cui i sogni delle femminucce si sono adeguati diventando molto più a buon mercato. L’educazione di genere – che dando credito a qualcuno neppure esisterebbe, quasi fosse una teoria del complotto di pochi reazionari – verrebbe così introdotta tramite un apposito disegno di legge nelle scuole e nelle università nell’intento di spazzare via, in nome di una libertà banalizzata,  l’inaccettabile adeguarsi alla verità dei programmi educativi tradizionali, elaborati dalla razionalità del buon senso naturale e presupponenti la differenza sessuale come dato di fatto autoevidente ed  inamovibile. E’ incredibile il prezzo che si è disposti a pagare pur di distorcere la realtà. E’ impressionante il modo semplicistico con il quale il sistema scolastico venga etichettato come anticaglia da cestinare: le elementari vengono banalizzate come fucina di storielle discriminatorie e non come primo stadio della scolarizzazione, più che mai rispettoso della differenza sessuale, non in nome di un’ideologia conservatrice, ma perché indirizzato ad esseri umani, molto vulnerabili e manipolabili, che trovano in tale differenza il loro primo solido orientamento identitario. Nell’intervista della Fedeli si parla di parità, di uguaglianza, di rispetto, di libertà. Parole altisonanti, politicamente corrette, che incantano lettori ed ascoltatori, che mettono d’accordo tutti, ma lasciate come sono del tutto prive di contenuto, diventano oggetto di una manipolazione semantica gravissima, venendo in modo subdolo riempite di contenuti razionalmente inaccettabili. Ma la cosa più paradossale è che questo peana per la libertà si conclude, nel massimo dispregio del principio di non contraddizione, con un’affermazione programmatica dal sinistro tenore totalitario e liberticida: “si cambia partendo dai bambini, gli uomini di domani“. L’avrebbe condivisa Pol Pot. Si parte dai bambini, arrivando a sottrarne l’educazione sessuale ai violenti e retrogradi genitori, perché solo in esseri indifesi e non ancora formati dal punto di vista razionale può sperare di attecchire in profondità una visione dell’uomo tanto priva di base scientifica e per questo lontana dalla realtà come quella propugnata dall’ideologia ipersessualizzata del gender. E vorremmo chiudere permettendoci una riflessione, un appello che speriamo che la prima firmataria della legge voglia ascoltare: è stato preso in considerazione il fatto che il fenomeno della violenza contro le donne è fortemente connesso al fenomeno dell’ipersessualizzazione della società e del mondo maschile? Domanda: siamo certi che l’investimento dei 200 milioni di euro per tirare la volata al gender e agli standard OMS con la loro sovra-esposizione al sesso fin dalla più tenera età non si riveli un doloroso boomerang proprio per il mondo femminile che si vorrebbe proteggere?

L’ideologia oggi è la mancanza di serietà. Una prof racconta, scrive Marina Valensise su “Il Foglio”. Anna Maria Ansaloni è una prof un po’ speciale, è vero. Insegna al Leonardo da Vinci-Duca degli Abruzzi, il liceo tecnico di via Palestro, quartiere centrale. E’ convinta che la scuola non debba fare quello che “vogliono le famiglie”, ma “formare il cittadino”, e pensa anzi che le famiglie oggi siano spesso ignare dei veri problemi della scuola. Ma su un punto conviene con l’allarme lanciato dal presidente del Consiglio, quando difende l’insegnamento libero contro l’indottrinamento ideologico. “I genitori sanno che i loro figli escono dalla scuola sprovvisti delle competenze che invece loro avevano alla stessa età. Per questo, insistono perché la scuola sia più seria, più attenta alle conoscenze di base, più centrata sulla disciplina e sul rigore”. Anna Maria Ansaloni è un’entusiasta, è un’insegnante che adora insegnare. E’ convinta che l’egemonia di sinistra non sia altro che un ricordo sbiadito: “E’ semplicemente morta. La sinistra non esiste più, nel mondo della scuola è irrilevante, mi pare. Tieni conto che la maggioranza degli insegnanti oggi quarantenni ha vissuto gli ultimi vent’anni con Berlusconi. L’ideologia semmai sopravvive come abitudine di costume, nell’occupazione, che non è un fatto politico, ma un rituale di passaggio”. La prof Ansaloni insegna Italiano e storia in una seconda e terza classe, ha le idee chiare e i mezzi per realizzarle: “Il vero dramma è la scuola media, dove i ragazzi disimparano ciò che apprendono alle elementari. Vedo ragazzi che scrivono a matita perché poi così possono cancellare, ma scrivono compiti di otto pensierini che non sono da scuola superiore. Io perciò lavoro molto sul costruire le regole. I ragazzi purtroppo sono molto lenti e disordinati. Vanno educati a un certo ordine nell’esporre gli argomenti, a una notevole quantità di compiti sistematicamente valutati e compresi, alla chiarezza dal punto di vista linguistico. Fraintendimento e intendimento per loro sono la stessa cosa. Per lavorare sul senso delle parole e sulla forma scritta, devi tornare ai testi appresi a memoria, perché senza chiarezza non c’è conoscenza. Devi fargli capire che la fatica è inevitabile, mettere sanzioni chiare e rispettarle”. La professoressa Ansaloni, dunque, ha rafforzato i programmi di lettura. Una volta al mese riunisce gli studenti di 14 e 15 anni nella biblioteca della scuola per discutere con signore di 60 o 70 anni dello stesso libro, e a volte incontrare l’autore. “Mi piace tantissimo parlare con queste signore, mi ha detto un ragazzino, non sono mica come mia madre. Non è l’alunno a parlare, ma il lettore e il lettore è trasversale”. In questo modo si accrescono le competenze linguistiche, si supera un problema didattico. “Noi adottiamo libri di testo inadeguati ai ragazzi” dice infatti la prof Ansaloni. “Per capirli devi decodificarli, e per questo cerco di costruire una sintesi, di fare scrivere i miei allievi su quel testo, di fargli poi valutare cosa realmente ne hanno capito. Dobbiamo ampliare il lessico. Una volta i nostri figli parlavano con 300 parole, ora ne usano 50. Perciò io punto a rafforzare il programma scolastico col lavoro di lettura e di scrittura e la verifica attraverso i questionari. E’ vero che molti miei colleghi non mi seguono, "lasciami stare, mi dicono, con 1.600 euro al mese, per mantenere moglie e due figli devo fare tre lavori". Ma risultati ci sono. Se dico ai miei ragazzi, guarda, quel tizio non ha né artigli né zanne, loro continuano, sì però non voleva essere sbranato. Vuol dire che qualcosa dei ‘Promessi Sposi’ è rimasto: il lessico e la lettura gli si è sedimentata dentro e in modo naturale”. C’è anche un altro handicap dei giovani d’oggi: nessuno scrive più in corsivo. “Il corsivo è scomparso. Abituati col computer e l’sms scrivono tutti in stampatello, alcuni non sanno più come si scrivono certe maiuscole in corsivo. Non è solo una questione di grafia o calligrafia. In stampatello, usano frasi sintetiche di comunicazione, non di espressione: vado, vengo, anziché – penso di venire, avrei intenzione di andare, con una struttura della frase paratattica, senza principali e secondarie, ma con una sfilza di principali spesso con la stessa forma verbale. Il corsivo invece prevede un certo tempo in cui pensi, elabori, unisci le lettere, ti dà una capacità riflessiva, permette un’elaborazione concettuale che implica l’uso di articoli, aggettivi, la punteggiatura, la varietà di forme verbali e l’espressione di sé. Oggi i ragazzi è proprio questo che vogliono evitare:  non sanno né vogliono scrivere di sé, esprimere emozioni, anche se ce le hanno dentro. Allora devi aiutarli. Io per esempio quando leggiamo un sonetto di Dante, ‘Tanto gentile e tanto onesta pare’, chiedo ai ragazzi di cercare dei raffronti con l’immensità, con Dio, con la spiritualità. Loro li trovano nelle canzoni di Vasco Rossi o Jovanotti, e per me è un successo”. La maggiore soddisfazione, però, Ansaloni dice di averla “tutti i giorni quando entro in classe, perché insegnare mi diverte da morire, quando i ragazzi trascorrono un’ora senza rendersene conto, quando vedo all’intervallo quello con la cresta che ti cita una frase di Manzoni. Adesso sta leggendo il ‘Postino di Neruda’ di Skármeta, e una sua allieva rumena, brava e determinata, che dopo la scuola lavora come babysitter, quasi non ci crede: ‘Professoressa, le metafore le possiamo fare anche noi…’”.

Scuola: arriva il divieto per gli insegnanti di fare propaganda politica e ideologica. Chi sgarra sarà sospeso. Un deputato del Pdl ha proposto un'aggiunta al testo unico sulla scuola per impedire agli insegnanti di fare propaganda politica. Secondo lui questo avverrebbe soprattutto in Emilia Romagna. A vigilare dovranno essere i dirigenti scolastici, scrive Marta Ferrucci su “Studenti”. Fabio Garagnani, deputato del Pdl, ha proposto una aggiunta al testo unico sulla scuola: il divieto per gli insegnanti di fare propaganda politica e ideologica.  Dovranno essere i dirigenti scolastici a vigilare e per chi sgarra è prevista la sospensione da 1 a 3 mesi. "L'importante era inserire nel Testo unico sulla scuola il divieto di fare propaganda politica o ideologica per i professori". Per quanto riguarda le sanzioni queste dovranno essere contenute poi in dettaglio in un provvedimento attuativo della legge. La propaganda politica" -secondo garagnani- "non può trovare tutela nel principio della libertà dell'insegnamento enunciato dall'Articolo 33 della Costituzione. Un conto infatti è tutelare la libertà di espressione del docente, un'altra è quella di consentire che nella scuola si continui a fare impunemente propaganda politica". E sarebbero molti i casi in cui i professori oltrepassano questo limite; per Garagnani accade soprattutto in Emilia Romagna, tra i professori iscritti alla Cgil". Per Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil si tratta di una proposta "delirante" ed ha aggiunto che "gli insegnanti educano, non inculcano". Ha ragione Garagnani o si tratta di una proposta "delirante"?

"Troppi libri comunisti a scuola", Pdl: Ci vuole una commissione d'inchiesta, scrive Agenzia Dire su “Orizzonti Scuola” - Iniziativa di 19 deputati guidati da Gabriella Carlucci, all'indice i testi di storia: "Gettano fango su Berlusconi". Dopo i giudici, anche i libri di testo contro Silvio Berlusconi. Secondo 19 deputati del Pdl, capitanati da Gabriella Carlucci, i testi scolastici di storia, su cui studiano migliaia di ragazzi, nasconderebbero "tentativi subdoli di indottrinamento" per "plagiare" le giovani generazioni "a fini elettorali" dando "una visione ufficiale della storia e dell'attualità asservita a una parte politica", il centrosinistra, "contro la parte politica che ne è antagonista", ossia il centrodestra. Di fronte a questa situazione definita "vergognosa", secondo i parlamentari del Pdl, il parlamento "non può far finta di non vedere" e per questo chiedono, attraverso una proposta di legge, l'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta "sull'imparzialità dei libri di testo scolastici". Il progetto di legge è stato depositato alla Camera da Carlucci il 18 febbraio 2011  e assegnato alla commissione Cultura il 14 marzo. In attesa dell'avvio dell'esame, in questi giorni la proposta è stata sottoscritta da altri colleghi di partito (ieri si sono aggiunte nuove firme e altre ancora ne stanno arrivando), tra cui il capogruppo Pdl in commissione Cultura, Emerenzio Barbieri. Nella premessa, gli esponenti di maggioranza si chiedono: "Può la scuola di Stato, quella che paghiamo con i nostri soldi, trasformarsi in una fabbrica di pensiero partigiano?" E la "battaglia partigiana", secondo il firmatari, viene messa in atto "osannando l'attuale schieramento di sinistra" e "gettando fango sui loro avversari". Per "capire la gravità del problema", sostengono i 19 deputati, "basta sfogliare la maggior parte dei libri che oggi troviamo nelle scuole, sui banchi dei nostri figli". Scopo della Commissione d'inchiesta? "Verificare quali sono i libri faziosi - spiega Barbieri interpellato dalla Dire - e dargli il tempo di adeguarsi prima di farli ritirare dal mercato, mica mandarli al macero...". Gli altri firmatari della proposta di legge Carlucci, che mette all'indice i libri di testo definiti "partigiani", sono: Barani, Botta, Lisi, Scandroglio, Bergamini, Biasotti, Castiello, Di Cagno Abbrescia, Di Virgilio, Dima, Girlanda, Holzmann, Giulio Marini, Nastri, Sbai, Simeoni e Zacchera. Nella premessa, si fanno alcuni esempi dei testi incriminati, specificando che "in Italia, negli ultimi cinquant'anni, lo studio della storia è stato spesso sostituito da un puro e semplice tentativo di indottrinamento ideologico" retaggio "dell'idea gramsciana della conquista delle casematte del potere" che "si è propagato attraverso l'insegnamento della storia e della filosofia nelle scuole". Si cita La storia di Della Peruta-Chittolini-Capra, edito da Le Monnier, che descrive "tre personaggi storici: Palmiro Togliatti, un uomo politico intelligente, duttile e capace di ampie visioni generali; Enrico Berlinguer, un uomo di profonda onestà morale e intellettuale, misurato e alieno alla retorica; Alcide De Gasperi, uno statista formatosi nel clima della tradizione politica cattolica". Ma anche Elementi di storia di Camera-Fabietti, edito da Zanichelli, reo, ad avviso del Pdl, di sostenere che "l'ignominia dei gulag sovietici non è dipesa da questo sacrosanto ideale (il comunismo), ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente in atto o peggio dalla conversione di Stalin al tradizionale imperialismo". E ancora, la Storia, volume III, di De Bernardi-Guarracino, edito da Bruno Mondadori, per il quale dal 1948 "l'attuazione della Costituzione sarebbe diventato uno degli obiettivi dell'azione politica delle forze di sinistra e democratiche". E si arriva ai tempi più recenti. "Con la caduta del Muro di Berlino e con la fine dell'ideologia comunista in Italia - si precisa nella premessa alla proposta - i tentativi subdoli di indottrinamento restano tali" e anzi "si rafforzano e si scagliano" contro "la parte politica che oggi è antagonista della sinistra", quella guidata da Berlusconi. Nella proposta di legge Carlucci, sottoscritta alla Camera da altri 18 deputati Pdl per istituire una Commissione d'inchiesta per verificare "l'imparzialità dei libri di testo scolastici", la messa all'indice viene supportata infine dai passaggi che descrivono gli ultimi 15/20 anni di storia politica italiana, ossia l'era berlusconiana. Uno degli esempi che, secondo i firmatari, "osanna" agli occhi degli studenti i partiti di centrosinistra lo si ritrova ne La storia di Della Peruta-Chittolini-Capra, edito da Le Monnier, a proposito del Partito democratico della sinistra: "Il Pds - è scritto - intende proporsi come il polo di aggregazione delle forze democratiche e progressiste italiane" con "un programma di riforme politico sociali miranti a rendere più governabile il Paese". Si tira poi in ballo la descrizione che L'età  contemporanea di Ortoleva-Revelli, edito da Bruno Mondadori, fa di Oscar Luigi Scalfaro: "Dopo aver abbandonato l'esercizio della magistratura per passare all'attività politica nel partito democristiano" si è segnalato "per il rigore morale e la valorizzazione delle istituzioni parlamentari". Ma il testo che più si distingue "per la quantità di notizie partigiane e propagandistiche" è, secondo i 19 deputati Pdl, quello di Camera e Fabietti. In Elementi di storia, citano, viene descritta l'attuale presidente del Pd, Rosy Bindi, come la "combattiva europarlamentare" che, ai tempi della militanza nella Democrazia cristiana, sollecitava ad "allontanare dalle cariche di partito" tutti "i propri esponenti inquisiti". E come viene descritto l'antagonista Berlusconi? Nel 1994, citano ancora i parlamentari dalle pagine del libro di testo, "con Berlusconi presidente del Consiglio, la democrazia italiana arriva a un passo dal disastro". Secondo gli autori, "l'uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla Direzione generale antimafia, alla Banca d'Italia, alla Corte costituzionale e soprattutto al presidente della Repubblica condotti da Berlusconi e dai suoi portavoce esasperarono le tensioni politiche nel Paese". L'elenco dei libri "naturalmente potrebbe continuare ancora per molto - conclude il Pdl - ma bastano questi esempi per capire la gravità della questione".

Bagnasco contro i "campi d'indottrinamento" gender. Scrive Massimo Introvigne su “La Nuova BQ”. Lunedì 24 marzo 2014, aprendo il Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, che la presiede ha affrontato con grande determinazione la problematica della famiglia e dell’ideologia di genere. «La preparazione alla grande assise del sinodo sulla famiglia, che si celebrerà in due fasi nel 2014 e nel 2015, nonché il recente concistoro sul medesimo tema – ha detto Bagnasco – hanno provvidenzialmente riposto l’attenzione su questa realtà tanto “disprezzata e maltrattata”, come ha detto il Papa: commenterei, “disprezzata” sul piano culturale e “maltratta” sul piano politico». Il cardinale ha inquadrato la natura ideologica del problema: la famiglia è diventata il nemico da abbattere. «Colpisce che la famiglia sia non di rado rappresentata come un capro espiatorio, quasi l’origine dei mali del nostro tempo, anziché il presidio universale di un’umanità migliore e la garanzia di continuità sociale. Non sono le buone leggi che garantiscono la buona convivenza – esse sono necessarie – ma è la famiglia, vivaio naturale di buona umanità e di società giusta». Il cardinale è andato oltre: non è rimasto sul generico, ma ha citato come esempio dei maltrattamenti che la famiglia subisce un episodio specifico, su cui – lo ricordiamo per la cronaca, senza rivendicare primogeniture – per prima «La nuova Bussola quotidiana», nel silenzio generale, aveva attirato l’attenzione. «In questa logica distorta e ideologica – ha detto Bagnasco –, si innesta la recente iniziativa – variamente attribuita – di tre volumetti dal titolo “Educare alla diversità a scuola”, che sono approdati nelle scuole italiane, destinati alle scuole primarie e alle secondarie di primo e secondo grado. In teoria le tre guide hanno lo scopo di sconfiggere bullismo e discriminazione – cosa giusta –, in realtà mirano a “istillare” (è questo il termine usato) nei bambini preconcetti contro la famiglia, la genitorialità, la fede religiosa, la differenza tra padre e madre… parole dolcissime che sembrano oggi non solo fuori corso, ma persino imbarazzanti, tanto che si tende a eliminarle anche dalle carte». Durissimo il commento del presidente dei vescovi italiani «È la lettura ideologica del “genere” – una vera dittatura – che vuole appiattire le diversità, omologare tutto fino a trattare l’identità di uomo e donna come pure astrazioni. Viene da chiederci con amarezza se si vuol fare della scuola dei “campi di rieducazione”, di “indottrinamento”. Ma i genitori hanno ancora il diritto di educare i propri figli oppure sono stati esautorati? Si è chiesto a loro non solo il parere ma anche l’esplicita autorizzazione? I figli non sono materiale da esperimento in mano di nessuno, neppure di tecnici o di cosiddetti esperti. I genitori non si facciano intimidire, hanno il diritto di reagire con determinazione e chiarezza: non c’è autorità che tenga». Parole chiarissime: altri vescovi prendano esempio. La strategia enunciata esplicitamente da Papa Francesco nell’esortazione apostolica «Evangelii gaudium» – il Papa di certe questioni, comprese quelle (citate in nota nel documento come esempio delle «questioni» cui si allude) della famiglia e del gender, non parla, chiede che siano gli episcopati nazionali a intervenire – non piace a tanti nostri lettori, e dalle strategie, che non sono Magistero neppure ordinario, si può certo legittimamente dissentire. Però qualche volta le strategie funzionano: dove tace il Papa, i vescovi parlano. È successo negli Stati Uniti, in Polonia, in Croazia, in Portogallo, in Slovacchia. Ora succede anche in Italia, e non si può non ricordare che – come sempre avviene nel nostro Paese – prima di aprire con questa relazione il Consiglio Permanente della CEI venerdì scorso Bagnasco è andato in udienza dal Papa, cui questi testi sono di regola previamente sottoposti. Vediamo se questa rondine farà, come ci auguriamo, primavera.

Genitori, reagite all'imposizione dell'ideologia gender!. L'edizione di domenica di RomaSette, il settimanale della diocesi di Roma, evidenzia e valorizza l'azione del Comitato Articolo 26 contro i molteplici tentativi di introdurre nelle scuole l'ideologia gender, scrive Giuseppe Rusconi su Zenit.org. Per questa domenica iniziale d’Avvento RomaSette - l'inserto settimanale di Avvenire - ha scelto come articolo di apertura un testo sull’ormai allarmante dilagare anche nelle scuole romane – dagli asili nido in poi - dell’imposizione dell’ideologia del gender, secondo la quale la differenza tra maschile e femminile è solo una costruzione culturale e dunque va “decostruita” nel senso che ognuno non è quel che è e si vede, ma ciò che si sente e pensa di essere. Il titolo è “Gender a scuola. La protesta dei genitori”. In un box si danno indicazioni su un modulo, da inviare al dirigente scolastico dell’istituto dei propri figli, per la richiesta di consenso informato sulle iniziative ‘educative’ improntate all’ideologia del gender. Nella stessa pagina, appare su quattro colonne anche un articolo molto chiaro dal titolo: “Strategia Lgbt, i consulenti sono a senso unico”, accompagnato dall’occhiello: “Ventinove associazioni del mondo gay a fianco dell’Unar (Ndr: il noto Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) per la formazione, otto nei progetti finanziati dalla Regione Lazio. Proposta politica con una bozza di ordine del giorno per il Consiglio comunale: indottrinamento tra i banchi”. Si noterà qui subito che proprio la Regione Lazio – retta da Nicola Zingaretti - ha sborsato 120mila euro per i progetti pro-gender, mentre non si risparmia neppure la giunta Marino di Roma Capitale, grazie anche al sostegno entusiasta dell’assessore alla Scuola Alessandra Cattoi, che ha affidato all’associazione lgbt “Scosse” la formazione delle educatrici degli asili nido e delle scuole materne comunali della città. Nell’articolo di Roma Sette si ricorda il caso scoppiato presso l’asilo nido comunale “Castello Incantato”, in zona Bufalotta, laddove ai pargoli si legge ad esempio la “Piccola storia di una famiglia” (casa editrice Stampatello): tale cosiddetta “famiglia” comprende due donne che si fanno donare il “semino” necessario alla procreazione da una clinica olandese, tanto che alla fine la nascitura avrà “due mamme: solo una l’ha portata nella pancia, ma entrambe, insieme, l’hanno messa al mondo. Sono i suoi genitori”. E’ proprio dal tristo episodio del “Castello Incantato” che ha preso spunto l’idea di alcuni genitori di costituire il “Comitato Articolo 26”. Perché 26? Ci si riferisce all’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: I genitori hanno il diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli. Il Comitato è aperto a genitori, docenti, professionisti dell’educazione, di diverso credo religioso e filosofico, che “rifiutano con decisione l’indottrinamento gender nelle scuole italiane di ogni ordine e grado e che rivendicano, in maniera costruttiva, la priorità delle famiglie in tema di affettività e sessualità”. Tra gli obiettivi “diffondere un’informazione oggettiva e scientifica in merito alla cosiddetta ideologia gender”, “vigilare e segnalare gli aspetti ideologici pedagogicamente infondati e pericolosi, di progetti educativi e scolastici relativi a educazione sessuale e/o affettività, educazione alle differenze, lotta alla discriminazione tra bambini e bambine, lotta all’omofobia e/o al bullismo omofobico”, “sostenere e accompagnare il diritto dei genitori ad affermare e perseguire la priorità della propria missione educativa nei confronti dei figli”. Nell’articolo di Roma Sette sulla strategia Lgbt si ricorda inoltre che “a livello nazionale è in piena attuazione” tale strategia triennale, partorita due anni fa dall’Unar “istituito in seno al Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio”. Era il tempo di Monti, poi venne Letta e la strategia andò avanti, così come con Renzi. Del resto è dei giorni 26 e 27 novembre 2014 il corso per dirigenti scolastici organizzato a Roma dal ministero dell’Istruzione e dall’Unar con la collaborazione del Servizio lgbt di Rete nazionale delle Pubbliche amministrazioni antidiscriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere. Il Gruppo nazionale di lavoro è composto da 29 associazioni di settore, tutte rigorosamente lgbt. Il 23 febbraio scorso, il settimanale della diocesi di Roma aveva già dedicato quasi tutta la prima pagina all’ “operazione ideologica” del “gender in classe”, con un editoriale chiaro, pacato e fermo di don Filippo Morlacchi, in cui il direttore dell’Ufficio pastorale scolastica del Vicariato scriveva: “Anche in altri Paesi europei la potente minoranza favorevole al gender ha dettato l’agenda degli impegni scolastici; ma le associazioni di genitori hanno alzato la voce e prodotto agili pubblicazioni per avvertire le famiglie del fenomeno. Forse è tempo che anche in Italia non solo i cattolici, ma tutti gli uomini convinti della bontà della famiglia naturale si esprimano pubblicamente”. Un auspicio che è stato concretizzato in questi mesi da diverse associazioni e comitati a livello cittadino, regionale, nazionale (in primis la Manif pour tous Italia e le Sentinelle in piedi), in buona parte nell’area cattolica ma aperte a tutti. A livello di diocesi, ricordiamo poi l’esemplare "Nota su alcune urgenti questioni di carattere antropologico ed educativo" dei vescovi del Triveneto per la Giornata della vita 2014, la grave preoccupazione della Conferenza Episcopale toscana e di alcuni altri vescovi. Nelle ultime settimane sono successi altri fatti gravi, oltre alle intimidazioni fisiche e verbali con cui sono state bersagliate in diverse città le Sentinelle. Ad esempio una docente di religione cattolica dell’Istituto Pininfarina di Moncalieri è stata fatto oggetto ingiustamente di una pesantissima campagna di stampa originata dalle affermazioni (pare del tutto inventate) di uno studente attivista lgbt. Esposta al pubblico ludibrio dai mass-media, nelle prime reazioni a caldo non è stata certo difesa neppure dall’estemporaneamente remissivo arcivescovo di Torino. Grazie ad Avvenire è stata poi ristabilita la verità almeno per i lettori del quotidiano della Cei, oltre che per l’ambiente locale. La diocesi di Milano dal canto suo è incappata in un paio di decisioni che hanno destato molta perplessità tra non pochi cattolici: le scuse ufficiali per un’indagine statistica non certo segreta (rivolta a oltre seimila docenti di religione cattolica) e la negata solidarietà per un docente di religione (sospeso dalla scuola, con l’Ufficio scuola della Curia che ha aperto un procedimento di verifica) colpevole di aver mostrato a nove alunni di una terza liceo un documentario molto realistico, “L’urlo silenzioso”, su quel che succede durante un aborto. E’ stata la fiera dell’ipocrisia interessata, se si pensa alle tante immagini crude sfornate da tg e trasmissioni varie per ragione di audience. Intanto, in pieno sviluppo dell’applicazione della strategia totalitaria lgbt, l’Unione degli atei e agnostici razionali (Uaar), l’Arcigay, la Rete degli studenti medi ha trovato modo il 18 novembre di inviare una lettera allarmata al Ministro dell’Istruzione, all’Unar e alla Presidenza del Consiglio per denunciare che “stiamo assistendo ad un vero e proprio attacco nei confronti degli studenti e del sistema scolastico tutto, da parte di una frangia conservatrice e omofoba del nostro Paese”. Proclamano e minacciano i firmatari: “Il Ministero, e il Governo tutto, devono avere il coraggio di superare i tabù e di non fare della battaglia alle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale un mero spot propagandistico. Riteniamo che il Ministero debba adoperarsi affinché tutte le scuole prevedano programmi didattici strutturati, destinati agli studenti, sull’educazione alle differenze, in cui si parli di identità di genere, orientamento sessuale e sesso biologico, e che investa nella formazione degli insegnanti, fornendo loro gli strumenti necessari così da evitare che casi come quelli sopracitati si ripetano”. Non è finita. Tuonano infatti atei, “studenti medi” e Arcigay: “Chiediamo, infine, di coinvolgere nei tavoli ministeriali le realtà sociali, le associazioni e le organizzazioni studentesche che da anni combattono le discriminazioni e l’omofobia e di far sì che questi percorsi producano finalmente soluzioni concrete”. La lettera contiene poi già una velata minaccia per gli istituti cattolici paritari, che certamente la lobby sogna costretti ad accettare l’auspicato indottrinamento oppure a chiudere. Nel resto d’Europa tentativi di tal genere sono già in corso, come in Gran Bretagna o sono minacciati, come in Francia. Insomma: la legge “antiomofobia” a firma Scalfarotto ancora non è stata approvata e già produce i suoi effetti liberticidi, dato che – oltre alle intimidazioni continue – i propugnatori dell’ideologia del gender si fanno sempre più sfrontati. Il rischio è che, considerato quanto è successo fin qui, molti scelgano il silenzio per evitare di essere lapidati dai media della nota lobby. Quel che è capitato del resto a Guido Barilla è estremamente significativo. Sbilanciatosi l’anno scorso in favore della famiglia del ‘Mulino Bianco’, è stato coperto di insulti e minacce; ha così ritenuto molto opportuno profondersi in mille scuse e agire in modo tale che oggi la Barilla è pienamente riabilitata. Come scrive il Washington Post  ha ottenuto 100/100 nella classifica delle imprese gay-friendly, avendo in un anno fatto “una marcia indietro radicale, aumentando i benefit sanitari per i dipendenti transgender e le loro famiglie, donando soldi per le cause dei diritti gay", oltre che ingaggiare consulenti come il “gay più potente d’America”, David Mixner, fiero dei risultati ottenuti. Ora per la Barilla del Guido rieducato mancano solo gli spot con protagoniste coppie omosessuali. Non temete, verranno presto. Si dovrà poi vedere se qualcuno non preferirà a quel punto assaporare un altro tipo di pasta.

L’ISLAM NON SI TOCCA.

L’assessore scambia l’Islam per terrorismo. Gli studenti: "Si deve dimettere". All’indomani della strage di Parigi Elena Donezzan, responsabile per l’Istruzione della giunta veneta, scrive un appello ai presidi per parlare di terrorismo, accostandolo alla religione islamica. Scoppia il caso e la rete degli studenti chiede che lasci il suo posto con pubbliche scuse e il ritiro delle frasi incriminate, scrive Michele Sasso “L’Espresso”. Una frase ha scatenato un putiferio: «Se non si può dire che tutti gli islamici sono terroristi, è evidente che tutti i terroristi sono islamici e che molta violenza viene giustificata in nome di una appartenenza religiosa e culturale ben precisa». È giovedì 8 gennaio 2015 e a vergare l’appassionata lettera è l’assessore all’Istruzione della Regione Veneto, Elena Donezzan, che pochi giorni prima aveva promosso un family day a scuola per difendere la famiglia naturale. Scossa per il massacro nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi, torna alla carica non pensandoci troppo sopra. Una circolare indirizzata a tutti i presidi della sua regione intitolata “Terrorismo islamico: parliamone soprattutto a scuola” con passaggi forzati carichi di livore: «Alla luce della presenza dei tanti alunni stranieri nelle nostre scuole e dei loro genitori nelle nostre comunità, soprattutto a loro dobbiamo rivolgere il messaggio di richiesta di una condanna di questi atti, perché se hanno deciso di venire in Europa devono sapere che sono accolti in una civiltà con principi e valori, regole e consuetudini a cui devono adeguarsi e che la civiltà che li sta accogliendo con il massimo della pienezza dei diritti ha anche dei doveri da rispettare». Se il fine è la conoscenza e il dibattito dell’attualità tra i banchi il risultato di questa mossa è disastroso. Via change.org è partita una petizione dell’associazione studenti universitari e della rete degli studenti per chiedere le sue dimissioni con pubbliche scuse allegate e il ritiro delle frasi incriminate. In più di quattromila hanno sottoscritto le motivazioni: «Nella circolare si chiede a tutti i dirigenti di far discutere di quanto accaduto, condannando non solo i fatti e chiedendo a genitori e studenti stranieri di dissociarsi, ma anche la cultura islamica, che alimenta, secondo l’assessore, la genesi di tali attacchi terroristici». A scaldare gli animi l’accostamento della Donezzan tra il massacro di Parigi (e tutto quello che è seguito per 55 ore di paura) con l’aggressione alle porte di Venezia di un quattordicenne tunisino che ha accoltellato il padre di uno studente vittima di bullismo. «Fare un paragone tra un gesto di bullismo e un massacro con armi da fuoco è simbolo di un becero razzismo che non possiamo accettare, specialmente se proveniente da una figura con una certa carica istituzionale», continua la petizione: «Viene da domandarsi se questo parallelo sia frutto di una strumentalizzazione cosciente dei fatti oppure da semplice ignoranza: i casi di bullismo sono diffusi in tutto il Paese, non importa l’origine culturale del ragazzo». Dietro gli studenti anche la Cgil regionale ha preso posizione: «La lettera lascia stupefatti per il forte fondamentalismo ideologico sotteso nelle indicazioni impartite. La scuola deve formare le intelligenze e lo spirito critico di quelli che saranno i cittadini di domani, è un luogo di discussione e riflessione anche per capire quanto accaduto in Francia».

Basta coi finti Charlie. La sinistra si appropria dei simboli di ciò che ha sempre combattuto, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. La mia libertà vale più o meno di quella dei colleghi di Charlie? La nostra libertà, quella di ognuno di noi, compresi la Le Pen e Salvini, quanto vale? E ancora: chi decide la classifica delle libertà? Mi chiedo questo perché stiamo assistendo al più ipocrita degli spettacoli e al più surreale dei dibattiti. Giornalisti, intellettuali e politici di sinistra si sono stretti - dico io giustamente - attorno ai colleghi sterminati dalla furia islamica. Ma, contemporaneamente, dagli stessi è partita una campagna contro chi, come noi, sostiene che il pericolo viene proprio dal Corano, dall'islam e dai suoi imam. In queste ore, in tv e sui giornali, ci stanno facendo passare per dei provocatori, dei seminatori di odio, degli incendiari. Ma dico: se c'è qualcuno che, in decimo, ha sostenuto e scritto negli anni ciò che Charlie ha divulgato con la sua tecnica, siamo proprio noi. Noi siamo Charlie, la Fallaci è Charlie, Magdi Allam è Charlie, Piero Ostellino è Charlie. I liberali tutti sono Charlie. Voi di sinistra siete solo degli approfittatori, vi siete impossessati del corpo di un nemico ucciso per quella libertà di opinione che voi di sinistra negavate prima della strage (satira religiosa sì, ma solo contro il Papa e Gesù) e che ancora ora vorreste negare a noi. Se questo Giornale avesse pubblicato una sola di quelle vignette blasfeme saremmo stati linciati come razzisti, fascisti, pazzi irresponsabili e messi al gabbio dalla solerte magistratura italiana per islamofobia (ci siamo andati comunque vicini, nonostante il reato non esista nei nostri codici). E invece, da domani, sarà gara anche a sinistra per pubblicare le nuove frecciate del primo numero di Charlie Hebdo post attentato. Perché Charlie domani potrà dire sull'islam ciò che pensa e noi dovremmo invece allinearci al politicamente corretto? Non condivido molte cose che sostengono la Le Pen e Salvini, ma se uno «è Charlie» deve essere anche Le Pen e Salvini. Cioè deve essere uomo libero e garantire la libertà di chiunque. Cara sinistra, è facile sostenere i diritti dei morti. Anche perché, se fossero vivi, quelli di Charlie vi farebbero un mazzo tanto, quantomeno una pernacchia lunga da Parigi a Roma.

Se la sinistra odia il popolo, scrive Alessandro Catto su “Il Giornale”. La marcia di Parigi, come da programma, ha scatenato apprezzamento e condanna, sentimenti di simpatia e lontananza. Un’ondata di contraddizioni provenente in primis da quelli che, da questa marcia, avrebbero dovuto sentirsi rappresentati, ovvero i cittadini europei. Un evento che più che storico per meriti fisiologici, si è voluto rendere storico nella sua formulazione, nella sua presentazione ai media, nel dipingerlo come unica risposta possibile ad un attacco verso l’Occidente e i suoi valori. Premetto che per me non è stata una marcia trionfale, tantomeno un successo, soprattutto per quanto riguarda la testa di quel corteo. Coi suoi leaders in giacca e cravatta, i capi di stato, sembrava una pratica di circostanza tremendamente ipocrita e fasulla, qualcosa di fatto perché così c’è scritto che bisogna fare. Un qualcosa incapace di rappresentarmi e di rappresentare moltissime persone come me che dovrebbero, in teoria, essere e sentirsi cittadini europei. Alla testa di quel corteo è andata in scena l’ipocrisia di numerosissimi politici europei che hanno grosse responsabilità riguardo la situazione mediterranea e mediorientale. Vi erano personaggi che fino a ieri ci mostravano i benefici della primavera araba di turno, il suo carattere evangelico ed evangelizzante. Vi erano gli alfieri della democrazia per esportazione, gli alfieri di una Europa che non unisce. C’era un trionfo di bandiere in Piazza della Repubblica, ma bandiere europee ce n’erano pochissime. Quella manifestazione ha avuto più il carattere di un secondo funerale ai morti di Charlie Hebdo che non quello di una rivendicazione di orgoglio, di identità e di appartenenza. Ce l’ha avuto a partire dalla sua formulazione, dall’aver fatto fin dal principio figli e figliastri. Quella manifestazione stessa è figlia pure di una porzione politica che, fin da quando il terribile agguato alla sede parigina di Charlie è avvenuto, si è preoccupata più di fare tribuna politica contro il Salvini o la Le Pen di turno che di offrire tutto il proprio supporto alle vittime. Pare esserci stata più veemenza nell’attaccare i capipartito di destra che sensibilità nel puntare il dito contro i responsabili del fatto di sangue. Ieri non è andata in scena la marcia di una Europa unita ma semmai quella di molte nazioni divise, divise pure al loro interno. Nel sud della Francia, mentre le anime belle europee marciavano a colpi di foto e riprese, è andata in scena la marcia sponsorizzata da Marine Le Pen e dal Front National. La marcia dei dannati, degli ultimi, degli esclusi da tutto. Di quelli che non vanno di moda, che fa sempre prurito ospitare in qualche salotto, di quelli che non parlano di Europa, di Diritti e Democrazia, di concetti maiuscolati. Un partito ed una leader scomodi, che è meglio cancellare ed evitare se si vuole andare in piazza imbellettati e col sorriso. Strano però, perché a suon di parlare di democrazia ci siamo forse dimenticati di farla a casa nostra, e ci siamo dimenticati che quel partito così odiato, temuto, becero per bocca dei professori dei nostri tempi, è il primo partito di Francia per consenso elettorale. Marciamo per la libertà dei popoli dimenticandoci di cos’è il popolo, del suo diritto ad essere rappresentato. Si è preferito usare un fatto tragico per trasformare il tutto nella solita, trita e oramai inascoltabile retorica sul rifiuto dei fascismi, dei razzismi, sull’accoglienza, sulla condanna di una ipotetica strumentalizzazione. Qui l’unica strumentalizzazione che ho visto, personalmente, è stata quella di chi, a cadaveri ancora caldi, ha subito messo in piedi un gioco orribile per colpire l’avversario politico, di chi ha approfittato dell’occasione per provare, tristemente, a ritornare rappresentante del popolo dopo l’usurpazione. La sinistra non dimentica, è vendicativa, non tollera usurpazioni. E quella del Front in Francia e pure della Lega in Italia è una usurpazione in piena regola. In termini elettorali, politici e in termini di consenso. La rabbia monta in partiti di sinistra che non riescono più a farsi intercettori delle istanze popolari più umili, che non sanno dar loro rappresentazione, che si ritrovano smarriti. In questi casi allora si tenta sempre di barrare la strada a chi può divenire l’intercettore della protesta al proprio posto. Può esservi la risposta più scaltra, quella di un centrosinistra in salsa renziana che tenta di attirare gli apparati più moderati della nazione. Ma c’è anche la risposta più rabbiosa, più puerile, e sta alla sua sinistra: quella di chi ha perso tutto, ha perso la propria dimensione elettorale, ha perso il passo nei confronti delle istanze del popolo, di chi come unica arma conserva una sola cosa: l’assalto indiscriminato all’avversario e al suo successo, con tutti i mezzi possibili. La sinistra di oggi pare odiare ferocemente il popolo perché l’ha smarrito, perché sa benissimo che moltissimi operai, cassaintegrati, esodati, sia in Francia che in Italia non vogliono salotti, sofismi, filosofie, teosofie, psicodrammi e buonismi. Vogliono soluzioni immediate, presenze tangibili, capacità di dialogo e rappresentazione, vogliono poter confessare le proprie paure e le proprie necessità, anche quelle politicamente scorrette. E questo ormai, in Europa, non lo si fa nella piazza di Parigi, lo si fa nella piazza di Beaucaire con la Le Pen, lo si fa a Musile di Piave con Salvini. Il popolo è lì, consegnato in toto al nemico a son di cianciare di populismo e demagogia. Parlando proprio di rapporto tra Islam e Occidente sentivo ieri, in una nota trasmissione serale di La7, un giovane dire che “non si può far parlare chi non arriva agli ottocento euro al mese”. Un giovane in giacca, occhiali da hipster, erre arrotata, espressione massima del ben pensare de sinistra in salsa europea. Non me la sento di attaccarlo perché esprime chiaramente quello che è la sinistra oggi. Rifiuto del più povero e del più debole, al quale si può pure tappare la bocca. Negazione del disagio, elogio del buonismo. Rifiuto per le classi più povere e disprezzo delle stesse. Non c’è cosa più trendy, al giorno d’oggi, di usare il termine populismo come offesa. E’ un qualcosa che potrebbe tranquillamente essere adottato come criterio di iniziazione per un percorso che parte dalle giovanili del PD, dalle università, dagli apericena meticci, dai lupanari dell’accoglienza. La sinistra oggi è questa, e sfila in giacca e cravatta dopo aver tentato di esportare la sua democrazia in giro per il mondo. Permetteteci di dissentire, e di preferire la piazza di Beaucaire. Che forse ha ancora il diritto di venir chiamata piazza, e non palcoscenico.

Alessandro Catto, laureato in Storia, collabora anche con l’Intellettuale Dissidente. Si occupa di politica e società. Nemico del pensiero unico, tradizionalista per reazione, popolare per collocazione, identitario per protesta, controcorrente per natura, nemico dichiarato della dittatura culturale da sinistra salottiera. Nato a Camposampiero (Padova) il 22/11/1991.

LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.

Le vera mafia è lo Stato che ci vessa. È arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Per la prima volta un Papa ha scomunicato la mafia. Benissimo! È arrivato il momento di far luce su chi sia la mafia. Chi potrebbe non essere d'accordo con la condanna assoluta di chi usa la violenza nelle sue varie forme, psicologica, economica e fisica, per sottomettere le persone al proprio arbitrio, al punto da violare i diritti inalienabili alla vita, alla dignità e alla libertà? Ma chi è veramente il Male che sta devastando la nostra esistenza? È la criminalità organizzata che impone il pizzo ai commercianti e fa affari con il traffico di droga e dei clandestini? È la massoneria che gestisce in modo più o meno occulto il potere ovunque nel mondo? È il Gruppo Bilderberg che associa chi più conta nella finanza e nell'economia sulla Terra? Certamente queste realtà interferiscono con la nostra vita con conseguenze tutt'altro che trascurabili. Ma si tratta di realtà che o non riguardano tutti noi o non ne conosciamo bene i contenuti e i risvolti. Viceversa siamo tutti, ma proprio tutti, più che consapevoli delle vessazioni che tutti i giorni lo Stato ci impone attraverso leggi inique e pratiche del tutto arbitrarie. Chi è che ci ha imposto una nuova schiavitù sotto forma del più alto livello di tassazione al mondo, fino all'80% di tasse dirette e indirette? Chi è talmente spregiudicato da speculare sulla nostra pelle legittimando e tassando il gioco d'azzardo, gli alcolici e le sigarette? Chi è a tal punto disumano da tassare la casa, il bene rifugio dell'80% delle famiglie italiane? Chi è che condanna a morte le imprese applicando un centinaio di tasse e balzelli in aggiunta a un centinaio di controlli amministrativi? Chi è che sta accrescendo la disoccupazione e la precarietà in tutte le fasce d'età e lavorative? Chi ha permesso che 4 milioni e 100mila italiani non abbiano i soldi per comperare il pane? Chi protegge le grandi banche e le grandi imprese che continuano a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite? Chi ha finora istigato al suicidio circa 4.500 italiani attraverso le cartelle esattoriali di Equitalia o coprendo le vessazioni delle banche quando non erogano credito o ingiungono di rientrare negli affidamenti entro 24 ore? Chi ha svenduto la nostra sovranità monetaria, legislativa e giudiziaria all'Europa dei banchieri e dei burocrati? Chi è responsabile della crescita inarrestabile del debito pubblico e privato dal momento che siamo costretti a indebitarci per ripianare il debito acquistando con gli interessi una moneta straniera? Chi sta devastando le famiglie obbligando entrambi i genitori a lavorare sodo per riuscire a sopravvivere? Chi ci ha portato all'ultimo posto di natalità in Europa e ci sta condannando al suicidio demografico? Chi sta incentivando l'emigrazione dei nostri giovani più qualificati perché in Italia non hanno prospettive? Chi sta danneggiando gli italiani promuovendo l'invasione di clandestini e umiliando i più poveri tra noi favorendo gli immigrati nell'assegnazione di case popolari, posti all'asilo nido e assegni sociali? Chi sta consentendo l'islamizzazione del nostro Paese riconoscendo il diritto a moschee, scuole coraniche, enti assistenziali e finanziari islamici a prescindere dal fatto che confliggono con i valori fondanti della nostra civiltà, indifferenti al fatto che sull'altra sponda del Mediterraneo i terroristi islamici stanno massacrando i cristiani e riesumando dei califfati in cui il diritto alla vita è garantito solo a chi si sottomette ad Allah e a Maometto? Ebbene è questo Stato che si è reso responsabile dell'insieme di questi comportamenti che ci stanno impoverendo e snaturando, trasformandoci da persone con un'anima in semplici strumenti di produzione e di consumo della materialità, assoggettati al dio euro e alla dittatura del relativismo. Ecco perché è arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato. Di ciò sono certi tutti gli italiani perché è una realtà che pagano sulla loro pelle giorno dopo giorno. Quindi caro Papa Francesco lei ha scomunicato le alte personalità che ha ricevuto in Vaticano, a cui ha stretto la mano e ha augurato successo. Per noi sono loro i veri mafiosi che stanno negando agli italiani il diritto a vivere con dignità e libertà.

Magdi come la Fallaci processati per le loro idee. La scrittrice finì alla sbarra in Italia, Francia e Svizzera per i suoi scritti sul pericolo islamico E anche lei diceva: «Non mi faccio intimidire», scrive “Il Giornale”. Li chiamava «i miei trofei». E di «trofei», alias processi per reato d'opinione a causa delle idee sull'islam espresse in libri e articoli, Oriana Fallaci ne ha subiti diversi nel corso della sua vita, in tutta Europa, dalla Francia alla Svizzera. E naturalmente pure in Italia, anche se l'ultimo, a Bergamo, è cominciato a giugno del 2006, due mesi prima che lei morisse, il 15 settembre. Oriana Fallaci come Magdi Cristiano Allam, anzi molto di più. A parte «l'amicizia complessa», così la definì Allam quando lei morì, che li legava sul fronte comune della denuncia dei pericoli del fondamentalismo islamico e del suo radicamento in Europa, c'è anche la persecuzione per via giudiziaria delle opinioni che li accomuna. Per Allam, oggi, si tratta di un procedimento avviato dal Consiglio di disciplina nazionale dell'Ordine dei giornalisti che lo accusa di «islamofobia». Per la Fallaci, all'epoca, erano invece veri e propri processi penali, per vilipendio all'islam, razzismo, xenofobia. La sostanza, però, non cambia: vietato essere critici nei confronti dei musulmani, pena la gogna, anche giudiziaria. Si arrabbiava, la Fallaci, per quei quattro processi: due in Francia, a partire dal 2002 (quello per «razzismo», nel 2003, si chiuse con la sua assoluzione) e uno in Svizzera, tutti legati a La rabbia e l'orgoglio ; e un altro in Italia, nel 2006, finito con la sua morte. Li chiamava sì trofei ma li riteneva profondamente ingiusti. Ecco come lei stessa li raccontava a novembre del 2005 nel discorso di ringraziamento per il conferimento dell' Annie Taylor Award , il cui testo è stato pubblicato qualche giorno fa da Libero : «I trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni Paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle , la Patrie du Laïcisme , la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité , dove per vilipendio all'islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste , dove tre anni fa gli ebrei francesi della Licra (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica in fronte) si unì ai musulmani francesi del Mrap (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l'Orgueil (La rabbia e l'orgoglio, ma la richiesta fu respinta, ndr ) o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: “Attenzione! Questo libro può costituire un pericolo per la vostra salute mentale”. Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweits , la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il ministro della Giustizia osò chiedere al mio ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell'islam viene impartita nel mio paese». Era furibonda, la Fallaci, per il processo di Bergamo, legato ad alcune affermazioni contenute in La forza della ragione . Un processo travagliato, partito dalla denuncia, nel 2004, di Adel Smith, il presidente all'epoca del'Unione dei Musulmani d'Italia che aveva definito il crocifisso un «cadaverino nudo inventato per spaventare i bambini musulmani». Il pm aveva chiesto l'archiviazione per la Fallaci, ma il gip l'aveva rigettata, imponendo l'imputazione coatta. Ecco cosa scriveva la stessa Fallaci a luglio del 2005, sul Corriere della Sera, nel celebre articolo dopo gli attentati di Londra «Il nemico che trattiamo da amico» : «Mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all'islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al cristianesimo. Nonché per istigazione all'omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l'esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi, anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo Van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro dell'Interno dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia». Al processo, iniziato il 9 giugno del 2006, la Fallaci non si presentò per scelta. Per quel processo ricevette attestati di solidarietà da mezzo mondo, pure dall'ex presidente polacco Lech Walesa. E quel processo finì nel nulla. Alla fine lo beffò la morte della giornalista e scrittrice, il 15 settembre del 2006.

L’ordine dei giornalisti contro Allam così si calpesta la libertà di opinione, scrive Pierluigi Battista su “Il Corriere della Sera”. Trasformare in un crimine un’opinione, per quanto criticabile, non dovrebbe rientrare nei compiti di uno Stato che voglia conservare la sua anima liberale, figurarsi di un Ordine professionale come quello dei giornalisti. E invece mettere sotto accusa le opinioni di un commentatore come Magdi Cristiano Allam è diventato l’occupazione estiva dell’Ordine dei giornalisti. Una parodia dell’Inquisizione che fa di un’associazione di categoria, nata durante il fascismo e senza eguali in nessun’altra democrazia liberale con l’eccezione del post-salazariano Portogallo, un tribunale abusivo che si permette di interpretare a suo modo i princìpi della libertà di espressione e che si permette di emettere verdetti sulle opinioni espresse da un proprio associato. Già l’Italia è caricata da una pletora di reati d’opinione mai smaltiti in tutti gli anni della Repubblica post-fascista. Non c’è bisogno di processi aggiuntivi istruiti da chi si arroga il diritto di giudicare le opinioni altrui solo perché munito del tesserino di un Ordine professionale. Se un giornalista commette un reato, dovrà essere giudicato come tutti gli altri cittadini da un Tribunale della Repubblica. Piccoli tribunali del popolo che si impancano a misuratori dell’eventuale «islamofobia» di Allam sono invece pallide imitazioni di epoche autoritarie che non distinguevano tra reato e opinione. Mentre la libertà d’opinione, dovremmo averlo imparato, è indivisibile e non dovrebbe essere manipolata a seconda delle predilezioni ideologiche. Si vuole criticare Allam? In Italia c’è il pluralismo della critica e dell’informazione e il conflitto delle idee è il sale di una democrazia liberale. La giustizia fai da te, i tribunali delle corporazioni che si permettono di intromettersi non su un comportamento, o su una grave negligenza professionale, bensì sul contenuto di un articolo, sono invece il residuo di un’intolleranza antica, e che non sopporta la diversità delle opinioni, anche delle più estreme. Per cui i censori dell’Ordine potrebbero rimettere nel cassetto i loro processi, togliersi la toga dell’inquisitore e ammettere di aver commesso un errore. Non è mai troppo tardi per la scoperta della libertà.

Caso Allam, una decisione sconcertante. Su "Il Giornale", il presidente dell'Odg: "Magdi potrà difendersi". Ma la vicenda resta sconcertante risponde Alessandro Sallusti.

Caro direttore, leggo i servizi dedicati all'Odg in relazione a una vicenda che riguarda Magdi Cristiano Allam. Debbo dirti che alcuni toni e non poche espressioni mi sconcertano. L'idea che ci siano degli intoccabili non appartiene alla mia cultura né, a leggere il Giornale, alla tua. Potrei tacere, perché solo un ignorante (nel senso che non conosce le cose) può non sapere che il Consiglio nazionale di disciplina è organismo autonomo, voluto come tale da una legge dello Stato. Ma, come ben sai personalmente, non amo le fughe, tanto da essere stato - doverosamente, a mio avviso, ma ugualmente andando contro «corrente» - accanto a te quando a Milano eri sotto processo. Se non si trattasse di Allam mi verrebbe il sospetto che questa vicenda vien cavalcata per riaccendere l'attenzione su un impegno personale e politico. Ma le cose non stanno esattamente come si afferma, pur citando correttamente i passaggi di un capo di incolpazione. Non so, essendo estraneo all'organismo, come finirà. Ma so che ad Allam sono state accordate, doverosamente, tutte le opportunità di acquisire i documenti, contenuti nel fascicolo, che riterrà utili. Di più: ha eccepito che i termini di 30 giorni non gli erano sufficienti e gli uffici, mi assicurano, gli hanno formalizzato un prolungamento che, mi riferiscono, è stato di sua soddisfazione. Ma si tende a trasmettere una informazione distorta. Allam non è stato processato. Ci si è limitati a ritenere «non manifestamente infondato» un esposto presentato da una associazione (sconosciuta, perchè sul web non c'è traccia), «Media e diritto», che si duole per alcune affermazioni contenute suoi articoli. Personalmente non mi sarei sentito oltraggiato (ma non mi sento «intoccabile», come scritto in premessa), ma, anzi, avrei colto la notizia non tanto (né solo) come l'opportunità di rivendicare la possibilità di dire quel che penso, ma anche per argomentarne più approfonditamente le ragioni. Ancor di più, non mi sarei scandalizzato perché questa procedura conferma che non ci sono «intoccabili» e che le ragioni di tutti vengono valutate con attenzione. Una differenza non marginale, ad esempio e senza generalizzazioni, con chi vive di una giustizia, sommaria e tutta sua, sgozzando davanti alla telecamera un giornalista. Enzo Iacopino, Presidente dell'Ordine nazionale dei giornalisti.

Caro presidente, in effetti ho provato sulla mia pelle la tua solidarietà e te ne sono riconoscente e grato. Il che non ha impedito che nostri solerti colleghi mi ri-processassero, nonostante la «grazia» che mi ha concesso il presidente Napolitano, e condannassero a due mesi di sospensione (l'appello, come saprai è a giorni). Ma questa è un'altra storia. È vero, come dici, che non ci devono essere intoccabili, ma chissà perché chi la pensa in un certo modo è più toccato di altri. E quando ad allungare le mani sono colleghi od organi che sia pure autonomi riconducibili all'Ordine dei giornalisti, allora mi preoccupo. Mi piacerebbe che l'Ordine, e tutto ciò che ruota attorno ad esso, si battesse sempre e comunque per la libertà di pensiero ed espressione, di chiunque. Perché è questo, per stare in tema, che distingue la nostra società da quella islamica, il più delle volte fondata sulla sharia. A quei signori che hanno fatto l'esposto bastava spiegare questa semplice verità non trattabile: ci spiace, ma da noi si è liberi di pensare, dire e scrivere, ciò che si crede, per eventuali reati rivolgersi alla magistratura ordinaria. Alessandro Sallusti.

Vogliono toglierci la libertà di critica. Il cardine della democrazia è mettere in discussione (anche) le religioni, scrive Ida Magli su "Il Giornale". Islamofobia: strano concetto da usare in un procedimento disciplinare. «Fobia» è, infatti, termine medico che definisce un particolare disturbo psichico, presente in genere nelle nevrastenie, e che si presenta come paura, ripulsione non infrenabile nei confronti di un qualsiasi fenomeno della realtà. Freud ha aggiunto poi, con le teorie psicoanalitiche sull'inconscio, una spiegazione ulteriore del comportamento fobico affermando che il paziente è indotto a razionalizzare la propria fobia attribuendola agli aspetti negativi degli oggetti o delle persone di cui teme. Siamo sempre nel campo della psichiatria. Da qualche anno tuttavia, in Europa, e in Italia in particolar modo, le accuse di «fobia» si sprecano. Non si può aprire bocca su un qualsiasi argomento senza incorrere in questo rischio. Sarebbe bene, invece, cominciare a ricordarsi quanto cammino abbiamo fatto, quante lotte intellettuali e fisiche abbiamo dovuto sostenere, soprattutto noi, gli italiani, per giungere alla civiltà cui oggi apparteniamo. Abbiamo sofferto e pagato con il carcere e con il sangue non tanto la libertà concreta, quanto la certezza della ricerca scientifica e delle sue conoscenze, disgiunta dal pensiero filosofico, da quello politico e da qualsiasi fede religiosa. Finalmente siamo giunti anche noi, italiani, a poter godere di una democrazia totalmente laica in cui il rispetto per le convinzioni dei singoli cittadini non comporta l'impossibilità di discuterle. Questo è il punto fondamentale di una democrazia sicura di se stessa e della forza della propria libertà: ogni cittadino può e deve poter parlare con tutti gli altri di qualsiasi argomento perché vive in un gruppo ed è la vita di gruppo che forma una società e un popolo. È secondo questi principi di convivenza nella democrazia che si ha il diritto, ma soprattutto il dovere, di discutere delle religioni. Oggi nessuno ritiene, in nessuna parte del mondo, che le religioni non facciano parte integrante delle culture e delle società. E ogni religione, proprio perché religione (religio è legame fra più individui) non è un fatto privato, né può essere trattato da nessuno, né singoli né governi né istituzioni, come un fatto privato. In Italia, poi, per la sua particolare storia, le discussioni e le critiche, anche fortissime, ad associazioni cattoliche, a vescovi, a parroci, a Papi, non sono mai mancate. Sarebbe sufficiente ricordarsi i dibattiti appassionati per la legislazione sul divorzio e sull'aborto. I cattolici hanno fatto allora tutto il possibile per sostenere le loro tesi che erano appunto fondate su norme dettate da un testo sacro, il Vangelo; altrettanto hanno fatto i partiti laici, e alla fine si sono svolti con assoluta libertà i relativi referendum. Cosa sarebbe stato dell'Italia, della democrazia in Italia, se qualcuno avesse pensato che i giornalisti non potevano discutere delle norme di un testo sacro, che bisognava porre loro il bavaglio, o intimorirli con provvedimenti disciplinari? Ho citato esplicitamente il Vangelo perché gli italiani possono supporre che il Corano, scritto diversi secoli dopo la venuta di Gesù, debba in qualche modo somigliargli, riprendere qualcuna delle sue tesi fondamentali. Siccome è vero il contrario perché il Corano è fondato sull'Antico Testamento, sulla legge del taglione, sulla vendetta contro i nemici, sull'obbligo di convertire gli infedeli, sui tabù dell'impurità, è quindi agli antipodi del Vangelo e agli antipodi della civiltà in cui viviamo. Visto che i musulmani sono già numerosissimi sul suolo italiano e aumentano ogni giorno, è dovere e diritto degli italiani sapere quali siano le norme di comportamento imposte da Maometto ai suoi fedeli, i quali, appunto in quanto fedeli, dovrebbero ritenerle giuste e averle fatte proprie. Ma chi dovrebbe informarli se non i giornalisti? L'ipocrisia non è nell'interesse di nessuno oggi in Italia. Intervengano i musulmani o i loro giornalisti (non gli imam) insieme a noi sui giornali e ci assicurino che, pur essendo fedeli a Maometto, ritengono sbagliate la giustizia del taglione, le norme sull'inferiorità e l'impurità delle donne, sulla fustigazione degli omosessuali, sulla lapidazione delle adultere, sull'uccisione degli infedeli... Noi gli crederemo.

Haisam Sakhanh, il jihadista che andava in tv all'Infedele di Gad Lerner, scrive “Libero Quotidiano”. L'orrore dei tagliagole, giorno dopo giorno, ora dopo ora, sconvolge l'Occidente. Solo poche ore fa, il video delle quattro sospette spie decapitate dai fanatici dell'Islam. Immagini strazianti, terrificanti, e che fanno ancor più paura perché è sempre più chiaro che i seguaci della jihad ce li abbiamo in casa. Sono molti, alcuni noti, altri no. C'è un Imam che giura: "Ci prenderemo il Vaticano". E c'è anche chi invece, in passato, andò in televisione. Due anni fa, per la precisione. Stiamo parlando di Haisam Sakhanh, nome di battaglia Abu Omar, che un tempo viveva nel milanese e che, una volta, si fece vedere negli studi de L'Infedele, la trasmissione di Gad Lerner su La7. Da mercoledì la procura di Milano ha fatto sapere di star indagando su di lui: la sua foto, ora, appare su tutti i giornali. Eppure era chiaro da tempo chi fosse, questo Abu Omar. Come ricorda Il Giornale, già nell'aprile del 2013 fu girato un video in cui il siriano-milanese si rese protagonista dell'orrore: assieme ad altri militanti prese parte all'esecuzione di 7 soldati filo-governativi, un colpo e testa e via, gli uomini in ginocchio vengono ammazzati. Nel 2012, inoltre, le autorità italiane non ritennero necessario svolgere qualche approfondimento su mister Haisam, ex elettricista a Cologno Monzese, e la sua rete: fu arrestato al termine di un assalto all'ambasciata di Roma. Haisam e i suoi vengono interrogati, indagati per danneggiamento, violazione di domicilio e violenza privata aggravata e rinviati a giudizio per direttissima. Ma non accadde nulla: tornò libero e riprese a fare proselitismi, nel nostro Paese, a Milano e hinterland. La replica di Lerner, via blog, arriva nel pomeriggio ed è velenosa. "Fra gli altri siriani che parteciparono alla trasmissione come pubblico, senza intervenire, scopriamo ora da una fotografia pubblicata su Facebook che si infiltrò un elettricista di Cologno Monzese, tale Haisam Sakhanh, che nel frattempo è entrato nella milizia Isis col nome di battaglia Abu Omar". "Naturalmente - spiega Lerner - io non ho invitato proprio nessun jihadista in trasmissione, né tre anni fa né mai. Tanto meno costui ha mai preso la parola all'Infedele. Ma per certe testate ogni occasione è buona per insultare".

Noi censurati, il jihadista invitato in tv da Lerner. L'elettricista di Cologno andato a combattere per l'Isis in Siria è indagato per terrorismo, ma due anni fa in Italia veniva trattato da eroe della rivolta, scrive Gian Micalessin su "Il Giornale. I tagliagole amici e complici dell'Isis li avevamo in casa. Vivevano e manifestavano a Milano, mentre a Roma godevano delle migliori coperture. E così quando polizia della Capitale li arrestava mentre assaltavano e devastavano le sedi diplomatiche, i magistrati li rimettevano in libertà. Del resto i ministri del governo Monti, gli stessi che rispedivano i nostri marò nella trappola indiana, ricevevano i loro capi politici alla Farnesina trattandoli alla stregua di eroi. Gad Lerner, nel frattempo, li invitava nel suo salotto televisivo. E Pier Luigi Bersani, allora segretario del Pd, non si faceva problemi ad appoggiarli concionando da un palco adornato con la bandiera dei ribelli. La stessa bandiera in cui s'avvolgevano le sprovvedute attiviste Vanessa Marzullo e Greta Ramelli inghiottite qualche settimana fa dall'inferno siriano. Ma siamo nel Belpaese. Un paese dove l'Ordine dei Giornalisti indaga chi critica l'Islam, ma si guarda bene dall'obbiettare se qualcuno da voce ad un terrorista. E dunque non succedeva nulla. E così anche quando Il Giornale , si permetteva di mostrare i volti e documentare le atrocità di questi signori tutti facevano vinta di non vedere, di non sapere, di non capire. Guardate questo signore. Il suo vero nome è Haisam Sakhanh, il suo nome di battaglia è Abu Omar. Da mercoledì, da quando l'assai sollecita procura di Milano ha fatto sapere di star indagando su di lui, tutti fanno a gara a parlarne. La sua foto campeggia dal Corriere della Sera a Repubblica e i telegiornali fanno a gara nel descriverlo come il reclutatore dei jihadisti di Milano e dintorni. Bella scoperta. Sul Giornale la sua foto era già comparsa l'11 gennaio accanto a un titolo che recitava «Cercate killer islamici? Eccone uno». Come lo sapevamo? Semplice. A differenza degli «ignari» magistrati, politici, diplomatici e di tanti colleghi, sempre pronti a chiuder gli occhi quando le notizie non sono politicamente corrette, non c'eravamo fatto scrupoli a identificare i protagonisti dell' agghiacciante video girato nell'aprile 2013 nella provincia siriana di Idlib e pubblicato lo scorso settembre sul sito web del New York Times . In quel video il siriano-milanese Sakhanh-Abu Omar è protagonista, assieme ad altri militanti guidati dal comandante Abdul Samad Hissa, della spietata esecuzione di 7 soldati governativi appena catturati. Nel filmato indossa un giubbotto marroncino, impugna il kalashnikov e ascolta il comandante che spiega a lui e altri nove militanti perché sia giusto e doveroso ammazzare i prigionieri. Subito dopo preme il grilletto e infila un proiettile nella nuca di un soldato denudato e fatto inginocchiare ai suoi piedi. A gennaio dopo la nostra denuncia nessuno muove un dito. Ma questa non è una novità. Ben più grave è che nessuno si curi di accertare i contatti e i collegamenti di Haisam alias Abu Omar nel febbraio 2012 quando il militante viene arrestato al termine di un vero e proprio assalto all'ambasciata siriana di Roma. Un assalto durante il quale guida alcuni complici all'interno degli uffici della sede diplomatica devastandoli e malmenando alcuni impiegati. Interrogati dal giudice Marina Finiti e indagati per danneggiamento, violazione di domicilio e violenza privata aggravata Haisam e i suoi vengono rinviati a giudizio per direttissima. Ma anche allora non succede nulla. Lui torna libero, continua a far proseliti e a guidare il suo gruppetto basato a Milano e dintorni. Tra questi si distingue l'amico Ammar Bacha che il 19 agosto 2012 non si fa problemi a pubblicare un video in cui i decapitatori dell'Isis (Stato Islamico dell'Iraq e del levante) illustrano la propria attività con il consueto corollario di atrocità e violenze. Anche stavolta tutti fanno finta di non vedere. Del resto solo pochi mesi prima, il 13 maggio 2012, il ministro Giulio Terzi ha incontrato alla Farnesina il Presidente del Consiglio Nazionale Siriano (Cns), Bourhan Ghalioun, capo politico di quei ribelli già allora finanziati dal Qatar e monopolizzati dall'estremismo di Al Qaida e dell'Isis. E così qualche mese dopo pm e polizia si guardano bene dal fermare il signor Sakhanh e il suo sodale. E loro fuggono in Turchia e poi in Siria. Dove possono finalmente dedicarsi alla loro attività più congeniale. Ovvero uccidere e massacrare.

Le decapitazioni di Isis e gli allarmi della Fallaci. Il video dell'uccisione di James Foley riporta alla mente le parole (inascoltate) della scrittrice, scrive Marco Ventura su Panorama. E quindi non è "un conflitto di civiltà" quello che è sotto gli occhi di tutti in Iraq, Siria, Africa? Il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, sempre così graziosamente politically correct, nega in Parlamento la matrice di "civiltà" nei sanguinosi eventi di queste ore e nella risposta di Stati Uniti e Europa, quasi dovessimo vergognarci di difendere i valori dell'Occidente contro una versione esasperata e integralista dell'Islam globale. Ma è così? Arancione e nero. Sapete a cosa penso guardando quell’immagine surreale, terribilmente cinematografica, del giornalista americano James Foley in tuta arancione come i prigionieri di Guantanamo inginocchiato davanti a un paesaggio desertico, il busto eretto e il mento dritto, la postura fiera incongruente con le parole che deve pronunciare, e poi guardando quella figura di morte nera accanto a lui, in piedi, quel tagliagole mascherato dell’Is, coltello in mano, che si rivolge direttamente in inglese a Barack Obama (“You, Obama”) prima di decapitare la sua vittima? Penso, ecco, a Oriana Fallaci. Ai profeti inascoltati che l’Italia ha avuto, e al fatto che per vedere meglio nel futuro si sono dovuti trasferire all’estero, negli Stati Uniti, e da lì vaticinare, puntare l’indice, declamare il j’accuse, le loro omelie laiche da italiani che amano l’Italia e disprezzano però una certa Italia (e Europa). La Fallaci come Prezzolini, isolato nel suo esilio americano (e svizzero). Penso a quanti hanno criticato la Fallaci degli ultimi anni considerando i suoi scritti, le sue invettive finali (o definitive) contro l’invasione islamica, il pericolo islamico, la brutalità islamica, una sorta di metastasi del pensiero, quasi un cancro dello spirito parallelo al male che le consumava il corpo. Ascoltate (sì, ascoltate) quello che Oriana scriveva “Ai lettori” all’indomani dell’11/9, in apertura de “La rabbia e l’orgoglio” (Rizzoli): “Dall’Afghanistan al Sudan, dall’Indonesia al Pakistan, dalla Malesia all’Iran, dall’Egitto all’Iraq, dall’Algeria al Senegal, dalla Siria al Kenya, dalla Libia al Ciad, dal Libano al Marocco, dalla Palestina allo Yemen, dall’Arabia Saudita alla Somalia, l’odio per l’Occidente cresce. Si gonfia come un fuoco alimentato dal vento, e i seguaci del fondamentalismo islamico si moltiplicano come i protozoi d’una cellula che si scinde per diventare due cellule poi quattro poi otto poi sedici poi trentadue. All’infinito”. Ognuno di quei paesi evoca oggi qualcosa di terribile che è avvenuto (che avviene). I talebani comandano ancora in Afghanistan (fino in Pakistan). In Egitto la primavera araba è morta con l’avvento dei Fratelli musulmani, finalmente stroncati dalla restaurazione del generale Al-Sisi. In Libia gli islamisti proclamano il Califfato di Bengasi, guerreggiano e spargono odio e caos anche se nelle elezioni hanno dimostrato di valere poco più del 10 per cento. Tra Somalia e Kenya i guerriglieri islamisti di Al Shabaab fanno incursioni omicide lungo le strade, stragi nei centri commerciali a Nairobi. In paesi come la Nigeria che la Fallaci non citava (la sua lista oggi sarebbe più lunga) i massacri islamisti e i rapimenti delle studentesse sono firmati dalle milizie di Boko Haram. Nello Yemen dei sequestri operano cellule di Al-Qaeda. In Palestina, Hamas usa i civili come scudi umani e lancia razzi su Israele con l’obiettivo di cancellare lo Stato ebraico dalle mappe. Con l’Iran rimane il contenzioso nucleare. Di Iraq e Siria sappiamo. In Libano spadroneggiano gli Hezbollah. L’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo non sono ancora usciti dall’ambiguità, chi più e chi meno, di sostenere o chiudere un occhio sui finanziamenti alle formazioni integraliste. E così via. Dal 2001 sono passati 13 anni e le parole de “La rabbia e l’orgoglio” si avverano. “Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. Distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri…”. Oriana tuonava contro “i nuovi Mori”. Dietro le figure in nero, che c’erano anche allora, vedeva i colletti bianchi, che ci sono ancora. Ascoltiamola. “I nuovi Mori con la cravatta trovano sempre più complici, fanno sempre più proseliti. Per questo diventano sempre di più, pretendono sempre di più. E se non stiamo attenti, se restiamo inerti, troveranno sempre più complici. Diventeranno sempre di più, otterranno sempre di più, spadroneggeranno sempre di più. Fino a soggiogarci completamente. Fino a spegnere la nostra civiltà. Ergo, trattare con loro è impossibile. Ragionarci, impensabile. Cullarci nell’indulgenza o nella tolleranza o nella speranza, un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso”. Chissà che non dovremo darle ragione, nonostante il nostro perbenismo intellettuale, pure sui rischi dei flussi migratori. Proprio in conclusione del suo pamphlet la Fallaci scrive infatti dell’Italia che “nonostante tutto esiste. Zittita, ridicolizzata, sbeffeggiata, diffamata, insultata, ma esiste. Quindi guai a chi me la tocca. Guai a chi me la invade, guai a chi me la ruba. Perché (se non l’hai ancora capito te lo ripeto con maggiore chiarezza) che a invaderla siano i francesi di Napoleone o i tedeschi di Hitler o i compari di Osama Bin Laden, per me è lo stesso. Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem”. E per finire: “Stop. Quello che avevo da dire l’ho detto… Ora basta. Punto e basta”.

Oriana Fallaci, la sua lezione su Libero Quotidiano: Maestra di libertà. la profezia sull'Islam fanatico, gli insulti della sinistra, i processi. Il testo di cui oggi iniziamo la pubblicazione - per gentile concessione di Edoardo Perazzi, nipote e erede della Fallaci - è quello di un discorso pronunciato da Oriana Fallaci nel novembre del 2005. La grande toscana fu insignita del Annie Taylor Award, un premio conferito dal Centro Studi di cultura popolare di New York. Il suo discorso, in versione integrale inglese, fu pubblicato pochi giorni dopo da Il Foglio. Poi, il primo dicembre del 2005, Libero ne pubblicò la versione italiana, col permesso della stessa Fallaci, che volle rivederne personalmente la forma (modificandola tramite memorabili telefonate con l'allora responsabile delle pagine culturali Alessandro Gnocchi). Abbiamo deciso di ripubblicare questo testo perché pensiamo che oggi, a quasi dieci anni di distanza, sia più attuale che mai. Bé: un premio intitolato a una donna che saltò sopra le Cascate del Niagara, e sopravvisse, è mille volte più prezioso e prestigioso ed etico di un Oscar o di un Nobel: fino a ieri gloriose onorificenze rese a persone di valore ed oggi squallide parcelle concesse a devoti antiamericani e antioccidentali quindi filoislamici. Insomma a coloro che recitando la parte dei guru illuminati che definiscono Bush un assassino, Sharon un criminale-di-guerra, Castro un filantropo, e gli Stati Uniti «la-potenza-più-feroce, più-barbara, più-spaventosa-che-il-mondo-abbia-mai-conosciuto». Infatti se mi assegnassero simili parcelle (graziaddio un’eventualità più remota del più remoto Buco Nero dell’Universo), querelerei subito le giurie per calunnia e diffamazione. Al contrario, accetto questo «Annie Taylor» con gratitudine e orgoglio. E pazienza se sopravvaluta troppo le mie virtù. Sì: specialmente come corrispondente di guerra, di salti ne ho fatti parecchi. In Vietnam, ad esempio, sono saltata spesso nelle trincee per evitare mitragliate e mortai. Altrettanto spesso sono saltata dagli elicotteri americani per raggiungere le zone di combattimento. In Bangladesh, anche da un elicottero russo per infilarmi dentro la battaglia di Dacca. Durante le mie interviste coi mascalzoni della Terra (i Khomeini, gli Arafat, i Gheddafi eccetera) non meno spesso sono saltata in donchisciotteschi litigi rischiando seriamente la mia incolumità. E una volta, nell’America Latina, mi sono buttata giù da una finestra per sfuggire agli sbirri che volevano arrestarmi. Però mai, mai, sono saltata sopra le Cascate del Niagara. Né mai lo farei. Troppo rischioso, troppo pericoloso. Ancor più rischioso che palesare la propria indipendenza, essere un dissidente cioè un fuorilegge, in una società che al nemico vende la Patria. Con la patria, la sua cultura e la sua civiltà e la sua dignità. Quindi grazie David Horowitz, Daniel Pipes, Robert Spencer. E credetemi quando dico che questo premio appartiene a voi quanto a me. A tal punto che, quando ho letto che quest’anno avreste premiato la Fallaci, mi sono chiesta: «Non dovrei esser io a premiare loro?». E per contraccambiare il tributo volevo presentarmi con qualche medaglia o qualche trofeo da consegnarvi. Mi presento a mani vuote perché non sapevo, non saprei, dove comprare certa roba. Con le medaglie e i trofei ho un’esigua, davvero esigua, familiarità. E vi dico perché. Anzitutto perché crediamo di vivere in vere democrazie, democrazie sincere e vivaci nonché governate dalla libertà di pensiero e di opinione. Invece viviamo in democrazie deboli e pigre, quindi dominate dal dispotismo e dalla paura. Paura di pensare e, pensando, di raggiungere conclusioni che non corrispondono a quelle dei lacchè del potere. Paura di parlare e, parlando, di dare un giudizio diverso dal giudizio subdolamente imposto da loro. Paura di non essere sufficientemente allineati, obbedienti, servili, e venire scomunicati attraverso l’esilio morale con cui le democrazie deboli e pigre ricattano il cittadino. Paura di essere liberi, insomma. Di prendere rischi, di avere coraggio. «Il segreto della felicità è la libertà. E il segreto della libertà è il coraggio», diceva Pericle. Uno che di queste cose se ne intendeva. (Tolgo la massima dal secondo libro della mia trilogia: La Forza della ragione. E da questo prendo anche il chiarimento che oltre centocinquanta anni fa Alexis de Tocqueville fornì nel suo intramontabile trattato sulla democrazia in America). Nei regimi assolutisti o dittatoriali, scrive Tocqueville, il dispotismo colpisce il corpo. Lo colpisce mettendolo in catene o torturandolo o sopprimendolo in vari modi. Decapitazioni, impiccagioni, lapidazioni, fucilazioni, Inquisizioni eccetera. E così facendo risparmia l’anima che intatta si leva dalla carne straziata e trasforma la vittima in eroe. Nelle democrazie inanimate, invece, nei regimi inertamente democratici, il dispotismo risparmia il corpo e colpisce l’anima. Perché è l’anima che vuole mettere in catene. Torturare, sopprimere. Così alle sue vittime non dice mai ciò che dice nei regimi assolutisti o dittatoriali: «O la pensi come me o muori». Dice: «Scegli. Sei libero di non pensare o di pensare come la penso io. Se non la pensi come la penso io, non ti sopprimerò. Non toccherò il tuo corpo. Non confischerò le tue proprietà. Non violenterò i tuoi diritti politici. Ti permetterò addirittura di votare. Ma non sarai mai votato. Non sarai mai eletto. Non sarai mai seguito e rispettato. Perché ricorrendo alle mie leggi sulla libertà di pensiero e di opinione, io sosterrò che sei impuro. Che sei bugiardo, dissoluto, peccatore, miserabile, malato di mente. E farò di te un fuorilegge, un criminale. Ti condannerò alla Morte Civile, e la gente non ti ascolterà più. Peggio. Per non essere a sua volta puniti, quelli che la pensano come te ti diserteranno». Questo succede, spiega, in quanto nelle democrazie inanimate, nei regimi inertamente democratici, tutto si può dire fuorché la Verità. Perché la Verità ispira paura. Perché, a leggere o udire la verità, i più si arrendono alla paura. E per paura delineano intorno ad essa un cerchio che è proibito oltrepassare. Alzano intorno ad essa un’invisibile ma insormontabile barriera dentro la quale si può soltanto tacere o unirsi al coro. Se il dissidente oltrepassa quella linea, se salta sopra le Cascate del Niagara di quella barriera, la punizione si abbatte su di lui o su di lei con la velocità della luce. E a render possibile tale infamia sono proprio coloro che segretamente la pensano come lui o come lei, ma che per convenienza o viltà o stupidità non alzano la loro voce contro gli anatemi e le persecuzioni. Gli amici, spesso. O i cosiddetti amici. I partner. O i cosiddetti partner. I colleghi. O i cosiddetti colleghi. Per un poco, infatti, si nascondono dietro il cespuglio. Temporeggiano, tengono il piede in due staffe. Ma poi diventano silenziosi e, terrorizzati dai rischi che tale ambiguità comporta, se la svignano. Abbandonano il fuorilegge, il criminale, al di lui o al di lei destino e con il loro silenzio danno la loro approvazione alla Morte Civile. (Qualcosa che io ho esperimentato tutta la vita e specialmente negli ultimi anni. «Non ti posso difendere più» mi disse, due o tre Natali fa, un famoso giornalista italiano che in mia difesa aveva scritto due o tre editoriali. «Perché?» gli chiesi tutta mesta. «Perché la gente non mi parla più. Non mi invita più a cena»). L’altro motivo per cui ho un’esigua familiarità con le medaglie e i trofei sta nel fatto che soprattutto dopo l’11 Settembre l’Europa è diventata una Cascata del Niagara di Maccartismo sostanzialmente identico a quello che afflisse gli Stati Uniti mezzo secolo fa. Sola differenza, il suo colore politico. Mezzo secolo fa era infatti la Sinistra ad essere vittimizzata dal Maccartismo. Oggi è la Sinistra che vittimizza gli altri col suo Maccartismo. Non meno, e a parer mio molto di più, che negli Stati Uniti. Cari miei, nell’Europa d’oggi v’è una nuova Caccia alle Streghe. E sevizia chiunque vada contro corrente. V’è una nuova Inquisizione. E gli eretici li brucia tappandogli o tentando di tappargli la bocca. Eh, sì: anche noi abbiamo i nostri Torquemada. I nostri Ward Churchill, i nostri Noam Chomsky, i nostri Louis Farrakhan, i nostri Michael Moore eccetera. Anche noi siamo infettati dalla piaga contro la quale tutti gli antidoti sembrano inefficaci. La piaga di un risorto nazi-fascismo. Il nazismo islamico e il fascismo autoctono. Portatori di germi, gli educatori cioè i maestri e le maestre che diffondono l’infezione fin dalle scuole elementari e dagli asili dove esporre un Presepe o un Babbo Natale è considerato un «insulto ai bambini Mussulmani». I professori (o le professoresse) che tale infezione la raddoppiano nelle scuole medie e la esasperano nelle università. Attraverso l’indottrinazione quotidiana, il quotidiano lavaggio del cervello, si sa. (La storia delle Crociate, ad esempio, riscritta e falsificata come nel 1984 di Orwell. L’ossequio verso il Corano visto come una religione di pace e misericordia. La reverenza per l’Islam visto come un Faro di Luce paragonato al quale la nostra civiltà è una favilla di sigaretta). E con l’indottrinazione, le manifestazioni politiche. Ovvio. Le marce settarie, i comizi faziosi, gli eccessi fascistoidi. Sapete che fecero, lo scorso ottobre, i giovinastri della Sinistra radicale a Torino? Assaltarono la chiesa rinascimentale del Carmine e ne insozzarono la facciata scrivendoci con lo spray l’insulto «Nazi-Ratzinger» nonché l’avvertimento: «Con le budella dei preti impiccheremo Pisanu». Il nostro Ministro degli Interni. Poi su quella facciata urinarono. (Amabilità che a Firenze, la mia città, non pochi islamici amano esercitare sui sagrati delle basiliche e sui vetusti marmi del Battistero). Infine irruppero dentro la chiesa e, spaventando a morte le vecchine che recitavano il Vespro, fecero scoppiare un petardo vicino all’altare. Tutto ciò alla presenza di poliziotti che non potevano intervenire perché nella città Politically Correct tali imprese sono considerate Libertà di espressione. (A meno che tale libertà non venga esercitata contro le moschee: s’intende). E inutile aggiungere che gli adulti non sono migliori di questi giovinastri. La scorsa settimana, a Marano, popolosa cittadina collocata nella provincia di Napoli, il Sindaco (ex seminarista, ex membro del Partito Comunista Italiano, poi del vivente Partito di Rifondazione Comunista, ed ora membro del Partito dei Comunisti Italiani) annullò tout-court l’ordinanza emessa dal commissario prefettizio per dedicare una strada ai martiri di Nassiriya. Cioè ai diciannove militari italiani che due anni fa i kamikaze uccisero in Iraq. Lo annullò affermando che i diciannove non erano martiri bensì mercenari, e alla strada dette il nome di Arafat. «Via Arafat». Lo fece piazzando una targa che disse: «Yasser Arafat, simbolo dell’Unità (sic) e della Resistenza Palestinese». Poi l’interno del municipio lo tappezzò con gigantesche foto del medesimo, e l’esterno con bandiere palestinesi. La piaga si propaga anche attraverso i giornali, la Tv, la radio. Attraverso i media che per convenienza o viltà o stupidità sono in gran maggioranza islamofili e antioccidentali e antiamericani quanto i maestri, i professori, gli accademici. Che senza alcun rischio di venir criticati o beffati passano sotto silenzio episodi come quelli di Torino o Marano. E in compenso non dimenticano mai di attaccare Israele, leccare i piedi all’Islam. Si propaga anche attraverso le canzoni e le chitarre e i concerti rock e i film, quella piaga. Attraverso uno show-business dove, come i vostri ottusi e presuntuosi e ultra-miliardari giullari di Hollywood, i nostri giullari sostengono il ruolo di buonisti sempre pronti a piangere per gli assassini. Mai per le loro vittime. Si propaga anche attraverso un sistema giudiziario che ha perduto ogni senso della Giustizia, ogni rispetto della giurisdizione. Voglio dire attraverso i tribunali dove, come i vostri magistrati, i nostri magistrati assolvono i terroristi con la stessa facilità con cui assolvono i pedofili. (O li condannano a pene irrisorie). E finalmente si propaga attraverso l’intimidazione della buona gente in buona fede. Voglio dire la gente che per ignoranza o paura subisce quel dispotismo e non comprende che col suo silenzio o la sua sottomissione aiuta il risorto nazi-fascismo a fiorire. Non a caso, quando denuncio queste cose, mi sento davvero come una Cassandra che parla al vento. O come uno dei dimenticati antifascisti che settanta e ottanta anni fa mettevano i ciechi e i sordi in guardia contro una coppia chiamata Mussolini e Hitler. Ma i ciechi restavano ciechi, i sordi restavano sordi, ed entrambi finirono col portar sulla fronte ciò che ne L’Apocalisse chiamo il Marchio della Vergogna. Di conseguenza le mie vere medaglie sono gli insulti, le denigrazioni, gli abusi che ricevo dall’odierno Maccartismo. Dall’odierna Caccia alle Streghe, dall’odierna Inquisizione. I miei trofei, i processi che in Europa subisco per reato di opinione. Un reato ormai travestito coi termini «vilipendio dell’Islam, razzismo o razzismo religioso, xenofobia, istigazione all’odio eccetera». Parentesi: può un Codice Penale processarmi per odio? Può l’odio essere proibito per Legge? L’odio è un sentimento. È una emozione, una reazione, uno stato d’animo. Non un crimine giuridico. Come l’amore, l’odio appartiene alla natura umana. Anzi, alla Vità. È l’opposto dell’amore e quindi, come l’amore, non può essere proibito da un articolo del Codice Penale. Può essere giudicato, sì. Può essere contestato, osteggiato, condannato, sì. Ma soltanto in senso morale. Ad esempio, nel giudizio delle religioni che come la religione cristiana predicano l’amore. Non nel giudizio d’un tribunale che mi garantisce il diritto di amare chi voglio. Perché, se ho il diritto di amare chi voglio, ho anche e devo avere anche il diritto di odiare chi voglio. Incominciando da coloro che odiano me. Sì, io odio i Bin Laden. Odio gli Zarkawi. Odio i kamikaze e le bestie che ci tagliano la testa e ci fanno saltare in aria e martirizzano le loro donne. Odio gli Ward Churchill, i Noam Chomsky, i Louis Farrakhan, i Michael Moore, i complici, i collaborazionisti, i traditori, che ci vendono al nemico. Li odio come odiavo Mussolini e Hitler e Stalin and Company. Li odio come ho sempre odiato ogni assalto alla Libertà, ogni martirio della Libertà. È un mio sacrosanto diritto. E se sbaglio, ditemi perché coloro che odiano me più di quanto io odi loro non sono processati col medesimo atto d’accusa. Voglio dire: ditemi perché questa faccenda dell’Istigazione all’Odio non tocca mai i professionisti dell’odio, i mussulmani che sul concetto dell’odio hanno costruito la loro ideologia. La loro filosofia. La loro teologia. Ditemi perché questa faccenda non tocca mai i loro complici occidentali. Parentesi chiusa, e torniamo ai trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle, la Patrie du Laïcisme, la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité, dove per vilipendio dell’Islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste, dove tre anni fa gli ebrei francesi della LICRA (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica sulla fronte) si unì ai mussulmani francesi del MRAP (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice Penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l’Orgueil o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: «Attenzione! Questo librò può costituire un pericolo per la vostra salute mentale». (Insieme volevano anche intascare un grosso risarcimento danni, naturalmente). Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweitz, la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il Ministro della Giustizia osò chiedere al mio Ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell’Islam viene impartita nel mio paese. (Un paese dove senza alcuna conseguenza legale qualsiasi mussulmano può staccare il crocifisso dai muri di un’aula scolastica o di un ospedale, gettarlo nella spazzatura, dire che il crocifisso «ritrae-un-cadaverino-nudo-inventato-per-spaventare-i-bambini-mussulmani». E sapete chi ha promosso il processo di Bergamo? Uno dei mai processati quindi mai condannati specialisti nel buttare via i crocifissi. L’autore di un sudicio libretto che per molto tempo ha venduto nelle moschee, nei Centri Islamici, nelle librerie sinistrorse d’Italia. Quanto alle minacce contro la mia vita cioè all’irresistibile desiderio che i figli di Allah hanno di tagliarmi la gola o farmi saltare in aria o almeno liquidarmi con un colpo di pistola nella nuca, mi limiterò a dire che specialmente quando sono in Italia devo essere protetta ventiquattro ore su ventiquattro dai Carabinieri. La nostra polizia militare. E, sia pure a fin di bene, questa è una durissima limitazione alla mia libertà personale. Quanto agli insulti, agli anatemi, agli abusi con cui i media europei mi onorano per conto della trista alleanza Sinistra-Islam, ecco alcune delle qualifiche che da quattro anni mi vengono elargite: «Abominevole. Blasfema. Deleteria. Troglodita. Razzista. Retrograda. Ignobile. Degenere. Reazionaria. Abbietta». Come vedete, parole identiche o molto simili a quelle usate da Alexis de Tocqueville quando spiega il dispotismo che mira alla Morte Civile. Nel mio paese quel dispotismo si compiace anche di chiamarmi «Iena», nel distorcere il mio nome da Oriana in «Oriena» e nello sbeffeggiarmi attraverso sardoniche identificazioni con Giovanna d’Arco. «Le bestialità della neo Giovanna d’Arco». «Taci, Giovanna d’Arco». «Ora basta, Giovanna d’Arco».

Scontro di (in)civiltà. Oriana Fallaci: le galline della sinistra in ginocchio dagli islamici. Per gentile concessione dell’erede Edoardo Perazzi, continuiamo la pubblicazione del discorso che Oriana Fallaci pubblicò nel 2005, quando fu insignita del «Annie Taylor Award», prestigioso riconoscimento statunitense. I temi che la Fallaci affronta sono quelli delle sue celebri opere, tutte edite da Rizzoli. Lo scorso agosto venni ricevuta in udienza privata da Ratzinger, insomma da Papa Benedetto XVI. Un Papa che ama il mio lavoro da quando lesse Lettera a un bambino mai nato e che io rispetto profondamente da quando leggo i suoi intelligentissimi libri. Un Papa, inoltre, col quale mi trovo d’accordo in parecchi casi. Per esempio, quando scrive che l’Occidente ha maturato una sorta di odio contro sé stesso. Che non ama più sé stesso, che ha perso la sua spiritualità e rischia di perdere anche la sua identità. (Esattamente ciò che scrivo io quando scrivo che l’Occidente è malato di un cancro morale e intellettuale. Non a caso ripeto spesso: «Se un Papa e un’atea dicono la stessa cosa, in quella cosa dev’esserci qualcosa di tremendamente vero»). Nuova parentesi. Sono un’atea, sì. Un’atea-cristiana, come sempre chiarisco, ma un’atea. E Papa Ratzinger lo sa molto bene. Ne La Forza della Ragione uso un intero capitolo per spiegare l’apparente paradosso di tale autodefinizione. Ma sapete che cosa dice lui agli atei come me? Dice: «Ok. (L’ok è mio, ovvio). Allora Veluti si Deus daretur. Comportatevi come se Dio esistesse». Parole da cui desumo che nella comunità religiosa vi sono persone più aperte e più acute che in quella laica alla quale appartengo. Talmente aperte ed acute che non tentano nemmeno, non si sognano nemmeno, di salvarmi l’anima cioè di convertirmi. Uno dei motivi per cui sostengo che, vendendosi al teocratico Islam, il laicismo ha perso il treno. È mancato all’appuntamento più importante offertogli dalla Storia e così facendo ha aperto un vuoto, una voragine che soltanto la spiritualità può riempire. Uno dei motivi, inoltre, per cui nella Chiesa d’oggi vedo un inatteso partner, un imprevisto alleato. In Ratzinger, e in chiunque accetti la mia per loro inquietante indipendenza di pensiero e di comportamento, un compagnon-de-route. Ammenoché anche la Chiesa manchi al suo appuntamento con la Storia. Cosa che tuttavia non prevedo. Perché, forse per reazione alle ideologie materialistiche che hanno caratterizzato lo scorso secolo, il secolo dinanzi a noi mi sembra marcato da una inevitabile nostalgia anzi da un inevitabile bisogno di religiosità. E, come la religione, la religiosità finisce sempre col rivelarsi il veicolo più semplice (se non il più facile) per arrivare alla spiritualità. Chiusa la nuova parentesi. E così ci incontrammo, io e questo gentiluomo intelligente. Senza cerimonie, senza formalità, tutti soli nel suo studio di Castel Gandolfo conversammo e l’incontro non-professionale doveva restare segreto. Nella mia ossessione per la privacy, avevo chiesto che così fosse. Ma la voce si diffuse ugualmente. Come una bomba nucleare piombò sulla stampa italiana, e indovina ciò che un petulante idiota con requisiti accademici scrisse su un noto giornale romano di Sinistra. Scrisse che il Papa può vedere quanto vuole «i miserabili, gli empi, i peccatori, i mentalmente malati» come la Fallaci. Perché «il Papa non è una persona perbene». (A dispetto di ogni dizionario e della stessa Accademia della Crusca, il «perbene» scritto "per bene"). Del resto, e sempre pensando a Tocqueville, alla sua invisibile ma insuperabile barriera dentro-la-quale-si-può-soltanto-tacere-o-unirsi-al-coro, non dimentico mai quello che quattro anni fa accadde qui in America. Voglio dire quando l’articolo La Rabbia e l’Orgoglio (non ancora libro) apparve in Italia. E il New York Times scatenò la sua Super Political Correctness con una intera pagina nella quale la corrispondente da Roma mi presentava come «a provocateur» una «provocatrice». Una villana colpevole di calunniare l’Islam... Quando l’articolo divenne libro e apparve qui, ancora peggio. Perché il New York Post mi descrisse, sì, come «La Coscienza d’Europa, l’eccezione in un’epoca dove l’onestà e la chiarezza non sono più considerate preziose virtù». Nelle loro lettere i lettori mi definirono, sì, «il solo intelletto eloquente che l’Europa avesse prodotto dal giorno in cui Winston Churchill pronunciò lo Step by Step cioè il discorso con cui metteva in guardia l’Europa dall’avanzata di Hitler». Ma i giornali e le TV e le radio della Sinistra al Caviale rimasero mute, oppure si unirono alla tesi del New York Times. Tantomeno dimentico ciò che è avvenuto nel mio paese durante questi giorni di novembre 2005. Perché, pubblicato da una casa editrice che nella maggioranza delle quote azionarie appartiene ai miei editori italiani, e da questi vistosamente annunciato sul giornale che consideravo il mio giornale, in un certo senso la mia famiglia, un altro libro anti- Fallaci ora affligge le librerie. Un libro scritto, stavolta, dall’ex vice-direttore del quotidiano che un tempo apparteneva al defunto Partito Comunista. Bé, non l’ho letto. Né lo leggerò. (Esistono almeno sei libri su di me. Quasi tutti, biografie non-autorizzate e piene di bugie offensive nonché di grottesche invenzioni. E non ne ho mai letto uno. Non ho mai neppure gettato lo sguardo sulle loro copertine). Ma so che stavolta il titolo, naturalmente accompagnato dal mio nome che garantisce le vendite, contiene le parole «cattiva maestra». So che la cattiva maestra è ritratta come una sordida reazionaria, una perniciosa guerrafondaia, una mortale portatrice di «Orianismo». E secondo l’ex vice-direttore dell’ex quotidiano ultracomunista, l’Orianismo è un virus. Una malattia, un contagio, nonché un’ossessione, che uccide tutte le vittime contaminate. (Graziaddio, molti milioni di vittime. Soltanto in Italia, la Trilogia ha venduto assai più di quattro milioni di copie in tre anni. E negli altri ventun paesi è un saldo bestseller). Ma questo non è tutto. Perché nei medesimi giorni il sindaco milanese di centro-destra mi incluse nella lista degli Ambrogini: le molto ambite medaglie d’oro che per la festa di Sant’Ambrogio la città di Milano consegna a persone note, o quasi, nel campo della cultura. E quando il mio nome venne inserito, i votanti della Sinistra sferrarono un pandemonio che durò fino alle cinque del mattino. Per tutta la notte, ho saputo, fu come guardare una rissa dentro un pollaio. Le penne volavano, le creste e i bargigli sanguinavano, i coccodè assordavano, e lode al cielo se nessuno finì al Pronto Soccorso. Poi, il giorno dopo, tornarono strillando che il mio Ambrogino avrebbe inquinato il pluriculturalismo e contaminato la festa di Sant’Ambrogio. Che avrebbe dato alla cerimonia del premio un significato anti-islamico, che avrebbe offeso i mussulmani e i premiati della Sinistra. Quest’ultimi minacciarono addirittura di respingere le ambite medaglie d’oro e promisero di inscenare una fiera dimostrazione contro la donna perversa. Infine il leader del Partito di Rifondazione Comunista dichiarò: «Dare l’Ambrogino alla Fallaci è come dare il Premio Nobel della Pace a George W. Bush». Detto questo, onde rendere a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, devo chiarire qualcosa che certo dispiacerà ad alcuni o alla maggioranza di voi. Ecco qua. Io non sono un Conservatore. Non simpatizzo con la Destra più di quanto non simpatizzi con la Sinistra. Sebbene rifiuti ogni classificazione politica, mi considero una rivoluzionaria. Perché la Rivoluzione non significa necessariamente la Presa della Bastiglia o del Palais d’Hiver. E certamente per me non significa i capestri, le ghigliottine, i plotoni di esecuzione, il sangue nelle strade. Per me la Rivoluzione significa dire «No». Significa lottare per quel «No». Attraverso quel «No», cambiare le cose. E di sicuro io dico molti «No». Li ho sempre detti. Di sicuro vi sono molte cose che vorrei cambiare. Cioè non mantenere, non conservare. Una è l’uso e l’abuso della libertà non vista come Libertà ma come licenza, capriccio, vizio. Egoismo, arroganza, irresponsabilità. Un’altra è l’uso e l’abuso della democrazia non vista come il matrimonio giuridico dell’Uguaglianza e della Libertà ma come rozzo e demagogico egualitarismo, insensato diniego del merito, tirannia della maggioranza. (Di nuovo, Alexis de Tocqueville...). Un’altra ancora, la mancanza di autodisciplina, della disciplina senza la quale qualsiasi matrimonio dell’uguaglianza con la libertà si sfascia. Un’altra ancora, il cinico sfruttamento delle parole Fratellanza-Giustizia-Progresso. Un’altra ancora, la nescienza di onore e il tripudio di pusillanimità in cui viviamo ed educhiamo i nostri figli. Tutte miserie che caratterizzano la Destra quanto la Sinistra. Cari miei: se coi suoi spocchiosi tradimenti e le sue smargiassate alla squadrista e i suoi snobismi alla Muscadin e le sue borie alla Nouvel Riche la Sinistra ha disonorato e disonora le grandi battaglie che combatté nel Passato, con le sue nullità e le sue ambiguità e le sue incapacità la Destra non onora certo il ruolo che si vanta di avere. Ergo, i termini Destra e Sinistra sono per me due viete e antiquate espressioni alle quali ricorro solo per abitudine o convenienza verbale. E, come dico ne La Forza della Ragione, in entrambe vedo solo due squadre di calcio che si distinguono per il colore delle magliette indossate dai loro giocatori ma che in sostanza giocano lo stesso gioco. Il gioco di arraffare la palla del Potere. E non il Potere di cui v’è bisogno per governare: il Potere che serve sé stesso. Che esaurisce sé stesso in sé stesso.

Maestra di libertà. Oriana Fallaci e l'Islam: "Diventeremo l'Eurabia. Il nemico è in casa nostra e non vuole dialogare". Per gentile concessione dell'erede Edoardo Perazzi, continuiamo la pubblicazione del discorso che Oriana Fallaci pubblicò nel 2005, quando fu insignita del Annie Taylor Award, prestigioso riconoscimento statunitense. I temi che la Fallaci affronta sono quelli delle sue celebri opere, tutte edite da Rizzoli. Questo può apparir demagogico, semplicistico, e perfino superficiale: lo so. Ma se analizzate i fatti vedrete che la mia è pura e semplice verità. La verità del bambino che nella fiaba dei Grimm, quando i cortigiani lodano le vesti del re, grida con innocenza: Il re è nudo. Pensateci ragionando sull'attuale tragedia che ci opprime. Perbacco, nessuno può negare che l'invasione islamica dell'Europa sia stata assecondata e sia assecondata dalla Sinistra. E nessuno può negare che tale invasione non avrebbe mai raggiunto il culmine che ha raggiunto se la Destra non avesse fornito alla Sinistra la sua complicità, se la Destra non le avesse dato il imprimatur. Diciamolo una volta per sempre: la Destra non ha mai mosso un dito per impedire o almeno trattenere la crescita dell’invasione islamica. Un solo esempio? Come in molti altri paesi europei, in Italia è il leader della Destra ufficiale che imita la Sinistra nella sua impazienza di concedere il voto agli immigrati senza cittadinanza. E questo in barba al fatto che la nostra Costituzione conceda il voto ai cittadini e basta. Non agli stranieri, agli usurpatori, ai turisti col biglietto di andata senza ritorno. Di conseguenza, non posso essere associata né con la Destra né con la Sinistra. Non posso essere arruolata né dalla Destra né dalla Sinistra. Non posso essere strumentalizzata né della Destra né della Sinistra. (E guai a chi ci prova). E sono profondamente irritata con entrambe. Qualunque sia la loro locazione e nazionalità. Attualmente, per esempio, sono irritata con la Destra americana che spinge i leader europei ad accettare la Turchia come membro dell’Unione Europea. Esattamente ciò che la Sinistra europea vuole da sempre. Ma le vittime dell’invasione islamica, i cittadini europei, non vogliono la Turchia a casa loro. La gente come me non vuole la Turchia a casa sua. E Condoleezza Rice farebbe bene a smetterla di esercitare la sua Realpolitik a nostre spese. Condoleezza è una donna intelligente: nessuno ne dubita. Certo, più intelligente della maggioranza dei suoi colleghi maschi e femmine, sia qui in America che al di là dell’Atlantico. Ma sul paese che per secoli fu l’Impero Ottomano, sulla non-europea Turchia, sulla islamica Turchia, sa o finge di sapere assai poco. E sulla mostruosa calamità che rappresenterebbe l’entrata della Turchia nell’Unione Europea conosce o finge di conoscere ancora meno. Così dico: Ms. Rice, Mr. Bush, signori e signore della Destra americana, se credete tanto in un paese dove le donne hanno spontaneamente rimesso il velo e dove i Diritti Umani vengono quotidianamente ridicolizzati, prendetevelo voi. Chiedete al Congresso di annetterlo agli stati Uniti come Cinquantunesimo Stato e godetevelo voi. Poi concentratevi sull’Iran. Sulla sua lasciva nucleare, sul suo ottuso ex-sequestratore di ostaggi cioè sul suo presidente, e concentratevi sulla sua nazista promessa di cancellare Israele dalle carte geografiche. A rischio di sconfessare l’illimitato rispetto che gli americani vantano nei riguardi di tutte le religioni, devo anche chiarire ciò che segue. Come mai in un Paese dove l’85 per cento dei cittadini dicono di essere Cristiani, così pochi si ribellano all’assurda offensiva che sta avvenendo contro il Natale? Come mai così pochi si oppongono alla demagogia dei radicals che vorrebbero abolire le vacanze di Natale, gli alberi di Natale, le canzoni di Natale, e le stesse espressioni Merry Christmas e Happy Christmas, Buon Natale, eccetera?!? Come mai così pochi protestano quando quei radicals gioiscono come Talebani perché in nome dei laicismo un severo monumento a gloria dei Dieci Comandamenti viene rimosso da una piazza di Birmingham? E come mai anche qui pullulano le iniziative a favore della religione islamica? Come mai, per esempio, a Detroit (la Detroit ultra polacca e ultra cattolica le ordinanze municipali contro i rumori proibiscono il suono delle campane) la minoranza islamica ha ottenuto che i muezzin locali possano assordare il prossimo coi loro Allah-akbar dalle 6 del mattino alle 10 di sera? Come mai in un paese dove la Legge ordina di non esibire i simboli religioni nei luoghi pubblici, non consentirvi preghiere dell’una o dell’altra religione, aziende quali la Dell Computers e la Tyson Foods concedono ai propri dipendenti islamici i loro cortili nonché il tempo per recitare le cinque preghiere? E questo a dispetto del fatto che tali preghiere interrompono quindi inceppano le catene di montaggio? Come mai il nefando professor Ward Churchill non è stato licenziato dall’Università del Colorado per i suoi elogi a Bin Laden e all’11 Settembre, ma il conduttore della Washington radio Michael Graham è stato licenziato per aver detto che dietro il terrorismo islamico v’è la religione islamica? Ed ora lasciatemi concludere questa serata affrontando altri tre punti che considero cruciali. Punto numero uno. Sia a Destra che a Sinistra tutti si focalizzano sul terrorismo. Tutti. Perfino i radicali più radicali. (Cosa che non sorprende perché le condanne verbali del terrorismo sono il loro alibi. Il loro modo di pulire le loro coscienze non pulite). Ma nel terrorismo islamico non vedo l’arma principale della guerra che i figli di Allah ci hanno dichiarato. Nel terrorismo islamico vedo soltanto un aspetto, un volto di quella guerra. Il più visibile, sì. Il più sanguinoso e il più barbaro, ovvio. Eppure, paradossalmente, non il più pernicioso. Non il più catastrofico. Il più pernicioso e il più catastrofico è a parer mio quello religioso. Cioè quello dal quale tutti gli altri aspetti, tutti gli altri volti, derivano. Per incominciare, il volto dell’immigrazione. Cari amici: è l’immigrazione, non il terrorismo, il cavallo di Troia che ha penetrato l’Occidente e trasformato l’Europa in ciò che chiamo Eurabia. È l’immigrazione, non il terrorismo, l’arma su cui contano per conquistarci annientarci distruggerci. L’arma per cui da anni grido: «Troia brucia, Troia brucia». Un’immigrazione che in Europa-Eurabia supera di gran lunga l’allucinante sconfinamento dei messicani che col beneplacito della vostra Sinistra e l’imprimatur della vostra Destra invadono gli Stati Uniti. Soltanto nei venticinque paesi che formano l’Unione Europea, almeno venticinque milioni di musulmani. Cifra che non include i clandestini mai espulsi. A tutt’oggi, altri quindici milioni o più. E data l’irrefrenabile e irresistibile fertilità mussulmana, si calcola che quella cifra si raddoppierà nel 2016. Si triplicherà o quadruplicherà se la Turchia diventerà membro dell’Unione Europea. Non a caso Bernard Lewis profetizza che entro il 2100 tutta l’Europa sarà anche numericamente dominata dai musulmani. E Bassan Tibi, il rappresentante ufficiale del cosiddetto Islam Moderato in Germania, aggiunge: «Il problema non è stabilire se entro il 2100 la stragrande maggioranza o la totalità degli europei sarà mussulmana. In un modo o nell’altro, lo sarà. Il problema è stabilire se l’Islam destinato a dominare l’Europa sarà un Euro-Islam o l’Islam della Svaria». Il che spiega perché non credo nel Dialogo con l’Islam. Perché sostengo che tale dialogo è un monologo. Un soliloquio inventato per calcolo dalla Realpolitik e poi tenuto in vita dalla nostra ingenuità o dalla nostra inconfessata disperazione. Infatti su questo tema dissento profondamente dalla Chiesa Cattolica e da Papa Ratzinger. Più cerco di capire e meno capisco lo sgomentevole errore su cui la sua speranza si basa. Santo Padre: naturalmente anch’io vorrei un mondo dove tutti amano tutti e dove nessuno è nemico di nessuno. Ma il nemico c’è. Lo abbiamo qui, in casa nostra. E non ha nessuna intenzione di dialogare. Né con Lei né con noi. Di Oriana Fallaci.

Montanelli Fallaci, libro a 4 mani. Finì a “ti disprezzo” e “ti credevo migliore”, scrive Riccardo Galli su Blitz Quotidiano. Il titolo lo si sarebbe potuto trovare facilmente e avrebbe potuto, magari, suonare più o meno così: “L’impossibile libro a 4 mani”. E’, anzi era il progetto editoriale targato Rizzoli che poco meno di mezzo secolo fa avrebbe voluto dare i natali ad un libro scritto da due monumenti del giornalismo italiano: Indro Montanelli e Oriana Fallaci. Un progetto naufragato però ancor prima di reificarsi a causa delle personalità delle due “penne”. Personalità a dir poco ingombranti e, di certo, poco disponibili ad una posizione di non protagonista assoluto. Foss’anche nella stesura di un libro. Un progetto abortito e sconosciuto, almeno sino a che Paolo Di Paolo, raccogliendo materiale per un libro su Montanelli, non si è ritrovato tra le mani una lettera della Fallaci. Una lettera in cui la giornalista, da New York, scriveva alla moglie di Montanelli parlandole proprio del libro in questione: “Niente schemi rigidi, niente cattedre da una parte o dall’altra”. Da questo frammento è partita una ricerca che ha svelato la storia, o almeno parte di essa, del libro mai nato. Una storia che Di Paolo racconta sul Corriere della Sera. “Cinque anni prima – agosto 1971 – erano stati (Montanelli e la Fallaci ndr.) sul punto di scrivere un volume a quattro mani, ma il progetto naufragò. Questo libro mai nato rischiava di essere un capo lavoro: provate ad immaginare due penne simili – così sopra la media di chiunque scriva oggi, così brillanti, così feroci e libere – nello stesso spazio editoriale”. “’Niente schemi rigidi, niente cattedre da una parte o dall’altra’ precisa la Fallaci scrivendo alla moglie di Indro, Colette Rosselli, il 7 agosto del ’71,. Mentre lavoravo ad un libro su Montanelli – racconta Di Paolo sul Corriere – ho ritrovato questa curiosa lettera: l’Oriana racconta a Colette di aver tardato ad iniziare il lavoro per una serie di ragioni – una febbre tropicale presa durante un servizio in Asia, la malattia della madre e dello zio Bruno, ma anche una ‘comprensibile paura, una comprensibile timidezza che un po’ per volta mi aveva invaso’”. Da questa traccia si possono quasi immaginare i due, Montanelli e la Fallaci, uno al di qua e una al di là dell’Atlantico, da New York dove viveva, scambiarsi appassionate lettere. Internet, e con lui le e-mail, erano ancora lontani da venire e, per comunicare, i due dovevano per forza di cose ricorrere all’unico sistema allora efficiente: carta e penna. E allora lettere. Lettere in cui la Fallaci confida un pizzico di timore reverenziale alla moglie di quello che comunque, complici i 20 anni di differenza, considera in qualche modo un maestro. E lettere in cui il “maestro” manifesta comunque l’ammirazione per quella che ai suoi occhi è una “ragazzina”, seppur piena di talento. Lettere in cui dalla timidezza si passa alle idee e, rapidamente, allo scontro e alla fine ai veri e propri insulti. Una parabola in cui si possono riconoscere i caratteri dei due che, idee politiche a parte, hanno effettivamente contribuito a fare la storia del giornalismo italiano. La rabbia e l’orgoglio che, prima di divenire il titolo del libro probabilmente più celebre della Fallaci, erano parte integrante e caratterizzante della giornalista. E poi l’indisponibilità ad accettare lezioni da una “ragazzina” e le differenti visioni del mondo e, soprattutto, della Resistenza che Montanelli e che la Fallaci hanno e che saranno alla base della rottura tra i due. Dall’idea di un lavoro fatto insieme infatti a questo si arriva: ad una rottura praticamente definitiva tra i due. Anche se, entrambi, non smetteranno di riconoscere il valore dell’altro. “Ti disprezzo”, scriverà Montanelli. “Ti credevo migliore” le risponderà la Fallaci. Epitaffio di una collaborazione che avrebbe potuto essere magnifica ma che non poteva in realtà essere.

E poi c'è quello che nessuno ha mai detto. L'Oriana Fallaci che visse la storia di Gesù in diretta. "Stampo da mezzo secolo L'Evangelo di Maria Valtorta, 10 volumi. Contiene dettagli inediti che solo una testimone oculare può aver visto", scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. Immaginate un'Oriana Fallaci al fianco di Gesù, pronta a osservare e a riferire tutto ciò che vede, con una dovizia di particolari da lasciare attoniti; una cronista dalla penna insuperabile, molto più attenta di Marco, Matteo, Luca e Giovanni, i quattro evangelisti che narrarono la vita del Nazareno in modo succinto o riferendo episodi dei quali non furono testimoni diretti. Quella donna è esistita. Si chiamava Maria Valtorta. La cosa incredibile è che nacque a Caserta il 14 marzo 1897 e morì a Viareggio il 12 ottobre 1961. Ciononostante ha lasciato 122 quaderni di scuola - in tutto 13.193 pagine - compilati in uno stato di ascesi mistica fra il 1943 e il 1947, nei quali descrive per filo e per segno l'infanzia, la predicazione, i miracoli, la passione, la morte, la resurrezione e l'ascensione al cielo del Salvatore, citando luoghi, personaggi e dialoghi che nei Vangeli non compaiono. Ho potuto vedere alcuni di questi quaderni: la grafia, sgorgata da sette penne stilografiche tuttora conservate, è nitida, regolare, senza ombra di correzioni o tremori. Eppure la Valtorta era paraplegica, rimase inchiodata nel letto per 27 anni, fino al decesso, e come scrittoio doveva usare le proprie ginocchia arcuate, che infatti al momento di chiuderla nella bara erano ancora piegate in quella posa innaturale. Emilio Pisani, 79 anni, laureato in giurisprudenza, è da sempre il curatore e l'editore unico dell'opera monumentale ricavata da questi quaderni, L'Evangelo come mi è stato rivelato. Sono 10 volumi, per un totale di 5.000 pagine. Oltre 10 milioni di caratteri. Ciò significa che il racconto valtortiano è 25 volte più lungo dei quattro Vangeli canonici. «Quante copie sono in circolazione? Non lo so, c'è chi dice milioni», si sottrae pudico lo stampatore. Una cosa è certa: dal 1956 a oggi è stato tradotto persino in arabo, cinese, coreano, giapponese, russo, lituano, ucraino, croato, indonesiano, vietnamita, malayalam, tamil, rwandese e swahili. Oltre una trentina di lingue. Pisani, fondatore del Cev, il Centro editoriale valtortiano, va considerato un editore unico anche per il fatto che nessun altro suo collega al mondo ha in catalogo un solo autore. Né mi era mai capitato d'incontrare un editore che arde nel caminetto di casa i manoscritti inediti di questo suo autore. In gioventù Maria Valtorta perse il padre molto presto e così si risolse a scrivere un romanzo autobiografico, Il cuore di una donna, dal quale sperava di ricavare qualche soldo per la famiglia. In realtà non volle mai pubblicarlo e ordinò a Marta Diciotti, la governante-infermiera che la assistette dal 1935 sino alla fine, di distruggerlo. La donna non ebbe però il coraggio di farlo. «Nel 2001, prima di morire, la Diciotti consegnò il testo a me e a mia moglie», rievoca Pisani. «Lo aprimmo soltanto 10 anni più tardi. Erano pagine fittissime. Senza leggere neppure una riga , ci parve giusto bruciarle. Le ceneri le spargemmo qui fuori, nell'aiuola delle rose, che da allora fioriscono ancora più rigogliose». La villetta dei Pisani è nel giardino in cui ha sede la casa editrice, a Isola del Liri. Dal 2012 è più vuota: Claudia Vecchiarelli, insegnante di lettere e traduttrice che aveva aiutato il marito a diffondere il verbo della Valtorta, è morta di tumore. Il suo Emilio, un uomo mite dagli occhi limpidi come l'acqua delle cascate che si ammirano nel paesino della provincia di Frosinone, le ha dedicato un libro, Lettera a Claudia, in cui ripercorre la straordinaria avventura capitata a entrambi. Insieme hanno dato vita alla Fondazione Maria Valtorta Cev onlus, che amministra l'eredità materiale e spirituale della veggente e che ha acquistato dai Servi di Maria la sua casa di Viareggio, ora trasformata in museo. Per testamento sono finiti a loro tutti i documenti autografi della «evangelista», inclusi i famosi quaderni, oggi custoditi a Isola del Liri. Proprio in questi giorni gli italiani Marco Ruopoli e Matteo Ferretti e il mauritano Mor Amar, della cooperativa Sophia di Roma, hanno ultimato di digitalizzarli in alta definizione, per cui presto saranno consultabili in Pdf. Dopodiché gli originali finiranno in un caveau climatizzato, isolati dalla luce e dalla polvere.

Com'è diventato l'editore di Maria Valtorta?

«Cominciai come correttore di bozze con mio padre Michele, che negli anni Venti aveva aperto insieme al cognato Arturo Macioce una tipografia specializzata nella stampa di vite dei santi e trattati di teologia per il Vaticano e gli istituti religiosi. Una copia dell' Evangelo, dattilografata con la carta carbone dal direttore spirituale della Valtorta, il servita padre Romualdo Migliorini, fu data in lettura a Camillo Corsanego, notaio dei conclavi e decano degli avvocati concistoriali per le cause dei santi, il quale, benché sposato e padre di 6 figli, poteva fregiarsi del titolo di monsignore. Un'altra copia andò all'arcivescovo Alfonso Carinci, che era stato insegnante del futuro Pio XII all'Almo Collegio Capranica. Un'altra ancora al famoso endocrinologo Nicola Pende, che rimase impressionato dalla “perizia con cui la Valtorta descrive, nella scena dell'agonia di Gesù sulla croce, una fenomenologia che solo pochi medici consumati saprebbero esporre”. Quando i Servi di Maria chiesero al Sant'Uffizio il permesso di pubblicare il testo, la risposta fu negativa. Al che mio padre, che era stato convocato a Roma per stamparlo, si assunse l'onere di farlo come editore in proprio e nel 1952 firmò il primo contratto di edizione con la Valtorta».

Lei l'ha conosciuta?

«Certo. Andai a trovarla a Viareggio, dove il Venerdì santo del 1943 ebbe la prima rivelazione e il primo dettato».

Fu una visione? O udì una voce?

«Penso a un fenomeno interiore. Diceva di vedere Gesù e Maria accanto a sé e di essere stata fisicamente presente agli episodi narrati nei Vangeli. Leggendo la sua Autobiografia, mi ero convinto che fosse una grande donna. Giaceva nel letto e ripeteva spesso: “Che sole c'è qui!”, anche se fuori pioveva. Era in uno stato di isolamento psichico, come se avesse offerto il suo intelletto a Dio. Non le interessava comunicare con il resto dell'umanità. Quando nel 1956 ebbe fra le mani il primo volume del suo Evangelo che avevamo appena stampato, lo guardò distrattamente e lo appoggiò sulla coperta, come se non le appartenesse».

Che cosa sa della mistica?

«Era la figlia unica di Giuseppe Valtorta, mantovano, ufficiale di cavalleria, e di Iside Fioravanti, cremonese, docente di francese. A 4 anni, nell'asilo delle orsoline a Milano, le sue coetanee erano spaventate da un Cristo deposto dalla croce, raffigurato con crudo verismo nella cappella dell'istituto. Lei, invece, avrebbe voluto aprire l'urna in cui era deposto per mettergli nella mano trafitta dal chiodo il confetto che la nonna le dava ogni mattina accompagnandola a scuola. Studiò nel collegio Bianconi di Monza e nel 1917 entrò nel corpo delle infermiere volontarie che a Firenze curavano i feriti della Grande guerra. Si fidanzò due volte e per due volte sua madre, una donna fredda, dispotica, terribile, le mandò a monte il matrimonio. Nel 1920 fu aggredita per strada da un giovane facinoroso, che le diede una mazzata sui reni gridando: “Abbasso i signori e i militari!”. A causa dell'aggressione, nel 1934 rimase paralizzata dalla cintola in giù».

Ma che ha di speciale L'Evangelo ?

«Introduce personaggi e racconti che nei Vangeli sinottici non appaiono. Giovanni dice solo che Giuda era un ladro. Nell' Evangelo si spiega che rubò del denaro a Giovanna di Cusa, moglie di un intendente di Erode. Lo stesso Giuda si accorge che il Maestro piange dopo aver resuscitato il figlio della vedova di Nain, al quale la Valtorta dà per la prima volta un nome, Daniele. Interrogato dal discepolo traditore sul motivo di quelle lacrime, Gesù risponde: “Penso a mia madre”. L' Evangelo presenta figure sconosciute, come Giovanni di Endor, ex ergastolano, e Sintica, schiava greca assai colta, convertiti al cristianesimo. Per una delazione di Giuda al sinedrio, vengono esiliati ad Antiochia, da dove inviano lettere al Nazareno in cui descrivono la città della Siria con immagini e toponimi che hanno sbalordito lo studioso francese Jean-François Lavère e il mineralogista Vittorio Tredici. Quest'ultimo era di casa in Palestina e annotò come la Valtorta superasse “la normale cognizione geografica o panoramica” facendola diventare “addirittura topografica e più ancora geologica”».

L'autrice potrebbe aver attinto questi particolari in qualche biblioteca.

«E quale, considerato che non era in grado di muoversi? I libri che teneva in casa li ho io e nessuno di essi tratta della città di Seleucia Pieria, o dei monti Casio e Sulpio, o dei colonnati di Erode. Ma la cosa più strabiliante è che la Valtorta riporta in modo minuzioso la pianta e persino il colore rosso delle pareti di un palazzo che Lazzaro di Betania, resuscitato da Gesù a quattro giorni dalla morte, possedeva sulla collina di Sion. Soltanto nel 1983 un'équipe di archeologi diretta dal professor Nahman Avigad della Hebrew University di Gerusalemme ritrovò i resti della dimora, perfettamente corrispondenti alla descrizione fattane dalla mistica 40 anni prima».

Mi sfugge il senso di tanta meticolosaggine narrativa.

«Ma non sfugge a Gesù, che il 25 gennaio 1944 impartì alla Valtorta - è lei a riportarlo - questo comando: “Ricorda di essere scrupolosa al sommo nel ripetere quanto vedi. Anche una inezia ha un valore e non è tua, ma mia. Più sarai attenta ed esatta e più sarà numeroso il numero di coloro che vengono a Me”».

L'Osservatore Romano il 6 gennaio 1960 bollò L'Evangelo come «una vita di Gesù malamente romanzata».

«Inevitabile. Pochi giorni prima, il 16 dicembre 1959, era stato condannato dal Sant'Uffizio. Fu l'ultima opera messa nell' Indice dei libri proibiti, prima che Paolo VI lo abolisse: per non liberare il carcerato, demolirono il carcere. Il tutto a causa di qualche passaggio giudicato scabroso, come il racconto di Aglae, un'ex prostituta che confida a Maria di Nazaret il modo in cui un soldato romano la adescò dopo averla vista nuda».

Però nel 1985 l'allora cardinale Joseph Ratzinger ribadì la condanna.

«Con un distinguo: spiegò che la pubblicazione fu a suo tempo vietata “al fine di neutralizzare i danni che può arrecare ai fedeli più sprovveduti”. Quindi ai fedeli più avveduti non può arrecare danno, non essendovi in essa nulla contro la fede. Il cardinale Dionigi Tettamanzi, quand'era segretario della Cei, avrebbe preteso che inserissi nel colophon una postilla per avvertire i lettori che l'opera non è di origine soprannaturale. Ma chi sono io per arrogarmi questa autorità?».

È vero che Pio XII stimava la Valtorta?

«È vero che lesse l' Evangelo in dattiloscritto e che disse a padre Migliorini: “Pubblicatelo così com'è. Chi legge capirà”. Di sicuro lo capì San Pio da Pietrelcina. La bolognese Rosi Giordani nel 1989 mi scrisse che Elisa Lucchi di Forlì chiese al frate in confessione: “Padre, ho udito parlare dei libri di Maria Valtorta. Mi consigliate di leggerli?”. La risposta fu: “Non te lo consiglio, ma te lo ordino!”».

Ha notato che i veggenti, così numerosi nei secoli scorsi, sono spariti?

«Non sono mai stato né a Lourdes, né a Fatima, né a Medjugorje, pur rispettando chi ci va. Non aggiungerebbero nulla alla mia fede. La Valtorta non ambì mai a farsi conoscere. Il suo Evangelo doveva camminare nel mondo senza essere del mondo; pretese persino che la prima edizione uscisse in forma anonima. Una sola volta lo reclamizzai con un'inserzione a pagamento su Tuttolibri della Stampa: ebbene, nelle settimane seguenti ricevetti un unico ordine, evento mai capitato in precedenza. Come se l'opera rifiutasse la pubblicità».

Sorprendente.

«Le dico di più. Nel 1973 la salma della Valtorta fu esumata a Viareggio per essere traslata a Firenze, nella Basilica della Santissima Annunziata, dove vi è il celebre affresco della Madonna, a lei molto caro, che secondo Pietro Bargellini sarebbe stato completato da un angelo. Il servita Corrado Berti si aspettava un evento straordinario, per esempio il ritrovamento del corpo incorrotto. Invece affiorarono poche ossa, che fecero l'estremo viaggio con me alla guida dell'auto, mia moglie accanto e la governante Marta sul sedile posteriore».

Perché me lo racconta?

«Perché sul letto di morte la Valtorta aveva la mano sinistra già bluastra, mentre la destra, quella con cui aveva scritto L'Evangelo, era ancora rosea, come se fosse viva: nel 1961 fu considerato un segno del cielo. E la vuol sapere una cosa? Le uniche ossa che mancavano quando la disseppellimmo erano proprio quelle della mano destra. Dissolte. Come se la mistica volesse dirci per l'ultima volta: “Non pensate a me. Pensate a Lui”».

INCOSCIENTI DA SALVARE? COME SI FINANZIA IL TERRORISMO ISLAMICO.

Papa Francesco condanna la strage di Charlie Hebdo, ma "non si può insultare la fede", scrive “Libero Quotidiano”. "È una aberrazione uccidere in nome di Dio" ma "non si può insultare la fede degli altri". Con queste parole, pronunciate a bordo dell’aereo diretto nelle Filippine e riferite da Radio Vaticana, Papa Francesco interviene sull’azione dei terroristi islamici a Parigi contro Charlie Hebdo. "Non si può prendere in giro la fede", avverte il Papa.  "C’è un limite, quello della dignità di ogni religione". Per Bergoglio, sia la libertà di espressione che quello di una fede a non essere ridicolizzata "sono due diritti umani fondamentali". Alla domanda di un cronista francese che gli chiedeva "fino a che punto si può andare con la libertà di espressione", il Pontefice ha chiarito: sì alla libera espressione "ma se il mio amico dice una parolaccia sulla mia mamma, si aspetti un pugno". Questo il limite che secondo il Papa regola la libertà religiosa: "Non si giocattolizza la religione degli altri", dice Bergoglio. Francesco ha ricordato che la "libertà di espressione è un diritto, ma anche un dovere". Neppure, dice il Papa, "si offende la religione", ma in questo caso "non si reagisce con violenza". Poi ha spiegato, "senza mancare di rispetto a nessuno" che "dietro ogni attentato suicida c'è uno squilibrio, non so se mentale, ma certamente umano". In una nota diramata subito dopo la strage Bergoglio aveva condannato "ogni forma di violenza, fisica e morale, che distrugge la vita umana, viola la dignità delle persone, mina radicalmente il bene fondamentale della convivenza pacifica fra le persone e i popoli, nonostante le differenze di nazionalità, di religione e di cultura". Il Papa aveva precisato che "qualunque possa esserne la motivazione, la violenza omicida è abominevole, non è mai giustificabile e la vita e la dignità di tutti vanno garantire e tutelate con decisione. Ogni istigazione all’odio va rifiutata, il rispetto dell’altro va coltivato". E ancora: tre giorni fa Bergoglio, ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, aveva detto che "la tragica strage avvenuta a Parigi" è una dimostrazione che "gli altri non sono più percepiti come esseri di pari dignità, come fratelli e sorelle in umanità, ma vengono visti come oggetti: l’essere umano da libero diventa schiavo, ora delle mode, ora del potere, ora del denaro e perfino di forme fuorviate di religione". Rispetto alle minacce dirette dai terroristi fondamentalisti di matrice islamica contro il  Vaticano e il pontefice, Papa Francesco assicura di affrontare questo pericolo "con una buona dose di incoscienza". Il Papa - come riferisce ancora Radio Vaticana - afferma semmai di "temere soprattutto per l’incolumità della gente", con migliaia di fedeli che tradizionalmente affollano le sue udienze generali in piazza San Pietro e gli ’Angelus’ dal Palazzo Apostolico e sottolinea che "il miglior modo per rispondere alla violenza è la mitezza".

Ferrara su Papa Francesco: "Le sue parole su Charlie non sono una gaffe. Sono molto peggio", scrive “Libero Quotidiano”. "Se dici una parolaccia su mia mamma ti devi aspettare un pugno", ha detto ieri Papa Francesco a proposito della libertà di espressione e della blasfemia. "È aberrante uccidere in nome di Dio", ha detto il gesuita Bergoglio, ma è sbagliato anche "insultare le religioni". Parole molto forti pronunciate mentre era in aereo in volo verso le Filippine che hanno in qualche modo hanno stupito cattolici e non. E proprio a quelle parole Giuliano Ferrara dedica oggi il suo editoriale sul Foglio sottolineando che "il fantasma di Voltaire e della sua irrisione delle religioni, dai maomettani ai papisti agli ebrei, il fantasma di un Charlie del Settecento, è ancora troppo vivo, nonostante si faccia finta di averne cancellato anche il ricordo con il Concilio ecumenico vaticano II". "Perché il Papa ha parlato in modo da essere identificabile come il tutore dell' autodifesa della dignità delle religioni invece che come il custode della sacralità della vita umana e del diritto alla libertà d' espressione?", si chiede il direttore del Foglio. La risposta arriva un paragrafo più sotto: "Non credo sia una gaffe, modalità a parte, ché il magistero posta aerea è effettivamente un po' troppo colloquiale per valere erga omnes. Non ha perso la brocca, il Papa, il che sarebbe umano, possibile, riparabile. C' è dell'altro. C'è la convinzione, comune al Papa e a molta cultura irenista occidentale, che si debba convivere con l'orrore, che il distacco concettuale e spirituale dell'islam dalle pratiche violente del jihad è una conquista che spetta eventualmente all'islam di realizzare, che non esiste alternativa alla sottomissione o all'abbandono al dialogo interreligioso". Del resto, spiega Ferrara nell'articolo firmato con l'elefantino rosso, "per quanto si voglia essere Papa del secolo e nel secolo, per quanti omaggi si facciano, anche per i creduloni, alla libertà piena di coscienza come fondamento della fede, della possibilità della fede, alla fine quel che conta è non perdere il contatto con l'universo islamico, e la chiesa sa bene, ben più e meglio di altri, che il nemico violento non è il terrorismo ma l'idea coranica radicalizzata di cui il terrorismo è il frutto". "Parole e gesti del Papa, le risate risuonate nella carlinga del suo aereo, la metafora del pugno risanatore che colpisce e ripara l'offesa alla dignità, la declamazione tra pause teatrali del concetto "è normale, è normale", tutto questo non è gaffe", conclude Ferrara. "E' di più e peggio". "La piazza araba militante, gli imam che predicano nelle moschee e riluttano a un rigorosa condanna della decimazione con fucile a pompa di redazioni di giornale e negozi ebraici, da ieri si sentono meno isolati, meglio protetti dalla convergenza con il Papa di Roma".

Giuliano Ferrara: "#JeSuisKouachi e #JeSuisCoulibaly, vi spiego perché provo pena e ammirazione per gli stragisti di Parigi", scrive “Libero Quotidiano”. Controcorrente. Sempre. Sin dal principio della questione, che ne è anche il presupposto, ossia quell'idea di essere in "guerra santa" contro l'islam gridata negli studi di Servizio Pubblico, idea espressa pochi minuti dopo l'attacco al Charlie Hebdo in un videoeditoriale sul sito del Il Foglio. "Guerra santa", appunto, il presupposto di Giuliano Ferrara, un concetto rifiutato con sdegno da gran parte dell'auditorio, da chi opera dei distinguo forse necessari, ma non per l'Elefantino. E sul tema, Ferrara, ci torna nel suo editoriale su Il Foglio di lunedì, pur prendendolo da una prospettiva diametralmente opposta che emerge sin dal - controverso - titolo: "#JeSuisKouachi e #JeSuisCoulibaly: ecco perché". Il direttore parafrasa lo slogan #JeSuisCharlie e lo dedica ai tre protagonisti dell'orrore di Parigi, ai tre terroristi islamici. Ferrara spiega nell'attacco: "Una pena profonda e un'ammirazione per il loro fanatico coraggio mi legano ai nemici, ai fratelli Said e Sherif Kouachi e Amely Coulibaly. In un certo senso di origine cristiana, #JeSuisKouachi e #JeSuisCoulibaly". L'Elefantino prosegue: "Hanno assassinato persone più o meno come me, libertini della mia razza culturale e civile, gente che disegnava e rideva e sbeffeggiava, con una tinta blasfema che non ho ma che comprendo perfettamente nella dismisura anarchica e fragile e folle del loro essere artisti in una società secolarizzata e nihilista". Il direttore traccia nitidamente i contorni del suo sentimento, della "pena" e dell'"ammirazione", e sottolinea: "Mi vengono non da quella abbondanza di misericordia e di accoglienza che è diventata una pappa senza intimo rigore logico, senza giustizia linguistica, senza verità che non sia sentimentale. Non dal cuore ma dalla testa. Perché non è vero che tutto questo, come ha infelicemente detto Francois Hollande e come ripete lo stolto collettivo sul teatro mondiale della correttezza politica, non ha nulla a che fare con l'islam". I dettagli multiculturali - Ferrara nel suo editoriale si addentra nel "diritto come sharia, come legge divina", parla di Egitto, di Torquato Tasso dell'eroe cristiano Tancredi. Un lungo presupposto per rimarcare come "i dettagli meno multiculturali della storia tragica di Parigi sono come scomparsi". E secondo lui, senza comprendere a fondo quei "dettagli", non si può comprendere a fondo l'intera vicenda, che come Ferrara ha ripetuto negli ultimi giorni non è "terrorismo", bensì "guerra santa". Tornando sui terroristi, l'Elefantino ricorda come "hanno scelto di eseguire un ordine divino che impone di castigare la blasfemia come è accaduto a Charlie Hebdo". E ancora: "Hanno scelto la morte degli altri, e la loro, in un rito culturale di conversione e arruolamento, di esecuzione della legge coranica, al quale hanno saputo corrispondere fino alla fine nella follia della testimonianza di gioventù, uscendo allo scoperto e sparando all'impazzata davanti alla falange dei gendarmi di cuoio, oppure pregando alle cinque, ora del blitz, e correndo poi verso l'esecuzione nel negozio kosher". I dettagli, appunto. Ferrara insiste ancora sui dettagli, e nella conclusione dell'articolo di fondo ribadisce: "Sono dettagli importanti, sono il punto di vista che conta, più della rapida capacità di allineamento menzognero al mainstream politico islamo conformista di un capo Hezbollah o di un presidente iraniano che si dissociano a sorpresa". Il punto, per il direttore, è che il pensiero buonista e dominante rischia di far perdere il fuoco dell'obiettivo. Così Ferrara sottolinea, riferendosi ai terroristi: "Se li degradate a lupi, degradate voi stessi. Disconoscete il nemico. Non sarete mai capaci di combatterlo né di amarlo. Al posto del vangelo, libro eccelso, primitivo e terribile e selvaggio, metterete il prontuario della cultura del piagnisteo, una specie di ideologia che fa dello scontro di religione e di civiltà in atto una storiaccia di cronaca nera e di impazzimento terrorista". Ma per Ferrara, bene ribadirlo ancora una volta, è tutt'altro: è "guerra santa".

Mario Giordano: Basta, ecco perché non posso più dire "Je suis Charlie Hebdo", scrive su “Libero Quotidiano”. Scusate, ma devo dire una cosa un po’ difficile, forse persino un po’ dolorosa. Anche per me stesso. Però devo dirvela: è da stamattina che non mi sento più tanto Charlie. Anzi, proprio per nulla. Je ne suis pas Charlie. Je ne suis plus Charlie. Ne ho avuto la netta sensazione sfogliando il nuovo numero del settimanale satirico francese appena arrivato in edicola. Guardavo le pagine, diventate loro malgrado il simbolo della nostra civiltà offesa, e pensavo: ma possono essere davvero il simbolo della nostra civiltà offesa? Abbiate pazienza, ma io in quelle vignette non mi riconosco. Nemmeno un po’. Anzi, al contrario: penso che qui dentro, dentro questi fogli della sinistra sessantottarda, dentro questa cultura anarchica e distruttiva, dentro questi schizzi blasfemi che fanno a pezzi i nostri valori, dentro gli sberleffi che mettono alla berlina i nostri credi, ci sia il motivo vero della debolezza occidentale. Il motivo per cui siamo in balia di un nemico così terribile come quello islamico. Sia chiaro: da questo nemico terribile Charlie Hebdo va difeso con ogni mezzo perché dobbiamo salvare la libertà di espressione. Ed è stato giusto, per una settimana, essere diventati tutti Charlie, con quello slogan che ha riempito le piazze, Je suis Charlie, Nous sommes Charlie... Ma un conto è difendere la libertà di esprimersi, un conto è difendere ciò che viene espresso: la differenza, ne converrete, non è nemmeno così sottile. Siamo pronti alla battaglia per garantire la libertà di Charlie Hebdo di disegnare e scrivere ciò che vuole. Ma allo stesso modo dobbiamo essere liberi di dire che quello che Charlie Hebdo disegna e scrive non ci piace. Nemmeno un po’. Perché Charlie Hebdo incarna in sé il peggio del nichilismo post-Sessantotto, il peggio del gauchisme radical-nullista, il peggio della rivoluzione permanente ed effettiva. Si sono messi contro gli islamici perché amano da sempre mettersi contro tutto: contro gli ebrei, contro i cattolici, contro la Patria, contro l’esercito, contro le istituzioni, contro la famiglia, contro l’ordine, contro la sicurezza, contro la polizia, contro il commercio, contro le imprese, contro l’idea stessa di nazione e contro ogni Dio. Amano, cioè, mettersi contro tutto quello che costituisce il fondamento stesso di questa società occidentale, che pure oggi li difende a spada tratta. Ma da cui loro - ne siamo sicuri - continuano a sentirsi estranei. Anzi: avversari. Perché, diciamocela tutta, questa società occidentale che li difende a spada tratta a loro fa un po’ schifo. E allora Je suis Charlie, sicuro, fin che devo difendere il diritto di questi colleghi a dire la loro opinione. Ma Je ne suis plus Charlie se devono identificarmi con loro, che bestemmiano Dio, insultano le tradizioni, e usano il sacrosanto diritto di opinione per minare la società che glielo garantisce. Dunque, da oggi, visto che il settimanale è di nuovo uscito, scusate ma Je ne suis plus Charlie. Je ne suis plus Charlie perché non voglio e non posso accettare che i simboli della nostra società attaccata dal terrore islamico diventino proprio coloro che la nostra società la odiano. Coloro che la vorrebbero abbattere. E che la mettono in pericolo ogni giorno attaccandola nei suoi valori fondamentali. Se, in questa battaglia, dobbiamo metterci in fila dietro una bandiera, mi piacerebbe che essa fosse la bandiera della libertà dell’Occidente. Non un foglio che l’Occidente, al contrario, lo disprezza. Invece si sta compiendo proprio questo. Un po’ per interesse (operazione Hollande), un po’ per soggezione culturale (la predominanza della sinistra), alla fine la difesa dell’Europa colpita al cuore si è trasformata nella difesa tout court dei contenuti (assai discutibili) di una rivista. Fateci caso: anche se nella carneficina di Parigi sono morti agenti, ebrei, custodi di palazzo, alla fine tutto si riduce al simbolo di Charlie Hebdo. Al suo messaggio irresponsabile e irriverente. Questo è l’errore fondamentale. Perché non dobbiamo dimenticare che nella guerra contro il fondamentalismo islamico la loro forza è la nostra debolezza. Se loro osano alzare le armi contro di noi è perché noi siamo in ginocchio, se credono di poterci sottomettere ai loro valori è perché noi abbiamo rinunciato ai nostri, se ritengono di poterci imporre le loro tradizioni è perché noi abbiamo rinunciato alle nostre. E di questa rinuncia il settimanale francese è la dimostrazione più lampante. Perciò, dopo essere stato per una settimana Cabu, Charb, Wolinski, Tignous, da oggi mi sento in dovere di dirvi: maintenenat non plus. Ora non più. Per difenderci davvero non possiamo essere Charlie.

Dopo Charlie Hebdo: perché bisogna fermare la censura dei buoni. Si comincia a ritenere che chi critica vignette blasfeme sia contro la libertà. E chi ha una posizione culturale ben definita ostacoli l'integrazione, scrive Marco Cobianchi su “Panorama”. Temo che dalla grandiosa marcia parigina nasca un nuovo tipo di censura. La censura dei buoni. La censura di quelli che vogliono abbassare i toni; quelli che se dici che siamo di fronte ad una guerra e non a dei terroristi, fomenti l’odio; quelli che sanno ciò che è opportuno dire e cosa no e se non collabori, allora sei un guerrafondaio, un estremista, un fondamentalista anche tu. Oppure un cretino. La censura dei buoni è funzionale al disegno del potere: nessun leader europeo (Hollande è scusato) ha osato esprimere un’opinione diversa dal “sono terroristi, la religione non c’entra” e così i assassini diventano “sedicenti islamici” e a chi fa notare che mentre macellavano innocenti gridavano “Allah Akbar” viene tacciato di perseguire lo scontro di civiltà. Ecco perché i terroristi sono diventati "sedicenti islamici". Davanti a chi ha una posizione diversa i buoni sono pronti a sventolare il ditino inquisitore spiegando che così non si fa il bene dell’umanità che consiste nell’integrazione e nel dialogo. E siccome l’ostacolo maggiore al dialogo sarebbe avere una posizione culturale, religiosa, sociale ben definita, allora la colpa della mancata integrazione è tua. L’unica posizione culturale accettata diventa così quella laica che, indifferente a tutto, non fomenta l’odio. Perciò bisogna, adesso più di prima, stare attenti a non cadere nell’eccesso contrario facendo passare l’idea che Charlie Hebdo è un giornale di anarchici scapigliati e va difeso mentre chi ritiene le sue vignette volgari, blasfeme e ripugnanti sta armando le mani degli assassini. Bisogna stare attenti a non accusare chi esercita la propria libertà di critica di intelligenza con il nemico. Bisogna vigilare, perché questo tipo di censura dei buoni è in grado di devastare lo spazio pubblico togliendo libertà a chi non è allineato con il pensiero mainstream. Quello secondo il quale solo chi non crede in niente accetta tutto ed è pronto a dialogare con chiunque. Per dirsi cosa, poi, non si sa. La censura dei buoni è quella che pensa che la pace nel mondo, che si raggiunge con l’integrazione, è un fine talmente nobile che della libertà della singola persona si può anche fare a meno.

Solidarietà già finita: "Charlie se l'è cercata". E Greta e Vanessa no? Buonismo addio, per i vignettisti trucidati spuntano i distinguo. Per le nostre cooperanti amiche dei nostri nemici, invece..., scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Dire che non siamo sorpresi ci farebbe apparire presuntuosi, nonostante avessimo segnalato, già dal giorno della strage di Parigi, il diffondersi dell'opinione che i giornalisti di Charlie Hebdo se lo sono cercata. Certo, nel mondo dell'islam radicale hanno esultato perché chi ha offeso Maometto, secondo il loro delirante pensiero, va punito con la morte. Ma scoprire che, anche in Europa, ci sia più d'uno che definisca l'orrendo massacro solo una brutale conseguenza delle continue provocazioni del settimanale satirico, ci fa inorridire. Perché questo significa abbracciare le tesi dei fondamentalisti e diventare, di fatto, loro fiancheggiatori. Esageriamo? Tutt'altro. È come se si giustificassero le stragi delle foibe, perpetrate dai partigiani di Tito contro la popolazione italiana di Venezia Giulia e Dalmazia alla fine della seconda guerra mondiale: il regime fascista è stato brutale durante l'occupazione dell'ex Jugoslavia, quindi è naturale e giusto che tutti gli italiani, indistintamente, siano sterminati. Una tesi riprovevole, anche se tanto cara, fino a pochi anni fa, ai comunisti nostrani. Ma Charlie Hebdo non è stato neppure un regime brutale. Ha esagerato nella sua satira anti religiosa? Secondo la legge, no. E, fino a prova contraria, nei Paesi del Vecchio Continente sono in vigore norme in sintonia con la democrazia moderna e non con la sharia. Se la maggioranza dei cittadini deciderà in futuro di modificare le leggi sulla libertà d'espressione, allora giornali e tv si adegueranno. Ma guai a farlo per compiacere qualcuno o nel nome del «politicamente corretto». Se uno crede che la satira superi i limiti della decenza, può sempre rivolgersi a un tribunale e chiedere giustizia. Nei Paesi civili funziona così, almeno fino a quando anche in Europa, grazie alla politica delle porte aperte, non nasceranno le prime teocrazie. È comprensibile che Papa Francesco ritenga inaccettabile che la fede sia ridicolizzata, lui è un leader religioso. Meno accettabile è che lo sostengano esponenti laici, garanti della libertà d'espressione o, addirittura, fondatori di giornali satirici, come Henri Roussel, uno dei padri di Charlie Hebdo , che ha criticato il direttore assassinato per le sue scelte editoriali. La blasfemia non è più un reato, grazie alla laicità dello Stato, e in Francia questo è accaduto già nel 1789. Non sappiamo se a spingere queste persone sia la paura o altro, ma il loro modo di interpretare le stragi del terrorismo jihadista è uno schiaffo ai nostri valori e un assist a chi dell'estremismo continua a fare la sua bandiera. Se si usasse la stessa malevolenza, oggi si dovrebbe dire che Vanessa Marzullo e Greta Ramelli andavano lasciate al loro destino perché se la sono cercata. Sono entrate illegalmente in Siria attraverso la Turchia, sapevano di andare in un Paese dove era in corso una guerra civile, hanno fatto una scelta di parte diventando amiche del «nemico». Cosa si aspettavano, che sventolare una bandiera anti Assad avrebbe fornito loro l'immunità?

Siria, Candiani (Ln): Magistratura indaghi onlus per circonvenzione d'incapaci, scrive “Libero Quotidiano”. “Nella vicenda di Greta e Vanessa consiglierei ai magistrati di aprire un filone di indagine anche per ‘circonvenzione d’incapaci’: devono essere perseguite anche quelle associazioni ed onlus poco serie che spingono le persone a rischiare la vita, senza le adeguate tutele e i minimi requisiti di sicurezza”. A dirlo il senatore leghista Stefano Candiani, in relazione alla liberazione delle due cooperanti. “La magistratura faccia approfondite indagini sui ‘reclutatori’ che, indottrinando al terzomondismo, mandano allo sbaraglio i giovani e li espongono così ai peggiori pericoli”. Candiani punta il dito contro “l’atteggiamento irresponsabile e colpevole di chi fa ideologia a basso costo, mettendo a rischio la vita di attivisti, militanti, cooperanti, e di chi è poi chiamato a occuparsi dei rapimenti”. “Oggi i cattivi maestri sono responsabili di aver messo a repentaglio vite umane e, nella malaugurata ipotesi (peraltro non smentita da Gentiloni) che sia stato pagato un riscatto, anche di tutti gli italiani nel mondo, che oggi rischiano di essere prede facili del crimine internazionale, che ha capito la scarsa serietà del paese italico”.

Ma così siamo il bancomat dei terroristi, scrive Francesco Maria De Vigo su “Il Giornale”. Sono libere. Sono vive. È una buona notizia e, ora più che mai, ne abbiamo bisogno. Ma ci sono tanti “ma”. E non si possono tacere. Il primo è che se loro stanno bene, in compenso, il nostro stato non gode di altrettanta buona salute. Il governo infatti avrebbe pagato dodici milioni di euro di riscatto per Greta e Vanessa. Un conto salatissimo in un Paese che, per legge, congela i beni dei parenti di chi è stato sequestrato. Ma qui i parenti, si fa per dire, sono lo Stato, siamo noi. Ed è noto che per lo Stato non valgono le leggi dello Stato. Bene, dunque dobbiamo farci una domanda: è giusto pagare i terroristi? Perché è chiaro che se noi – gli italiani, gli occidentali -, paghiamo il riscatto per ogni nostro concittadino, ogni nostro concittadino – italiano, occidentale -, diventa un salvadanaio deambulante per qualsiasi tagliagola. Una slot machine facile da sbancare. Ma così ci trasformiamo nel bancomat dei terroristi. Ed è abbastanza stupido. Dodici milioni sono tanti, abbastanza per armare un plotone di jihadisti (nel deep web con 1500 euro si compra un kalashnikov). Non possiamo dare la paghetta, e che paghetta!, a chi ci vuole sbudellare. Parliamoci chiaro: possiamo farci carico di tutti gli sprovveduti che pensano di farsi una “vacanza intelligente” in una zona di guerra, di fare il buon samaritano a spese nostre? No. Non lo dico solamente perché le due ragazze pensavano che Assad fosse il babau e i suoi nemici dei chierichetti vessilliferi della libertà più specchiata (questo lo pensava – erroneamente o con complicità – anche buona parte della stampa internazionale). Lo dico perché lo Stato italiano non può fare da badante a qualunque suo cittadino, che si tratti del più stupido o del più intelligente, si cacci nei guai nell’ultimo pertugio del mondo. Specialmente in un periodo in cui non riesce a garantire la minima sussistenza anche a chi se ne sta comodamente seduto sul divano di casa sua. Ma avanza un’altra domanda: perché lo Stato che non ha trattato (giustamente) con le Br tratta con gli jihadisti? Trattare significa arrendersi. E in questo momento è l’ultima cosa da fare.

L’Italia finanzia il terrorismo internazionale a forza di riscatti, scrive Giusi Brega su “L’Ultima Ribattuta”. Il nostro Governo ha l’abitudine di pagare i riscatti chiesti dai terroristi per restituirci i nostri connazionali rapiti. In questo modo contribuisce a finanziare le organizzazioni eversive internazionali come l’Isis e innesca un circolo vizioso. In queste ore stanno avendo luogo le trattative per il rilascio di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due cooperanti italiane rapite in Siria e apparse, il 31 dicembre, in un video postato su YouTube nel quale le ragazze supplicano il nostro governo di riportarle a casa prima che vengano uccise. Le fonti non escludono che il video sia stato girato per dare alle autorità italiane la prova in vita delle due ragazze e che successivamente è stato reso pubblico dai rapitori per «alzare il prezzo del riscatto». Riscatto che l’Italia è sicuramente pronta a pagare visto che, ogniqualvolta il nostro Governo si ritrovi a trattare con il terrorismo internazionale per la liberazione degli ostaggi, finisce sempre con l’aprire il portafogli: i prigionieri tornano a casa e, anche se le Istituzioni si guardano bene dal confermarlo, è risaputo che dietro alla liberazione c’è stato il pagamento di un riscatto che va a confluire dritto dritto nelle tasche delle organizzazioni eversive: un giro di affari che a livello internazionale è stimato in 125 milioni di dollari (dal 2008 ad oggi) a cui l’Italia contribuisce in maniera considerevole. Fare i terroristi costa. Il business degli ostaggi rende parecchio. Ed è un guadagno facile. Soprattutto se si ha a che fare con un Paese come l’Italia sempre pronta a pagare quanto chiesto. Fonti di stampa sostengono, infatti, che dal 2004 ad oggi il nostro Paese abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per 14 ostaggi catturati dai terroristi operativi nelle zone a rischio del mondo. Qualche esempio: per liberare lo scorso maggio il cooperante italo-svizzero Federico Motka, il nostro governo ha versato nelle casse degli jihadisti qualcosa come 6 milioni di euro. Anche per il rilascio del giornalista Domenico Quirico (sequestrato in Siria il 9 aprile 2013 e rilasciato l’8 settembre) sembra sia stato pagato un riscatto di oltre 4 milioni di dollari. Ricordate Giuliana Sgrena? La giornalista del Manifesto fu rapita nel febbraio del 2004 in Iraq e liberata un mese dopo grazie al sacrificio del funzionario del Sismi Nicola Calipari e a fronte del pagamento di 6 milioni di dollari. E le due Simone? Simona Pari e Simona Torretta furono rilasciate nel settembre 2004 dopo aver fatto pagare un riscatto di 11 milioni di dollari. E poi Marco Vallisa (il tecnico italiano rapito in Libia nel luglio scorso) per il quale sembra sia stato pagato un riscatto di 4 milioni di dollari. I nostri governi dal 2004 ad oggi si sono guadagnati la fama di “pagatori di riscatti” elargendo milioni di euro di denaro pubblico finanziando così la follia omicida di organizzazioni come l’Isis  pronte a usare il denaro per uccidere e torturare, mettendo a repentaglio la sicurezza e la democrazia mondiale. Come se ciò non bastasse, questo atteggiamento mette a repentaglio l’incolumità dei nostri connazionali all’estero trasformandoli in “merce preziosa”. Per fare in modo che i sequestri non siano più considerati una risorsa di finanziamento e rompere questo circolo vizioso basterebbe applicare le norme internazionali in vigore che proibiscono di pagare riscatti ai terroristi come stabilito da una risoluzione delle Nazioni Unite (approvata dopo l’11 settembre 2001) e da un accordo sottoscritto dai Paesi del G8. D’altra parte se il sequestro avviene in Italia, la magistratura blocca i beni del sequestrato. Non si capisce perché se il sequestro avviene all’estero si finisca sempre col pagare un riscatto milionario (con i soldi dell’erario, cioè i nostri).

Vanessa e Greta: I commenti di Magdi Allam e Adriano Sofri, scrive Niccolò Inches su “Melty”. Il video messaggio di Vanessa e Greta, detenute in Siria dal gruppo jihadista Al Nusra, ha scatenato il dibattito sull'opportunità dell'iniziativa umanitaria delle due attiviste. Il punto di vista di Adriano Sofri e Magdi Cristiano Allam. La pubblicazione del video messaggio di Vanessa e Greta, le due attiviste umanitarie scomparse nel luglio scorso mentre si trovavano in Siria, ha confermato l'ipotesi del rapimento. Le due ragazze sarebbero nelle mani del gruppo jihadista Al Nusra, cellula legata ad Al Qaeda, attiva nel paese arabo in cui è in corso una guerra civile tra i corpi militari fedeli al regime di Bachar Al Assad e i ribelli, tra i quali non figurano solo forze democratiche ma anche numerosi nuclei del fondamentalismo islamico. In Siria era detenuto anche il giornalista de “La Stampa” Domenico Quirico, liberato nel 2013 quando soffiava il vento di una “guerra lampo” pensata dagli Stati Uniti di Barack Obama (poi mai realizzata per via della resistenza della Russia di Putin e della Cina). Su Quirico, però, non si scatenò il vespaio di commenti offensivi e sessisti apparsi sul web per attaccare la presunta irresponsabilità delle due giovani cooperanti. Ogni conflitto porta con sé il rischio di sequestri e violenze nei confronti di cittadini stranieri: il caso di Vanessa e Greta si accoda a quanto successo in passato a Giuliana Sgrena, le due Simone, Daniele Mastrogiacomo e altri in Iraq. Come puntualmente si verifica ad ogni notizia di rapimento, inoltre, scoppia dunque la polemica tra i partigiani dell'intransigenza, quelli che il racconto della guerra o un aiuto umanitario non possono valere il prezzo di un riscatto (specialmente se dovesse servire a riempire le casse dei terroristi), e coloro che tessono le lodi di una – pur rischiosa – iniziativa, in nome di valori universali e cosmopoliti. Sul rapimento di Vanessa e Greta (ecco chi sono le due cooperanti) sono intervenuti due illustri rappresentanti di entrambi i fronti, all'interno di due editoriali: la critica di Magdi Cristiano Allam, autore di “Non perdiamo la testa” (pamphlet di denuncia della presunta cultura violenta veicolata dall'Islam) e firma del Giornale da una parte, dall'altra l'ossequio dell'ex esponente di Lotta Continua – condannato per l'omicidio Calabresi - Adriano Sofri, oggi penna di Repubblica. Ne riportiamo alcuni passaggi.

Magdi Allam: i riscatti finanziano i terroristi. “Le due ragazze erano simpatizzanti degli stessi gruppi islamici che le avrebberosequestrate. In un cartello in arabo con cui si sono fatte immortalare nel corso di una manifestazione svoltasi in Italia si legge: «Agli eroi della Brigata dei Martiri - Grazie dell'ospitalità - Se Allah vorrà presto Idlab sarà liberata - E noi ci torneremo». La «Brigata dei Martiri», in arabo Liwa Shuadha, è un gruppo di terroristi islamici il cui capo, Jamal Maarouf, ha ammesso di collaborare con Al Qaida. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico (…) Il governo vieti alle nostre associazioni civili di operare nelle zone dove imperversano il terrorismo islamico o i conflitti armati. È ora di dire basta alle sedicenti associazioni «senza scopo di lucro» che lucrano con il denaro degli italiani, soldi pubblici e privati, per sostenere la causa dei nemici della nostra civiltà. E poi ci tocca pure pagare ingenti riscatti quando vengono sequestrati o si fanno sequestrare. Basta!”

Adriano Sofri difende le due cooperanti. “Furono istruttive certe reazioni al sequestro. Con tanti auguri di uscirne sane e salve, per carità, ma con un abietto versamento di insulti, a loro e famiglie. Stiano a casa a giocare con le bambole, sono andate a farsi il selfie coi terroristi, non ci si sogni di riscattarle con “i nostri soldi”, paghino gli irresponsabili genitori… Un genitore si sentì costretto a spiegare che sua figlia era maggiorenne, che lui l’aveva dissuasa, che non poteva legarla… Io mi sforzerei di dissuadere una ragazza che, per amore dei bambini senza cibo senza medicine e senza amore, volesse partire per la Siria. Non potrei legarla, e soprattutto non potrei fare a meno di ammirarla (...) Greta e Vanessa [sono] donne, e giovani: troppo giovani e troppo donne, verrebbe da dire, in questa euforica infantilizzazione anagrafica universale. Avevano alle spalle un’esperienza da invidiare di conoscenza e aiuto al proprio prossimo in Africa e in Asia, e della stessa Siria erano veterane. Questa volta andavano ad Aleppo col proposito preciso della riparazione di tre pozzi, per gente privata anche dell’acqua (…) I ritratti che ne fanno delle creaturine in balia di slogan e smancerie sono contraddetti da una loro mania contabile scrupolosa ed efficiente, e dall’idea che la rivoluzione sia l’autorganizzazione di ospedali, scuole, mense… (…) Gli insulti contro Vanessa e Greta avevano argomenti come il tifo per Bashar al Assad e il precetto di farsi gli affari propri: farsi gli affari di Bashar al Assad, insomma (…) perché riscattare vite a pagamento? Perché sì, perché la minaccia che incombe su una persona, la mano già alzata sul suo capo –era vero per Aldo Moro- viene prima della preoccupazione sul vantaggio che il carnefice trarrà dall’incasso di oggi”.

Vanessa Marzullo e Greta Ramelli: vittime del cuore o “incoscienti da salvare”? Scrive “Blitz Quotidiano”. Il sequestro ad Aleppo di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli ha provocato sul Giornale un titolo di prima pagina un po’ fuori falsariga nazionale: “Due italiane rapite in Siria. Altre incoscienti da salvare”. È il titolo a un articolo di Luciano Gulli, sulla stessa linea, che si stacca dal tono generale degli articoli sul rapimento ad Aleppo di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli che ha suscitato un turbine di solidarietà e notizie, mentre certamente i servizi segreti italiani hanno iniziato a prelevare, dai conti segreti e fuori della giurisdizione del Fisco, i milioni di euro che serviranno per pagare il loro riscatto. Proprio pochi giorni fa il New York Times aveva messo in fila tutti i rapimenti opera di gruppi terroristici, indicando tutti i paesi che hanno alimentato le casse di Al Qaeda con i riscatti per liberare connazionali. La cosa sorprendente è che non solo L’Italia paga, ma anche Francia, Austria, Svizzera e la rigorosissima Germania. Vicende angosciose come i rapimenti si risolvono in bagni di lacrime collettive e pagamenti occulti, exploit come ai tempi di Maurizio Scelli, e poi tutti tornano ai loro problemi di tutti i giorni, in attesa del prossimo. Luciano Gulli invece va giù piatto e definisce Vanessa Marzullo e Greta Ramelli “due incoscienti da salvare sull’orlo del baratro” scrivendo così: “Solidarietà, certo, mancherebbe. Come si fa a non essere vicini, a non sperare il meglio per due ragazze che invece di andarsene al mare con gli amici decidono di passare l’estate in Siria, tra le macerie, sotto le bombe, ogni giorno col cuore in gola per dare una mano ai bambini di quel martoriato Paese? Meno bello – e questo è l’aspetto che varrà la pena sottolineare, quando tutto sarà finito – è gettare oltre l’ostacolo anche i soldi dei contribuenti per pagare riscatti milionari o imbastire complesse, rischiose, talvolta mortali operazioni di recupero di certe signorine che oltre alla loro vita non esitano a mettere a repentaglio anche quella degli altri. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, sparite nel nulla sei giorni fa ad Aleppo, sequestrate da una banda di tagliagole torneranno, ne siamo certi. Ma quando saranno di nuovo tra noi qualcuno dovrà spiegar loro che la guerra, le bombe, quei territori «comanche» dove morire è più facile che vivere sono una cosa troppo seria, troppo crudele per due ragazzine. Che sognare di andare in battaglia «per dare una mano», per «testimoniare», come troppe volte abbiamo visto fare a tante anime belle, dalla Bosnia all’Irak di Saddam, è una cosa che si può sognare benissimo tra i piccioni di piazza del Duomo, un selfie dopo l’altro, abbracciate strette strette, quando il rischio maggiore è di beccarsi un «regalo» dai pennuti. Ma senza i nervi, la preparazione, il carattere, l’esperienza che ti dice cosa fare e cosa non fare; senza quel rude pragmatismo che ti viene dopo aver battuto i marciapiedi di tante guerre è meglio stare a casa. Non ci si improvvisa reporter di guerra e non ci si improvvisa neppure cooperanti senza aver imparato come si fa, come ci si comporta, come è fatto il sorriso che ti salverà la vita quando ti troverai di fronte a un mascalzone che vuole i tuoi soldi e le tue scarpe, o al ragazzino che sbuca dall’angolo di una casa, e per rabbia, per vendetta, o anche solo per paura, lascia partire una raffica di mitra che può spedirti all’altro mondo in un amen. Sono le stesse cose che scrivemmo nel settembre di dieci anni fa, quando a Bagdad vennero liberate Simona Torretta e Simona Pari. Le «due Simone» uscirono incolumi da un’avventura durata tre settimane. Non così andò l’anno dopo, quando sempre a Bagdad rapirono la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Per liberarla, quella volta, morì l’agente del Sismi Nicola Calipari. Che dire di più, in queste ore? Niente. Fermiamoci qui. Intrecciamo le dita, sperando di rivedere presto queste altre «Simone»”.

Vanessa e Greta a Roma: l'incubo è finito, scrive Giulia Vola su “Magazine delle donne”. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le volontarie rapite in Siria a luglio sono tornate in Italia questa mattina. Ad accoglierle il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. A far discutere il maxi riscatto che l'Italia avrebbe pagato per la loro liberazione. Libere. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le volontarie ventenni rapite in Siria lo scorso luglio sono tornate in Italia questa mattina all'alba accolte all'aeroporto di Ciampino dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni: è festa grande a Gavirate (Varese), il paese di Greta, e a Brembate (Bergamo), quello di Vanessa. L’annuncio è arrivato nel tardo pomeriggio di giovedì con un tweet di Palazzo Chigi, seguito dalla conferma - alla Camera - del ministro per le Riforme Maria Elena Boschi. Nel frattempo il premier Matteo Renzi aveva chiamato la famiglia di Greta per anticipare quella notizia che ha cambiato la vita di due famiglie che per mesi hanno temuto il peggio ma non hanno mai perso la fiducia. Nemmeno quando, lo scorso 31 dicembre, erano apparse in quel video diffuso dai rapitori in supplicavano "il nostro governo di riportarci a casa". Ieri la richiesta è stata esaudita e nei due piccoli centri lombardi le campane hanno suonato a festa spezzando quell'attesa straziante durata sei mesi, da quando le tracce delle due ragazze si erano perse ad Abizmu, poco lontano da Aleppo, nel Nord della Siria. Eppure, mentre in Lombardia si festeggia, a Roma c’è (già) chi fa polemica. Soprattutto dopo che la tv di Dubai al Aan - ripresa anche dal Guardian - ha parlato di 10 milioni di dollari, poco più di 12 milioni di euro versati nelle tasche dei rapitori. Il segretario della Lega Nord Matteo Salvini tuona contro l’eventualità che si sia pagato un riscatto: "Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il Governo avesse pagato 12 milioni sarebbe uno schifo" ha commentato senza mezzi termini seguito a ruota dal compagno di partito Roberto Calderoli e dalla forzista Maria Stella Gelmini, tutti accomunati dalla stessa domanda: è legittimo pagare sapendo che il denaro finanzierà gruppi terroristi? Nella polemica è entrato anche Roberto Saviano. Lo scrittore anticamorra, che vive una vita da sequestrato in casa, ha affidato a Facebook una lettera sfogo: “Care Greta e Vanessa, sono felice per la vostra liberazione, e come me lo sono in tanti. Ma vi aspetterà anche un’Italia odiosa, che vi considera ragazzine sprovvedute che invece di starsene a casa sono andate a giocare in Siria. Diranno che sono stati spesi molti soldi, molto più del valore della vostra vita". Secondo Saviano quelle dichiarazioni sono frutto del "senso di colpa per non avere coraggio, dell’insofferenza dell’incapace che fermo al palo cerca di mitigare la propria mediocrità latrando contro chiunque agisca". D'altra parte, anche di Saviano, costretto a uno strettissimo regime di protezione che annulla la sua libertà personale, molti hanno detto  che se l’è andata a cercare sfidando la camorra con il suo lavoro. "Spero saprete sottrarvi a questo veleno - scrive alle due volontarie -. Un’altra parte di questa Italia è convinta che il vostro sia stato un atto di coraggio e di umanità, e che nessuno possa essere considerato causa del proprio rapimento”. I commenti al post di Saviano sono il ritratto di un paese in difficoltà con il concetto di eroe e di coraggio: madri e padri trepidanti che condividono la gioia delle famiglie si mescolano a insulti contro le due ragazze e recriminazioni sul presunto riscatto. Uno scenario che si ripete: dopo Je suis Charlie, ora è la volta di Je suis Greta e Vanessa, identità che sui Social, in questi momenti, va per la maggiore. Il governo italiano naturalmente nega di aver pagato (ma non potrebbe fare diversamente). Resta il fatto che la La Jabhat al-Nusra, "il fronte di sostegno per il popolo siriano" vicino ad al Qaeda che aveva in custodia Greta e Vanessa e gli altri gruppi terroristici più o meno affiliati incassano, secondo il New York Times, circa 2 milioni di euro a ostaggio liberato. Denaro versato "in gran parte dagli europei" sottolinea il quotidiano del Paese che ha scelto la linea dura rifiutandosi di pagare. Ma oggi è il giorno della felicità e delle prime dichiarazioni che le ragazze faranno in Procura a Roma. Per le recriminazioni e le polemiche c'è tutto il tempo:  ''Quando la vedrò le darò un grande abbraccio - ha commentato emozionato Salvatore Marzullo, il papà di Vanessa -. Portiamola a casa e poi ci saranno tante cose da dirle''.

15 gennaio 2015. Vanessa e Greta liberate: si festeggia? No! Scrive Alberta Ferrari su “L’Espresso”. E’ ufficiale da poche ore: Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, giovanissime cooperanti sequestrate a luglio in Siria da terroristi jihadisti sono state liberate; stanotte giungeranno in volo dalla Turchia in Italia.  Prima di sapere il loro destino e ignorando volutamente la querelle sollevata da chi metteva in discussione motivazioni e/o imprudenza delle delle ragazze, avevo stigmatizzato l’inaudita violenza sessista che “la pancia” degli italiani riversava nei loro confronti in rete, con modalità becere e inaccettabili indipendentemente dal merito delle questioni. Come da previsioni e in linea con la politica estera italiana (differente, per esempio, da quella degli USA) è ovvio che sia stato pagato un riscatto, del quale iniziano a circolare cifre non confermate: 12 milioni di euro. E immediatamente, con le giovani non ancora a casa, persino tra i commentatori più pacati oltre il 90% esprime aperto malumore. Qualcuno premette che è un sollievo che siano state liberate, ma la maggior parte si limita a commenti come questo: “un solo pensiero nella mente di tutti gli italiani: E IO PAGOOOOOOOOOO”. Su facebook, cloaca massima di eiezioni senza filtro cerebrale, il concetto comincia a prender forma con le tristemente note modalità: invettiva, insulto, augurio di torture stupro morte etc. che rendono impossibile ogni civile argomentazione. Facciamocene una ragione perché questo background culturale si applica a tutte le donne: un caso apparentemente lontanissimo come l’annuncio di Emma Bonino di avere un tumore al polmone è stato gratuitamente accolto con analoga marea di triste commentario insultante e sessista, in cui la malattia diventa l’arma con cui colpire e augurare ogni male. Questo è il popolo che si riversa senza filtro sui social ed è bene conoscere, non ignorare. Perché il fenomeno denuncia che il degrado della pancia degli italiani sta arrivando alla barbarie e che le donne sono tipicamente oggetto delle più violente invettive. Nessuno stupore se nel nostro Paese i femminicidi non accennano a diminuire. Chi poi politicamente a questa “pancia” fa facile riferimento titillandone i riflessi pavloviani, ricordi che le masse strumentalizzate sono pericolose e volubili: si innamorano dell’uomo forte, pronti a rinnegarlo e sputare addosso al suo cadavere quando cambia il vento. Accusata personalmente da un commentatore di “becero buonismo” per il fatto che additavo la barbarie degli insulti alle ragazze senza addentrarmi in giudizi sul loro comportamento, oggi che sono in salvo mi permetto di esprimere anche riflessioni nel merito. Purchè rimanga ben chiaro che invettive e insulti rimangono condannabili in sè. Bene, Vanesssa e Greta: bentornate. Potrei essere vostra madre e forse a 20 anni ero più fulminata di voi. Tuttavia vi prego: appena scese dall’aeroporto non dite (come si è sentito in passato) “siamo pronte a tornare”. Non andate a fare le eroine nei talk show. Magari invece, riflettete con persone autorevoli, che si intendono di volontariato e di Paesi in guerra e fate tesoro, magari autocritica, di questa esperienza a lieto fine. Perché vedete, il problema dei milioni di euro di riscatto contiene sì tanta ipocrisia (basterebbe rinunciare a una costosa arma bellica o recuperare denaro da chi delinque o evitare gli sprechi che sono la vera piaga del nostro Paese), ma non merita per questo indifferenza: è pur sempre denaro dei vostri concittadini, che di questi tempi non se la passano troppo bene. Inoltre come pensate che verrà usato? Le vostre vite salvate al prezzo di altre, quando questo denaro diventerà altre armi (che sono arrivate e arrivano nonostante voi, ridimensioniamo anche questa ricorrente e ipocrita colpevolizzazione). Io non sono esperta del settore, quindi mi sono documentata attraverso contatti a me molto vicini; persone esperte che ideologicamente avrebbero ogni motivo per sostenere la vostra posizione. Il problema è che la vostra posizione non è sostenibile. perché, come sostiene la collega Chiara Bonetti (un anno in Mozambico, 6 mesi in Uganda, un anno in Tibet): nella scelta di andare all’estero in qualità di membro onlus o ong governativa, è fondamentale evitare personalismi e schieramenti. All’estero in veste ufficiale non sono ammesse improvvisazioni: si va nel mondo a titolo non personale, bensì a rappresentare il proprio Paese (che infatti si fa carico dei tuoi rischi), una civiltà e un modo di lavorare. Nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di esporsi a pericoli inaccettabili: proprio perché il prezzo del rischio non si paga di persona ma coinvolge potenzialmente tutti coloro che svolgono un’attività anche lontanamente simile, nonché i contribuenti del vostro Paese. All’estero esistono regole molto diverse da quelle con cui si è cresciuti: è imperativo non improvvisare. Ci vuole umiltà, cultura (tanta), una rete d’appoggio, esperienza. Tutte cose che a 20 anni con una onlus fai-da-te (con un terzo individuo che si è smarcato ed è rimasto a casa) sono ampiamente mancate. Ragazze, io diversamente da altri non entro nel merito della vostra buona fede, della nobiltà dei vostri obiettivi: non posso sapere. Ma l’avventatezza è analoga a quella di sciatori fuoripista/scalatori imprudenti che si mettono nei guai dopo aver contravvenuto a regole da bollino rosso o per semplice, sventata inesperienza: possono provocare smottamenti che uccideranno altre persone, oppure mettere a repentaglio la vita di chi deve soccorrerli in condizioni estreme. Termino lasciandovi le riflessioni di due grandi uomini, Walter Bonatti e Reinhold Messner, fini acrobati tra coraggio e paura: “Non esiste il coraggio senza la paura – dice Bonatti – bisogna aver paura delle cose paurose, di ciò che è sconosciuto, ma per combattere il terrore bisogna cercare di conoscere ciò che fa paura. Bisogna costruire il coraggio e poi usarlo”. “La paura – dice Messner – ti spiega bene il limite che non devi superare: fin qui va bene, oltre… scendi. Come è successo a te, davanti alla parete del Pilier d’Angle”. “Ho provato una paura spaventosa – confessa Bonatti – ed ero già molto esperto. Quella notte sono arrivato con il mio compagno, Luigi Zampieri, sotto al Col de la Fourche, a un’ora dall’attacco sono rimasto impietrito di fronte a quella parete che con un gioco di riflessi lunari mi è apparsa una lavagna levigatissima. L’unica cosa evidente che spiccava erano i grandi seracchi pronti a caderti addosso. Ho avuto una paura folle e sono stato un bel po’ a pensare, a chiedermi come fare. Fino a quando, saggiamente, ho concluso che era meglio tornare a casa. E sono tornato a casa. Qualche mese dopo sono tornato, la montagna non era più in condizioni così favorevoli, ma era favorevole il mio spirito, ero pronto. L’abbiamo attaccata e l’abbiamo spuntata”. Buon rientro ragazze, sono felice di riavervi a casa.

Le “stronzette di Aleppo” se la sono cercata, scrive Alberta Ferrari. Vanessa Marzullo e Greta Ramelli sono due giovanissime cooperanti italiane di 20 e 21 anni rapite in Siria a luglio 2014. Sulla loro presenza in una zona tanto pericolosa e in assenza di una solida organizzazione alle spalle le polemiche sono state sempre accese, spesso con toni grossolani e cinici (vedi “le stronzette di Aleppo” di Maurizio Blondet). Il tema di fondo: “due incoscienti sprovvedute” ci mettono nei guai. Linguaggio offensivo, squalificante e, stupore!, sessista: “con la guerra non si scherza e da bambine è bene che non si giochi alle piccole umanitarie, ma con la barbie”. Tra i commenti più soavi. Le due ragazze avevano fondato con il 47enne Roberto Andervill il progetto Horryaty per raccogliere aiuti destinati alla popolazione civile in Siria. Certo sprovvedute queste giovanissime entusiaste, ma non improvvisate. Vanessa, di Brembate, studia mediazione linguistica e culturale all’Università di Milano. Greta, di Besozzo, studentessa, è una volontaria della Croce Rossa e ha già prestato attività di cooperazione in Zambia e in India. Partono per la Siria a febbraio 2014 e vi tornano a luglio attraversando il confine turco con il giornalista de “Il Foglio” Daniele Ranieri. Tre giorni dopo vengono rapite ad Abizmu dopo essere state attirate nella casa del “capo del Consiglio rivoluzionario” locale, mentre Ranieri riesce a fuggire e a dare l’allarme. Per inciso, tocca notare un silenzio assordante – diversamente dai commenti al vetriolo riservati alle ragazze – su questo accompagnatore più che adulto che riesce a darsela a gambe. Nessuno che si stracci le vesti: “incosciente, quella è guerra vera e hai pure coinvolto due ragazze, ma stare a casa a giocare ai soldatini no? minimo meritavi il sequestro pure tu”. Sull’identità dei rapitori si avvicendavo ipotesi: jihadisti dell’Isis, gruppi criminali intenzionati a chiedere un riscatto, compravendita delle ragazze. Capodanno ci sorprende con un importante aggiornamento. Un video su youtube chiarisce che le giovani sono sequestrate dal gruppo jihadista al-Nusra. Le ragazze sono state private del loro abbigliamento e vestono la tunica nera abaya. Parla Greta Ramelli senza mai alzare lo sguardo (“supplichiamo il nostro governo e i suoi mediatori di riportarci a casa prima di Natale. Siamo in estremo pericolo e potremmo essere uccise”) mentre Vanessa Marzullo espone un cartello che riporta la data del 17 dicembre 2014. Personalmente, cercando di non cadere in trappole di superficiale buonismo, ritengo che l’eccessivo rischio e le relative conseguenze che ora non possiamo non fronteggiare, siano ragionevolmente da attribuire più alla responsabilità di chi autorizza e deve controllare viaggi in Paesi sede di guerre da bollino rosso che non all’entusiasmo giovanile dell’impegno fai-da-te. Mi ha turbato, leggendola come segno di imbarbarimento, l’impressionante sequenza di commenti intrisi di cinismo e grettezza che ho letto su Facebook, a commento della notizia del video riportata da Ilfattoquotidiano.it. In base al giornale, commentatori più “collocati a sinistra”, in teoria.

Riporto un campione di questi commenti: del resto fortemente ripetitivi.

Gianni C. ALTRI EURI di chi fa fatica buttati a PUTTANE…………

Fabrizio T. Riportarli a casa in cambio di armi? ? Mai!! Così per colpa di queste 2 idiote ne muoiono 1000.

Gianni P. io penso che “quelli che se la cercano” se la debbano poi sbrogliare.

Maria C. Se le tenessero. Nessuna pietà per chi si caccia nei guai, pur sapendolo.

Fiorni R. Quelle son andate per far carriera, vedi la nostra boldrinazza, vedi simona pari e dispari.

Giuseppe T. Che se le tenessero!

Giulio S. Tenetevele.

Donatella N. Ah si? Tenetevele.

Antonio M. Spero proprio di non avere figli così stupidi.

Angelo M. Per queste due nessuna pietà. ….all’inizio erano contente del sequestro ora che le scarpe gli vanno strette chiedono aiuto. ….tempo scaduto adesso subite il velo e la schiavitù di questo popolo musulmano.

Michele C. Ma fanculo stateve a casa.

Leone B. La guerra nn è un gioco per bambine in cerca di visibilità.

Lamberto C. SE NE STAVANO A CASA LORO NN GLI SAREBBE SUCCESSO NULLA. Se la son cercata.

Bartolomeo A. …. due incoscienti che non possono essere lasciate sole, due imbecilli che da presuntuose epocali, hanno pensato che i loro bei visini, accompagnati dai soliti buoni propositi terzomondialisti o giù di lì, potessero intenerire le carogne in generale che si contendono la siria e non solo…

Enrico D. sono andate li per supportare i tagliagole. se dovessero essere liberate dovrebbero essere processate per aver appoggiato dei terroristi! luride scrofe!

Carlo F. adesso la bandiera arcobaleno non la sventolano più ahahhahahhaahahhaaha.

Antonella R. Visto che non le ha obbligate nessuno ad andare la !!! Sono solo cavoli loro !! A me non me ne importa niente!!

Mino T. Credo che i buonisti, che sono la vera metastasi di questo paese , dovrebbero dare il buon esempio e partire per la Siria a loro spese (…) Per quanto mi riguarda hanno avuto ciò che si meritano.

Graziella T. Prima i nostri maro’, visto che sono andati per lavoro? Loro nonostante che gli si è detto di NON ANDARE, loro sono andate …se la sono cercata.

….. qualche timida voce fuori dal coro si trova ….

Roberto D. Per estendere il concetto, molti hanno perfino contrastato il ritorno in italia del medico italiano che curava l’ebola in africa. Il concetto è: “fai il medico in africa? WOW sei mitico… cosa? ti sei ammalato e vuoi tornare qui e così ci infetti tutti? Ma stai in africa, d’altronde…te la sei andata a cercare”. Ecco di questa gente stiamo parlando.

Daniela C. Son state delle sprovvedute ma vanno portate a casa.

Dominique B. Leggendo gran parte delle risposte invece, mi chiedo chi siano le bestie, quelli che hanno sequestrato le ragazze o quelli che commentano qui…

Emma R. Non ho mai letto tanta cattiveria pressapochismo crudeltà cinismo etc etc nei commenti ad un solo post !!!!! Complimenti a tutti.

Marianna L. Cercasi umanità

Concludo facendo mio il commento al video di Marina Terragni: “Che queste ragazze possano tornare a casa presto e levarsi quegli stracci dalla testa”.

“Menefreghismo assoluto per le attiviste rapite in Siria” e I CARE, continua la Ferrari Poiché i commenti violenti, odiosi e sessisti da me segnalati con stupore e raccapriccio due giorni fa verso le due cooperanti Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, rapite in Siria si sono rivelati vero allarme di una deriva crescente, qualcuno ieri alle 13.00 ha avuto l’idea geniale di creare una pagina Facebook che raccogliesse il turpe dileggio e le offese rivolte in questi giorni con sadico e ottuso accanimento . A seguire uno de tanti post della pagina. In 24 ore 1250 like alla pagina. Per darvi un’idea: io nella mia pagina professionale, che si occupa di salute della donna e i particolare di tumore al seno, il più frequente nel sesso femminile ad ogni età, non sono arrivata a 5000 like in oltre 2 anni. Il che dimostra chiaramente il potere d’attrazione che l’invettiva sessista esercita su gran parte di persone becere, quelli che girano sul social e si esprimono come al bar, offrendo un affresco sociologico veramente degno d’attenzione e preoccupazione. Sul mio post precedente, che segnalava la violenza brutale montante contro le due ragazze ricercandone retroterra culturali e contraddizioni (sugli adulti che le hanno aiutate / accompagnate, silenzio totale), si è aperto con mio sollievo un nutrito dibattito. I commenti hanno riguardato varie criticità della questione, compresa la scelta delle ragazze di addentrarsi in una zona di guerra senza protezione e la loro presunta simpatia per una fazione di combattenti (gli stessi peraltro che le avrebbero rapite), tuttavia il confronto di punti di vista differenti si è svolto in modo civile, contribuendo ad affrontare il problema con più strumenti conoscitivi. A chi invoca il menefreghismo, che evoca il triste “me ne frego” passato alla storia senza gloria né onore, contrappongo, fuori da un contesto religioso ma come espressione basilare di umanità, l’invito di Sabrina Ancarola (che giustamente non dimentica gli altri ostaggi in Siria) che ci ricorda il motto di don Milani: I Care.

Le stronzette di Aleppo, scrive Maurizio Blondet su “Il Punto di Prato”. Vanessa e Greta. Anni 20 e 21.Andate in Aleppo presso i ribelli anti-regime per un progetto umanitario. Progetto che,a quanto è dato dedurre, consisteva in questo:farsi dei selfie e postarli sui loro Facebook:su sfondi di manifestazioni anti-Assad, sempre teneramente abbracciate (Inseparabili, lacrimano i giornali), forse per fare intendere di essere un po’ lesbiche (è di moda), nella città da tre anni devastato teatro di una guerra senza pietà e corsa da milizie di tagliagole. La loro inutilità in un simile quadro è palese dalle loro foto, teneramente abbracciate, con le loro tenere faccine di umanitarie svampite, convinte di vivere dalla parte del bene in un mondo che si apre, angelicamente, grato e lieto al loro passo di volontarie. Una superfluità che i giornali traducono così: Le due ragazze avevano deciso di impegnarsi in prima persona per dare una risposta concreta alle richieste di aiuto siriane. Vanessa è studentessa di mediazione linguistica e culturale, Greta studentessa di scienze infermieristiche: niente-popò-di-meno! Che fiori di qualifiche! Due studentesse ( m’hai detto un prospero!), che bussando a varie Onlus erano riuscite a far finanziare il Progetto Horryaty, da loro fondato. Secondo una responsabile della Onlus che ha sganciato i quattrini alle due angeliche, il loro progetto era finalizzato ad acquistare kit di pronto soccorso e pacchi alimentari,da distribuire al confine. Ostrèga, che progettone! Nella loro ultima telefonata,chiedevano altri fondi. Pericolo per le loro faccine angeliche, o le loro tenerissime vagine? No,erano sicure:avevano capito una volta per tutte che i cattivi erano quelli di Assad,e loro stavano coi buoni,i ribelli. E i buoni garantivano per loro. Si sentivano protette. Nell’ultima telefonata hanno detto che avevano l’intenzione di restare lì. Un Paese serio le abbandonerebbe ai buoni, visto che l’hanno voluto impicciandosi di una guerra non loro di cui non capiscono niente, in un mondo che a loro sembra ben diviso tra buoni e cattivi. Tutt’al più, candidarle al Premio Darwin (per inadatti alla lotta per la vita), eventualmente alla memoria… Invece la Farnesina s’è sùbito attivata, il che significa una cosa:a noi contribuenti toccherà pagare il riscatto che i loro amici, tagliagole e criminali, ossia buoni, chiederanno. E siccome le sciagure non vengono mai sole, queste due torneranno vegete, saranno ricevute al Quirinale, i media verseranno fiumi di tenerezza, e pontificheranno da ogni video su interventi umanitari, politiche di assistenza, Siria e buoni e cattivi di cui hanno capito tutto una volta per tutte. Insomma, avremmo due altre Boldrini.

La liberazione di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due cooperanti italiane rapite in Siria sei mesi fa, ha innescato due reazioni contrapposte: sollievo e soddisfazione espresse dalle istituzioni (lungo applauso in Parlamento dopo l'annuncio del ministro Boschi in Aula), polemiche e livore da rappresentanti delle opposizioni a cui è seguita una corsa all'emulazione sui social network, scrive “Ibtimes”. Non poteva mancare il commento di Matteo Salvini: "La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia ma l'eventuale pagamento di un riscatto che permetterebbe ai terroristi islamici di uccidere ancora sarebbe una vergogna per l'Italia. Presenteremo oggi stesso un'interrogazione al ministro degli Esteri per appurare se sia stato pagato un solo euro per la liberazione delle due signorine". Ma la palma dell'uscita più strumentale è del capogruppo di Forza Italia in Emilia-Romagna, Galeazzo Bignami: "Le due ragazze amiche dei ribelli siriani e sequestrate dai ribelli siriani sono state liberate immagino dietro pagamento di lauta ricompensa ai ribelli siriani. Ora che sono libere penso si possa dire con chiarezza che di chiaro in questa storia non c'è nulla. A partire dal fatto che questo sequestro pare proprio un gran favore fatto dalle loro amiche ai ribelli. Per inciso si liberano queste qui mentre chi porta la divisa e rappresenta lo stato è ancora in arresto in india. Bello schifo". Altri esponenti di centrodestra hanno puntato l'indice sulla questione riscatti. "Finita la fase di legittima soddisfazione, serve che il ministro Boschi ci dica se è in grado di escludere che da qualunque fonte di finanziamento pubblico sia stato un centesimo per riportare le due ragazze a casa" le parole di Massimo Corsaro (Fratelli d'Italia). "Doveroso chiederci se un eventuale riscatto pagato a dei terroristi non sia una fonte di finanziamento per portare la morte in Europa e altrove" sostiene anche l'ex ministro Maria Stella Gelmini. Le strumentalizzazioni hanno dato il là a commenti simili anche degli utenti sui social network.  "Un riscatto milionario per due sceme", "sia chiaro a tutti che sono ben altri i cervelli da far rientrare". Altri ancora imitano Bignami nell'improprio parallelo con la vicenda dei marò. Oppure si leggono frasi sulla guerra "non adatta" alle donne. O ancora che non è giusto pagare 12 milioni di dollari (questa la presunta cifra pagata per liberare le due ragazze) per gente che "va in vacanza". Legittimo discutere sugli effetti collaterali delle possibile impreparazione delle cooperanti in zone di guerra, che si pongono in una situazione di oggettivo pericolo e mettono in difficoltà il paese. Ma non in quanto donne, né si può sostenere che le due fossero in Siria per prendere il sole. Strumentale, improprio e spesso in malafede, ogni altro genere di discorso o commento. Cosa c'entra la vicenda dei due marò, accusati di omicidio in India? Suggeriscono forse di corrompere gli indiani allo scopo di ottenere la liberazione di Latorre e Girone? Ipocrita anche la reazioni sul pagamento del riscatto, non perché sul tema non ci sia da discutere ma perché viene da pensare "da che pulpito parte la predica?". Il fatto che l'Italia (come Francia, Spagna o Svizzera) abbiano pagato in passato riscatti milionari ai sequestratori è il segreto di Pulcinella. Simona Pari e Simona Torretta (altre due cooperanti, stavolta in Iraq, 2004), Giuliana Sgrena (2005), Clementina Cantoni (2005), Rossella Urru (2011) e Mariasandra Mariani (2011) sono tutti sequestri che si sono probabilmente conclusi con il pagamento di un riscatto (ad Al-Qaeda o altre organizzazioni legate al fondamentalismo). Chi governava in quegli anni? Quel centrodestra che oggi attacca a testa bassa.

Ostaggi italiani, non sempre è finita bene, scrive “La Voce D’Italia”. Il primo rapimento recente di italiani nel mondo a lasciare il segno nella memoria collettiva è del 2004, in Iraq. Vengono sequestrati a Baghdad 5 contractor, Fabrizio Quattrocchi, Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio. Quattrocchi viene ucciso, gli altri liberati. Indimenticabile il video in cui la vittima dice ai carnefici: “vi faccio vedere come muore un italiano”. Lo stesso anno sempre in Iraq vengono rapiti il freelance Enzo Baldoni, ucciso poco dopo, e le due cooperanti Simona Torretta e Simona Pari, liberate dopo 19 giorni. Nel 2005 tocca alla giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Subito dopo la sua liberazione, un militare americano uccide per sbaglio il funzionario del Sismi Nicola Calipari che era andato a prenderla. Nel 2007 in Afghanistan viene rapito dai talebani il giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, poi liberato. In Mali nel 2009 Al Qaida rapisce due coniugi italiani, Sergio Cicala e Philomene Kabouré. Vengono liberati l’anno dopo. L’inviato della Stampa Domenico Quirico viene rapito due volte: la prima volta nel 2011 in Libia per due giorni (con i colleghi Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina, entrambi del Corriere della Sera, e Claudio Monici di Avvenire); la seconda volta nel 2013 in Siria per cinque mesi. I pirati somali nel 2011 catturano due navi mercantili italiane, la Savina Caylyn, con 5 italiani a bordo, e la Rosalia D’Amato, con 6 italiani. Gli ostaggi vengono liberati insieme alle unità lo stesso anno, dopo mesi di prigionia. Nel 2011 nel Darfur in Sudan viene catturato dai ribelli locali il cooperante di Emergency Francesco Azzarà, liberato dopo 124 giorni. Lo stesso anno gli shabaab somali catturano al largo della Tanzania l’italo-sudafricano Bruno Pellizzari, mentre si trova sulla sua barca a vela con la fidanzata sudafricana. Viene liberato dopo un anno e mezzo con un blitz dell’esercito somalo. In Algeria nel 2011 i terroristi islamici sequestrano la turista Sandra Mariani e la cooperante Rossella Urru. Entrambe vengono liberate nel 2012. In quello stesso anno finisce invece tragicamente il rapimento in Nigeria dell’ingegnere Franco Lamolinara, sequestrato dai jihadisti nel 2011: l’italiano viene ucciso dai sequestratori durante un blitz delle forze speciali di Londra, che volevano liberare un ostaggio britannico tenuto con lui. Nessuna notizia dopo oltre tre anni del cooperante Giovanni Lo Porto, sequestrato in Pakistan nel 2012 mentre lavorava per una ong tedesca, né del gesuita padre Paolo Dall’Oglio. Quest’ultimo scompare in Siria nel 2013, mentre cerca di mediare a Raqqa per la liberazione di un gruppo di ostaggi. Voci contrastanti lo danno prima per morto, poi prigioniero dell’Isis. Nel 2014 in Libia vengono rapiti due tecnici italiani, in due diversi episodi: l’emiliano Marco Vallisa e il veneto Gianluca Salviato, entrambi liberati dopo diversi mesi.

Greta e Vanessa a casa, polemiche sul riscatto: «Pagati 10 milioni di dollari», scrive “Il Messaggero”. È stata la tv di Dubai al Aan a ipotizzare che possa essere stato pagato un riscatto di 12 milioni di dollari (poco più di 10 milioni di euro) ai qaedisti anti-Assad del Fronte al Nusra per il rilascio di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due giovani italiane rapite in Siria nel luglio scorso e liberate giovedì. La voce, denunciata in Italia dal leader della Lega Matteo Salvini, è ripresa anche dal Guardian online, secondo cui si tratta di «un'informazione non confermata». «Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il governo avesse pagato un riscatto di 12 milioni, sarebbe uno schifo!», scrive in un tweet Salvini. Il governo italiano, come d'uso, nega di avere pagato un riscatto e incassa intanto l'ennesimo successo sul fronte della liberazione di ostaggi (sono stati oltre una dozzina negli ultimi 10 anni gli italiani sequestrati all'estero). A dare consistenza alle voci sul pagamento tuttavia in questo caso c'è anche un tweet di un account ritenuto vicino ai ribelli siriani anti-Assad in cui si parla di un "riscatto di 12 milioni di dollari” per la liberazione delle due italiane. La Jabhat al-Nusra, «il fronte di sostegno per il popolo siriano», è cresciuto esponenzialmente grazie alle vittorie sul campo ma anche a una incredibile disponibilità di armi e fondi per combattere contro le forze del presidente siriano Bashar al Assad. La sua fonte principale di finanziamento, oltre alle generose donazioni che arrivano dall'estero, è proprio quello che arriva dai riscatti: il New York Times ha stimato che al Qaida e i gruppi affiliati abbiano incassato oltre 125 milioni di dollari negli ultimi 5 anni, la massima parte versati «dagli europei». Il Fronte è stato fondato alla fine del 2011, nel pieno della rivolta contro il governo siriano, quando l'allora emiro di al Qaida in Iraq, e ora leader dell'Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, inviò i primi combattenti in Siria. Considerato "meno sanguinario" del ramo iracheno di al Qaida, il Fronte si è attribuito diversi attacchi anche contro i civili: nei primi tre mesi del 2012 si rende protagonista di diversi attentati, alcuni kamikaze, a Damasco e Aleppo contro le forze governative siriane, decine i morti. Nel 2013 Nusra finisce al centro di quello che evolverà in scontro violento tra Baghdadi e Ayman al Zawahri: il califfo dichiara che al Nusra è parte di al Qaida in Iraq nella nuova formazione Isis. Ma a giugno il leader di al Qaida lo smentisce. L'ostilità tra Nusra e Isis sfocia in aperti combattimenti che secondo alcune fonti lasciano sul campo 3.000 uccisi tra i jihadisti dei due fronti. Alla fine dell'anno Nusra rapisce 13 monache da un monastero cristiano che verranno rilasciate nel marzo del 2014. Pochi mesi dopo, il 27 agosto, mentre l'Isis guadagna le prime pagine per la barbara esecuzione di James Foley, Nusra in controtendenza libera lo scrittore americano Peter Theo Curtis, rapito due anni prima. Il Qatar gioca un ruolo di primo piano nelle trattative per il rilascio. Alla famiglia era stato chiesto un riscatto di 3 milioni di dollari «cresciuti fino a 25». Il giorno dopo la liberazione dell'americano, il 28, il Fronte gruppo avanza in Golan e cattura 45 peacekeeper dell'Onu, che vengono liberati l'11 settembre. L'ultima stima dei think tank Usa è che il Fronte possa contare su oltre 6.000 combattenti ben addestrati, dislocati soprattutto nella regione di Idlib. Nelle zone controllate da Nusra vige la Sharia e sono state introdotte le corti islamiche.

Due video «cifrati» in 15 giorni. Così i rapitori hanno alzato il prezzo. I ribelli: «Pagati 12 milioni di dollari». La banda di terroristi non è legata all’Isis. Le stragi di Parigi usate per alzare la posta. La cifra diffusa sembra comunque esagerata, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Lo scambio sarebbe avvenuto tra domenica e lunedì, dopo l’arrivo di un video che forniva la nuova prova in vita delle due ragazze rimaste prigioniere in Siria quasi sei mesi. Un filmato per sbloccare definitivamente la trattativa, con la consegna della contropartita ai sequestratori. Sembra esagerata la cifra di dodici milioni di dollari indicata dai ribelli al regime di Assad, ma un riscatto è stato certamente pagato, forse la metà. E tanto basta a scatenare la polemica, alimentata da chi sottolinea come il versamento sarebbe avvenuto proprio nei giorni degli attentati a Parigi. È l’ultimo capitolo di una vicenda a fasi alterne, con momenti di grande preoccupazione, proprio come accaduto dopo la strage di Charlie Hebdo e del supermercato kosher, quando i mediatori avrebbero tentato di alzare ulteriormente la posta. Saranno Greta Ramelli e Vanessa Marzullo a fornire ai magistrati i dettagli della lunga prigionia, compreso il numero delle case in cui sono state tenute. Ieri sera, dopo essere arrivate in un luogo sicuro - probabilmente in Turchia - e prima di essere imbarcate sull’aereo per l’Italia, sono state sottoposte al «debriefing» da parte degli uomini dell’ intelligence , come prevede la procedura che mira a ottenere notizie preziose sul gruppo che le ha catturate il 31 luglio scorso e su quelli che le hanno poi gestite nei mesi seguenti. Attivare i primi contatti per il negoziato non è stato semplice, anche se si è avuta presto la certezza che a rapirle era stata una banda di criminali, sia pur islamici, e non i jihadisti dell’Isis. A metà agosto, quando il Guardian ha rilanciato l’ipotesi che fossero tra gli ostaggi internazionali del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, i mediatori italiani si sono affrettati a smentire proprio nel timore che la trattativa potesse fermarsi. Circa un mese dopo è arrivata la prima prova per dimostrare che le ragazze stavano bene. E da quel momento è partita la trattativa degli 007, coordinata da Farnesina e Palazzo Chigi. Secondo le notizie iniziali a organizzare il sequestro è il «Free Syrian Army», l’esercito di liberazione della Siria. Ma la gestione delle prigioniere avrebbe avuto fasi alterne, con svariati cambi di «covo» e nell’ultima fase ci sarebbe stata un’interferenza politica di «Jabat al-Nusra», gruppo della galassia di Al Qaeda che avrebbe preteso un riconoscimento del proprio ruolo da far valere soprattutto rispetto alle altre fazioni e contro l’Isis. Non a caso, poco dopo la conferma dell’avvenuto rilascio delle due giovani, un uomo che dice di chiamarsi Muahhed al Khilafa e si firma sulla piattaforma Twitter con l’hashtag dell’Isis posta un messaggio per attaccare «questi cani del fronte al-Nusra che rilasciano le donne crociate italiane e uccidono i simpatizzanti dello Stato Islamico». Del resto è proprio la situazione complessa della Siria ad alimentare sin da subito la sensazione che il sequestro non possa avere tempi brevi. E infatti la «rete» attivata per dialogare con i sequestratori ha a che fare con diversi interlocutori, non tutti affidabili. Con il trascorrere del tempo le richieste diventano sempre più alte, viene accreditata la possibilità che i soldi non siano sufficienti per chiudere la partita, che possa essere necessario concedere anche altro. A novembre si sparge la voce che una delle due ragazze ha problemi di salute, si parla di un’infezione e della necessità che le vengano dati farmaci non facilmente reperibili in una zona così segnata dalla guerra. Qualche giorno dopo arrivano invece buone notizie, un emissario assicura che Greta e Vanessa sono in una casa gestita esclusivamente da donne. Informazioni controverse che evidentemente servono a far salire la tensione e dunque il valore della contropartita per la liberazione. A fine novembre c’è il momento più complicato. I rapitori cambiano infatti uno dei mediatori facendo sapere di non ritenerlo più «attendibile». Si cerca un canale alternativo e alla fine si riesce a riattivare il contatto, anche se in scena compare «Jabat al-Nusra» e la trattativa assume una connotazione più politica. La dimostrazione arriva quando si sollecita un’altra prova in vita di Greta e Vanessa e il 31 dicembre compare su YouTube il video che le mostra vestite di nero, mentre chiedono aiuto e dicono di essere in pericolo. È la mossa che mira ad alzare il prezzo rispetto ai due milioni di dollari di cui si era parlato all’inizio. Quel filmato serve a chiedere di più, ma pure a lanciare il segnale che la trattativa può ormai entrare nella fase finale. Anche perché contiene una serie di messaggi occulti che soltanto chi sta negoziando può comprendere, come il foglietto con la data «17-12-14 wednesday» che Vanessa tiene in mano mentre Greta legge il messaggio, che sembra fornire indicazioni precise. Si rincorre la voce che entro qualche giorno possa avvenire il rilascio. Ma poi c’è una nuova complicazione. Il 7 gennaio i terroristi entrano in azione a Parigi, quattro giorni dopo arriva un nuovo video. Questa volta viaggia però su canali riservati. L’intenzione dei sequestratori sembra quella di alzare ulteriormente la posta, la replica dell’Italia è negativa. Si deve chiudere e bisogna farlo in fretta. L’ intelligence di Ankara fornisce copertura per il trasferimento oltre i confini siriani delle due prigioniere. Ieri mattina gli 007 avvisano il governo: è fatta, tornano a casa.

Greta e Vanessa, malate e maltrattate nelle mani dei sequestratori, scrive “Libero Quotidiano”. Sono stati mesi molto duri quelli trascorsi da prigioniere. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo ora sono finalmente libere, ma ciò che hanno dovuto subire durante il sequestro le ha molto provate sia psicologicamente che fisicamente. A rivelarlo sono gli 007 che hanno trovato fin dall'inizio della vicenda un canale di mediazione e dunque un interlocutore che ha permesso ai nostri servizi di "monitorare" costantemente le cooperanti per tutta la durata della trattativa. Hanno vissuto momenti molto difficili, rivela al Messaggero chi ha seguito in questi mesi la sorte di Greta e Vanessa. Una delle due è stata poco bene in salute, ma le sono stati forniti i medicinali e gli antibiotici per curarsi. Hanno subito soprusi, sorvegliate di continuo da uomini armati. L'intelligence spiega che le due ragazze erano nelle mani di banditi comuni e che Jahbat Al Nusra, il movimento vicino ad al Quaeda in Siria al quale era stato attribuito erroneamente il sequestro, avrebbe solo fornito soprattutto copertura politica, proprio perché quella parte di territorio a Nord della Siria è totalmente nelle loro mani. A sequestrarle, in realtà, sarebbero stati membri del Jaish al-Mujahideen, sigla che racchiude una decina di gruppi islamisti (alleati del Free Syrian Army, l' esercito siriano libero), una forza armata che combatte contro il governo di Bashar al-Assad. Poi sarebbero state "vendute" più volte, senza mai finire, fortunatamente, nelle mani dell' Isis, né in territori controllati da loro. Tutto quello che hanno passato resterà indelebile nella loro mente e nel loro cuore, ma oggi è il momento della gioia. All'alba Greta e Vanessa sono arrivate a Ciampino accolte dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che alle 13 riferirà sulla vicenda alla Camera. Poi sono state condotte all’ospedale militare del Celio per gli opportuni controlli medici. Più tardi saranno ascoltate in procura a Roma. Solo al termine della deposizione potranno tornare finalmente nelle loro città che ieri, dopo mesi di tensione e angoscia, alla notizia della loro liberazione sono esplose di gioia. "E' un momento di grande felicità - ha detto il fratello della ragazza, Matteo Ramelli -, speriamo che Greta possa tornare presto a casa. La Farnesina ha fatto un lavoro fantastico, e anche i nostri concittadini sono stati meravigliosi". Alcuni automobilisti, passando davanti alla casa di Greta a Gavirate, un paese affacciato sul lago di Varese, hanno suonato il clacson, in segno di giubilo per la liberazione. E ieri sera il parroco del paese, don Piero Visconti, ha voluto "ringraziare il Signore" durante in momento di preghiera nell'oratorio di Gavirate. "Se tutti i giovani sapessero rischiare come ha fatto Greta - spiega - il mondo sarebbe un posto migliore. Spero che il suo esempio possa sostenere anche le tante altre persone che vogliono vivere donando amore agli altri". Il sindaco del paese, Silvana Alberio, ha incontrato i genitori, per esprimere la vicinanza di tutta la comunità. "Siamo felicissimi - racconta la madre di Greta - non vediamo l'ora di riabbracciarla". Altrettanta gioia è stata espressa dai familiari di Vanessa. "E' una grande gioia - dice emozionato Salvatore Marzullo, il papà che lavora in un ristorante di Verdello, il paese dove da qualche tempo vive appunto con la figlia. Appresa la notizia è scoppiato in lacrime. Dopo "un'angoscia unica", è arrivata "una gioia immensa che aspettavamo da mesi e che non si può descrivere", ha aggiunto. Momenti di sfiducia? "No - ha risposto - c'era preoccupazione e tristezza, ma abbiamo avuto sempre fiducia nel risultato. La Farnesina ci rassicurava sempre, devo ringraziare loro che sono riusciti a farci restare sempre ottimisti". "Quando la vedrò - ha concluso - le darò un grande abbraccio. Portiamola a casa e poi ci saranno tante cose da dirle".

Greta e Vanessa liberate in Siria, il retroscena sulla trattativa: i banditi, Al Nusra, il riscatto milionario, scrive “Libero Quotidiano”. La trattativa per liberare e riportare in Italia Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le giovani cooperanti lombarde rapite in Siria lo scorso 31 luglio e atterrate nella notte tra giovedì e venerdì a Ciampino, accolte dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Nonostante la smentita dell'intelligence italiana, tutte le ricostruzioni non escludono l'ipotesi di un riscatto di 12 milioni di dollari pagato dalle nostre autorità ai rapitori, anzi. Innanzitutto, però, occorre fare chiarezza su chi siano i "rapitori". "Banditi verniciati da islamisti": così li avrebbero etichettati i servizi italiani che hanno lavorato al caso di Greta e Vanessa. Di sicuro, non erano né dello Stato islamico né della fazione jihadista rivale, Al Nusra. A dare supporto logistico a questa banda più o meno improvvisata sarebbero stati i ribelli anti-Assad del Syrian Free Party, l'esercito libero siriano. Attraverso mediatori vicini ai ribelli "buoni" siriani Farnesina e intelligence hanno cercato per mesi un canale per risolvere positivamente la vicenda. A dicembre, però, improvvisamente si complica tutto. Tra 23 e 31, riporta Repubblica, a inizio mese secondo il Corriere della Sera, vengono meno i contatti. Poi, la sera di Capodanno, spunta in rete il video delle due italiane vestite di nero dal covo dei rapitori. Sarebbe stato un segnale al governo italiano: per liberare Greta e Vanessa servono soldi, più di quanti ipotizzati. La posta, insomma, si è alzata e il perché si scopre presto: sarebbero cambiati i mediatori. I rapitori si sarebbero infatti avvicinati ad Al Nusra, i "rivali" dell'Is che qualcuno, in maniera molto ottimistica, definisce "meno feroci" dei tagliagole del Califfato. L'unica differenza in realtà è che se questi ultimi i prigionieri li sgozzano in diretta video, i primi preferiscono venderli per fare soldi, molti soldi. Che servono ad acquistare armi, addestrare milizie (anche kamikaze), corrompere governi ed eserciti. Insomma, alimentare l'industria del terrore. Al Nusra fa pubblicare quel video, la notte del 31 dicembre, contro la volontà dei servizi italiani. Seguono giorni frenetici, fino agli attentati di Parigi che emotivamente potrebbero portare il governo di Roma a pagare ancora di più per non avere sulla coscienza la morte atroce di due ragazze. I jihadisti lo sanno, e alzano la posta. L'Italia chiede un'altra prova che le rapite siano vive e gli uomini di Al Nusra girano un secondo video, questa volta riservato e non pubblicato sul web. E' il segnale: Greta e Vanessa stanno bene e si possono liberare. A che prezzo, forse non lo si scoprirà. Lo scrittore Erri De Luca, che già in passato ha espresso posizioni controverse sulla questione della linea Alta velocità Torino-Lione, ha commentato la liberazione dal suo account twitter. "Se è stato pagato un riscatto - ha scritto -, per una volta sono stati spesi bene i soldi pubblici". A tal proposito, il leader della Lega Matteo Salvini ha affermato: "La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia ma l'eventuale pagamento di un riscatto che permetterebbe ai terroristi islamici di uccidere ancora sarebbe una vergogna per l'Italia". Come dire: i terroristi islamici si finanziano anche con questi riscatti.

Vanessa e Greta, samaritane innamorate del kalashnikov. Sui loro profili Facebook frasi pesanti e immagini forti. E amicizie con combattenti che posano con i cadaveri, scrive Fausto Biloslavo su “Il Giornale”. Fotomontaggi con il kalashnikov avvolto dai fiori, l'appello per salvare un barcone di clandestini, insulti alle Nazioni Unite e amici combattenti in Siria sono le tracce lasciate su Facebook di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli prima di sparire. Non proprio profili di buone samaritane, ma piuttosto di attiviste che appoggiano la lotta armata contro il regime di Damasco. Peccato che proprio fra i loro amici combattenti si annidino i presunti rapitori pronti a lucrare sulle due ragazze prese in ostaggio. Adesso che è apparsa la «prova in vita», ovvero il primo video delle due sequestrate, raccontiamo chi sono Vanessa e Greta attraverso le loro stesse parole o immagini postate in tempi non sospetti. Marzullo pubblica sul suo profilo la foto di un gruppo di soldatini di plastica. In mezzo c'è una ballerina dipinta di rosa, che imbraccia un fucile mitragliatore. Il primo ottobre 2013, un certo Ahmad Lion of Islam scrive in inglese: «Carina. Così adesso vieni a combattere con noi eroina. In qualsiasi momento sei la benvenuta». Un altro post mostra il fotomontaggio di un kalashnikov avvolto dai fiori ed il 24 luglio 2013 Vanessa si rivolge al presidente siriano, Bashar al Assad, con una frase che lo invita a darsi fuoco, dopo aver bruciato tutto nel suo Paese. Il primo aprile non ha dubbi e scrive: «Assad non è siriano, non è musulmano, non è laico (…). Assad non è neppure umano». L'8 febbraio, posta un inequivocabile «Onu di merda. Posso descrivere solo così il mio stato d'animo in questo momento». La deriva a favore dei ribelli siriani è evidente anche dalle risposte ad uno strano questionario in inglese che chiede cosa bisognerebbe fare in Siria? La prima risposta è «armare l'Esercito libero siriano». I giornalisti come Monica Maggioni, direttore di Rai news 24 che osa intervistare Assad, vengono insultati e sbeffeggiati. Il pensiero a senso unico delle due ragazze in ostaggio in Siria risulta evidente dalle immagini postate su Facebook. Un cartello del novembre 2012 è rivolto all'Occidente con la seguente scritta in inglese: «Allah o Akbar è un grido di vittoria. Nessun panico». Oppure un diretto «Cari Onu…Usa…Nato Vi odio». Il 3 giugno Vanessa lancia un appello «urgente» salva clandestini di Nawal Syriahorra, che chiede a «siriani/arabofoni di contattare» un telefono satellitare «presente sull'imbarcazione di cui ha parlato in questi giorni, con almeno 450 persone a bordo abbandonate al mare. Chiamare sperando che qualcuno risponda e chiedere: sono tutti vivi? c'è gente in acqua? la donna ha partorito? sono stati raggiunti da italiani o maltesi? Al più presto!». Il vero cognome di Nawal potrebbe essere Sofi, una fervente attivista della fallita primavera araba di Damasco di origine marocchina, che favorirebbe l'arrivo dei profughi siriani in Italia. La pasionaria partecipava alle stesse manifestazioni dove è stato fotografato Hassam Saqan, che in Siria si è fatto immortalare in un video di brutale esecuzione di soldati governativi prigionieri dei ribelli. Vanessa su Facebook ha postato una frase in italiano non perfetto scritta su un muro e firmata da Nawal Sofi: «Qui in Siria unico terrorista Bashar el Assad 15/3/2013 Mc- Italy».Greta Ramelli non è da meno come amicizie in rete con combattenti in Siria. Le piace molto una foto con dei miliziani in mimetica nella zona di Idlib, dove probabilmente le due ragazze sono trattenute in ostaggio. La didascalia non è proprio un esempio di pacifismo: «La bellezza e la forza sconvolgente della natura: tanto è stato il sangue versato che ora al suo posto spuntano dei meravigliosi fiori rossi». Abu Wessam, un giovane ribelle mascherato, amico in rete di Greta, posta le foto delle due ragazze in piazza Duomo a Milano con la bandiera dell'Esercito siriano libero. Su Facebook l'amico più importante dell'attivista «umanitaria» è Mohammad Eissa, il comandante delle Brigate dei martiri di Idlib, che in rete si fa fotografare davanti a una dozzina di corpi di nemici uccisi. Il gruppo islamista ha avuto rapporti altalenanti con l'Esercito libero, formazione laica e filoccidentale della guerriglia, ma pure con Al Nusra, la costola di Al Qaida in Siria, che rivendica il rapimento. Probabilmente il barbuto comandante aveva garantito protezione anche nei viaggi precedenti in Siria alle due ragazze innamorate della rivolta siriana. Questa volta qualcosa è andato storto e gli «amici» ribelli di Vanessa e Greta si sono trasformati in carnefici, o almeno così sembra.

Greta e Vanessa, il giornalista del Foglio: "Non mi trovavo con loro". Daniele Raineri scrive che, quando avvenne il sequestro delle due italiane, era ad alcuni chilometri di distanza. "Cercavano anche me", scrive Lucio Di Marzo su “Il Giornale”. C'era anche Daniele Raineri con Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, la sera che le due italiane sono state rapite in Siria? Questo si è detto dal giorno del loro sequestro, sostenendo che l'inviato del Foglio fosse riuscito a fuggire dall'abitazione dove si trovavano tutti e tre, mentre le due volontarie venivano catturate. Una storia su cui oggi ha detto la sua anche il diretto interessato, che in un articolo pubblicato sul quotidiano di Giuliano Ferrara sostiene invece che no, quella notte non si trovava con le due ragazze italiane. "Ero a circa venticinque chilometri dalla casa dov'erano loro", scrive Raineri. In una casa di campagna, usata come base dai ribelli, "a sud di Aleppo". La versione del giornalista sembra dunque smentire uno dei dettagli legati al sequestro, spiegando che nell'abitazione ("Il capo della casa era un ex soldato delle forze speciali di Assad") ci è rimasto fino al mattino alle cinque. Poi alcuni colpi alla porta e la notizia, portata da due siriani, del sequestro di Greta e Vanessa, per mano di un gruppo che in quel momento non si riesce a identificare. Forse - prova a ricostruire il Fatto Quotidiano, grazie ad alcuni documenti del Ros - sono "rimaste vittime proprio di quelli che volevano soccorrere", se è vero che il loro progetto era anche in funzione di supporto a quell'Esercito libero composto da gruppi che l'Occidente ha spesso identificato come moderati.

Greta e Vanessa, due ingenue o due fiancheggiatrici del terrorismo? Si chiede Milano Post. Greta e Vanessa, due ragazze ventenni, lombarde volontarie del Progetto Horryaty, una Onlus fondata da Roberto Andervill poche settimane prima del presunto rapimento delle due cooperanti. Progetto Horryaty opera in maniera del tutto svincolata dalle varie Ong presenti in territorio siriano e, stando alle dichiarazioni ufficiali dei responsabili della Onlus, in Italia si occupano di raccolta fondi e sensibilizzazione, in Turchia comprano gli aiuti, teoricamente materiale sanitario, che vengono poi distribuiti in zone diverse della Siria. Questo ufficialmente, scavando e cercando la verità troviamo un Roberto Andervill nel cui profilo Facebook, al momento chiuso, si leggevano frasi di odio verso i presidenti delle Comunità Ebraiche italiane, contro Magdi Allam e, giusto per non deludere la sua sinistra ideologia, messaggi di pace (eterna) verso gli Ebrei. Detto questo passiamo direttamente ad osservare Greta e Vanessa e vi siete mai chiesti cosa c’è scritto sul cartello che reggono in quella famosa foto in cui vengono ritratte avvolte dalla bandiera siriana in Piazza Duomo?

Sveliamo l’arcano, il quel cartello c’è scritto:” Agli eroi di Liwa Shuhada grazie per l’ospitalità e se D-o vuole vediamo la città di Idlib libera quando ritorneremo”. Chi sono gli eroi di Liwa Shuhada? Presto detto: Liwa Shuhada Al-Islam, in italiano Brigata dei martiri dell’Islam, è un’organizzazione, secondo i maggiori esperti di terrorismo internazionale, terroristica di stampo jihadista, molto vicina al Fronte Al-Nusra, il nome di Al-Qaeda in Siria per intenderci, e responsabile di numerosi attentati a Damasco. Inoltre, stando alle ultime indiscrezioni, pare, dalle varie intercettazioni in mano ai R.O.S., che le due ragazze avesse già intessuto da tempo rapporti con cellule del fronte anti-Assad, in Italia, cellule che oggi chiamiamo “foreign fighters” e che in Francia hanno seminato morte e terrore pochi giorni fa. Quindi ho forti dubbi che si trattasse di due ventenni ingenue e sprovvedute, considerato che erano già state in Siria, che avevano già dato aiuti ai “guerriglieri” e che si stavano recando ancora in Siria per distribuire kit di pronto soccorso ai membri della Brigata dei Martiri dell’Islam, probabilmente gli stessi che le hanno “rapite”, o sarebbe meglio dire nascoste da occhi indiscreti, messe all’ingrasso per poi richiedere il solito riscatto per la “liberazione” dei presunti ostaggi. Certo però che rispetto alle due Simone, in Iraq, e della Sgrena, Greta e Vanessa sono state decisamente più “professionali”. Mentre le prime hanno fruttato alla causa del terrorismo “solo” undici milioni di dollari (5 per le due cooperanti e 6 per la Sgrena), Greta e Vanessa hanno da sole fatto regalare ai terroristi ben 12 milioni di dollari, anche se negati dal ministro degli Esteri Gentiloni, si sa che Italia, Francia, Germania e Spagna preferiscono pagare. “Non c’è nulla per cui si debba chiedere scusa” queste le parole del padre di Vanessa. Eh no caro signore, c’è invece da chiedere scusa. Sua figlia e la sua amica devono chiedere scusa ai cittadini italiani, visto che i soldi pagati per “liberarle” da una prigionia a pane e kebab, provengono dalle tasse che egli italiani pagano. Devono porgere le loro scuse, implorando il perdono, a tutte quelle famiglie che perderanno un loro caro ed a tutte le innocenti vittime che quei 12 milioni di dollari, regalati al terrorismo islamico, causeranno in Medio Oriente o in Europa.

Vanessa e Greta, cosa non torna nella loro storia: le quattro accuse di Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Il governo si è dato da fare per smentire di aver pagato un riscatto in cambio della liberazione di Vanessa e Greta. «Solo illazioni» ha dichiarato il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, il quale subito dopo ha però aggiunto che nel caso delle due cooperanti italiane l’esecutivo si è comportato come i precedenti (che infatti pagavano), precisando che per Palazzo Chigi e dintorni dà la priorità al salvataggio di vite umane (tradotto: pazienza se ci sono costate 12 milioni, tanto sono soldi dei contribuenti). Con il rientro delle due ragazze e le rassicurazioni del ministro si vorrebbe così chiudere la faccenda, mettendo una pietra sopra l’imbarazzante trattativa con i terroristi. Si dà il caso che però la vicenda sia tutt’altro che archiviabile ma necessiti di ulteriori approfondimenti, soprattutto dopo la rivelazione di una serie di antefatti. Ieri in un articolo del Fatto quotidiano si dava conto dell’esistenza di una informativa dei Ros sulla missione siriana di Vanessa e Greta. Non un rapporto compilato dopo la sparizione delle due ragazze, ma una nota predisposta prima della partenza. Quanto prima? Leggendo l’articolo non è dato sapere, ma si capisce che la relazione del reparto operativo dei carabinieri risale al periodo in cui le due giovani lombarde stavano organizzando il viaggio. Vi state chiedendo perché l’Arma si occupasse di due esponenti di un’organizzazione non governativa intenzionate a partire per la Siria? Perché le due entrano in contatto con un pizzaiolo emiliano che i Cc tengono d’occhio ritenendolo un militante islamico. Così, per caso, intercettano Vanessa e Greta che si mettono d’accordo con il tipo e a lui raccontano nel seguente ordine due cose: di voler partire per la Siria per consegnare kit di pronto soccorso alla popolazione civile ma anche ai combattenti islamici, così che gli oppositori al regime di Assad possano curarsi in caso di ferite. Secondo, Greta in una conversazione spiega di godere di una specie di lasciapassare, in quanto sostenitrice della rivoluzione e protetta dall’Esercito Libero. La ragazza non dice al telefono di essere in contatto con gente dello stato islamico, anzi, assicura che quelli dell’Esercito Libero non impongono neppure il velo alle donne. Come è finita si sa, con un sequestro che le ha consegnate nelle mani di una banda vicina ad Al Qaeda, cioè l’organizzazione che poi l’avrebbe rapita. Nell’articolo si fa cenno anche a un universitario in collegamento con i ribelli ed anche ad un medico. Risultato: leggendo il Fatto si apprendono le seguenti informazioni. La prima, forse scontata ma fino a ieri non molto documentata, è che sul territorio italiano operano dei militanti che inviano denaro e aiuti ai combattenti islamici. Due: Vanessa e Greta non sono partite per la Siria per andare ad aiutare i bambini, per lo meno non solo: in Siria sono andate per consegnare kit di pronto soccorso ai miliziani, che se non è un aiuto a chi combatte poco ci manca. Tre: le giovani appoggiavano la rivoluzione e consegnando i medicinali volevano contribuire materialmente a sostenerla. Quattro: se sono finite nelle mani di tagliagole che le hanno rapite e segregate per più di cinque mesi, liberandole solo in cambio di un riscatto multimilionario, è perché qualcuno dei loro amici le ha tradite. Ne consegue che i carabinieri sapevano tutto, del viaggio e anche dei contatti con i militanti islamici, ma nessuno ha fatto niente, lasciando partire le ragazze e dunque facendole finire nelle mani dei rapitori. Non solo: qualcuno in Italia si dà addirittura da fare per agevolare la partenza e poi forse per agevolare anche il sequestro, così che la fiorente industria dei rapimenti ad opera dei militanti islamici possa prosperare e soprattutto finanziare la guerriglia e il terrorismo. Infine, come spiegava ieri il nostro Francesco Borgonovo, risulta evidente da questo rapporto che molte delle organizzazioni non governative in apparenza dicono di voler aiutare chi soffre, ma nella sostanza hanno rapporti poco trasparenti con chi combatte. Altro che ragazzine finite in un gioco più grande di loro. Greta e Vanessa pensavano di fare la rivoluzione e invece sono finite in una prigione dalle parti di Aleppo, perché la rivoluzione non è un pranzo di gala e se poi è islamica si va a pranzo con il boia. Risultato: la faccenda è tutt’altro che chiusa e il governo non può pensare di cavarsela con l’intervento reticente del ministro Gentiloni. Essendoci di mezzo la sicurezza nazionale (la gente che aiuta i combattenti l’abbiamo in casa) e soprattutto i soldi dei contribuenti vorremmo andare fino in fondo. E state sicuri che per quanto ci riguarda faremo di tutto per farlo.

Crolla l'alibi pacifista. Ecco tutte le prove delle amicizie jihadiste. Altro che pacifiste: i kit di pronto soccorso portati in Siria somigliano più a quelli militari. Ed erano destinati a gruppi di combattimento, scrive Gian Micalessin su “Il Giornale”. Il ministro Paolo Gentiloni, protagonista in Parlamento di una difesa a spada tratta di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, avrebbe fatto meglio a consultarsi prima con i carabinieri del Ros. Carabinieri che, magari, avrebbero potuto mostrare pure a lui le intercettazioni delle telefonate, pubblicate da Il Fatto Quotidiano , tra le due suffragette lombarde e alcuni fiancheggiatori dei gruppi jihadisti siriani. Telefonate assai scomode e imbarazzanti. Telefonate da cui emerge con chiarezza come le due ragazzine non ambissero al ruolo di crocerossine neutrali, ma piuttosto a quello di militanti schierate e convinte. Militanti tradite dai propri stessi «amichetti» e riportate a casa solo grazie al trasferimento nella cassaforte della formazione al qaidista di Jabat Al Nusra, o di qualche altro gruppetto jihadista, di una decina di milioni di euro sottratti ai cittadini italiani. Milioni con cui i fanatici siriani, o quelli europei passati per le loro fila, potrebbero ora organizzare qualche atto di terrorismo in Italia o altrove nel Vecchio Continente.

Che Greta e Vanessa progettassero di mettere in piedi qualcosa di diverso da una normale organizzazione umanitaria, Il Giornale lo aveva intuito subito dopo il sequestro. Esaminando su Facebook le gallerie fotografiche di «Horryaty» - l'associazione creata assieme al 46enne fabbro di Varese Roberto Andervill - quel che più saltava agli occhi era l'aspetto chiaramente «militare» dei «kit di pronto soccorso» distribuiti da Greta e Vanessa in Siria. I kit, contenuti in tascapane mimetici indossabili a tracolla, assomigliavano più a quelli in dotazione a militanti armati o guerriglieri che non a quelli utilizzati da infermieri o personale paramedico civile. Anche perché la prima attenzione di medici e infermieri indipendenti impegnati sui fronti di guerra non è quella di mimetizzarsi ma piuttosto di venir facilmente identificati come personaggi neutrali, non coinvolti con le parti in conflitto. Un concetto assolutamente estraneo a Greta Vanessa. Nelle telefonate scambiate prima di partire con Mohammed Yaser Tayeb - un 47enne siriano trasferitosi ad Anzola in provincia di Bologna ed identificato nelle intercettazioni del Ros come un militante islamista - Greta Ramelli spiega esplicitamente di voler «offrire supporto al Free Syrian Army», la sigla (Esercito Libero Siriano) che riunisce le formazioni jihadiste non legate al gruppo alaaidista di Jabat Al Nusra o allo Stato Islamico. L'acquisto dei kit di pronto soccorso mimetici da parte di Greta e Vanessa è documentato dalle ricevute pubblicate sul sito di Horryaty il 12 maggio di quest'anno, subito dopo la prima trasferta siriana delle due «cooperanti». La ricevuta, intestata a Vanessa Marzullo, certifica l'acquisto in Turchia di 45 kit al costo di 720 lire turche corrispondenti al cambio dell'epoca a circa 246 euro. La parte più interessante è però la spiegazione sull'utilizzo di quei kit. Nel rapporto pubblicato su Horryaty, Greta e Vanessa riferiscono con precisione dove hanno spedito o portato latte, alimenti per bambini, medicine e ogni altro genere di conforto non «sospetto». Quando devono spiegare dove sono finiti quei tascapane mimetici annotano solo l'iniziale «B.» facendo intendere di parlare di un avamposto militare dei gruppi armati il cui nome completo non è divulgabile per ragioni di sicurezza. Nelle telefonate con l'«amichetto» Tayeb registrate dai Ros, Greta Ramelli si spinge invece più in là. In quelle chiacchierate Greta spiega che i kit verranno distribuiti «a gruppi di combattimento composti solitamente da 14 persone». Spiegazione plausibile e circostanziata visto che in ambito militare una squadra combattente, dotata di uno specialista para-medico, conta per l'appunto dalle 12 alle 15 unità. L'elemento più inquietante, annotato dai Carabinieri del Ros a margine delle intercettazioni, sono però i contatti tra l'«amichetto» Tayeb e Maher Alhamdoosh, un militante siriano iscritto all'Università di Bologna e residente a Casalecchio del Reno. Con Maher Alhamdoosh s'erano coordinati - guarda un po' il caso e la sfortuna - anche Amedeo Ricucci, Elio Colavolpe, Andrea Vignali e Susan Dabous, i giornalisti italiani protagonisti nella primavera 2013 di un reportage in Siria conclusosi anche in quel caso con un bel sequestro. Un sequestro seguito da immancabile ed esoso riscatto pagato, anche allora, dai generosi contribuenti italiani. Quel silenzio su Giovanni Lo Porto rapito tre anni fa in Pakistan. Il cooperante palermitano sparito il 19 gennaio 2012 durante una missione per conto della ong tedesca Welt Hunger Hilfe, scrive Gianluca Mercuri su “Il Corriere della Sera”. Oggi 19 gennaio 2015 sono tre anni che Giovanni Lo Porto è sparito. Era arrivato da tre giorni in Pakistan per fare il suo lavoro - ridare alloggi alle popolazioni colpite dall’alluvione del 2010 - per conto della ong tedesca Welt Hunger Hilfe. Il 19 gennaio 2012 l’hanno rapito insieme al collega Bernd Muehlenbeck, che lo scorso ottobre è stato liberato dalle forze speciali di Berlino: si sa che non era più insieme a Giovanni da un anno e nulla di più. Intorno al cooperante palermitano, un silenzio che ha oscillato tra la prudenza d’obbligo e la reticenza pelosa. Il governo chiede il basso profilo, parenti e amici non ci stanno e lanciano appelli che raccolgono migliaia di adesioni. Un segnale è arrivato finalmente dal ministro degli Esteri, che rispondendo venerdì in Parlamento su Greta e Vanessa ha ricordato sia padre Dall’Oglio sia Giovanni, «due vicende alle quali lavoriamo con discrezione giorno per giorno». Lo Porto ha un profilo inattaccabile perfino dagli sciacalli del web: 40 anni, studi solidi tra Londra e Giappone, esperienze sul campo in Croazia, Haiti e anni prima nello stesso Pakistan, dove nel 2012 era tornato con un progetto finanziato dall’Ue. Insomma, tutto fuorché un avventuriero. Gentiloni va preso alla lettera, fino a prova contraria: l’Italia non lascia indietro nessuno dei suoi cittadini e per nessuno lesina mezzi. Tre anni dopo, è il minimo che si deve a Giovanni Lo Porto.

Greta e Vanessa tradite da chi volevano aiutare, scrive “Libero Quotidiano”. Greta e Vanessa sarebbero state rapite proprio da chi volevano aiutare. Le due ragazze infatti, riporta il Fatto, erano partite per la Siria non per aiutare i civili, le vittime della guerra, ma per sostenere i combattenti islamici anti-Assad con kit di salvataggio. E' il retroscena sul sequestro delle due volontarie che si legge in alcune informative del Ros dove vengono riportate alcune intercettazioni di aprile tra Greta Ramelli - che stava organizzando il suo viaggio in Medioriente - e un siriano di Aleppo di 47 anni, Mohammed Yaser Tayeb, pizzaiolo di Anzolo in Emilia, che gli investigatori considerano un militante islamista legato ad altri siriani impegnati in "attività di supporto a gruppi di combattenti operativi in Siria a fianco di milizie contraddistinte da ideologie jihadiste". In sostanza il progetto delle due cooperanti era "rivolto a offrire supporto al Free Syrian Army ora supportato dall'occidente in funzione anti Isis ma anch'esso composto da frange di combattenti islamisti alcuni dei quali vicini ad Al Qaeda", a sostenere "un lavoro in favore della rivoluzione", e non a dare un aiuto neutrale. Si legge nell'informativa una telefonata tra Greta e Mohammed Yasser Tayeb così sintetizzata: "Greta precisa  che un primo corso si terrà in Siria con un operatore che illustrerà ai frequentatori (circa 150 persone tra civili e militari) i componenti del kit di primo soccorso e il loro utilizzo. la donna dice che ha concordato con il leader della zona di Astargi di consegnare loro i kit e cje a loro volta li distribuiranno ai gruppi di combattenti composti da 14 persone in modo che almeno uno degli appartenenti a questi gruppi fosse dotato del kit e avesse partecipato al corso". Tayeb secondo gli investigatori si attivò concretamente per aiutarle e le mise in contatto con un altro siriano residente a Budrio, Nabil Almreden, nato a Damasco, medico chirurgo in pensione. Tayeb gli chiede di inviare in siria una lettera di raccomandazione per Vanessa, "verosimilmente - annota il ros - un accredito presso una non meglio istituzione all'interno del territorio siriano".

Greta Ramelli e Vanessa Marzullo sono libere. Incassato con sollievo l'annuncio di Palazzo Chigi, con le due giovani cooperanti italiane rapite in Siria lo scorso 31 luglio e già di ritorno in Italia, il mondo politico e non solo già si divide, perché in ballo ci sono 12 milioni di dollari, scrive “Libero Quotidiano”. Quelli che secondo i ribelli siriani sarebbero stati pagati per la liberazione delle italiane, notizia che i nostri servizi hanno smentito seccamente. "Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il governo avesse pagato un riscatto di 12 milioni, sarebbe uno schifo!", ha incalzato il segretario della Lega Nord Matteo Salvini. E c'è chi come il capogruppo di Forza Italia alla Regione Emilia Romagna, Galeazzo Bignami, arriva a chiedere un "contrappasso" per le giovani volontarie temerarie: "Adesso le due tipe si mettano a lavorare gratis fino a quando non ripagheranno all'Italia quanto noi abbiamo dovuto versare, in nome della loro amicizia, ai ribelli siriani". "Sono state liberate immagino dietro pagamento di lauta ricompensa ai ribelli siriani - scrive Bignami su Facebook -. Ora che sono libere penso si possa dire con chiarezza che di chiaro in questa storia non c'è nulla. A partire dal fatto che questo sequestro pare proprio un gran favore fatto dalle loro amiche ai ribelli". Sui social network e sui siti, il commento di molti utenti è critico. E anche tra i lettori di Liberoquotidiano.it l'umore non è di sola soddisfazione per la liberazione delle due giovani. E' tutto il centrodestra ha porre la questione al governo. Secondo Mariastella Gelmini di Forza Italia, è "doveroso chiederci se un eventuale riscatto pagato a dei terroristi non sia una fonte di finanziamento per portare la morte in Europa e altrove. Non vorrei che l'Occidente finisse vittima di un corto circuito provocato dai terroristi che dispensano la morte e la vita a secondo delle convenienze". Se la Gelmini chiede spiegazioni al ministro degli Esteri Paolo Gentoloni ("Lui e il governo faranno bene a chiarire rapidamente la vicenda in tutti i suoi aspetti rilevanti"), sulla stessa linea si pone Massimo Corsaro di Fratelli d'Italia: Greta e Vanessa "hanno esposto loro stesse e l'intero Stato italiano a una situazione di rischio e difficoltà coscientemente con la loro volontaria presenza in un Paese in gravi condizioni e una pesante presenza del terrorismo, il ministro Boschi ci dica se è in grado di escludere che da qualunque fonte di finanziamento pubblico sia stato un centesimo per riportare le due ragazze a casa".

"Pagato riscatto da 12 milioni" Quante armi compreranno? Giallo sui soldi, un tweet dei rapitori fa scoppiare la polemica Dal 2004 a oggi abbiamo versato già 61 milioni ai terroristi, spiega Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Non possiamo che gioire per la liberazione di Vanessa Marzullo e di Greta Ramelli, le quali, dopo essere state quasi sei mesi nelle mani dei tagliagole jihadisti, potranno oggi finalmente riabbracciare le loro famiglie. Fatta questa doverosa premessa, non possiamo esimerci dall'esprimere un senso di vergogna e di disapprovazione per le modalità con cui il governo ha risolto la questione. È vero che siamo da anni abituati a pagare riscatti a talebani, pirati e terroristi per riportare a casa chi si avventura in zone altamente pericolose, ma averlo fatto consapevoli di foraggiare l'industria dei sequestri è perlomeno riprovevole. «Dodici milioni di dollari» proclamano i rapitori del Fronte Al Nusra, cioè circa dieci milioni di euro per riempire le casse del gruppo qaedista siriano, che fa dei sequestri una delle sue principali fonti di finanziamento per procurarsi armi e reclutare combattenti. C'è poco da scherzare o da sorridere. Secondo una stima fatta dal New York Times , Al Qaeda e i gruppi affiliati avrebbero incassato negli ultimi cinque anni almeno 125 milioni di dollari, versato in gran parte dai governi europei. I riscatti pagati dalla sola Italia dal 2004 a oggi a vari gruppi combattenti, ammontano a 61 milioni di euro. Un'industria fiorente, con un fatturato considerevole, alimentato proprio dai quei Paesi disposti e abituati a sborsare denaro per soddisfare le richieste dei terroristi. Quali clienti migliori per i piccoli eredi di Osama bin Laden. E l'Italia è un obiettivo «privilegiato». E pensare che Amedy Coulibaly, il terrorista islamico protagonista della strage nel supermercato ebraico di Parigi, aveva chiesto un mutuo di poco più di 30mila euro per finanziare la sua azione e quella dei fratelli Kouachi nella redazione di Charlie Hebdo. Fate una semplice calcolo di quanti Coulibaly si potrebbero mettere in pista con i dieci milioni di euro pagati dal nostro governo…. Inevitabili quindi, le proteste e le polemiche scaturite subito dopo l'annuncio del pagamento di un riscatto per liberare Vanessa e Greta. Lega, Fdi e Forza Italia hanno subito chiesto chiarimenti in Parlamento. «La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia - ha detto il leader del Carroccio Matteo Salvini -. Ma l'eventuale pagamento di un riscatto, che permetterebbe ai terroristi di uccidere ancora, sarebbe una vergogna per l'Italia». La Lega presenterà un'interrogazione al ministro degli Esteri proprio «per appurare se sia stato pagato un solo euro per le due signorine». «Un fatto assai grave - gli ha fatto eco il deputato leghista Molteni -. Il primo pensiero va alle famiglie. Va detto però che noi non abbiamo mai condiviso né giustificato le motivazioni della loro missione pseudomondialista». Chiede chiarezza anche Mariastella Gelmini, vicecapogruppo alla Camera di Forza Italia. «Quando si riconquista la libertà e la vita, ogni persona ragionevole non può che esultare - ha affermato - Adesso, con altrettanta ragionevolezza, il governo e il ministro degli Esteri devono riferire sulle modalità di questa liberazione».

Ora li paghiamo pure per farci mettere il velo. Il governo deve riportarle a casa. Ma ci costerà milioni e così finanzieremo i terroristi. Vietiamo alle Ong di andare in quei posti, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Tranne improbabili e comunque non auspicabili colpi di scena, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo rientreranno presto in Italia. Le trattative volgono alla fine e concernono esclusivamente, così come è stato sin dall'inizio del loro singolare sequestro lo scorso 31 luglio, l'entità della cifra da pagare. Le due ragazze erano simpatizzanti degli stessi gruppi islamici che le avrebbero sequestrate. In un cartello in arabo con cui si sono fatte immortalare nel corso di una manifestazione svoltasi in Italia si legge: «Agli eroi della Brigata dei Martiri - Grazie dell'ospitalità - Se Allah vorrà presto Idlab sarà liberata - E noi ci torneremo». La «Brigata dei Martiri», in arabo Liwa Shuadha, è un gruppo di terroristi islamici il cui capo, Jamal Maarouf, ha ammesso di collaborare con Al Qaida. Comunque sia, nel caso degli ostaggi italiani detenuti dai terroristi islamici i riscatti si misurano in milioni di euro, per la precisione dai 5 milioni in su per i sequestri in Siria e Irak, «solo» un milione o poco più per i sequestri finora verificatisi in Libia. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico. Per avere un riferimento dell'entità della cifra da corrispondere ai terroristi islamici che detengono le due ragazze italiane, teniamo presente che l'ultimo ostaggio italo-svizzero, Federico Motka, sequestrato anche lui in Siria il 12 marzo 2013, è stato rilasciato il 26 maggio scorso dietro il pagamento di un riscatto di 6 milioni di euro. Nel video postato su YouTube Greta e Vanessa sono sostanzialmente tranquille, recitano un copione impartito loro, i loro sguardi s'incrociano con quelli dei carcerieri dietro la telecamera per assicurarsi di essere state diligenti. È un video diretto a noi cittadini italiani per prepararci psicologicamente ad abbracciare le due ragazze in cambio del pagamento di un lauto riscatto. Sostanzialmente diverso era il video del 2005 che ci mostrò Giuliana Sgrena disperata e in lacrime supplicando le autorità di intervenire per il suo rilascio. Ebbene quel drammatico messaggio era diretto al governo, forse inizialmente restio a sborsare la cifra richiesta tra i 6 e gli 8 milioni di euro. Saremo tutti contenti di riavere vive Greta e Vanessa. Però è ora di porre fine a queste tragiche farse il cui conto salatissimo paghiamo noi italiani. Il governo vieti alle nostre associazioni civili di operare nelle zone dove imperversano il terrorismo islamico o i conflitti armati. È ora di dire basta alle sedicenti associazioni «senza scopo di lucro» che lucrano con il denaro degli italiani, soldi pubblici e privati, per sostenere la causa dei nemici della nostra civiltà. E poi ci tocca pure pagare ingenti riscatti quando vengono sequestrati o si fanno sequestrare. Basta! 

Finché "mandiamo" ostaggi siamo più vulnerabili. Che cosa aspetta il nostro ministero degli Esteri a vietare tassativamente a tutti i cittadini italiani di recarsi nei Paesi dove imperversa il terrorismo? Continua Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Che cosa aspetta il nostro ministero degli Esteri a vietare tassativamente a tutti i cittadini italiani di recarsi nei Paesi dove imperversa il terrorismo islamico, a cominciare da Irak, Siria, Libia, Nigeria e Somalia? Nel caso specifico dell'Italia dobbiamo farlo sia perché avendo dato prova di essere un «buon pagatore», finiamo per alimentare le risorse finanziarie con cui i terroristi islamici accrescono i loro efferati crimini, sia perché le recenti decapitazioni di quattro ostaggi occidentali (due americani e due britannici) evidenziano che i terroristi islamici sono del tutto indifferenti al fatto che fossero degli «amici», solidali con i musulmani. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico. Con noi i terroristi islamici vanno sul sicuro: hanno la certezza che il governo italiano pagherà. Esattamente l'opposto della politica adottata dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. La prova: mentre l'italo-svizzero Federico Motka, sequestrato il 12 marzo 2013 insieme al britannico David Haines, entrambi operatori umanitari, è stato rilasciato il 26 maggio scorso dietro il pagamento di un riscatto di 6 milioni di euro, Haines è stato decapitato dai terroristi dell'Isis (Stato Islamico dell'Irak e del Levante) il 14 settembre scorso. Diciamo che probabilmente i terroristi islamici considerano più vantaggioso sfruttare gli ostaggi italiani per finanziare la loro guerra criminale, rispetto al tornaconto politico che potrebbero avere dalla reazione alla loro decapitazione prendendo realisticamente atto che l'Italia conta poco sulla scena internazionale. Eppure avrebbero dovuto ringraziare Haines per l'aiuto dato ai musulmani. Era stato ribattezzato lo «scozzese matto» per la sua estrema disponibilità e dedizione a favore dei bisognosi. Aiutava tutti, soprattutto i musulmani. Anche l'altro britannico, Alan Henning, decapitato lo scorso 3 ottobre, semplice autista di taxi di Eccles, vicino Manchester, era amico dei musulmani. Sua moglie Barbara aveva invano implorato i terroristi dell'Isis: «Alan è un uomo pacifico, altruista, che ha lasciato la sua famiglia e il suo lavoro per portare un convoglio di aiuti in Siria, per aiutare chi ha bisogno, insieme con i suoi colleghi musulmani e i suoi amici». Anche il giornalista americano James Foley, decapitato dai terroristi dell'Isis lo scorso 19 agosto, era un simpatizzante dei gruppi islamici che combattono il regime di Assad in Siria. La madre Diane, appresa la barbara esecuzione del figlio, ha detto: «Ringraziamo Jim per tutta la gioia che ci ha dato. È stato straordinario, come figlio, fratello, giornalista e persona, ha dato la propria vita cercando di mostrare al mondo le sofferenze del popolo siriano». Ugualmente il secondo giornalista americano, Steven Sotloff, decapitato lo scorso 3 settembre, era un ebreo affascinato dal mondo islamico. La madre Shirley si era rivolta direttamente al Califfo Abu Bakr Al-Baghdadi: «Steven è un giornalista che è venuto in Medio Oriente per raccontare la sofferenza dei musulmani nelle mani dei tiranni. È un uomo degno di lode e ha sempre aiutato i più deboli. Chiedo alla tua autorità di risparmiare la sua vita e seguire l'esempio del Profeta Maometto che ha protetto i musulmani». La prossima vittima preannunciata dei terroristi islamici, l'americano Peter Edward Kassig, di soli 26 anni, è anche lui un cooperante che ha fondato l'organizzazione umanitaria Special emergency response and assistance (Sera), addirittura convertito all'islam. Ebbene, nell'attesa che si ottenga la liberazione di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, cooperanti simpatizzanti dei terroristi islamici rapite lo scorso 31 luglio, e padre Paolo Dall'Oglio, anche lui filo-islamico, rapito il 29 luglio 2013, il governo vieti tassativamente i viaggi degli italiani in questi Paesi sia per porre fine alla vergogna dei riscatti pagati ai terroristi islamici sia per prevenire l'assassinio dei nostri connazionali.

Greta e Vanessa libere: il dilemma davanti alla loro generosità. Pagare i riscatti per i prigionieri dei jihadisti è sbagliato e ingiusto. Eppure davanti alle due ragazze ci dobbiamo interrogare sull'indicibile, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Questo articolo è stato scritto il 3 gennaio quando Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due amiche rapite in Siria, erano apparse in tv vestite di nero con il capo coperto. Lo riproponiamo oggi che le due giovani sono state liberate. Una riflessione su giudizi, generosità e difficoltà di decidere se e quando un riscatto va pagato. "Noi siamo Greta Ramelli e Vanessa Marzullo". Greta e Vanessa. Due amiche, unite dal desiderio di portare aiuto ai bambini in Siria. Ingenue, avventate, forse. Non giudichiamole. Ma noi non abbiamo il diritto di giudicarle. Mi urtano i (troppi) commenti che le dipingono in un linguaggio sprezzante come invasate manipolate e sprovvedute la cui prigionia crea un problema e pone un dilemma a chi deve gestirla (pagare o non pagare il riscatto? finanziare o no i rapitori? favorire o no con la trattativa altri sequestri?). Il capodanno e compleanno di Vanessa è stato terribile. Greta e Vanessa sono due giovani donne maggiorenni (il 31 dicembre Vanessa ha compiuto 22 anni, Greta ne ha uno di meno) che non fanno parte della schiera di chi non si cura degli altri, di chi bada solo a se stesso, di chi concepisce la propria esistenza fra routine e saltuari bagordi di fine settimana o fine anno. Il capodanno e compleanno di Vanessa è stato terribile. Ma è quella la strada che Vanessa, e con lei Greta, ha scelto. Voglio pensare che Vanessa e Greta fossero consapevoli di quel che facevano. Ma se anche non lo fossero state, credo nella verità dei loro intenti. Generosi. E coraggiosi. L'incoscienza che fa parte della vita. E se pure condivido il sospetto di molti, che non fossero del tutto lucide quando hanno valutato i rischi, credo che difficilmente si possano prevedere tutte le conseguenze di una decisione, nel momento della scelta. E, anzi, che una certa incoscienza faccia parte della vita, se la si vuole vivere. C’è chi ha parlato di plagio, insinuando una qualche adesione delle due giovani donne a un messaggio ideologico di chissà quale banda di predoni o gruppo islamico estremista che le tiene in ostaggio. Da quel video cosa si vede? Chi le guarda così, da lontano, da inesperto, le vede diversamente da come esemplarmente le ha viste (e ne ha scritto su “La Stampa”). Domenico Quirico, costretto pure lui da ostaggio, da “schiavo”, a registrare un messaggio. Dice Quirico che quel giorno lui era felice, perché il video era un modo per avvicinarsi alla famiglia e alla liberazione. Ma il commento si conclude con la distanza tra quelle immagini di Greta e Vanessa e la verità dell’avvicinamento, solo in quanto di nuovo visibili, alla loro vita di prima, alla famiglia. A se stesse. Ma da quel video si può solo dedurne il loro essere vive in quel momento. Gli anglosassoni non pagano riscatti. È una regola chiara. Un dovere forte. Sì, colpisce vedere la fotografia di Greta e Vanessa sorridenti, una accanto all’altra come lo sono nelle foto da amiche del cuore nei giorni di festa (e magari di protesta) e il fotogramma di quei 23 lunghissimi secondi in cui si ritrovano ancora vicine ma senza sorriso, vestite di nero col capo coperto, Greta che recita il messaggio rigorosamente a occhi bassi, Vanessa che mostra un foglietto ambiguo con una data non verificabile (il 17 dicembre) e per ben due volte alza gli occhi, prima subito riabbassandoli consapevole d’aver infranto una regola o commesso un’imprudenza, poi guardando di lato, quasi astraendosi dal messaggio, dal luogo e dall’ora, e assumendo un’espressione seria (ma da bambina, così simile a certe espressioni vaghe dei nostri figli, delle nostre figlie). Un dilemma terribile. Gli anglosassoni non pagano riscatti. È una regola chiara. Un dovere forte. Perché il riscatto finanzia il terrore. Perché pagando si incentiva il business dei rapimenti. Perché chi si vede pagata la liberazione ha la vita salva e gli altri, di altre nazionalità, no e questo non è giusto. E perché chi è adulto e affronta il pericolo deve anche esser pronto a subirne le conseguenze (il problema è di chi viene sequestrato, non del governo, soprattutto se non si ha indosso l’uniforme e non si svolge un ruolo istituzionale, da militare, ambasciatore, 007). E tuttavia, ci interroga la generosità di quelle giovani donne andate in Siria, credendoci. E mai come in questo caso si pone un dilemma terribile per chi è chiamato a fare di tutto per liberarle. C’è, qui, un fossato incolmabile tra il detto e l’indicibile.

5 motivi per cui non bisogna pagare riscatti. È bellissimo che Greta e Vanessa siano libere. Ma versare denaro ai sequestratori è sbagliato: condanna a morte altri ostaggi e indebolisce il paese, scrive Marco Ventura su “Panorama”. In Italia i rapimenti sono finiti grazie al blocco dei beni. Decisione terribile e a prima vista disumana. Ma giusta. Ma nel caso di Greta e Vanessa che sono tornate libere (ed è bellissimo che questo sia successo, che i genitori possano riabbracciarle, che siano vive), ci sono mille altre ragioni perché non accada mai più che venga pagato un riscatto. Ecco perché.

1 - Dare un tesoretto ai sequestratori. Che siano stati pagati 12 milioni, di meno, o di più, il punto è che le bande di sequestratori, che sono anche manipoli di guerriglieri nei teatri dell’avanzata islamista in Iraq e Siria, hanno oggi un tesoretto da investire in armi o in nuovi rapimenti. Esattamente come in Italia (in Sardegna, in Calabria) qualche decennio fa. Ricordate l’anonima sequestri?

2 - La condanna a morte degli altri ostaggi. Il pagamento del riscatto per gli ostaggi italiani condanna a morte gli ostaggi degli altri Paesi. Chi rifiuta categoricamente di trattare con i sequestratori (soprattutto se terroristi) vede sistematicamente i propri ostaggi uccisi, sgozzati, decapitati, mentre magari i loro compagni di “cella” vengono rilasciati a suon di quattrini. È giusto?

3 - Il presente costruisce il futuro. Il presente costruisce il futuro. Chi paga oggi, pagherà domani. E allora perché non continuare a rapire tutti gli sprovveduti/e italiani/e che mossi da sentimenti di generosità verso i sofferenti delle zone più sventurate del pianeta si tuffano a sprezzo del pericolo in tutte le avventure umanitarie? (Ovvio che qui si pone un serio problema di equilibrio tra volontariato e sicurezza: se lo pongono l’ONU e i grandi organismi internazionali, a maggior ragione dovrebbero porselo i singoli e le piccole associazioni fai-da-te).

4 - Chiudere la fabbrica degli ostaggi. L’ostaggio è sempre lo strumento di un ricatto. Un’arma. Lo Stato deve quindi porsi a sua volta la questione di come “chiudere” la fabbrica degli ostaggi. Può farlo sposando la tesi (che personalmente condivido) di Stati Uniti e Gran Bretagna, di dire in anticipo (e poi agire di conseguenza e coerentemente) che nessun riscatto sarà mai pagato. O lo si può fare cercando il più possibile di impedire che italiani si trovino nelle zone a rischio dove la probabilità di essere rapiti, date certe condizioni, è troppo alta.

5 - Sottomettersi o vincere. Perché uno Stato paga riscatti? Per mancanza di senso dello Stato dei suoi governanti. L’uccisione di un ostaggio, per un’opinione pubblica come quella italiana, è una sconfitta della quale ha colpa il governo, mentre la sua liberazione è una vittoria. Sbagliato. Qui gli errori sono due. Di chi ci governa, perché dimostra non saper essere leader. E di noi che non abbiamo la maturità nazionale dei Paesi anglosassoni che affrontano le guerre con lo spirito di chi vuol vincerle e non di chi si sottomette. 

In Italia i rapimenti sono finiti grazie al blocco dei beni. Decisione terribile e a prima vista disumana. Ma giusta. Ma nel caso di Greta e Vanessa che sono tornate libere (ed è bellissimo che questo sia successo, che i genitori possano riabbracciarle, che siano vive), ci sono mille altre ragioni perché non accada mai più che venga pagato un riscatto. Ecco perché.

Vanno allo sbaraglio e noi paghiamo. L'unico consiglio a chi sogna un soggiorno in Medioriente per aiutarne i popoli è questo: lasciate perdere, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. La vedova di Enzo Baldoni, ucciso dieci anni orsono in Irak da assassini islamici (la cui umanità è nota), in un'intervista rilasciata alcuni giorni fa alla Repubblica , afferma di non essersi dimenticata di me e di Renato Farina che, all'epoca dei fatti, fummo molto critici con il povero pubblicitario-pubblicista perché aveva deciso di trascorrere le ferie nel Paese di Saddam Hussein (con l'ambizione di redigere un reportage) anziché - poniamo - a Rimini, dove non avrebbe rischiato nulla. Comprendo lo stato d'animo della signora e il suo rancore nei nostri confronti, visto come si è tragicamente conclusa l'avventura in Medioriente di suo marito. Ovvio, davanti alla morte, anche se avvenuta in circostanze sulle quali si può discutere, è giusto che prevalgano le ragioni del cuore su quelle del cervello. Ora il problema incarnato da Baldoni si ripropone negli stessi termini: mi riferisco al rapimento avvenuto in Siria di due ragazze italiane (alcune settimane fa) che si sono recate in quelle terre infuocate nei panni di cooperatrici. La storia di queste fanciulle è analoga a quella delle famose due Simone, loro coetanee, che, in occasione della seconda guerra del Golfo, erano andate a Bagdad per aiutare non si sa bene chi, e furono sequestrate dalle solite teste calde imbevute di Corano. La loro vicenda terminò felicemente. Nel senso che i nostri servizi segreti si mossero abilmente, trattarono sul riscatto, lo pagarono con i soldi dello Stato italiano, e liberarono entrambe le scriteriate turiste. Meglio così. Poi fu la volta di Giuliana Sgrena, giornalista del Manifesto, anch'essa finita ostaggio degli islamici e scarcerata grazie al pagamento di una somma rilevante versata dall'Italia ai banditi. Ma sorvoliamo per non farla tanto lunga. Ciò che ci preme osservare è l'inutilità dell'esperienza. C'è gente che, nonostante i precedenti, continua incoscientemente a sfidare il destino - notoriamente cinico e baro - e a mettere a repentaglio la pelle correndo in soccorso di chi non desidera essere soccorso, in Paesi in cui vige la legge del taglione, che non è neppure una legge, bensì una minaccia verso chiunque non adori Allah. Infatti, Greta Ramelli (di Varese) e Vanessa Marzullo (Brembate, lo stesso Comune di Yara, la tredicenne morta ammazzata 4 anni addietro), senza riflettere un secondo, quando hanno avuto l'opportunità di trasferirsi qualche giorno in Siria, sono partite piene di entusiasmo, appoggiate da un'organizzazione umanitaria, convinte di fare del bene. A chi? Ai siriani martoriati dalla guerra, dalle violenze che subiscono quotidianamente vittime di ingiustizie atroci. Ottime intenzioni, non abbiamo dubbi. Ma possibile che non ci sia nessuno in grado di far presente a chi si appresta a raggiungere il Vicino Oriente che non è il caso di affrontare certi viaggi densi di insidie? Possibile non informare i volontari che, persuasi di contribuire a salvare il mondo, in realtà vanno incontro a situazioni da cui è improbabile uscire vivi? Questo è il punto. Non condanniamo assolutamente coloro che, ignari delle trappole disseminate nei territori dove si combatte, vi si recano per il nobile scopo di aiutare persone in drammatiche difficoltà. Ma consentiteci di deplorare almeno quei pazzi che incitano tanti giovani a emigrare, sia pure temporaneamente, in luoghi nei quali uccidere una mosca o un cristiano è lo stesso. È sbagliato pensare che un atto d'amore sia sufficiente a rabbonire chi ti odia da secoli perché rappresenti, fisicamente, il nemico da eliminare. Occorre rieducare i diseducatori che in modo subdolo trascinano i giovani, e perfino vari adulti, a compiere imprudenze che non raramente portano all'irreparabile: sequestri ed esecuzioni capitali con metodi tribali. È un'operazione complicata e forse velleitaria. Ma non c'è altro da fare. Descrivere come eroi i Baldoni, le Simone, le Sgrene e anche le due ragazze tuttora in mano ai folli islamisti, cioè Greta e Vanessa, significa distorcere la realtà e la logica. Volare laggiù nel deserto, a qualsiasi titolo, equivale a percorrere l'autostrada contromano. Non si può pretendere di farla franca. L'evento più probabile è crepare ammazzati. Baldoni, pace all'anima sua, abbacinato da non si sa chi e che cosa, andò incontro alla propria fine senza valutare che in taluni casi la generosità sconfina nella stoltezza; le due Simone si salvarono perché al tempo avevamo ancora dei servizi segreti efficienti; idem la Sgrena; mentre Greta e Vanessa sono state abbandonate a se stesse. Auguriamo loro di tornare, ma non contino sui nostri 007, ormai disarmati e privi di forza contrattuale. L'unico consiglio a chi sogna un soggiorno in Medioriente per aiutarne i popoli è questo: lasciate perdere. Le vacanze più intelligenti hanno quale meta Viserbella o Milano Marittima, almeno finché non saranno state invase dai cammellieri.

Scandalizzarsi è un'ipocrisia Quante vite salvate da un patto. Dai sequestri De Martino e Cirillo ai rapimenti di Mastrogiacomo e Sgrena: i negoziati con camorra, Br e terroristi islamici hanno consentito di evitare spargimenti di sangue, scrive “Il Giornale”. Esiste uno Stato immaginario che non si piega e non scende a patti, e anche nei momenti più difficili preferisce affrontare le conseguenze più tragiche anziché trattare col nemico. Ed esiste poi uno Stato reale che ufficialmente fa la faccia feroce ma sotto traccia incontra, dialoga, si aggiusta. Che promette, e a volte mantiene. Che riceve promesse, e quasi sempre qualcosa incassa. Se davvero - perché di questo in fondo si tratta - qualcuno ha trattato con Cosa Nostra la consegna di Totò Riina, beh, non sarà stata né la prima né l'ultima volta che il do ut des ha fatto la sua silenziosa comparsa nella guerra tra Stato e antistato. Il catalogo è lungo e ricco, e appartiene in buona parte alle cronache del terrorismo: quello domestico, all'epoca della furia omicida delle Brigate rosse e dei loro epigoni, quanto quello islamico in giro per il mondo. Ma non è che le vicende del crimine organizzato non portino anch'esse traccia di accordi sottobanco: nella sentenza d'appello ai calabresi che nel 1997 rapirono a Milano Alessandra Sgarella, una piccola nota a piè di pagina dà atto che a un boss in carcere vennero promessi benefici penitenziari in cambio delle sue pressioni per la liberazione dell'ostaggio. Si poteva fare, non si poteva fare? Si fece e basta, e la Sgarella tornò a casa dopo quasi un anno di terribile prigionia. Non fu, giurano gli addetti ai lavori, l'unica volta che un sequestro dell'Anonima si risolse così. D'altronde esiste un precedente storico anche se poco esplorato, il memorabile sequestro di Guido De Martino, figlio del segretario del Psi, rapito nel 1977 dalla malavita napoletana e rilasciato dopo una colletta tra banche, partiti, servizi. Nei rapporti con il terrorismo di ogni risma ed etnia, la trattativa sotterranea è invece - almeno in Italia - una prassi e quasi un'arte, spesso esercitata quasi alla luce del sole. A partire dal caso più noto e peggio concluso, quando intorno al sequestro del presidente democristiano Aldo Moro sorse addirittura un «partito della trattativa» che agiva per pubblici proclami senza che nessuno si indignasse o aprisse inchieste; e persino gli emissari della trattativa nel fronte brigatista avevano nomi e cognomi di pubblico dominio, e pubblicamene discusse se erano le possibili contropartite alla liberazione di Moro. Poi finì come finì, ma nessuno finì sotto inchiesta per avere cercato di salvare Moro. Nessuno venne incriminato per avere trattato sottobanco con frange di brigatisti la consegna di James Lee Dozier, il generale americano sequestrato subito dopo Moro. Si indagò, invece, ma senza quagliare granché, sulla più spudorata delle trattative, quella che portò alla liberazione dell'assessore napoletano Ciro Cirillo, sequestrato anche lui dalle Brigate Rosse, e tornato a casa dopo che per salvarlo si era mosso una specie di circo fatto di agenti segreti, politici, imprenditori, tutti a baciare la pantofola di Raffaele Cutolo, il capo della Nuova camorra organizzata che nel supercarcere dove era richiuso riceveva visite una dopo l'altra. Il pasticcio era tale che qualche anno fa Cirillo, ormai ottuagenario, disse di non voler raccontare nulla fino alla morte. «È tutto scritto in un memoriale da un notaio». Ma dove la decisione di scendere a patti è stata una costante, tanto notoria quanto inconfessata, è quando l'Italia si è trovata a fare i conti con il terrorismo islamico: una prassi così costante da suscitare l'indignazione degli alleati e della loro intelligence, ma resa inevitabile dalla commozione con cui vengono seguiti i casi dei nostri connazionali rapiti qua e là per il mondo. Per i poveri Quattrocchi e Baldoni, rapiti e ammazzati in Irak, per allacciare una trattativa mancò il tempo, non la volontà. Da allora in poi, è quasi incalcolabile il fiume di fondi riservati dei servizi segreti finiti nelle tasche della jihad pur di riportare in patria i malcapitati. Si racconta che la telefonata a casa che i rapitori concessero a Domenico Quirico, l'inviato della Stampa sequestrato in Siria, sia costata all'erario una robusta bolletta. E cifre ben maggiori sono servite per ottenere il rilascio delle due Simone, la Pari e la Torretta, sequestrate nel 2004 a Baghdad, o dell'inviato speciale di Repubblica Daniele Mastrogiacomo. Qualche dettaglio emerse a margine della vicenda finita tragicamente della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena: il 4 marzo 2005 un funzionario del Sismi consegnò a un emissario dei rapitori il riscatto, in Kuwait o negli Emirati Arabi. L'emissario diede il via libera, a Baghdad la giornalista venne liberata e consegnata a un'altra squadra del Sismi. Ma sulla strada per l'aeroporto l'auto dei nostri 007 fu attaccata per errore da un posto di blocco degli americani, nell'uragano di colpi il capodivisione Andrea Calipari perse la vita, il suo collega Andrea Carpani venne centrato al petto, anche l'autista venne sfiorato, e solo la Sgrena uscì miracolosamente incolume. Nonostante lo choc e le polemiche, neanche i retroscena di quella trattativa sono mai stati ufficialmente resi noti. La sostanza è che si tratta, da sempre. E forse anche nel 1992, quando magistrati e poliziotti venivano fatti saltare in aria col tritolo insieme a interi tratti di autostrada, ci fu chi decise di tastare gli umori dell'altra parte, e non arretrò inorridito quando la testa di Riina venne offerta in cambio di questa o quella concessione.

L'ideologia contro Quattrocchi: "I killer non erano terroristi". La Corte d'Assise riconsidera le motivazioni dell'esecuzione del contractor in Irak. Come se le uniche vite preziose fossero quelle della Sgrena o delle due Simone, scrive Gian Micalessin su “Il Giornale”. Incredibile e raccapricciante. Non vi sono altri aggettivi per definire le motivazioni della sentenza della Corte d'Assise di Roma che manda assolti due degli assassini di Fabrizio Quattrocchi, la guardia privata rapita in Irak assieme a Salvatore Stefio, Maurizio Agliana e Umberto Cupertino che il 14 aprile 2004 davanti agli aguzzini pronti a freddarlo con un colpo alla nuca urlò «Vi faccio vedere come muore un italiano». Quell'atto di coraggio e di dignità gli valsero una medaglia d'oro al valor civile che il presidente della Repubblica Azeglio Ciampi così motivò: «Vittima di un brutale atto terroristico rivolto contro l'Italia, con eccezionale coraggio ed esemplare amor di Patria, affrontava la barbara esecuzione, tenendo alto il prestigio e l'onore del suo Paese». Ma gli atti di un Presidente della Repubblica non valgono nulla. Motivando la sentenza che lascia impuniti Ahmed Hillal Qubeidi e Hamid Hillal Qubeidi, due responsabili del rapimento catturati durante la liberazione di Stefio, Agliana e Cupertino, i giudici spiegano che l'identità dei due non è comprovata, il loro collegamento con gruppi eversivi non è evidente e - dulcis in fundo - l'esecuzione non è un atto di terrorismo. Insomma i due imputati, catturati mentre facevano la guardia a Stefio, Agliana e Cupertino, passavano di lì per caso e non sono stati identificati con precisione neppure durante gli anni trascorsi nella galera irachena di Abu Ghraib. I nostri giudici evidentemente la sanno più lunga degli inquirenti americani e iracheni che interrogarono i due imputati vagliandone generalità e responsabilità. Verrebbe da chiedersi come, ma porsi domande troppo complesse non serve. Dietro questa sentenza e le sue motivazioni non c'è il codice penale, ma l'ideologia. La stessa ideologia formulata dal giudice Clementina Forleo che nel gennaio 2005 assolse dall'accusa di terrorismo il marocchino Mohammed Daki e i tunisini Alì Toumi e Maher Bouyahia pronti a trasformarsi in kamikaze islamici in Irak. Nella motivazione del caso Quattrocchi quell'ideologia raggiunge la perfezione. Pur di mandare liberi due assassini i giudici arrivano a mettere in dubbio che l'uccisione di un eroe italiano decorato con la medaglia d'oro sia un atto terroristico. E per convincerci scrivono che «non è chiaro se quell'azione potesse avere un'efficacia così destabilizzante da poter disarticolare la stessa struttura essenziale dello stato democratico». Una motivazione sufficiente a far assolvere anche gli assassini di Moro visto che neppure quell'atto bastò a disarticolare lo stato italiano. Ma i magistrati superano se stessi quando tentano di convincerci che il collegamento dei due sospettati con i gruppi eversivi non è provato. L'assassinio di Quattrocchi viene deciso, come tutti sanno, per far capire al nostro governo che solo accettando il ritiro dall'Irak verrà garantita la salvezza degli altri rapiti. Ma evidentemente ricattare l'Italia uccidendo un suo cittadino e tenendone prigionieri altri tre per 58 giorni non è un atto sufficientemente eversivo. E a far giudicare eversori e terroristi gli assassini di Quattrocchi non basta neanche l'ammissione di uno degli aguzzini che racconta all'ostaggio Cupertino di aver partecipato all'attentato di Nassirya costato la vita a 19 italiani. Quelle per i magistrati sono semplici vanterie. Ma non stupiamoci troppo. Il problema anche qui non è la giustizia, bensì l'ideologia. In Italia, persino nelle aule giudiziarie, qualcuno continua a ritenere che le uniche vite preziose siano quelle di chi la pensa come lui. Soprattutto se quelli come lui sono «umanitari» di sinistra come le due Simone o giornaliste «democratiche» come Giuliana Sgrena. Le vite di chi non la pensa allo stesso modo invece valgono poco o nulla. Per questo uccidere l'eroe Fabrizio Quattrocchi non è reato.

Ostaggi «buoni» e «cattivi». Scontro tra destra e sinistra, scrive Paolo Conti su “Il Corriere della Sera” Possono esistere «buoni» e «cattivi», giudicati a seconda della necessità polemica da destra e da sinistra, persino tra gli italiani rapiti dai terroristi iracheni? Ora nelle loro mani, e sul video di Al Jazira, c'è Enzo Baldoni. Ma proviamo a fare un passo indietro, a tornare ad aprile, quando gli ostaggi si chiamavano Salvatore Stefio, Maurizio Agliana e Umberto Cupertino, quando Fabrizio Quattrocchi venne trucidato dalle Falangi di Maometto. Sui giornali della sinistra campeggiarono per intere settimane le stesse parole chiave: «mercenari», «vigilantes». Il manifesto parlò di «privatizzazioni da combattimento», l'Unità di «Mestiere della guerra». Scoppiò una durissima polemica quando Vauro, il giorno dopo l'assassinio di Fabrizio Quattrocchi, nella sua vignetta del giorno sul manifesto mostrò un dollaro penzolante da un pennone e sotto il titolo «morire per denaro» commentò con la battuta: «Banconote a mezz'asta». Liberazione insistette sulla tesi della collaborazione dei quattro italiani con i servizi segreti e irrise Piero Fassino che parlò di uccisione di un «civile inerme» («Viene da dire: ma di che cosa stanno parlando?»). Quando il centrodestra definì «eroico» il famoso ultimo momento di vita di Quattrocchi («ti faccio vedere come muore un italiano») ancora il manifesto titolò immediatamente «Eroi di scorta». Ora il rito in parte si ripete, specularmente opposto. La provocazione ieri è venuta da Libero: grande foto del pacifista Baldoni sotto il titolo «Vacanze intelligenti» e giù, nel sommario: «Aveva detto: "cerco ferie col brivido". E' stato accontentato». In perfetta linea con la titolazione il commento di Renato Farina. Si chiede come mai sia così rilassato nel video di Al Jazira: «Perché dovrebbero fargli del male? E' un giocherellone della rivoluzione... Dopo le ferie intelligenti, cominciamo a fare quelle sconvolgenti». Poi, più in là: «Signori di Al Qaeda, proprio dal vostro punto di vista, non vale la pena di ammazzarlo. Restituitecelo, farà in futuro altri danni all'Occidente come testimonial della crudeltà capitalistica». Quanto a Il giornale, è stato l'unico quotidiano a relegare la notizia in centro pagina, ben al di sotto di due inchieste. Commenta Franco Debenedetti, senatore ds: «Credo sia giusto cercare una logica nelle azioni di qualcuno, comprendere il senso delle scelte per esempio nel caso di un rapimento perché tutto questo può contribuire alla liberazione di un ostaggio. Ma i commenti così diversi propongono davvero una gran bella gara...» Qual è il suo giudizio su questo contrasto? «Ricordo che ai tempi dei tre rapiti, questo insistere sul loro ruolo di "mercenari" suggeriva quasi l'idea che si fossero andati a cercare una simile sorte. Un modo per esorcizzare il problema, di allontanarlo, come se il lavoro di vigilante non fosse onorevole come tanti altri, e anzi spesso indispensabile nella complessa ricostruzione dell' Iraq. E magari fosse meno nobile di un'occupazione intellettuale come quella del reporter». E quanto invece alla reazione di Libero? «Sinceramente mi sembra solo e soltanto agghiacciante. Comunque sia, insisto, mi pare davvero una bella gara...». Concorda Marcello Veneziani, intellettuale apprezzato dalla destra: «La figura di Quattrocchi combaciava con una mentalità che aveva caro il senso dell'onore e l'amor patrio. Invece Baldoni coltiva, lo abbiamo letto, valori dichiaratamente pacifisti. Motivazioni diverse, lontane, che hanno spinto le "tifoserie" a schierarsi da una parte e dall'altra, visto che in questa faccenda sembra contare ancora una labile appartenenza ideologica». E allora, Veneziani? «Allora sono state eccessive entrambe le reazioni. Voglio dire che sulla motivazione che spinge qualcuno a una scelta ci possono essere divisioni, diversità di vedute. Ma sulla vicenda in sé no: sono di rigore in ogni caso attenzione, rispetto, solidarietà...».

De Luca, quando la rivolta è un "marchio" da vendere. Dopo decenni di marxismo, sopravvive l'idea che uno scrittore debba essere militante. Ma di tanto impegno restano solo narcisismo e nostalgia attira-lettori, scrive Massimiliano Parente su “Il Giornale”. L'hashtag è #iostoconerri, e ci mancherebbe non stessi con lui, processato per essersi pronunciato contro la TAV e aver detto che secondo lui sabotarla è giusto. Uno potrà dire quello che vuole? Si può dire che gli Stati Uniti si sono abbattuti le Torri Gemelle da soli, si può essere perfino pro-Isis, Giulietto Chiesa è ancora stalinista, e portiamo in tribunale Erri De Luca? E poi sfiliamo con i cartelli Je suis Charlie? Ecco, Je suis Errì. Oddio, che effetto. E però che bello. È uno di quegli scrittori che invidio, e in Italia ce ne sono tantissimi. Non hanno bisogno di scrivere grandi opere, neppure opere medie. Errì poi scrive dei librini così tascabili che in tasca ce ne vanno venti, una pacchia. L'ultimo di Errì si intitola La parola contraria . Quattro euro e ve lo portate via, generosa la Feltrinelli. Piccolo ma denso: dentro c'è tutta la coscienza contraria di Errì. Per esempio Errì spiega che «può darsi che nella mia educazione emotiva napoletana ci fosse la predisposizione a una resistenza contro le autorità». Una cosa tipo: «Io i tass' nun le pag, ma vattenne và, accà niusciun'è fess». Oppure: «Chiust'o tren' che sa vò muov' veloce sa da fermà, compà». Je suis Errì, e un'altra cosa assurda è l'accusa di istigazione: ma vi pare che Errì possa aver istigato qualcuno a fare qualcosa? Casomai è stato istigato lui a diventare Errì. Come sono istigati tutti gli scrittori italiani, convinti da centocinquant'anni di marxismo intellettuale che si debba essere impegnati civilmente per essere intelligenti. Anzi peggio ancora: intellettuali. Non per altro perfino Aldo Busi, che non è di Napoli ma di Montichiari, su Alias denuncia il progresso tecnologico e rimpiange i casellanti. E Antonio Moresco, che non è di Napoli ma di Mantova, ha organizzato una nuova marcia della nota serie Cammina Cammina, la Repubblica Nomade, per essere tutti migranti. Che cagate. No, pardon, Je suis Errì. Che figate. Je suis Errì, e quanto erano belli i tempi di Lotta Continua. Dove c'erano tutti i migliori intellettuali, scrive Errì. Anche Pasolinì. E lo stesso Errì. Io non sono mai stato di Lotta Continua, neppure a favore di Lotta Continua, ma poi per caso ho scoperto che il mio amore Sasha Grey si è dichiarata simpatizzante di Lotta Continua. E quindi perfetto, je suis Errì, non voglio più essere Parente, che schifo. «Voglio essere lo scrittore incontrato per caso, che ha mischiato le sue pagine ai nascenti sentimenti di giustizia che formano il carattere di un giovane cittadino». Uno di quegli scrittori «che fa alzare d'improvviso e lasciare il libro perché è montato il sangue in faccia, pizzicano gli occhi e non si può continuare a leggere». E io che pensavo fosse l'allergia e stavo cercando un antistaminico. Invece è perché je suis Errì, il libro sta cominciando a fare effetto, mi sto trasformando in un giovane cittadino con dei sentimenti di giustizia e un'educazione emotiva napoletana con il sangue montato in faccia. A questo serve la letteratura. Per cui, siccome je suis Errì, ho buttato il libro e mi sono messo a protestare contro uno che ha parcheggiato sulle strisce pedonali, per sentimento di giustizia. Però poi mi sono accorto che il proprietario della macchina era negro, pardon di colore, e siccome je suis Errì mi sono scusato, sarà arrivato sicuramente da Lampedusa, e Errì dice che «dare cibo, acqua, vestiti, alloggio, premura per gli ammalati, i prigionieri, i morti: le sette opere di misericordia sono state compiute da loro, che vivono sul mare e usano leggi opposte. E non sono LampeduSanti, ma semplicemente LampeduSani. La rima nord e sud, Val di Susa e Lampedusa, riscatta oggi il titolo di cittadini da prepotenze che li vogliono sudditi». Ma come gli vengono, a Errì, questi giochi di parole? Val di Susa/Lampedusa, un genio. E poi ho pensato: chissà cosa succederebbe a scaricare qualche migliaio di profughi al mese direttamente da Lampedusa in Val di Susa, chissà dove lo manderebbero Errì, i valsusini. Ma poi ho pensato che era una malignità, i valsusini accoglierebbero tutti con rose e fiori e canti popolari e cantantando je suis Errì. Perché, questo il senso profondo delle parole del libro di Errì, «a ogni lettore spetta la sorpresa di fronte alla mescola improvvisa tra i suoi giorni e le pagine di un libro».

E quando avrete finito di leggere il libro avrete una bellissima mescola, vi assicuro. E anche voi potrete dire: Je suis Errì.

L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.

Maometto. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Maometto (La Mecca, 570 circa – Medina, 8 giugno 632) è stato il fondatore e, per i musulmani, l'ultimo profeta dell'Islam. Considerato dai musulmani di ogni declinazione - ad eccezione degli Ahmadi - l'ultimo esponente di una lunga tradizione profetica all'interno della quale occupa una posizione di assoluto rilievo, Messaggero di Dio (Allah) e Sigillo dei profeti, per citare solo due degli epiteti onorifici che gli sono tradizionalmente riferiti, sarebbe stato incaricato da Dio stesso - attraverso l'arcangelo Gabriele - di divulgare il suo verbo tra gli Arabi.

Prima della Rivelazione. Maometto (che nella sua forma originale araba significa "il grandemente lodato") nacque in un giorno imprecisato (che secondo alcune fonti tradizionali sarebbe il 20 o il 26 aprile di un anno parimenti imprecisabile, convenzionalmente fissato però al 570) a Mecca, nella regione peninsulare araba del Hijaz, e morì il lunedì 13 rabīʿ I dell'anno 11 dell'Egira (equivalente all'8 giugno del 632) a Medina e ivi fu sepolto, all'interno della casa in cui viveva. Sia per la data di nascita, sia per quella di morte, non c'è tuttavia alcuna certezza e quanto riportato costituisce semplicemente il parere di una maggioranza relativa, anche se sostanziosa, di tradizionisti. La sua nascita sarebbe stata segnata, secondo alcune tradizioni, da eventi straordinari e miracolosi. Appartenente a un importante clan di mercanti, quello dei Banu Hashim, componente della più vasta tribù dei Banu Quraysh di Mecca, Maometto era l'unico figlio di ʿAbd Allāh b. ʿAbd al-Muttalib ibn Hāshim e di Āmina bint Wahb, figlia del sayyid del clan dei Banu Zuhra, anch'esso appartenente ai B. Quraysh. Orfano fin dalla nascita del padre (morto a Yathrib al termine d'un viaggio di commercio che l'aveva portato nella palestinese Gaza), Maometto rimase precocemente orfano anche di sua madre che, nei suoi primissimi anni, l'aveva dato a balia a alīma bt. Abī Dhuʿayb, della tribù dei Banū Saʿd b. Bakr, che effettuava piccolo nomadismo intorno a Yathrib. Nell'Arabia preislamica già esistevano comunità monoteistiche, comprese alcune di cristiani ed ebrei. A Mecca - dove, alla morte della madre, fu portato dal suo primo tutore, il nonno paterno ʿAbd al-Muttalib ibn Hāshim, e dove poi rimase anche col secondo suo tutore, lo zio paterno Abu Tàlib - Maometto potrebbe forse aver avuto l'occasione di entrare in contatto presto con quei hanīf, che il Corano vuole fossero monoteisti che non si riferivano ad alcuna religione rivelata, come si può leggere nelle sure III:67 e II:135. Secondo una tradizione islamica, egli stesso era un hanīf e un discendente di Ismaele, figlio di Abramo. La storicità di questo gruppo è comunque discussa fra gli studiosi. Nei suoi viaggi fatti in Siria e Yemen con suo zio, Maometto potrebbe aver preso conoscenza dell'esistenza di comunità ebraiche e cristiane e dell'incontro, che sarebbe avvenuto quando Maometto aveva 9 o 12 anni, col monaco cristiano siriano Bahīra - che avrebbe riconosciuto in un neo fra le sue scapole il segno del futuro carisma profetico - si parla già nella prima biografia (Sīra) di Maometto, che fu curata, vario tempo dopo la morte, da Ibn Isāq per essere poi ripresa in forma più "pia" da Ibn Hishām. Oltre alla madre e alla nutrice, due altre donne si presero cura di lui da bambino: Umm Ayman Baraka e Fātima bint Asad, moglie dello zio Abū Tālib. La prima era la schiava etiopica della madre che lo aveva allevato dopo il periodo trascorso presso con Halīma, rimanendo con lui fino a che Maometto ne propiziò il matrimonio, dapprima con un medinese e poi col figlio adottivo Zayd. Nella tradizione islamica Umm Ayman, che generò Usama ibn Zayd, fa parte della Gente della Casa (Ahl al-Bayt) e il Profeta nutrì sempre per lei un vivo affetto, anche per essere stata una delle prime donne a credere al messaggio coranico da lui rivelato. Altrettanto importante fu l'affettuosa e presente sua zia Fātima bint Asad, che Maometto amava per il suo carattere dolce, tanto da mettere il suo nome a una delle proprie figlie e per la quale il futuro profeta pregò spesso dopo la sua morte. I numerosi viaggi intrapresi per via dell'attività mercantile familiare - dapprima con lo zio e poi come agente della ricca e colta vedova Khadīja bt. Khuwaylid - dettero a Maometto occasione di ampliare in maniera significativa le sue conoscenze in campo religioso e sociale. Sposata nel 595 Khadìja bint Khuwàylid (che restò finché visse la sua unica moglie), egli poté dedicarsi alle sue riflessioni spirituali in modo più assiduo e, anzi, pressoché esclusivo. Khadìja fu il primo essere umano a credere nella Rivelazione di cui Maometto era portatore e lo sostenne con forte convinzione fino alla sua morte avvenuta nel 619. A lui, in una vita di coppia senz'altro felice, dette quattro figlie - Zaynab, Ruqayya, Umm Khulthūm e Fāima, detta al-Zahrāʾ (tutte premorte al padre, salvo l'ultima) - oltre a due figli maschi (al-Qàsim e ʿAbd Allah) che morirono tuttavia in tenera età.

Rivelazione. Nel 610 Maometto, affermando di operare in base a una Rivelazione ricevuta, cominciò a predicare una religione monoteista basata sul culto esclusivo di Dio, unico e indivisibile. In effetti il concetto di monoteismo era diffuso in Arabia da tempi più antichi e il nome Allah (principale nome di Dio nell'Islam) significa semplicemente "Iddio". Gli abitanti dell'Arabia peninsulare e di Mecca - salvo pochi cristiani e zoroastriani e un assai più consistente numero di ebrei - erano per lo più dediti a culti politeistici e adoravano un gran numero di idoli. Questi dèi erano venerati anche in occasione di feste, per lo più abbinate a pellegrinaggi (in arabo: mawsim). Particolarmente rilevante era il pellegrinaggio panarabo, detto ajj, che si svolgeva nel mese lunare di Dhu l-Hijja ("Quello del Pellegrinaggio"). In tale occasione molti devoti arrivavano nei pressi della città, nella zona di Mina, Muzdalifa e di ʿArafa. Gli abitanti di Mecca avevano anche un loro proprio pellegrinaggio urbano (la cosiddetta ʿumra) che svolgevano nel mese di rajab in onore del dio tribale Hubal e delle altre divinità panarabe, graziosamente ospitate dai Quraysh all'interno del santuario meccano della Kaʿba. Maometto, come altri anīf, era solito ritirarsi a meditare, secondo la tradizione islamica, in una grotta sul monte Hira vicino Mecca. Secondo tale tradizione, una notte, intorno all'anno 610, durante il mese di Ramadan, all'età di circa quarant'anni, gli apparve l'arcangelo Gabriele (in arabo Jibrīl o Jabrāʾīl, ossia "potenza di Dio": da "jabr", potenza, e "Allah", Dio) che lo esortò a diventare Messaggero (rasūl) di Allah con le seguenti parole: « (1) Leggi, in nome del tuo Signore, che ha creato, (2) ha creato l'uomo da un grumo di sangue! (3) Leggi! Ché il tuo Signore è il Generosissimo, (4) Colui che ha insegnato l’uso del calamo, (5) ha insegnato all'uomo quello che non sapeva». Turbato da un'esperienza così anomala, Maometto credette di essere stato soggiogato dai jinn e quindi impazzito (majnūn, "impazzito", significa letteralmente "catturato dai jinn") tanto che, scosso da violenti tremori, cadde preda di un intenso sentimento di terrore. Secondo la tradizione islamica Maometto poté in quella sua prima esperienza teopatica sentire le rocce e gli alberi che gli parlavano. Preso dal panico fuggì a precipizio dalla caverna in direzione della propria abitazione e nel girarsi vide Gabriele sovrastare con le sue ali immense l'intero orizzonte (per quel "gigantismo" che caratterizza le "realtà angeliche", anche in contesti diversi da quello islamico) e lo sentì rivelargli di essere stato prescelto da Dio come suo messaggero. Non gli fu facile accettare tale notizia ma a convincerlo della realtà di quanto accadutogli, provvide innanzi tutti la fede della moglie e, in seconda battuta, quella del cugino di lei, Waraqa ibn Nawfal, che alcuni indicano come cristiano ma che, più verosimilmente, era uno di quei monoteisti arabi (anīf) che non si riferivano tuttavia a una specifica struttura religiosa organizzata. Dopo un lungo e angosciante periodo in cui le sue esperienze non ebbero seguito (fatra), Gabriele tornò di nuovo a parlargli per trasmettergli altri versetti e questo proseguì per 23 anni, fino alla morte nel 632 di Maometto.

È ancora oggetto di disputa la questione riguardante l'analfabetismo di Maometto. Si nota come la sua professione di commerciante abbia potuto portarlo in contatto con altre lingue e altre culture, e come sia intervenuto, secondo una tradizione riportata da Tabari, per apportare una correzione riguardante la sua firma nel Trattato di udaybiyya. Ci sarebbe poi una lettera autografa, conservata nel museo Topkapi di Istanbul. Secondo alcuni, tutto deriverebbe da un equivoco riguardante l'espressione a lui riferita di al-Nabī al-ummī che può voler dire in effetti "il profeta ignorante" ma anche, e più verosimilmente, "il profeta della comunità (araba)" o "il profeta di una cultura non basata su testi sacri scritti". Altre fonti fanno notare come le personalità in grado di leggere e scrivere, nel periodo precedente all'Egira, fossero una quindicina, tutte conosciute per nome, e in effetti il Corano sarebbe il più antico libro arabo in prosa. Studiosi occidentali fanno notare come le tribù nomadi, compresa quella di Maometto, disprezzassero la scrittura, privilegiando la trasmissione orale delle conoscenze. La maggior parte dei musulmani propende per un analfabetismo del loro Profeta, escludendo pertanto radicalmente che egli abbia potuto leggere la Bibbia o altri testi sacri, che del resto sarebbero comparsi in forma scritta solo diverso tempo dopo la sua morte. Maometto cominciò dunque a predicare la Rivelazione che gli trasmetteva Jibrīl, ma i convertiti nella sua città natale furono pochissimi per i numerosi anni che egli ancora trascorse a Mecca. Fra essi il suo amico intimo e coetaneo Abu Bakr (destinato a succedergli come califfo, guida della comunità islamica che si fondò con lenta ma sicura progressione malgrado l'assenza di precise indicazioni scritte e orali in merito) e un gruppetto assai ristretto di persone che sarebbero stati i suoi più validi collaboratori: i cosiddetti "Dieci Benedetti" (al-ʿashara al-mubashshara). La Rivelazione da lui espressa dunque - raccolta dopo la sua morte nel Corano, il libro sacro dell'Islam - dimostrò la validità del detto evangelico per cui "nessuno è profeta in patria". Maometto ripeté per ben due volte per intero il Corano nei suoi ultimi due anni di vita e molti musulmani lo memorizzarono per intero ma fu solo il terzo califfo ʿUthmān b. ʿAffān a farlo mettere per iscritto da una commissione coordinata da Zayd b. Thābit, segretario del Profeta. Così il testo accettato del Corano poté diffondersi nel mondo a seguito delle prime conquiste che portarono gli eserciti di Medina in Africa, Asia ed Europa, rimanendo inalterato fino ad oggi, malgrado lo Sciismo vi aggiunga un capitolo (Sura) e alcuni brevi versetti (ayat).

Gli ultimi anni a Mecca e l'Egira. Nel 619, l'"anno del dolore", morirono tanto suo zio Abu Talib, che gli aveva garantito affetto e protezione malgrado non si fosse convertito alla religione del nipote, quanto l'amata Khadìja. Fu solo dopo ripetute insistenze che Maometto contrasse nuove nozze, tra cui quelle con ʿĀʾisha bt. Abī Bakr, figlia del suo più intimo amico e collaboratore, Abu Bakr. L'ostilità dei suoi concittadini tentò di esprimersi con un prolungato boicottaggio nei confronti di Maometto e del suo clan, con il divieto di intrattenere con costoro rapporti di tipo economico commerciale, i troppi vincoli parentali creatisi però fra i clan della stessa tribù fecero fallire il progetto di ridurre a più miti consigli Maometto. Nel 622 il crescente malumore dei Quraysh nel veder danneggiati i propri interessi - a causa dell'inevitabile conflitto ideologico e spirituale che si sarebbe radicato con gli altri arabi politeisti (che con loro proficuamente commerciavano e che annualmente partecipavano ai riti della ʿumra del mese di rajab) - lo indusse a rifugiarsi con la sua settantina di correligionari, a Yathrib, trecentoquaranta chilometri più a nord di Mecca, che mutò presto il proprio nome in Madīnat al-Nabī, "la Città del Profeta" (Medina). Il 622, l'anno dell'Egira (emigrazione), divenne poi sotto il califfo 'Omar ibn al-Khattàb il primo anno del calendario islamico, utile alla tenuta dei registri fiscali e dell'amministrazione in genere.

La Umma e l'inizio dei conflitti armati. Inizialmente Maometto si ritenne un profeta inserito nel solco profetico antico-testamentario, ma la comunità ebraica di Medina non lo accettò come tale. Nonostante ciò, Maometto predicò a Medina per otto anni e qui, fin dal suo primo anno di permanenza, formulò la Costituzione di Medina (Rescritto o Statuto o Carta, in arabo aīfa) che fu accettata da tutte le componenti della città-oasi e che vide il sorgere della Umma, la prima Comunità politica di credenti. Nello stesso tempo, con i suoi seguaci, condusse attacchi contro le carovane dei Meccani e respinse i loro contrattacchi. L'ostilità di Maometto nei confronti dei suoi concittadini si concretizzò nel primo vittorioso scontro armato ai pozzi di Badr, alla successiva disfatta di Uud e alla finale vittoria strategica di Medina (Battaglia del Fossato) contro i politeisti Quraysh che lo avevano inutilmente assediato.

L'atteggiamento verso gli ebrei. In tutte queste circostanze Maometto colpì in diversa misura anche gli ebrei di Medina, che si erano resi colpevoli agli occhi della Umma della violazione del Rescritto di Medina e di tradimento nei confronti della componente islamica. In occasione dei due primi fatti d'armi furono esiliate le tribù ebraiche dei Banū Qaynuqāʿ e dei Banū Naīr, mentre dopo la vittoria nella cosiddetta "battaglia" del Fossato (Yawm al-Khandaq), i musulmani decapitarono tra i 700 e i 900 uomini ebrei della tribù dei Banū Qurayza, arresasi ai seguaci del Profeta in conseguenza del fallimento dell'assedio dei Quraysh e dei loro alleati arabi, protrattosi per 25 giorni. Le loro donne e i loro bambini furono invece venduti come schiavi sui mercati d'uomini di Siria e del Najd, dove vennero quasi tutti riscattati dai loro correligionari di Khaybar, Fadak e di altre oasi arabe higiazene. La cruenta decisione fu probabilmente la conseguenza dell’accusa di intelligenza col nemico durante l’assedio ma la sentenza non fu decisa da Maometto che invece affidò il responso sulla punizione da adottare a Saʿd b. Muʿādh, sayyid dei Banū ʿAbd al-Ashhal, clan della tribù medinese dei Banu Aws e un tempo principale alleato dei B. Quraya. Questi, ferito gravemente da una freccia (tanto da morirne pochissimi giorni più tardi) e ovviamente pieno di rabbia e rancore, decise per quella soluzione estrema, non frequente ma neppure del tutto inconsueta per l'epoca. Che non si trattasse comunque di una decisione da leggere in chiave esclusivamente anti-ebraica potrebbe dimostrarcelo il fatto che gli altri B. Quraya che vivevano intorno a Medina, e nel resto del ijāz (circa 25.000 persone), non furono infastiditi dai musulmani, né allora, né in seguito. In proposito si è anche espresso uno dei più apprezzati storici del primo Islam, Fred McGrew Donner, che, nel suo Muhammad and the believers (Cambridge, MA, The Belknap Press of Harvard University Press, 2010, p. 74), afferma « dobbiamo... concludere che gli scontri con altri ebrei o gruppi di ebrei furono il risultato di particolari atteggiamenti o comportamenti politici di costoro, come, per esempio, il rifiuto di accettare la leadership o il rango di profeta di Muhammad. Questi episodi non possono pertanto essere considerati prove di un'ostilità generalizzata nei confronti degli ebrei da parte del movimento dei Credenti, così come non si può concludere che Muhammad nutrisse un'ostilità generalizzata nei confronti dei Quraysh perché fece mettere a morte e punì alcuni suoi persecutori appartenenti a questa tribù. (Fred M. Donner, Maometto e le origini dell'islam, ediz. e trad. di R. Tottoli, Torino, Einaudi, 2011, p. 76-77). » Una minoranza di studiosi musulmani rifiutano di riconoscere l'incidente ritenendo che Ibn Ishaq, il primo biografo di Maometto, abbia presumibilmente raccolto molti dettagli dello scontro dai discendenti degli stessi ebrei Qurayza. Questi discendenti avrebbero arricchito o inventato dettagli dell'incidente prendendo ispirazione dalla storia delle persecuzioni ebraiche in epoca romana.

La conquista dell'Arabia e la morte. Nel 630 Maometto era ormai abbastanza forte per marciare su Mecca e conquistarla. Tornò peraltro a vivere a Medina e da qui ampliò la sua azione politica e religiosa a tutto il resto del Hijaz e, dopo la sua vittoria nel 630 a unayn contro l'alleanza che s'imperniava sulla tribù dei Banū Hawāzin, con una serie di operazioni militari nel cosiddetto Wadi al-qura, a 150 chilometri a settentrione di Medina, conquistò o semplicemente assoggettò vari centri abitati (spesso oasi), come Khaybar, Tabūk e Fadak, il cui controllo aveva indubbie valenze economiche e strategiche.

Due anni dopo Maometto morì a Medina, dopo aver compiuto il Pellegrinaggio detto anche il "Pellegrinaggio dell'Addio", senza indicare esplicitamente chi dovesse succedergli alla guida politica della Umma. Lasciava nove vedove - tra cui ʿĀʾisha bt. Abī Bakr - e una sola figlia vivente, Fāima, andata sposa al cugino del profeta, ʿAlī b. Abī ālib, madre dei suoi nipoti al-asan b. ʿAlī e al-usayn b. ʿAlī. Fatima, piegata dal dolore della perdita del padre e logorata da una vita di sofferenze e fatiche, morì sei mesi più tardi, diventando in breve una delle figure più rappresentative e venerate della religione islamica.

Origine del nome. "Maometto" è la volgarizzazione italiana fatta in età medievale del nome "Muhammad", utile semplificazione della pronuncia. La parola araba "muhammad", che significa "grandemente lodato", è infatti un participio passivo di II forma (intensiva) della radice [h-m-d] (lodare). Secondo lo studioso francese Michel Masson], invece, nelle lingue romanze, e tra queste l'italiano, si osserva una storpiatura del nome del profeta in senso spregiativo (e da ciò deriverebbero, a suo dire, il francese Mahomet e l'italiano Macometto). Allo stesso modo si esprimono alcuni scrittori italiani che ritengono che il nome "Maometto" non sarebbe di diretta origine araba, ma "un'italianizzazione" adottata all'epoca per costituire una sintesi dell'espressione spregiativa di "Mal Commetto", volta a conferire una connotazione negativa al Profeta dell'Islam.

Maometto secondo i non musulmani. Dopo un protratto periodo di indifferenza nei confronti dell'Islam, superficialmente equivocato dalla Cristianità occidentale e orientale, come una delle tante eresie del Cristianesimo nelle dispute con cristiani, questi ultimi sottolinearono sovente il carattere sincretistico della religione di Maometto, basata allo stesso tempo su tradizioni arabe preislamiche (come il culto della Pietra Nera della Mecca) e su tradizioni cristiane siriache ed ebraiche, e mossero critiche alla personalità di Maometto, alla formazione e trasmissione del testo coranico e alla diffusione dell'islam attraverso la spada. Nell'Occidente medievale Maometto fu considerato per oltre cinque secoli un cristiano eretico. Dante Alighieri - non consapevole del profondo grado di diversità teologica della fede predicata da Maometto, per l'influenza su di lui esercitata dal suo Maestro Brunetto Latini, che riteneva Maometto un chierico cristiano di nome Pelagio, appartenente al casato romano dei Colonna - lo cita nel canto XXVIII dell'Inferno tra i seminatori di scandalo e di scisma nella Divina Commedia assieme ad Ali ibn Abi Tàlib, suo cugino-genero, coerentemente con quanto da lui già scritto ai versetti 70-73 del canto VIII dell'Inferno:« ...«Maestro, già le sue meschite / là entro certe ne la valle cerno, / vermiglie come se di foco uscite / fossero... » in cui le "meschite" (evidente deformazione della parola del volgare castigliano mezquita, derivante dall'arabo masjid, che significa moschea) della città di Dite sono le "vermiglie" abitazioni della città dannata ove dimorano gli eresiarchi cristiani. È questo (e non altro) il motivo per cui nella basilica di San Petronio a Bologna, in un celebre affresco, Maometto fu raffigurato all'inferno, secondo la descrizione di Dante, con il ventre squarciato, come spaccata era la comunità cristiana a causa dei suoi vari scismi. Il motivo per cui Dante lo colloca tra i seminatori di discordie e non tra gli eresiarchi è probabilmente dovuto a una leggenda medievale che parla di Maometto come vescovo e cardinale cristiano, che poi avrebbe rinnegato la propria fede, deluso per non aver raggiunto il papato o per altra ragione e avrebbe creato una nuova religione «mescolando quella di Moisè con quella di Cristo». Secondo una tradizione diffusa tra i musulmani, il Negus di Abissinia - che ospitò gli esiliati musulmani quando Maometto era in vita - avrebbe attestato la sua fede in lui come profeta di Dio.

Si può ridere di Dio? Mentre il divino evoca risate, il demoniaco spande paura, scrive Paolo Pegoraro su  “Aleteia”. Ricordiamo tutti il monaco cieco che, ne Il nome della rosa, avvelena quanti si avvicinano al prezioso scritto nel quale Aristotele difende la commedia e il riso. È vero che la tristezza intossica, meno che il Medioevo sia stato un’epoca di cupa e triste penitenza. Eric Auerbach, nel suo immortale studio Mimesis, ha documentato che la struttura portante della narrativa cristiana, a partire dai Vangeli, è proprio la commedia… non la tragedia. E Dante, con la sua Comedìa, ne è la pietra miliare. Lo affianca il prologo che Francois Rabelais – frate francescano (a suo modo), monaco benedettino (a suo modo), parroco diocesano (a suo modo) – antepone al Gargantua et Pantagruel: «Altra cosa non può il mio cuore esprimere / vedendo il lutto che da voi promana: / meglio è di risa che di pianti scrivere, / ché rider soprattutto è cosa umana». Altrettanto si potrebbe dire per il suo predecessore padano, il monaco, poi ex monaco, infine di nuovo monaco Teofilo Folengo. La tradizione del grottesco e del caricaturale crebbe febbrilmente in Occidente: dalle deformi statue gotiche alle pagine grottesche di Flannery O’Connor fino al caricaturale Vangelo secondo Biff di Christopher Moore. Per contrapporsi e disgregare le istituzioni, si dirà. Fosse pure, il fatto è che la tradizione comico-grottesca crebbe qui come non altrove. Prolificò qui un umorismo religioso, dissacrante, talora perfino blasfemo. Nessuna sorpresa: le barzellette più sconce vengono bisbigliate in sacrestia. Come si rapporta, allora, Dio con il ridere? Il grande poeta irlandese Patrick Kavanagh espose il suo pensiero in maniera convincente nella composizione A View of God and the Devil (Una visione di Dio e del Diavolo – traduzione dell’autore).

* * *

Ho incontrato Dio Padre sulla strada e gli aggettivi con cui vorrei descriverlo sono questi: divertente, sperimentale, irresponsabile sulle frivolezze. Non era un uomo che vorrebbe essere eletto al Consiglio né impressionerebbe un vescovo o un circolo di artisti. Non era splendido, spaventoso o tremendo e neppure insignificante. Questo era il mio Dio che fece l’erba e il sole e i ciottoli nei ruscelli in aprile; questo era il Dio che ho incontrato in una vecchia cava colma di denti-di-leone. Questo era il Dio che ho incontrato a Dublino mentre vagavo per strade inconsapevoli. Questo era il Dio che covò sui campi erpicati di Rooney accanto alla statale Carrick il giorno che i miei primi versi furono stampati io lo conobbi e mai ebbi paura di morte o dannazione e seppi che la paura di Dio era il principio della follia.

Il Diavolo anche il Diavolo ho incontrato, e gli aggettivi con cui vorrei descriverlo sono questi: solenne, noioso, conservatore. Era l’uomo che il mondo eleggerebbe al Consiglio, sarebbe nella lista degli invitati al ricevimento di un vescovo, assomigliava a un artista. Era il tizio che scrive di musica sui quotidiani andava in collera quando qualcuno rideva; era grave su cose senza peso; dovevi fare attenzione al suo complesso d’inferiorità perché era consapevole di non essere creativo.

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Colpisce che il primo aggettivo scelto da Kavanagh per descrivere il “suo” Dio sia proprio amusing (“divertente”) in opposizione a quel povero diavolo che «andava in collera quando qualcuno rideva». Perché rideva proprio di lui, probabilmente, abituato a prendersi “dannatamente” sul serio. Mentre il divino sa essere irresponsabile «sulle frivolezze», il demoniaco è grave «su cose senza peso». Mentre il divino evoca risate, il demoniaco spande paura. Mentre il divino umorismo ha mille sfumature, la “dannata” serietà è monolitica e monotona. Il Dio di Kavanagh è un Dio autoironico. Non è possibile deriderlo semplicemente perché è Lui il primo a ridere di se stesso. Non si può ridere “di” Dio semplicemente perché si può ridere soltanto “con” Lui. Proprio perché così prolificamente creativo (egli “cova” i campi come una chioccia) e fantasioso, non sorprenderebbe se fosse Lui in persona l’autore delle migliori storielle su se stesso. Se il demoniaco rivela il proprio «complesso d’inferiorità» irrigidendosi di continuo, nel vano tentativo di nascondere la propria sterilità, per contro il sigillo della creatività senza limiti è l’umiltà (umile, yet not insignificant!). E, fra tutte, l’autoironia è la forma di umiltà più bella. Perché l’autoironia è una forma di umiltà così autentica che proprio non ci riesce, a prendersi sul serio.

Chiunque sa ridere degli altri, basta avere un granello d'intelligenza; ma per ridere con loro di se stessi, occorre un'oncia di santità.

Divina Commedia. Dante aveva già capito tutto: ecco dove e come aveva messo Maometto. C'è una satira anti-Maometto più feroce di quella di Charlie Hebdo. Circola liberamente in Europa e non solo da secoli. A scriverla fu uno dei più grandi scrittori della storia dell'Occidente. E la si studia anche in tutte le scuole. Mette il profeta musulmano e Alì, suo cugino, genero e successore come Califfo, nientemeno che all'inferno, nel canto XXVIII dedicato ai seminatori di discordia. Lui, l'anti-Maometto, è nientemeno che Dante e l'opera è la Divina Commedia. In cui Maometto viene messo nella bolgia più "sozza" che si possa immaginare, piena di corpi mutilati e orrendamente sfigurati. C'è che secondo le convinzioni dell'epoca, condivise evidentemente da Dante, l'islam era il risultato di uno scisma nell'ambito della cristianità: come riporta il Corriere della Sera, il cardinale o monaco Maometto, amareggiato per non aver conseguito il papato, avrebbe fondato una nuova dottrina. Per questo Dante lo immagina nella nona bolgia, squarciato dal mento all'ano, "infin dove si trulla" (ovvero dove si scorreggia). Alì con la faccia spaccata dal mento alla fronte. Questo perchè, secondo Dante, i seminatori di discordia nell'aldilà erano condannati a subire il contrappasso adeguato, soffrendo nel loro corpo le stesse mutilazioni di cui sono stati artefici in vita.

Dante, Maometto e Charlie Hebdo, scrive “Biuso”.

«Già veggia, per mezzul perdere o lulla,

com’io vidi un, così non si pertugia,

rotto dal mento infin dove si trulla.

Tra le gambe pendevan le minugia;

la corata pareva e ‘l tristo sacco

che merda fa di quel che si trangugia.

Mentre che tutto in lui veder m’attacco,

guardommi e con le man s’aperse il petto,

dicendo: ‘Or vedi com’ io mi dilacco!”

vedi come storpiato è Mäometto!’»

(Inferno, XXVIII, 22-31).

Così Dante Alighieri descrive la figura ripugnante dello ‘scismatico’ Maometto, tagliato/squartato come lui volle tagliare/squartare l’unità cristiana del Mediterraneo. Ancora una volta i monoteismi confermano tutta la loro carica di violenza, gli uni contro gli altri. Nel presente i più pericolosi e armati di tali monoteismi sono quello di Israele e quello degli islamisti. Massacrare i redattori del giornale parigino Charlie Hebdo perché hanno «offeso il Profeta» è semplicemente ripugnante. E conferma ancora una volta tutta la violenza insita nell’Identità senza Differenza, nell’Uno.

«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. Non avere altri dèi di fronte a me. […]  Perché io il Signore tuo Dio sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per quanti mi odiano, ma usa misericordia fino a mille generazioni verso coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti» (Deuteronomio, cap. 5, versetti 6-10).

«Allah testimonia, e con Lui gli Angeli e i sapienti, che non c’è dio all’infuori di Lui, Colui Che realizza la giustizia. Non c’è dio all’infuori di Lui, l’Eccelso, il Saggio». (Corano, sura III, versetto 18).

«Egli Allah è Unico, Allah è l’Assoluto. Non ha generato, non è stato generato e nessuno è eguale a Lui» (Corano, sura CXII, versetti 1-4).

«E i miscredenti che muoiono nella miscredenza, saranno maledetti da Allah, dagli angeli e da tutti gli uomini. Rimarranno in questo stato in eterno e il castigo non sarà loro alleviato, né avranno attenuanti. Il vostro Dio è il Dio Unico, non c’è altro dio che Lui, il Compassionevole, il Misericordioso» (Corano, sura II, versetti 161-163).

Dante e l’Islam. È ormai assodata l’influenza di molte fonti musulmane sull’autore della Divina Commedia. Ma oggi, turbati dalla violenza fondamentalista, tendiamo a dimenticare i rapporti profondi tra la cultura araba e quella occidentale, scrive Umberto Eco su “L’Espresso”. Nel 1919 Miguel Asín Palacios pubblicava un libro (“La escatologia musulmana en la Divina Comedia”) che aveva fatto subito molto rumore. In centinaia di pagine identificava analogie impressionanti tra il testo dantesco e vari testi della tradizione islamica, in particolare le varie versioni del viaggio notturno di Maometto all’inferno e al paradiso. Specie in Italia ne era nata una polemica tra sostenitori di quella ricerca e difensori dell’originalità di Dante. Si stava per celebrare il sesto centenario della morte del più “italiano” dei poeti, e inoltre il mondo islamico era guardato piuttosto dall’alto al basso in un clima di ambizioni coloniali e “civilizzatrici”: come si poteva pensare che il genio italico fosse debitore delle tradizioni di “extracomunitari” straccioni? Ricordo che alla fine degli anni Ottanta avevamo organizzato a Bologna una serie di seminari sugli interpreti “deliranti” di Dante, e quando ne era uscito un libro (“L’idea deforme”, a cura di Maria Pia Pozzato) i vari saggi si occupavano di Gabriele Rossetti, Aroux, Valli, Guénon e persino del buon Pascoli, tutti accomunati come interpreti eccessivi, o paranoici, o stravaganti del divino poeta. E si era discusso se porre nella schiera di questi eccentrici anche Asín Palacios. Ma si era deciso di non farlo perché ormai tante ricerche successive avevano stabilito che Asín Palacios forse era stato talora eccessivo ma non delirante. Ormai è assodato che Dante abbia subito l’influenza di molte fonti musulmane. Il problema non è se lui le avesse avvicinate direttamente ma come sarebbero potute pervenirgli. Si potrebbe cominciare dalle molte visioni medievali, dove si raccontava di visite ai regni dell’oltretomba. Sono la “Vita di san Maccario romano”, il “Viaggio di tre santi monaci al paradiso terrestre”, la “Visione di Tugdalo”, sino alla leggenda del pozzo di san Patrizio. Fonti occidentali, certo, ma ecco che Asín Palacios le paragonava a tradizioni islamiche, mostrando che anche in quei casi i visionari occidentali avevano appreso qualcosa dai visionari dell’altra sponda del Mediterraneo. E dire che Asín Palacios non conosceva ancora quel “Libro della Scala”, ritrovato negli anni Quaranta del secolo scorso, tradotto dall’arabo in castigliano e poi in latino e antico francese. Poteva conoscere Dante questa storia del viaggio nell’oltretomba del Profeta? Poteva averne avuto notizia attraverso Brunetto Latini, suo maestro, e la versione latina del testo era contenuta in una “Collectio toledana”, dove Pietro il Venerabile, abate di Cluny, aveva fatto raccogliere testi arabi filosofici e scientifici - tutto questo prima della nascita di Dante. E Maria Corti si era molto battuta per riconoscer la presenza di queste fonti musulmane nell’opera dantesca. Chi oggi voglia leggere qualcosa su almeno un resoconto della avventura oltremondana del Profeta trova da Einaudi “Il viaggio notturno e l’ascensione del profeta”, con una prefazione di Cesare Segre. Il riconoscere queste influenze non toglie nulla alla grandezza di Dante, con buona pace degli antichi oppositori di Asín Palacios. Tanti autori grandissimi hanno porto orecchio a tradizioni letterarie precedenti (si pensi, tanto per fare un esempio all’Ariosto) e tuttavia hanno poi concepito un’opera assolutamente originale. Ho rievocato queste polemiche e queste scoperte perché ora l’editrice Luini ripubblica il libro di Asín Palacios, con il titolo più accattivante di “Dante e l’Islam”, e riprende la bella introduzione che Carlo Ossola ne aveva scritto per la traduzione del 1993. Ha ancora senso leggere questo libro, dopo che tante ricerche successive gli hanno in gran parte dato ragione? Lo ha, perché è scritto piacevolmente e presenta una mole immensa di raffronti tra Dante e i suoi “precursori” arabi. E lo ha ai giorni nostri quando, turbati dalle barbare follie del fondamentalismi musulmani, si tende a dimenticare i rapporti che ci sono sempre stati tra la cultura occidentale e la ricchissima e progredita cultura islamica dei secoli passati.

Maometto prima di Dante all'inferno. Un viaggio miracoloso che precede e forse ispira la «Commedia». Ma è solo apologetico, scrive Segre Cesare su “Il Corriere della Sera”. Nei suoi ultimi dieci anni Maria Corti era tutta presa dal problema dei contatti arabo-cristiani nella letteratura medievale. Punti di riferimento, sostanzialmente due: il tema del viaggio di Ulisse oltre le colonne d'Ercole, forse derivato da tradizioni arabe, e gli eventuali contatti fra la Commedia e un testo musulmano, il Libro della Scala, che narrava il miracoloso viaggio notturno di Maometto dalla Mecca a Gerusalemme e la sua successiva visita nei regni oltramondani. Per i due protagonisti, Ulisse e Dante, l'obiettivo è il mondo dei morti: sfiorato da Ulisse, attraversato da Dante. Le ricerche della Corti diedero spunto ad articoli e conversazioni, dibattiti, interviste. Ci si potrebbe stupire di tanto interesse per problemi che non trovarono del tutto le soluzioni desiderate, ma davvero stimolante per il lettore era già la possibilità di immergersi in problematiche di ricerca sempre più raffinate, che, indipendentemente dalle auspicate conclusioni, attraversavano punti nodali della cultura del Medioevo.Si sa che fra cultura musulmana e cultura occidentale esisteva una notevole interrelazione, che l'intensa attività traduttoria rese ancora più stretta. Si traduceva, naturalmente, dall'arabo al latino e alle lingue romanze, e non viceversa. Tra le opere tradotte, c'è il cosiddetto Libro della Scala: l'originale arabo è perduto, così come la sua prima versione spagnola, opera di un medico ebreo legato al re di Castiglia Alfonso el Sabio, ma rimangono due traduzioni, una latina e una francese, derivate dalla versione spagnola e da ascrivere (sicuramente la prima, forse la seconda) a un notaio toscano, Bonaventura da Siena, esule, dopo il 1260, presso Alfonso.Il Libro della Scala è forse la traduzione dall'arabo che ha suscitato più interesse, ma non tanto nel mondo medievale, quanto semmai presso i lettori moderni, e per una ragione molto semplice: le sue vere o apparenti rassomiglianze con la Commedia. Che Dante abbia conosciuto e imitato il popolare libro arabo?La prima curiosità per l'opera si era manifestata dopo l'edizione del testo latino pubblicata da Enrico Cerulli (1949): nella postfazione, Cerulli insisteva sul problema dei rapporti tra Libro e Commedia, riferendosi ai concetti di plagio e di imitazione (due concetti, sia detto per inciso, che ora noi trattiamo diversamente, parlando piuttosto di intertestualità e interdiscorsività). Poi tutto si calmò, almeno fino agli studi della Corti. Ora, una nuova edizione del Libro ci consente di riprendere il discorso, alla luce anche di nuove scoperte e prospettive. Il problema non è più analizzare le affinità, ma distinguere tra ciò che accomuna le due opere perché elemento diffuso nella cultura del tempo, e ciò che è stato trasposto di proposito dall'una all'altra narrazione. Si tenga conto che nel Medioevo lo scambio d'invenzioni e d'immagini era frequentissimo, anche tra gli apologeti delle tre fedi monoteistiche.La nuova edizione che ci propone Anna Longoni, allieva della Corti (Il libro della Scala di Maometto, Bur, pp. 368, ? 13), ha come pregio maggiore quello di offrirci un'edizione filologica della versione (o riscrittura) latina, testimoniata da due manoscritti, uno vaticano, dell'inizio del XIV secolo, e l'altro conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi, affiancata da una precisa traduzione in italiano moderno. Ma non vanno trascurati né l'Introduzione, molto informata, né, in appendice, la ristampa del principale articolo della Corti su Dante e la cultura islamica.In partenza, direi che gli elementi congiuntivi tra Libro e Commedia sono soprattutto la strutturazione dei regni ultraterreni e la descrizione delle pene dei dannati, mentre quello disgiuntivo è lo spirito completamente diverso che anima le due opere. La Commedia ha finalità didattiche, filosofiche e narrative, in fondo anche autocelebrative; il Libro della Scala è l'esaltazione di Allah e della sua potenza, e la consacrazione di Maometto come profeta. In più, la Commedia è primariamente un'opera d'arte, mentre il Libro della Scala è opera eminentemente apologetica. Ma ciò che allontana la Scala dalla Commedia è la diversissima tradizione che caratterizza le due opere. Perché i temi del «viaggio notturno» e dell'«ascensione al cielo» di Maometto, di cui il Libro della Scala presenta una redazione particolare, sono maturati attraverso il tempo: concepiti già all'epoca di Maometto (VII secolo), sono stati rielaborati precocemente (dice la tradizione) da Ibn'Abbas, cugino del Profeta, riscritti nel IX secolo. E continuano tuttora a circolare, anche a livello popolare (in proposito, si può leggere l'edizione del Viaggio di Ibn'Abbas a cura di Ida Zilio-Grandi, Einaudi 2010). Della Commedia viceversa sappiamo tutto, o quasi, dato che ci è noto chi l'ha scritta e quando. Nel tessuto dello stesso Libro è evidente la bipartizione tra il «viaggio notturno» di Maometto per andare dalla Mecca a Gerusalemme su una specie di ippogrifo, e il «Libro della scala», in senso stretto, che prevede l'ascensione di Maometto, attraverso la scala di Giacobbe, dall'inferno al paradiso, sino all'incontro con Allah. A un certo punto le due parti sono state cucite assieme: si tenga conto che si tratta di un'opera a tradizione orale, dunque aperta a qualunque contaminazione, anche se va riconosciuto che il contenuto rimane in fondo unitario. Ma Dante come avrebbe potuto conoscere il Libro della Scala? S'era inventata una favola ingegnosa, senza prove: Brunetto Latini, ambasciatore dei guelfi fiorentini alla corte di Alfonso el Sabio, una volta tornato a Firenze, avrebbe potuto riassumere al suo discepolo Dante il Libro, o qualche sua parte. Ma oggi gli studi sull'islamismo medievale sono molto più approfonditi, e sappiamo persino di vere scuole di arabo, in Inghilterra, a Hereford, o nel Convento di Miramar a Maiorca, oltre naturalmente alla scuola di Toledo. Il prodotto più consistente di questi circoli di studiosi è la Collectio Toletana, un'antologia di testi arabi, tra cui il Corano, tradotti in latino, e ampiamente diffusi nell'Europa medievale. Anche la convinzione che in Italia il Libro fosse sconosciuto, già smentita dai versi di Fazio degli Uberti, che nel Dittamondo (1336) cita un «Libro che Scala ha nome» e riassume in qualche verso i costumi musulmani, è ora solennemente confutata (2011) da Luciano Gargan, che ha trovato il Libro citato in un catalogo bolognese del 1312, che elenca i libri di un frate domenicano, Ugolino.Ma insomma Dante ha conosciuto o no il Libro della Scala? Tutti i critici, anche la Corti e la Longoni, hanno cercato, con equilibrio, le prove più consistenti. Certo, Dante, come tutti i grandi, è capace di trovare spunti e suggerimenti ovunque, e può aver raccattato qualcosa anche da lì. Però bisogna rendersi conto delle sue prospettive e delle sue presupposizioni culturali. Cosa poteva trovare in un libro nettamente popolare, dove il gusto dell'iperbole («misura in lunghezza quanto potrebbe percorrere un uomo in cinquecento anni»; «ognuno di questi serpenti ha in bocca diciottomila denti, ciascuno dei quali è grande tanto quanto una di quelle piante chiamate palme») si mescola con quello dei colori, sicché Maometto avanza tra quinte di veli colorati? C'è qualche scena grandiosa, ma l'unico sentimento che suscita è lo stupore. Noi siamo vittime del gusto moderno per il primitivo, e abbiamo tutto il diritto di accostare il Libro della Scala alla Commedia. Ma quanto a metterli sullo stesso piano, a qualcuno è lecito essere riluttante.

«Dante antisemita e islamofobo. La Divina Commedia va tolta dai programmi scolastici». L'accusa di Gherush92 organizzazione di ricercatori consulente dell'Onu, scrive “Il Corriere della Sera”. in alternativa alcune parti del capolavoro andrebbero espunte dal testo. La Divina Commedia deve essere tolta dai programmi scolastici: troppi contenuti antisemiti, islamofobici, razzisti ed omofobici. La sorprendente richiesta arriva da «Gherush92», organizzazione di ricercatori e professionisti che gode dello status di consulente speciale con il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite e che svolge progetti di educazione allo sviluppo, diritti umani, risoluzione dei conflitti.

ANTISEMITISMO - «La Divina Commedia - spiega all'Adnkronos Valentina Sereni, presidente di Gherush92 - pilastro della letteratura italiana e pietra miliare della formazione degli studenti italiani presenta contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza e viene proposta senza che via sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all'antisemitismo e al razzismo». Sotto la lente di ingrandimento in particolare i canti XXXIV, XXIII, XXVIII, XIV. Il canto XXXIV, spiega l'organizzazione, è una tappa obbligata di studio. Il personaggio e il termine Giuda e giudeo sono parte integrante della cultura cristiana: «Giuda per antonomasia è persona falsa, traditore (da Giuda, nome dell'apostolo che tradì Gesù)»; «giudeo è termine comune dispregiativo secondo un antico pregiudizio antisemita che indica chi è avido di denaro, usuraio, persona infida, traditore» (così scrive De Mauro, Il dizionario della lingua italiana). Il significato negativo di giudeo è poi esteso a tutto il popolo ebraico. Il Giuda dantesco è la rappresentazione del Giuda dei Vangeli, fonte dell'antisemitismo. «Studiando la Divina Commedia - sostiene Gherush92 - i giovani sono costretti, senza filtri e spiegazioni, ad apprezzare un'opera che calunnia il popolo ebraico, imparano a convalidarne il messaggio di condanna antisemita, reiterato ancora oggi nelle messe, nelle omelie, nei sermoni e nelle prediche e costato al popolo ebraico dolori e lutti». E ancora, prosegue l'organizzazione, «nel canto XXIII Dante punisce il Sinedrio che, secondo i cristiani, complottò contro Gesù; i cospiratori, Caifas sommo sacerdote, Anna e i Farisei, subiscono tutti la stessa pena, diversa però da quella del resto degli ipocriti: per contrappasso Caifas è nudo e crocefisso a terra, in modo che ogni altro dannato fra gli ipocriti lo calpesti».

MAOMETTO - Ma attenzione. Il capolavoro di Dante conterrebbe anche accenti islamofobici. «Nel canto XXVIII dell'Inferno - spiega ancora Sereni - Dante descrive le orrende pene che soffrono i seminatori di discordie, cioè coloro che in vita hanno operato lacerazioni politiche, religiose e familiari. Maometto è rappresentato come uno scismatico e l'Islam come una eresia. Al Profeta è riservata una pena atroce: il suo corpo è spaccato dal mento al deretano in modo che le budella gli pendono dalle gambe, immagine che insulta la cultura islamica. Alì, successore di Maometto, invece, ha la testa spaccata dal mento ai capelli. L'offesa - aggiunge - è resa più evidente perchè il corpo "rotto" e "storpiato" di Maometto è paragonato ad una botte rotta, oggetto che contiene il vino, interdetto dalla tradizione islamica. Nella descrizione di Maometto vengono impiegati termini volgari e immagini raccapriccianti tanto che nella traduzione in arabo della Commedia del filologo Hassan Osman sono stati omessi i versi considerati un'offesa».

OMOSESSUALI - Anche gli omosessuali, nel linguaggio dantesco i sodomiti, sarebbero messi all'indice nel poema dell'Alighieri. Coloro che ebbero rapporti «contro natura», sono infatti puniti nell'Inferno: i sodomiti, i peccatori più numerosi del girone, sono descritti mentre corrono sotto una pioggia di fuoco, condannati a non fermarsi. Nel Purgatorio i sodomiti riappaiono, nel canto XXVI, insieme ai lussuriosi eterosessuali. «Non invochiamo nè censure nè roghi - precisa Sereni - ma vorremmo che si riconoscesse, in maniera chiara e senza ambiguità che nella Commedia vi sono contenuti razzisti, islamofobici e antisemiti. L'arte non può essere al di sopra di qualsiasi giudizio critico. L'arte è fatta di forma e di contenuto e anche ammettendo che nella Commedia esistano diversi livelli di interpretazione, simbolico, metaforico, iconografico, estetico, ciò non autorizza a rimuovere il significato testuale dell'opera, il cui contenuto denigratorio è evidente e contribuisce, oggi come ieri, a diffondere false accuse costate nei secoli milioni e milioni di morti. Persecuzioni, discriminazioni, espulsioni, roghi hanno subito da parte dei cristiani ebrei, omosessuali, mori, popoli infedeli, eretici e pagani, gli stessi che Dante colloca nei gironi dell'inferno e del purgatorio. Questo è razzismo che letture simboliche, metaforiche ed estetiche dell'opera, evidentemente, non rimuovono».

CRIMINI - «Oggi - conclude Sereni - il razzismo è considerato un crimine ed esistono leggi e convenzioni internazionali che tutelano la diversità culturale e preservano dalla discriminazione, dall'odio o dalla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e a queste bisogna riferirsi; quindi questi contenuti, se insegnati nelle scuole o declamati in pubblico, contravvengono a queste leggi, soprattutto se in presenza di una delle categorie discriminate. È nostro dovere segnalare alle autoritá competenti, anche giudiziarie, che la Commedia presenta contenuti offensivi e razzisti che vanno approfonditi e conosciuti. Chiediamo, quindi, di espungere la Divina Commedia dai programmi scolastici ministeriali o, almeno, di inserire i necessari commenti e chiarimenti». Certo c'è da chiederci cosa succederebbe se il criterio proposto da «Gherush92» venisse applicato ai grandi autori della letteratura. In Gran Bretagna vedremmo censurato «Il mercante di Venezia» di Shakespeare? O alcuni dei racconti di Chaucer? Certo è che il tema del politicamente corretto finisce sempre più per invadere sfere distanti dalla politica vera e propria. Così il Corriere in un articolo del 1996 racconta come, al momento di scegliere personaggi celebri per adornare le future banconote dell'euro, Shakespeare fu scartato perchè potenzialmente antisemita Mozart perché massone, Leonardo Da Vinci perché omosessuale. Alla fine si decise per mettere sulle banconote immagini di ponti almeno loro non accusabili di nulla.

Dante "razzista", follia Onu: bandire Divina Commedia. L'associazione Gherush92, consulente delle Nazioni Unite: "Offende ebrei, musulmani, gay. Non va studiata a scuola", scrive di Caterina Maniaci su “Libero Quotidiano”. L’hanno recitata a migliaia, ovunque nel mondo; l’hanno citata, letta, studiata, commentata in milioni di volumi e per intere generazioni. È persino diventata una sorta di fenomeno sociale, dopo che Vittorio Sermonti prima e Roberto Benigni poi l’hanno declamata a un pubblico sempre più numeroso, fino ad approdare in tv. Ma nessuno, fino a oggi, si era mai immaginato di poter parlare della Divina Commedia in questi termini: ossia come un’opera piena di luoghi comuni, frasi offensive, razziste, islamofobiche e antisemite che difficilmente possono essere comprese e che raramente vengono evidenziate e spiegate nel modo corretto. Definisce così il contenuto di numerose terzine dantesche “Gherush92”, organizzazione  di ricercatori e professionisti che gode dello status di consulente speciale per il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite e   che svolge progetti di educazione allo sviluppo, diritti umani, risoluzione dei conflitti, razzismo, antisemitismo, islamofobia. E proprio secondo questa organizzazione il poema di Dante andrebbe eliminato dai programmi scolastici o, quanto meno, letto con le dovute accortezze. Sotto la lente censoria sono finiti, in particolare, i canti dell’Inferno XIV, XXIII, XXVIII e XXXIV. Il canto XXXIV, spiega l’organizzazione, è una tappa obbligata di studio. Il personaggio e il termine Giuda e giudeo sono parte integrante della cultura cristiana: «Giuda per antonomasia è persona falsa, traditore (da Giuda, nome dell’apostolo che tradì Gesù)»; «giudeo è termine comune dispregiativo secondo un antico   pregiudizio antisemita che indica chi è avido di denaro, usuraio,   persona infida, traditore». Il significato negativo di giudeo è esteso a tutto il popolo ebraico. Il Giuda dantesco è la rappresentazione del Giuda dei Vangeli, fonte dell’antisemitismo. E ancora, prosegue l’organizzazione, «nel canto XXIII Dante punisce il Sinedrio che, secondo i cristiani, complottò contro Gesù;  i cospiratori, Caifas sommo sacerdote, Anna e i Farisei, subiscono tutti la stessa pena, diversa però da quella del resto degli ipocriti: per contrappasso Caifas è nudo e crocefisso a terra, in modo che ogni altro dannato fra gli ipocriti lo calpesti». Il poema, spiega  Valentina Sereni,  presidente di Gherush92, «pilastro della letteratura italiana e pietra  miliare della formazione degli studenti italiani, presenta contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza e viene proposto senza che via sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all’antisemitismo e al razzismo». Spiega ancora Sereni: «Nel canto XXVIII dell’Inferno  Dante descrive le orrende pene che soffrono i seminatori di discordie, cioè coloro che in vita hanno operato lacerazioni politiche, religiose e familiari. Maometto è rappresentato come uno scismatico e l’Islam come un’eresia. Al Profeta è riservata una pena atroce: il suo corpo è spaccato dal mento al deretano, in modo che le budella gli pendono dalle gambe, immagine che insulta la cultura islamica. Alì, successore di Maometto, invece, ha la testa spaccata dal mento ai capelli». «L’offesa», aggiunge, «è resa più evidente perché il corpo “rotto” e “storpiato” di Maometto è paragonato ad una botte rotta, oggetto che contiene il vino, interdetto dalla tradizione islamica. Nella descrizione di Maometto vengono impiegati termini volgari e immagini raccapriccianti tanto che nella traduzione in arabo della Commedia del filologo Hassan Osman sono stati omessi i versi   considerati un’offesa». La stessa Sereni, da noi ricontattata, ci spiega che lo studio sulla Divina Commedia è stato eseguito dai ricercatori  di Gherush92 «dopo alcuni mesi di riflessione». Il gruppo «si finanzia con le quote dei soci iscritti». Alla domanda se esistono nuovi studi su altre opere letterarie, risponde: «Ci stiamo lavorando e più avanti saranno diffusi». Nessun timore che, utilizzando simili criteri di analisi, tutta la letteratura italiana delle origini possa essere considerata razzista, omofoba e antisemita? «Non è colpa nostra se ci sono opere d’arte italiane eventualmente  razziste», ribadisce la Sereni, perché «è l’insegnamento della Divina Commedia che deve essere contestualizzato e siccome viene insegnata e proclamata oggi, il contesto è oggi. Oggi possiamo e dobbiamo fare queste osservazioni sul razzismo nella Divina Commedia e in altre opere d’arte. D’altra parte il razzismo contro le stesse entità esisteva tanto allora quanto oggi». Tutto chiaro e preciso. Ma pur essendo Gherush92 consulente dell’Onu, status di tutto rispetto e cosa che non è concessa proprio a tutte le organizzazioni, la sede a Roma, segnalata  nel sito dell’United Nations Department of Economic and Social Affairs, è inesistente: a quell’indirizzo non risulta nessuna organizzazione. Lo abbiamo scoperto personalmente. Una zona di quasi campagna, nella periferia nord della Capitale, tra villette e piccoli capannoni aziendali. Il numero civico non corrisponde, anzi non esiste. Chiediamo in giro. «Associazione Gherush92? Mai sentita, qui non c’è», risponde una ragazza che esce da un cancello. In effetti, ci viene confermato dalla stessa associazione che quell’indirizzo non è valido e non ce n’è un altro cui fare riferimento...

Il nemico che trattiamo da amico. (Questo articolo fu pubblicato sul Corriere della Sera il 16 luglio 2005). All’indomani dell’attentato terroristico di matrice islamica che ha insanguinato la redazione parigina del settimanale satirico Charlie Hebdo, si inseriscono nel dibattito pubblico di queste ore, le riflessioni di Oriana Fallaci sul rapporto tra Islam e Occidente. L’articolo fu scritto dopo la strage alla metropolitana di Londra del 7 luglio 2005 da Oriana Fallaci.

Ora mi chiedono: «Che cosa dice, che cosa ha da dire, su quello che è successo a Londra?». Me lo chiedono a voce, per fax, per email, spesso rimproverandomi perché finoggi sono rimasta zitta. Quasi che il mio silenzio fosse stato un tradimento. E ogni volta scuoto la testa, mormoro a me stessa: cos' altro devo dire?!? Sono quattr'anni che dico. Che mi scaglio contro il Mostro deciso ad eliminarci fisicamente e insieme ai nostri corpi distruggere i nostri principii e i nostri valori. La nostra civiltà. Sono quattr' anni che parlo di nazismo islamico, di guerra all' Occidente, di culto della morte, di suicidio dell' Europa. Un' Europa che non è più Europa ma Eurabia e che con la sua mollezza, la sua inerzia, la sua cecità, il suo asservimento al nemico si sta scavando la propria tomba. Sono quattr' anni che come una Cassandra mi sgolo a gridare «Troia brucia, Troia brucia» e mi dispero sui Danai che come nell' Eneide di Virgilio dilagano per la città sepolta nel torpore. Che attraverso le porte spalancate accolgono le nuove truppe e si uniscono ai complici drappelli. Quattr' anni che ripeto al vento la verità sul Mostro e sui complici del Mostro cioè sui collaborazionisti che in buona o cattiva fede gli spalancano le porte. Che come nell' Apocalisse dell' evangelista Giovanni si gettano ai suoi piedi e si lasciano imprimere il marchio della vergogna.

Incominciai con «La Rabbia e l'Orgoglio». Continuai con «La Forza della Ragione». Proseguii con «Oriana Fallaci intervista sé stessa» e con «L' Apocalisse». E tra l'uno e l'altro la predica «Sveglia, Occidente, sveglia». I libri, le idee, per cui in Francia mi processarono nel 2002 con l'accusa di razzismo-religioso e xenofobia. Per cui in Svizzera chiesero al nostro ministro della Giustizia la mia estradizione in manette. Per cui in Italia verrò processata con l'accusa di vilipendio all'Islam cioè reato di opinione. (Reato che prevede tre anni di galera, quanti non ne riceve l'islamico sorpreso con l'esplosivo in cantina). Libri, idee, per cui la Sinistra al Caviale e la Destra al Fois Gras ed anche il Centro al Prosciutto mi hanno denigrata vilipesa messa alla gogna insieme a coloro che la pensano come me. Cioè insieme al popolo savio e indifeso che nei loro salotti viene definito dai radical-chic «plebaglia di destra». Sì, è vero: sui giornali che nel migliore dei casi mi opponevano farisaicamente la congiura del silenzio ora appaiono titoli composti coi miei concetti e le mie parole. Guerra all'Occidente, Culto della Morte, Suicidio dell'Europa, Sveglia Italia Sveglia. Sì, è vero: sia pur senza ammettere che non avevo torto l'ex segretario della Quercia ora concede interviste nelle quali dichiara che questi terroristi vogliono distruggere i nostri valori, che questo stragismo è di tipo fascista ed esprime odio per la nostra civiltà».

Sì, è vero: parlando di Londonistan, il quartiere dove vivono i ben settecentomila musulmani di Londra, i giornali che prima sostenevano i terroristi fino all'apologia di reato ora dicono ciò che dicevo io quando scrivevo che in ciascuna delle nostre città esiste un'altra città. Una città sotterranea, uguale alla Beirut invasa da Arafat negli anni Settanta. Una città straniera che parla la propria lingua e osserva i propri costumi, una città musulmana dove i terroristi circolano indisturbati e indisturbati organizzano la nostra morte. Del resto ora si parla apertamente anche di terrorismo-islamico, cosa che prima veniva evitata con cura onde non offendere i cosiddetti musulmani moderati. Sì, è vero: ora anche i collaborazionisti e gli imam esprimono le loro ipocrite condanne, le loro mendaci esecrazioni, la loro falsa solidarietà coi parenti delle vittime. Si, è vero: ora si fanno severe perquisizioni nelle case dei musulmani indagati, si arrestano i sospettati, magari ci si decide ad espellerli. Ma in sostanza non è cambiato nulla. Nulla. Dall'antiamericanismo all'antioccidentalismo al filoislamismo, tutto continua come prima. Persino in Inghilterra. Sabato 9 luglio cioè due giorni dopo la strage la BBC ha deciso di non usare più il termine «terroristi», termine che esaspera i toni della Crociata, ed ha scelto il vocabolo «bombers». Bombardieri, bombaroli. Lunedì 11 luglio cioé quattro giorni dopo la strage il Times ha pubblicato nella pagina dei commenti la vignetta più disonesta ed ingiusta ch'io abbia mai visto. Quella dove accanto a un kamikaze con la bomba si vede un generale anglo-americano con un' identica bomba. Identica nella forma e nella misura. Sulla bomba, la scritta: «Killer indiscriminato e diretto ai centri urbani». Sulla vignetta, il titolo: «Spot the difference, cerca la differenza».

Quasi contemporaneamente, alla televisione americana ho visto una giornalista del Guardian, il quotidiano dell' estrema sinistra inglese, che assolveva l'apologia di reato manifestata anche stavolta dai giornali musulmani di Londra. E che in pratica attribuiva la colpa di tutto a Bush. Il criminale, il più grande criminale della Storia, George W. Bush. «Bisogna capirli». Cinguettava «la politica americana li ha esasperati. Se non ci fosse stata la guerra in Iraq...». (Giovanotta, l'11 settembre la guerra in Iraq non c'era. L'11 settembre la guerra ce l'hanno dichiarata loro. Se n'è dimenticata?). E contemporaneamente ho letto su Repubblica un articolo dove si sosteneva che l'attacco alla subway di Londra non è stato un attacco all'Occidente. E' stato un attacco che i figli di Allah hanno fatto contro i propri fantasmi. Contro l'Islam «lussurioso» (suppongo che voglia dire «occidentalizzato») e il cristianesimo «secolarizzato». Contro i pacifisti indù e la magnifica varietà che Allah ha creato. Infatti, spiegava, in Inghilterra i musulmani sono due milioni e nella metropolitana di Londra non trovi un inglese nemmeno a pagarlo oro. Tutti in turbante, tutti in kefiah. Tutti con la barba lunga e il djellabah. Se ci trovi una bionda con gli occhi azzurri è una circassa». (Davvero?!? Chi l' avrebbe mai detto!!! Nelle fotografie dei feriti non scorgo né turbanti né kefiah, né barbe lunghe né djellabah. E nemmeno burka e chador. Vedo soltanto inglesi come gli inglesi che nella Seconda Guerra Mondiale morivano sotto i bombardamenti nazisti. E leggendo i nomi dei dispersi vedo tutti Phil Russell, Adrian Johnson, Miriam Hyman, più qualche tedesco o italiano o giapponese. Di nomi arabi, finoggi, ho visto soltanto quello di una giovane donna che si chiamava Shahara Akter Islam).

Continua anche la fandonia dell' Islam «moderato», la commedia della tolleranza, la bugia dell'integrazione, la farsa del pluriculturalismo. Vale a dire delle moschee che esigono e che noi gli costruiamo. Nel corso d' un dibattito sul terrorismo, al consiglio comunale di Firenze lunedì 11 luglio il capogruppo diessino ha dichiarato: «E' ora che anche a Firenze ci sia una moschea». Poi ha detto che la comunità islamica ha esternato da tempo la volontà di costruire una moschea e un centro culturale islamico simili alla moschea e al centro culturale islamico che sorgeranno nella diessina Colle val d'Elsa. Provincia della diessina Siena e del suo filo-diessino Monte dei Paschi, già la banca del Pci e ora dei Ds. Bé, quasi nessuno si è opposto. Il capogruppo della Margherita si è detto addirittura favorevole. Quasi tutti hanno applaudito la proposta di contribuire all' impresa coi soldi del municipio cioé dei cittadini, e l'assessore all'urbanistica ha aggiunto che da un punto di vista urbanistico non ci sono problemi. «Niente di più facile». Episodio dal quale deduci che la città di Dante e Michelangelo e Leonardo, la culla dell' arte e della cultura rinascimentale, sarà presto deturpata e ridicolizzata dalla sua Mecca. Peggio ancora: continua la Political Correctness dei magistrati sempre pronti a mandare in galera me e intanto ad assolvere i figli di Allah. A vietarne l' espulsione, ad annullarne le (rare) condanne pesanti, nonché a tormentare i carabinieri o i poliziotti che con loro gran dispiacere li arrestano. Milano, pomeriggio dell' 8 luglio cioé il giorno dopo la strage di Londra. Il quarantaduenne Mohammed Siliman Sabri Saadi, egiziano e clandestino, viene colto senza biglietto sull' autobus della linea 54. Per effettuare la multa i due controllori lo fanno scendere e scendono con lui. Gli chiedono un documento, lui reagisce ingaggiando una colluttazione. Ne ferisce uno che finirà all'ospedale, scappa perdendo il passaporto, ma la Volante lo ritrova e lo blocca. Nonostante le sue resistenze, dinanzi a una piccola folla lo ammanetta e nello stesso momento ecco passare una signora che tutta stizzita vuole essere ascoltata come testimone se il poverino verrà processato ed accusato di resistenza. I poliziotti le rispondono signora ci lasci lavorare, e allora lei allunga una carta di identità dalla quale risulta che è un magistrato. Sicché un po' imbarazzati ne prendono atto poi portano Mohammed in questura e qui... Bé, invece di portarlo al centro di permanenza temporanea dove (anziché in galera) si mettono i clandestini, lo lasciano andare invitandolo a presentarsi la prossima settimana al processo cui dovrà sottoporsi per resistenza all' arresto e lesioni a pubblico ufficiale. Lui se ne va, scompare (lo vedremo mai più?) e indovina chi è la signora tutta stizzita perché lo avevano ammanettato come vuole la prassi.

La magistrata che sette mesi fa ebbe il suo piccolo momento di celebrità per aver assolto con formula piena tre musulmani accusati di terrorismo internazionale e per aver aggiunto che in Iraq non c' è il terrorismo, c' è la guerriglia, che insomma i tagliateste sono Resistenti. Sì, proprio quella che il vivace leghista Borghezio definì «una vergogna per Milano e per la magistratura». E indovina chi anche oggi la loda, la difende, dichiara ha fatto benissimo. I diessini, i comunisti, e i soliti verdi. Continua anche la panzana che l'Islam è una religione di pace, che il Corano predica la misericordia e l'amore e la pietà. Come se Maometto fosse venuto al mondo con un ramoscello d'ulivo in bocca e fosse morto crocifisso insieme a Gesù. Come se non fosse stato anche lui un tagliateste e anziché orde di soldati con le scimitarre ci avesse lasciato san Matteo e san Marco e san Luca e san Giovanni intenti a scrivere gli Evangeli. Continua anche la frottola dell' Islam vittima dell'Occidente. Come se per quattordici secoli i musulmani non avessero mai torto un capello a nessuno e la Spagna e la Sicilia e il Nord Africa e la Grecia e i Balcani e l'Europa orientale su su fino all' Ucraina e alla Russia le avesse occupate la mia bisnonna valdese. Come se ad arrivare fino a Vienna e a metterla sotto assedio fossero state le suore di sant'Ambrogio e le monache Benedettine. Continua anche la frode o l'illusione dell'Islam Moderato. Con questa, il tentativo di farci credere che il nemico è costituito da un' esigua minoranza e che quella esigua minoranza vive in paesi lontani.

Bé, il nemico non è affatto un'esigua minoranza. E ce l'abbiamo in casa. Ce l'avevamo in casa l'11 settembre del 2001 cioé a New York. Ce l'avevamo in casa l'11 marzo del 2004 cioé a Madrid. Ce l' avevamo in casa l'1, il 2, il 3 settembre del medesimo anno a Beslan dove si divertirono anche a fare il tiro a segno sui bambini che dalla scuola fuggivano terrorizzati, e di bambini ne uccisero centocinquanta. Ce l'avevamo in casa il 7 luglio scorso cioé a Londra dove i kamikaze identificati erano nati e cresciuti. Dove avevano studiato finalmente qualcosa, erano vissuti finalmente in un mondo civile, e dove fino alla sera precedente s'eran divertiti con le partite di calcio o di cricket. Ce l'abbiamo in casa da oltre trent'anni, perdio. Ed è un nemico che a colpo d'occhio non sembra un nemico. Senza la barba, vestito all'occidentale, e secondo i suoi complici in buona o in malafede perfettamente inserito nel nostro sistema sociale. Cioé col permesso di soggiorno. Con l'automobile. Con la famiglia. E pazienza se la famiglia è spesso composta da due o tre mogli, pazienza se la moglie o le mogli le fracassa di botte, pazienza se non di rado uccide la figlia in blue jeans, pazienza se ogni tanto suo figlio stupra la quindicenne bolognese che col fidanzato passeggia nel parco. E' un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità. Tale intensità che verrebbe spontaneo gridargli: se siamo così brutti, così cattivi, così peccaminosi, perché non te ne torni a casa tua? Perché stai qui? Per tagliarci la gola o farci saltare in aria? Un nemico, inoltre, che in nome dell' umanitarismo e dell' asilo politico (ma quale asilo politico, quali motivi politici?) accogliamo a migliaia per volta anche se i Centri di Accoglienza straripano, scoppiano, e non si sa più dove metterlo. Un nemico che in nome della «necessità» (ma quale necessità, la necessità di riempire le strade coi venditori ambulanti e gli spacciatori di droga?) invitiamo anche attraverso l'Olimpo Costituzionale. «Venite, cari, venite. Abbiamo tanto bisogno di voi». Un nemico che per partorire non ha bisogno della procreazione assistita, delle cellule staminali. Il suo tasso di natalità è così alto che secondo il National Intelligence Council alla fine di quest'anno la popolazione musulmana in Eurabia risulterà raddoppiata. Un nemico che le moschee le trasforma in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi, e che obbedisce ciecamente all' imam (però guai se arresti l'imam.

Peggio ancora, se qualche agente della Cia te lo toglie dai piedi col tacito consenso dei nostri servizi segreti). Un nemico che in virtù della libera circolazione voluta dal trattato di Schengen scorrazza a suo piacimento per l'Eurabia sicché per andare da Londra a Marsiglia, da Colonia a Milano o viceversa, non deve esibire alcun documento. Può essere un terrorista che si sposta per organizzare o materializzare un massacro, può avere addosso tutto l' esplosivo che vuole: nessuno lo ferma, nessuno lo tocca. (Ma quando in seguito alla strage di Londra la Francia denuncia il trattato di Schengen e perfino la Spagna zapatera pensa di imitarla, l'Italia e gli altri paesi europei rispondono scandalizzati no no). Un nemico che appena installato nelle nostre città o nelle nostre campagne si abbandona alle prepotenze ed esige l' alloggio gratuito o semi-gratuito nonché il voto e la cittadinanza. Tutte cose che ottiene senza difficoltà. Un nemico che protetto dalla Sinistra al Caviale e dalla Destra al Fois Gras e dal Centro al Prosciutto ciancia, appunto, di integrazione e pluriculturalismo ma intanto ci impone le proprie regole e i propri costumi. Che bandisce il maiale dalle mense delle scuole, delle fabbriche, delle prigioni. Che aggredisce la maestra o la preside perché una scolara bene educata ha gentilmente offerto al compagno di classe musulmano la frittella di riso al marsala cioé «col liquore». E attenta a non ripeter l'oltraggio. Un nemico che negli asili vuole abolire anzi abolisce il Presepe e Babbo Natale. Che il crocifisso lo toglie dalle aule scolastiche, lo getta giù dalle finestre degli ospedali, lo definisce «un cadaverino ignudo e messo lì per spaventare i bambini musulmani». (Parlo, s'intende, dell' arabo con la cittadinanza italiana che mi ha denunciato per vilipendio all'Islam. Che contro di me ha scritto un lercio e sgrammaticato libello dove elencando quattro sure del Corano chiede ai suoi correligionari di eliminarmi, che per le sue malefatte non è mai stato o non ancora processato). Un nemico che in Inghilterra s'imbottisce le scarpe di esplosivo onde far saltare in aria il jumbo del volo Parigi-Miami. (Parlo, s'intende, dell'arabo con la cittadinanza inglese che per puro miracolo beccarono sulla American Airlines).

Un nemico che ad Amsterdam uccide Theo van Gogh colpevole di girare documentari sulla schiavitù delle musulmane e che dopo averlo ucciso gli apre il ventre, ci ficca dentro una lettera con la condanna a morte della sua migliore amica. (Parlo, s'intende, dell'arabo con cittadinanza olandese che probabilmente anzi spero verrà condannato all' ergastolo e che al processo ha sibilato alla mamma di Theo: «Io non provo alcuna pietà per lei. Perché lei è un'infedele»). Il nemico, infine, per il quale trovi sempre un magistrato clemente cioé pronto a scarcerarlo. E che i governi eurobei (ndr: non si tratta d'un errore tipografico, voglio proprio dire eurobei non europei) non espellono neanche se è clandestino. Continua anche il discorso sul Dialogo delle due Civiltà. Ed apriti cielo se chiedi qual è l'altra civiltà, cosa c'è di civile in una civiltà che non conosce neanche il significato della parola libertà. Che per libertà, hurryya, intende «emancipazione dalla schiavitù». Che la parola hurryya la coniò soltanto alla fine dell' Ottocento per poter firmare un trattato commerciale. Che nella democrazia vede Satana e la combatte con gli esplosivi, le teste tagliate. Che dei Diritti dell'Uomo da noi tanto strombazzati e verso i musulmani scrupolosamente applicati non vuole neanche sentirne parlare. Infatti rifiuta di sottoscrivere la Carta dei Diritti Umani compilata dall' Onu e la sostituisce con la Carta dei Diritti Umani compilata dalla Conferenza Araba. Apriti cielo anche se chiedi che cosa c' è di civile in una civiltà che tratta le donne come le tratta.

L' Islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. E' incompatibile col concetto di civiltà. E visto che ho toccato questo argomento mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all'Islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al Cristianesimo. Nonché per istigazione all' omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l' esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato Italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro degli Interni dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia. (Quanto a voi, signori del Parlamento, congratulazioni per aver respinto la proposta del ministro della Giustizia: abolire il reato di opinione. E particolari congratulazioni all' onorevole di Alleanza Nazionale che oltre ad aver gestito quel rifiuto ha chiesto di abolire il reato d' apologia del fascismo). Continua anche l'indulgenza che la Chiesa Cattolica (del resto la maggiore sostenitrice del Dialogo) professa nei riguardi dell' Islam. Continua cioé la sua irremovibile irriducibile volontà di sottolineare il «comune patrimonio spirituale fornitoci dalle tre grandi religioni monoteistiche». Quella cristiana, quella ebraica, quella islamica. Tutte e tre basate sul concetto del Dio Unico, tutte e tre ispirate da Abramo. Il buon Abramo che per ubbidire a Dio stava per sgozzare il suo bambino come un agnello. Ma quale patrimonio in comune?!?

Allah non ha nulla in comune col Dio del Cristianesimo. Col Dio padre, il Dio buono, il Dio affettuoso che predica l' amore e il perdono. Il Dio che negli uomini vede i suoi figli. Allah è un Dio padrone, un Dio tiranno. Un Dio che negli uomini vede i suoi sudditi anzi i suoi schiavi. Un Dio che invece dell' amore insegna l' odio, che attraverso il Corano chiama cani-infedeli coloro che credono in un altro Dio e ordina di punirli. Di soggiogarli, di ammazzarli. Quindi come si fa a mettere sullo stesso piano il cristianesimo e l' islamismo, come si fa a onorare in egual modo Gesù e Maometto?!? Basta davvero la faccenda del Dio Unico per stabilire una concordia di concetti, di principii, di valori?!? E questo è il punto che nell' immutata realtà del dopo-strage di Londra mi turba forse di più. Mi turba anche perché sposa quindi rinforza quello che considero l' errore commesso da papa Wojtyla: non battersi quanto avrebbe a mio avviso dovuto contro l' essenza illiberale e antidemocratica anzi crudele dell' Islam. Io in questi quattr' anni non ho fatto che domandarmi perché un guerriero come Wojtyla, un leader che come lui aveva contribuito più di chiunque al crollo dell' impero sovietico e quindi del comunismo, si mostrasse così debole verso un malanno peggiore dell' impero sovietico e del comunismo. Un malanno che anzitutto mira alla distruzione del cristianesimo. (E dell' ebraismo). Non ho fatto che domandarmi perché egli non tuonasse in maniera aperta contro ciò che avveniva (avviene) ad esempio in Sudan dove il regime fondamentalista esercitava (esercita) la schiavitù. Dove i cristiani venivano eliminati (vengono eliminati) a milioni. Perché tacesse sull'Arabia Saudita dove la gente con una Bibbia in mano o una crocetta al collo era (è) trattata come feccia da giustiziare. Ancora oggi quel silenzio io non l'ho capito e...

Naturalmente capisco che la filosofia della Chiesa Cattolica si basa sull'ecumenismo e sul comandamento Ama il nemico tuo come te stesso. Che uno dei suoi principii fondamentali è almeno teoricamente il perdono, il sacrificio di porgere l' altra guancia. (Sacrificio che rifiuto non solo per orgoglio cioè per il mio modo di intendere la dignità, ma perché lo ritengo un incentivo al Male di chi fa del male). Però esiste anche il principio dell' autodifesa anzi della legittima difesa, e se non sbaglio la Chiesa Cattolica vi ha fatto ricorso più volte. Carlo Martello respinse gli invasori musulmani alzando il crocifisso. Isabella di Castiglia li cacciò dalla Spagna facendo lo stesso. E a Lepanto c'erano anche le truppe pontificie. A difendere Vienna, ultimo baluardo della Cristianità, a romper l' assedio di Kara Mustafa, c'era anche e soprattutto il polacco Giovanni Sobienski con l' immagine della Vergine di Chestochowa. E se quei cattolici non avessero applicato il principio dell' autodifesa, della legittima difesa, oggi anche noi porteremmo il burka o il jalabah. Anche noi chiameremmo i pochi superstiti cani-infedeli. Anche noi gli segheremmo la testa col coltello halal. E la basilica di San Pietro sarebbe una moschea come la chiesa di Santa Sofia a Istanbul. Peggio: in Vaticano ci starebbero Bin Laden e Zarkawi. Così, quando tre giorni dopo la nuova strage Papa Ratzinger ha rilanciato il tema del Dialogo, sono rimasta di sasso. Santità, Le parla una persona che La ammira molto. Che Le vuole bene, che Le dà ragione su un mucchio di cose. Che a causa di questo viene dileggiata coi nomignoli atea-devota, laica-baciapile, liberal-clericale. Una persona, inoltre, che capisce la politica e le sue necessità. Che comprende i drammi della leadership e i suoi compromessi. Che ammira l' intransigenza della fede e rispetta le rinunce o le prodigalità a cui essa costringe. Però il seguente interrogativo devo porlo lo stesso: crede davvero che i musulmani accettino un dialogo coi cristiani, anzi con le altre religioni o con gli atei come me? Crede davvero che possano cambiare, ravvedersi, smettere di seminar bombe? Lei è un uomo tanto erudito, Santità. Tanto colto. E li conosce bene. Assai meglio di me. Mi spieghi dunque: quando mai nel corso della loro storia, una storia che dura da millequattrocento anni, sono cambiati e si sono ravveduti? Oh, neanche noi siamo stati e siamo stinchi di santo: d' accordo. Inquisizioni, defenestrazioni, esecuzioni, guerre, infamie di ogni tipo. Nonché guelfi e ghibellini a non finire. E per giudicarci severamente basta pensare a quel che abbiamo combinato sessanta anni fa con l' Olocausto. Ma poi abbiamo messo un po' di giudizio, perbacco. Ci abbiamo dato una pensata e se non altro in nome della decenza siamo un po' migliorati. Loro, no.

La Chiesa Cattolica ha avuto svolte storiche, Santità. Anche questo lei lo sa meglio di me. A un certo punto si è ricordata che Cristo predicava la Ragione, quindi la scelta, quindi il Bene, quindi la Libertà, e ha smesso di tiranneggiare. D' ammazzare la gente. O costringerla a dipinger soltanto Cristi e Madonne. Ha compreso il laicismo. Grazie a uomini di prim' ordine, un lungo elenco di cui Lei fa parte, ha dato una mano alla democrazia. Ed oggi parla coi tipi come me. Li accetta e lungi dal bruciarli vivi (io non dimentico mai che fino a quattro secoli fa il Sant' Uffizio mi avrebbe mandato al rogo) ne rispetta le idee. Loro, no. Ergo con loro non si può dialogare. E ciò non significa ch'io voglia promuovere una guerra di religione, una Crociata, una caccia alle streghe, come sostengono i mentecatti e i cialtroni. (Guerre di religione, Crociate, io ?!? Non essendo religiosa, figuriamoci se voglio incitare alle guerre di religione e alle Crociate. Cacce alle streghe io?!? Essendo considerata una strega, un'eretica, dagli stessi laici e dagli stessi liberals, figuriamoci se voglio accendere una caccia alle streghe. Ciò significa, semplicemente, che illudersi su di loro è contro ragione. Contro la Vita, contro la stessa sopravvivenza, e guai a concedergli certe familiarità.

La strage toccherà davvero anche a noi, la prossima volta toccherà davvero a noi? Oh, sì. Non ne ho il minimo dubbio. Non l'ho mai avuto. Anche questo lo dico da quattro anni. E aggiungo: non ci hanno ancora attaccato in quanto avevano bisogno della landing-zone, della testa di ponte, del comodo avamposto che si chiama Italia. Comodo geograficamente perché è il più vicino al Medio Oriente e all' Africa cioè ai paesi che forniscono il grosso della truppa. Comodo strategicamente perché a quella truppa offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà. Ma presto si scateneranno. Lo stesso Bin Laden ce lo ha promesso. In modo esplicito, chiaro, preciso. Più volte. I suoi luogotenenti (o rivali), idem. Lo stesso Corriere lo dimostra con l'intervista a Saad Al-Faqih, l' esiliato saudita diventato amico di Bin Laden durante il conflitto coi russi in Afghanistan, e secondo i servizi segreti americani finanziatore di Al Qaeda. «E' solo questione di tempo. Al Qaeda vi colpirà presto» ha detto Al-Faqih aggiungendo che l'attacco all'Italia è la cosa più logica del mondo. Non è l'Italia l'anello più debole della catena composta dagli alleati in Iraq? Un anello che viene subito dopo la Spagna e che è stato preceduto da Londra per pura convenienza. E poi: «Bin Laden ricorda bene le parole del Profeta. Voi costringerete i romani alla resa. E vuole costringer l'Italia ad abbandonare l'alleanza con l'America». Infine, sottolineando che operazioni simili non si fanno appena sbarcati a Lampedusa o alla Malpensa bensì dopo aver maturato dimestichezza con il paese, esser penetrati nel suo tessuto sociale: «Per reclutare gli autori materiali, c'è solo l' imbarazzo della scelta».

Molti italiani non ci credono ancora. Nonostante le dichiarazioni del ministro degli Interni, a rischio Roma e Milano, all' erta anche Torino e Napoli e Trieste e Treviso nonché le città d' arte come Firenze e Venezia, gli italiani si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi. Ha ragione Vittorio Feltri quando su Libero scrive che la decadenza degli occidentali si identifica con la loro illusione di poter trattare amichevolmente il nemico, nonché con la loro paura. Una paura che li induce ad ospitare docilmente il nemico, a tentar di conquistarne la simpatia, a sperare che si lasci assorbire mentre è lui che vuole assorbire. Questo senza contare la nostra abitudine ad essere invasi, umiliati, traditi. Come dico nell'«Apocalisse», l'abitudine genera rassegnazione. La rassegnazione genera apatia. L'apatia genera inerzia. L'inerzia genera indifferenza, ed oltre a impedire il giudizio morale l'indifferenza soffoca l'istinto di autodifesa cioè l'istinto che induce a battersi. Oh, per qualche settimana o qualche mese lo capiranno sì d' essere odiati e disprezzati dal nemico che trattano da amico e che è del tutto refrattario alle virtù chiamate Gratitudine, Lealtà, Pietà. Usciranno sì dall'apatia, dall'inerzia, dall' indifferenza. Ci crederanno sì agli annunci di Saad al-Faqih e agli espliciti, chiari, precisi avvertimenti pronunciati da Bin Laden and Company. Eviteranno di prendere i treni della sotterranea. Si sposteranno in automobile o in bicicletta. (Ma Theo van Gogh fu ammazzato mentre si spostava in bicicletta). Attenueranno il buonismo o il servilismo. Si fideranno un po' meno del clandestino che gli vende la droga o gli pulisce la casa. Saranno meno cordiali col manovale che sventolando il permesso di soggiorno afferma di voler diventare come loro ma intanto fracassa di botte la moglie, le mogli, e uccide la figlia in blue jeans. Rinunceranno anche alle litanie sui Viaggi della Speranza, e forse realizzeranno che per non perdere la Libertà a volte bisogna sacrificare un po' di libertà. Che l' autodifesa è legittima difesa e la legittima difesa non è una barbarie. Forse grideranno addirittura che la Fallaci aveva ragione, che non meritava d' essere trattata come una delinquente. Ma poi riprenderanno a trattarmi come una delinquente. A darmi di retrograda xenofoba razzista eccetera. E quando l' attacco verrà, udiremo le consuete scemenze. Colpa degli americani, colpa di Bush.

Quando verrà, come avverrà quell'attacco? Oddio, detesto fare la Cassandra. La profetessa. Non sono una Cassandra, non sono una profetessa. Sono soltanto un cittadino che ragiona e ragionando prevede cose che secondo logica accadranno. Ma che ogni volta spera di sbagliarsi e, quando accadono, si maledice per non aver sbagliato. Tuttavia riguardo all' attacco contro l' Italia temo due cose: il Natale e le elezioni. Forse supereremo il Natale. I loro attentati non sono colpacci rozzi, grossolani. Sono delitti raffinati, ben calcolati e ben preparati. Prepararsi richiede tempo e a Natale credo che non saranno pronti. Però saranno pronti per le elezioni del 2006. Le elezioni che vogliono vedere vinte dal pacifismo a senso unico. E da noi, temo, non si accontenteranno di massacrare la gente. Perché quello è un Mostro intelligente, informato, cari miei. Un Mostro che (a nostre spese) ha studiato nelle università, nei collegi rinomati, nelle scuole di lusso. (Coi soldi del genitore sceicco od onesto operaio). Un Mostro che non s' intende soltanto di dinamica, chimica, fisica, di aerei e treni e metropolitane: s' intende anche di Arte. L'arte che il loro presunto Faro di Civiltà non ha mai saputo produrre. E penso che insieme alla gente da noi vogliano massacrare anche qualche opera d' arte. Che ci vuole a far saltare in aria il Duomo di Milano o la Basilica di San Pietro? Che ci vuole a far saltare in aria il David di Michelangelo, gli Uffizi e Palazzo Vecchio a Firenze, o il Palazzo dei Dogi a Venezia? Che ci vuole a far saltare in aria la Torre di Pisa, monumento conosciuto in ogni angolo del mondo e perciò assai più famoso delle due Torri Gemelle? Ma non possiamo scappare o alzare bandiera bianca. Possiamo soltanto affrontare il mostro con onore, coraggio, e ricordare quel che Churchill disse agli inglesi quando scese in guerra contro il nazismo di Hitler. Disse: «Verseremo lacrime e sangue». Oh, sì: pure noi verseremo lacrime e sangue. Siamo in guerra: vogliamo mettercelo in testa, sì o no?!? E in guerra si piange, si muore. Punto e basta. Conclusi così anche quattro anni fa, su questo giornale.

Oriana Fallaci a una terrorista. «Un neonato per te è un nemico?». La giornalista e scrittrice nel 1970 intervistò Rascida Abhedo, palestinese, che fece esplodere due bombe in un mercato di Gerusalemme provocando una carneficina, scrive Oriana Fallaci su “Il Corriere della Sera”. Oriana Fallaci, il terrorismo, il rapporto dell’Occidente con il mondo islamico. La grande giornalista ha affrontato questi temi molte volte nei suoi articoli e nelle sue interviste. Con l’iniziativa «Le parole di Oriana» abbiamo scelto di ripubblicare alcuni di questi suoi interventi, che mantengono - a distanza di molti anni - una forza, un valore e un fascino straordinari. Ecco l’intervista del 1970 all’attentatrice palestinese Rascida Abhedo.

Sembrava una monaca. O una guardia rossa di Mao Tse-tung. Delle monache aveva la compostezza insidiosa, delle guardie rosse l’ostilità sprezzante, di entrambe il gusto di rendersi brutta sebbene fosse tutt’altro che brutta. Il visino ad esempio era grazioso: occhi verdi, zigomi alti, bocca ben tagliata. Il corpo era minuscolo e lo indovinavi fresco, privo di errori. Ma l’insieme era sciupato da quei ciuffi neri, untuosi, da quel pigiama in tela grigioverde, un’uniforme da fatica suppongo, di taglia tre volte superiore alla sua: quella sciatteria voluta, esibita, ti aggrediva come una cattiveria. Dopo il primo sguardo, ti apprestavi con malavoglia a stringerle la mano, che ti porgeva appena, restando seduta, costringendoti a scendere verso di lei nell’inchino del suddito che bacia il piede della regina. In silenzio bestemmiavi: «Maleducata!». La mano toccò molle la mia. Gli occhi verdi mi punsero con strafottenza, anzi con provocazione, una vocetta litigiosa scandì: «Rascida Abhedo, piacere». Poi, rotta dallo sforzo che tal sacrificio le era costato, si accomodò meglio contro la spalliera del grande divano in fondo al salotto dove occupava il posto d’onore. Dico così perché v’erano molte persone, e queste le sedevan dinanzi a platea: lei in palcoscenico e loro in platea. Una signora che avrebbe fatto da interprete, suo marito, un uomo che mi fissava muto e con sospettosa attenzione, un giovanotto dal volto dolcissimo e pieno di baffi, infine Najat: la padrona di casa che aveva organizzato l’incontro con lei. Come lei, essi appartenevano tutti al Fronte Popolare, cioè il movimento maoista che da Al Fatah si distingue per la preferenza a esercitare la lotta coi sabotaggi e il terrore. Però, al contrario di lei, eran tutti ben vestiti, cordiali e borghesi: invece che ad Amman avresti detto di trovarti a Roma, tra ricchi comunisti à la page, sai tipi che fingono di voler morire per il proletariato ma poi vanno a letto con le principesse. La signora che avrebbe fatto da interprete amava andare in vacanza a Rapallo e calzava scarpe italiane. Najat, una splendida bruna sposata a un facoltoso ingegnere, era la ragazza più sofisticata della città: in una settimana non l’avevo mai sorpresa con lo stesso vestito, con un accessorio sbagliato. Sempre ben pettinata, ben profumata, ben valorizzata da un completo giacca-pantaloni o da una minigonna. Non credevi ai tuoi orecchi quando diceva: «Sono stanca perché ho partecipato alle manovre e mi duole una spalla perché il Kalashnikov rincula in modo violento». Stasera indossava un modello francese e il suo chic era così squisito che, paragonata a lei, la monaca in uniforme risultava ancor più inquietante. Forse perché sapevi chi era. Era colei che il 21 febbraio 1969 aveva fatto esplodere due bombe al supermercato di Gerusalemme, causando una carneficina. Era colei che dieci giorni dopo aveva costruito un terzo ordigno per la cafeteria della Università Ebraica. Era colei che per tre mesi aveva mobilizzato l’intera polizia israeliana e provocato Dio sa quanti arresti, repressioni, tragedie. Era colei che il Fronte custodiva per gli incarichi più sanguinolenti. Ventitré anni, ex maestra di scuola. La fotografia appesa in ogni posto di blocco: «Catturare o sparare». La patente di eroe. Al suo tono strafottente, provocatorio, ora s’era aggiunta un’espressione di gran sufficienza: la stessa che certe dive esibiscono quando devono affrontare i giornalisti curiosi. Mi accomodai accanto a lei sul divano. Lasciai perdere ogni convenevole, misi in moto il registratore: «Voglio la tua storia, Rascida. Dove sei nata, chi sono i tuoi genitori, come sei giunta a fare quello che fai». Alzò un sopracciglio ironico, tolse di tasca un fazzoletto. Si pulì il naso, lenta, rimise in tasca il fazzoletto. Si raschiò la gola. Sospirò. Rispose.

«Sono nata a Gerusalemme, da due genitori piuttosto ricchi, piuttosto conformisti, e assai rassegnati. Non fecero mai nulla per difendere la Palestina e non fecero mai nulla per indurmi a combattere. Fuorché influenzarmi, senza saperlo, coi loro racconti del passato. Mia madre, sempre a ripetere di quando andava a Giaffa col treno e dal finestrino del treno si vedeva il Mediterraneo che è così azzurro e bello. Mio padre, sempre a lagnarsi della notte in cui era fuggito con la mia sorellina su un braccio e me nell’altro braccio. E poi a dirmi dei partiti politici che c’erano prima del 1948, tutti colpevoli d’aver ceduto, d’aver deposto le armi, ma il suo era meno colpevole degli altri eccetera. E poi a mostrarmi la nostra vecchia casa al di là della linea di demarcazione, in territorio israeliano. Si poteva vederla dalle nostre finestre e penso che questo, sì, m’abbia servito. Prima di andare a letto la guardavo sempre, con ira, e a Natale guardavo gli arabi che si affollavano al posto di blocco per venire dai parenti profughi. Piangevano, perdevano i bambini, i fagotti. Erano brutti, senza orgoglio, e ti coglieva il bisogno di fare qualcosa. Questo qualcosa io lo scoprii nel 1962 quando entrai a far parte del Movimento nazionale arabo, il Fronte Popolare di oggi. Avevo quindici anni, non dissi nulla ai miei genitori. Si sarebbero spaventati, non avrebbero compreso. Del resto si faceva poco: riunioni di cellula, corsi politici, manifestazioni represse dai soldati giordani» .

Come eri entrata in contatto con quel movimento?

«A scuola. Cercavano adepti fra gli studenti. Poi venne il 1967: l’occupazione di Gerusalemme, di Gerico, del territorio a est del Giordano. Io in quei giorni non c’ero, ero nel Kuwait: insegnavo in una scuola media di una cittadina sul Golfo. C’ero stata costretta perché nelle scuole della Giordania c’era poca simpatia pei maestri palestinesi. L’occupazione di Gerusalemme mi gettò in uno stato di sonnolenza totale. Ero così mortificata che per qualche tempo non vi reagii e ci volle tempo perché capissi che agli altri paesi arabi non importava nulla della Palestina, non si sarebbero mai scomodati a liberarla: bisognava far questo da soli. Ma allora perché restavo in quella scuola a insegnare ai ragazzi? Il mio lavoro lo amavo, intendiamoci, lo consideravo alla stregua di un divertimento, ma era necessario che lo abbandonassi. Mi dimisi e venni ad Amman dove mi iscrissi subito al primo gruppo di donne addestrate dall’FPLP. Ragazze tra i diciotto e i venticinque anni, studentesse o maestre come me. Era il gruppo di Amina Dahbour, quella che hanno messo in prigione in Svizzera per il dirottamento di un aereo El Al, di Laila Khaled, che dirottò l’aereo della TWA, di Sheila Abu Mazal, la prima vittima della barbarie sionista» .

La interruppi: anche questo nome m’era familiare perché ovunque lo vedevi stampato con l’appellativo di eroina e sui giornali occidentali avevo letto che era morta in circostanze eccezionali. Chi diceva in combattimento, chi diceva sotto le torture.

Rascida, come morì Sheila Abu Mazal?

«Una disgrazia. Preparava una bomba per un’azione a Tel Aviv e la bomba scoppiò tra le sue mani» .

Perché?

«Così» .

Raccontami degli addestramenti, Rascida.

«Uffa. Eran duri. Ci voleva una gran forza di volontà per compierli. Marce, manovre, pesi. Sheila ripeteva: bisogna dimostrare che non siamo da meno degli uomini! E per questo in fondo scelsi il corso speciale sugli esplosivi. Era il corso che bisognava seguire per diventare agenti segreti e, oltre alla pratica degli esplosivi, prevedeva lo studio della topografia, della fotografia, della raccolta di informazioni. I nostri istruttori contavano molto sulle donne come elemento di sorpresa: da una ragazza araba non ci si aspettano certe attività. Divenni brava a scattar fotografie di nascosto ma specialmente a costruire ordigni a orologeria. Più di ogni altra cosa volevo maneggiare le bombe, io sono sempre stata un tipo senza paura. Anche da piccola. Non m’impressionava mai il buio. I corsi duravano a volte quindici giorni, a volte due mesi o quattro. Il mio corso fu lungo, assai lungo, perché dovetti anche imparare a recarmi nel territorio occupato. Passai il fiume molte volte, insieme alle mie compagne. A quel tempo non era difficilissimo perché gli sbarramenti fotoelettrici non esistevano, ma la prima volta non fu uno scherzo. Ero tesa, mi aspettavo di morire. Ma presto fui in grado di raggiungere Gerusalemme e stabilirmici come agente segreto» .

Dimmi delle due bombe al supermarket, Rascida.

«Uffa. Quella fu la prima operazione di cui posso rivendicare la paternità. Voglio dire che la concepii da sola, la preparai da sola, e da sola la portai fino in fondo. Avevo ormai partecipato a tanti sabotaggi del genere e potevo muovermi con disinvoltura. E poi avevo una carta di cittadinanza israeliana con cui potevo introdurmi in qualsiasi posto senza destare sospetto. Poiché abitavo di nuovo coi miei genitori, scomparivo ogni tanto senza dare nell’occhio. L’idea di attaccare il supermarket l’ebbi quattro giorni dopo la cattura di Amina a Zurigo, e la morte di Abdel. Nella sparatoria con l’israeliano, ricordi, Abdel rimase ucciso. Bisognava vendicare la morte di Abdel e bisognava dimostrare a Moshe Dayan la falsità di ciò che aveva detto: secondo Moshe Dayan, il Fronte Popolare agiva all’estero perché non era capace di agire entro Israele. E poi bisognava rispondere ai loro bombardamenti su Irbid, su Salt. Avevano ucciso civili? Noi avremmo ucciso civili. Del resto nessun israeliano noi lo consideriamo un civile ma un militare e un membro della banda sionista» .

Anche se è un bambino, Rascida? Anche se è un neonato? (Gli occhi verdi si accesero d’odio, la sua voce adirata disse qualcosa che l’interprete non mi tradusse, e subito scoppiò una gran discussione cui intervennero tutti: anche Najat, anche il giovanotto col volto dolcissimo. Parlavano in arabo, e le frasi si sovrapponevan confuse come in una rissa da cui si levava spesso un’invocazione: «Rascida!». Ma Rascida non se ne curava. Come un bimbo bizzoso scuoteva le spalle e, solo quando Najat brontolò un ordine perentorio, essa si calmò. Sorrise un sorriso di ghiaccio, mi replicò).

«Questa domanda me la ponevo anch’io, quando mi addestravo con gli esplosivi. Non sono una criminale e ricordo un episodio che accadde proprio al supermarket, un giorno che vi andai in avanscoperta. C’erano due bambini. Molto piccoli, molto graziosi. Ebrei. Istintivamente mi chinai e li abbracciai. Ma stavo abbracciandoli quando mi tornarono in mente i nostri bambini uccisi nei villaggi, mitragliati per le strade, bruciati dal napalm. Quelli di cui loro dicono: bene se muore, non diventerà mai un fidayin. Così li respinsi e mi alzai. E mi ordinai: non farlo mai più, Rascida, loro ammazzano i nostri bambini e tu ammazzerai i loro. Del resto, se questi due bambini morranno, o altri come loro, mi dissi, non sarò stata io ad ammazzarli. Saranno stati i sionisti che mi forzano a gettare le bombe. Io combatto per la pace, e la pace val bene la vita di qualche bambino. Quando la nostra vera rivoluzione avverrà, perché oggi non è che il principio, numerosi bambini morranno. Ma più bambini morranno più sionisti comprenderanno che è giunto il momento di andarsene. Sei d’accordo? Ho ragione?»  

No, Rascida.

La discussione riprese, più forte. Il giovanotto dal volto dolcissimo mi lanciò uno sguardo conciliativo, implorante. V’era in lui un che di straziante e ti chiedevi chi fosse. Poi, con l’aiuto di alcune tazze di tè, l’intervista andò avanti.

Perché scegliesti proprio il supermarket, Rascida?

«Perché era un buon posto, sempre affollato. Durante una decina di giorni ci andai a tutte le ore proprio per studiare quando fosse più affollato. Lo era alle undici del mattino. Osservai anche l’ora in cui apriva e in cui chiudeva, i punti dove si fermava più gente, e il tempo che ci voleva a raggiungerlo dalla base segreta dove avrei ritirato la bomba o le bombe. Per andarci mi vestivo in modo da sembrare una ragazza israeliana, non araba. Spesso vestivo in minigonna, altre volte in pantaloni, e portavo sempre grandi occhiali da sole. Era interessante, scoprivo sempre qualcosa di nuovo e di utile, ad esempio che se camminavo con un peso il tragitto tra la base e il supermarket aumentava. Infine fui pronta e comprai quei due bussolotti di marmellata. Molto grandi, da cinque chili l’uno, di latta. Esattamente ciò di cui avevo bisogno» .

Per le bombe?

«Sicuro. L’idea era di vuotarli, riempirli di esplosivo, e rimetterli dove li avevo presi. Quella notte non tornai a casa. Andai alla mia base segreta e con l’aiuto di alcuni compagni aprii i bussolotti. Li vuotai di quasi tutta la marmellata e ci sistemai dentro l’esplosivo con un ordigno a orologeria. Poi saldai di nuovo il coperchio, perché non si vedesse che erano stati aperti e...»  

Che marmellata era, Rascida?

«Marmellata di albicocche, perché?»

Così... Non mangerò mai più marmellata di albicocche. . (Rascida rise a gola spiegata e a tal punto che le venne la tosse).

«Io la mangiai, invece. Era buona. E dopo averla mangiata andai a dormire» .

Dormisti bene, Rascida?

«Come un angelo. E alle cinque del mattino mi svegliai bella fresca. Mi vestii elegantemente, coi pantaloni alla charleston, sai quelli attillati alla coscia e svasati alla caviglia, mi pettinai con cura, mi truccai gli occhi e le labbra. Ero graziosa, i miei compagni si congratulavano: «Rascida!». Quando fui pronta misi i bussolotti della marmellata in una borsa a sacco: sai quelle che si portano a spalla. Le donne israeliane la usano per fare la spesa. Uh, che borsa pesante! Un macigno! L’esplosivo pesava il doppio della marmellata. Ecco perché negli addestramenti ti abituano a portare pesi» .

Come ti sentivi, Rascida? Nervosa, tranquilla?

«Tranquilla, anzi felice. Ero stata così nervosa nei giorni precedenti che mi sentivo come scaricata. E poi era una mattina azzurra, piena di sole. Sapeva di buon auspicio. Malgrado il peso della borsa camminavo leggera, portavo quelle bombe come un mazzo di fiori. Sì, ho detto fiori. Ai posti di blocco i soldati israeliani perquisivano la gente ma io gli sorridevo con civetteria e, senza attendere il loro invito, aprivo la borsa: «Shalom, vuoi vedere la mia marmellata?». Loro guardavano la marmellata e con cordialità mi dicevano di proseguire. No, non andai dritta al supermarket: dove andai prima è affar mio e non ti riguarda. Al supermarket giunsi poco dopo le nove. Che pensi? (Pensavo a un episodio del film La battaglia di Algeri, quello dove tre donne partono una mattina per recarsi a sistemare esplosivi su obiettivi civili. Una delle tre donne è una ragazza che assomiglia straordinariamente a Rascida: piccola, snella, e porta i pantaloni. Passando ai posti di blocco strizza l’occhio ai soldati francesi, civetta. Chissà se Rascida aveva visto il film. Magari sì. Bisognava che glielo chiedessi quando avrebbe finito il racconto. Ma poi me ne dimenticai. O forse volli dimenticarmene per andarmene via prima). Pensavo... a nulla» .

Cosa accadde quando entrasti nel supermarket, Rascida?

«Entrai spedita e agguantai subito il carry-basket, sai il cestino di metallo dove si mette la roba, il cestino con le ruote. Al supermarket c’è il self-service, ti muovi con facilità. La prima cosa da fare, quindi, era togliere i due bussolotti di marmellata dalla mia borsa e metterli nel carry-basket. Ci avevo già provato ma con oggetti più piccoli, non così pesanti, coi bussolotti grandi no e per qualche secondo temetti di dare nell’occhio. Mi imposi calma, perciò. Mi imposi anche di non guardare se mi guardavano altrimenti il mio gesto avrebbe perso spontaneità. Presto i bussolotti furono nel carry-basket. Ora si trattava di rimetterli a posto ma non dove li avevo presi perché non era un buon punto. Alla base avevo caricato i due ordigni a distanza di cinque minuti, in modo che uno esplodesse cinque minuti prima dell’altro. Decisi di mettere in fondo al negozio quello che sarebbe esploso dopo. L’altro, invece, vicino alla porta dove c’era uno scaffale con le bottiglie di birra e i vasetti» .

Perché, Rascida?

«Perché la porta era di vetro come le bottiglie di birra, come i vasetti. Con l’esplosione sarebbero schizzati i frammenti e ciò avrebbe provocato un numero maggiore di feriti. O di morti. Il vetro è tremendo: lanciato a gran velocità può decapitare, e anche i piccoli pezzi sono micidiali. Non solo, la prima esplosione avrebbe bloccato l’ingresso. Allora i superstiti si sarebbero rifugiati in fondo al negozio e qui, cinque minuti dopo, li avrebbe colti la seconda esplosione. Con un po’ di fortuna, nel caso la polizia fosse giunta alla svelta, avrei fatto fuori anche un bel po’ di polizia. Rise divertita, contenta. E ciò le provocò un nuovo accesso di tosse» .

Non ridere, Rascida. Continua il tuo racconto, Rascida.

«Sempre senza guardare se mi guardavano, sistemai i due bussolotti dove avevo deciso. Se qualcuno se ne accorse non so, ero troppo concentrata in ciò che stavo facendo. Ricordo solo un uomo molto alto, con il cappello, che mi fissava. Ma pensai che mi fissasse perché gli piacevo. Te l’ho detto che ero molto graziosa quella mattina. Poi, quando anche il secondo bussolotto fu nello scaffale, comprai alcune cose: tanto per non uscire a mani vuote. Comprai un grembiule da cucina, due stecche di cioccolata, altre sciocchezze. Non volevo dare troppi soldi agli ebrei» .

Cos’altro comprasti, Rascida?

«I cetriolini sottaceto. E le cipolline sottaceto. Mi piacciono molto. Mi piacciono anche le olive farcite. Ma cos’è questo, un esame di psicologia?»

Se vuoi. E li mangiasti quei cetriolini, quelle cipolline?

«Certo. Li portai a casa e li mangiai. Non era un’ora adatta agli antipasti e mia madre disse, ricordo: «Da dove vengono, quelli?». Io risposi: «Li ho comprati al mercato». Ma che te ne importa di queste cose? Torniamo al supermarket. Avevo deciso che l’intera faccenda dovesse durare quindici minuti. E quindici minuti durò. Così, dopo aver pagato uscii e tornai a casa. Qui feci colazione e riposai. Un’ora di cui non ricordo nulla. Alle undici in punto aprii la radio per ascoltar le notizie. Le bombe erano state caricate alle sei e alle sei e cinque, affinché scoppiassero cinque ore dopo. L’esplosione sarebbe dunque avvenuta alle undici e alle undici e cinque: l’ora dell’affollamento. Aprii la radio per accertarmene e per sapere se... se erano morti bambini nell’operazione» .

Lascia perdere, Rascida. Non ci credo, Rascida. Cosa disse la radio?

«Disse che c’era stato un attentato al supermarket e che esso aveva causato due morti e undici feriti. Rimasi male, due morti soltanto, e scesi per strada a chiedere la verità. Radio Israele non dice mai la verità. La verità era che le due bombe avevan causato ventisette morti e sessanta feriti fra cui quindici gravissimi. Bè, mi sentii meglio anche se non perfettamente contenta. Gli esperti militari della mia base avevano detto che ogni bomba avrebbe ucciso chiunque entro un raggio di venticinque metri e, verso le undici del mattino, al supermarket non contavi mai meno di trecentocinquanta persone. Oltre a un centinaio di impiegati» .

Rascida, provasti anzi provi nessuna pietà per quei morti?

«No davvero. Il modo in cui ci trattano, in cui ci uccidono, spenge in noi ogni pietà. Io ho dimenticato da tempo cosa significa la parola pietà e mi disturba perfino pronunciarla. Corre voce che ci fossero arabi in quel negozio. Non me ne importa. Se c’erano, la lezione gli servì a imparare che non si va nei negozi degli ebrei, non si danno soldi agli ebrei. Noi arabi abbiamo i nostri negozi, e i veri arabi si servono lì» .

Rascida, cosa facesti dopo esserti accertata che era successo ciò che volevi?

«Dissi a mia madre: «Ciao, mamma, esco e torno fra poco». La mamma rispose: «Va bene, fai presto, stai attenta». Chiusi la porta e fu l’ultima volta che la vidi. Dovevo pensare a nascondermi, a non farmi più vedere neanche se arrestavano i miei. E li arrestarono. Non appena il Fronte Popolare assunse la paternità dell’operazione, gli israeliani corsero da quelli che appartenevano al Fronte. Hanno schedari molto precisi, molto aggiornati: un dossier per ciascuno di noi. E tra coloro che presero c’era un compagno che sapeva tutto di me. Così lo torturarono ma lui resistette tre giorni: è la regola. Tre giorni ci bastano infatti a metterci in salvo. Dopo tre giorni disse il mio nome, così la polizia venne ad arrestarmi ma non mi trovò e al mio posto si portò via la famiglia. Mio padre, mia madre, mia sorella maggiore e i bambini. Mia madre e i bambini li rilasciarono presto, mio padre invece lo tennero tre mesi e mia sorella ancora di più. Al processo non ci arrivarono mai perché in realtà né mio padre né mia sorella sapevano niente» .

E tu cosa facesti, Rascida?

«Raggiunsi una base segreta e preparai la bomba per la cafeteria dell’Università Ebraica. Questo accadde il 2 marzo e purtroppo io non potei piazzare la bomba, che non ebbe un esito soddisfacente. Solo ventotto studenti restaron feriti, e nessun morto. In compenso le cose peggiorarono molto per me: la mia fotografia apparve dappertutto e la polizia prese a cercarmi ancor più istericamente. Fu necessario abbandonare la base segreta e da quel momento dovetti cavarmela proprio da me. Mi trasferivo di casa in casa, una notte qui e una notte là, per strada mi sembrava sempre d’esser seguita. Un giorno un’automobile mi seguì a passo d’uomo per circa due ore. Esitavano a fermarmi, credo, perché ero molto cambiata e vestita come una stracciona. Riuscii a far perdere le mie tracce e, in un vicolo, bussai disperatamente a una porta. Aprì un uomo, cominciai a piangere e a dire che ero sola al mondo: mi prendesse a servizio per carità. Si commosse, mi assunse e rimasi lì dieci giorni. Al decimo, giudicai saggio scomparire. Ero appena uscita che la polizia israeliana arrivò e arrestò l’uomo. Al processo, malgrado ignorasse tutto di me, fu condannato a tre anni. È ancora in prigione» .

Te ne dispiace, Rascida?

«Che posso farci? In carcere ce l’hanno messo loro, mica io. E io ho sofferto tanto. Tre mesi di caccia continua» .

Ci credo, avevi fatto scoppiare tre bombe! E come tornasti in Giordania, Rascida?

«Con un gruppo militare del Fronte. Si passò le linee di notte. Non fu semplice, dovemmo nasconderci molte ore nel fiume e bevvi un mucchio di quell’acqua sporca. Sono ancora malata. Ma partecipo lo stesso alle operazioni da qui e l’unica cosa che mi addolora è non poter più mettere bombe nei luoghi degli israeliani» .

E non vedere più i tuoi genitori, averli mandati in carcere, ti addolora?

«La mia vita personale non conta, in essa non v’è posto per le emozioni e le nostalgie. I miei genitori li ho sempre giudicati brava gente e tra noi c’è sempre stato un buon rapporto, ma v’è qualcosa che conta più di loro ed è la mia patria. Quanto alla prigione, li ha come svegliati: non sono più rassegnati, indifferenti. Ad esempio potrebbero lasciare Gerusalemme, mettersi in salvo, ma rifiutan di farlo. Non lasceremo mai la nostra terra, dicono. E se Dio vuole...»  

Credi in Dio, Rascida?

«No, non direi. La mia religione è sempre stata la mia patria. E insieme a essa il socialismo. Ho sempre avuto bisogno di spiegare le cose scientificamente, e Dio non lo spieghi scientificamente: il socialismo sì. Io credo nel socialismo scientifico basato sulle teorie marxiste-leniniste che ho studiato con cura. Presto studierò anche Il Capitale: è in programma nella nostra base. Voglio conoscerlo bene prima di sposarmi» .

Ti sposi, Rascida?

«Sì, tra un mese. Il mio fidanzato è quello lì» . (E additò il giovanotto dal volto dolcissimo. Lui arrossì gentilmente e parve affondare dentro la poltrona).

Congratulazioni. Avevi detto che nella tua vita non c’è posto per i sentimenti.

«Ho detto che capisco le cose solo da un punto di vista scientifico e il mio matrimonio è la cosa più scientifica che tu possa immaginare. Lui è comunista come me, fidayin come me: la pensiamo in tutto e per tutto nel medesimo modo. Inoltre v’è attrazione fra noi ed esaudirla non è forse scientifico? Il matrimonio non c’impedirà di combattere: non metteremo su casa. L’accordo è incontrarci tre volte al mese e solo se ciò non intralcia i nostri doveri di fidayin. Figli non ne vogliamo: non solo perché se restassi incinta non potrei più combattere e il mio sogno più grande è partecipare a una battaglia, ma perché non credo che in una situazione come questa si debba mettere al mondo bambini. A che serve? A farli poi morire o almeno restare orfani?»

(Allora si alzò il fidanzato, che si chiamava Thaer, e con l’aria di scusarsi venne a sedere presso di me. Guardandomi con due occhi di agnello, parlando con voce bassissima, dolce come il suo viso, disse che conosceva Rascida da circa tre anni: quando lei insegnava nel Kuwait e lui studiava psicologia all’università. «Mi piacque come essere umano, pei suoi pregi e i suoi difetti. Dopo la guerra del 1967 le scrissi una lettera per annunciarle che sarei diventato fidayin, per spiegarle che l’amavo, sì, ma la Palestina contava più del mio amore. Lei rispose: “Thaer, hai avuto più fiducia in me di quanta io ne abbia avuta in te. Perché tu m’hai detto di voler diventare fidayin e io non te l’ho detto. Abbiamo gli stessi progetti, Thaer, e da questo momento mi considero davvero fidanzata con te”.» «Capisco, Thaer. Ma cosa provasti a sapere che Rascida aveva ucciso ventisette persone senza un fucile in mano?» Thaer prese fiato e congiunse le mani come a supplicarmi di ascoltarlo con pazienza. «Fui orgoglioso di lei. Oh, so quello che provi, all’inizio la pensavo anch’io come te. Perché sono un uomo tenero, io, un sentimentale. Non assomiglio a Rascida. Il mio modo di fare la guerra è diverso: io sparo a chi spara. Ma ho visto bombardare i nostri villaggi e mi sono rivoltato: ho deciso che avere scrupoli è sciocco. Se invece d’essere uno spettatore obbiettivo tu fossi coinvolta nella tragedia, non piangeresti sui morti senza il fucile. E capiresti Rascida.») Certo è difficile capire Rascida. Ma vale la pena provarci e, per provarci, bisogna avere visto i tipi come Rascida nei campi dove diventano fidajat: cioè donne del sacrificio. Lunghe file di ragazze in grigioverde, costrette giorno e notte a marciare sui sassi, saltare sopra altissimi roghi di gomma e benzina, insinuarsi entro reticolati alti appena quaranta centimetri e larghi cinquanta, tenersi in bilico su ponticelli di corde tese su trabocchetti, impegnarsi in massacranti lezioni di tiro. E guai se sbagli un colpo, guai se calcoli male il salto sul fuoco, guai se resti impigliato in una punta di ferro, guai se dici basta, non ce la faccio più. L’istruttore che viene dalla Siria, dall’Iraq, dalla Cina, non ha tempo da perdere con le femminucce: se hai paura, o ti stanchi, ti esplode una raffica accanto agli orecchi. Hai visto le fotografie. Ch’io sappia, neanche i berretti verdi delle forze speciali in Vietnam, neanche i soldati più duri dei commandos israeliani vengono sottoposti ad addestramenti così spietati. E da quelli, credi, esci non soltanto col fisico domato ma con una psicologia tutta nuova. Dice che in alcuni campi (questo io non l’ho visto) le abituano perfino alla vista del sangue. E sai come? Prima sparano su un cane lasciandolo agonizzante ma vivo, poi buttano il cane tra le loro braccia e le fanno correre senza ascoltarne i guaiti. Dopo tale esperienza, è dimostrato, al dolore del corpo e dell’anima non badi più. Al campo Schneller conobbi una fidajat che si chiamava Hanin, Nostalgia. La intervistai e mi disse d’avere venticinque anni, un figlio di sei e una figlia di due. Le chiesi: «Dove li hai lasciati, Hanin?». Rispose: «In casa, oggi c’è mio marito». «E cosa fa tuo marito?» «Il fidayin. Oggi è in licenza.» «E quando non c’è tuo marito?» «Qua e là.» «Hanin, non basta un soldato in famiglia?» «No, voglio passare anch’io le linee, voglio andare anch’io in combattimento.» Poi ci mettemmo a parlare di altre cose, del negozio di antiquariato che essi possedevano a Gerusalemme, del fatto che non gli mancassero i soldi eccetera. La conversazione era interessante, si svolgeva direttamente in inglese, e io non mi curavo del lieve sospiro, quasi un lamento, che usciva dalle pieghe del kaffiah. I grandi occhi neri erano fermi, la fronte era appena aggrottata, e pensavo: poverina, è stanca. Ma poi l’istruttore chiamò, era giunto il turno di sparare al bersaglio, e Hanin si alzò: nell’alzarsi le sfuggì un piccolo grido. «Ti senti male, Hanin?» «No, no. Credo soltanto d’essermi slogata un piede. Ma ora non c’è tempo di metterlo a posto, lo dirò quando le manovre saranno finite.» E raggiunse le compagne, decisa, col suo piede slogato. Per capire Rascida, o provarci, bisogna anche avere visto le donne che hanno fatto la guerra senza allenarsi: affrontando di punto in bianco la morte, la consapevolezza che la crudeltà è indispensabile se vuoi sopravvivere. In un altro campo conobbi Im Castro: significa Madre di Castro. Im essendo l’appellativo che i guerriglieri palestinesi usano per le donne, e Castro essendo il nome scelto da suo figlio maggiore: fidayin. Im Castro era un donnone di quarant’anni, con un corpo da pugile e un volto da Madonna bruciata dalle intemperie. Acqua, vento, sole, rabbia, disperazione, tutto era passato su quei muscoli color terracotta riuscendo a renderli più forti e più duri anziché sgretolarli. Contadina a Gerico, era fuggita nel 1967 insieme al marito, il fratello, il cognato, due figli maschi e due femmine. Qui era giunta dopo Karameh e qui viveva sotto una tenda dove non possedeva nulla fuorché una coperta e un rudimentale fornello con due pentole vecchie. Le chiesi: «Im Castro, dov’è tuo marito?». Rispose: «È morto in battaglia, a Karameh». «Dov’è tuo fratello?» «È morto in battaglia, a Karameh.» «Dov’è tuo cognato?» «È morto in battaglia, a Karameh.» «Dove sono i tuoi figli?» «Al fronte, sono fidayin.» «Dove sono le tue figlie?» «Agli addestramenti, per diventare fidajat. » «E tu?» «Io non ne ho bisogno. Io so usare il Kalashnikov, il Carlov, e queste qui.» Sollevò un cencio e sotto c’era una dozzina di bombe col manico. «Dove hai imparato a usarle, Im Castro?» «A Karameh, combattendo col sangue ai ginocchi.» «E prima non avevi mai sparato, Im Castro? » «No, prima coltivavo grano e fagioli.» «Im Castro, cosa provasti ad ammazzare un uomo?» «Una gran gioia, che Allah mi perdoni. Pensai: hai ammazzato mio marito, ragazzo, e io ammazzo te.» «Era un ragazzo?» «Sì, era molto giovane.» «E non hai paura che succeda lo stesso ai tuoi figli?» «Se i miei figli muoiono penserò che hanno fatto il loro dovere. E piangerò solo perché essendo vedova non potrò partorire altri figli per darli alla Palestina.» «Im Castro, chi è il tuo eroe?» «Eroe è chiunque spari la mitragliatrice.» Le guerre, le rivoluzioni, non le fanno mai le donne. Non sono le donne a volerle, non sono le donne a comandarle, non sono le donne a combatterle. Le guerre, le rivoluzioni, restano dominio degli uomini. Per quanto utili o utilizzate, le donne vi servono solo da sfondo, da frangia, e neanche la nostra epoca ha modificato questa indiscutibile legge. Pensa all’Algeria, pensa al Vietnam dove esse fanno parte dei battaglioni vietcong ma in un rapporto di cinque a venti coi maschi. Pensa alla stessa Israele dove le soldatesse son così pubblicizzate ma chi si accorge di loro in battaglia se non sono una figlia di Moshe Dayan. In Palestina è lo stesso. Dei duecentomila palestinesi mobilitati da Al Fatah, almeno un terzo son donne: intellettuali come Rascida, madri di famiglia come Hanin, signore borghesi come Najat, contadine come Im Castro. Però quasi tutte sono in fase di riposo o di attesa, pochissime vivono nelle basi segrete, e solo in casi eccezionali partecipano a un combattimento. È indicativo, ad esempio, che tra i fidayin al fronte non ne abbia incontrata nessuna e che l’unica di cui mi abbian parlato sia una cinquantaquattrenne che fa la vivandiera per un gruppo di Salt. È indiscutibile, inoltre, che l’unica di cui si possa vantare la morte sia quella Sheila cui scoppiò una bomba in mano. A usare le donne nella Resistenza non ci sono che i comunisti rivali di Al Fatah i quali le impiegano senza parsimonia per gli atti di sabotaggio e di terrorismo. La ragione è semplice e intelligente. In una società dove le donne hanno sempre contato quanto un cammello o una vacca, e per secoli sono rimaste segregate al ruolo di moglie di madre di serva, nessuno si aspettava di trovarne qualcuna capace di dirottare un aereo, piazzare un ordigno, maneggiare un fucile. Abla Taha, la fidajat di cui si parlò anche alle Nazioni Unite per gli abusi che subì in prigione sebbene fosse incinta, racconta: «Quando mi arrestarono al ponte Allenby perché portavo esplosivo, gli israeliani non si meravigliarono mica dell’esplosivo. Si meravigliarono di scoprirlo addosso a una donna. Per loro era inconcepibile che un’araba si fosse tolta il velo per fare la guerra». La stessa Rascida, del resto, spiega che al corso di addestramento le donne venivano incluse come «elemento di sorpresa ». Il discorso cui volevo arrivare, comunque, la morale della faccenda, non è questo qui. È che la sorpresa su cui gli uomini della Resistenza palestinese contavano per giocare il nemico, ha colto di contropiede anche loro. «Tutto credevamo,» mi confessò un ufficiale della milizia fidayin «fuorché le donne rispondessero al nostro appello come hanno fatto. Ormai non siamo più noi a cercarle, sono loro a imporsi e pretendere di andare all’attacco.» «E qual è la sua interpretazione?» gli chiesi. L’ufficiale non era uno sciocco. Accennò una smorfia che oscillava tra il divertimento e il fastidio, rispose: «Lo sa meglio di me che l’amore per la patria c’entra solo in parte, che la molla principale non è l’idealismo. È... sì, è una forma di femminismo. Noi uomini le avevamo chiuse a chiave dietro una porta di ferro, la Resistenza ha aperto uno spiraglio di quella porta ed esse sono fuggite. Hanno compreso insomma che questa era la loro grande occasione, e non l’hanno perduta. Le dico una cosa che esse non ammetterebbero mai in quanto è una verità che affoga nel loro subcosciente: combattendo l’invasore sionista esse rompono le catene imposte dai loro padri, dai loro mariti, dai loro fratelli. Insomma dal maschio». «E sono davvero brave?» «Oh, sì. Più brave degli uomini, perché più spietate. Abbastanza normale se ricorda che il loro nemico ha due facce: quella degli israeliani e la nostra. » «E crede che vinceranno?» «Non so. Dipende dal regime politico che avrà la Palestina indipendente. Capisce cosa voglio dire?» Voleva dire ciò che dice, silenziosamente, Rascida. La società araba non è una società disposta a correggere i suoi tabù sulla donna e sulla famiglia. Le tradizioni mussulmane sono troppo abbarbicate negli uomini del Medio Oriente perché a scardinarle basti una guerra o il progresso tecnologico che esplode con la guerra. Finché dura l’atmosfera eroica, lo stato di emergenza, può sembrare che tutto cambi: ma, quando sopraggiunge la pace, le vecchie realtà si ristabiliscono in un battere di ciglia. Lo si è visto già in Algeria dove le donne fecero la Resistenza con coraggio inaudito e dopo ricaddero svelte nel buio. Chi comanda oggi in Algeria? Gli uomini o le donne? Che autorità hanno le Rascide che un tempo piazzavano le bombe? Perfino gli ex guerriglieri hanno quasi sempre sposato fanciulle all’antica, senza alcun merito militare o politico. Maometto dura: dura più di Confucio. Sicché tutto fa credere che i palestinesi, pur essendo tra gli arabi più europeizzati e moderni, commettano in futuro la stessa scelta o ingiustizia degli algerini: «Brave, bravissime, sparate, aiutate, ma poi via a casa». Ma, sotto sotto, le loro donne lo sanno e, poiché la Storia non offre solo l’esempio dell’Algeria, corrono fin da ora ai ripari. Come? Buttandosi dalla parte di coloro che abbracciano l’ideologia della Cina maoista: cioè il Fronte Popolare di George Abash. In Cina le donne non sono mica tornate a lavare i piatti; stanno anch’esse al potere, hanno vinto. Per vincere è necessario annullare ogni sentimento, incendiare le case dei vecchi, gli ospedali dei bambini, il più innocuo supermarket? E va bene. Per vincere è necessario imbruttirsi, sacrificare i genitori, credere nel socialismo scientifico, rendersi odiose? E va bene. Ciò che conta è non ricadere nel buio come le algerine, quando la pace verrà. Ciò che conta è non rimettere il velo quando gli uomini saranno in grado di cavarsela, come sempre, da soli. Può sembrare un paradosso, e forse lo è. Ma vuotando quei due bussolotti di marmellata e ficcandoci dentro esplosivo, Rascida non fece che comprarsi il domani. In fondo le ventisette creature che essa maciullò a Gerusalemme morirono perché lei si togliesse per sempre il velo e lo trasferisse sul volto dolcissimo del suo fidanzato, l’ignaro Thaer. Amman, marzo 1970 (Tratto da Intervista con il potere, Rizzoli 2009)

"Decapitazioni e orrore, Medusa tra di noi". Il sentimento di Marco Belpoliti per il 2015. Il suo sguardo era scomparso da secoli dall’iconografia collettiva, ma le immagini con le decapitazioni dell’Isis lo hanno fatto tornare. E di nuovo ci pietrifica. Lo scopo dei carnefici non è solo quello di uccidere, bensì d’infierire sul corpo. Esattamente come accadeva nei supplizi precedenti l’Illuminismo, scrive Marco Belpoliti “L’Espresso Il primo è stato il fotoreporter americano James Foley. Poi nell’arco di un mese sono stati decapitati un altro reporter statunitense, Steven Sotoff, e il cooperante scozzese David Haines. Il rito pressoché identico prevede che il condannato sia vestito di un camicione arancione, mentre il boia è in nero, con il capo e il viso occultati. Tiene in mano un coltello esibito come strumento di morte. La decapitazione ha generato un immediato senso di orrore lasciando attonita l’intera platea televisiva occidentale. Le immagini della decollazione sono state viste da milioni di persone e commentate da giornali, televisioni, siti internet. Basta? No. Pochi giorni fa la notizia che un commando di talebani pakistani entra in una scuola a Peshawar e uccide a freddo 132 bambini e i loro insegnanti, per poi essere a loro volta uccisi dalle forze di sicurezza. L’orrifico è entrato nelle case degli abitanti dell’Europa e dell’America. Qualcosa che era scomparso da due secoli almeno dalle piazze del Vecchio Continente ha fatto così la sua cruenta riapparizione - per quanto negli ultimi anni ci siano state molte altre decapitazioni, per esempio nelle guerre combattute nell’ex Jugoslavia così come in altri sequestri di ostaggi. Basti ricordare il reporter americano Daniel Pearl, sequestrato in Pakistan e decapitato nel 2002, e il giovane imprenditore Nicholas Berg in Iraq nel 2004: ma non sempre furono così platealmente visibili all’opinione pubblica, e soprattutto non prevedevano la “serializzazione” che caratterizza orrendamente le decapitazioni di oggi. Che appaiono quasi come puntate di una atroce serie, in cui ciascun episodio contiene l’annuncio del successivo. All’inizio del suo volume “Sorvegliare e punire” (1975) Michel Foucault racconta un supplizio, tratto dalla “Gazzetta di Amsterdam”, cui è condannato il 2 marzo 1757 tale Robert-François Damiens. Il suo corpo è squartato tra terribili tormenti sulla pubblica piazza a opera di sei cavalli, che tirano le membra da parti opposte. Nell’arco di pochi decenni da quella data in Europa si smette di amputare, fare a pezzi e marchiare i condannati; il corpo non è più oggetto dello spettacolo pubblico, così da scomparire come “principale bersaglio della repressione penale”. Salvo poi fare la sua terribile ricomparsa con il Terrore, attraverso l’uso della ghigliottina e delle teste mozzate esibite, ancora sulle piazze, durante la Rivoluzione francese. Nel sistema giuridico americano, dove tutt’ora esiste la pena di morte cancellata invece in Europa, ha ricordato di recente Giorgio Mariani, è contemplata l’uccisione del condannato mediante una iniezione letale, sistema indolore e privo di spettacolarità. Nella cultura puritana di quel Paese, almeno sul suo territorio, è respinta come barbara ogni forma di decollazione: la testa non può e non deve essere separata dal corpo, il quale va conservato nella sua integrità nel momento in cui viene eseguita una sentenza di morte. L’orrore che hanno suscitato i filmati dell’Isis proviene anche da questa tradizione, oltre che dal culto del corpo che negli ultimi settant’anni si è diffuso in Occidente. Questo nonostante che nei decenni passati in Europa, come in altri luoghi del Pianeta, siano accaduti fatti terribili, le guerre e i conseguenti massacri della ex-Jugoslavia, o le vicende del genocidio in Uganda, con amputazioni, decapitazioni, squartamenti. In Europa la decapitazione degli ostaggi americani e inglesi nelle mani dei membri dell’Isis sono state vissute come un ritorno al passato, a pratiche medievali, barbariche. Questo nonostante che nella nostra tradizione iconografica sia ben presente l’immagine della decollazione, quella di san Giovanni Battista, o quella di Giuditta nei confronti di Oloferne, come ci ha ricordato non molti anni fa la mostra allestita da Julia Kristeva al Museo del Louvre, poi raccolta in “La testa senza il corpo” (Donzelli). C’è persino un santo, San Dionigi, protettore di Parigi, il cui miracolo è consistito nel mettersi sotto braccio la propria testa tagliata, per mano dei soldati romani, e risalire la collina che prende ora il suo nome nella capitale francese. Per quanto espunto dalla nostra giustizia, l’orrore ritorna continuamente nelle nostre cronache. Si è letto solo pochi giorni fa di una madre che avrebbe ucciso il proprio bambino. L’orrore è cosa ben diversa dal terrore che con gli atti di decapitazione l’Isis vorrebbe provocare nel mondo occidentale, qualcosa di più profondo e radicale. La parola “orrore”, ricorda Adriana Caravero, viene dal verbo latino horreo, di incerta etimologia ma di sicuro significato: indica il rizzarsi dei peli del corpo, il suo tremolio per via dello spavento. Secondo uno studio, a rizzarsi sarebbero i capelli, azione inconsueta ma possibile, che si conserverebbe nel significato della parola italiana “orripilante”. La filosofa nel suo libro “Orrorismo” (Feltrinelli), il cui titolo costituisce un neologismo, sostiene che esiste una “fisica dell’orrore”, collegata a quella dell’agghiacciarsi, reazione fisiologica al freddo, che provoca la cosiddetta “pelle d’oca”. Sono tutti stati del corpo che colpiscono chi è esposto a spettacoli orripilanti. Primo Levi, all’inizio della “Tregua”, descrive la reazione dei giovani soldati russi che raggiungono il Lager dove il deportato si trova nel gennaio del 1945. I russi osservano dall’alto dei loro cavalli lo spettacolo bestiale dei cumuli dei cadaveri abbandonati dai nazisti in fuga. Orrore e insieme ripugnanza, qualcosa di diverso dalla paura, una forma di ribrezzo che in un libro, “Poteri dell’orrore” (Spirali), Julia Kristeva ha definito “ribrezzo”. C’è una figura classica che incarna perfettamente l’orrore di cui si parla: Medusa. La sua visione agghiaccia, paralizza, pietrifica. L’orrore è tale che chiunque ne fissi il viso - gli occhi, lo sguardo, ma anche i capelli a forma di serpenti come l’ha dipinta Caravaggio - viene trasformato in roccia. Quelle che si presentano al nostro sguardo nei film rilasciati nel web dai carnefici dell’Isis sono immagini inguardabili, ripugnanti, che fanno ribrezzo. Lo scopo di questi carnefici non è solo quello di uccidere, bensì d’infierire sul corpo, esattamente come accadeva nei supplizi che precedono le riforme penali prodotte dall’Illuminismo nel diritto occidentale. Si vuole distruggere l’unità del corpo provocando negli spettatori l’orrore. Più questo, ribadisce Caravero, che non il terrore. C’è un’altra figura mitologica che viene spesso evocata proprio per definire l’altro aspetto dell’orrore, cui ci hanno abituato le cronache recenti: Medea. Ripudiata da Giasone a vantaggio della figlia del re di Corinto, Medea uccide i suoi figli per vendetta, come racconta Euripide nella tragedia. Lei, che aveva aiutato il suo uomo a conquistare il Vello d’oro, diventa il modello degli infanticidi a seguire. In una versione del mito citata da Károly Kerényi, Medea taglia a pezzi i corpi delle sue vittime, evocando così la fantasia orripilante dello smembramento. Adriana Cavarero sottolinea come non esista un analogo mito maschile per descrivere l’orrore dell’uccisione dei propri congiunti, e come l’orrore dell’infanticidio sia ascritto alla madre quale segno di una follia estrema. Per riscattare Medea, o almeno cercare di capire l’orrore che la abita, la filosofa ricorda un episodio presente nel libro di W. G. Sebald, “Storia naturale della distruzione” (Adelphi), dedicato ai bombardamenti con cui gli Alleati distrussero le città tedesche nel corso del Secondo conflitto mondiale. Durante una fuga dalle tempeste di fuoco, a una donna si aprì di colpo la valigia che recava. Non conteneva gioielli o oggetti, ma il cadavere di suo figlio. Sebald riporta altri casi in cui le madri recarono con loro nella fuga corpi di bambini soffocati dal fumo o uccisi dai bombardamenti. Nella disperazione, scrive l’autrice, in cui l’orrore le aveva immerse, queste donne cercavano di curare le loro inermi creature oltre la stessa morte. Un modo per salvare i corpi dall’orrore terribile di quella distruzione. Davanti all’orrore delle immagini trasmesse dal web o sui canali televisivi, riportate nelle pagine dei giornali sotto forma di fotografie, a Gaza come in Afghanistan, in Cecenia come in Siria, possiamo decidere legittimamente di distogliere lo sguardo, cambiare canale, girare pagina, per non restare paralizzati, pietrificati da quello che si vede. Per quanto evochino qualcosa di pornografico – piacere morboso insieme all’orrore, com’è stato giustamente detto – non possiamo esimerci dal sapere che queste immagini hanno un valore etico, come ci ha ricordato Susan Sontag in “Davanti al dolore degli altri” (Mondadori). Fanno sorgere domande decisive e ci rendono consapevoli del fatto che esseri umani commettono cose terribili nei confronti di altri esseri umani. Cavarero la chiama “la violenza sull’inerme”, ed è questo il vero orrore che suscitano in noi.

Fatwa e morte. Così uccidono la satira, scrive Simone Di Meo su “Il Tempo”. Si dice che quando l'uomo con la penna incontra l'uomo con la pistola, l'uomo con la pistola è un uomo morto. Si dice, però. Perché la scia di sangue che ha macchiato libri, pellicole e paginate di giornale fresche d'inchiostro è ben più lunga di quella freschissima lasciata sulle vignette di Charlie Hebdo. Il settimanale che, ironia del destino, nel 2006 aveva deciso di mandare in edicola per solidarietà, insieme a numerosi quotidiani europei, anche italiani, le caricature di Maometto pubblicate l'anno prima sul quotidiano danese Jyllands-Posten e successivamente sul giornale norvegese Magazinet. In uno dei disegni, il profeta dell'Islam era raffigurato con una bomba al posto del turbante (il vignettista Kurt Westergaard da allora vive sotto costante protezione della polizia e solo per miracolo i tentativi di assassinio ai suoi danni non sono riusciti). Alla pubblicazione di quelle immagini, successe il finimondo: dall'Africa, al Medioriente, all'Afghanistan, all'Indonesia esplosero le proteste di piazza. In Nigeria morirono 130 persone negli scontri. A quel punto, il premier norvegese Anders Fogh Rasmussen all'inizio del 2006 raggiunse un accordo con la Lega Araba per la distribuzione di una lettera che era sostanzialmente di scuse e che, pur difendendo il principio della libertà di espressione, stigmatizzava la «demonizzazione» di alcuni gruppi in base all'appartenenza religiosa ed etnica. Il 30 gennaio giunsero le scuse anche del direttore del Jyllands-Posten. L'8 febbraio, una provocazione dell'allora ministro leghista Roberto Calderoli legata alle vignette incriminate, portò ad una violenta protesta in Libia e ad un attacco al consolato italiano di Bengasi, nel quale morirono 11 manifestanti. Ancor prima, il 2 novembre del 2004, c'era stato l'omicidio di Theo van Gogh, il regista olandese di “Submission”, un cortometraggio che aveva fatto scandalo nel mondo islamico per la scelta di scrivere dei versi di una sura del Corano sulla schiena della protagonista. L'assassino, Mohammed Bouyeri, in possesso della doppia cittadinanza olandese e marocchina, intercettò van Gogh nel centro di Amsterdam, esplodendo contro di lui otto colpi di pistola. Gli tagliò anche la gola e gli piantò nella pancia due coltelli, in uno dei quali era conficcato un documento contenente minacce ai governi occidentali, agli ebrei e ad Ayaan Hirsi Ali, deputata di origini somale ed autrice del film insieme a van Gogh. Il film fu ritirato e anche il produttore, Gijs van Vesterlaken, subì gravi minacce. Fino ad allora, l'unica condanna a morte nei confronti di un intellettuale inviso al regime islamico risaliva al 1989 ed era stata spiccata nei confronti dello scrittore britannico di origine indiana Salman Rushdie, all'epoca già una star affermata della narrativa internazionale. Nel suo libro, “I versetti satanici”, aveva fatto allusivamente riferimento alla figura del profeta Maometto. Fu per questo che a febbraio di quell'anno l'ayatollah Khomeini emanò una fatwa nella quale condannava a morte Rushdie, colpevole, a giudizio della massima autorità iraniana, di bestemmia. I killer non riuscirono a trovarlo ma nel 1991, fu accoltellato a morte da uno sconosciuto il traduttore giapponese dell'opera, Hitoshi Igarashi; e nello stesso anno, fu ferito anche il traduttore italiano, Ettore Capriolo, mentre nel 1993 fu la volta dell'editore norvegese del libro. Dopo la morte di Khomeini, la fatwa fu confermata nel 2005 dall'ayatollah Ali Khamenei, ma lo stesso Rushdie ammise che la condanna a morte aveva ormai un valore più retorico che reale. Anche se, nel 2012, lo scrittore fu costretto a rinunciare alla partecipazione al festival internazionale di letteratura di Jaipur, in India. I fanatici della Mecca erano tornati a farsi vivi.

Giannelli: «Non sapremo reagire La nostra società si è assuefatta al peggio», scrive “Luca Rocca su “Il Tempo”. L’uccisione dei giornalisti satirici del Charlie Hebdo, a Parigi, non sorprende Giannelli. Di una cosa il vignettista appare certo: stanno cercando di intimidirci. Ed è anche convinto, inoltre, che l’Occidente sia così assuefatto al peggio, che neanche di fronte a una strage di questa portata sarà in grado di reagire.

Giannelli, tre terroristi imbracciano un kalashnikov e colpiscono al cuore la nostra libertà.

«In questo mondo non mi stupisce più niente. La barbarie del nostro tempo supera qualsiasi immaginazione. Chi mai, fino a pochi anni fa, poteva immaginare che saremmo entrati in un tunnel così buio? Bisognerebbe scavare a fondo alla vicenda, capire le radici di questo odio, da dove proviene».

Nella sua carriera, si è mai imbattuto nell’intolleranza dell’Islam?

«Tanti anni fa, quando collaboravo con Repubblica, io e Forattini fummo convocati da Eugenio Scalfari, il quale ci raccomandò di andarci cauti con le vignette sull’Islam. Ho pensato che avesse ricevuto messaggi allarmanti. Personalmente però non ho mai ricevuto minacce».

Perché colpire la satira?

«L'integralismo islamico è intolleranza all'ennesima potenza, non riguarda solo la satira. Ma è vero che verso lo humor l’Islam ha una chiusura ermetica. Credo, però, che un attacco come quello al Charlie Hebdo rappresenti soprattutto un’intimidazione. Dopo una strage come quella avvenuta in Francia, infatti, anche se inconsciamente, prima di pubblicare un'altra vignetta contro Maometto, ci pensi due volte».

Saremo capaci di reagire?

«Io sono vecchio, ero ottimista e non lo sono più. Ho la sensazione che le reazioni della nostra società siano sempre meno frequenti. Siamo capaci di assuefarci a tutto. Ciò che un tempo ci sarebbe sembrato enorme, adesso ci appare quasi accettabile».

Quello di ieri è l’11 settembre della stampa?

«In un certo qual modo è così, ma non vedremo la stessa reazione vista dopo l’attacco del 2001 alle Torri Gemelle. E sa perché? Perché sono passati più di 10 anni, e lentamente ci siamo abituati a ogni efferatezza».

Krancic: «Per proteggere l’Islam l’Occidente si sta suicidando» , scrive “Il Tempo”. È una tappa del suicidio dell’Occidente. A dirlo, nel giorno in cui gli integralisti islamici assaltano il cuore dell’Europa uccidendo dei disegnatori di satira che la loro «libertà di matita» la indirizzavano anche contro Allah, è uno dei maggiori vignettisti italiani, Alfio Krancic, che si dice sconvolto.

Qual è stato il suo primo pensiero alla notizia della la strage nella redazione del Charlie Hebdo?

«Sono ancora frastornato. Aver colpito un settimanale simbolo della trasgressione satirica, è indicativo del clima di odio che si è scatenato verso le manifestazioni di libertà dell'Occidente».

Lei ha mai realizzato vignette sull'Islam?

«Certo, anche sull’Isis e il “califfo nero” al Baghdadi, prendendo sempre le parti di Assad, Gheddafi, Saddam. Meglio quei regimi arabi laici che salvaguardano le altre religioni e ci proteggono dal fanatismo islamico. Perché quando in quei paesi le dittature cadono, non arriva la democrazia. E lo dimostra anche l'attentato in Francia».

Hai ricevuto minacce per quelle vignette?

«No. In Italia, fortunatamente, la minaccia islamica non ha mai preso di mira la satira, ma qualche giornalista, come Magdi Allam, o qualche politico, come Roberto Calderoli, rei di avere idee non in linea con il pensiero islamico e di manifestarle come desiderano».

Perché la satira sull’Islam provoca morte?

«La colpa è anche del politicamente corretto. Corretto unilateralmente, visto che protegge alcune espressioni religiose, come l'Islam, ma non la nostra religione, il cristianesimo. Una forma sadomasochistica ha pervaso le menti dell'Occidente. Siamo persino arrivati a contemplare il reato di islamofobia. L'Occidente si sta suicidando».

Un massacro come quello di ieri può segnare la fine del multiculturalismo in Europa?

«È molto difficile. Le forze culturali e intellettuali che dominano in Europa sono troppo forti. Impediranno ad alcuni movimenti politici e culturali di prendere il sopravvento sul multiculturalismo. Al contempo, però, la strage inevitabilmente aumenterà l'intolleranza verso gli intolleranti».

Vauro: «Difendo il diritto al gioco della libertà e alla libertà del gioco», scrive Massimiliano Lenzi su “Il Tempo”. «La satira è tale perché da sempre sbeffeggia i potenti ed i prepotenti». Vauro, vignettista e satirico a sinistra da una vita (da Il Manifesto a Servizio Pubblico, su La7) - che trent'anni e passa fa, come racconta a Il Tempo, «ha lavorato pure al Charlie Hebdo» - il giorno dopo l'attentato dei fondamentalisti islamici al giornale satirico francese, è sconvolto ed addolorato. «Sono fuori di me, perché la satira è la libertà assoluta e nessuno deve violentarla. Mai. Perché la satira è da sempre contro tutti i tipi ed ogni forma di fondamentalismi».

Gli chiediamo cosa, secondo lui, toscano che attinge la propria ironia da Cecco Angiolieri in avanti, rappresenti per le nostre libertà ciò che è successo a Parigi.

«Si è colpita un'arte – risponde –, la satira, che è la cosa meno violenta che si possa immaginare perché qualsiasi tema affronti è sempre un gioco. C'è sempre un elemento di gioia e di poesia nell'ironia satirica e l'irruzione di una violenza così assurda e demente incarna un attentato contro la fantasia degli uomini e delle donne. È come se i terroristi assassini avessero fatto irruzione durante l'ora di ricreazione in una scuola, compiendo una strage efferata di bambini, Erodi contro ogni libertà, perché vede, la satira ha sempre una propria componente infantile. E poi devo dirle che che c'è un'altra cosa, ancora, che mi preoccupa...».

Che cosa?

«Quello che mi preoccupa è che sento già parlare di scontri e di guerre di religione. Io – aggiunge – vorrei sperare che la satira non diventi arruolabile da nessuno, mai. Vede, sui social media ieri mi sono arrivati inviti a fare vignette contro Maometto, per dimostrare di avere le palle. Ma io non credo si possa fare satira per dimostrare di avere le palle, perché la forza del ridere deve essere più forte della fine, anche della morte. Quello che voglio ostinatamente difendere, continuare a difendere, è il diritto al gioco della libertà ed alla libertà del gioco. Perché dopo l'attentato vigliacco di Parigi al Charlie Hebdo siamo tutti meno liberi. Ed anche meno felici».

Vincino: «L’Islam non c’entra? Certi soloni vadano a quel paese», scrive ancora Lenzi. «La cosa tragica e divertente, sa quale è? È ascoltare certi Soloni dire che l'Islam non c'entra niente, perché è buono e non c'entra che i killer, uccidendo, hanno gridato di vendicare Maometto, con la frase di rito "Allah akbar": ma andate tutti quanti a quel paese, ipocriti!». Vincino, vignettista de Il Foglio ed anticonformista da una vita intera, non si rassegna all'ecatombe delle libertà che si è consumata ieri nel cuore di Parigi, e alla mollezza di certe reazioni italiane ed occidentali. «Ieri hanno centrato ed ucciso un posto come verità, e non come simbolo. Perché il Charlie Hebdo era il luogo dove è nata la libertà di satira in Europa, ed anche la mia. "Il Male" con i suoi autori nacque anche grazie a loro, tutte la rubriche delle copertine rifiutate ad esempio, una colonna straordinaria con 4 vignette terribili in cui potevi mettere le cose più libere ed inimmaginabili». Poi Vincino si sofferma sulle persone, e spiega che «all'interno di Hebdo trovavi poeti veri, come Georges Wolinski, figlio di un polacco e di un'italiana emigrati in Tunisia, un poeta dell'amore e del sesso. E vedere Wolinski morire durante una riunione di satira mi commuove». Perché Vincino, sulla satira, come spiega al nostro giornale, «ha fatto un festival, a Roma, all'epoca di Nicolini. Wolinski era come tutti i veri umili, semplice e generoso. Ma liberi totalmente. E questo vale per il Charlie Hebdo, che perciò va a cozzare con le religioni. Sempre. Poi, oggi, ci sono le religioni che sono un po' più buone ed altre in alcune parti del mondo, più cattive. Cattivissime. L'Hebdo non ha mai ceduto un centimetro sulla vivisezione delle religioni, sia cattolica che islamica. Avevano capito per primi la questione della libertà poste dalle vignette pubblicate dal giornale danese Jyllands-Posten su Maometto, e seguite da mobilitazione contro nei paesi arabi. Roberto Calderoli, una vignetta se la mise su una maglietta sotto la giacca. Noi, comunque sia, speriamo di non finire mai in una maglietta di Calderoli ma quello che ieri è stato attaccato sono l'illuminismo e la nostra civiltà».

Ecco i nomi delle dodici vittime dell'attacco del 7 gennaio 2015 alla redazione di Charlie Hebdo:

- Stephane Charbonnier, alias Charb, vignettista e direttore;

- Georges Wolinski, vignettista;

- Jean Cabut, alias Cabu, vignettista;

- Bernard Verlhac, alias Tignous, vignettista;

- Philippe Honoré, vignettista;

- Bernard Maris, economista ed editorialista;

- Elsa Cayat, psicologa e giornalista;

- Michel Renaud, ex consigliere del sindaco di Clermont Ferrand;

- Mustapha Ourrad, correttore di bozze;

- Fréderic Boisseau, addetto alla portineria;

- Franck Brinsolaro, poliziotto;

- Ahmed Merabet, poliziotto.

Decapitato l’umorismo francese. Quattro celebri vignettisti tra le vittime: Charb, Cabu, Tignous e Wolinski Sull’ultimo numero la caricatura di un terrorista: «Gli auguri entro gennaio», scrive Antonio Angeli su “Il tempo”. Cinque minuti di puro terrore, un muro di piombo e fuoco: alla fine in terra, senza vita, restano in 12. Parigi e il mondo piangono il più grave e sanguinoso atto di terrorismo degli ultimi anni: sono rimasti uccisi 8 giornalisti, 2 agenti, un ospite della redazione e il portiere dello stabile. Delle vittime alcuni sono celebri: vignettisti, inguaribili umoristi, di quelli che se cerchi di mettergli il bavaglio diventano più tenaci, e gli è costata cara, soni diventati bersaglio di una violenza inaudita; una strage che ricorda quella all’inizio di un vecchio film di spionaggio: «I tre giorni del Condor».

Ucciso il direttore del settimanale satirico parigino «Charlie Hebdo», Stéphane Charbonnier detto «Charb» , celebre disegnatore satirico, classe 1967, in passato già minacciato più volte per le vignette su Maometto, e per questo messo sotto la protezione della polizia. Non gli è servito, non è stato sufficiente. Nel numero uscito proprio la scorsa settimana c’è la sua ultima vignetta, profetica e agghiacciante, ora che si è consumato il massacro. Il titolo dell’illustrazione: «Ancora nessun attentato in Francia», sotto il pupazzetto che raffigura un terrorista islamico, con la barba e il mitra sulle spalle, che dice: «Aspettate! Abbiamo tempo fino alla fine di gennaio per fare gli auguri». Caduti sotto il fuoco dei terroristi i tre più importanti vignettisti della testata: Cabu, Tignous e Georges Wolinski, molto famoso anche in Italia, da anni. Nell’attentato è rimasto ucciso anche l’economista Bernard Maris, azionista della testata parigina.

Jean Cabut meglio noto come Cabu , 76 anni, antimilitarista e di spirito anarchico, ha collaborato con tutte le principali testate francesi come caricaturista e disegnatore di fumetti. Attualmente disegnava sia per «Charlie Hebdo» che per il suo principale concorrente, «Le Canard Enchainé». Per «Pilote», una delle principali riviste francesi di fumetti, aveva creato il personaggio del «Grand Duduche», liceale maldestro. Era il padre del cantante Mano Solo, morto di malattia nel 2010. Charb, 47 anni, disegnatore satirico, collaborava anche con il quotidiano del partito comunista «L’Humanité» e due delle principali riviste francesi di fumetti, «Fluide Glacial» e «L’Echo des Savanes». Sue le strisce, irriverenti e al limite del pornografico, del cane Maurice, bisessuale e anarchico, e Patapon, gatto asessuato e fascista.

Ucciso anche Bernard Verlhac, detto Tignous , 57 anni. I suoi disegni venivano pubblicati da «Charlie Hebdo», «Marianne» e «Fluide Glacial».

E poi c’era il più famoso di tutti, fumettista e vignettista noto, non solo in Francia, ma anche in Europa, per il suo caratteristico taglio caustico nel rappresentare la quotidianità. È Georges Wolinski , con «Charlie Hebdo» collaborava da anni. Nato a Tunisi il 28 giugno del ’34, Wolinski aveva esordito come disegnatore per la rivista «Hara-Kiri», dalla quale era poi passato a «Action», «Paris-Presse», «Hara-Kiri Hebdo», «L’Humanité», e infine «Paris-Match». Attualmente era anche capo redattore di «Charlie Mensuel». Wolinski aveva ottenuto la popolarità con i fatti del maggio del ’68, attraverso la rivista «Action». La sua cifra stilistica era costituita dalla capacità di porre l’accento sui personaggi, dall'ampio uso di doppi sensi, anche sessuali - tanto da farlo conoscere a molti come l'umorista del sesso - e dal taglio caustico nel rappresentare il cinismo quotidiano. Il fumettista era anche noto per avere collaborato, negli anni ’70, con Georges Pichard creando il personaggio di Paulette.

Bernard Maris era invece un professore d’economia allo Iep di Tolosa e attualmente insegnava anche all’Istituto di studi europei dell’università Parigi-VIII. Il 68enne era anche una firma per diversi giornali, come «Le Monde», «Le Figaro Magazine» e «Le Nouvel Observateur». Del settimanale satirico era stato uno dei fondatori, con l’11% delle azioni, e fino al 2008 direttore aggiunto. Era uno dei principali studiosi della globalizzazione «etica e sociale». Un grande intellettuale francese, tra le sue attività, anche la scrittura, con la pubblicazione di diverse opere letterarie.

Non tutte le firme del settimanale satirico sono state messe a tacere. È una carneficina che «ha decapitato» il settimanale, come succede in «Siria e in Iraq»: così ha reagito Bernard «Willem» Holtrop, vignettista di «Charlie Hebdo», scampato all’assalto che ricorda che le vittime «non sono dei colleghi, sono degli amici». E la carneficina del settimanale parigino ha scatenato una silenziosa, gigantesca reazione, a livello mondiale. In Francia tantissime persone sono scese in strada con un cartello: «JeSuisCharlie», «Io sono Charlie», con il chiaro riferimento alla testata. L'ambasciata americana a Parigi ha anche cambiato la sua icona Twitter in #JeSuisCharlie, in segno di sostegno alla Francia. «La libertà di espressione è un diritto umano», ha twittato Amnesty Italia.

Charlie Hebdo, una storia di satira irriverente. La testata è nota per le vignette e illustrazioni, ma anche per gli articoli incentrati su politica, cultura, estrema destra, cattolicesimo, islam e giudaismo, scrive “Il Tempo”. Charlie Hebdo è un settimanale satirico di tradizione libertaria, dal tono irriverente e anticonformista. Il giornale difende le libertà individuali e ha un orientamento di sinistra, fortemente anti religioso. Charlie Hebdo è noto per le vignette e illustrazioni, ma anche per gli articoli incentrati su politica, cultura, estrema destra, cattolicesimo, islam e giudaismo. Anche se prende di mira principalmente i politici di destra, il settimanale non risparmia neanche i partiti di sinistra francesi. Secondo l'attuale direttore, il disegnatore Stéphane Charbonnier, noto come Charb, il giornale riflette "tutte le componenti del pluralismo di sinistra e perfino dell'astensionismo".

Nel 2006 il giornale suscitò polemiche pubblicando una serie di caricature del profeta Maometto, diffuse inizialmente dal quotidiano danese Jyllands-Posten. Nella settimana precedente le illustrazioni avevano suscitato proteste in alcuni Paesi musulmani. Diverse organizzazioni musulmane francesi, tra cui il Consiglio francese del culto musulmano, chiesero di seguito di mettere al bando il numero del settimanale contenente altre caricature di Maometto, ma la richiesta non fu accolta.

Nel 2011 la sede del giornale venne colpita da alcune bombe molotov; l'attacco fu lanciato prima dell'uscita nelle edicole di un numero con in copertina un'altra vignetta satirica con Maometto. Il sito web del settimanale fu invece preso di mira da hacker. La storia di Charlie Hebdo comincia negli anni '60 ed è strettamente legata a quella del mensile Hara-Kiri, lanciato da Georges Berniere e François Cavanna, e definito da loro stessi "un giornale stupido e cattivo".

La rivista fu al centro di diverse polemiche e fu interdetta dalla magistratura nel 1961 e poi nel 1966. Trasformata successivamente in settimanale, a novembre del 1970 la rivista suscitò critiche dopo la morte di Charles de Gaulle, titolando in copertina "Bal tragique à Colombey - un mort", ossia 'Ballo tragico a Colombey, un mortò, con un riferimento alla residenza del generale. Di seguito le pubblicazioni di Hara-Kiri vennero bloccate dal ministero dell'Interno francese, ma i giornalisti aggirarono il divieto lanciando una nuova pubblicazione, Charlie Hebdo, che deve il nome al famoso personaggio del fumetto Peanuts. Il settimanale rimase chiuso tra il 1981 e il 1992 dopo un calo del numero di lettori. Prima di Charb a guidarlo furono François Cavanna e Philippe Val. La rivista è pubblicata ogni mercoledì.

Matite satiriche. Satiriche come le penne di sinistra che alzano le sopracciglia quando si parla di satira di destra.

Charlie Hebdo, parlano Staino, Altan, Vauro e Makkox: «La satira non si fa intimidire». Dopo l'attentato al giornale satirico francese, che ha causato dodici vittime, parlano alcuni dei più celebri fumettisti italiani. Che piangono gli amici scomparsi e dicono: "Questi omicidi devono far crescere la nostra voglia di contrastare l'oscurantismo", scrive Daniele Castellani Perelli su “L’Espresso. Hanno la voce rotta. Cercano le parole giuste. Promettono che nulla cambierà nel loro lavoro, ma temono che niente sarà più come prima. Alcuni dei più noti vignettisti italiani, da Staino a Altan, da Vauro a Makkox, commentano al telefono con “l'Espresso” la tragedia parigina, l'assalto al giornale satirico “Charlie Hebdo”.

Il dolore più grande è quello di Sergio Staino, che nell'attacco ha perduto un amico, il disegnatore Georges Wolinski. «La mia prima reazione è stata di andare a vedere se tra le vittime ci fosse Georges. Lo reputavo improbabile, visto che non lavora all'interno della redazione. E invece hanno ammazzato anche lui, significa che sapevano che oggi era prevista la riunione», racconta Staino: «Avevo conosciuto Wolinski all'inizio degli anni Ottanta, quando ero andato a visitare la redazione di “Charlie Hebdo” a Parigi. Poi era stato più volte mio ospite, e aveva anche partecipato a un mio film del 1992, “Non chiamarmi Omar”, con Ornella Muti, ricordo che si era innamorato di Stefania Sandrelli». Staino, storico disegnatore dell'“Unità”, ha fatto vignette su Hamas e l'Islam politico, ma mai sulla religione musulmana in sé. Tuttavia ha sempre difeso il diritto alla libertà di espressione, anche quando, dice, «le vignette erano artisticamente di scarso valore, come quelle su Maometto, una peggiore dell'altra, pubblicate in Danimarca dallo“Jyllands Posten”». La cosa che più lo colpisce è che i terroristi abbiano voluto colpire i più deboli: «Non sono andati a colpire che ne so la Cia, ma dei vignettisti. È come attaccare la Croce Rossa, è una cosa da vigliacchi». E ora? Cambierà qualcosa nel mondo della satira? I vignettisti si autocensureranno? «No, non succederà mai», risponde Staino: «La nostra molla sono la ricerca della verità, lo sberleffo dei fondamentalisti, il dubbio, l'antidogmatismo. Questi omicidi accresceranno la nostra voglia di contrastare l'oscurantismo». 

È d'accordo anche Vauro, storica matita del “Manifesto” prima e di “Servizio pubblico” e “Annozero” poi. «Non credo che reagiremo con quella forma tremenda di censura che è l'autocensura. Noi che viviamo di satira siamo, che piaccia o no, degli istintivi. In noi domina quell'elemento ludico, infantile, anche inopportuno come spesso sono inopportuni i bambini, un elemento che non si fa intimorire dalle minacce di un gruppo di intolleranti». Vauro conosceva Wolinski, e dice di essere rimasto annichilito davanti alla notizia dell'attacco. Lo hanno colpito molto anche certi inviti che gli sono arrivati sui social network, che gli dicevano «Ora disegna Maometto se hai le palle». «Io ho disegnato Maometto, e ho anche “affrescato” i muri dell'ospedale di Emergency a Kabul al tempo dell'oscurantismo talebano. Non mi farò fermare dai fondamentalisti islamici, ma non devo neanche dimostrare niente a nessuno».

Anche Francesco Tullio Altan, storico vignettista di “Espresso” e “Repubblica”, ha perso degli amici oggi. Non nasconde che ora possa diventare più difficile, per un vignettista, ironizzare sull'Islam, ma non crede che l'attacco sia da intendersi contro il mondo della satira: «Come gli attentati alle metropolitane o ai treni, questo non è che un episodio della grande guerra contro la libertà in generale». 

Makkox, infine. Il disegnatore del “Post” e di “Gazebo” ammette di aver sentito crescere in sé una rabbia davanti alla notizia. «Quei nomi, quei colleghi di cui a casa ho i libri...», dice incredulo, per poi confessare il suo tormento interiore: «Oggi cambia tutto. Questo attacco ci radicalizzerà tutti, spingerà tutti noi a essere manichei, è come una chiamata alle armi. Il discorso pubblico verrà sconvolto. Da un lato vorrei dire liberamente che non mi piacciono le vignette contro Maometto o Gesù, che non le trovo efficaci, che il problema sono l'Isis e i preti pedofili e non le religioni, però poi penso subito che un'opinione così non potrò più esprimerla, perché potrei essere accusato di stare dalla parte dei “nemici”. Dall'altra la rabbia che provo mi spinge a prendere posizione, a non tirarmi indietro». La satira si farà più cauta? «Sì farà magari meno cauta, si radicalizzerà, il rischio è che perderemo tutti un po' il senso critico, vincerà l'estremista che è in noi, mentre proprio ora avremmo bisogno di essere razionali». 

Tutti sono consapevoli dei tanti rischi che si aprono. Dice Vauro: «Quello che è successo a Parigi, una vera azione militare, non deve innescare nuove guerre, non dobbiamo inventare nuovi nemici dove non ce ne sono e generare nuovi conflitti armati». Guardando all'Italia, Staino aggiunge: «Il pericolo è ora che nella vicenda inzuppino il pane i fondamentalisti di casa nostra, la destra becera e intollerante. A destra come a sinistra abbiamo bisogno che le persone più illuminate guidino il dibattito, e aiutino la parte migliore del mondo musulmano a farsi sentire».

Vauro Senesi e il "coccodrillo" per Charlie Hebdo: pioggia di insulti sui social. La doppia morale di Vauro Senesi. Va in tv con la maglia "Je suis Charlie", salvo scordarsi le sue feroci critiche alle vignette di "Charb". Su twitter infatti è scoppiata la bufera dopo il coccodrillo in diretta tv del vignettista di Santoro a Sevizio Pubblico dedicato alle vittime del massacro di Charlie Hebdo: "Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo. Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre. Questi mostri li abbiamo creati noi", afferma Vauro da Santoro. Ma dimentica quelle sue parole di qualche tempo fa contro le vignette di Charlie Hebdo: "Questi disegni sono messaggi violenti che provocano reazioni violente". Implacabile la reazione del web: "Vauro sei un paraculo". 

Criticava Charlie, ora lo piange Tutti contro il coccodrillo Vauro. Il vignettista di Santoro indossa la maglietta di solidarietà, ma quando i francesi pubblicarono i disegni anti islam li accusò di provocare "reazioni violente". E il web si scatena: "Che paraculo", scrive Luigi Mascheroni su “Il Giornale”. Sui social, che non sono la rappresentazione del mondo, ma ne incorniciano comunque un pezzo, c'è chi ricorda che le vignette contro i cristiani non hanno mai prodotto vittime, ecco la differenza tra noi e loro: «Bella la vita Vauro, neh!». C'è chi spegne la tv, perché non può sopportare «Vauro, Ruotolo e tutti quei quaquaraquà che ora alzano le matite al cielo, ma fino a ieri invece...». C'è chi non si ricorda, fino l'altro giorno, vignette di Vauro sull'Islam, e chi ricorda invece che Vauro attaccò le vignette danesi anti-Maometto perché, disse, «messaggi violenti provocano reazioni violente». C'è chi ironizza sul fatto che ora «in Italia aspettiamo la risposta di Vauro, che con sprezzo del pericolo farà una vignetta molto aggressiva. Su Berlusconi o Renzi». E chi, esagerando come solo Twitter è capace di esagerare, nel suo micidiale mix di sintesi e cinismo, digrigna la tastiera: «Vauro con la maglietta "Jesuischarlie", lui, amico dei terroristi islamisti...». E in effetti, l'altra sera, in una trasmissione come Servizio Pubblico di Santoro che faticava parecchio, tra distinguo e cautele, tra buonismo e correctness politica, ad avvicinare i termini «terrorismo» e «Islam», faceva impressione (per alcuni pena) vedere Vauro Senesi, in arte Vauro, in pratica un disegnatore con le sue debolezze e i suoi talenti, come tutti noi, indossare a favore di telecamera la t-shirt con la scritta Je suis Charlie . Che, si vedeva, era fuori taglia, e non solo metaforicamente. Perché a Vauro quella maglietta stava strettissima. Piange i colleghi francesi, ma nega che ci sia una guerra in corso. Condanna i terroristi, ma non dice mai «terroristi islamici». Sbuffa: «Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel Medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo», ma dimentica che i passi li ha fatti la civiltà cristiana, in avanti: e infatti per quanto ritenga esecrabili le vignette satiriche contro il Papa, Comunione e liberazione non ha mai organizzato una crociata su Parigi. Un po' troppi «ma», quando ci sono persone uccise a colpi di Ak47 in nome di Allah. Ieri, sul Corriere della sera , in un pezzo nascosto a pagina 15, non richiamato in prima né postato sul sito del quotidiano, Pierluigi Battista ha firmato un pezzo dal titolo «Vauro e gli altri che bocciarono quelle vignette "provocatorie"», smascherando l'ipocrisia di chi, come Vauro appunto o come Ruotolo, oggi piangono gli eroici giornalisti di Charlie Hebdo , ma ieri li consideravano irresponsabili, dei provocatori. E Vauro ha subito risposto su Dagospia invocando, per par condicio, la censura subita per una vecchia vignetta su Berlusconi. Perdendo sia il senso della misura sia quello del ridicolo. «Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre - ha detto - Questi mostri li abbiamo creati noi». La colpa, anche se a sparare sono gli «altri», è sempre nostra. Per il resto, quella che ci stanno disegnando davanti agli occhi, è una vignetta già vista tante volte. Dentro ci sono molte matite perfettamente appuntite nell'offendere il sentimento religioso cristiano, più spuntate nel farlo con i simboli musulmani. Un'unica mina, una doppia morale. E non fa ridere.

Quell'odio a ritmo di rap dove "balla" il deputato Pd. Molti dei jihadisti, tra cui uno di quelli di Parigi, cantavano le rime violente in voga nelle comunità islamiche, Italia inclusa. In un video compare l'onorevole Chauki, scrive Paolo Giordano su “Il Giornale”. Ormai non si può più. Ora che il video del killer parigino Chérif Kouachi in versione rapper ha fatto il giro del mondo (ma è stato girato nel 2005), è impossibile non riconoscere il fil rouge che collega tanti jihadisti a questa espressione musicale. Dopotutto anche il presunto carnefice dell'ostaggio decapitato James Foley è l'inglese Abdel-Majed Abdel Bary che, prima di sparire, aveva un microscopico seguito londinese come rapper. E pure qui in Italia le rime violente vanno di moda, con varie sfumature. Si va da Amir Issa che nel video Ius Music , (in cui canta «da Palermo a Torino scoppierà un casino»), ha ospitato un deputato Pd di origini marocchine (Khalid Chauki), ai rapper che incitano all'odio mortale come Anas El Abboubi, ora ventenne, arrestato a giugno 2013 per «addestramento finalizzato al terrorismo internazionale» però poi rilasciato dopo pochi giorni: adesso sarebbe ad Aleppo con il nome di Anas Al-Italy e, come si legge sul suo profilo Facebook, di professione «lavora presso la Jihad». Quand'era in Italia, lui di origini marocchine ma arrivato giovanissimo in provincia di Brescia, rappava: «Il martirio mi seduce, voglio morire a mano armata, tengo il bersaglio sulla Crociata». Hai letto bene. Dopo, dalla Siria ha annunciato, keffiah al collo e kalashnikov in mano, di aver abbracciato la sharia con i ribelli siriani. Certo i toni sono diversi, ma sempre aggressivi. Intollerabilmente. Ci sono rapper ultrafamosi come Busta Rhymes, Ice Cube, Nas, Everlast o Jay Z che hanno inserito nelle proprie rime espliciti e tolleranti riferimenti alla fede musulmana. E uno, non proprio famoso per coerenza come Snoop Dogg, si è convertito all'Islam per tre anni dal 2009 prima di passare al Rastafarianesimo. Rap islamico si può ascoltare pure in rete e scaricare in free download e, per quanto aggressivo e colorito, rimane lontano dall'integralismo. Come quello celebrato quattro anni fa a Lignano Sabbiadoro dai Giovani Musulmani d'Italia con il concorso di «anashid islamiyà», ossia canzoni islamiche in arabo. Un altro conto sono le rime che inneggiano alla lotta armata e mortale. Sono un segno di quanto pericolosamente, e nell'indifferenza pressoché totale di quasi tutta la politica e l'informazione, la Jihad abbia fatto propri gli strumenti di comunicazione tipici del mondo giovanile: il rap è il linguaggio musicale più usato dagli under 30 e i terroristi lo hanno capito. Dopo una prima e lunga fase di totale chiusura a forme musicali (ad esempio l'Afghanistan talebano era un paese orfano di ogni tipo di musica) hanno drammaticamente assorbito i linguaggi giovanili occidentali per piegarli alla propria propaganda assassina. Ad aprile il rapper olandese-libanese Hozny ha pubblicato un video che mostrava la macabra messinscena dell'esecuzione del deputato Geert Wilders. E proprio in quei giorni il tedesco Deso Dogg (vero nome Denis Mamadou Cuspert) è morto combattendo con i ribelli dell'Isis in Siria. Follie totali. Ora, anche in questo caso, il rischio emulazione si dilata. E senza dubbio il rap, stile di protesta nato negli anni '70 per cantare il bisogno dei neri americani di uscire dai «ghetti» metropolitani, offre la metrica adatta e soprattutto l'indice di penetrazione popolare più alto in tutto l'Occidente. Quindi non sarà difficile che in un futuro immediato saltino fuori altri esempi di integralismo rap. Mutatis mutandis , il punk o il metal sono stati passioni fugaci di terroristi in epoche non troppo lontane. Ma il segreto per non trasformare le eccezioni in una regola è non generalizzare. Oltre che un errore, l'equazione rap = terrorismo sarebbe un assist imperdonabile alla peggiore delle propagande.

Terrorismo, provate a mettervi nei panni di un musulmano. Khalid Chaouki, parlamentare del Pd, parla a cuore aperto dei fatti di Parigi e delle colpe dell'Islam, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. Khalid Chaouki è nato a Casablanca, in Marocco. Ha 32 anni, è arrivato in Italia da bambino, è cresciuto tra Parma e Reggio Emilia. È tra i fondatori dell’associazione “Giovani musulmani d’Italia”, della quale è diventato presidente, siede nella consulta per l’islam istituita al ministero dell’Interno, da ultimo è stato eletto alla Camera dei deputati nelle file del Partito Democratico.

Come vive un musulmano quello che sta succedendo a Parigi?

«Con grande tensione, paura e sconcerto. Con la consapevolezza che bisogna tradurre in azione concreta e positiva le sensazioni che affollano la nostra mente».

Proprio in questo momento leggiamo che i terroristi sono rimasti uccisi durante le irruzioni delle forze speciali, ma tra i morti ci sarebbero anche alcuni ostaggi.

«Altri morti innocenti. Spero almeno sia la fine di un incubo, spero che le prossime ore siano di silenzio e raccoglimento».

Torniamo a voi musulmani.

«I fatti di questi giorni impongono una riflessione a tutti noi musulmani, ci dobbiamo guardare dentro, aprire una riflessione e interrogare sul ruolo che vogliamo avere nella società del futuro. Una riflessione che deve essere trasparente, visibile, alla luce del sole».

Cosa c’è dentro il cuore di un musulmano?

«C’è grande dispiacere. C’è angoscia, per l’immagine e l’utilizzo che viene fatto della tua religione. C’è vergogna, nel vedere la tua fede che viene associata alla morte. C’è un dolore profondo, che non viene percepito dall’esterno».

Basta manifestarlo, urlare se serve.

«Infatti, io credo che noi musulmani proprio in queste ore dobbiamo fare un passo avanti, andare oltre e costruire le basi di quello che sarà il modello di convivenza nel futuro».

Trasformare questi eventi tragici in occasione positiva?

«Nella loro tragicità, i fatti di Parigi ci offrono l’opportunità per toglierci di dosso il peso che noi musulmani ci portiamo dietro dall’11 settembre. È arrivato il momento di urlare al mondo la nostra rabbia per il modo in cui viene sottomessa e manipolata la nostra religione».

La moschea in Italia viene considerata come una sorta di Rubicone, la linea che non bisogna attraversare, la bandierina che non bisogna issare sul nostro territorio. Alla luce di quello che sta succedendo in Francia e nel mondo, non pensa che sia una scelta controproducente? Non pensa che sarebbe più facile la prevenzione contro i cosiddetti cani sciolti se ci fossero dei luoghi di aggregazione e preghiera con regole chiare e accettate da tutti? E con possibilità di controllo maggiore da parte delle autorità?

«Sarebbe tutto molto più semplice. Purtroppo l’Italia ha sprecato troppi anni in balia della propaganda, senza ragionare da paese serio. Il diritto al culto va regolamentato, e la moschea può diventare una occasione per isolare chi si nasconde e fa proselitismo dentro gli scantinati».

I fatti a cui assistiamo in diretta televisiva dalla Francia, lei come li giudica, atti di terrorismo o guerra?

«Si tratta di guerra, una guerra asimmetrica che va combattuta con una forte controffensiva culturale da parte di tutti, con il mondo musulmano che deve diventare il nostro principale alleato».

Cosa rimprovera al mondo musulmano?

«Il tentativo di etichettare questi fatti come la deriva violenta di un piccolo gruppo criminale. Non è così. La questione è molto più ampia e ci investe nel profondo. Nel mondo musulmano c’è un problema di reinterpretazione dei testi sacri alla luce della modernità, va sancito in modo solenne il rapporto pacifico con l’Occidente. Ci sono nodi teologici irrisolti che poi portano a gesti criminali».

C’è il pericolo di gesti inconsulti nei confronti delle comunità musulmane?

«Sta già accadendo in Svezia e in Francia, sono state lanciate molotov contro moschee. Serve un senso di unità molto forte, serve lo sforzo di tutti, come sta avvenendo in Francia, con i musulmani che si stanno riversando sulle strade per manifestare sgomento, indignazione e condanna».

Lei è oggetto di insulti sui social network, come li vive, come li sopporta?

«Il mio impegno civile è sempre stato di frontiera, vengo criticato anche da molti islamici che mi accusano di essere troppo moderato».

Non ha paura?

«A volte fa male, a volte fa paura. Ma se accetti una sfera pubblica e ti impegni per un’Italia migliore, allora devi essere preparato a fare i conti con una società impaurita dai fomentatori di odio professionisti».

Cosa le fa più male delle immagini che ci arrivano da Parigi?

«Il senso di impotenza che sta vivendo un grande paese come la Francia. Il totale black-out di una città meravigliosa come Parigi, che adoro e che ho visitato con mia moglie. Le fotografie di una Parigi deserta ci sbattono in faccia il fallimento di tutti noi».

Charlie Hebdo siamo tutti noi. La strage nel giornale parigino è un attacco alla nostra stessa idea di civiltà. Una sfida portata dall’estremismo fondamentalista che l’occidente deve affrontare e vincere. Perché in gioco c’è il nostro modello di convivenza, scrive Gigi Riva su “L’Espresso. Hanno sparato e ucciso nella sede del giornale satirico francese “Charlie Hebdo” ma è come se lo avessero fatto nelle case di noi tutti. Perché quelle pallottole sono idealmente indirizzate contro uno dei valori su cui si regge la nostra idea di civiltà, progresso, democrazia. È un pilastro fondativo della modernità occidentale il considerare che la satira è, deve essere, libera e nessun potere, fosse anche un potere che fa ascendere la propria fanatica legittimità direttamente da un dio, si può arrogare il diritto di imbrigliarla. “Charlie hebdo” ha avuto il coraggio di ribadirlo, nella sua gloriosa e travagliata storia (irridente anche nei confronti dei regnanti di Francia), davanti alle minacce per i titoli, gli editoriali e le vignette che hanno avuto come bersaglio l’Islam e Maometto (l’ultima, pubblicata sul sito pochi minuti prima dell’assalto, la vedete qua sotto). La vignetta di “Charlie Hebdo” con il califfo che augura: “e soprattutto la salute”Ma l’estremismo fondamentalista non tollera lo sberleffo, mette al bando il sorriso. Vuole pervadere di cupezza censoria e regolare nei dettagli la vita di sudditi da ridurre all’obbedienza. Tutto il contrario di quanto l’Europa e i suoi cittadini hanno deciso per se stessi, almeno dai Lumi in poi, da quando la libertà di espressione è diventata un diritto inalienabile accanto agli altri che definiscono la dignità degli umani. Che l’attacco a queste conquiste, a questo modo di intendere la partecipazione alla vita pubblica, avvenga a Parigi, aggiunge una suggestione simbolica che rende ancor più potente l’atto e chiama a una reazione altrettanto decisa e coesa. La capitale francese è il luogo dove i valori alla base della nostra convivenza hanno trovato la culla. Anche quello dove la laicità si è declinata in quella dottrina dell’assimilazionismo per cui coloro che abitano nel Paese sono perciò “citoyen de la République”, tutti uguali davanti alla legge secolare, con l’opportunità di esercitare il culto che preferiscono a patto che non interferisca coi supremi diritti dello Stato. Un modello di integrazione che ha coinvolto mezzo milioni di ebrei, cinque milioni di musulmani e recentemente entrato in sofferenza anche, e soprattutto, a causa di una crisi economica che ha contrapposto immigrati vecchi e nuovi e francesi delle classi meno agiate. Mai tuttavia, nemmeno nelle rivolte delle banlieue datate 2006, era stato messo in discussione l’ordine dei valori. Anzi: i disperati rivoltosi chiedevano di essere “più francesi”, di avere le stesse chance degli altri “citoyen”. ma ora che il conflitto si è radicalizzato in Medioriente, ora che lo Stato Islamico offre una terra, un credo e un irresistibile richiamo alla violenza nichilista, ecco che alcune frange esportano la guerra in Europa in un furore iconoclasta che ha l’obiettivo di radere al suolo, e a casa nostra, ciò che rende l’occidente un originale e riuscito paradigma di emancipazione. Non siamo ancora a quella catarsi catastrofista che lo scrittore Michel Houellebecq tratteggia nel suo ultimo romanzo “Sottomissione”, ma il livello dello scontro col fanatismo islamista si è alzato con “Charlie Hebdo” e merita che si aprano finalmente gli occhi. Ci si renda conto della realtà emergenziale e si chiami alla comune difesa di un modo di vivere a cui non vogliamo rinunciare, gli stessi fratelli islamici europei non infatuati del Jihad. Per fortuna, la stragrande maggioranza.

1. MOSTRARE O CENSURARE I DISEGNI DI CHARLIE HEBDO: ORA I MEDIA SI DIVIDONO. Enrico Franceschini per “la Repubblica”. Siamo tutti Charlie Hebdo: lo dicono i cartelli della gente nelle strade di tutta Europa, lo affermano i titoli dei giornali di tutto l’Occidente. Ma non tutti i giornali occidentali — pur condannando come barbaro l’attacco di Parigi e difendendo il diritto del settimanale francese di fare satira come vuole su quello che vuole — hanno ripubblicato le vignette messe sotto accusa dagli estremisti islamici. Il mondo dei media si è per il momento diviso fra chi non pubblica nulla o soltanto vignette che non ritraggono Maometto e chi invece ha pubblicato proprio il materiale che ha fatto infuriare gli islamisti, come la famosa copertina di Charlie Hebdo in cui il Profeta ammonisce: «Vi farò dare 100 frustate se non morite dal ridere!» Adesso un appello lanciato da Timothy Garton Ash, docente di relazioni internazionali a Oxford, columnist del Guardian e di Repubblica, autore di saggi di successo, chiede a tutti i giornali d’Europa di pubblicare le vignette più “forti” del settimanale francese come gesto collettivo in difesa della libertà di stampa. Ma le opinioni in materia appaiono contrastanti. In Gran Bretagna nessun quotidiano ha pubblicato le vignette di Charlie Hebdo. «Siamo dei codardi», scrive amaramente un columnist del Times. Viceversa Tony Barber, commentatore del Financial Times, definisce «editorialmente stupida» la scelta del settimanale parigino di provocare consapevolmente l’ira dei musulmani e lo giudica «non il miglior campione di libertà di espressione»: uscito prima sul sito, il suo articolo è stato ritoccato ieri sera, cancellando questi due severi giudizi, che hanno scatenato sdegno sui social network, ma li ha ripristinati nella versione cartacea pubblicata ieri mattina. Non finisce qui. In America il Washington Post afferma: «Non pubblichiamo mai immagini che possono offendere qualunque religione» e il New York Times segue la stessa linea. Ma il quotidiano del Watergate deve incassare le critiche di una delle sue firme di punta, Carl Bernstein, che con Bob Woodword fece esplodere quello scandalo. In Danimarca alcuni giornali hanno pubblicato le vignette e altri no. L’ Huffington Post, il Daily Beast, Slate e altre testate online le hanno pubblicate; la Bbc e la Cnn no. D’altra parte, come denuncia il blog statunitense Gawker, considerato in patria una sorta di “tempio” della controinformazione, il Daily Telegraph britannico e il New York Daily News hanno pensato bene di “pixelare”, quindi rendendole irriconoscibili, le copertine più controverse contro il Profeta e l’Islam. Stephen Pollard, direttore del Jewish Chronicle, un giornale britannico, pone il dilemma in questi termini: «Il mio istinto giornalistico mi dice di pubblicare tutto, ma che diritto ho di rischiare la vita dei miei redattori?».

2. MA PER L’AMERICA I DISEGNI SUL PROFETA MANCANO DI RISPETTO. Paolo Mastrolilli per “La Stampa”. L’attacco terroristico di Parigi sta spaccando i media americani. Non nella condanna dell’attentato, ovviamente unanime, ma nella opportunità di ripubblicare le vignette del periodico Charlie Hebdo, che hanno provocato la furia degli estremisti. I grandi giornali come New York Times, Washington Post, Wall Street Journal e Usa Today hanno scelto di non farlo. La linea usata dai loro direttori è abbastanza simile: non pubblichiamo immagini che sono state pensate con lo scopo dichiarato di offendere la religione e mancarle di rispetto. Descriverle basta, per compiere il servizio di informazione dovuto al lettore. Questa posizione per certi versi si riflette nella prudenza che la stessa Casa Bianca aveva usato nel settembre del 2012, quando la diffusione di un video giudicato offensivo verso Maometto aveva generato proteste in molti Paesi del Medio Oriente. Era seguito poi l’assalto al consolato americano di Bengasi, che però in seguito si è scoperto essere un’operazione premeditata di un gruppo terroristico. Allora il portavoce del presidente Obama, Jay Carney, aveva commentato proprio alcune vignette pubblicate da Charlie Hebdo, dicendo che non metteva in discussione il diritto di stamparle, ma il giudizio della direzione che aveva deciso di farlo. In altre parole, la libertà di espressione andava sempre difesa, ma forse si potevano evitare le provocazioni. Più dura ancora è stata la reazione ieri del gruppo cattolico conservatore Catholic League. Il suo direttore, Bill Donohue, ha detto che «i musulmani hanno il diritto di essere arrabbiati». Naturalmente Donohue non giustifica l’attentato, però aggiunge che «se Stephane Charbonnier, direttore di Charlie Hebdo, fosse stato meno narcisista, oggi sarebbe ancora vivo. Maometto per me non è sacro, ma non mi è mai passato per la testa di insultare deliberatamente i musulmani offendendolo». Questa linea non è stata condivisa da tutti, nelle redazioni dei giornali americani. La pagina degli editoriali del Washington Post, che nella tradizione dei media Usa ha una gestione separata e autonoma dalla direzione, ha pubblicato una vignetta di Charlie Hebdo, e lo stesso ha fatto l’edizione online del Wall Street Journal. Usa Today invece ha optato per mettere le altre vignette che hanno condannato l’attacco di Parigi, mentre diversi giornali hanno stampato foto in cui si vedono i disegni contestati del periodico francese. L’editorialista del New York Times Ross Douthat ha commentato così: «Se qualcuno vuole ammazzarti per una cosa che vuoi dire, significa che quella cosa va detta». Il dibattito dunque è aperto, fra l’opportunità di prendere decisioni editoriali che non siano apertamente mirate a creare guai, e il dovere di evitare sempre la censura e difendere la libertà.

3. PLANTU: “CONTINUEREMO A PRENDERE IN GIRO. CON LE MATITE DENUNCIAMO LE VIOLENZE”. Cesare Martinetti per “la Stampa”. E adesso? «Il faut continuer se moquer», dice Plantu, non dobbiamo smettere di prendere e prendersi in giro con i disegni. Dunque la satira vive, a Parigi, a cominciare dal grande bureau di Jean Plantu, al settimo piano di Le Monde. Il suo studio è una foresta popolata dalle sagome dei suoi personaggi, la sua scrivania un accumulo di bruillon, schizzi, prove, colori. Plantu ci mostra la vignetta che ha appena concluso per il giornale di oggi: una macchia rossa in strada, il tricolore a mezz’asta sulla tour Eiffel, la bandiera di Charlie Hebdo sull’ingresso dell’Eliseo, una Marianna in lacrime, due barbuti che si allontanano con il kalashnikov sulle spalle e il topolino (l’alter ego del disegnatore) che li guarda reggendo un cartello: «gros connards», diciamo grandi bastardi.

Plantu dal 1985 disegna la vignetta sulla prima pagina di Le Monde e dieci anni fa ha creato «Cartoonist for peace». Che fate?

«Cerchiamo ogni giorno di dialogare con disegnatori cristiani, ebrei, musulmani, agnostici, atei e arriviamo talvolta a fare dei ponti con le nostre piccole matite là dove altri con le loro asce scavano fossati».

Nel vostro programma c’è l’impegno ad essere rispettosi dei credenti. Ci riuscite sempre?

«Ci sono mille modi di raccontare le cose, ho passato la notte qui al giornale a ricevere disegni dal medioriente, dal maghreb di tutte le religioni. C’è l’immagine seria e rispettosa e ci può essere quella un po’ folle. E noi vogliamo tentare di essere più forti degli intolleranti, essere impertinenti senza offendere i credenti. Bisogna continuare la battaglia avendo rispetto per il dolore delle persone che vivono in Iraq o in Afghanistan e smettere di dire che la guerra è lontana. No è qui, a casa nostra».

Ma se c’è di mezzo la religione tutto si complica. Come si superano queste divisioni?

«A noi non interessa sapere se Gesù Cristo ha camminato sulle acque o cosa ha fatto Maometto. Quello che ci interessa è: c’è una donna lapidata? Non è un problema di religione ma di diritti umani, e prendiamo matite e pennarelli per denunciare le violenze. E capita che ci riusciamo perché l’arte e la creatività sono sempre più forti dell’intolleranza».

Lei ora si sente un bersaglio?

«Non lo considero un problema. Io lavoro molto con le scuole. Un disegno è qualcosa che ognuno vede, se ne appropria, ci si può esprimere in mille modi, lascio la mia matita a qualcun altro. Oggi siamo con tutto il cuore con Charlie Hebdo e tutti possono firmare questo disegno, la mano è anonima».

A Charlie Hebdo qualcuno aveva passato il segno del rispetto?

«Io penso che gli artisti abbiano tutti i diritti, di disegnare e fare il ritratto di chiunque. Ciò detto siamo nel 2015, e bisogna fare attenzione perché laggiù all’angolo della strada c’è un mascalzone che aspetta soltanto che gli facciamo un regalo per liberare la sue folle armate di kalashnikov e granate. Abbiamo creato l’associazione dieci anni fa per battere l’imbecillità dei farabutti».

I quattro di Charlie erano nell’associazione?

«Solo Tignous».

4. LA LIBERTÀ DEGLI ALTRI. Francesco Merlo per “la Repubblica”. Non ci piacciono le vignette anti islamiche di Charlie Hebdo , anche se abbiamo sempre pensato che fosse suo pieno diritto pubblicarle. Erano coerenti infatti con la natura canzonatoria e provocatoria di quel giornale, con la sua idea di satira vasta e disinteressata, con quell’accanimento derisorio portato alle estreme conseguenze dinanzi al quale, scriveva Italo Calvino «mi faccio piccolo piccolo». «Perché — aggiungeva — supera la soglia del particolare per mettere in questione l’intero genere umano, confinando con una concezione tragica del mondo». E tuttavia non ci piacciono quelle vignette neppure dopo l’enormità dell’atto terroristico e l’immenso dolore per la morte di 12 persone libere e innocenti. Appartengono infatti alla grammatica della blasfemia e non a quella della trasgressione, anche se, sbeffeggiando il profeta Maometto, più che bestemmia in senso stretto quelle caricature erano empietà aggressiva in una città, Parigi, dove tantissime jeunes filles musulmane passeggiano per gli Champs-Élysées con i capelli al vento. A Parigi sono musulmane le studentesse universitarie, le impiegate, le giornaliste, e sono arabi musulmani i grandi chirurghi e i piccoli venditori di frutta, le star del pop e i professori universitari, gli edicolanti e i camerieri dei ristoranti. Tutti laici come i calciatori eredi di Zidane e come il poliziotto finito con un colpo di Kalashnikov dal fanatico terrorista, con un accanimento selvaggio che offende tutti i codici militari e in nome di un Dio killer che svilisce qualsiasi Dio. Di sicuro al Dio macellaio la stragrande maggioranza dei musulmani francesi non crede e non crederà mai. Dunque sono un pretesto le vignette blasfeme. Se Charlie Hebdo non fosse mai esistito i terroristi avrebbero sparato in un bar, in una stazione del metrò o in un aeroporto. Le vignette sono l’alibi dell’attacco e del ricatto all’Occidente, più insidioso per noi, spaventati da una violenza irriducibile dalla quale è difficile difendersi, che per le frustrazioni nazionaliste, etniche e religiose di quella minoranza di profughi ribelli e di barbuti arrabbiati e confusi dalla quale provengono i terroristi in cerca di una scusa per uccidere. Dal punto di vista militare questo nuovo terrorismo diffuso prova a rilanciare, a partire dalla città più civile tollerante e laica d’Europa, il famoso scontro di civiltà. Ma la strage nella sede di un giornale rischia di armare di più i francesi tentati da Marine Le Pen che i francesi musulmani che, per la verità, non sono tentati né dallo Stato Islamico né da Al Qaeda. La bestemmia diventa così uno di quei dispositivi accidentali della storia, come il naso di Cleopatra per esempio. E basta guardare la felicità dei leghisti italiani e le reazioni scomposte dei fanatici delle Leghe Sante. I 12 morti di Parigi sono come un richiamo della foresta per i nostri cristianisti con il Crocifisso tra i denti che papa Francesco aveva messo a cuccia, un ritorno alla natura per l’estrema destra razzista pronta alla difesa di una Francia e di un’Europa bianche e cristiane. La paura sui cui soffiano è quella dall’islamizzazione immaginata nel romanzo Sottomissione da Houellebecq, preso in giro proprio dalla copertina di Charlie Hebdo: «Le predizioni del mago Houellebecq: “Nel 2015 perdo i denti... ” (i suoi problemi odontoiatrici sono noti) e “nel 2022, faccio il Ramadan!”». La verità è che persino la rabbia delle squadracce di banlieue a Parigi, anche se araba e violenta, non è governata dagli integralisti islamici. E in fondo questi terroristi così barbari sono quelli che non ce l’hanno fatta, gli scarti feroci di un’integrazione che è invece riuscita, non solo in Francia. E sono due volte disadattati, sia in Francia sia nelle milizie islamiche dove devono sempre conquistarsi i quarti di nobiltà terrorista sgozzando e massacrando più degli altri. Ieri a caldo una vignetta di Charlie Hebdo mostrava un energumeno tutto bardato di nero incappucciato e sudato che entrava in Paradiso mitragliando e gridando: «dove sono le mie vergini?». Riceveva questa risposta al tempo stesso canzonatoria e malinconica: «Sono nel paradiso dei vignettisti ». Disadattato anche là. È già stato scritto che Charlie Hebdo aveva deriso, e certamente avrebbe continuato a farlo, anche i simboli delle altre religioni. E ricordo bene le natiche del Papa, il matrimonio omosessuale tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e la masculinità di Shiva, senza risparmiare neppure Buddha, un dio “parzialmente scremato”. Si rideva forte e facile con Charlie Hebdo, perché la scurrilità di Maometto, raffigurato prono con le stelline sulle terga, quando ti arriva sotto gli occhi, è più veloce del pensiero. E certo è ancora libertà d’espressione la violazione dei codici del rispetto delle religioni. Ma non avere stampato le bestemmie è stato il nostro codice di libertà di espressione, coniugata, ancora di più adesso che siamo tutti sotto choc, con il controllo degli istinti. La laicità e la secolarizzazione comportano infatti anche un governo dell’invocazione e dell’imprecazione: della preghiera, che non è un selvaggio rito collettivo, e della bestemmia, soprattutto del Dio altrui. Ma viviamo in una parte del mondo — ecco la differenza — dove la libertà è la cosa più importante. Non conta che gli altri la pensino come me: ma che siano liberi di pensare e di esprimere le loro idee con il solo limite del rispetto delle leggi. Ecco perché difendiamo la libertà di Charlie di esprimersi secondo la sua natura e le sue modalità, le sue libere scelte, anche quando non sono le nostre. Facciamo sapere a tutti gli estremisti religiosi del mondo che mai rinunzieremo alla critica e alla satira, anche delle religioni, e non accetteremo un ritorno all’inquisizione e alla punizione fisica delle bestemmie, al medioevo islamico. Anche se non diventeremo mai, come vorrebbero gli estremisti islamofobi, tutti sbeffeggiatori di Maometto.

Terrorismo islamico a Parigi: massacro al giornale Charlie Hebdo. Due terroristi fanno irruzione nella redazione di Charlie Hebdo armati di kalashnikov, poi fuggono a Reims. Tra i dodici morti c'è il direttore Charb. Un poliziotto giustiziato per strada, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. Armati di kalashnikov due terroristi hanno assaltato la redazione di Charlie Hebdo. Cinque minuti di sangue e quello che è l'attentato più cruento commesso in Francia dal 1961, ai tempi della guerra di Algeria, fa ripiombare Parigi e l'intera Europa nell'incubo del fondamentalismo islamico. Al grido di "Vendicheremo il Profeta" due uomini incappucciati e vestiti di nero hanno fatto irruzione nella reception del settimanale satirico e hanno aperto il fuoco. A terra i cadaveri crivellati di colpi di dodici persone. Tra questi il direttore Stephane Charbonnier, che firma le vignette Charb, e altri sette giornalisti. Una raffica di colpi, almeno una trentina, con i mortali AK47. Dodici morti a terra e i giornalisti in fuga sui tetti. Un assalto che porta la firma della jihad islamica. La colpa di Charb e dei disegnatori di Charlie Hebdo? Aver pubblicato vignette satiriche su Maometto. Già nel 2011 la redazione fu distrutta da una molotov. L’attentato, che non provocò vittime, avvenne nel giorno dell'uscita del numero speciale dedicato alla vittoria elettorale degli islamisti in Tunisia. Il titolo "Maometto direttore responsabile di Charia Hebdo" era un gioco di parole sulla sharia. Anche nell'ultimo numero non è mancata la provocazione: in copertina campeggia una foto dello scrittore Michel Houellebecq, al centro di polemiche per il romanzo Sottomissione che racconta l’arrivo al potere in Francia di un presidente islamico. A fare irruzione è stato un commando armato formato da Said e Cherif Kouachi, due fratelli franco-algerini di 32 e 34 anni legati alla rete terrorista yemenita e da poco tornati dalla Siria. Oltre a Charb i due hanno ammazzato otto giornalisti (tra questi Jean Cabut detto Cabu, Tignous, Georges Wolinski, Bernard Maris e Philippe Honoré), il poliziotto Franck D., un ospite della redazione (Michel Renaud) e il portinaio. Tra gli undici feriti c'è il giornalista Philippe Lançon. Dopo il blitz sono scappati a bordo di una Seat guidata dal 18enne Hamyd Mourad. Durante la fuga hanno investito un passante e hanno ingaggiato un secondo scontro a fuoco con le forze di polizia. Immagini di violenza inaudita che sono state riprese dai tetti: l'agente Ahmed Merabet è stato giustiziato con un colpo alla testa mentre si trovava, inerme, ferito a terra. Solo dopo diverse ore le teste di cuoio dei reparti Raid sono riuscite a localizzarli a Reims. Il presidente francese Francois Hollande ha parlato di "attentato terroristico di eccezionale barbarie, un attentato alla nostra libertà". Un attentato che arriva a stretto giro da altri tre inquietanti attacchi al grido "Allah hu Akbar". Il 22 dicembre a Nantes, nella Francia nord occidentale, un camion è stato lanciato sul tradizionale mercatino natalizio ferendo undici persone. Nemmeno ventiquattr'ore prima a Digione, nel nord est del Paese, un 40enne alla guida di una Renault Clio aveva travolto la folla mandando all'ospedale 13 persone. Sempre al grido di "Allah hu Akbar". Vicende troppo simili e troppo vicine per non metterle in relazione tra loro. A queste va poi aggiunta una terza, quella di Jouè-lès-Tours dove un convertito all'Islam è entrato nel commissariato cittadino e ha aggredito tre poliziotti. Una scia di sangue nel nome di Allah.

Dal direttore Charb al mitico Wolinski, la strage della satira nella redazione di Charlie Hebdo. Tra le dodici vittime dell'assalto anche cinque celebri vignettisti: il direttore, il vecchio e storico creatore di "Paulette", Cabu, Tignous e Honoré, scrive Francesco Fasiolo su “La Repubblica. Un giornale satirico simbolo della libertà di stampa e di espressione. Questo è diventato Charlie Hebdo nel corso degli anni. E per questo è tragicamente divenuto anche l'obiettivo simbolo del terrorismo. Dieci collaboratori uccisi in redazione, tra loro alcuni dei grandi vignettisti famosi ben oltre i confini francesi. Una storia cominciata nel 1960, quando nacque Hara-Kiri, definito dai suoi fondatori (tra cui Cabu e Georges Wolinski, tra le vittime dell'attentato) "un giornale stupido e cattivo", da subito protagonista di innumerevoli battaglie e censurato un paio di volte dalla magistratura francese. E' nel 1970 che lo stesso gruppo, dopo l'ennesimo scandalo (una copertina che ironizzava sulla morte di Charles De Gaulle e che costò al giornale il blocco delle pubblicazioni) diede vita al "Charlie Hebdo", riferimento al celebre Charlie Brown dei Peanuts. Da allora sono stati attacchi, sarcasmo e ironie contro la destra, ma anche la gauche, su tutti i fronti e tutti i temi.

Vignette su Maometto. È però nel 2006 che l'Hebdo diventa noto al pubblico internazionale con la scelta di ripubblicare le dodici controverse vignette su Maometto del giornale danese Jyllands-Posten. Immediate arrivarono le proteste di esponenti del mondo islamico, il giornale fu incriminato per razzismo e l'allora direttore Philippe Val fu assolto nel 2008 da un tribunale francese. Nel novembre 2011 esce "Charia Hebdo", il numero speciale dedicato alla vittoria degli islamisti in Tunisia. In copertina una immagine di Maometto che promette "Cento frustate se non morite dal ridere". Prima che l'edizione arrivasse nelle edicole, la sede della rivista viene distrutta da un incendio provocato da un lancio di molotov. Il numero vende 400.000 copie, il direttore Charb viene minacciato di morte e messo sotto protezione.

Le vittime. Charb era il nome d'arte di Stéphane Charbonnier, 47 anni, alla guida del settimanale dal maggio 2009. Insieme a lui, nell'attentato sono morti anche altri quattro vignettisti: Cabu, Tignous, Philippe Honoré e Georges Wolinski. E' proprio quest'ultimo il nome più noto anche fuori dalla Francia. Controcorrente e provocatorio Wolinski, nato a Tunisi nel 1934, lo è sempre stato. Gli italiani lo hanno conosciuto sin dagli anni 70, quando leggevano su Linus le sue storie dissacranti. Disegnatore e sceneggiatore, con Georges Pichard crea il personaggio di Paulette, inizialmente su Charlie Mensuel e poi protagonista di pubblicazioni autonome. La protagonista è una giovane ricchissima, che ha almeno due particolarità: è di sinistra e appare spesso, in pratica sempre, nuda o seminuda. Le sue storie sono sempre in bilico tra l'erotico e il politico, perché la ragazza, in opposizione con la sua vantaggiosa situazione economica e sociale, è pienamente calata nel clima degli anni '70, tra lotte studentesche, manifestazioni contro la guerra in Vietnam, suggestioni hippy. Se in passato Wolinski è stato al centro di polemiche, accusato di immoralità o pornografia per le nudità e le tematiche trattate (tra i suoi libri "Il porcone maschilista" e "Le donne pensano solo a quello") , a 80 anni era uno dei nomi più importanti del fumetto mondiale. Una fama che gli è stata riconosciuta nel 2005, con la vittoria del Grand Prix di Angouleme, in pratica l'equivalente nel mondo dei comics dell'Oscar alla carriera, e con una grande retrospettiva del 2012 alla Bibliotheque Nationale de France, dove sono custoditi tutti i suoi archivi.  Cabu, vero nome Jean Cabut, 76 anni, era uno dei pilastri di Charlie Hebdo, sin dalla fondazione di Hara-Kiri. Il suo nome era rimbalzato sui media di tutto il mondo quando nel febbraio 2006, in piena polemica per le vignette danesi su Maometto, disegnò in copertina il Profeta che insultava i fondamentalisti. Tra i suoi lavori, molto famoso in Francia è "Mon Beauf", serie su un francese medio, razzista e maschilista. Bernard Verlhac era invece il vero nome di Tignous, 57 anni, che lavorava anche per Fluide glacial, storicamente uno dei più importanti magazine francesi di fumetti. Al suo attivo otto libri. Il più recente, intitolato "5 ans sous Sarkozy" (Cinque anni sotto Sarkozy) è stato pubblicato nel 2011. Fa venire i brividi oggi l'ultima vignetta di Charb, pubblicata sull'ultimo numero di Charlie Hebdo, mostrava un terrorista islamico sotto la scritta: "Ancora nessun attentato in Francia". "Aspettate" diceva l'uomo armato "Abbiamo ancora tutto gennaio per farvi i nostri auguri".

Il dissacrante Charlie Hebdo, nato alla sinistra della sinistra, scrive Anna Maria Merlo su “Il Manifesto”. Il settimanale. Da sempre indipendenti, dagli industriali e dalla pubblicità. Vignette e reportage corrosivi. Non solo contro l’islam: il primo bersaglio sono state la chiesa cattolica e l’estrema destra. Cabu e Wolinski, che sono stati assassinati ieri assieme al più giovane Charb, nell’attentato che ha fatto 12 vittime nella redazione del settimanale Charlie Hebdo, sono stati protagonisti fin dagli anni ’60 dell’avventura, iniziata con Hara-Kiri, della stampa satirica libertaria francese della seconda metà del XX secolo. All’inizio, c’erano personalità come Topor, Reiser, lo scrittore François Cavanna, che hanno l’idea di pubblicare la versione francese di Linus italiano. Nel ’70, dopo varie censure di cui è vittima Hara-Kiri – l’ultima, a novembre, dopo la morte di De Gaulle, per un titolo dissacrante – il gruppo fonda Charlie Hebdo (dal nome di un personaggio di Schultz e con un riferimento ironico a Charles De Gaulle). Della prima versione di Charlie Hebdo usciranno, fino all’81, 580 numeri. Un altro numero uscirà nell’82. Nel ’92, la testata rinasce. Fa effetto oggi, di fronte agli avvenimenti, ricordare che la società costi­uita allora per il rilancio si chiamava Les Etitions Kalachnikof. Nel ’92 partecipa già Charb, che dal 2009 era diret­ore della pubblicazione. Charlie Hebdo ha radici nella sini­tra della sinistra, ma non ha mai avuto una linea editoriale precisa. La sua storia è fatta di battaglie, di scontri, di abbandoni, di ostracismi, di ritorni. E di molte polemiche, anche interne alla redazione: nel 2002, un articolo a difesa del libro La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci, viene subito criticato. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 ci sono prese di posizione conflittuali contro una parte dell’estrema sinistra, accusata di non aver condannato gli islamisti per antiamericanismo. Philippe Val, che all’inizio degli anni 2000 diventa direttore della pubblicazione, accusa Tariq Ramadan di essere un propagandista antisemita. Val nel 2005 difende il «sì» al referendum sul Trattato costituzionale europeo, altri difendono il «no» – che sarà vitto­rioso – sulle pagine del settimanale. Charlie Hebdo non si limita alla satira, ma pubblica anche reportage sulla società e sulle grandi questioni dell’attualità mondiale (in particolare, alla fine degli anni ’70, importanti inchieste sull’estrema destra). Oncle Bernard (l’economista Bernard Maris, assassinato anch’egli ieri) ha firmato cronache economiche sempre di grande interesse. La caratteristica di Charlie Hebdo, con le sue vignette corrosive che molto spesso hanno disturbato, è sempre stata l’indipendenza, dalle ideologie come dal denaro. «Non vogliamo ricchi industriali come azionisti – aveva detto Charb nel 2010 – e non vogliamo neppure dipendere dalla pubblicità. Non prendiamo quindi gli aiuti di Stato che vanno ai giornali cosiddetti “di deboli introiti pubblicitari”, visto che non abbiamo pubblicità. L’indipendenza, l’indipendenza totale, ha un prezzo». Charlie Hebdo ha sempre lottato contro tutti i fanatismi. Il primo bersaglio è stata la chiesa cattolica, in quanto religione maggioritaria in Francia. Le vignette sono state sempre corrosive, a volte anche con una certa pesantezza. Il settimanale molte volte è stato denunciato, dai politici, dai cattolici, di recente dai musulmani. Charb ha sempre precisato: la critica è sull’«alienazione delle fede», qualunque essa sia. Nel 2006, Charlie Hebdo pubblica le caricature di Maometto del giornale danese Jyllands Posten, arricchite da altre vignette firmate dai disegnatori del settimanale. Il Consiglio francese del culto musulmano chiede la censura del numero e sporge denuncia. L’allora presidente, Jacques Chirac, condanna le «provocazioni manifeste». Ne seguirà un processo nel 2007, dove ha testimoniato, a favore della libertà di stampa, anche François Hollande, non ancora presidente. La storia delle caricature di Maometto, che sembra all’origine del massacro di ieri, era già stata la causa di un incendio criminale di cui era stata vittima la sede di Charlie Hebdo nel novembre 2011. La redazione, allora, era stata ospitata per due mesi da Libération. Altre caricature di Maometto susciteranno polemiche e denunce nel 2012. La copertina in edicola di Charlie Hebdo questa settimana prende in giro lo scrittore Michel Houellebecq, di cui ieri è uscito l’ultimo libro, Soumission, che racconta dell’elezione di un islamista alla presidenza della Repubblica francese nel 2022.

L'attentato che spazza via le certezze della sinistra. L'attentato terroristico di Parigi è riuscito là dove le innumerevoli stragi dei cristiani hanno fallito: ha risvegliato la coscienza della sinistra italiana ed europea contro l'Islam. Tutto, compreso quello moderato, scrive Roberto Bettinelli su “L’Informatore”. Il massacro nella redazione del giornale satirico Charles Hebdo è riuscito là dove le innumerevoli stragi dei cristiani in tutto il mondo hanno fallito: ha risvegliato l’ottusa coscienza della sinistra italiana ed europea contro l'Islam. Michele Serra su Repubblica ha evocato «la terza guerra mondiale» sentenziando che «esiste un fanatismo islamista terrificante contro il quale l’Islam per primo è chiamato a mobilitarsi». Fino ad ora nessuno mai nel campo della sinistra, e men che meno un esponente illustre della sua intellighenzia come l’ex direttore di Cuore, si era spinto fino a pronunciare una condanna che per la prima volta varca il confine fra l’Islam moderato e l’Islam dei terroristi. Serra l’ha fatto, e nel farlo, ha sicuramente interpretato lo stato d’animo di gran parte del popolo della sinistra che è stato scosso in profondità e con una forza mai provata in precedenza dalla ferocia di un fondamentalismo che ha preso di mira un valore intoccabile come la libertà di stampa e di satira. Una reazione inedita che rivela come per la cultura politica che anima Repubblica esista una gerarchia delle libertà. E fra queste la libertà di stampa e di satira, uno dei generi prediletti dalla sinistra, siano da collocare su un gradino più alto della libertà di religione. La prova che non ci sbagliamo è che in questa occasione Serra e il giornale più letto e autorevole della sinistra italiana hanno preso posizione contro tutto l'Islam, anche quello moderato, rompendo con la lettura ideologica che li separa nettamente e che non è disposta a tollerare nessuna sovrapposizione. E sono stati costretti a farlo da una macabra beffa che cade tragicamente a poche settimane dalla risoluzione del parlamento europeo che ha riconosciuto, per iniziativa del Pse, il diritto alla Palestina di costituire uno stato autonomo. Un'azione diplomatica che sembrava assicurare la pace ma che ha contribuito a innescare la risposta dei terroristi che hanno attaccato il giornale diretto da Stephan Charbonnier, colpevole di aver ripetutamente pubblicato vignette e fumetti contro Maometto e Al Baghdadi, il leader dell’Isis. Lo scenario non poteva essere più chiaro. Da un lato l'Europa che, sulla spinta di un’adesione incondizionata e irresponsabile al dogma del multiculturalismo, riconosce il diritto palestinese di formare un proprio stato nonostante la massiccia presenza di formazioni legate ad Al Quaeda nella striscia di Gaza e in Cisgiordania; dall’altro il terrorismo islamico che colpisce a morte una delle capitali più importanti dell’Unione Europea, uccide 12 persone tra giornalisti e poliziotti, getta nell’incubo perenne degli attentati l’intero occidente. Adesso che i ‘lupi solitari’ hanno travolto con la loro furia omicida un simbolo della libertà di stampa e di satira come Charles Hebdo, la sinistra insorge e attacca l’Islam, tutto, che dovrebbe ribellarsi e comportarsi «come fece la sinistra con le Brigate Rosse». Così suggerisce Serra stabilendo un parallelo fra quello che avrebbe fatto il Pci negli anni di piombo e quello che dovrebbero fare oggi i mussulmani che non si riconoscono nella brutalità di Al Quaeda e dell’Isis. Il consiglio di Serra è apprezzabile, ma ha l’odore fastidioso dell’ipocrisia. A sconfiggere le Brigate Rosse non fu il Pci ma furono i carabinieri del generale Alberto Dalla Chiesa. L’Italia divenne il teatro di uno scontro spietato. Vinse lo Stato. E per un solo motivo: fra i due contendenti fu il più duro e implacabile. Lo stesso deve valere per i terroristi che ammazzano e muoiono nel nome di Allah. Ci saranno altri attentati e altri morti. L’alleanza dell’Islam moderato può essere utile ai fini della vittoria finale. Ma non può bastare. L’Europa e l’occidente, se non vogliono soccombere, non hanno altra scelta che porre fine alle illusioni di un multicuralismo che è l'esatto contrario del rispetto delle identità dei popoli. Ma soprattutto devono accettare di avere di fronte un nemico che vuole la loro fine con tutti i mezzi disponibili. E fare altrettanto. 

Charlie Hebdo, quella satira “cattiva” che disturbava i perbenisti. Il giornale francese è stato bersaglio di polemica da parte degli esponenti musulmani per le sue vignette su Maometto. Venne più volte chiuso e poi riaperto, scrive Cesare Martinetti su “La Stampa”. Un simbolo del giornalismo francese, un giornale nato e cresciuto negli anni 70, che si autodefiniva con ironia “bete e méchant”, bestiale e cattivo, iconoclasta, un giornale che disturbava l’opinione pubblica perbenista, capace anche di ironizzare su Charles De Gaulle il giorno della sua morte e che per questo chiuso per un po’. Nato dalle ceneri di Hara-Kiri, lanciato da Georges Bernier e François Cavanna, Charlie Hebdo è un giornale a fumetti satirico che ha fatto della provocazione la sua cifra costituente. “Journal bete et méchant”, secondo l’autodefinizione degli autori. Vi hanno lavorato negli anni caricaturisti come Francis Blanche, Topor, Fred, Reiser, Wolinski, Gébé, Cabu. Più volte chiuso e poi riaperto in seguito a denunce e a crisi editoriali. Il nome Charlie viene scelto nel 1969 quando il giornale appare sostanzialmente come versione francese dell’italiano Linus e come quest’ultimo prendi il nome da un personaggio dei Peanuts (Charlie Brown). Nel 1992 assume l’attuale identità. Il giornale è sostanzialmente espressione di una sinistra culturale. Tuttavia vi si trovano le opinioni e le posizioni più diverse e anche contrapposte. Nel 2002 aveva preso posizione a favore di Oriana Fallaci quando venne pubblicata in Francia “La rabbia e l’orgoglio”, il suo pamphlet contro i cedimenti occidentali all’islamismo. Nel 2006 CB pubblicò le famose vignette di satira su Maometto e i costumi musulmani che erano uscite sul settimanale danese Jyllands-Posten provocando manifestazioni violente di protesta in tutto il mondo islamico. Disegnatori e giornalisti danesi vennero minacciati ripetutamente. Charlie Hebdo scelse di pubblicare quelle vignette aggiungendone altre francesi per solidarietà e per marcare una linea di libertà di espressione contro tutte le intolleranze religiose. La pubblicazione provocò proteste nella comunità musulmana francese, il Consiglio del culto musulmano chiese che il giornale venisse sequestrato, lo stesso presidente della Repubblica Jacques Chirac censurò la scelta di Charlie Hebdo. Da allora il giornale – che pure tratta con articoli e vignette tutti i temi di società - è stato bersaglio di polemica da parte degli esponenti musulmani. Da allora un presidio di polizia era stato istituito davanti alla sede del giornale.

Charlie Hebdo, la storia della rivista già colpita per le vignette su Maometto. Il settimanale ha un orientamento libertario, di sinistra e fortemente anti-religioso. Pubblicato la prima volta nel 1970, scatena subito polemiche all'indomani dei funerali del generale Charles de Gaulle. Nel 2011 la sede viene incendiata, scrive F. Q. su “Il Fatto Quotidiano”. Satirico, irriverente e anticonformista. E’ questo lo spirito di Charlie Hebdo, il settimanale francese che questa mattina è stato preso di mira da un commando di terroristi armati che hanno compiuto una strage nella sede parigina. Il giornale ha un orientamento libertario, di sinistra e fortemente anti-religioso. E si pone l’obiettivo di difendere le libertà individuali. La rivista è soprattutto nota per le sue vignette e illustrazioni politicamente scorrette, ma anche per gli articoli incentrati su politica, cultura, estrema destra, cattolicesimo, islam e giudaismo. E anche se prende di mira principalmente i politici di destra, il settimanale non risparmia i partiti di sinistra francesi. Secondo l’attuale direttore, il disegnatore Stéphane Charbonnier, noto come Charb, il giornale riflette “tutte le componenti del pluralismo di sinistra e perfino dell’astensionismo”. Nel 2006 il giornale suscitò polemiche pubblicando una serie di caricature del profeta Maometto, diffuse inizialmente dal quotidiano danese Jyllands-Posten e vendendo 400.000 copie. In Italia le vignette vennero riprese dal ministro delle Riforme Roberto Calderoli che in un’intervista televisiva indossò una maglietta con le illustrazioni, un episodio che scatenò forti reazioni popolari nel mondo arabo, culminate con alcuni morti in Libia. Il numero di Charlie Hedbo incendiò proteste violente nei Paesi mussulmani. Diverse organizzazioni musulmane francesi, tra cui il Consiglio francese del culto musulmano, chiesero di seguito di mettere al bando il numero del settimanale contenente altre caricature di Maometto, ma la richiesta non fu accolta. A fine 2011, la redazione venne completamente distrutta da un incendio doloso e il sito del giornale venne attaccato dagli hacker dopo un numero speciale denominato Sharia Hebdo. Attacchi di matrice islamica, secondo gli inquirenti. Temporaneamente, la redazione si trasferì nei locali del quotidiano Liberation, per poi migrare in nuovi locali; l’attacco fu lanciato prima dell’uscita nelle edicole di un numero con in copertina un’altra vignetta satirica con Maometto. La storia di Charlie Hebdo comincia negli anni ’60 ed è strettamente legata a quella del mensile Hara-Kiri, lanciato da Georges Berniere e François Cavanna, e definito da loro stessi “un giornale stupido e cattivo”. La rivista fu al centro di diverse polemiche e fu interdetta dalla magistratura nel 1961 e poi nel 1966. Trasformata successivamente in settimanale, uscì in edicola per la prima volta nel 1970, ispirato a Charlie Brown. A novembre dello stesso anno la rivista suscitò critiche dopo la morte di Charles de Gaulle, titolando in copertina ‘Bal tragique à Colombey – un mort’, ossia ‘Ballo tragico a Colombey, un morto’, con un riferimento alla residenza del generale. Di seguito le pubblicazioni di Hara-Kiri vennero bloccate dal ministero dell’Interno francese, ma i giornalisti aggirarono il divieto lanciando una nuova pubblicazione, Charlie Hebdo, che deve il nome al famoso personaggio del fumetto Peanuts. Il settimanale rimase chiuso tra il 1981 e il 1992 dopo un calo del numero di lettori. Prima di Charb a guidarlo furono François Cavanna e Philippe Val. La rivista è pubblicata ogni mercoledì, ha una tiratura media settimanale di 100.000 copie, con 15.000 abbonati.

Giuliano Ferrara alza i toni l’8 gennaio 2015 durante «Servizio Pubblico» su La7. Il direttore de Il Foglio ritiene che la strage di Parigi non sia "terrorismo" ma che faccia parte di un'ampia strategia voluta dal mondo islamico per «andare contro l'Occidente cristiano-giudaico». «Questa è una Guerra Santa, se non lo capite siete dei coglioni!», tuona Ferrara.

Vietato parlare di Islam, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Dopo la strage di Parigi esiste ancora la libertà di stampa? Si può ancora pubblicare oppure no un’opinione anche quando questa è politicamente scorretta? Ieri tutti i quotidiani traboccavano di articoli di fondo inneggianti alla libertà minacciata dall’assassinio a sangue freddo del direttore e dei principali collaboratori di Charlie Hebdo. E però gli stessi quotidiani si guardavano bene dal prendere di petto la questione, preferendo nascondere se non cancellare la parola islam. Sulla prima pagina del Corriere per trovarla ci si doveva sottoporre a una vera caccia al tesoro. Il titolo a tutta pagina non parlava di strage islamica o di terrorismo islamico, ma di «Attacco alla libertà. Di tutti». Ah sì? E da parte di chi? Per scoprirlo bisognava leggere il sommario su una colonna: «Al grido di “Allah è grande” tre terroristi assaltano il giornale delle vignette satiriche su Maometto: 12 vittime». Per capire poi che l’islam c’entra qualcosa, l’occhio doveva cascare sull’occhiello sfumato (una colonna) che sovrastava l’editoriale di Ernesto Galli Della Loggia: «Islam, la vera questione». Ecco, la notizia era lì, nell’occhiello. Solo allora si scopriva che l’islam c’entra qualcosa in quello che è accaduto a Parigi, perché Galli della Loggia scriveva che esiste un problema islam, «un insieme di religione, di cultura e storia, riguardante in totale circa un miliardo e mezzo di esseri umani dove nel complesso (nel complesso perché vi sono anche le eccezioni e sarebbe da stupidi ignorarle) vigono regole diverse e perlopiù incompatibili con quelle che vigono in quasi tutte le parti del mondo». Questo è il punto. Ma il Corriere ha pensato bene di nasconderlo il più possibile, titolando sull’11 settembre dell’Europa, di cui peraltro nell’articolo non si fa nemmeno cenno e che comunque sarebbe sbagliato perché l’Europa ha già avuto i suoi 11 settembre con le bombe nel metrò di Londra (52 morti) e sui treni alla stazione di Madrid (191 morti). 

Vietato illudersi: l'islam è il nemico, continua Belpietro. "È un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità". Sono passati dieci anni da quando Oriana Fallaci scrisse queste frasi sulla prima pagina del Corriere. La più conosciuta e stimata giornalista italiana era appena stata denunciata per vilipendio all’Islam, perché nei suoi libri e nei suoi articoli si era permessa di metterci in guardia contro il Mostro, così lo chiamava, e di mettere in dubbio la fandonia dell’Islam buono contro quello cattivo. Oriana si opponeva alla nascita della moschea di Colle val d’Elsa, sosteneva che il mondo occidentale era in guerra e doveva battersi, attaccava il multiculturalismo, la teoria dell’accoglienza indiscriminata, la dottrina cattolica che insegna ad amare il nemico tuo come te stesso. E per questo, per quel che scriveva, fu considerata pazza dall’intellighezia progressista mondiale, quasi che l’integralista fosse lei, lei armata di penna e taccuino e non gli islamici armati di esplosivi, coltelli e kalashnikov che noi abbiamo invitato nelle nostre case e nelle nostre città, consentendo loro - in virtù della libera circolazione imposta dal trattato di Schengen - di viaggiare a loro piacimento, senza controlli e con la possibilità di organizzare qualsiasi massacro. Oriana è morta da anni, ma le sue nere profezie si stanno realizzando puntuali come erano state previste. Quel che è accaduto ieri nella redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, una delle poche testate che anni fa difesero nel silenzio generale il coraggio della scrittrice toscana, è esattamente ciò che lei aveva immaginato.

Il lungo incubo di Coco: «Ho aperto quella porta e hanno sparato a tutti». Parla la vignettista che per prima ha incontrato i due attentatori del «Charlie Hebdo» I due boia incappucciati le hanno puntato i kalashnikov alla testa, scrive Elisabetta Rosaspina “Il Corriere della Sera”. «Faccio attenzione quando si tratta di religione. Ci penso due volte prima di fare un disegno. Ma non mi autocensuro, è fuori questione» garantiva tre anni fa «Coco» al sito della cittadina di Carquefou (Loira Atlantica) dove ogni anno, dal 2000, si organizza il festival dei caricaturisti. Era stata lei, Corinne Rey, giovane disegnatrice, allora non ancora trentenne, ma già affermata nel mondo della stampa, a disegnare il manifesto dell’happening del 2011. Un signore dalle grandi fauci che inghiotte il mondo infilzato su uno stecchino, come fosse un’oliva. È lei, Corinne Rey, la mamma cui mercoledì mattina, sotto gli uffici di Charlie Hebdo , a Parigi, i due boia incappucciati hanno puntato i kalashnikov alla testa, ingiungendole di comporre il codice d’ingresso alla sede della redazione, l’ultimo ostacolo tra i killer e le loro prede. Gli assassini non l’hanno riconosciuta come una delle firme del settimanale e, forse, l’hanno risparmiata per questo. O perché, come invece ha ipotizzato lei, non si sono accorti che scivolava al riparo di una scrivania. Ma quella carneficina resterà negli occhi della giovane donna per sempre. «Superato l’ingresso hanno sparato a Wolinski poi a Cabu. Erano seduti uno accanto all’altro. Tutto è durato cinque minuti, forse anche meno. Una pioggia di colpi», ha rivissuto poco dopo il suo incubo, parlando al telefono con i colleghi de «L’Humanité ». Sotto choc, ma anche sotto protezione, come testimone diretta e ravvicinata di quel bagno di sangue, Coco si è salvata perché era andata a prendere la figlioletta all’asilo. Come lei, è scampata al massacro anche un’altra disegnatrice della redazione decimata, Catherine Meurisse, arrivata in provvidenziale ritardo alla riunione settimanale. Catherine ha fatto in tempo a incrociare i due uomini mascherati mentre fuggivano dal palazzo e ha intuito che qualcosa di terribile doveva essere accaduto. Anche se qualche altro passante si era fermato incuriosito, convinto che si stesse girando un film d’azione. È salva Coco, anche se ha visto e sentito morire i suoi colleghi e se non potrà più togliersi dalle orecchie e dalla memoria le urla di soddisfazione dei carnefici che gridavano i nomi delle loro vittime mentre sparavano, come in un sordido appello: «Pagherete per aver insultato il Profeta».

Sottomissione è il romanzo più visionario e insieme realista di Michel Houellebecq, capace di trascinare su un terreno ambiguo e sfuggente il lettore.

A Parigi, in un indeterminato ma prossimo futuro, vive François, studioso di Huysmans, che ha scelto di dedicarsi alla carriera universitaria. Perso ormai qualsiasi entusiasmo verso l’insegnamento, la sua vita procede diligente, tranquilla e impermeabile ai grandi drammi della storia, infiammata solo da fugaci avventure con alcune studentesse, che hanno sovente la durata di un corso di studi. Ma qualcosa sta cambiando. La Francia è in piena campagna elettorale, le presidenziali vivono il loro momento cruciale. I tradizionali equilibri mutano. Nuove forze entrano in gioco, spaccano il sistema consolidato e lo fanno crollare. È un’implosione improvvisa ma senza scosse, che cresce e si sviluppa come un incubo che travolge anche François. Sottomissione è il romanzo più visionario e insieme realista di Michel Houellebecq, capace di trascinare su un terreno ambiguo e sfuggente il lettore che, come il protagonista, François, vedrà il mondo intorno a sé, improvvisamente e inesorabilmente, stravolgersi.

La Parigi "sottomessa" di Houellebecq divide i politici francesi. Il romanzo sull'islam fa discutere. Hollande: "Non si deve cedere a paura e angoscia". Le Pen: "E' fiction ma potrebbe diventare realtà", scrive Alessandro Gnocchi su “Il Giornale”. Questa sera Michel Houellebecq si difenderà dalle accuse scatenate dalle anticipazioni del suo nuovo romanzo Sottomissione (da domani in Francia, in Italia dal 15 gennaio per Bompiani). Lo farà sul canale televisivo France2, intervistato da David Pujadas. Ma lo scrittore ha già rivendicato il diritto, sulla Paris Review , di trattare temi d'attualità, anche scomodi. Respinte le accuse di razzismo e islamofobia, ha osservato la crisi dei valori dell'Illuminismo, il rifiuto crescente della modernità, il ritorno delle religioni, il suicidio dell'Europa e la lotta dei francesi per restare in vita. Il libro entra in pieno nel dibattito in corso da tempo in Francia sull'identità nazionale e sul corretto rapporto con l'immigrazione, specie quella di matrice religiosa musulmana. In Sottomissione , le elezioni presidenziali del 2022 sono vinte dal candidato del neonato partito musulmano, che batte la destra di Marine Le Pen grazie all'appoggio sia dei socialisti sia dei repubblicani. Parigi accetta di buon grado l'islamizzazione morbida propugnata dal nuovo governo. La Francia, forse l'intera Europa, rinuncia alla libertà avvertita come un inutile fardello, il retaggio di un passato ormai finito. La sfiduciata cultura occidentale non può non cedere di fronte alle forti rivendicazioni identitarie dei musulmani. Il protagonista di Sottomissione , un professore esperto di Joris Karl Huysmans, accetta senza opporsi l'islamizzazione dell'università, e in questo segue a suo modo le orme dell'oggetto dei suoi studi. Huysmans, l'autore di A ritroso , passò infatti dal Naturalismo al Cattolicesimo («lo fece per ragioni estetiche, restando freddo di fronte alle grandi domande di Pascal», precisa Houellebecq nella citata intervista alla Paris Review ). Fantapolitica? Dipende dai punti di vista. Dopo critici, filosofi e opinionisti, sono intervenuti i pesi massimi della politica francese. Il presidente della Repubblica, il socialista François Hollande, ha detto che leggerà Sottomissione non appena possibile. Nel frattempo osserva che la tentazione di denunciare «la decadenza, il declino, di esternare pessimismo e dubitare di se stessi» è una costante di molta letteratura, non solo di questo secolo. «Ciascun autore è libero di esprimere quello in cui crede. Il mio compito, invece, è invitare i francesi a non cedere alla paura, all'angoscia». Perché nel Paese ci sono «forze positive» capaci di porre rimedio alle situazioni incerte e di migliorare le condizioni generali. Del resto, pochi giorni prima di Natale, Hollande aveva dichiarato che gli immigrati servono, e il resto è demagogia. Di parere radicalmente opposto la leader del Fronte Nazionale, Marine Le Pen, tra i personaggi del romanzo stesso: « Sottomissione è un libro interessante. È fiction ma potrebbe diventare realtà. Il patto pro islam tra socialisti e repubblicani, in opposizione alla nostro destra, si può già osservare a livello comunale o regionale».

Houellebecq, l’ultimo “Charlie Hebdo” dedicato al suo nuovo libro. Il romanziere sotto scorta ora piange l’amico morto. Disse: «Non sento una responsabilità particolare per quello che scrivo. Un romanzo non cambia la storia», scrive Stefano Montefiori su “Il Corriere della Sera”. Michel Houellebecq è scoppiato in singhiozzi, ieri, quando ha saputo che tra i morti c’era il suo amico Bernard Maris, economista alla Banca di Francia ed editorialista a “Charlie Hebdo”. Sul numero della rivista uscito poche ore prima della strage, Maris conclude con queste parole quello che sarà l’ultimo articolo della sua vita: «Ancora un romanzo magnifico. Ancora un colpo da maestro». Si riferisce a “Sottomissione”, il libro di Houellebecq che negli stessi momenti cominciava finalmente a essere venduto nelle librerie, dopo settimane di indiscrezioni, distribuzioni illegali su Internet e polemiche che, come solo in Francia può accadere, passano rapidamente dalla letteratura alla politica. È stata una giornata spaventosa per tutti. Michel Houellebecq non ha potuto che viverla in modo ancora più drammatico, per le persone colpite a lui vicine e perché quella, fino alle 11 e 30 era la «sua» giornata, quella dell’uscita del libro più atteso dell’anno, da giorni sulle prime pagine di tutti i giornali. Una giornata preceduta la sera prima da un suo intervento al tg delle 20 sul canale pubblico France 2, in cui lo scrittore di tanti romanzi tra analisi della società e profezia aveva risposto con la consueta flemma alle domande del conduttore David Pujadas. «Non sente di avere una responsabilità particolare, lei che è uno scrittore così importante e seguito?», chiedeva Pujadas. «No - aveva risposto Houellebecq -, forse un saggio può cambiare la storia, non un romanzo». Il giornalista alludeva a una voglia di provocazione - tante volte negata - di Houellebecq, che in “Sottomissione” mette in scena il fantasma più angosciante per la società francese di questi giorni: un Islam trionfante, che ha ragione per vie democratiche di una civiltà giudaico-cristiana ormai estenuata, spossata dall’Illuminismo e dal fardello di libertà che pesa su ogni essere umano. Meglio la sottomissione, allora, suggerisce François, il protagonista del romanzo: delle donne all’uomo (la poligamia viene incoraggiata, più mogli smettono di lavorare e restano a casa ad accudire un unico marito), e di tutta la società a Dio. Anzi, ad Allah. Per questo, Houellebecq è stato accusato di soffiare sul fuoco, di usare la paura per vendere libri. Ma Houellebecq è uno scrittore, di sicuro il più celebre e forse il migliore scrittore francese contemporaneo, non un opinionista né tantomeno un uomo politico. Ha il diritto di descrivere la realtà, e anche di offrirci la sua idea di quel che la realtà potrà diventare tra qualche anno, «esagerando e velocizzando», come dice lui stesso. Da quando in autunno si è saputo che il suo prossimo romanzo avrebbe dipinto questa Francia del 2022 in mano all’Islam, l’Islam per certi versi rassicurante (donne a parte) del nuovo presidente della Repubblica Mohammed Ben Abbes, il dibattito culturale - e politico - francese ha cominciato a incentrarsi su Sottomissione , fino a esserne completamente monopolizzato. L’azione militare dei terroristi è stata talmente efficace da essere probabilmente pianificata da mesi, dicono le fonti di polizia: l’uscita di Sottomissione e l’ultimo numero della rivista non c’entrano nulla. I piani si sovrappongono perché c’è la coincidenza dell’uscita nelle librerie, e perché l’ultimo Charlie Hebdo esibisce in copertina una splendida vignetta firmata Luz, almeno lui per fortuna scampato al massacro, che dipinge Houellebecq con l’eterna sigaretta e un ridicolo cappello con stelle e pianeti. Titolo: «Le predizioni del mago Houellebecq», e lo scrittore che dice «Nel 2015 perdo i denti...» (i suoi problemi odontoiatrici sono noti) e «Nel 2022, faccio il Ramadan!». Nell’ultima pagina di Charlie Hebdo , come sempre, «le copertine alle quali siete scampati»: e riecco Michel Houellebecq in braccio a una Marine Le Pen sognante che canta «Sarai il mio Malraux», disegnato da Cabu, morto nell’attentato; Houellebecq in ginocchio che sniffa una pista di cocaina stesa per strada e il titolo «Houellebecq convertito all’Islam?», disegnato da Coco, alias Corinne Rey, la donna che sotto la minaccia delle armi ha aperto la porta della redazione ai terroristi; infine, ecco un ritratto poco avvenente di Houellebecq, lo strillo «Scandalo!» e il titolo «Allah ha creato Houellebecq a sua immagine!». La firma è di Charb, il direttore, l’uomo che più di tutti gli assassini volevano uccidere. Michel Houellebecq è ovviamente sotto la protezione della polizia, come lo sono le redazioni di tutti i giornali e i locali della casa editrice Flammarion, che ieri sono rimasti chiusi. Nel romanzo, gli islamici prendono il potere vincendo le elezioni grazie a un’alleanza con gli esangui partiti di centrosinistra e di centrodestra. Prima che l’ordine coranico regni sovrano sulla Francia e l’Europa, in base al sogno di Ben Abbes di rifondare un impero romano con l’Islam al posto del Cristianesimo, in Sottomissione (uscirà in Italia il 15 gennaio per Bompiani) ci sono scontri, un timido debutto di guerra civile. E la guerra civile, il caos, sono evocati nelle dichiarazioni di mesi fa di Éric Zemmour, l’opinionista che con il bestseller Le suicide français ha generato furiose polemiche su razzismo e islamofobia, con la sua accusa rivolta ai musulmani di Francia di essere «un popolo nel popolo».

Negli ultimi giorni i migliori intellettuali e scrittori francesi, da Michel Onfray a Emmanuel Carrère, si sono pronunciati sulla polemica Houellebecq. Charlie Hebdo, Michel Houellebecq sospende la promozione di Sottomissione, scrive Angela Iannone. L'attentato di matrice terroristica al settimanale satirico francese coincide con la pubblicazione del romanzo di Michel Houellebecq, "Sottomissione". Michel Houellebecq ha deciso di "sospendere la promozione" del suo libro "Sottomissione" perché "profondamente turbato dalla morte del suo amico Bernard Maris, ucciso nell'attacco terrorista al settimanale Charlie Hebdo, nel quale sono state uccise altre undici persone". Lo ha annunciato il suo agente Francois Samuelson, secondo quanto riportato dai media francesi. Lo scrittore, che è sotto scorta, lascerà Parigi, come ha precisato il suo editore Flammarion. L'attentato terroristico alla redazione di "Charlie Hebdo", il settimanale satirico attaccato da un commando armato stamattina, coincide con due pubblicazioni. La prima è la copertina del settimanale stesso, che aveva proprio oggi come protagonista Michel Houellebecq, lo scrittore francese che nel suo ultimo romanzo "Sottomissione", immagina una Francia governata nel 2022 dai Fratelli Musulmani e lancia un allarme sulla progressiva islamizzazione del Paese. La seconda è proprio la pubblicazione di "Sottomissione", che è in uscita oggi nelle librerie francesi. Charlie Hebdo riportava oggi la caricatura dello scrittore travestito da mago, il cui titolo era "Le previsioni del mago Houellebecq" con lo scrittore francese che dice "Nel 2015 perdo i miei denti" e poi "Nel 2022 faccio il Ramadan". Sottomissione è un romanzo fantapolitico che ipotizza una Francia futura nelle mani dell'integralismo islamico. Un Paese in cui un leader musulmano impone l'islamizzazione forzata a tutti  gli abitanti. Circa 300 pagine con una tiratura di 150mila copie diffuse illegalmente già prima della pubblicazione ufficiale, suscitando non poche polemiche tra l'opinione pubblica francese, che si è divisa commentando il titolo come "sublime" o "irresponsabile". Intervistato dalla radio France-Inter, Houellebecq ha minimizzato lo scandalo, ritenendo che non è sia quello il vero senso del libro e che "la parte del romanzo che fa paura  è piuttosto precedente all'arrivo dei musulmani al potere. (...) Si può dire che quello è terrificante, questo regime". "Nel mio libro -continua - l'Islam non è per nulla radicale, al contrario, è una delle religioni più pacifiche che si possano immaginare. Non penso che il mio libro dipinga un Islam minaccioso".

Charlie Hebdo, Houellebecq e Sottomissione, il libro fatale. La strage nel giorno dell'uscita di Sottomissione, scrive “L’Ansa”. Gli assalitori che hanno sparato e ucciso nella sede del settimanale satirico Charlie Hebdo non hanno scelto un giorno a caso: oggi, 7 gennaio 2015, esce in Francia l'ultimo libro di Michel Houellebecq, Sottomissione (traduzione letterale della parola Islam), che in Italia arriverà il 15 gennaio. Proprio a questo libro del controverso autore di Le particelle elementari, Piattaforma, La possibilità di un'isola, il numero di Charlie Hebdo aveva dedicato un articolo e la copertina con una vignetta che ritrae lo scrittore vestito da mago e il titolo: Le previsioni del mago Houellebecq; le profezie dello scrittore sono: Nel 2015 perderò i denti, nel 2022 farò il ramadan. Perché Sottomissione proprio di questo parla: di una Francia governata nel 2022 dai Fratelli Musulmani, che riescono ad andare al governo grazie ad una (poco) incredibile alleanza con quel resta di centristi e sinistra alleate al musulmano moderato  Mohammed Ben Abbes, leader di Fraternité musulmane, contro lo strapotere di Marine Le Pen.  Non è solo l'ennesimo allarme di Houellebecq contro la progressiva islamizzazione del Paese. Come ha scritto Emmanuelle Carriere, Houellebecq ha il merito di essere l'unico a parlare di un problema che esiste ma che molti intellettuali sembrano ignorare. Non solo: per Carriere quella di Houllebecq è una posizione politicamente e sociologicamente ragionevole. L'Occudente si arrende per così dire dolcemente all'Islam, sfinito da secoli di razionalità e illuminismo eccessivamente responsabilizzanti. Nell'acceso dibattito intellettuale francese sul libro e sullo scrittore, non è l'unica recensione positiva incassata da Houellebecq: un altro intellettuale 'scorretto', Michel Onfray , noto per il suo trattato di ateologia e per le sue posizioni anti-cristiane e favorevole al libertinismo, ha parlato di Europa come Continente morto che volontieri si consegna all'Islam dopo averlo fatto con i mercati. E dunque, per Sottomissione, di uno scenario assolutamente plausibile. Proprio ieri, Houllebecq aveva parlato al canale francese France 2 per rivendicare il suo diritto di trattare temi di attualità e soprattutto di sottolineare la crisi dei valori dell'illuminismo e della modernità.

"Ecco la mia Francia nelle mani dell'Islam". Parla lo scrittore Michel Houellebecq. I musulmani prendono il potere. E opprimono le donne. Lo scrittore più provocatorio d’Oltralpe qui racconta “Sottomissione” il suo nuovo romanzo. E dice: «Il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono cattivi musulmani», scrive Sylvain Bourmeau su “L’Espresso”. Michel Houellebecq, lo scrittore più controverso di Francia, non ama parlare con i giornalisti. Per il lancio del suo nuovo romanzo, “Sottomissione”, ha dato una sola  intervista al critico Sylvain Bourmeau, che in vent'anni lo ha incontrato decine di volte e che, malgrado le critiche sincere che gli riserva anche in questa occasione, si è guadagnato la sua fiducia. “L'Espresso” pubblica in esclusiva per l'Italia il lungo colloquio che parte dalla trama del nuovo romanzo, ancora più provocatorio dei precedenti. Il libro è uscito in Francia proprio nel giorno dell'attentato a Charlie Hebdo (in Italia esce il 15 per Bompiani). E lo scrittore, che dopo aver subito un processo per islamofobia non vive più in Francia ma è a Parigi per il lancio del libro, è stato posto sotto scorta. Al centro di “Sottomissione” c'è una Francia trasformata in uno stato islamico dopo la vittoria alle presidenziali del leader di un partito  musulmano. Un'ipotesi irrealistica? Non secondo Houellebecq, che ipotizza un ballottaggio con la leader della destra xenofoba Marine Le Pen. «Per la Le Pen mi pare del tutto verosimile che arrivi al ballottaggio già alle elezioni del 2017», spiega lo scrittore. «Quanto al partito musulmano, mi sono reso conto che i musulmani vivono in una situazione del tutto alienata. Sono molto lontani dalla sinistra e ancor di più dagli ecologisti. E non si vede perché dovrebbero votare per la destra, che li rifiuta. Quindi l'idea di un partito musulmano mi sembra plausibile». Il nuovo romanzo sfrutta la paura dell'Islam che serpeggia per la Francia, ammette Houellebecq. Che però è convinto che «non si può definire  “Sottomissione” una predizione pessimista». Anche perché, dichiara a sorpresa, «il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono dei cattivi musulmani. La guerra santa di aggressione non è permessa per principio, e  solo la predicazione è valida. Dunque si può dire che ho cambiato un po’ opinione. È per questo che non ho l’impressione di essere nella situazione di dover avere paura. Ho l’impressione che ci si possa mettere d’accordo». 

«La civiltà dell’Europa è sfinita». Onfray promuove Houellebecq. «È un continente morto, oggi in mano ai mercati. Domani forse all’islam», scrive Stefano Montefiori su “Il Corriere della Sera”. Il nuovo romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione , immagina una Francia del 2022 governata da un presidente musulmano e un nuovo ordine sociale che prevede poligamia e donne che restano a casa a occuparsi di mariti e figli in omaggio a una religione - l’islam - che ha trionfato sulla civiltà dell’Illuminismo. Prima ancora dell’uscita (il 7 gennaio in Francia per Flammarion e il 15 gennaio in Italia per Bompiani) il libro scatena polemiche e discussioni, tra riconoscimento del valore letterario e critiche a una presunta voglia di provocazione. Il «Corriere» ha sollecitato l’opinione di Michel Onfray, uno dei più noti intellettuali francesi, autore di decine di opere tra le quali il celebre Trattato di ateologia e una Controstoria della filosofia (Ponte alle Grazie); un pensatore ateo che ha letto - e amato - il romanzo del momento.

Visto che «Sottomissione» è un romanzo e non un saggio, è possibile separare il valore letterario dal contenuto profetico?

«È un esercizio di stile, una fiction politica ma anche metafisica: un romanzo sull’ignavia delle persone, degli universitari in particolare. Un romanzo molto anarchico di destra. Un libro sulla collaborazione, vecchia passione... francese! Come un universitario specialista di Huysmans può convertirsi all’islam? Ne scopriamo le ragioni poco alla volta: la promozione sociale in seno all’istituzione riccamente finanziata dai Paesi arabi, gli stipendi mirabolanti dei convertiti, la possibilità della poligamia, una ragazza per il sesso, un’altra meno giovane per la cucina, una terza se si vuole, il tutto continuando a bere alcool... Questo libro è meno un romanzo sull’islam che un libro sulla collaborazione, la fiacchezza, il cinismo, l’opportunismo degli uomini...».

La parte più scioccante è forse il destino riservato alle donne. Qual è la sua opinione? È concepibile nella nostra società un’evoluzione simile?

«La nostra epoca è schizofrenica: bracca il minimo peccato contro le donne e, per fare questo, milita per la femminilizzazione dell’ortografia delle funzioni, la parità nelle assemblee, la teoria di genere, il colore dei giocattoli nelle bancarelle di Natale; la nostra epoca prevede che ci si arrabbi se si continua a rifiutare auteure o professeure (femminili di autore e professore ), ma fa dell’islam una religione di pace, di tolleranza e di amore, quando invece il Corano è un libro misogino quanto può esserlo la Bibbia o il Talmud. Se si vuole continuare a essere misogini con la benedizione dei sostenitori del politicamente corretto, l’islam alla Houellebecq è la soluzione!».

In una sua prima intervista alla «Paris Review», Houellebecq decreta la fine dell’Illuminismo e il grande ritorno della religione (l’islam, ma non solo). In quanto pensatore ateo, qual è la sua reazione?

«Credo che abbia ragione. I suoi romanzi colgono quel che fa l’attualità del nostro tempo: il nichilismo consustanziale alla nostra fine di civiltà, la prospettiva millenarista delle biotecnologie, l’arte contemporanea fabbricata dai mercati, le previsioni fantasticate della clonazione, il turismo sessuale di massa, i corpi ridotti a cose, la loro mercificazione, la tirannia democratica, la sessualità fine a se stessa, l’obbligo di un corpo performante, il consumismo sessuale, eccetera. Quindi, utilizzare i progressi incontestabilmente compiuti dall’islam in terra d’Europa per farne una fiction sull’avvenire della Francia è un buon modo per pensare a quel che è già».

Houellebecq descrive una società francese ed europea stanca, affaticata dalla perdita di valori tradizionali. Cosa pensa? L’Europa è condannata, come dicevano i neocon americani?

«Houellebecq continua a dipingere il ritratto di una Francia post-68. E ha ragione di vedervi un esaurimento, meno in rapporto con il breve termine del Maggio 68 che con il lungo periodo della civiltà giudaico-cristiana che crolla. Questa civiltà è nata con la conversione di Costantino all’inizio del IV secolo, il Rinascimento intacca la sua vitalità, la Rivoluzione francese abolisce la teocrazia, il Maggio 68 si accontenta di registrarne lo sfinimento. Siamo in questo stato mentale, fisico, ontologico, storico. Houellebecq è il ritrattista terribile di questo Basso Impero che è diventata l’Europa dei pieni poteri consegnati ai mercati. L’Europa è morta, ecco perché i politici vogliono farla!».

La mia impressione, leggendo il libro, è che si finisca per credere alla profezia. In questo sta l’abilità di scrittore di Houellebecq? O la sua previsione è davvero plausibile?

«È in effetti uno dei talenti di questo libro: il racconto è estremamente filosofico perché è estremamente credibile... Sottomissione rivaleggia con 1984 di Orwell, Fahrenheit 451 di Bradbury, Il mondo nuovo di Huxley. Per me è il migliore libro di Houellebecq, e di gran lunga. La sottomissione di cui diamo prova nei confronti di ciò che ci sottomette è attualmente sbalorditiva. È un altro sintomo del nichilismo nel quale ci troviamo».

Evocando l’islam, Houellebecq agita un fantasma molto presente nella Francia di oggi, come dimostrano i libri di Alain Finkielkraut e Éric Zemmour. È giustificata, questa preoccupazione dell’identità?

«Ricorrere alla parola fantasma è già un modo di prendere una posizione ideologica. Esiste una realtà che non è un fantasma e che coloro che ci governano nascondono: divieto di statistiche etniche sotto pena di farsi trattare da razzisti ancor prima di avere detto alcunché su queste cifre, divieto di rendere note le percentuali di musulmani in carcere sotto pena di farsi trattare da islamofobi al di fuori di qualsiasi interpretazione di queste famose cifre, eccetera. Non appena si nasconde qualcosa, si attira l’attenzione su quel che è nascosto: se non esiste che un fantasma, allora che si diano le cifre, saranno loro a parlare...».

Edward Luttwak: Islam significa «sottomissione», E questo è il suo vero obiettivo finale. L'ambiguità vi porta al macello. L'Europa, in particolare, tiene il piede in due scarpe, scrive  di Goffredo Pistelli suItalia Oggi”. A Edward Luttwak il politically correct non fa velo. Questo ebreo americano d'origine rumena, politologo e esperto di studi strategici, quando viene chiamato a parlare di terrorismo islamico, non infiocchetta distinguo ma dice quello che pensa. E il suo pensiero è spesso durissimo. È il caso di questa conversazione che ci ha concesso a poche ore dalla strage del Charlie Hebdo a Parigi.

Domanda. Mr. Luttwak questo attentato, nel cuore dell'Europa, è per gli Europei un brutto risveglio, non trova?

Risposta. Il punto non è solo di svegliarsi ma di agire.

D. Vale a dire?

R. Quello che c'è da fare è chiaro: dovete delegittimare questo trionfalismo musulmano.

D. Ma come, c'è un attacco terroristico e lei mi parla del trionfalismo? Che c'entra?

R. Centra, perché il trionfalismo è quello che crea un'atmosfera per cui qualcuno si sente in diritto di uccidere la gente.

D. Ma a quale trionfalismo si riferisce?

R. Quello praticato da persone, ragazze magari, che vanno con il hijab indosso per dimostrare la loro partecipazione a questa forma estrema di islamismo. Magari parlano perfettamente l'italiano, sono carine e gentili, dicono «non siamo affatto sottomesse», ma poi difendono Hamas, con la sua costituzione genocida.

D. Si riferisce a quel dibattito piuttosto animato che ha avuto in dicembre durante una puntata di Announo (in cui Luttwak, collegato dagli Usa, si toglieva l'auricolare quando parlava una giovane esponente musulamana in studio, ndr)?

R. Non mi riferisco a niente in particolare. Dico che queste persone vendono falsità a cominciare dall'etimologia stessa di Islam, che vuol dire «sottomissione», mentre loro dicono che significhi «amore».

D. Quella musulmana non è una religione come tutte le altre?

R. No, perché appunto vuole tutte le altre sottomesse. E in questa sottomissione prevede che le persone e gli Stati chinino il capo. Il disegno è che lo faccia Roma, Parigi, Washington.

D. Non c'è possibilità di discussione, quindi?

R. È inutile perdersi in chiacchiere con gente come Tariq Ramadani (scrittore e imam ginevrino di origine egiziana, che piace molto al mondo francofono, ndr), dovete sfrondare, dovete smettere di legittimarli o vi ritroverete quattro pazzoidi col kalashinikov in pugno, come questi di Parigi, che magari fino a ieri avevano fatto il ragioniere, l'architetto, il medico.

D. Sfrondare come?

R. Smettendo per esempio di parlare per acronimi: basta dire Isis. Cominciate a chiamarlo Stato islamico. E a cessare di trattare la religione musulmano come le altre. Capisco, che sia troppo spinoso, ma dovete ammettere che l'unico scopo di quel credo è sottomettere gli altri.

D. Nessuno la fa, secondo lei?

R. Ci sono già editori e giornalisti che, in Europa, hanno deciso di non occuparsi di questi cose e stare alla larga da queste vicende. La sottomissione comincia così.

D. E con gli islamici europei nessun dialogo è possibile allora?

R. L'unico dialogo è questo: «Riformatevi e diventate un altro tipo di religione». Non possono venire a dirci che non stanno con Isis perché sono brutti e cattivi, in quanto tagliatori di teste, e schierarsi con Hamas che, all'articolo 7 della propria Costituzione, prevede l'uccisione di tutti gli ebrei. Il giornalista, l'intellettuale e chiunque altro appoggi Hamas non merita di stare nella società civile, in quanto sostiene un'intenzione genocida proclamata.

D. Ma l'Europa della politica che cosa dovrebbe fare?

R. Essere meno ipocrita. Francois Hollande lo è quando avalla l'idea di un Islam moderato. È una falsa moderazione: l'imam che non perde un congresso sul dialogo interreligioso, lo trovi poi su YouTube con le prediche in arabo con cui chiama tutti alla jihad, alla guerra santa. I politici europei smettano di essere ipocriti perché, così facendo, indeboliscono milioni di post-islamici del Vecchio Continente.

D. Di chi parliamo?

R. Di quegli immigrati, oggi spesso cittadini francesi, tedeschi, belgi, olandesi, che hanno voltato le spalle alla religione musulmana perché hanno capito che è irreformabile. Sono quelli che lasciano andare le loro moglie vestite all'occidentale, che non menano le loro figlie perché si scoprono le braccia. Vivono in Europa e oggi sono in imbarazzo a causa dell'ipocrisia di tanti vostri primi ministri.

D. Che cosa c'è nelle menti di chi ha organizzato l'attentato di Parigi? Le bombe ai treni in Spagna, nel 2004, spodestarono José Maria Aznar, impedendone la rielezione. Le raffiche parigine vogliono favorire l'avvento delle destre in Europa? Vogliono alzare il livello di scontro?

R. Alzare il livello dello scontro sarebbe sbagliato. Però siete di fronte a una scelta: o delegittimate l'Islam o delegittimate la democrazia.

Macellai islamici. Una dichiarazione di guerra all'Europa e alla libertà. Ma noi #nonabbiamopaura, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Questa è guerra. Altro che islam buono e islam cattivo, altro che multiculturalismo come risorsa e porte aperte all'immigrazione come dovere, altro che «cani sciolti». Hanno fatto strage di giornalisti nel cuore di Parigi, cioè nel cuore dell'Europa, in nome di Allah. Qualcuno li ha addestrati, qualcuno li ha istruiti, qualcuno li ha mandati a sparare agli inermi colleghi del settimanale satirico Charlie Hebdo (la cui testata oggi è affiancata alla nostra in segno di solidarietà). E siccome loro hanno urlato, tra una raffica e l'altra, che il mandante è Allah, ecco allora io dico: per loro Allah è il capo dei terroristi che vogliono sopprimere le basilari libertà dell'Occidente. Dico che l'immigrazione selvaggia è il grimaldello per entrare nella nostra storia, nelle nostre città. Dico che non ci sarà mai possibilità di integrazione, perché come scriveva Oriana Fallaci «non è vero che la verità sta sempre nel mezzo, a volte sta da una sola parte». E non ho dubbi che la parte giusta è la nostra, quella di una «civiltà superiore» (sempre per citare Oriana) che mai si sognerebbe di alzare un dito su Crozza per le sue imitazioni satiriche di Papa Francesco. Abbiamo un problema di polizia, di servizi segreti che fanno acqua, ma prima ancora abbiamo un problema politico e culturale di soggezione (vero presidente Boldrini?) nei confronti dei nostri carnefici, passati (vedi le scuse per Guantanamo), presenti (le cautele e i distinguo di oggi) e futuri. Io odio questa gente, così come gli uomini liberi hanno odiato nazisti e stalinisti. Il problema non è farsi ammazzare, ma farlo in silenzio. È spalancare le porte di casa senza nulla chiedere in cambio al nemico che si presenta con la faccia affamata e sofferente del profugo. È rinunciare a crocefissi, presepi e tradizioni per non offenderli. È inculcare - anche da parte di eminenti cardinali della Chiesa - nei nostri bambini l'idea che Gesù e Allah pari sono. È stato rinunciare - e lo dico da laico - a inserire le «radici cristiane» nella Costituzione europea. È non capire che siamo sull'orlo di una guerra civile europea tra islamici di passaporto europeo e il resto d'Europa. Non kamikaze invasati, ma banditi con tecniche brigatiste che vogliono salvare la loro vita, togliendola agli altri in nome di Allah. Per ribadire la nostra libertà, oggi ripubblichiamo quelle vignette che sono costate la vita ai colleghi francesi, senza che una sola di esse violasse le leggi di quel Paese. A noi i terroristi non hanno mai fatto paura. Ci fanno più paura le «attenuanti culturali» con cui la nostra magistratura troppo spesso giustifica le violazioni delle nostre leggi. E il termine «inarrestabile» usato per arrendersi all'immigrazione selvaggia. Avanti così, qui di «inarrestabile» ci sarà solo la fine dell'Occidente. E a questo gioco, noi non ci staremo mai. Che piaccia o no ad Allah.

L'editoriale-shock del Financial Times: "Stupidi i giornalisti di Charlie Hebdo", scrive “Libero Quotidiano”. È una voce fuori dal coro, una presa di posizione durissima e controcorrente mentre tutto il mondo condannava la strage nella redazione di Charlie Hebdo stringendosi alle famiglie dei morti. E' quella del quotidiano britannico Financial Times, che in un editoriale sul suo sito online afferma che i giornalisti e i vignettisti della rivista satirica francese si sono comportati in modo “stupido”. Il Ft accusa il magazine, che in passato era stato già colpito per la pubblicazione delle vignette su Maometto, di aver peccato di “stupidità editoriale” attaccando l’Islam. “Anche se il magazine si ferma poco prima degli insulti veri e propri, non è comunque il più convincente campione della libertà di espressione“, si legge ancora. Sui social network gli altri media offrono giornalisti e solidarietà, ma il giornale della City invece attacca chi ha con quelle vignette causato la reazione terroristica. “Con questo non si vogliono minimamente giustificare gli assassini, che devono essere catturati e giudicati, è solo per dire che sarebbe utile un po’ di buon senso nelle pubblicazioni che pretendono di sostenere la libertà quando invece provocando i musulmani sono soltanto stupidi”. L'editoriale si chiede anche “quale impatto” gli omicidi “avranno sul clima politico, e in particolare le sorti di Marine Le Pen e il suo estrema destra Fronte Nazionale“.

Altro che moderati. Nel Corano i precetti dei killer. La carneficina della redazione del giornale francese mostra all'Occidente la verità che ci rifiutiamo di vedere. È il Corano a prescrivere l'omicidio contro gli "infedeli", scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Ciò che veramente mi sconvolge è il fatto che, subito dopo la condanna di rito e scontata della strage nella sede di Charlie Hebdo , la preoccupazione generale di tutti, quasi tutti, dal presidente americano Obama al presidente della Camera Boldrini, è di scagionare l'islam sostenendo che l'islam è una religione di pace, che Maometto non c'entra, che la stragrande maggioranza dei musulmani «moderati» sono contrari alla violenza e che i terroristi islamici sono una scheggia impazzita che offende il «vero islam». Eppure se c'è un caso emblematico che ci fa toccare con mano la contiguità e la consequenzialità sul piano del pensiero e dell'azione tra i sedicenti musulmani moderati e i terroristi islamici è proprio questo caso specifico che mette a confronto il divieto assoluto di raffigurare Maometto, precetto condiviso da tutti i fedeli di Allah, con l'esercizio della libertà d'espressione che è il fulcro della nostra civiltà occidentale. Questa strage è la punta dell'iceberg di un contesto saturo di odio per la diffusione di vignette satiriche nei confronti del profeta dell'islam, alimentato e condiviso da lunghi anni da tutti i musulmani di Francia. A partire dai «moderati» della Grande Moschea di Parigi, che rappresenta l'islam istituzionale ed è il referente del governo francese, e dai militanti «moderati» dell'Uoif (Unione delle organizzazioni islamiche in Francia) che s'ispirano all'ideologia dei Fratelli musulmani, che nel 2007 intentarono e persero un processo contro Charlie Hebdo perché aveva ridiffuso delle vignette su Maometto bollate come blasfeme pubblicate dal quotidiano danese Jyllands-Posten . Così come altri terroristi islamici, evidentemente meno professionisti di quelli di ieri, avevano devastato nel 2011 la sede di Charlie Hebdo con una bottiglia molotov. Quella di ieri è stata una vera e propria azione di guerra condotta da terroristi che hanno combattuto e che uccidono spietatamente i nemici di Allah. Probabilmente si tratta di reduci dalla Siria o dall'Irak, dove si stima che almeno 600 cittadini francesi si siano uniti ai terroristi dell'Isis, dello Stato islamico dell'Irak e del Levante. Una realtà che ci obbliga a prendere atto che il terrorismo islamico nella sua versione più feroce è ormai un fenomeno endogeno, interno all'Europa, e che i suoi protagonisti sono cittadini europei musulmani. Così come nel maggio 2013 due terroristi islamici britannici, di origine nigeriana, decapitarono a Londra il soldato venticinquenne Lee Rigby, ieri a Parigi abbiamo assistito a un atto di guerra inedito per il contesto urbano europeo. La Francia, che è il Paese europeo che accoglie il maggior numero di musulmani è, insieme alla Gran Bretagna, il Paese multiculturalista per antonomasia, quello più a rischio di attentati terroristici islamici. E non è un caso. Quanto è accaduto evidenzia il fallimento di un modello di convivenza che precede il fallimento dell'attività dei servizi di sicurezza. Alla base c'è l'ideologia del relativismo con cui noi europei ci autoimponiamo di non usare la ragione per non entrare nel merito dei contenuti delle religioni, perché aprioristicamente le vogliamo mettere sullo stesso piano attribuendo così a ebraismo, cristianesimo e islam la stessa valenza, finendo per legittimare l'islam a prescindere da ciò che prescrive il Corano e da ciò che ha detto e ha fatto Maometto. Così come c'è l'ideologia parallela del multiculturalismo che ci ha portato a concedere a ciascuna comunità etnico-confessionale il diritto di autogovernarsi anche se, ad esempio, la poligamia e l'uccisione dell'apostata in cui credono indistintamente tutti i musulmani, sono in flagrante contrasto con il nostro Stato di diritto. Il fallimento dei servizi di sicurezza è anch'esso legato a un deficit culturale frutto della tesi ideologica secondo cui l'islam è buono a prescindere mentre i terroristi islamici non sarebbero dei «veri musulmani», anche se - come si è ripetuto ieri - massacrano invocando «Allah è grande» e chiarendo «vendicheremo il nostro profeta Maometto». Noi europei saremo inesorabilmente condannati ad essere sconfitti fintantoché non prenderemo atto che il terrorista islamico è solo la punta dell'iceberg di un retroterra che l'ha fatto emergere e che si sostanzia di una filiera che inizia laddove si pratica il lavaggio di cervello predicando e inculcando l'odio, la violenza e la morte nei confronti dei nemici dell'islam. La strage di Charlie Hebdo sostanzia il frutto avvelenato del reato di «islamofobia», il divieto di criticare l'islam, il Corano e Maometto. Si tratta di un pericolo che conosciamo bene anche in Italia. Quell'atrocità potremmo viverla anche qui a casa nostra.

Quell'islam moderato che dietro le quinte finanzia la guerra santa. Dai movimenti che in Italia bruciano false bandiere dell'Isis a Turchia e Qatar, che fingono amicizia con l'Occidente e danno soldi alla jihad, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Non ho mai avuto dubbi che i musulmani possono essere delle persone moderate, essendolo stato per 56 anni. Ma non credo affatto nei militanti del cosiddetto «islam moderato». Quelli che ad esempio lo scorso 21 settembre in Piazza Affari a Milano, usando uno stratagemma e ingannando il pubblico credulone compresi i giornalisti, diedero alle fiamme non la bandiera dell'Isis, che reca la scritta «Non vi è altro dio al di fuori di Allah» e «Maometto è l'inviato di Allah», bensì un drappo nero su cui avevano scritto a mano in italiano «Isis». Eppure stampa e tv hanno titolato: «I musulmani moderati bruciano la bandiera dell'Isis»! La verità è semplice: di islam ce n'è uno solo, Allah è lo stesso per i moderati e per i terroristi, Maometto è il profeta a cui si rifanno tutti i musulmani indistintamente. Bisogna ammettere che in fatto di bandiere fasulle i musulmani nostrani eccellono. Quando il 5 gennaio 2009 circa un migliaio di islamici arruolati dall'Ucoii (Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia) occuparono lo spazio antistante la Basilica di San Petronio a Bologna (che custodisce l'affresco di Giovanni da Modena con Maometto all'Inferno tra i seminatori di discordie, così come lo volle Dante), e diedero alle fiamme le bandiere israeliane, la Procura di Bologna li assolse perché erano da considerarsi «un drappo artigianalmente predisposto con un simbolo grafico», che deve essere ritenuto «un simulacro» e «un tentativo di emulazione», ma non la bandiera israeliana ufficiale! In realtà la contiguità tra i militanti del sedicente «islam moderato» e i terroristi islamici non si limita alla devozione dei nomi di Allah e di Maometto che fanno sì che la bandiera dell'Isis non possa essere bruciata, ma abbraccia l'insieme di un'ideologia che promuove la conversione all'islam, l'instaurazione della sharia e la riesumazione del Califfato. Il caso eclatante è quello della Turchia del regime islamico di Erdogan. A partire dal 2005 l'Occidente si è affidato totalmente alla Turchia nell'illusione che sarebbe riuscito a portare l'«islam moderato» dalla sua parte nella guerra contro Al Qaida. Assecondando la volontà di Erdogan, Stati Uniti e Unione Europea legittimarono politicamente i Fratelli Musulmani che sono riusciti a prendere il potere nei Territori palestinesi con Hamas, in Tunisia con Ennahda, in Libia e in Egitto, mentre in Siria hanno scatenato la guerra del terrore contro Assad. Ebbene la verità è che i turchi sono presenti in massa al vertice e nelle fila delle organizzazioni terroristiche, 2000 in seno a Jabhat al Nusra, affiliata ad Al Qaeda in Siria, e 3000 in seno all'Isis, forti del sostegno di Erdogan che fornisce loro assistenza militare, cure mediche e denaro in cambio del petrolio estratto nello «Stato islamico». Altro caso significativo della contiguità tra l'«islam moderato» e il terrorismo islamico è quello del Qatar, principale finanziatore dei Fratelli Musulmani in tutto il mondo e dei gruppi terroristici affini in Siria, Libia e Tunisia, particolarmente impegnato negli investimenti in Europa come copertura alla più massiccia campagna di costruzione di moschee. Soltanto in Italia, a fronte dell'acquisto di alberghi di lusso, il St. Regis e l'InterContinental a Roma, il Gallia a Milano, il Four Seasons a Firenze e i resort sulla Costa Smeralda, il Qatar Charity Foundation ha donato 6 milioni di dollari ai centri islamici in Sicilia, mentre altre decine di milioni di dollari sono state donate - così come si legge sul suo sito - ai centri islamici a Saronno, Colle Val d'Elsa, Frosinone, Lecco, Roma, Ferrara, Bergamo, Sesto San Giovanni, Modena, Città di Castello, Vicenza, Verona, Torino, Mortara, Olbia, Mirandola, Taranto, Milano, Argenta (Ferrara), Gavardo (Brescia), Quingentole (Mantova). La verità è che il loro jihad, la guerra santa islamica, si traduce comunque nella nostra sottomissione: noi «perdiamo la testa» sia quando i terroristi ci decapitano, sia quando i «moderati» ci condizionano a tal punto da impedirci di usarla per salvaguardare la nostra civiltà.

Il predicatore radicale Choudary: "L'islam non crede alla libertà di pensiero". Dopo l'attacco a Charlie Hebdo difende l'idea che ci debbano essere dei limiti. "Le conseguenze sono note a tutti", scrive Lucio Di Marzo su “Il Giornale”. "L'islam non è pace, ma piuttosto sottomissione ai comandi del solo Allah. Per questo i musulmani non credono nell'idea della libertà d'espressione, perché le loro parole e azioni sono determinate dalla rivelazione divina e non basate sui desideri della gente". La pensa così Anjem Choudary, un predicatore radicale tra i più ascoltati in Europa, intervistato su queste pagine alcuni mesi fa da Barbara Schiavulli, per un reportage nell'Europa estremista. Dopo l'attacco contro la redazione del Charlie Hebdo, in cui sono morte dodici persone, tra le quali giornalisti e il direttore del magazine satirico, ha riassunto in una lettera pubblicata da Usa Today il suo pensiero sui fatti, in netta contraddizione con opinioni molto più moderate espresse da altri imam e fedeli musulmani. "Persino i non musulmani che sposano l'idea della libertà di pensiero sono d'accordo sul fatto che comporti delle responsabilità", scrive Choudary, che ammonisce: "Le potenziali conseguenze dell'insultare il Messaggero Muhammad sono note a musulmani e non musulmani". Parole che suonano come un tentativo di giustificare fatti impossibili da legittimare. "Proprio perché l'onore del Profeta è qualcosa che tutti i musulmani vogliono difendere, molti prenderanno la legge nelle proprie mani", aggiunge il predicatore radicale, che ricorre poi a un argomento molto utilizzato da chi si colloca su posizioni estremiste come le sue. "I governi occidentali sono contenti di sacrificare libertà e diritti quando complici di torture e rendition - scrive - o quando limitano la libertà di movimento ai musulmani, sotto le mentite spoglie della difesa della sicurezza nazionale". E al governo francese chiede perché "mettere a rischio i propri cittadini" continuando a provocare il mondo islamico, come accusa il Charlie Hebdo di avere fatto. Parole, quelle del predicatore, che stupiscono fino a un certo punto. Già in passato aveva lodato gli attentatori dell'11 settembre e al Giornale aveva detto: "Bin Laden è il nostro eroe. Purtroppo è morto, ma la lotta continua anche senza di lui".

Chi l'ha visto il servizio pubblico sulla carneficina dei giornalisti? La figuraccia della Rai, scrive Maurizio Caverzan su “Il Giornale”. Il servizio pubblico della Rai? Chi l'ha visto?. Ma anche L'apprendista stregone e Che Dio ci aiuti . Sono i programmi trasmessi nella serata della strage terroristica di Parigi, definita da molti osservatori l'11 settembre dell'Europa. Niente speciali, zero edizioni straordinarie. Titoli che, riletti oggi, svelano un sapore autocritico verso quella che è una delle pagine più nere dell'informazione pubblica. Facevi zapping da un canale all'altro, mercoledì sera, e trovavi un programma di cronaca nera, un film qualsiasi, su Raiuno addirittura la replica di una fiction. L'informazione può attendere. E il famigerato approfondimento, totem dei talk show che sgomitano quotidianamente nei nostri teleschermi, può mettersi in fila. Senza spingere. Quando invece ci sono dodici morti causati da un atto terroristico nella redazione di un giornale della capitale francese, tutti assenti. In vacanza o chissà. Dopo i tg che hanno conquistato ascolti ben al di sopra della media, lo Speciale TgLa7 di Enrico Mentana è stato un approdo obbligato come lo zapping sulle reti all news , a cominciare da Rainews24 , la più solerte fin dal mattino a rendersi conto della gravità dell'accaduto. Su Mediaset, Retequattro ha aperto una lunga finestra dopo il tg con Mario Giordano e Paolo Del Debbio, mentre Matrix di Luca Telese è andato in onda in edizione straordinaria. In Rai solo a notte inoltrata arriverà uno spezzone di Porta a Porta nel tentativo di tamponare una falla gigantesca. Ma dopo il collegamento con Di Bella e le dichiarazioni del ministro Alfano, vedere Gigi D'Alessio e Lina Sastri commuoversi per la scomparsa del povero Pino Daniele aveva un inevitabile effetto-extraterrestre. Servizio pubblico latitante. Lacunoso. Ritardatario. Sui social network è un diluvio di proteste, di lamentele contro un canone - il cui pagamento la Tv pubblica ricorda in questi giorni con petulanza - purtroppo non corrisposto da servizi all'altezza in un momento storico come questo. Il ritardo sulla notizia si è accumulato fin dalla tarda mattinata quando, come ha notato tal Nicolino Berti su Twitter , «solo Raitre in edizione straordinaria su Parigi, Raiuno deve prima far scolare la pasta alla Clerici». I telegiornali Rai hanno fior di corrispondenti nella Ville Lumière, anche uno di lunga esperienza come Antonio Di Bella. Ma quella di mercoledì 7 gennaio, prima giornata post-festività, rimarrà una pagina buia. Il giorno dopo, la polemica infiamma. Il sindacato dei giornalisti Rai si straccia le vesti («Come si può parlare di riforma se poi di fronte a una vicenda di questa portata, il servizio pubblico non reagisce mettendo in campo almeno su una delle tre reti uno speciale di prima serata?»). Proteste arrivano da quasi tutte le forze politiche che hanno deciso di chiedere spiegazioni al dg Luigi Gubitosi. Riflessi appannati dai troppi dolciumi nelle calze della befana? Sottovalutazione dell'accaduto? Disabitudine alle dirette su fatti internazionali? Intoppi o veti burocratici sembrano da escludere. Non risulta, infatti, che siano state avanzate richieste di modifica dei palinsesti della prima serata dai vari direttori di rete o di testata ai quali compete la valutazione degli avvenimenti. Spostare la replica di Che Dio ci aiuti non sarebbe stato difficile nemmeno per i vertici di Viale Mazzini. Ora, dopo l'ennesima giornata nera, ci si augura che qualcosa cambi. E che Dio aiuti la Rai.

Toh, sui giornali i terroristi non sono più «islamici», scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. I «terroristi islamici» non esistono. Oggi vengono occultati dai mezzi di comunicazione di massa con l'eufemismo «jihadisti». Ma quanti italiani sanno che cosa significhi «jihadisti» o «jihad»? Il motto dei Fratelli musulmani evidenzia il significato più genuino del jihad : «Allah è il nostro obiettivo. Il Profeta è il nostro leader. Il Corano è la nostra legge. Il jihad è il nostro sentiero. Morire lungo il sentiero di Allah è la nostra aspirazione massima». Il divieto di usare il termine «terrorismo islamico» fu formalizzato nel 2006 (...)(...) dall'Unione europea. È sconvolgente il fatto che mentre i terroristi islamici sgozzano, decapitano e massacrano in ottemperanza ai versetti coranici e ai detti e fatti attribuiti a Maometto, l'Occidente - pur di negare l'evidenza - si sia spinto fino a «scomunicare» i terroristi islamici. Lo scorso 14 settembre, dopo la decapitazione dell'ostaggio britannico David Haines, il premier Cameron ha detto che i terroristi islamici dell'Isis «non sono musulmani ma mostri», «dicono di fare questo in nome dell'islam. È assurdo, l'islam è una religione di pace». Anche il presidente americano Obama, intervenendo all'Assemblea generale dell'Onu lo scorso 24 settembre, ha scagionato l'islam: «Gli Stati Uniti non saranno mai in guerra contro l'islam. L'islam insegna la pace». Ma lo sanno Obama e Cameron che il capo supremo del sedicente «Stato islamico», l'autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, oltre ad essere musulmano ha un dottorato di ricerca in Scienze islamiche? Secondo loro questi tagliatori di teste se non sono musulmani che cosa sarebbero? Di quale islam parlano? Il Corano è unico e di Maometto ce n'è solo uno. Il vescovo di Mosul, Emile Nona, intervistato da l'Avvenire lo scorso 12 agosto, ha detto che l'ideologia dei terroristi islamici «è la religione islamica stessa: nel Corano ci sono versetti che dicono di uccidere i cristiani, tutti gli altri infedeli», e che i terroristi islamici «rappresentano la vera visione dell'islam». Eppure il 23 ottobre, sotto l'egida della presidente della Camera Laura Boldrini, la stampa cattolica ( L'Avvenire , Famiglia Cristiana e la Fisc), hanno promosso la campagna «Anche le parole possono uccidere», in cui si denuncia anche l'uso della parola «terrorista» in rapporto ai musulmani. Sempre la Boldrini aveva sponsorizzato nel 2007, da portavoce dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, con l'Ordine nazionale dei giornalisti e la Federazione nazionale della stampa, la «Carta di Roma», in cui si chiede di sostituire la parola «clandestino» con «migrante». Ebbene, dopo che nessun mezzo di comunicazione di massa usa più la parola «clandestino», ci ritroviamo in un'Italia in cui la clandestinità non solo non è più reato ma in cui risorse nazionali sono spese per favorire l'auto-invasione. Inevitabilmente accadrà lo stesso con l'abolizione della parola «terrorista islamico». Già oggi i terroristi islamici con cittadinanza europea, che rientrano dopo aver ucciso, sgozzato e decapitato in Siria e Irak, vengono accolti con la disponibilità riservata al figliol prodigo della parabola evangelica. Consentiamo che nelle moschee e sui siti Internet si predichi l'odio e la violenza nei nostri confronti, concependolo come libertà d'espressione fintantoché non si traduce concretamente nella nostra morte. Di questo passo finiremo per giustificare i terroristi islamici fino a legittimarli, sottoscrivendo noi stessi il nostro suicidio e la fine della nostra civiltà.

L'unica paura della sinistra? Che vincano gli "islamofobi". Dal Pd agli intellettuali progressisti il grande timore non è per la diffusione del radicalismo omicida islamico, ma per la crescita di consensi della destra, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. Una minaccia paurosa, un nemico dentro casa, travestito da anonimo cittadino ma pronto a colpire con la forza cieca dell'odio: è lui, l'«islamofobo». Sì c'è qualche terrorista islamico armato di kalashnikov e lanciarazzi che stermina innocenti, ma il vero problema, il vero pericolo che corrono Francia, Italia ed Europa, adesso, più che l'ascesa degli islamisti, è l'ascesa dei terribili «islamofobi», che con la scusa degli sterminii in nome di Allah rischiano di prendere parecchi voti, e questo l'Occidente non può accettarlo. Bernardo Valli su Repubblica , in un commento a caldo sui dodici morti di Charlie Hebdo, ha subito ravvisato, con un brivido lungo la schiena, il vero rischio implicito nell'attentato: «Attizzare l'islamofobia». Un pericolo da combattere con uno spiegamento di forze speciali, intelligence, ed editorialisti istruiti per educare il volgo, che sennò si impressiona e poi vota male. Scende in campo anche Federico Rampini, sempre sul giornale di De Benedetti, con la domanda che in queste ore attanaglia l'Europa dopo gli attentati jihadisti e le minacce di nuovi morti: «E adesso Marine Le Pen all'Eliseo?». Cioè la domanda non è «E adesso come ci difendiamo?» o «Adesso che fare con il radicalismo islamico», ma «E adesso Marine Le Pen all'Eliseo?». La sconvolgente conseguenza politica della carneficina, osserva l'esperto di esteri di Repubblica , è infatti che si rafforzano «i partiti xenofobi in tutta l'Europa», mentre sarebbe bene si rafforzasse il centrosinistra che piace più a De Benedetti. Adesso «una vittoria di Marine Le Pen nella corsa all'Eliseo è più probabile», mentre la Lega Nord e le formazioni «anti-immigrati» in ascesa ovunque «raccoglieranno più consensi». Ci sarebbe da arrestare i terroristi solo per il favore fatto a Le Pen e Salvini. Terrorizzato anche Khalid Chaouki, deputato Pd di origine marocchina, tra i fondatori dei Giovani Musulmani d'Italia : «Questa tragedia rischia di trasformarsi in un'occasione d'oro per l'estrema destra francese e italiana e per gli ambienti antislamici - scrive preoccupato su Il Garantista - Temo che Marine Le Pen non si lascerà sfuggire l'occasione di cavalcare l'ondata emotiva francese e soffiare sul fuoco pericoloso dell'islamofobia; perciò è doveroso ribadire con forza che noi siamo contro il terrorismo di qualsiasi matrice ma anche contro l'islamofobia, che ne è l'altra faccia». Le feroci cellule islamofobe, fagocitate dai famosi «ambienti antislamici». Gente pericolosa da cui difendersi. Nessun problema culturale di integrazione dell'Islam trova invece l'ex ministro (per mancanza di prove, direbbe Dagospia ) Cécile Kyenge, miracolata da un seggio all'Europarlamento, che invece ravvede una seria minaccia nei fondamentalisti delle brigate Salvini, riconoscibili dalle felpe: «L'unico problema culturale lo ha creato chi come Salvini e la Lega Nord avvelena la società con i suoi proclami di odio e emargina il diverso, stigmatizzandolo» spiega l'ex ministra di origine congolese, che poi mette sullo stesso piano l'Isis e la Lega Nord. «Dobbiamo fermare tutti i moderni califfi fomentatori di odio, inclusi i nuovi professionisti dell'odio politico» come l'odiato Salvini. Sempre dal Pd è il giorno di Lia Quartapelle, giovane promessa di partito alla Farnesina e poi sfumata, che su La7 ha ripetuto la vecchia storia sulle paure sfruttate dagli estremisti di destra, «che fanno lo stesso gioco dei terroristi», mentre «nessun terrorismo è di matrice religiosa». Tutti allievi, però, di Laura Boldrini, che vorrebbe persino epurare il dizionario: «la parola “clandestino” - spiegò - andrebbe cancellata, è carica di pregiudizio e negatività». Gli islamofobi, invece, direttamente ai campi di rieducazione.

A Servizio Pubblico l'islam che sta coi macellai di Parigi: "Fascisti, se la sono cercata". Gli inviati di Santoro nelle banlieue francesi danno voce alla rabbia dei musulmani: "Hanno fatto bene ad ammazzarli, erano razzisti", scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. È la storia di due ragazzi di banlieue sprofondati nell’abisso dell’estremismo e del terrore. Sono Cherif e Said Kouachi, i due franco-algerini di 32 e 34 anni, che ieri hanno insanguinato la Francia nella strage contro Charlie Hebdo.  Eppure, il primo era ben noto all’antiterrorismo di Parigi, condannato nel 2008 per aver partecipato alla filiera delle Buttes-Chaumont, cellula islamica del nord della capitale che tra il 2003 e il 2005 era impegnata nella recluta di combattenti per al Qaeda in Iraq. Ed è proprio in queste banlieue che, ieri sera, Servizio Pubblico ha portato le proprie telecamere. Nel salotto di Michele Santoro va in scena il volto violento dell'islam. "Hanno fatto bene ad ammazzarli - tuona un intervistato - erano razzisti". "Non sono stati gli islamici - fa eco un altro - è tutta una trappola". La strage alla redazione parigina di Charlie Hebdo fa da margine. Eppure le dodici persone ammazzate gridano ancora vendetta. I jihadisti che le hanno fatte fuori a colpi di kalashnikov sono ancora a piede libero. E a Servizio Pubblico c'è pure chi li giustifica, chi li difende, chi è pronto a stare dalla loro parte. Dalla parte dei violenti. Per Santoro, invece, è l'occasione buona per invitare i francesi a non votare il Front National di Marine Le Pen. Perché, a conti fatti, l'unica paura della sinistra è che alla fine vincano i partiti che loro considerano "islamofobi". Dal Partito democratico all'intellighenzia progrsessista non c'è una voce che grida contro il violento diffondersi dell'estremismo islamico. Sono tutti concentrati a tuonare contro la destra che, dall'Italia alla Francia, vede crescere i propri consensi di giorno in giorno. Eppure gli stessi servizi trasmessi dagli inviati di Servizio Pubblico parlano chiaro. Il quartiere di Saint Denis è la fotografia della polveriera su cui siede l'intera europa. Qui la concentrazione di immigrati è altissima. La stragrande maggioranza sono di fede islamica. E sono pronti a difendere, anche davanti alle telecamere, il massacro alla redazione di Charlie Hebdo. "Adesso daranno la colpa a noi - si lamenta un giovane - è sempre così". "Se è successo quello che è successo - fa eco un altro - è perché qualche colpa quelli di Charlie Hebdo ce l'hanno avuta". E ancora: "Se si offende il Profeta è naturale che qualcuno si vendichi". Mentre nelle piazze parigine si manifesta al grido Je suis Charlie, a Saint Denis di solidarietà per le dodici persone ammazzate non c'è spazio. Anche a Reims, città dei fratelli Said e Cherif Kouachi, la musica è la stessa. Nel quartiere di Croix Rouge, dove vivevano i due terroristi islamici, sono molti disposti a difenderli: "Li conoscevo, non sono terroristi". "Non possono essere stati loro - assicura un altro - è tutto un complotto".

Non eravate americani, ora non siete Charlie. Ieri come oggi dichiararsi tutti paladini della libertà è una menzogna vigliacca. Perché abbiamo rinunciato da tempo alla certezza di stare dalla parte giusta, scrive Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. Bugiardi, quelli che dicono o scrivono «Siamo tutti Charlie Hebdo». Mentono ora, come hanno mentito quasi 14 anni fa, quando scrivevano o dicevano «siamo tutti americani», all'indomani dell'11 settembre. È una vigliacca menzogna e qui non si parla del sentirsi oggi paladini della libertà di stampa e di satira. Qui si parla di molto di più. Dell'Occidente che si mette sul petto o sull'account dei social network lo slogan per sentirsi parte di qualcosa alla quale in realtà ha rinunciato da tempo: la certezza di stare dalla parte giusta. Ci abbiamo rinunciato quando abbiamo accettato che passasse la filosofia dei «distinguo». Il fanatismo islamico non conosce differenze: colpisce Stati e persone, militari e civili, cultura e satira. Uccide senza pietà, come ha fatto a Parigi. E la nostra risposta è il dubbio che in fondo ce la siamo cercata. O di più: che magari ci sia sotto la complicità o la manina di chissà quale potere o servizio segreto. La teoria del complotto sulla strage di Charlie Hebdo adesso appartiene a Beppe Grillo, ma presto penetrerà un pezzetto alla volta esattamente come è accaduto 14 anni fa per le Torri Gemelle. È uno dei sintomi della nostra sconfitta preventiva, questo. Aiuta la rimozione, la presa di distanza dall'evento che sconvolge le nostre coscienze nell'immediato, ma poi passa via. Il paragone con l'11 settembre sta in questo: è un ricordo sbiadito, una memoria residua, una rievocazione appannata. Dov'è finito il «siamo tutti americani» del giorno dopo? Non c'è: è sparito così in fretta da non lasciare più spazio nemmeno alla retorica. Quattordici anni sono pochi per ridurre solo a una data il momento che ha cambiato la storia, eppure non c'è un altro fatto che sia diventato passato con la stessa velocità. Sembra che l'Occidente abbia un pudore tutto suo ad alimentare la memoria e a piangere i propri morti: qualcosa che assomiglia alla paura di dare fastidio all'islam e alla vergogna per essersi sentiti tutti colpiti al cuore. Ricordiamo ossessivamente il 25 aprile, nonostante molti di noi non fossero neanche nati quel giorno e invece dimentichiamo l'11 settembre che invece abbiamo vissuto in diretta. Il secondo sintomo della nostra sconfitta sta nell'incapacità di accettare che a una guerra sporca si risponde con leggi straordinarie e a volte anche con qualcosa che sta al confine con la legge. L'hanno fatto tutti i Paesi occidentali quando hanno battuto il terrorismo domestico. Con il terrore internazionale no. Di più, abbiamo messo in discussione tutto: l'apertura di Guantanamo, gli interrogatori ai presunti terroristi, gli arresti dei sospetti. Abbiamo fatto passare i servizi segreti di tutto il mondo per criminali. Abbiamo rinunciato di fatto alla guerra in Afghanistan, convinti che i presupposti fossero sbagliati. Così via alla guerra del drone che ha pulito molte coscienze, ma in realtà ha fatto molti più morti. Anche la clamorosa campagna di autocritica sulle torture è stata un errore colossale. Noi processiamo (soprattutto noi stessi), loro fanno stragi. Allora, che significato ha il nostro senso di colpa? È una sconfitta doppia, perché rende l'Occidente ancora più vulnerabile. Qualcuno davvero pensa che se i governi avessero usato o usassero solo mezzi totalmente leciti la violenza cesserebbe o si ridurrebbe? No. Anzi, forse è il contrario. L'Occidente darebbe il segnale della sua debolezza e presterebbe il fianco a un'escalation del fanatismo. I fondamentalisti attaccano nel centro di una metropoli europea con i kalashnikov e noi applichiamo leggi ordinarie? Non abbiamo capito. Non capiamo. Non capisce soprattutto la politica, assente da 14 anni nel dibattito sulla guerra al terrorismo. Guardate l'imbarazzante reazione dell'Europa ai fatti di Parigi: non una sola voce comune, né tantomeno una voce forte di condanna o di presa d'atto che si tratta di una guerra dichiarata sul nostro territorio. L'Europa non esiste, punto. E più che sull'euro, sulla crisi, sull'austerità, lo dimostra sul terrorismo. Siamo in balia della nostra apatia e della nostra ideologia remissiva: la verità è che ci siamo autoconvinti che l'Occidente sia colpevole. Le immagini di Parigi hanno fatto rimbalzare quelle di Londra 2013, quando due inglesi di origine nigeriana uccisero sgozzandoli due agenti nell'indifferenza collettiva. Nessuna reazione. Paura, punto. L'Occidente si protegge chiedendo scusa. Perché? Ci siamo dimenticati che non siamo noi quelli dalla parte sbagliata. Ci siamo dimenticati che noi siamo le vittime.

Sull'islam aveva ragione quella "pazza" di Oriana Fallaci. L'odio per l'Occidente, il fallimento dell'integrazione: in queste righe sembra di leggere la cronaca di oggi, scrive Oriana Fallaci su “Il Giornale”. Leggete queste righe come fossero un saggio scritto ieri, e avrete una valida analisi dei fatti di attualità degli ultimi giorni. Ma, com'è ovvio, le righe che seguono sono state scritte da Oriana Fallaci non in queste ore, ma all'indomani dell'11 settembre del 2001, dopo l'attacco alle Torri Gemelle. Parole scritte con rabbia e con l'intensità di cui lei era capace, ma anche con coraggio. Un coraggio che dette fastidio a chi preferiva non intendere le sue ragioni. Abbiamo deciso di ripubblicare un estratto dei suoi scritti sul rapporto tra l'Islam e l'Occidente, che si possono leggere in versione integrale nei libri editi da Rizzoli:

Con "La rabbia e l'orgoglio" (2001), Oriana Fallaci rompe un silenzio durato dieci anni, dalla pubblicazione di "Insciallah", epico romanzo sulla missione occidentale di pace nella Beirut dilaniata dallo scontro tra cristiani e musulmani e dalle faide con Israele. Dieci anni in cui la Fallaci sceglie di vivere ritirata nella sua casa newyorchese, come in esilio, a combattere il cancro. Ma non smette mai di lavorare al testo narrativo dedicato alla sua famiglia, quello che lei chiama "il-mio-bambino", pubblicato postumo nel 2008, "Un cappello pieno di ciliege". L'undici settembre le impone di tornare con furia alla macchina da scrivere per dar voce a quelle idee che ha sempre coltivato nelle interviste, nei reportage, nei romanzi, ma che ha poi "imprigionato dentro il cuore e dentro il cervello" dicendosi "tanto-la-gente-non-vuole-ascoltare". Il risultato è un articolo sul "Corriere della Sera" del 29 settembre 2001, un sermone lo definisce lei stessa, accolto con enorme clamore in Italia e all'estero. Esce in forma di libro nella versione originaria e integrale, preceduto da una prefazione in cui la Fallaci affronta alle radici la questione del terrorismo islamico e parla di sé, del suo isolamento, delle sue scelte rigorose e spietate. La risposta è esplosiva, le polemiche feroci. Mentre i critici si dividono, l'adesione dei lettori, in tutto il mondo, è unanime di fronte alla passione che anima queste pagine.

"La forza della ragione" (2004) voleva essere solo un post-scriptum intitolato "Due anni dopo", cioè una breve appendice a "La rabbia e l'orgoglio". Ma quando ebbe concluso il lavoro, Oriana Fallaci si rese conto di aver scritto un altro libro. L'autrice parte stavolta dalle minacce di morte ricevute per "La rabbia e l'orgoglio" e, identificandosi in tal Mastro Cecco che a causa di un libro venne bruciato vivo dall'Inquisizione, si presenta come una Mastra Cecca che, eretica irriducibile e recidiva, sette secoli dopo fa la stessa fine. Tra il primo e il secondo rogo, l'analisi di ciò che chiama l'Incendio di Troia, ossia di un'Europa che a suo giudizio non è più Europa, ma Eurabia, colonia dell'Islam.

Oriana Fallaci intervista se stessa (2004).  “Scrivere per libertà e disobbedienza”: è il monito che ha sempre guidato Oriana Fallaci e che ha ispirato anche questo libro, terzo e ultimo volume della Trilogia iniziata con La Rabbia e l’Orgoglio (2001) e proseguita con La Forza della Ragione (2004). Completando le sue riflessioni sul declino morale e intellettuale della nostra civiltà, la grande scrittrice costruisce una lunga intervista a sé stessa e la arricchisce con uno straordinario Post-Scriptum che si rifà all’Apocalisse dell’evangelista Giovanni. Con la sua scrittura magistrale, potente, provocatoria, la Fallaci ci offre un’accorata testimonianza della sua vita e del suo pensiero: scrive con la consueta schiettezza di terrorismo islamico e della crisi europea, racconta la sua lotta contro il cancro, rimarca principi etici da difendere senza compromessi, colpisce con durissimi fendenti la pavidità della politica e traccia il ritratto senza sconti di un Occidente rassegnato e indifeso, sempre più prossimo al rischio di andare in frantumi.

Un atto di giustizia rileggerli oggi che il quadro è ancora più chiaro e molti, che le davano della pazza, sono costretti ad ammettere che invece ci aveva visto giusto.

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Sono anni che come una Cassandra mi sgolo a gridare «Troia brucia, Troia brucia». Anni che ripeto al vento la verità sul Mostro e sui complici del Mostro cioè sui collaborazionisti che in buona o cattiva fede gli spalancano le porte. Che come nell'Apocalisse dell'evangelista Giovanni si gettano ai suoi piedi e si lasciano imprimere il marchio della vergogna. Incominciai con La Rabbia e l'Orgoglio . Continuai con La Forza della Ragione . Proseguii con Oriana Fallaci intervista sé stessa e con L'Apocalisse . I libri, le idee, per cui in Francia mi processarono nel 2002 con l'accusa di razzismo-religioso e xenofobia. Per cui in Svizzera chiesero al nostro ministro della Giustizia la mia estradizione in manette. Per cui in Italia verrò processata con l'accusa di vilipendio all'Islam cioè reato di opinione. Libri, idee, per cui la Sinistra al Caviale e la Destra al Fois Gras ed anche il Centro al Prosciutto mi hanno denigrata vilipesa messa alla gogna insieme a coloro che la pensano come me. Cioè insieme al popolo savio e indifeso che nei loro salotti viene definito dai radical-chic «plebaglia-di-destra». E sui giornali che nel migliore dei casi mi opponevano farisaicamente la congiura del silenzio ora appaiono titoli composti coi miei concetti e le mie parole. Guerra-all'Occidente, Culto-della-Morte, Suicidio-dell'Europa, Sveglia-Italia-Sveglia.

Il nemico è in casa. Continua la fandonia dell'Islam «moderato», la commedia della tolleranza, la bugia dell'integrazione, la farsa del pluriculturalismo. E con questa, il tentativo di farci credere che il nemico è costituito da un'esigua minoranza e che quella esigua minoranza vive in Paesi lontani. Be', il nemico non è affatto un'esigua minoranza. E ce l'abbiamo in casa. Ed è un nemico che a colpo d'occhio non sembra un nemico. Senza la barba, vestito all'occidentale, e secondo i suoi complici in buona o in malafede perfettamente-inserito-nel-nostro-sistema-sociale. Cioè col permesso di soggiorno. Con l'automobile. Con la famiglia. E pazienza se la famiglia è spesso composta da due o tre mogli, pazienza se la moglie o le mogli le fracassa di botte, pazienza se non di rado uccide la figlia in blue jeans, pazienza se ogni tanto suo figlio stupra la quindicenne bolognese che col fidanzato passeggia nel parco. È un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità. Un nemico che in nome dell'umanitarismo e dell'asilo politico accogliamo a migliaia per volta anche se i Centri di accoglienza straripano, scoppiano, e non si sa più dove metterlo. Un nemico che in nome della «necessità» (ma quale necessità, la necessità di riempire le strade coi venditori ambulanti e gli spacciatori di droga?) invitiamo anche attraverso l'Olimpo Costituzionale. «Venite, cari, venite. Abbiamo tanto bisogno di voi». Un nemico che le moschee le trasforma in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi, e che obbedisce ciecamente all'imam. Un nemico che in virtù della libera circolazione voluta dal trattato di Schengen scorrazza a suo piacimento per l'Eurabia sicché per andare da Londra a Marsiglia, da Colonia a Milano o viceversa, non deve esibire alcun documento. Può essere un terrorista che si sposta per organizzare o materializzare un massacro, può avere addosso tutto l'esplosivo che vuole: nessuno lo ferma, nessuno lo tocca.

Il crocifisso sparirà. Un nemico che appena installato nelle nostre città o nelle nostre campagne si abbandona alle prepotenze ed esige l'alloggio gratuito o semi-gratuito nonché il voto e la cittadinanza. Tutte cose che ottiene senza difficoltà. Un nemico che ci impone le proprie regole e i propri costumi. Che bandisce il maiale dalle mense delle scuole, delle fabbriche, delle prigioni. Che aggredisce la maestra o la preside perché una scolara bene educata ha gentilmente offerto al compagno di classe musulmano la frittella di riso al marsala cioè «col liquore». E-attenta-a-non-ripeter-l'oltraggio. Un nemico che negli asili vuole abolire anzi abolisce il Presepe e Babbo Natale. Che il crocifisso lo toglie dalle aule scolastiche, lo getta giù dalle finestre degli ospedali, lo definisce «un cadaverino ignudo e messo lì per spaventare i bambini musulmani». Un nemico che in Inghilterra s'imbottisce le scarpe di esplosivo onde far saltare in aria il jumbo del volo Parigi-Miami. Un nemico che ad Amsterdam uccide Theo van Gogh colpevole di girare documentari sulla schiavitù delle musulmane e che dopo averlo ucciso gli apre il ventre, ci ficca dentro una lettera con la condanna a morte della sua migliore amica. Il nemico, infine, per il quale trovi sempre un magistrato clemente cioè pronto a scarcerarlo. E che i governi eurobei (ndr: non si tratta d'un errore tipografico, voglio proprio dire eurobei non europei) non espellono neanche se è clandestino.

Dialogo tra civiltà. Apriti cielo se chiedi qual è l'altra civiltà, cosa c'è di civile in una civiltà che non conosce neanche il significato della parola libertà. Che per libertà, hurryya, intende «emancipazione dalla schiavitù». Che la parola hurryya la coniò soltanto alla fine dell'Ottocento per poter firmare un trattato commerciale. Che nella democrazia vede Satana e la combatte con gli esplosivi, le teste tagliate. Che dei Diritti dell'Uomo da noi tanto strombazzati e verso i musulmani scrupolosamente applicati non vuole neanche sentirne parlare. Infatti rifiuta di sottoscrivere la Carta dei Diritti Umani compilata dall'Onu e la sostituisce con la Carta dei Diritti Umani compilata dalla Conferenza Araba. Apriti cielo anche se chiedi che cosa c'è di civile in una civiltà che tratta le donne come le tratta. L'Islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà.

Una strage in Italia? La strage toccherà davvero anche a noi, la prossima volta toccherà davvero a noi? Oh, sì. Non ne ho il minimo dubbio. Non l'ho mai avuto. E aggiungo: non ci hanno ancora attaccato in quanto avevano bisogno della landing-zone, della testa di ponte, del comodo avamposto che si chiama Italia. Comodo geograficamente perché è il più vicino al Medio Oriente e all'Africa cioè ai Paesi che forniscono il grosso della truppa. Comodo strategicamente perché a quella truppa offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà. Ma presto si scateneranno. Molti italiani non ci credono ancora. Si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi.

Multiculturalismo, che panzana. L'Eurabia ha costruito la panzana del pacifismo multiculturalista, ha sostituito il termine «migliore» col termine «diverso-differente», s'è messa a blaterare che non esistono civiltà migliori. Non esistono principii e valori migliori, esistono soltanto diversità e differenze di comportamento. Questo ha criminalizzato anzi criminalizza chi esprime giudizi, chi indica meriti e demeriti, chi distingue il Bene dal Male e chiama il Male col proprio nome. Che l'Europa vive nella paura e che il terrorismo islamico ha un obbiettivo molto preciso: distruggere l'Occidente ossia cancellare i nostri principii, i nostri valori, le nostre tradizioni, la nostra civiltà. Ma il mio discorso è caduto nel vuoto. Perché? Perché nessuno o quasi nessuno l'ha raccolto. Perché anche per lui i vassalli della Destra stupida e della Sinistra bugiarda, gli intellettuali e i giornali e le tv insomma i tiranni del politically correct , hanno messo in atto la Congiura del Silenzio. Hanno fatto di quel tema un tabù.

Conquista demografica. Nell'Europa soggiogata il tema della fertilità islamica è un tabù che nessuno osa sfidare. Se ci provi, finisci dritto in tribunale per razzismo-xenofobia-blasfemia. Ma nessun processo liberticida potrà mai negare ciò di cui essi stessi si vantano. Ossia il fatto che nell'ultimo mezzo secolo i musulmani siano cresciuti del 235 per cento (i cristiani solo del 47 per cento). Che nel 1996 fossero un miliardo e 483 milioni. Nel 2001, un miliardo e 624 milioni. Nel 2002, un miliardo e 657 milioni. Nessun giudice liberticida potrà mai ignorare i dati, forniti dall'Onu, che ai musulmani attribuiscono un tasso di crescita oscillante tra il 4,60 e il 6,40 per cento all'anno (i cristiani, solo 1'1 e 40 per cento). Nessuna legge liberticida potrà mai smentire che proprio grazie a quella travolgente fertilità negli anni Settanta e Ottanta gli sciiti abbiano potuto impossessarsi di Beirut, spodestare la maggioranza cristiano-maronita. Tantomeno potrà negare che nell'Unione Europea i neonati musulmani siano ogni anno il dieci per cento, che a Bruxelles raggiungano il trenta per cento, a Marsiglia il sessanta per cento, e che in varie città italiane la percentuale stia salendo drammaticamente sicché nel 2015 gli attuali cinquecentomila nipotini di Allah da noi saranno almeno un milione.

Addio Europa, c'è l'Eurabia. L'Europa non c'è più. C'è l'Eurabia. Che cosa intende per Europa? Una cosiddetta Unione Europea che nella sua ridicola e truffaldina Costituzione accantona quindi nega le nostre radici cristiane, la nostra essenza? L'Unione Europea è solo il club finanziario che dico io. Un club voluto dagli eterni padroni di questo continente cioè dalla Francia e dalla Germania. È una bugia per tenere in piedi il fottutissimo euro e sostenere l'antiamericanismo, l'odio per l'Occidente. È una scusa per pagare stipendi sfacciati ed esenti da tasse agli europarlamentari che come i funzionari della Commissione Europea se la spassano a Bruxelles. È un trucco per ficcare il naso nelle nostre tasche e introdurre cibi geneticamente modificati nel nostro organismo. Sicché oltre a crescere ignorando il sapore della Verità le nuove generazioni crescono senza conoscere il sapore del buon nutrimento. E insieme al cancro dell'anima si beccano il cancro del corpo.

Integrazione impossibile. La storia delle frittelle al marsala offre uno squarcio significativo sulla presunta integrazione con cui si cerca di far credere che esiste un Islam ben distinto dall'Islam del terrorismo. Un Islam mite, progredito, moderato, quindi pronto a capire la nostra cultura e a rispettare la nostra libertà. Virgilio infatti ha una sorellina che va alle elementari e una nonna che fa le frittelle di riso come si usa in Toscana. Cioè con un cucchiaio di marsala dentro l'impasto. Tempo addietro la sorellina se le portò a scuola, le offrì ai compagni di classe, e tra i compagni di classe c'è un bambino musulmano. Al bambino musulmano piacquero in modo particolare, così quel giorno tornò a casa strillando tutto contento: «Mamma, me le fai anche te le frittelle di riso al marsala? Le ho mangiate stamani a scuola e...». Apriti cielo. L'indomani il padre di detto bambino si presentò alla preside col Corano in pugno. Le disse che aver offerto le frittelle col liquore a suo figlio era stato un oltraggio ad Allah, e dopo aver preteso le scuse la diffidò dal lasciar portare quell'immondo cibo a scuola. Cosa per cui Virgilio mi rammenta che negli asili non si erige più il Presepe, che nelle aule si toglie dal muro il crocifisso, che nelle mense studentesche s'è abolito il maiale. Poi si pone il fatale interrogativo: «Ma chi deve integrarsi, noi o loro?».

L'islam moderato non esiste. Il declino dell'intelligenza è il declino della Ragione. E tutto ciò che oggi accade in Europa, in Eurabia, ma soprattutto in Italia è declino della Ragione. Prima d'essere eticamente sbagliato è intellettualmente sbagliato. Contro Ragione. Illudersi che esista un Islam buono e un Islam cattivo ossia non capire che esiste un Islam e basta, che tutto l'Islam è uno stagno e che di questo passo finiamo con l'affogar dentro lo stagno, è contro Ragione. Non difendere il proprio territorio, la propria casa, i propri figli, la propria dignità, la propria essenza, è contro Ragione. Accettare passivamente le sciocche o ciniche menzogne che ci vengono somministrate come l'arsenico nella minestra è contro Ragione. Assuefarsi, rassegnarsi, arrendersi per viltà o per pigrizia è contro Ragione. Morire di sete e di solitudine in un deserto sul quale il Sole di Allah brilla al posto del Sol dell'Avvenir è contro Ragione.

Ecco cos'è il Corano. Perché non si può purgare l'impurgabile, censurare l'incensurabile, correggere l'incorreggibile. Ed anche dopo aver cercato il pelo nell'uovo, paragonato l'edizione della Rizzoli con quella dell'Ucoii, qualsiasi islamista con un po' di cervello ti dirà che qualsiasi testo tu scelga la sostanza non cambia. Le Sure sulla jihad intesa come Guerra Santa rimangono. E così le punizioni corporali. Così la poligamia, la sottomissione anzi la schiavizzazione della donna. Così l'odio per l'Occidente, le maledizioni ai cristiani e agli ebrei cioè ai cani infedeli.

La Parigi della Fallaci capitale d'Eurabia e dei collaborazionisti. Nella Trilogia, molti passi sulla Francia ormai contro-colonizzata dall'immigrazione musulmana. Colpa (anche) degli intellettuali,, scrive Alessandro Gnocchi su “Il Giornale”. Secondo Oriana Fallaci, Parigi era la capitale d'Eurabia. Quest'ultimo termine, introdotto nel dibattito dalla storica Bat Ye'Or (in Eurabia , Lindau), descrive il futuro del Vecchio Continente dilaniato al suo interno dallo scontro con l'islam. Alla radice ci sono gli accordi di cooperazione tra Europa e Paesi arabi firmati negli anni Settanta. L'Europa avrebbe fornito tecnologia ai Paesi arabi in cambio di greggio e manodopera. Si teorizzava la necessità di una forte immigrazione, presto diventata accesso incontrollato, verso le nostre sponde. La massiccia presenza di stranieri in Europa, secondo la Fallaci, era il cavallo di Troia di una colonizzazione al contrario. Rileggiamo La Forza della Ragione (Rizzoli, 2004). Per i difensori dell'Occidente, Parigi è persa. «Non è facile avere coraggio in un Paese dove esistono più di tremila moschee» e i musulmani sono così numerosi (ben oltre l'ufficiale dieci per cento della popolazione). In Francia «il razzismo islamico cioè l'odio per i cani-infedeli regna sovrano e non viene mai processato, mai punito». Gli imam dichiarano di voler sfruttare la democrazia «per occupare territorio» e sovvertire le leggi laiche in favore della sharia. L'antisemitismo è in crescita. I quartieri di troppe città, stravolte dal cambiamento demografico, hanno perso l'identità francese per acquisire quella magrebina. Di fronte a queste tesi, l'intellighentia scese compatta in campo per screditare la Fallaci. La giornalista fu tra i primi, in Europa, a sperimentare strumenti ed effetti del politicamente corretto. Ripercorriamo questa vicenda esemplare. La Rabbia e l'Orgoglio (Rizzoli) esce a Parigi nel maggio 2002. Mentre la prima tiratura di 25 mila copie va esaurita in due settimane, gli intellettuali si esibiscono sui giornali. Ad aprire la polemica è il settimanale Le Point . Secondo il filosofo Bernard-Henri Lévy, il libro della Fallaci è paragonabile alle peggiori opere antisemite come Bagatelle per un massacro di Louis-Ferdinand Céline: «È un libro razzista. Con meno talento, è un Bagatelle antiarabo». Stessa linea per Françoise Giroud su Le Nouvel Observateur : «La Fallaci tocca nel lettore qualcosa di profondo, d'inconfessato, che egli negherà sempre di aver pensato ma che queste pagine cariche di odio e di disprezzo rischiano di illuminare brutalmente». Il sociologo Gilles Kepel su Le Monde imputa al libro di aver sancito la vittoria di Osama bin Laden, trascinando l'Occidente sul campo della reazione isterica. Una voce fuori dal coro? Charlie Hebdo ammette la verità di fondo del libro. Ma anche il settimanale satirico, di fronte alla reazione dei lettori, è costretto a «ritrattare» (in parte). All'inizio di giugno, la Fallaci risponde sul Corriere della Sera . L'articolo Eppure con la Francia non sono arrabbiata è accompagnato da brani composti in francese per La Rabbia e l'Orgoglio e ora tradotti in italiano. In breve: la specie tutta europea dei «voltagabbana» (o collaborazionisti) trova la sua origine e massima espressione in Francia fin dal Medioevo. Tra i voltagabbana più abili nello schierarsi sempre dalla parte vincente, ci sono gli intellettuali. Oggi ha vinto il politicamente corretto. E quindi... «Queste creature patetiche, inutili, questi parassiti. Questi falsi sanculotti che vestiti da ideologi, giornalisti, scrittori, teologi, cardinali, attori, commentatori, puttane à la page, grilli canterini, giullari usi a leccare i piedi ai Khomeini e ai Pol Pot, dicono solo ciò che gli viene ordinato di dire. Ciò che gli serve a entrare o restare nel jet-set pseudointellettuale, a sfruttarne i vantaggi e i privilegi, a guadagnar soldi». Gli intellettuali hanno rimpiazzato l'ideologia marxista con la «viscida ipocrisia» che «in nome della Fraternité (sic) predica il pacifismo a oltranza cioè ripudia perfino la guerra che abbiamo combattuto contro i nazifascismi di ieri, canta le lodi degli invasori e crucifigge i difensori». La cultura è il regno delle mode. La moda «o meglio l'inganno che in nome dell'Humanitarisme (sic) assolve i delinquenti e condanna le vittime, piange sui talebani e sputa sugli americani, perdona tutto ai palestinesi e nulla agli israeliani». La moda «o meglio la demagogia che in nome dell'Égalité (sic) rinnega il merito e la qualità, la competizione e il successo». La moda «o meglio la cretineria che in nome della Justice (sic) abolisce le parole del vocabolario e chiama gli spazzini “operatori ecologici”». La moda «o meglio la disonestà, l'immoralità, che definisce “tradizione locale” e “cultura diversa” l'infibulazione ancora eseguita in tanti paesi musulmani». La moda di magnificare le conquiste culturali dell'islam per farlo apparire superiore all'Occidente. E infine la moda «che permette di stabilire un nuovo terrorismo intellettuale: quello di sfruttare a proprio piacimento il termine “razzismo”. Non sanno che cosa significa eppure lo usano lo stesso». Passano dieci giorni. Tre associazioni francesi denunciano la Fallaci per islamofobia e incitazione al razzismo. Era accaduto, poco prima, anche a Michel Houellebecq, a causa dei duri giudizi sull'islam contenuti nel romanzo Piattaforma (Bompiani) e ribaditi in un'intervista. Il tribunale di Parigi assolve la Fallaci mentre La Rabbia e l'Orgoglio supera le duecentomila copie. Quanta fatica sprecata per liquidare la Fallaci. Oriana guardava lontano mentre gli intellettuali non si sono accorti dei processi storici e delle ideologie di morte che hanno davanti agli occhi.

Magdi come la Fallaci processati per le loro idee. La scrittrice finì alla sbarra in Italia, Francia e Svizzera per i suoi scritti sul pericolo islamico E anche lei diceva: «Non mi faccio intimidire», scrive “Il Giornale”. L i chiamava «i miei trofei». E di «trofei», alias processi per reato d'opinione a causa delle idee sull'islam espresse in libri e articoli, Oriana Fallaci ne ha subiti diversi nel corso della sua vita, in tutta Europa, dalla Francia alla Svizzera. E naturalmente pure in Italia, anche se l'ultimo, a Bergamo, è cominciato a giugno del 2006, due mesi prima che lei morisse, il 15 settembre. Oriana Fallaci come Magdi Cristiano Allam, anzi molto di più. A parte «l'amicizia complessa», così la definì Allam quando lei morì, che li legava sul fronte comune della denuncia dei pericoli del fondamentalismo islamico e del suo radicamento in Europa, c'è anche la persecuzione per via giudiziaria delle opinioni che li accomuna. Per Allam, oggi, si tratta di un procedimento avviato dal Consiglio di disciplina nazionale dell'Ordine dei giornalisti che lo accusa di «islamofobia». Per la Fallaci, all'epoca, erano invece veri e propri processi penali, per vilipendio all'islam, razzismo, xenofobia. La sostanza, però, non cambia: vietato essere critici nei confronti dei musulmani, pena la gogna, anche giudiziaria. Si arrabbiava, la Fallaci, per quei quattro processi: due in Francia, a partire dal 2002 (quello per «razzismo», nel 2003, si chiuse con la sua assoluzione) e uno in Svizzera, tutti legati a La rabbia e l'orgoglio ; e un altro in Italia, nel 2006, finito con la sua morte. Li chiamava sì trofei ma li riteneva profondamente ingiusti. Ecco come lei stessa li raccontava a novembre del 2005 nel discorso di ringraziamento per il conferimento dell' Annie Taylor Award , il cui testo è stato pubblicato qualche giorno fa da Libero : «I trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni Paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle , la Patrie du Laïcisme , la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité , dove per vilipendio all'islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste , dove tre anni fa gli ebrei francesi della Licra (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica in fronte) si unì ai musulmani francesi del Mrap (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l'Orgueil (La rabbia e l'orgoglio, ma la richiesta fu respinta, ndr ) o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: “Attenzione! Questo libro può costituire un pericolo per la vostra salute mentale”. Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweits , la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il ministro della Giustizia osò chiedere al mio ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell'islam viene impartita nel mio paese». Era furibonda, la Fallaci, per il processo di Bergamo, legato ad alcune affermazioni contenute in La forza della ragione . Un processo travagliato, partito dalla denuncia, nel 2004, di Adel Smith, il presidente all'epoca del'Unione dei Musulmani d'Italia che aveva definito il crocifisso un «cadaverino nudo inventato per spaventare i bambini musulmani». Il pm aveva chiesto l'archiviazione per la Fallaci, ma il gip l'aveva rigettata, imponendo l'imputazione coatta. Ecco cosa scriveva la stessa Fallaci a luglio del 2005, sul Corriere della Sera , nel celebre articolo dopo gli attentati di Londra «Il nemico che trattiamo da amico» : «Mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all'islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al cristianesimo. Nonché per istigazione all'omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l'esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi, anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo Van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro dell'Interno dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia». Al processo, iniziato il 9 giugno del 2006, la Fallaci non si presentò per scelta. Per quel processo ricevette attestati di solidarietà da mezzo mondo, pure dall'ex presidente polacco Lech Walesa. E quel processo finì nel nulla. Alla fine lo beffò la morte della giornalista e scrittrice, il 15 settembre del 2006.

La guerra siriana si combatteva in Italia. Tra il 2011 e il 2012 sono state commesse, tra Milano e Roma, più di venti azioni violente di chiara matrice jihadista con obiettivo soprattutto i cristiani. A rivelarlo è un'indagine della polizia e dai magistrati anti-terrorismo, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso. Un piccolo spezzone della guerra civile siriana si è combattuto in Italia. Ma era ancora troppo presto per capirlo. Tra il 2011 e il 2012 sono state commesse, tra Milano e Roma, più di venti azioni violente di chiara matrice jihadista: ferimenti, aggressioni, pestaggi, danneggiamenti, devastazioni, minacce e intimidazioni. Le vittime appartengono alle minoranze politico-religiose più perseguitate dalle milizie islamiste in Siria: le violenze in Italia hanno colpito soprattutto cristiani. A rivelarlo è un'indagine, avviata dalla polizia e dai magistrati anti-terrorismo di Milano, che viene ricostruita in un articolo del settimanale “l'Espresso”. Da quando è esplosa la guerra civile in Siria, le forze di polizia di tutti i Paesi occidentali hanno cominciato a sorvegliare le partenze degli estremisti verso i fronti di guerra. A Milano la Digos ha messo sotto controllo, in particolare, un gruppo di siriani residenti da anni tra Milano, Como e Monza: spariti dall’Italia, sono ricomparsi, mitra in pugno, in una serie di foto e video pubblicati su Internet tra febbraio e luglio del 2012. Solo a quel punto la polizia, ricostruendo le loro precedenti attività in Italia, ha scoperto che quegli stessi jihadisti siriani avevano già colpito, segretamente, anche a casa nostra. L’unica azione visibile si è svolta nella notte del 10 febbraio 2012 nel centro di Roma: un plotone di oppositori siriani ha dato l’assalto all’ambasciata di Damasco, che è stata occupata e devastata. Quel raid di protesta contro il regime del presidente-dittatore Bashar El-Assad è stato organizzato proprio dal gruppo di estremisti che poi sono partiti per la guerra in Siria. Nei mesi successivi le indagini della polizia hanno collegato alla stessa cellula jihadista molte altre azioni violente, mai denunciate per paura. Tra le vittime, due siriani di fede cristiana, che gestivano un bar a Cologno Monzese. Il loro locale è stato devastato nell'estate 2011 da un commando di oltre trenta uomini armati di bastoni e spranghe di ferro. Sulla saracinesca è poi comparsa una scritta in arabo: «Per tutti i siriani: quelli che sono a favore del presidente devono stare attenti. In Siria ci penseremo noi. Quelli che ammazzano nel jihad, vivono con Dio». Nella primavera 2012, dopo altre gravi intimidazioni, i due cristiani hanno ceduto il bar e si sono trasferiti. Un altro agguato di stampo jihadista ha colpito due siriani che lavorano regolarmente tra Milano e la Brianza: uno è cristiano, l’altro della minoranza sciita-alauita, ma i loro amici più cari sono sunniti. Il 16 luglio 2011 hanno partecipato a una fiaccolata filo-Assad organizzata da un'associazione di cui fanno parte anche cittadini italiani. Mentre tornavano a casa in macchina, sono stati circondati e picchiati ferocemente da almeno 15 sprangatori jihadisti. Le due vittime, sanguinanti a terra, sono state salvate dall'arrivo dei carabinieri. Il cristiano è stato ricoverato al San Raffaele con una gamba spappolata e operato più volte. A una spedizione punitiva è sfuggito anche un religioso legato alla Fratellanza Musulmana, il partito allora al potere in Egitto, che aveva messo al bando le sette jihadiste dalle moschee milanesi. A quel punto l’ala dura dei salafiti siriani lo ha minacciato di morte: «Sei un traditore.... Ti uccideremo a coltellate... Ti sgozzeremo come un cane». Dopo mesi di indagini, la Digos ha smascherato gli esponenti più violenti del gruppo jihadista milanese. Ma a quel punto erano già partiti tutti per la guerra. Uno dei più sanguinari è stato identificato in due video-choc, girati in Siria nel maggio 2012 (e scoperti da un fotoreporter della Rai): con il mitra a tracolla, si è fatto riprendere con un plotone di uomini armati, mentre uccidevano con un colpo alla testa sette prigionieri di guerra, legati e torturati.

COME TI COSTRUISCO UNA BUFALA SUL WEB.

Come ti costruisco una bufala sul web. Il segreto della viralità dei falsi su internet si annida su Facebook. Perché qui si tende a fare amicizia con persone simili a noi che fruiscono i nostri stessi contenuti. Con i like che ne attirano altri succede che alcuni post palesemente farlocchi finiscano per acquistare un successo sorprendente. Le bugie diventano verità, i fake soggetti reali. Per un motivo che gli esperti ci spiegano in modo scientifico, scrive Rosita Rijtano su “la Repubblica”. Per trovare mondi paralleli non bisogna andare lontano, nessun viaggio intergalattico: basta accendere il pc, collegarsi alla Rete, e aprire Facebook, dove coesistono diversi universi destinati a non incontrarsi mai (o quasi) e popolati da utenti con gli stessi interessi, le stesse paure, la stessa dieta mediatica. Ed è qui, nella presunta genesi di microcosmi digitali, che - secondo alcuni studiosi - si nasconderebbe il segreto della viralità delle burle internettiane. "Le bufale si diffondono tanto, e velocemente, semplicemente perché sulla rete sociale tendiamo a fare amicizia con persone simili a noi, che fruiscono i nostri stessi contenuti", spiega Walter Quattrociocchi, informatico, coordinatore del Laboratory of Computational social science dell'IMT di Lucca. Un like tira l'altro, insomma: questa sarebbe la formula magica, la chiave che ci permetterebbe di capire perché alcuni post, anche se palesemente farlocchi, hanno molto successo sul social network di Mark Zuckerberg. Prevedibile, forse. Un conto però è la teoria, un altro paio di maniche è la dimostrazione matematica, scientifica. Quattrociocchi sostiene di averla fatta in un nuovo studio, dal titolo "Viral Misinformation: The role of Homophily and Polarization" (tradotto come  "Disinformazione virale: il ruolo dell'omofilia e della polarizzazione", vedi glossario), condotto con altri sette ricercatori, dislocati in diverse università italiane, e che Repubblica.it ha potuto visionare in anteprima.

Complottisti vs scienziati. Bisogna fare un paio di necessarie premesse. Il paper affonda le sue radici in diversi lavori precedenti. Sempre targati IMT. "Una trilogia del complotto", l'ha definita Fabio Chiusi su Wired. Dove il team ha, di volta in volta, vivisezionato le abitudini di milioni di italiani sulla piattaforma di Menlo Park, in base al modo in cui si informano sul social (se fanno riferimento ai media classici, o a dei siti scientifici, o a quelli di informazione non tradizionale), per arrivare a interessanti conclusioni. Non solo, per l'appunto, che su Facebook "chi si somiglia si piglia". Ma anche che "le varie categorie di utenti, da noi prese in esame, interagiscono molto poco tra loro", spiega Quattrociocchi, "e quando lo fanno litigano, si insultano, ognuno resta della sua idea, poco importa se sia giusta o sbagliata". Non solo: "Appassionati di scienza e complottisti, cioè quegli internauti che si informano su pagine definite alternative, dedicano alle diverse news che leggono la stessa quantità di attenzione, tutto indipendentemente dalla qualità dell'informazione, e persino dalla sua veridicità, perciò le notizie false hanno la stessa rilevanza delle notizie vere". Negli ultimi giorni dell'anno è tempo di bilanci anche per gli scherzi. A ripercorrere le bufale del 2014 è il Washington Post, che grazie alla classifica delle parole più ricercate su Google, fa un quadro delle notizie che hanno ingannato milioni di utenti. A guadagnarsi lo scettro è Jasmine Tridevil, vero nome Alisha Jasmine Hessler. La 21enne della Florida lo scorso settembre è balzata all'onore delle cronache dopo aver rivelato di aver speso circa 20 mila euro per sottoporsi a un'operazione chirurgica per l'aggiunta di un terzo seno, con l'obiettivo di diventare famosa e partecipare a un reality. In realtà si trattava di una protesi mobile, servita per realizzare l'autoscatto diventato virale in poco tempo. A tradirla è stata una denuncia di furto fatta presso il Tampa International Airport, dove tra gli oggetti rubati spuntava anche un 3 breast prosthesis. La bufala è servita comunque da trampolino e Alisha ha recentemente registrato la sua prima canzone. Tra le altre bufale dell'anno anche il video virale della ragazza ubriaca a Los Angeles, esperimento sociale rivelatosi poi finto; l'uomo che si è salvato dall'attacco di un orso grazie alla suoneria del telefonino e le immancabili ''morti annunciate'' di personaggi famosi diffuse sui social network. Ecco alcune delle notizie false che hanno fatto discutere (e persino ridere) nei mesi scorsi.

Al secondo posto la minaccia di un hacker a Emma Watson che prometteva di pubblicare sul sito emmayouarenext.com le foto dell'attrice nuda, presa di mira per il suo accorato discorso contro le differenze di genere e gli stereotipi sulle donne fatto davanti alle Nazioni Unite. Il sito 4chan era stato indicato subito come responsabile delle minacce, ma in realtà la bacheca che aveva diffuso le immagini osé delle attrici rubate dai loro 'cloud', in questo caso, non aveva colpa. Le minacce erano in realtà una trovata pubblicitaria dell'agenzia di marketing virale Rantic che con questa bufala ha generato oltre 48 milioni di contatti sul web, 7 milioni di condivisioni e "mi piace" su Facebook e 3 milioni di menzioni su Twitter.

La medaglia di bronzo va al video girato dalla sconosciuta Stephen Zhang Production chiamato "esperimento sociale", in cui una ragazza finge di essere ubriaca e si aggira barcollando per la più famosa strada del quartiere di Hollywood a Los Angeles facendosi avvicinare da molti ragazzi per dimostrare quali sono le reazioni degli uomini in una situazione del genere. Il video pubblicato sul web in pochissimo tempo ha guadagnato milioni di visualizzazioni, scatenando i commenti degli utenti. Peccato che il regista, tale Stephen Zhang, avesse in realtà allenato gli uomini a recitare.

La misteriosa bandiera bianca comparsa la scorsa estate sul ponte di Brooklyn sembrava essere frutto di una mossa dei ciclisti, in una ipotetica battaglia contro i pedoni. La notizia, rivelatasi poi falsa, era stata diffusa via Twitter, sull'account BicycleLobby. In realtà, si trattava di un blitz rivendicato da due artisti tedeschi, intenti a celebrare il ponte come spazio pubblico.

Nella lista c'è anche l'incredibile storia di un uomo che si è salvato dall'attacco di un orso in Russia, grazie alla suoneria telefonica 'Baby' di Justin Bieber impostata sul cellulare.

La notizia della ''Miracle Machine'' che può trasformare l'acqua in vino. Il marchingegno in realtà non esiste, ma si è trattato di un'operazione di lancio per finanziare il progetto di una ONG che ha come obiettivo quello di portare acqua potabile nei paesi bisognosi. La bravata ha raggiunto comunque il suo scopo: grazie al video, le donazioni sono aumentate del 20%.

Passando dall'America alla Russia, si è rivelato falso anche il video postato su Twitter dalla slittinista statunitense Kate Hansen che mostrava un lupo grigio senza collare aggirarsi liberamente nel corridoio del suo hotel, nel parco olimpico dei Giochi di Sochi (in realtà si trattava di una messinscena, realizzata in uno studio di Los Angeles).

E di un montaggio video si è trattato anche nel caso del filmato diffuso su YouTube all'inizio di agosto che mostrava il presidente russo Vladimir Putin colpito da escrementi di uccello durante il discorso tenuto in occasione del centenario della Prima guerra mondiale.

Nella classifica non potevano poi mancare i sei giorni di buio totale che avrebbe dovuto attraversare la Terra tra il 16 e il 22 dicembre. Un articolo pubblicato dal sito satirico Huzlers.com annunciava l'arrivo imminente di una tempesta solare, che avrebbe bloccato il 90% della luce solare con polvere e detriti. La notizia, che tra l'altro citava come fonte direttamente la Nasa, è diventata virale e a fine ottobre l'agenzia spaziale americana ha dovuto rilasciare una smentita ufficiale.

Infine, chiudono la classifica la morte di Betty White e Macaulay Culkin (foto). In realtà entrambi stanno molto bene: White, che si sta avvicinando il suo 93esimo compleanno, è ancora in tv con la sitcom "Hot in Cleveland", mentre il protagonista di ''Mamma ho perso l'aereo'' è in tour con la sua band Pizza Underground.

Negli ultimi giorni dell'anno è tempo di bilanci anche per gli scherzi. A ripercorrere le bufale del 2014 è il Washington Post, che grazie alla classifica delle parole più ricercate su Google, fa un quadro delle notizie che hanno ingannato milioni di utenti. A guadagnarsi lo scettro è Jasmine Tridevil, vero nome Alisha Jasmine Hessler. La 21enne della Florida lo scorso settembre è balzata all'onore delle cronache dopo aver rivelato di aver speso circa 20 mila euro per sottoporsi a un'operazione chirurgica per l'aggiunta di un terzo seno, con l'obiettivo di diventare famosa e partecipare a un reality.

In realtà si trattava di una protesi mobile, servita per realizzare l'autoscatto diventato virale in poco tempo. A tradirla è stata una denuncia di furto fatta presso il Tampa International Airport, dove tra gli oggetti rubati spuntava anche un 3 breast prosthesis. La bufala è servita comunque da trampolino e Alisha ha recentemente registrato la sua prima canzone.

Tra le altre bufale dell'anno anche il video virale della ragazza ubriaca a Los Angeles, esperimento sociale rivelatosi poi finto; l'uomo che si è salvato dall'attacco di un orso grazie alla suoneria del telefonino e le immancabili ''morti annunciate'' di personaggi famosi diffuse sui social network. Ecco alcune delle notizie false che hanno fatto discutere (e persino ridere) nei mesi scorsi.

E chi, fra gli utenti, ha più probabilità di scambiare la bufala, o la satira, per un fatto reale?, è la successiva domanda quasi obbligatoria. Il ricercatore non ha dubbi: "Osservando i contenuti a cui è generalmente esposto chi la condivide,  troviamo i fan delle pagine di controinformazione, cioè di notizie difficili da verificare. Esempi: Lo Sai, Vaccini e Basta o Coscienza Sveglia". Se siamo disposti a fare un passo in più, in un altro paper che - anche in questo caso - abbiamo avuto in preview, Quattrociocchi & Co. suggeriscono la fede politica di molti "creduloni" digitali. "Questa tipologia di utenti scrive il 27,13 per cento dei commenti che ci sono sulla pagina di Beppe Grillo", chiosa il ricercatore. Insomma, stando ai lavori del gruppo IMT, seppur con tutti i dubbi che può lasciare un'analisi non generalizzabile, limitata a un solo Paese e a determinate tipologie di alimentazione digitale, ci comportiamo così sulla rete sociale più popolare al mondo. Che conta 1 miliardo e 350 milioni di iscritti. Una bordata per chi sostiene che internet sia necessariamente il luogo dell'intelligenza collettiva.

Bufale virali: il ruolo di omofilia e polarizzazione. Ma come, queste dinamiche relazionali, influiscono sulla diffusione pervasiva della disinformazione? Ed ecco che si arriva al nuovo studio, un monitoraggio spalmato nell'arco di 4 anni, e diviso in due fasi. Nella prima gli informatici hanno analizzato post e like di 73 pagine aperte in Italia sul network firmato Zuckerberg: 34 scientifiche (Science & Co.), e 39 cospirazioniste (Lo Sai & Co.). "Così", prosegue Quattrociocchi, "siamo riusciti a inquadrare come si comportano 1,2 milioni di utenti nostrani (su 25 milioni di utenti attivi al giorno, secondo i dati che ci ha fornito un portavoce di Facebook ndr), e a stabilire matematicamente che il numero di "Mi piace" su un determinato post è direttamente collegato all'omofilia, cioè al numero di amici che consumano lo stesso tipo di contenuto". In concreto: più il fake è condiviso da persone che conosciamo, e più aumentano le possibilità di essere contagiati dalla burla a nostra volta. Mentre nulla contano hub e influencer, anzi: la probabilità di trovarne uno diminuisce all'aumentare della viralità della news. Per il secondo step, invece, la lente del team ha zoomato su 4,709 annunci fasulli, messi in circolazione da due pagine satiriche: "Semplicemente Me" e "Simply Humans". Bufale, ma considerate vere dai naviganti. Spiega l'informatico: "Sono state tutte ripubblicate da utenti molto polarizzati, cioè in media con circa l'80 per cento di like su fonti di informazione complottarda, difficili da controllare. Trovato uno, trovati tutti. Perché, grazie all'omofilia, possiamo individuare con esattezza la rete di amicizia di ognuno di loro".

Il problema non è il mezzo: "Manca una preparazione scientifica". "Un lavoro impostato su un'interessante mole di dati", commenta David Lazer, professore alla Northeastern University, e uno dei papà della Computational social science, la disciplina che propone un approccio computazionale alle scienze sociali. "Ma non sappiamo niente di ciò che succede al di fuori del social network preso in esame, cioè di Facebook, come per esempio nelle mailing list". Lo stesso concetto di disinformazione - secondo Lazer - è troppo vasto per poter esser ben inquadrato. Aggiunge: "Ciò che è disinformazione per uno, può essere informazione per qualcun altro. Si tratta, del resto, di un fenomeno che esiste da sempre. Per cui sarebbe più interessante chiederci: quanto internet e i social network lo agevolano rispetto ai media tradizionali?". Trovare una risposta è difficile. Certo, sul web le bufale si diffondono velocemente. "La disinformazione digitale" è "uno dei principali rischi della società moderna", ha ammonito il report 2013 del World Economic Forum. E dalla piattaforma di Menlo Park passa una fetta sempre più consistente delle news che mastichiamo ogni giorno. Ma è anche vero che, quando e se vogliamo, possiamo ottenere la news più corretta e completa. Con lo stesso click. Con lo stesso strumento. Con la stessa velocità. Per Rosaria Conte, scienziata cognitiva e vice presidente del Consiglio scientifico del Cnr, il problema quindi non è il mezzo, "ma la mancanza di una preparazione scientifica da parte di chi fornisce, e fruisce, le notizie". Conclude: "A essere virali non sono tanto le bufale, ma le informazioni non verificate, e la loro conseguente accettazione acritica, un atteggiamento da abbandonare". In questo mondo. Come in un altro, parallelo.

"L'informazione è un fenomeno di contagio sociale", ne è convinto Alessandro Vespignani, fisico, ed esperto di modelli previsionali delle epidemie. Quarantanove anni, professore di Physics, Computer Science e Health Science alla Northeastern University, e autore - con Romualdo Pastor Satorras - del libro "Evolution and structure of the Internet". Da anni scandaglia la Rete. Con un obiettivo: studiare la diffusione delle malattie. L'abbiamo contatto su Skype per parlare della cosiddetta viralità delle notizie. Secondo Vespignani, ci sono delle somiglianze tra le pandemie e il modo in cui circola una bufala online, ma anche delle notevoli differenze. Che affondano le loro radici nel contesto sociale in cui viviamo, cioè nella nostra rete di relazioni quotidiane. Reali e virtuali. "Insomma, si tratta di un meccanismo molto più complesso", avverte. Perciò è difficile prevedere, e analizzare, le sue dinamiche. È, quindi, giusto parlare di intelligenza collettiva quando si parla di Internet? O, forse, sarebbe più appropriata la definizione di ignoranza collettiva?, lo provochiamo. Replica: "Sono due facce della stessa medaglia".

Dottor Vespignani, secondo lei la circolazione sul web delle notizie false può essere equiparata a un'epidemia?

"Di sicuro tutto ciò che è informazione è un fenomeno di contagio sociale. Solo che in questo caso a passare di persona in persona non è un virus, o un patogeno. Ma un concetto, che si diffonde di testa in testa. Così, nel momento in cui recepisco alcune informazioni dai mie amici e comincio a ripeterle, è come se fossi stato infettato. E infettassi gli altri a mia volta. Ci sono, ovviamente, anche delle grandissime differenze con il mondo biologico. Dove a difenderci dai virus è il nostro sistema immunitario. Quando parliamo di informazione, invece, il mondo esterno ha un forte effetto sulle probabilità di contagio. E se la notizia a cui siamo esposti arriva da un amico, da una persona di cui ci fidiamo, o che ha i nostri stessi interessi, potrebbe avere un peso maggiore. Insomma, si tratta di un meccanismo molto più complesso".

È quindi, possibile prevedere, dove, quanto e quando si diffonderà una cosiddetta bufala?

"Prima di tutto bisogna capire che cos'è una bufala, o che cos'è la disinformazione. In alcuni casi, l'interrogativo viene risolto guardando all'informazione in maniera banale. In altri, la differenza è più sottile.  Quindi, comprendere qual è la percezione del mondo rispetto a una determinata notizia, può risultare complesso. Una capacità predizionale in questo campo mi sembra che ancora non sia di portata immediata. Non solo perché dobbiamo risolvere un problema concettuale, stabilire - appunto - che cosa sia disinformazione e che cosa no. Ma anche perché dobbiamo avere una dettagliata mappatura di tutto lo spazio sociale in cui la bufala si diffonde: le persone con cui parlo al telefono, con cui parlo di persona, con cui interagisco su Facebook e così via. Per tanto tempo è stato del tutto impossibile, solo di recente sono stati fatti dei grandi passi avanti. Grazie allo sviluppo di nuove tecnologie, anche pervasive, che monitorano i social network e non solo".

Secondo alcuni studi, i social network, e in particolare Facebook, sono un terreno particolarmente fertile per la circolazione di informazioni fasulle. Qual è la sua opinione?

"Credo che internet sia un'enorme rete di conoscenza. Un'enorme rete di comunicazione che ha effetti molto positivi sul nostro modo di vivere, conoscere, e comunicare. Allo stesso tempo, però, crea un'orizzontalizzazione del sapere. Cioè, mettendo qualsiasi cosa a disposizione di tutti, fa credere a chiunque di poter masticare ogni informazione in modo efficace. Purtroppo non è vero. A volte ci vogliono anni di studi per capire determinate notizie. E discriminare quale sia l'informazione corretta e quale no. Per fare un paragone: è come se ci trovassimo in un grande bazar, dove è possibile incappare anche nella cosiddetta sòla. Perché, così come non tutti siamo esperti di tappeti, allo stesso modo non tutti siamo in grado di leggere un saggio politico, o un paper scientifico. Io, ad esempio, non mi sognerei mai di voler pilotare un aereo solo perché ho letto un articolo sull'argomento".

Intelligenza collettiva o ignoranza collettiva?

"Purtroppo una è lo specchio dell'altra. L'intelligenza collettiva esiste. E internet ne è una sua faccia. Può diventare ignoranza collettiva nel momento in cui la disinformazione si diffonde sulla Rete. Perciò è importante continuare a stabilire una scala dei valori. E, in qualche modo, ognuno di noi non deve farsi abbindolare dall'idea che l'informazione su internet sia automaticamente accessibile e veritiera. Un po' la lezione che abbiamo già imparato con i media tradizionali, insomma".

Quanto sarebbe, invece, importante una corretta informazione? Ci sono dei modi per veicolarla meglio e per evitare di diffondere, a nostra volta, notizie false?

"Una domanda da un milione di dollari. Saper distinguere l'informazione corretta e veicolarla nel modo giusto è, ovviamente, la cosa più importante del mondo. Che cosa bisogna fare? Bisogna diventare più furbi e attenti. I dati, le verifiche: sono importanti. Ma non è da meno l'onestà intellettuale. Tutti noi abbiamo una particolare visione del mondo, di cui cerchiamo conferme. E in Rete si può trovare la conferma di qualsiasi cosa, quindi bisogna stare attenti ai valori reali. Si tratta di una presa di coscienza necessaria per evitare di aprire un grande conflitto tra l'età dell'intelligenza collettiva e quella che lei definiva, invece, età dell'ignoranza collettiva. Quest'ultima può portare a fenomeni catastrofici. Cambiare grandi vittorie della società e trasformarle in sconfitte. Un fenomeno che purtroppo si verifica già oggi, quando si parla di scienza: in certi campi si rischia di tornare indietro di decine di anni".

È il diciassette dicembre 2012 quando su Facebook si diffonde un messaggio: "Ieri il Senato della Repubblica ha approvato con 257 voti a favore e 165 astenuti il disegno di legge del senatore Cirenga che prevede la nascita del fondo per i parlamentari in crisi creato in vista dell'imminente fine legislatura". In che cosa consiste? "Uno stanziamento di 134 miliardi di euro da destinarsi a tutti i deputati che non troveranno lavoro nell'anno successivo alla fine del mandato. E questo quando in Italia i malati di SLA sono costretti a pagarsi da soli le cure". Conclusione: "Rifletti e fai girare". Segue un'ondata d'indignazione: sono più di trentaseimila le condivisioni in poche ore. Un putiferio. Con tanto di petizione online per fermare "questo scempio", come si legge in uno dei 958 commenti al post. Peccato che l'annuncio sia falso. Per accorgersene basta fare un rapido calcolo, dare un'occhiata a qualche dettaglio, prestare attenzione alla didascalia della foto. Il numero dei voti non combacia con i senatori eletti in Parlamento: 422 contro 315. La somma stanziata è superiore al 10 per cento del Pil italiano. Inoltre, a commento dell'immagine, i naviganti sono persino avvisati: si tratta di "un'immane boiata", si legge. Ciò non impedisce all'informazione di diventare virale, e di essere considerata vera, anzi. "Nei giorni successivi c'è stata una gara tra alcuni blog per riprendere, modificare e ripubblicare la notizia", racconta Dino Ballerini, la mente che ha architettato lo scherzo. "Secondo una ricerca, tra post originale e successive repliche, la bufala è stata condivisa da circa due milioni di persone. Un italiano su trenta". Per la prima volta, Ballerini confessa a Repubblica.it: "Sono stato io a inventare la notizia". Tutto durante una pausa pranzo. "Ero stufo di vedere condivise tante stupidaggini". Così, dopo aver redatto il testo di legge, l'ha messo in circolazione sulla pagina "Semplicemente Me", una fan page creata grazie all'incontro virtuale con due troll: Rettiliana Illuminata e Paride Rampicante. Che non ha alcun intento pedagogico. "Oggi la nostra unica motivazione sociale è mettere in luce la carenza di senso critico da parte delle persone. Ma è stata una scoperta che abbiamo fatto successivamente. Lo scopo iniziale era solo quello di divertirci alle spalle dei creduloni, senza ottenere alcun vantaggio economico, ovviamente". Ci sono riusciti? "Pensa: qualcuno, ogni tanto, continua a scrivere sulla bacheca del senatore Cirenga: Vergogna", ride.

False notizie. Dalle tecnologia alla scienza: tutti i tipi di bufale. La storia delle false notizie online segue di pari passo la storia di internet. Un sottobosco di frottole: ha avuto origine con la Rete stessa, e riguarda i campi più disparati. Dall'ambiente alla medicina. Tra passato e presente. Risale al 1997 la leggenda secondo cui Bill Gates regala dei soldi a chi fa girare una email relativa a un test di Microsoft. Mai successo. Il 9 giugno 2014 l'Università di Reading annuncia che un software sviluppato dai suoi ricercatori ha passato il test di Alan Turing. La notizia rimbalza su testate nazionali e internazionali. Il risultato è messo in dubbio il giorno successivo. Qualcuno, come il sito americano Hoaxes.org, prova a tenere traccia degli inganni "on the net". Paolo Attivissimo, giornalista, che si auto definisce "cacciatore di bufale", cerca di mettere ordine. Spiega: "Sicuramente tra le bufale più popolari sul web ci sono quelle che riguardano la salute: gli appelli per aiutare le persone malate; o per evitare preoccupanti, quanto inesistenti, malattie. Al secondo posto, metto la tecnologia. Attenti c'è un virus in quel messaggio di posta elettronica; attenti al wi-fi, causa il tumore; attenti a quell'applicazione, dietro si nasconde una banda di pedofili: sono solo alcuni, ma significativi, esempi". A volte si tratta di piccole sciocchezze. Altre, invece, le informazioni prive di fondamento hanno una portata più ampia. "Come la paura per le sostanze cancerogene contenute, secondo alcuni, in determinati alimenti. O per le scie chimiche, che sono diventate persino oggetto di dibattito politico, in quanto sarebbero sostanze tossiche rilasciate nell'aria per il controllo delle menti, o l'avvelenamento della popolazione". Una bufala in volo da almeno 15 anni. Prosegue Attivissimo: "In realtà, si tratta di fenomeni dovuti alla condensazione dell'acqua presente nell'atmosfera, e generati dalla combustione del carburante degli aeroplani. Infine, ci sono gli inviti razzisti. Uno dei più noti parla dei segni lasciati dai nomadi accanto al citofono per dire se una casa deve essere ancora derubata, o meno. Si potrebbe obiettare: la soluzione è semplice, basta indicare che la tua abitazione è già stata svaligiata".

Fake. In alcuni casi i fake sono cronache dell'assurdo. Con lo scopo di fare pubblicità a chi li ha creati. Prendete Jasmine Tridevil, la ragazza che avrebbe pagato 20mila dollari per avere un terzo seno. Il motivo: voleva disgustare gli uomini, per non avere più appuntamenti con l'altro sesso. Si è scoperto, solo dopo che la news era finita su vari tabloid americani e non solo, che in passato la donna era stata accusata di frode. E la storia della chirurgia era un inganno. In altri, invece, la matrice della bugia è più seria. Durante l'ultima campagna elettorale statunitense, ad esempio, un movimento chiamato Sandy Hook Truthers ha cercato in tutti i modi di diffondere tra gli internauti la convinzione che Barack Obama non è nato alle Hawaii, ma in Kenya. E per questo motivo era ineleggibile alla Casa Bianca. A poco è servito pubblicare il certificato di nascita del presidente sul sito della White House. Sulla sua veridicità, e sui presunti natali africani di Obama, negli Stati Uniti si dibatte ancora oggi.

Un capitolo a parte meritano le notizie scientifiche non corrette. Giusto per citarne alcuni temi top: Hiv, correlazione tra vaccini e autismo, staminali. Ma non sono gli unici. Basti pensare: il post più condiviso su "Semplicemente Me" riguarda quella che viene definita "un'evenienza rarissima,  i cinesi la chiamano shu tan tzu che significa anno della gloria e della fortuna". Quale sarebbe? "Quest'anno dopo 5467 anni, ottobre avrà 5 martedì, 5 mercoledì e 5 giovedì". Un fake. Un tipo di disinformazione, quella sulla scienza, a cui contribuiscono, o hanno contribuito, anche esponenti politici. Più o meno ingenuamente. Nel 1998, nel corso dello spettacolo Apocalisse morbida, Beppe Grillo ha definito l'Aids la più "grande bufala di questo secolo", negando che l'Hiv è un virus trasmissibile capace di danneggiare il sistema immunitario. Non solo: ha anche sostenuto che epidemie come poliomielite e difterite sarebbero scomparse anche senza le campagne di vaccinazioni. "Un'affermazione falsa perché gli agenti patogeni non scompaiono nel nulla, solo che non riescono a trovare un ospite da infettare", ha spiegato Giovanni Maga, virologo dell'Istituto di Genetica molecolare del Cnr, a Wired Italia che ha dedicato un articolo a tutte le fandonie del comico genovese.

Che cosa spinge al click? Bufale diverse, quindi, così come sono diverse le molle che fanno scattare la condivisione. E nel futuro? Quale sarà la prossima informazione sbagliata in grado di diventare virale? Risponde Ballerini: "Impossibile programmarle, è questo il bello. Se ci mettessimo a tavolino per studiare lo scherzo perfetto, magari poi sarebbero in due a condividerlo. Non possiamo stabilire in anticipo che cosa tocca realmente nell'intimo le corde di una persona. Si tratta di una serie di fattori x che non riusciamo a comprendere. Un argomento legato all'attualità può di certo favorire, ma anche l'ora di pubblicazione è determinante". Insomma, tanti dubbi, un'unica certezza: "La prossima bufala ci sarà. Sicuramente".

Bloccare la diffusione delle bufale sul nascere è difficile. Ma difendersi si può. Anzi: si deve. E internet offre tutti gli strumenti necessari per farlo, a patto, sia chiaro, che l'internauta sia disposto a cambiare tutte le sue cattive abitudini. "Il miglior modo per proteggersi è modificare il proprio comportamento", spiega Paolo Attivissimo. Lui lo sa bene: da anni gestisce una piattaforma italiana per controllare la veridicità delle notizie, pubblicate sia online sia sui media tradizionali. Una caccia quotidiana alla frottola. Così il suo primo suggerimento è accantonare, in via definitiva, la tendenza comune più deleteria: "Non ne sono sicuro, non posso controllare. Però, nel dubbio, condivido". Continua Attivissimo: "Diffondendo la notizia, anche quando non sappiamo se sia vera o meno, crediamo di fare un favore ai nostri amici. Mentre in realtà alimentiamo solo la disinformazione. Dobbiamo abituarci a non inoltrare nulla, se non abbiamo tempo per verificare. Del resto, basta poco: andare su un motore di ricerca e digitare le parole, o i nomi, che sono contenuti nell'appello; o rivolgersi a un sito antibufale". Una delle novità più rilevanti in questo campo è Emergent.info, un lavoro sviluppato per il Tow Center for Digital Journalism da un giornalista specializzato nella verifica delle fonti: Craig Silverman. Un progetto ancora in fase sperimentale, ma che ha l'obiettivo di diventare una sorta di cane da guardia, grazie a una web app che combina il lavoro di un algoritmo con il fact checking umano. Un sistema capace di monitorare in tempo quasi reale tutto ciò che è discusso quotidianamente sulla Rete, fino ad analizzarne la correttezza e la diffusione. Compresa la capacità di tracciare chi ha smascherato la menzogna e chi, invece, sta solo riportando la notizia originale. L'obiettivo ultimo, scrivono gli ideatori del progetto, è "individuare i modi per aiutare la verità a emergere velocemente e a diffondersi più che in passato". Emergent.info non è il solo, né il primo, sistema che spinge in questa direzione. Gli strumenti recenti fanno per lo più leva sul crowdsourcing, cioè combinano le verifiche fatte da più utenti, per stabilire se l'informazione è falsa oppure vera. Come Rbutr, che funziona grazie a un plugin: scaricandolo sul browser si mettono a disposizione degli altri internauti tutte le nostre conoscenze su un determinato argomento. O Civic Links, la piattaforma della fondazione Ahref, datata 2012. Alcuni hanno messo in piedi un team di persone specializzate nello scoprire le bugie sul web. Citizen Evidence Lab, ad esempio, è il sito con cui Amnesty International aiuta giornalisti e no ad autenticare video su YouTube. E persino Mark Zuckerberg, sul suo social network, ha avvertito l'esigenza di creare qualcosa per vagliare le news: Facebook NewsWire, una sorta di agenzia stampa che è stata lanciata lo scorso aprile e alal quale si è aggiunto recentemente un nuovo strumento di controllo.  Sul fronte portali, uno degli esperimenti più riusciti e antichi d'oltreoceano si chiama Snopes, un database nato nel lontano 1996 per smontare leggende urbane. Mentre in Italia la sorveglianza è affidata ad Attivissimo.net, Hoax.it e Bufale.net, solo per citarne alcuni. Una presenza di cui si sente bisogno in terra digitale? La risposta arriva dai numeri di Bufale.net: "Contiamo", spiega Claudio Michelizza, uno dei cofondatori, "tra le 400 e le 500mila visite al mese, e più di mille articoli". Perché l'estinzione delle bufale è tutt'altro che vicina.

Un glossario per capire:

A come Agenda setting. È la teoria sociologica secondo cui i media precisano e descrivono la realtà su cui formarsi un'opinione. "L'assunto fondamentale dell'agenda-setting", ha scritto l'accademico Donald Shaw, "è che la comprensione che la gente ha di larga parte della realtà sociale è mutuata dai media".

B come bufala o Big Data. L'etimologia della parola è incerta.  Ma la bufala è, in gergo, un'informazione falsa o inverosimile. Si parla, invece, di Big Data quando si fa riferimento alla pachidermica mole di dati che generiamo ogni giorno, soprattutto grazie alle nuove tecnologie: dai computer agli smartphone, passando per carte di credito ed e-reader.

C come Computational Social Science o Cospirazionista. Con l'espressione Computational Social Science si indica un'emergente disciplina accademica che propone un approccio computazionale alle scienze sociali. Secondo i suoi promotori, la crescente capacità di collezionare e analizzare dati potrebbe rivelarci modelli comportamentali di gruppi e individui. "Con la potenzialità - scrivono i ricercatori nel primo manifesto dedicato alla materia e pubblicato su Science il 6 febbraio 2009 -  di trasformare la comprensione che abbiamo delle nostre vite, delle nostre organizzazioni e delle nostre società". Il cospirazionista, sia online che offline, è colui che crede alle cosiddette "teorie del complotto", cioè quelle che attribuiscono la causa di un evento, o un insieme di eventi, a un accordo segreto.

D come Data Science e Debunking. Data Science è, in generale, la capacità di ricavare conoscenza dai dati. Una possibilità che diventa via via sempre più ricca, grazie ai cosiddetti Big Data. Mentre debunking è un neologismo usato per indicare un individuo che smaschera notizie, informazioni, o affermazioni fasulle. È stato coniato dallo scrittore William Woodward, il quale scrisse che bisognava "tirar fuori il falso dalle cose": "take the bunk out of things".

E come Engagement. Si tratta del numero di like che si possono contare su un determinato contenuto.

F come Fact checking. Il fact checking è semplicemente il controllo dell'informazione che leggiamo online o sui media tradizionali. Internet non è solo uno straordinario strumento per la diffusione delle bufale, ma anche per la verifica delle notizie. Sono, infatti, diverse le piattaforme dedicate a questo scopo. Civic Links; Rbutr; FactCheck.org; Flack Check.org; Attivissimo.net: sono solo alcuni esempi.

G come Grafo o Grado medio. Il grafo è una struttura matematica, studiandola è possibile schematizzare una grande varietà di situazioni e processi: mappe geografiche, reti di amicizie tra persone, aeroporti e voli. Il grado medio indica il numero di amici che un generico utente ha su Facebook.

H come Hub. Nel campo informatico e delle telecomunicazioni l'hub è un nodo che funziona come un dispositivo di rete per lo smistamento dei dati. Quando si parla di social network, con il termine hub si intende - invece - una persona molto centrale nella rete sociale, con un gran numero di amici, attraverso cui è possibile raggiungere molte altre persone. Nelle reti reali gli hub sono pochi e hanno moltissimi collegamenti.

I come Influencer o Intelligenza collettiva. Lo suggerisce la parola stessa: l'influencer è una persona "influente", cioè autorevole nel suo campo. Svolge il ruolo di opinion leader, cioè offre la sua visione su una determinata questione. Un'opinione che poi viene adottata da molti. Che cos'è l'intelligenza collettiva nel cyberspazio? Pierre Lévy, filoso francese che studia l'impatto di Internet sulla società, la definisce così:  "In primo luogo", ha dichiarato in un'intervista, "bisogna riconoscere che l'intelligenza è distribuita dovunque c'è umanità, e che questa intelligenza, distribuita dappertutto, può essere valorizzata al massimo mediante le nuove tecniche, soprattutto mettendola in sinergia. Oggi, se due persone distanti sanno due cose complementari, per il tramite delle nuove tecnologie, possono davvero entrare in comunicazione l'una con l'altra, scambiare il loro sapere, cooperare. Detto in modo assai generale, per grandi linee, è questa in fondo l'intelligenza collettiva".

L come Lurker. Il lurker è una sorta di voyeur internettiano. Si tratta cioè di un utente che partecipa a una comunità digitale (come mailing list, gruppi, chat), osservando attentamente tutte le attività e tutti i messaggi, ma senza intervenire mai nelle discussioni, senza postare o interagire con gli altri. Insomma, senza rendere manifesta la propria presenza. Da qui deriva anche il verbo lurkare, che può essere tradotto come "osservare da dietro le quinte".

M come Meme. Un meme è un fenomeno di internet: un'idea, un'immagine o un'azione che si propaga attraverso la rete e diventa famosa per un certo periodo di tempo. Uno degli ultimi esempi? Harlem Shake, una serie di video comici diventati virali all'inizio del 2013, in cui, con sottofondo la canzone di Baauer, si susseguono due scene: una statica e tranquilla; più una caotica, in movimento.

N come Nodo. Stampanti, modem, computer, fax: in informatica sono tutti dei nodi, cioè dei dispositivi hardware che sono in grado di comunicare tra loro, e con tutti gli altri sistemi che fanno parte della stesse rete.

O come Omofilia. Viene definita omofilia la tendenza (sulle reti sociali ma non solo) a fare amicizia con le persone che hanno i nostri stessi interessi, le nostre stesse opinioni, paure, e aspirazioni. E anche la nostra stessa dieta mediatica.

P come Polarizzazione. Indica il grado di esposizione di un internauta a informazioni che non possono essere verificate. È uguale a uno se l'utente è continuamente esposto a questo tipo di notizie. È invece pari a zero se non lo è mai. Secondo gli studi di Quattrociocchi & Co., in caso di bufala virale, la polarizzazione delle persone che la condividono tende a uno.

Q come Quantitativo. Un approccio matematico e statistico alla comprensione di fenomeni complessi. Che punta a sfruttare la grande mole di dati a nostra disposizione.

R come Rinforzo. Per rinforzo si intende la resistenza di  a cambiare idea, quando si è esposti a una versione dei fatti in contrasto con la nostra opinione.

S come Social network. Con il termine social network intendiamo, nel linguaggio corrente, quelle reti sociali online che ci consentono di interagire con altri utenti di Internet, in base a determinati, e a volte comuni, interessi. Esempi sono: Facebook, Twitter, LinkedIn, Instagram, aNobii, Pinterest, Google+, o il neonato Ello.

T come Troll. La parola troll ha spesso un'accezione negativa. In realtà, troll è sia chi interviene nei dibatti online con affermazioni fuori luogo, provocanti, e a volte offensive, sia chi vuole semplicemente fare dell'ironia su chi sulla Rete si prende troppo sul serio. Non sono - quindi - sempre e necessariamente "cattivi".

V come Virale. Si usa il termine virale per indicare un'informazione che si diffonde velocemente. Come un virus o quasi. Alessandro Vespignani, fisico ed esperto di modelli previsionali, conferma che ci sono delle somiglianze tra la circolazione in Rete delle notizie e il mondo biologico. Ma anche delle differenze. Dice: "A difenderci dai virus è il nostro sistema immunitario. Quando parliamo di informazione, invece, il mondo esterno ha un forte effetto sulle probabilità di contagio. E se la notizia a cui siamo esposti arriva da un amico, da una persona di cui ci fidiamo, o che ha i nostri stessi interessi, potrebbe avere un peso maggiore. Insomma, si tratta di un meccanismo molto più complesso".

W come World Economic Forum. Il World Economic Forum è una fondazione senza fini di lucro nata nel 1971. Di recente ha sottolineato come la "disinformazione digitale" sia "uno dei principali rischi della società moderna".  Quali sono le sue potenzialità sulla vita reale? Ad esempio, citano nel report redatto nel 2013, dei tweet falsi hanno avuto la capacità di muovere il mercato finanziario. Come quando nel giugno del 2012 un falso utente di Twitter, che si spacciava per il Ministro degli Interni russo Vladimir Kolokoltsev, ha annunciato la morte, o il ferimento, del presidente siriano Bashar al-Assad. Il prezzo del petrolio è schizzato alle stelle, fino a che i commercianti si sono resi conto: si trattava di un falso.

Ingannato da un falso impeccabile, commenta Riccardo Stiglianò. Un paio di anni fa avevo dato un annuncio dal blog del giornale: il mio nome figurava, tra quello di Larry Page e Tim Berners-Lee, su uno studio scientifico a proposito di istruzione online. Sedere a destra del padre di Google e a sinistra di quello del web sul frontespizio di A Case for Reinforcement Learning era un risultato di tutto rispetto per un cronista, ancorché con qualche infarinatura tecnologica. Peccato che fosse - ovviamente, vorrei dire, ma il seguito prova che è meglio non dirlo - tutto falso. L'apparenza dello studio, ancora consultabile, era impeccabile: un abstract, dei capitoletti in inglese, note a piè di pagina. Vari conoscenti si erano rallegrati via email. Un mio amico molto intelligente, scaltro e in quel caso frettoloso mi aveva fatto i complimenti addirittura su Twitter e mi ero sentito in colpa di averlo involontariamente trascinato in quella trappola goliardica. Eppure sarebbe bastato leggere sino in fondo il mio breve testo per accorgersi di un post scriptum che confessava il trucco, ovvero che lo studio era frutto di SCIgen - An Automatic CS Paper Generator, un generatore automatico creato da alcuni programmatori del Mit. Così convincente che in un caso sarebbero addirittura riusciti a farne accettare un paper, altrettanto farlocco, in una conferenza scientifica dai controlli assai laschi. La quale, dopo la gaffe che ricorda da vicino l'affaire Sokal, una bufala che nel '96 aveva scosso l'establishment intellettuale newyorchese, sembra aver chiuso i battenti. Cosa sto cercando di dire? Che il falso, nell'èra della sua riproducibilità tecnica, è diventata una commodity. Un prodotto a bassissimo valore aggiunto, da produrre in serie senza sforzo. Ci sono siti che vi recapitano in Val Brembana impeccabili patenti del Wisconsin, altri per stamparsi perfette ricevute illegali o app che ricreano rumori di sottofondo pertinenti al vostro alibi extra-coniugale ("Cara sono alla stazione" e parte lo sbuffo della locomotiva o l'annuncio delle partenze imminenti). Per non dire degli spacci di prodotti fisici contraffatti, dalle borse di Louis Vuitton alle medicine sino alle parti di ricambio degli aerei (Alibaba, prima di diventare una rispettabile superpotenza di commercio elettronico, era famoso per questo). C'è un mondo di contraffazione digitale, fai-da-te o consegnata a destinazione da zelanti falsari. Negarlo sarebbe folle, ma enfatizzarlo come spesso si tende a fare è fuorviante. L'argomento implicito di chi lancia questo allarme è: internet è un posto molto inaffidabile e quindi pericoloso (a differenza del piccolo mondo antico di mattoni e cemento, lineare e sincero). Ed è un argomento risibile, perché se è vero che è più facile falsificare è anche vero che è molto più semplice smascherare i falsi. Con Google e Wikipedia siamo tutti in grado di diventare formidabili fact checker. In teoria, almeno, perché confrontare, scriminare, contestare è una fatica. Anzi, a essere più precisi, un lavoro. Quello che fanno, bene o male, i giornalisti. Il dibattito è vecchio come la rete, e non è il caso qui di rivangarlo. Dico solo che nei primi anni 90 il bestsellerista Michael Chricton annunciò l'imminente scomparsa dei giornalisti in quanto mediasaurus, dinosauri dei media. Non c'era più bisogno di loro perché tutti potevano andare direttamente alla fonte delle informazioni. Che è vero, però così facendo non avreste più tempo per fare il vostro di lavoro, quale esso sia. Pensateci la prossima volta che vi lamentate nel tirare fuori 1 euro o 40 o il corrispettivo per una copia digitale. La differenza tra un software a pagamento e uno free, disse una volta (con evidente conflitto di interessi) l'ad di Microsoft Steve Ballmer, è che nel primo caso a testarlo erano stati i programmatori, nel secondo le cavie eravamo noi. Lo stesso, più o meno, vale per le tante informazioni che circolano allo stato brado nel cyberspazio. Vale, per tutte, la prima raccomandazione delle scuole di giornalismo americane: When your mother says I love you, double check it (quando tua madre dice che ti ama, verificalo e controverificalo). Enunciata ben prima di internet e fresca come non mai. Altrimenti si rischia di credere a tutto, compreso che all'estensore di queste poche righe manchi solo la peer review prima di essere pubblicato con tutti gli onori su Science o Nature insieme al Dio dell'algoritmo e al creatore del world wide web.

ALTRO CHE RIVOLUZIONE: E' L'ITALIA DEI FESTIVAL!

Le cose vanno di male in peggio, ma per gli italiani non vale l’evoluzione della specie. Si scannano per la politica ed il calcio. Il loro pensiero è per il diveretimento. Nulla fanno per garantire un futuro migliore per i loro figli.

A QUANDO LA RIVOLUZIONE IN ITALIA? Si chiede Sergio Di Cori Modigliani su “Informare per resistere”. Quand’è che si verifica una rivoluzione? E come si fa, a innescarla, una rivoluzione? La parola “rivoluzione” non viene dalla politica, bensì dall’astronomia. E’ stata giustamente presa in prestito perchè identifica con esattezza uno specifico processo politico. Indica il movimento dei corpi celesti che ruotano su se stessi e fanno un giro intorno alla stella cui fanno riferimento. Quando ritornano nella posizione originaria, sono diversi, anche se magari non sembra, proprio perchè si è verificata la rivoluzione. La si usava anche per indicare i giri che i dischi al vinile compivano sul piatto d’acciaio: 78 rivoluzioni al minuto, oppure 33, più tardi anche 45. La caratteristica della rivoluzione, che la rende un concetto così affascinante, consiste nel fatto che vince sempre. Tanto è vero che si sa con matematica e millimetrica certezza che “si è verificata una rivoluzione” soltanto dopo, mai prima. Nessuno, a meno che non sia un pazzo o un mitomane, può pensare di sè (o dirlo o scriverlo) di essere un rivoluzionario durante il percorso, o prima. Se vince, allora è diventato un rivoluzionario. Se non vince, è rimasto un rivoltoso. Le rivolte sono tutte rivoluzioni mancate. Non è mai esistito, nella Storia dell’umanità, il ricordo di una rivoluzione che non abbia vinto, altrimenti non sarebbe tale. Il rivoluzionario, quindi, è un vincente. Sempre. Ma lo sa dopo, a giochi fatti. Finchè dura la partita corre sempre il rischio di essere un semplice rivoltoso, il che è tragico. Per comprendere e definire questo concetto, basterebbe pensare alla frase di George Bush sr., allora direttore della CIA, nel 1978, quando, dopo una riunione con i vertici della sua agenzia con i quali stava affrontando la crisi iraniana da loro sottovalutata, disse imprecando: “Cazzo! Questa non è una rivolta, ma è una rivoluzione. Imbecilli che non siete altro!”. Lo aveva capito. E aveva ragione. Gli iraniani non lo sapevano ancora, negli ultimi 30 anni avevano vissuto ben sei rivolte, nessuna delle quali era riuscita a diventare una rivoluzione. Se ne sono accorti cinque minuti dopo, come avviene sempre nelle rivoluzioni. La rivoluzione politica, quindi, si realizza quando si verifica un cambiamento epocale che modifica l’asse strutturale di una società, riportando l’equilibrio solo e soltanto dopo che si sono verificate delle trasformazioni impensabili fino a poco prima. Tutto ciò per introdurre il tema del post: tutte queste chiacchiere sulle cosiddette o - ancora peggio - presupposte riforme, le trovo (oltre che noiose da morire) ridicole e fuorvianti. La situazione dell’Italia è talmente disastrosa che nessuna riforma, ormai, in nessun campo, sarebbe in grado di poter risolvere alcun problema strutturale. Per cambiare il paese in meglio, è necessaria una rivoluzione. Ne esistono di due tipi: una violenta e sanguinosa, che abbatte il sistema politico vigente e lo sostituisce con uno diverso, come sono state quelle castrista, cinese, sovietica, francese, inglese, americana. Non mi piace, non la auspico, non la voglio. L’altra, invece, è di tipo pacifico e armonioso, quella mi piace e la voglio. Ma non voglio una rivolta, bensì la rivoluzione. Quella che si manifesta senza colpo ferire, senza neppure una vittima, un incendio, un incidente, che opera nella realtà e la cambia, perchè va a incidere nella struttura reale della società. Galileo Galilei è stato, ad esempio, un grande rivoluzionario; anche il Dottor Fleming (colui che ha scoperto la penicillina) lo è stato; anche Dante Alighieri, Dostoevskij, Le Corbusier, Enrico Fermi, Alessandro Volta, i fratelli Meliès, ecc. Il mondo è pieno, grazie a Dio, di rivoluzionari. La rivoluzione pacifica, in ambito politico, comporta -altrimenti rimaniamo nel campo della mitomania o della rivolta e quindi ci si condanna alla sconfitta e alla perdizione- una modificazione comportamentale di 360 gradi, per ritornare alla posizione di equilibrio ma su basi diverse. Per dirla in parole povere: rivoltati come calzini. La differenza tra il rivoltoso e il rivoluzionario consiste nel fatto che il rivoltoso è mosso dalla rabbia, dal livore, dalla disperazione e ha un’idea molto chiara in testa: la realtà che sta vivendo lo ripugna, lui è indignato, non ne può più, vuole abbattere tutto, senza avere la minima idea di dove andrà a parare; il rivoluzionario, invece, pensa al dopo, ovvero alla progettualità, alla strategia, al cambiamento operativo pragmatico che vuole attuare secondo modalità che il sistema appena abbattuto non consentiva. Detto questo, mi sembra che non vi sia ombra di dubbio sul fatto che l’Italia è (forse in tutto l’occidente) il paese più lontano in assoluto da qualunque forma di rivoluzione necessaria. Ne parlano, si usa il termine, ma il fine consiste nell’usurare la parola, svilirla, disossarla, e far credere alla gente che. Gli italiani, per motivi ancora non del tutto chiari fino in fondo, hanno deciso di bersela. Lo hanno fatto con Berlusconi, con Prodi, con Monti, con Letta, con Renzi. Lo avevano fatto anche con Berlinguer. Tutte queste persone elencate, sono state citate, vissute, e identificate come rivoluzionari. Il che è falso. Sono tutti dei falliti,  in quanto rivoluzionari, ma hanno avuto un enorme successo (ciascuno secondo le proprie modalità) come dei rivoltosi sui generis. I conti con le rivoluzioni si fanno dopo: non esistono rivoluzioni abortite, rivoluzioni a metà, rivoluzioni così così, mezze mezze. O la rivoluzione c’è o non c’è. A questo punto è immancabile l’intervento di qualcuno che dice: “eh! Si sa, il mondo va così, le rivoluzioni non esistono più ormai”. Non è vero. Esistono eccome, e seguitano a esistere. Il fatto che non le si conoscano non vuol dire che non ci siano. Le rivoluzioni si possono anche esportare, mai imporre. Si esporta il modello che serve come stimolo, il cui fine consiste nell’alimentare l’ispirazione che poi produce cambiamenti autoctoni. I Beatles, ad esempio, sono stati dei rivoluzionari, non vi è alcun dubbio. In America (per gli americani) lo è stata a suo tempo anche Madonna perchè il modello identificativo proposto ha comportato un radicale mutamento nella comportamentalità degli statunitensi, soprattutto il genere femminile. Gli americani, in questo momento, stanno vivendo una fase molto interessante del loro percorso e da oltreoceano arrivano di continuo segnali confortanti (per loro) che indicano un cambiamento di rotta epocale, per alcuni tratti rivoluzionario. Qui, non se ne parla neppure. Basterebbe porsi una domanda secca: “Come mai noi italiani dagli Usa abbiamo sempre importato soltanto il peggio? Come mai noi ci ingozziamo come tacchini di tutte le schifezze colonialiste che l’America produce e ci impone con la violenza e il ricatto ma non siamo capaci e in grado di importare anche il loro vento rivoluzionario quando esso si manifesta? Perchè ci becchiamo soltanto gli osceni F35 ma non gli scatti evolutivi e risolutivi?”. In California stanno avvenendo diversi episodi di grande rilevanza dal punto di vista sociale, iniziati alla fine dell’autunno del 2012. La California è da sempre un gigantesco laboratorio sperimentale. In Usa si dice: “Quando arriva una novità dalla California, esultano il diavolo e il buon Dio: sanno che uno dei due vincerà di sicuro”. Perchè il peggio e il meglio della civiltà occidentale, negli ultimi 50 anni, è venuto da lì. Noi, qui, importiamo soltanto la parte diabolica, quella mercatista, consumista, la peggiore. Raccontai l’episodio cardine quando si verificò, il 5 novembre del 2012, ma non ebbe alcuna risonanza. L’Italia è molto lontana da quella modalità d’approccio. Ecco il fatto: la California è uno stato molto ricco, contribuisce per il 22% al pil nazionale. Se fosse una nazione, sarebbe la quinta potenza al mondo. Il loro pil è pari a quello dell’Italia, Spagna, Portogallo e Grecia messi insieme, intorno ai 3.500 miliardi di dollari l’anno. Nel 2012, in seguito alla crisi, il bilancio statale ha sofferto di una crisi di liquidità che ha spinto il governatore ad attuare tagli lineari nell’istruzione pubblica, nella ricerca scientifica e negli incentivi per giovani laureati provenienti da famiglie disagiate. Si è scatenato un grande dibattito tra le forze politiche e intellettuali californiane che ha dato vita a un referendum votato il 4 novembre del 2012. Il testo diceva: “Siete favorevoli o contrari all’aumento fiscale di un’aliquota una tantum, nell’ordine del 12%, per tutti i residenti i cui introiti superino 1 milione di dollari all’anno, con la specifica che la somma ottenuta verrà investita al 100% per impedire la privatizzazione dell’istruzione, impedire la chiusura di 450 centri universitari consentendo di elargire 25.000 borse di studio a giovani laureandi meritevoli e d’eccellenza?”. I primi sondaggi (effettuati alla fine di settembre) davano il 70% a coloro che erano contrari alla tassazione. Nessuno va a votare chiedendo un aumento delle tasse, era dato per scontato. L’astensione era data intorno al 65%. Ma a ottobre avvengono episodi inauditi. Le più ricche e famose famiglie di Los Angeles, Santa Monica, Malibu, a proprie spese, cominciano a fare campagna elettorale a favore della tassazione, soprattutto attrici e attori di Hollywood, da George Clooney a Jane Fonda, da Sigourney Weaver a  Matt Damon, da Steven Spielberg a Nicholas Cage, i quali spiegavano in televisione che per loro era inaccettabile l’idea di vivere da super ricchi circondati da un insostenibile disagio esistenziale. Negli altri stati, soprattutto a New York e in Florida, li prendevano in giro con accanimento sostenendo che in California si era diffusa una nuova droga che dava allucinazioni. Il referendum ha visto l’abbattimento dell’astensionismo e la vittoria della mozione pro-tasse con il 59% dei voti. Una settimana dopo, il governatore annunciava di aver radunato 24 miliardi di dollari grazie all’esito referendario, sufficienti a salvaguardare l’intero sistema di gestione dell’istruzione pubblica sia umanistica che scientifica fino al 2017. Nessun media ha neppure parlato dell’argomento, considerata una stranezza californiana. Ma due mesi dopo, i più attenti, si sono resi conto che era stato piantato il germe di una rivoluzione pacifica. E come in ogni rivoluzione che si rispetti, lo si sa sempre dopo. Quell’evento ha determinato un cambiamento radicale di ottica e di prospettiva che ha incentivato gli investimenti restituendo ottimismo pragmatico perchè il dibattito è passato dalla discussione su “come abbattere il debito pubblico dello Stato” a quello, invece reale “come affrontare il problema della re-distribuzione della ricchezza”. Questa è la rivoluzione. Perchè questo è l’unico vero problema. Non 80 euro regalati a un mese dalle elezioni, che valgono quanto la carità vaticana nel 1500. Sarebbe possibile cominciare a parlare in Italia di eventi simili, copiabili? Non credo. Papa Francesco ha suggerito di “mettere in campo la creatività per affrontare i gravi problemi del disagio sociale”. La creatività è questa, inventata nel luogo che ha inventato il tablet, yahoo, amazon. Serve un nuovo parametro sociale, un nuovo approccio sociologico, una diversa comportamentalità esistenziale. Servirebbe un sindacato che annuncia con geniale creatività rivoluzionaria di aver scelto di restituire collettivamente allo Stato gli 80 euro con la dizione “non vogliamo la carità, vogliamo una strategia strutturale” e quindi aprire un dibattito tra tutte le forze politiche per andare a riempire il tragico e gigantesco vuoto prodotto dal genocidio culturale perpetrato negli ultimi 25 anni. Il sindacato, in Italia, non lo farebbe mai, non è certo un caso che siano proprietari di uno spropositato numero di immobili sui quali non pagano tasse. Basta questo, per rendersi conto della confusione che regna in questo paese. Ci vogliono idee operative, immediate, efficaci ed efficienti. Un grado e un grammo di meno portano indietro il paese. Buon Senso e Buona Volontà - valori della tradizione moderata italiana - paradossalmente sono diventati in questo paese il vero nutrimento della rivoluzione di cui abbiamo bisogno. O cambia il comportamento esistenziale dal punto di vista psicologico di tutti, a cominciare dalla classe dirigente, imprenditoriale, sindacale, oppure seguiteremo a passare da una illusione a un’altra, da una mossa truffaldina a un’altra mossa truffaldina. E se alle prossime elezioni europee vinceranno ancora Berlusconi, Renzi e i soliti noti, allora vorrà dire che gli italiani, in realtà, non esistono più. E’ nata una nuova etnia, ignorante e poco intelligente, cosa che gli italiani non erano. Come sosteneva Charles Darwin, “la specie che si evolve, quella più intelligente, non è la più forte o la più sana, ma quella che più di ogni altra è in grado di sapersi adattare ai cambiamenti”. Quindi, ci si adatta al cambiamento e si evolve. Tutti insieme. Oppure ci si adatta alle chiacchiere degli imbonitori di turno, Berlusconi o Renzi, l’uno vale l’altro. Si salveranno in pochi, pochissimi. A mio avviso, non si tratta di soldi, di qualche euro in più o in meno. Si tratta della sopravvivenza di una intera civiltà. Ma non potete aspettarvi che ve lo vengano a spiegare quelli che la stanno distruggendo, perchè dal dissolvimento della Bella Italia ne traggono un loro squallido vantaggio finanziario. Tutto qui. California dreaming! Festeggiare il 25 aprile come data della liberazione dall’invasione nemica e come la fine della guerra, a me sembra un ossimoro pornografico che mi indigna e mi scandalizza. Nella guerra ci siamo dentro fino al collo: è lo scontro tra chi vuole imporre una idea monarchica della vita, pretendendo dai propri sudditi deferenza e riverenza, e i cittadini ai quali dare la guazza di qualche briciola, purchè se ne stiano buoni e zitti: obiettivo finale della guerra è quello di non modificare in alcun modo l’assetto strutturale del sistema vigente. La guerra c’è, solo che non si vede. A questo serve la truppa asservita della cupola mediatica: a nascondere la realtà. Intanto, sul pianeta Terra, c’è già chi ha capito come fare e cosa fare per evolversi verso nuove forme di sopravvivenza collettiva, esistenzialmente sostenibili, spiritualmente forti, culturalmente corpose. Perchè non cominciamo anche noi a pretendere di andare verso il futuro? Se non cambiamo noi, dentro, come possiamo pretendere che cambi la nostra realtà? Buon week end a tutti. Altro che rivoluzione. Gli italiani pensano solo a divertirsi. O comunque così sono indotti a farlo.

"Panem et circenses" è la metafora con cui si descrive un metodo di governo, scrive Paolo Casalini su “Informa Arezzo”. La frase è usata per descrivere la creazione di approvazione pubblica ormai conosciuta col nome di "consenso", non attraverso esemplare o eccellente servizio pubblico e amministrazione dello stato, ma attraverso la diversione, la distrazione, o la semplice soddisfazione delle esigenze immediate, di una popolazione che ha esigenze "palliative" . E’ stata coniata da Giovenale, che la usa per denigrare in modo indiretto il governo di Roma, preoccupato solo di creare strumenti di controllo, semplicistici ma efficaci, nei confronti della gente comune. La frase implica anche l'erosione o l'ignoranza del dovere civico, tra le mancate preoccupazioni del popolo di Roma. Nell'uso moderno, la frase è presa per descrivere un popolo che valorizza aspetti superficiali della vita pubblica, non quanto le virtù civiche. Secondo Giovenale, in tutto lo spettro politico dell’epoca repubblicana, si connota una supposta banalità e frivolezza che caratterizza il periodo prima del suo declino e che la spingerà inevitabilmente nel successivo Impero Romano. Probabilmente Giovenale si riferisce ad un epoca passata per non incorrere nelle ire di quella presente, ma la critica resta valida in ogni tempo, poiché sempre le stesse sono le dinamiche di gestione delle masse. Con intenzione simile, si è usata l'espressione "Feste, farina e forca" per definire la vita nella Napoli del periodo borbonico, in cui all'uso di feste pubbliche e di distribuzioni di pane, si accompagnava la pratica di numerose impiccagioni pubbliche, come dimostrazione circense della capacità del potere politico di assicurare il mantenimento della legalità. E’ questa l’evoluzione moderna del concetto di "circenses", laddove anche l’amministrazione della giustizia diventa forma di intrattenimento, argomento di conversazione, e quindi strumento di distrazione di massa. Una forma di distrazione che si accompagna al bisogno di trovare sempre un capro espiatorio che si presti a farsi carico delle disgrazie comuni, e su cui il popolo possa facilmente scaricare, come su un parafulmine, le energie rivoluzionarie o di semplice rivolta…Spiega molto bene Giovenale: dare il cibo a buon mercato e offrire forme di intrattenimento, "panem et circenses",  è stato il modo più efficace per salire al potere (e per conservarlo) [...] iam pridem, ex quo suffragia Nulli / uendimus, effudit curas; nam Sie Dabat Olim / imperium, fascio littorio, legiones, omnia, nunc se / continet atque duas tantum res anxius optat, / Panem et circenses . [...] (Giovenale, Satire 10,77-81)Dopo duemila anni, il senso è sempre lo stesso: mentre il popolo è impegnato a fare il tifo per i gladiatori di turno, c’è chi scorrazza allegramente tra le sedie del potere. Accade così, anche ai giorni nostri, che in nome di una presunta ristrutturazione e mentre il popolo è troppo assorbito dai circenses estivi, stanno smantellando sotto i nostri occhi il nostro territorio, spostando uno alla volta i nostri uffici, le nostre società comunali, la nostra sanità, l’acqua che beviamo, i cibi che mangiamo, il coordinamento della gestione dei rifiuti, i trasporti pubblici, l’amministrazione dell’energia e creando altrove una cittadella del potere e del denaro (Montepasconia) che ci amministrerà per i decenni a venire: ci stanno infilzando una “supposta” alla volta, ben cosparsa di vasellina, ma ciò che è peggio, è che mentre vengono a raccontarci tutto questo (evviva la democrazia), i guardiani della comunicazione sono tutti o quasi, impegnati ad ascoltare osannanti le schitarrate o i racconti di una Italia lontana. In nome del risparmio stanno smantellando le strutture provinciali, per conferire la gestione del territorio alle Aree Vaste, sotto stretto controllo partitocratico. Ci stanno spogliando di ogni bene comune, smantellando il nostro territorio e lentamente, ma inesorabilmente, ci stiamo trasformando in sudditi... ma l’unica cosa che ci interessa sono i circenses:  da mesi riusciamo solo a parlare di Icastica, Giostra del  Saracino, sagre paesane e concertini vari, più o meno importanti. La forza di un territorio non sono solo i suoi politici, ma anche, anzi soprattutto i suoi cittadini. E la forza dei politici, dipende dal grado di coesione e dalla forza che ricevono dal consenso popolare.  Inutile lamentarsi dello scarso peso politico di chi ci governa, quando siamo proprio noi, disinteressandoci della cosa pubblica, a togliere peso e forza all’azione politica. Un popolo interessato solo a trovare il modo come passare il tempo, avrà una classe politica che farà il possibile per accontentarlo, giustificando il suo impegno in nome del turismo, di una fantomatica offerta culturale, della promozione del territorio, di una offerta economica che non arriva e non arriverà certo in nome di una festicciola. Mentre si smantellano le università, mentre si alleva un popolo di capre nell'illusione che la cultura sia ovunque, facile, a buon mercato e senza sacrificio alcuno, in nome di un turismo che non si interessa affatto al nostro agitarsi nella melma fangosa in cui stiamo affondando, stiamo lasciandoci addormentare cullati da un concertino, pogando felici delle nostre illusioni e del nostro nulla. Per il nostro bene naturalmente!

Italiani, un popolo di festaioli, scrive Mario Rossini a Beppe Severgnini. Gentile Beppe, vorrei approfittare della tua conoscenza del mondo per chiederti una conferma, o una smentita, sul fatto che noi italiani siamo piuttosto festaioli, altro che tristi e depressi. Facciamo questo conto. Il periodo delle festività natalizie è il più lungo dell'anno, ma non è il solo. Natale, Capodanno, ponte dell'Epifania consentono a molti di godersi dei giorni spensierati, per non parlare degli studenti che non studiano. Appena ripresi dalla botta di vita arriva San Valentino, festa minore promossa di ruolo, poi il buon vecchio Carnevale, che da qualche parte è ancora una bella e sentita tradizione. Seguono la Festa della Donna e la festa del Papà, da non sottovalutare. Poi Pasqua, da associare con un bel ponte e con le ultime settimane bianche, iniziate a metà gennaio, o con le prime uscite tipo capitali estere. Il 25 Aprile ed il 1° Maggio completano le feste primaverili, da bollino rosso del traffico. La festa della Mamma c'è ancora, in questo mese gli studenti stanno viaggiando in lungo ed in largo con le gite scolastiche, che tutto sono meno che culturali. Arrivano la festa della Repubblica, l'agognata fine delle lezioni ed il rompete le righe, tutti al mare o in montagna. L'estate italiana è calda ed allegra, colma di occasioni di divertimento. A fine agosto si rientra con il magone ma non per molto. Hanno inventato Halloween, ne avevamo proprio bisogno, associato al ponte di inizio novembre permette di ri-abituarsi gradatamente allo stress da divertimento. L'8 dicembre, ponte dell'Immacolata, dà il via alla stagione della neve, si respira l'aria natalizia che porta con sè cene aziendali, regali, caccia all'occasione di viaggio (secondo le ferie stabilite) per l'imminente periodo di festività. Il cerchio si chiude e ricomincia un altro giro di giostra. Se poi questi giorni cadono a metà settimana hai voglia, la festa aumenta. Con dei periodi così spezzettati ne risente il lavoro, non certo il divertimento. Forse ho dimenticato quà e là qualche tradizione locale, ma più o meno credo di aver messo tutto.

L'Italia è il Paese dei Festival, scrive “La Stampa”. Abbiamo più eventi di qualunque Stato d'Europa. Immaginate che bello un viaggio attraverso l’Italia in cui ogni città sia una festa, piena d’incontri culturali, spettacoli gratuiti, gente interessante per le strade e offerte convenienti. Nel Paese dei festival un percorso del genere è possibile, anche se un tantino lungo, caotico ed arzigogolato. Tanto che per farcela entro l’anno bisognerebbe saltare qualche tappa. Perché i festival sono ormai innumerevoli e si accavallano. Anche senza contare quelli di musica e di cinema, le fiere, i saloni, le rassegne e le lezioni di storia a Roma o Milano, il viaggio è complicatissimo. Si potrebbe cominciare dal Festival della Formazione, fino al 30 a Mirano. Fabio Chiusi, 30 anni, laureato alla London School of Economics, ne cura la parte social network: «Facciamo live blogging, siamo su Twitter e su YouTube e cerchiamo di far vivere l’evento anche in Rete». All’inizio di luglio farà lo stesso al Festival Caffeina di Viterbo, curato da Filippo Rossi di FareFuturo, ed è appena tornato dal Festival del Giornalismo di Perugia. «C’è un popolo che si muove tra i festival – racconta - per ovviare alla banalità della tv, da un lato, e dall’altro alla noia dell’accademia». Poi scappa via perché c’è da prendere l’aperitivo spritz di gruppo che a Mirano scandisce l’ora del prima di cena, mentre al mattino c’è il caffè e il pomeriggio il tè con gli ospiti della manifestazione. Se invece vi piace il gelato, a Firenze fino al 31 c’è il festival dedicato, in contemporanea col Maggio musicale. Quello dell’Economia di Trento è invece fissato dal 3 al 6 giugno. Direttore scientifico il professor Tito Boeri, coinvolto anche in Economia e Società Aperta, un evento della Bocconi per la città di Milano. Ancora a Firenze, dal 9 al 12 giugno, c’è il Festival del viaggio, da non confondere con quello della letteratura di viaggio dal 24 al 27 settembre a Roma. A luglio i festival si diradano, la gente va in vacanza. Ma l’eccezionalità italiana, il campanilismo reso evento, si conferma lo stesso per tutta l’estate alla Versiliana di Forte dei Marmi e certo a Cortinincontra. Sempre in Toscana c’è il Foto Festival dall’8 al 17 luglio a Massa. E a Fiuggi il Family Festival dal 24 al 31. Finalmente arriva settembre e, tornati dal mare, si può ricominciare a viaggiare. Il Festival della Mente a Sarzana è il primo appuntamento dal 3 al 5. Giulia Cogoli, l’organizzatrice, nel mucchio non ci sta: «I veri festival sono unici, hanno un’unità di tempo, di luogo e spesso di tema. La Milanesiana o gli incontri letterari nella Basilica di Massenzio a Roma io li considererei rassegne».  Però sempre lei inaugura proprio in questi giorni i Dialoghi sull’uomo a Pistoia. A settembre c’è pure il genitore di tutti questi eventi: il Festivaletteratura, proprio così. Tutt’attaccato, perché pure nei nomi, fateci caso, si cerca di renderli diversi l’uno dall’altro, nonostante siano tantissimi. Ad esempio, il Festival Filosofia di Modena manca del “della” ed è dal 18 al 20 settembre. Scherza Michelina Borsari, la direttrice in partenza per Saint Emilion in Francia, uno degli otto Paesi con cui organizza eventi del genere: «La Siae registra 1500 festival, ma i più solidi sono una cinquantina. Alcuni sono di teatro, danza, cinema; in ogni caso, forme contemporanee di sapere che riportano la parola nello spazio pubblico. Un’esigenza che non caratterizza soltanto l’Italia ma che qui è stata più acuta». Forse pure troppo, già che gli eventi eccezionali son diventati perenni. Ecco il Festival Internazionale di Poesia dal 9 al 21 giugno a Genova, Parma Poesia dal 15 al 19 dello stesso mese, Parco poesia a settembre a Riccione, il Poesia Festival a fine settembre in provincia di Modena e il Festival della Poesia civile a novembre a Vercelli. C’era pure Bergamo poesia, ma ora rimane solo Bergamo scienza ad ottobre. In compagnia del Festival della Scienza dal 29 ottobre al 7 novembre a Genova, del Festival delle Scienze a gennaio all’Auditorium di Roma, di Scienza in piazza dall’11 al 21 marzo a Bologna. A Perugia invece, dal 30 settembre al 3 ottobre, c’è il Science Festival. Infine a Milano, dal 22 al 28 marzo, c’è il Vedere la Scienza Festival. Non va meglio con la letteratura, che non contenta di Mantova aggiunge dal 18 al 20 giugno a Bassano del Grappa il Piccolofestival Letteratura, dal 20 maggio al 22 giugno il Festival Letterature a Roma, dal 29 giugno all’1 luglio il FestivAltura a Verbania sui temi della montagna, dal 18 al 21 novembre a Cuneo Scrittori in città e dal 15 al 19 settembre Pordenone legge. Ed esiste pure Pordenone pensa. Se non vi bastasse. 

Quanto vanno forte i festival Tra letteratura e scienza, riparte la stagione delle rassegne. Che non conoscono crisi, grazie ai finanziatori più assortiti, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso. Piazza Grande gremita per la lezione magistrale di Enzo Bianchi al Festival Filosofia 2014 Avanti, cultura! Con il debutto delle Scienze all’Auditorium di Roma è iniziato il lungo calendario dei festival, una corsa fra almeno 67 eventi - alcuni studi ne censiscono fino a 209 - dedicati a libri e astronauti, economisti e filosofi ma anche cuochi e tradizioni. Nonostante la crisi, gli appuntamenti culturali spopolano: per allungare la stagione turistica, a maggio come in autunno, non c’è ormai sindaco che non desideri affollare la propria città di fan di un grande scrittore o di uno scienziato illuminato. Gli happening intellettuali hanno successo di pubblico. E di sponsor, istituzionali e privati: attraggono investimenti che superano i 24 milioni di euro all’anno, 400mila in media per ogni rassegna secondo le stime di Guido Guerzoni della Bocconi di Milano. Ma i soldi arrivano anche dall’Unione Europea: solo come “fondi strutturali” per lo sviluppo del Mezzogiorno, le regioni del Sud hanno ricevuto in cinque anni da Bruxelles 72 milioni di euro per portare in piazza arti e saperi. Dalla fine degli anni ‘90 i festival culturali hanno conquistato la scena in tutta Italia, grazie alla loro capacità di avvicinare lettori ed esperti, di coinvolgere autori, ricercatori, studenti, fondazioni ed enti locali. Solo per la letteratura, seguendo l’esempio della manifestazione più antica, quella di Mantova (che ha compiuto 18 anni), ce ne sono oggi almeno 33. BookCity a Milano si è conclusa nel 2014 vantando come l’anno prima “130 mila visitatori” e centinaia di incontri. L’agenda s’infittisce ogni stagione. «L’impatto economico positivo per le città è stato confermato da innumerevoli studi», commenta Pierluigi Sacco, professore ordinario di Economia alla Iulm. Ma se la forza commerciale è certa, lo è meno quella sociale: la voglia di sapere testimoniata da questi appuntamenti non è ancora riuscita a innescare un cambiamento nazionale, almeno stando alle statistiche che ci vedono in coda all’Europa per consumi culturali. Perché? Prima del dibattito, la radiografia. Quanto costano i festival impegnati? I big, come Mantova o Genova per la Scienza, hanno un budget che va dagli 1,5 ai due milioni di euro. Pochi però possono contare su investimenti così consistenti: meno di uno su 10, stando all’ultimo rapporto di Guido Guerzoni, “Effettofestival”. Un quarto degli eventi si mantiene invece con un bilancio fra i 250 e i 500mila euro. Quasi la metà se la cava con meno. E chi li paga? Principalmente gli enti locali. Praticamente ogni festival ha almeno un comune, una provincia o una regione fra i sostenitori, a cui si affiancano spesso le camere di commercio. Il municipio di Milano, ad esempio, nel 2013 ha finanziato 29 kermesse, per un totale di un milione e 400 mila euro di contributi. Il grosso è andato a rassegne di cinema e teatro, ma ci sono anche eventi come la Milanesiana di Elisabetta Sgarbi (direttore editoriale di Bompiani) a cui sono stati assicurati 80mila euro. “Collisioni”, la manifestazione che unisce letteratura e musica a Barolo, ha ricevuto dal Piemonte 70mila euro. Il Pirellone del leghista Roberto Maroni ha dato il suo supporto alle tradizioni padane: con 5mila euro al Festival celtico dell’Insubria 4mila al Festival internazionale del Folclore. Invece i dialoghi di Trani, in Puglia, per l’edizione 2013 hanno potuto contare su 46mila euro dall’Unione Europea e altri 32mila da Stato e Regione. Briciole rispetto ai 104 mila euro arrivati da Bruxelles al “festival della Magia” di Crotone attraverso il dipartimento calabrese all’Istruzione. Ed è ancora niente rispetto ai 118 mila euro garantiti dai “Fondi strutturali europei” per l’ultimo Diamante Festival nel Cosentino, dove fra mostre, convegni e concerti si celebra sua maestà il Peperoncino: aggiungendo i contributi nazionali, lo show “piccante” ha ricevuto 348mila euro a stagione, e ne ha raccolti quasi altrettanti dai privati. A parte la sponda europea, solida soprattutto al Mezzogiorno, è difficile contare sul settore pubblico in tempi di spending review. Al festival della Letteratura di viaggio di Roma il Campidoglio ha dimezzato l’anno scorso le sovvenzioni: da 80 a 48mila euro. «Noi abbiamo subìto tagli del 35 per cento», racconta Vittorio Bo, creatore del primo e più importante Festival della Scienza, quello di Genova. La Provincia era fra i fondatori del progetto: ancora nel 2009 aveva garantito 100mila euro. «Un contributo importante, ora azzerato», spiega Bo: «Manteniamo per fortuna il sostegno degli altri, fra cui il ministero dell’Istruzione. E le riduzioni in generale sono state proporzionali a quelle decise dai privati». Quali privati? Le più presenti, anche se si trovano a metà tra pubblico e profit, sono le fondazioni bancarie. L’ente filantropico della Cassa di risparmio di Torino, ad esempio, ha finanziato nel 2013 ben 72 festival per 975mila euro. Gli aiuti sono andati a iniziative consolidate come Scrittorincittà, organizzata dall’assessorato alla Cultura di Cuneo, ma anche a un “Festival nazionale Luigi Pirandello” (stessi fondi: 20mila euro) allestito da un’agenzia di comunicazione torinese, del cui evento nella vicina Coazze resta in Rete giusto una pagina Facebook con 134 “mi piace”. E ancora: gli incontri sulla Scienza a Genova sono stati possibili anche grazie ai 360mila euro della fondazione di Compagnia di San Paolo. Mentre dal ramo solidale del Banco di Sardegna sono arrivati 40mila euro al noto festival di Gavoi e altrettanti a “Leggendo Metropolitano” di Cagliari. Accanto alle fondazioni, è aumentata in questi anni la presenza delle multiutility e delle società di servizi locali, che vogliono così radicare la loro influenza sul territorio. Hera, il colosso che controlla rifiuti, acqua ed energia in Emilia Romagna e in parte del Nord Est, ha speso nel 2013 quasi tre milioni di euro in sponsorizzazioni, un milione e 100 solo per la cultura. A Bologna, dove ha la sede principale, ha sostenuto di recente un festival poetico, uno di fumetti, diversi di cinema e alcuni musicali. L’emiliana Iren ha messo in bilancio 4 milioni e 700mila euro per sostenere iniziative benefiche, sportive e letterarie. Per il suo Nord-Ovest, A2A ha investito un milione e 750mila euro. La romana Acea poco meno di tre milioni. Ci sono poi grandi aziende come Eni, 21 milioni e 438 mila euro spesi destinati alla cultura nel 2013 – anche se con l’arrivo di Claudio Descalzi la generosità è in corso di revisione –, Finmeccanica, Coop (che ha partecipato al festival della Tv di Dogliani, a quello di Mantova e all’“Ilaria Alpi” di Riccione), Vodafone e Telecom. Infine, ci sono i partner locali. Dalle banche agli aeroporti, sino a pastifici, bar, trattorie, hotel, artigiani, autoricambi, caseifici, arredatori e vivai. Il Festival di Mantova riceve dai privati il 75 per cento del budget (dipendendo solo per l’11 dalle istituzioni mentre il resto viene dai biglietti), e ha 150 sponsor, che vanno da Hera a Persol passando per studi di commercialisti o “il raviolificio sotto casa”: «Alcune grosse aziende si sono allontanate perché mettiamo tutti gli sponsor sullo stesso piano», racconta Marzia Corraini: «Ogni incontro ha il suo pannello con i loghi dei promotori, a prescindere dalla dimensione della società. Certo: c’è chi è presente per più giorni. Ma per noi tutti i partner, grandi e piccoli, sono uguali: è in questo la nostra libertà. E la nostra forza sul territorio». I contributi possono essere sia economici che “strumentali”: dagli sconti per i partecipanti alla pubblicità per gli eventi. Il “Centro Latte Rapallo” ad esempio ha messo a disposizione «le etichette di oltre 100 mila bottiglie di “Latte Fresco Tigullio Alta Qualità”, distribuite in tutta la provincia di Genova» per pubblicizzare il festival di Comunicazione di Camogli. Comunicazione riuscita: ad ascoltare Umberto Eco e gli altri ospiti sembra siano arrivate 20 mila persone. Perché ai privati interessa tanto investire sulle riflessioni in pubblico del filosofo Remo Bodei o del romanziere Andrea de Carlo? Perché sono seguite da un sacco di gente. Anche se stabilire con certezza quanta, è impossibile. I festival più trasparenti comunicano solo le presenze: ovvero non i visitatori, ma il numero complessivo di partecipanti, che conta due volte chi segue due convegni. Ed eccoli: 66mila biglietti venduti a Mantova; 130mila spettatori per gli eventi gratuiti di BookCity, 90mila ascoltatori al Festival di Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo (220mila considerando anche gli incontri non filosofici), 45mila al raduno della Mente di Sarzana, 14mila a LetterAltura sul Lago Maggiore, 13mila a Bergamoscienza, e così via. C’è però anche chi si limita, nei comunicati, a indicare “migliaia di spettatori” (Popsophia, Tolentino), oppure segnala soltanto il numero di click online o ancora dichiara laconicamente “sale piene”. Quello che è certo è che il pubblico non ha conosciuto crisi. «Devo ammettere: avevamo un po’ di paura l’anno scorso, considerate le difficoltà economiche delle famiglie», racconta Marzia Corraini, fra i fondatori del FestivaLetteratura di Mantova: «Ma ancora una volta ci siamo stupiti: i visitatori sono aumentati». E non è solo dal numero di sedie riempiti che si può valutare il successo. Ci sono eventi piccoli come “Dedica” di Pordenone, che raggiunge solo le cinquemila presenze ma riesce ogni anno ad approfondire un autore nuovo, producendo contenuti di spessore. E poi c’è il contesto. Quello che una rassegna dà al suo territorio. Lo spiega bene lo scrittore e presidente dell’Associazione “L’Isola delle storie” Marcello Fois in una ricerca su “L’Italia creativa” di Annalisa Cicerchia: «L’ultima edizione del Festival di Gavoi», racconta, «è stata visitata da 30mila spettatori, in un paese di tremila abitanti. Arrivano grandi scrittori che non ricevono alcun tipo di cachet. La manifestazione costa 220 mila euro e in questi anni il Pil del Comune è cresciuto del 24 per cento. Ciò significa che si sono aperti alberghi dove non esistevano, si è riavviato un camping che da 25 anni era chiuso. Il turismo si è espanso per tutto l’anno, compreso l’inverno. In Barbagia». Che i conti tornino, per i commercianti locali, lo ha dimostrato anche il Festival per l’Economia di Trento (chi se non loro?), che nel 2008 ha affidato ai propri partecipanti una card con cui segnalare le spese in pernottamenti, ristoranti, negozi e musei: scontrini da 154mila euro al giorno. «Tocca chiederci oggi: cosa resta di tutto questo fermento?», si domanda l’economista Pierluigi Sacco: «I grandi eventi danno grandi ritorni - sul breve periodo - per grandi investimenti. Ma dobbiamo confrontarci sul loro scopo: riescono a cambiare la politica dei luoghi in cui avvengono? Ad avere un impatto sull’istruzione? Sui consumi? Sulle abitudini della popolazione?». Secondo Sacco, la risposta è: più o meno no. Nel senso che hanno dimostrato di servire poco nella loro forma-standard, che vuole un grande scrittore, o un noto intellettuale davanti a un pubblico passivo e felice. L’unico modo perché della cultura “resti attaccata”, sostiene il docente, è puntare sull’interazione. Sullo scambio. Come avviene, insiste, nei laboratori per studenti del Festival di Genova, che permettono ai bambini di “mettere le mani” nella scienza. Secondo lui, il dialogo da attivare fra gli adulti e gli autori dovrebbe essere diverso: un confronto,  più che una conferenza. «È vero, il nostro pubblico è composto per più della metà da scuole», risponde Vittorio Bo, «ma non dobbiamo snobbare gli incontri frontali, anzi: c’è un pubblico adulto che ha bisogno di sedersi e ascoltare persone intelligenti. Il dialogo forse non si sente. Ma perché è interiore e profondo».

Dura dodici mesi l’anno la stagione dei festival letterari in Italia, scrive "Italia.it". Con formule collaudate o innovative da presentare agli operatori, agli appassionati di buone letture e al grande pubblico, il panorama dei festival letterari mette in risalto “firme”emergenti e scrittori già affermati a livello nazionale e internazionale. Il panorama di queste manifestazioni che si susseguono tutto l'anno lungo la penisola è molto variegato sia nelle proposte che nella formula tematica, territoriale o commerciale. I festival letterari rappresentano spesso un vero e proprio connubio tra il fatto culturale e l’evento spettacolare. Il festival è infatti un momento unico in cui l'autore può creare un contatto diretto con il proprio pubblico. Diversi per storia e origini, nati per iniziativa di intellettuali, fondazioni o librai, i festival letterari rappresentano vere e proprie realtà di riferimento per la narrativa italiana. Saldi al momento nella loro leadership e forti della loro lunga storia, si possono elencare il Salone Internazionale del Libro di Torino,  la Fiera della piccola e media editoria Più libri più liberi di Roma, il Festival della Letteratura di Mantova  e quello degli autori di Lucca, il Festival Internazionale di Poesia di Genova e quello organizzato da Internazionale a Ferrara. Accanto ai capisaldi della letteratura spiccano kermesse autoriali che si contraddistinguono per la particolarità della location. Accolte in piccoli borghi o un suggestive piazze, queste manifestazioni rappresentano vere e proprie chicche nel calendario di incontri letterari italiani. Cortina d'Ampezzo, per esempio, ospita nei tradizionali spazi delle Poste e nella nuova e suggestiva cornice della “Conchiglia” di piazza Venezia, una rassegna dedicata alla letteratura ma che dà spazio anche ai dibattiti, al teatro e alla musica. E ancora, scendendo lungo la penisola, nelle ridenti cittadine di mare di ToscanaRomagna e, già fino alle Marche e all’Abruzzo sono decine e decine le occasioni di incontro con gli autori di saggi, romanzi e cataloghi. A cominciare dalla frequentatissima vetrina di Capalbio libri, che si tiene ogni anno nel cuore del borgo medievale.  Dalla costa tirrenica a quella Adriatica. A San Benedetto del Tronto va in scena Scrittori sotto le Stelle, l’appuntamento estivo in riva al mare.Palermo, nello splendido palazzo Steri, si rinnova l'appuntamento dedicato all'editoria indipendente, Una Marina di Libri. La capitale ospita uno dei festival più suggestivi: Letterature, festival Internazionale di Roma, apprezzata kermesse presso la Basilica di Massenzio al Foro Romano. Lungo tutta la penisola vi è poi un filone di manifestazioni che fondono tra loro vari "generi": scienza, filosofia, noir, fumetto. Genova si è affermata in questo senso come punto di riferimento per la divulgazione scientifica, mentre Modena, Carpi e Sassuolo sono diventate capitali della filosofia con il Festivalfiolosofia. Courmayeur da oltre vent'anni dà spazio al giallo con Noir in Festival, mentre Trento è la vetrina in cui presentare libri sull'economia e accendere dibattiti a tema. Ce n'è per tutti i gusti.

L'Italia dei festival cinematografici, scrive “Italia.it”. L’Italia, patria di grandi registi, ma anche luogo di innumerevoli set italiani e stranieri, ospita ogni anno diverse rassegne cinematografiche di carattere internazionale. Sicuramente la più importante è la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica che ha luogo nell’incantevole Venezia, all’interno dello  storico Palazzo del Cinema, sul Lungomare Marconi, al Lido di Venezia. Il festival, che si svolge tra la fine di agosto e l'inizio di settembre, è il secondo festival cinematografico più antico del mondo dopo il Premio Oscar (la prima edizione si tenne, infatti, nel 1932). Si svolge sempre in un’altra bellissima città d’arte italiana, il Torino film festival. Nata nel 1982 nella città della mole antonelliana, che ospita anche il Museo del cinema, la rassegna è dedicata soprattutto alle realizzazioni indipendenti e, oltre al cinema d’autore e di genere,  prende in considerazione anche cinematografie straniere e produzioni video. Dal 2006 anche la Città Eterna ha la sua rassegna cinematografica; si tratta del Festival internazionale del film di Roma che si tiene in autunno a Roma presso l'auditorium Parco della Musica. Nella città considerata la capitale del cinema italiano e dell'industria cinematografica, location prediletta dai grandi registi e sede della cosiddetta “fabbrica dei sogni”, Cinecittà, non poteva mancare un festival dedicato alla Settima Arte. Sempre a Roma ha luogo anche il RIFF - Rome independent film festival. Nato nel 2000, ha lo scopo di promuovere il circuito cinematografico indipendente, con particolare attenzione alle opere prime italiane. Il festival si tiene presso il nuovo cinema Aquila, la Casa del Cinema a Villa Borghese e il Kino. Degni di interesse anche festival cinematografici minori che hanno un certo riscontro di pubblico e critica e che si svolgono, tra l'altro, in bellissime zone di villeggiatura. A cominciare dall'Ischia Film Festival nel Castello Aragonese di Ischia, a luglio. La manifestazione, in cui si premiano le opere, i registi, i direttori della fotografia e gli scenografi che valorizzano “location” italiane o straniere, organizza anche il Convegno Nazionale sul cineturismo. C'è poi il “Taormina film fest”, storico festival cinematografico internazionale che si tiene nel suggestivo Teatro antico di Taormina. La rassegna ha anche ospitato la premiazione dei “David di Donatello”, il premio cinematografico italiano per eccellenza, e i Nastri d'argento del sindacato giornalisti cinematografici. Infine, la Mostra internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, altro importante festival cinematografico che nasce nel 1964, si tiene nella splendida città costiera delle Marche. Una menzione a parte, poi, per il Giffoni film festival, una rassegna di cinema per i ragazzi che ha luogo a Giffoni Valle Piana, in provincia di Salerno dal 1971. Le giurie del Festival sono composte da giovani italiani e stranieri che vengono ospitati dalle famiglie di Giffoni e dintorni e che, oltre a visionare i film, discutono con registi, autori e interpreti. Grandissimi nomi partecipano ogni anno a questa rassegna della quale il regista François Truffaut, nel 1982, ha lasciato scritto: “Di tutti i festival del cinema, quello di Giffoni è il più necessario”.

L’Italia dei Festival del cinema scrive Ambra Vannicelli su “50epiù”. Da quello di Venezia, il più antico del mondo, agli oltre 150 Festival sparsi in tutto il Paese. Prossimo appuntamento è con il Festival Internazionale del Film di Roma. La Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, in corso fino al 6 settembre, è il festival più vecchio del mondo. Ha 71 anni e non sentirli, visto che ancora oggi si conferma un importante punto di riferimento per la produzione cinematografica mondiale. L’Italia ha all’attivo un numero assai sostanzioso di Festival dedicati al cinema, cortometraggi inclusi. Il calendario è fittissimo. Basti pensare che una volta chiusa la Mostra di Venezia seguirà una sfilza di rassegne cinematografiche. Il primo appuntamento che segnaliamo è con il Festival Internazionale del Film di Roma. Tra gli ultimi arrivati (nasce nel 2006), si tiene dal 16 al 25 ottobre. Torna a ottobre anche il Napoli Film Festival che quest’anno celebra Michelangelo Antonioni in occasione dei 50 anni di “Deserto Rosso”, il film che vinse il Leone d’Oro a Venezia nel 1964. A seguire Torino Film Festival, alla 32° edizione, in programma dal 21 al 29 novembre. Da Torino a Firenze con il Festival dei Popoli, dedicato al cinema documentario, che si tiene dal 28 novembre al 5 dicembre. E poi sarà la volta del Festival Internazionale del Cinema di Salerno, uno dei più antichi, nato all'indomani della Seconda Guerra Mondiale, nel 1946. In Italia, secondo un elenco parziale stilato da wikipedia, si contano oltre 150 festival cinematografici, nessun Paese ne vanta così tanti, nemmeno gli Stati Uniti nonostante l’imponente industria cinematografia.  Alcune rassegne sono molto longeve e ancora attive. Nel 1949 ne debuttano ben due: il Filmvideo festival internazionale del cinema di Montecatini Terme (Pt), rassegna che propone il meglio dei cortometraggi, che si terrà dal 12 al 19 ottobre, e il Valdarno cinema FEDIC a San Giovanni Valdarno (Fi), dedicato al cinema indipendente. Nel 1952 invece nasce Trento Film Festival. La rassegna  presenta e promuove  film e video di ogni nazionalità, genere e durata con al centro la montagna, l’avventura e l’esplorazione. L’appuntamento con la 63° edizione è dal 30 aprile al 10 maggio 2015. Andando avanti con le rassegne più longeve nostrane e ancora in attività, tra le più prestigiose c’è il Taormina Film Fest, erede della Rassegna Cinematografica di Messina e Taormina nata nel 1955. A questo punto impossibile non ricordare i Premi David di Donatello, destinati alla migliore produzione cinematografica italiana e straniera. La prima cerimonia di premiazione si è tenuta  1956 a Roma al Cinema Fiamma. Nel 2007 il David è diventato Accademia del Cinema Italiano. Il 25 novembre 2009 Gian Luigi Rondi, classe 1921, viene nominato presidente a vita. Altri Festival dedicati al cinema nasceranno nel corso degli anni, sempre più internazionali, originali, ma anche di “nicchia”.  Tra i tanti meriti, quello di far conoscere i film di giovani registi, opere prime, pellicole che hanno avuto poca fortuna nella distribuzione. Al riguardo 50&Più con la sua sede di Roma fa la sua parte sponsorizzando sin dall’inizio il Santamarinella Film Festival (Rm), nato dieci anni fa. La rassegna  è dedicata al giovane cinema italiano d’autore, vetrina per quei registi esordienti che non trovano adeguati spazi per presentare le proprie opere. Infine, oltre al primato del Festival cinematografico più vecchio del mondo, l’Italia vanta un Festival molto particolare. Si tratta del Festival di Giffoni (Sa). Nato da un’idea dell’attore Claudio Gubitosi per promuovere e far conoscere il cinema per ragazzi. Una delle particolarità di questo Festival sono i giurati: hanno dai 18 anni in giù e provengono da ogni parte del mondo.

Più festival che scandali, ed è tutto dire, scrive  Beppe Severgnini dal Corriere della Sera. Della Letteratura. Delle Letterature. Del Libro. Dei Libri. Del Libro Usato. Del Libro Internazionale. Del Libro per Ragazzi. Del Libro all’Orizzonte. Dell’Autore. Degli Autori. Del Libro con gli Autori. Dell’Inedito. Della Piccola e Media Editoria. Dell’Editoria Indipendente. Della Microeditoria. Del Giornalismo. Della Poesia. Della Marina. Del Noir. Del Giallo. Del Fumetto e dell’Animazione. Della Penna d’Oca (e del Byte). Dei Bambini (o Children che dir si voglia). Del Racconto. Delle Parole dello Schermo. Del Viaggio. Del Pensiero. Della Filosofia. Della Comunicazione. Di Cinema e Letteratura. Dell’Innovazione. Del Mondo Antico. Della Scienza. Della Mente. E poi: Internazionale, In Riva al Mare,  A Piedi Nudi nel Parco, Sotto le Stelle, Sul Fiume, sulle Bocche. Questa selezione dimostra una cosa: in Italia produciamo più festival che scandali, ed è tutto dire.  Alcuni sono diventati i migliori d’Europa nel loro genere (Mantova per la letteratura, Perugia per il giornalismo). Molti sono buoni. Tutti sono volonterosi e, quasi sempre, pieni di gente. Il fenomeno è stato studiato, discusso, copiato. Le rivalità italiane si sono, infatti, festivalizzate. Se una città ha un festival, la città vicina non può farne da meno. Cosa spinge il pubblico verso questi incontri? Il piacere di stare insieme, la confusione gioiosa, la gratuità e un po’ di serendipity: la voglia di trovare ciò che non si sta cercando (un libro, un’idea o un fidanzato, dipende). Nelle sagre – caposaldo della vita sociale italiana – si mangia, si beve, si balla. Nei festival si può ascoltare e guardare. Per chi ha problemi di colesterolo e coordinazione, una dignitosa soluzione. Cosa spinge le amministrazioni locali a organizzare, sostenere, sponsorizzare i festival? La possibilità di ottenere molto con poco. Gli autori, a differenza di ogni professionista dello spettacolo, si offrono gratuitamente. Il verbo non è scelto a caso: per molti di noi il richiamo dell’approvazione è irresistibile. In tanti, ormai, sono in grado di riempire una piazza; e chi non ci riesce si consola, a cena, pensando d’essere un intellettuale. E’ questa umanissima debolezza il carburante del sistema. Gli scrittori sono manodopera gratuita, zelante, incontenibile. Nessuno attraversa l’Italia per vendere venti copie d’un libro; molti sono disposti a farlo in cambio di una distesa di occhi attenti e dell’applauso finale. Parlate con un editore. Vi dirà: per impedire a certi autori di partecipare ai festival dovremmo incatenarli! E sarebbe fatica inutile. Si presenterebbero così sul palco, con un nuovo titolo, “Novello Prometeo”. A proposito: se qualcuno fosse a Firenze, oggi tocca a me (Festival del Viaggio). Sabato ad Asti apro invece Passepartout (direttore scientifico Alberto Sinigaglia). Poi chiudo coi microfoni fino a settembre. Sarà una lunga estate d’astinenza. Se parlerò ai ginepri della Gallura nel maestrale, vuol dire che sono proprio conciato male.

Sanremo:I grandi scandali del passato, scrive Gigi Vesigna su “Marida Caterini”. Non solo canzonette. Le polemiche, il gossip, gli scandali, veri o costruiti ad arte, sono sempre stati ingredienti fondamentali per il Festival di Sanremo. Nel corso degli anni molti sono stati gli avvenimenti rimasti nascosti al grande pubblico che hanno coinvolto i protagonisti. Ho scelto cinque edizioni, tra le sessantadue della storia della kermess, e di queste vi svelo alcuni episodi curiosi che sono venuti alla luce soltanto anni dopo. Cominciamo quasi dagli inizi.

Siamo nel 1955 . Claudio Villa è il vincitore annunciato del Festival, prima ancora che cominci. Alla vigilia della serata finale, colpo di scena: Villa si dà malato, colpito da una bronchite fulminante che gli impedisce di cantare. Lo fotografano a letto, nella sua camera all'Hotel Nazionale, dove appare sofferente: poi arriva l'annuncio ufficiale:non canterà la sera della finale. Sconforto tra i molti fan del Reuccio, ma la verità è un'altra. Sua moglie Miranda. nota doppiatrice (sua la voce italiana di Sherley Temple) ha scoperto che Claudio l'ha tradita e si è precipata a Sanremo, minacciando di fargli una scenata in diretta tv. Panico tra gli organizzatori, poi il regista Vito Molinari ha un'idea risolutiva: le telecamere inquadrano un giradischi con il disco "Buongiorno tristezza" canzone che, naturalmente, vince, mentre Villa segue il festival in tv. Solo dopo un incontro senza testimoni, riferiscono che è scoppiata la pace. Claudio Pica e Miranda si erano sposati nel 1952 e si separeranno nel 1962...

Undici anni dopo: è il 1966. Arbore e Boncompagni arrivano al Festival in macchina da Roma con l'amica Carla Puccini e si inventano una beffa ai danni dell'ormai mitico Mike Bongiorno che presenterà la manifestazione con lei e con Paola Penni. A un certo punto Carla dovrà svenire in scena e beccarsi un bel po' di pubblicità. Ma Mike fiuta l'inganno e quando, con la  coda dell'occhio, vede che alla sua destra Carla sta per accasciarsi, chiama la telecamera sul suo primo piano e la mantiene sinchè il palco non è sgombrato dalla "salma". Grande Mike che con gli undici Festival presentati, merita ampiamente il monumento che sarà collocato a Sanremo in via Escoffier, angolo via Matteotti, a due passi dall'Ariston e inaugurato da Fabio Fazio il 15 febbraio. Alto un metro e 96,  a Sanremo non è costato un euro perchè ha pagato tutto la moglie Daniela. Un altro monumento, dedicato a Michael Nicholas Salvatore Bongiorno ( è il suo nome per intero) si trova a Breuil, vicino  Corina, dove Mike aveva una casa e andava a sciare.

Arriviamo al 1974. E' il festival più scassato della storia: vince una certa Gilda che fa l'infermiera a Torino. Si scatenano i rumours: secondo alcuni, Gilda, una bella ragazza bionda, sarebbe "fidanzata" con il potente assessore al turismo Napoleone Cavaliere, secondo altri protetta da camorra o 'ndrangheta.  La realtà è molto più banale. Il suo agente, Nello Marti, ha saputo che le giurie sarebbero state dislocate soltanto in caserme e così, prima del Festival, Gilda fece una tournèe proprio nelle caserme italiane. E vinse facile.

Eccoci al 1990. Grazie al patron Adriano Aragozzini, al festival si torna a cantare dal vivo, ma la sede è il nuovo Palafiori, una cattedrale nel deserto voluto per motivi politici da un potente gruppo democristiano. Dentro fa un freddo glaciale, sulla volta volano sciami di pipistrelli. Vincono i Pooh con "Uomini soli", ma la vittoria se la sarebbe meritata Toto Cutugno che canta "Amori" con Ray Charles. Ma già alla vigilia i Pooh avevano in tasca la vittoria: era la condizione perchè, per la prima volta, si mettessero in gioco al Festival.

E siamo nel terzo millennio: è il 2001. Come quest'anno è vigilia di elezioni e tocca a Raffaella Carrà la presentazione del festival. Lei è riluttante: da sempre sa- gliel'ha preannunciato un profetico pendolino- che Sanremo per lei sarebbe stata sicuramente una sciagura. Ma la Rai praticamente la costringe: subito dopo il Festival si va alle urne e in viale Mazzini sanno bene che con lei non ci saranno comportamenti politicamente scorretti. Il rischio era che il Festival potesse andare in malora. Cosa che non succede, grazie alla vittoria di Elisa e al secondo posto di Giorgia. Le canzoni salvano le elezioni. Un dèjà vu? Speriamo.

Estate 2015: gli italiani ammazzano i festival? Si chiede “Rockol”. Ci sono, sì, realtà solide e funzionali sul panorama musicale estivo dal vivo in Italia, e rassegne ormai istituzionali come il Rock in Roma o il Lucca Summer Festival (o festival emergenti come l'Home Festival di Treviso, per citarne uno), dopotutto, sono lì a dimostrarlo. L'estate rock all'aperto italiana, però, negli ultimi anni ha perso dei pezzi difficili da rimpiazzare (e, al proposito, di una nuova edizione di Mondo Ichnusa al momento non si hanno notizie), e presto potrebbe perderne altri. Perché da una parte ci sono dei promoter e degli imprenditori pronti a tenere duro, e dell'altra dei comitati di quartiere sul piede di guerra o delle giunte comunali che di collaborare, proprio, non ne vogliono sapere. Così, mentre all'estero si annunciano i sold-out nelle prevendite e le ultime definizioni nei cartelloni dei maggiori eventi per la prossima estate, qui da noi manifestazioni di primi piano ancora lottano nella speranza di poter aprire i battenti. C'è chi è fortunato, come il Milano City Sound, che proprio in queste ore dovrebbe ufficializzare la propria edizione 2015, e c'è chi ancora naviga a vista - Rock in Idro e Arezzo Wave - nella speranza che qualosa, di qui a breve - perché se Roma non è stata costruita in un giorno, nemmeno un festival di prima grandezza si può organizzare in una settimana - si muova. Ecco, quindi, cosa abbiamo rischiato, o ancora stiamo rischiando, di perderci per la prossima estate. Il Rock in Idro, dopo anni passati a migrare tra le aree periferiche al capoluogo lombardo, pareva aver trovato un porto sicuro nell'Arena Joe Strummer del Parco Nord, a Bologna: la conferenza stampa - e le dichiarazioni degli attori coinvolti (municipalità e promoter) - prima, durante e dopo l'edizione 2014 parlavano di un contratto triennale che avrebbe messo in sicurezza il festival almeno fino al 2017. Poi, a inizio del 2014, l'amara sorpresa: un ripensamento del Comune avrebbe indotto l'agenzia organizzatrice, Hub Music Factory, a tornare sui suoi passi e cercare - compatibilmente con le tempistiche necessarie per organizzare una manifestazione di tali proporzioni - una location alternativa. "Siamo rimasti soli, ancora una volta, nella ricerca di una location che di diventare stabile - purtroppo - non ne vuole sapere", ci ha confessato una decina di giorni fa il co-fondatore della Hub, Alex Fabbro, allora prossimo a una riunione con l'assessorato che sulla carta avrebbe potuto essere dirimente. Ma che, ad oggi, di sbrogliare la situazione non è stata ancora in grado. Problemi, ma connessi ai comitati di quartiere, li ha avuti anche il Milano City Sound, il tribolato festival milanese un tempo ospitato dall'Arena Civica poi spostatasi - negli ultimi due anni - all'Ippodromo, sempre nel capoluogo lombardo, e che dal 2015 troverà spazio in una porzione del parco di Monte Stella, sempre nel quartiere di San Siro: dopo ripetuti sopralluoghi tecnici da parte delle autorità, la rassegna organizzata da Vittorio Quattrone dovrebbe ufficializzare la nuova edizione a giorni. Ancora top secret, al momento, il cast per la prossima estate, anche se il promoter ha già anticipato - per sommi capi - quali saranno le caratteristiche della rassegna prossima ventura: nell'area concerti di trentamila metri quadri complessivi, oltre a due aree per altrettanti palchi - della capienza di 18mila presenze per il main stage e 3mila per il palco secondario - troveranno spazio anche posti ristoro, strutture sportivi e spazi polifunzionali per incontri, corsi e altro. "Ci hanno accusato di voler cementificare uno spazio verde", ha risposto Quattrone alle accuse dei comitati che hanno dato battaglia perché il Comune non concedesse lo sfruttamento del parco attiguo all'ex area del PalaSharp: "Per la verità il discorso portato avanti da chi ci osteggia vede nel pubblico dei concerti un'orda di criminali. Il nostro scopo, invece, è solo quello di valorizzare - per due mesi su dodici - una porzione di uno spazio verde di Milano, che comunque resterà a disposizione del pubblico. Il piano sottoposto ai tecnici del comune, che, tra l'altro, non hanno mai rilevato irregolarità, non prevede nessun intervento che possa arrecare danni permanenti (come, ad esempio, l'utilizzo di piastre in acciaio o in cemento per gli allestimenti), ma include il ripristino a nostro carico del manto erboso dopo la manifestazione in zone che ne prevedano l'eventuale rinnovamento". Ancora più ricca di ostacoli, che ne starebbero seriamente ipotecando la realizzazione, è la strada che potrebbe condurre al prossimo Torino Traffic Free Festival. Le ultime, in merito, sono state riferite a metà gennaio dal giornalista della Stampa Gabriele Ferraris: nonostante un progetto molto ambizioso, che potrebbe vedere iscritti nel cartellone i nomi nientemeno che di Thom Yorke e Bjork, l'impossibilità da parte del municipio del capoluogo piemontese, unita alla confusione creatasi in giunta dopo la presentazione di almeno tre progetti, due da parte degli organizzatori storici (divisisi in due gruppi, con da una parte Gianluca Gozzi e il chitarrista dei Subsonica Max Casacci, e dall'altra il direttore artistico del locale Hiroshima Mon Amour Fabrizio Gargarone e il giornalista Alberto Campo) e uno (quasi subito abortito) da parte della giunta, non avrebbe fatto altro che complicare ulteriormente il processo di organizzazione, già dalle fasi preliminari. Non va meglio dall'altra parte dell'Italia, a Napoli, dove il Neapolis Festival, già lo scorso anno, fu costretto a chiudere i battenti. E anche per la prossima esatte Sigfrido Caccese, che della manifestazione è uno degli organizzatori, vede nero. E ripete riflessioni che gli addetti ai lavori conoscono fin troppo bene: "Sembra che la formula festival, in Italia, di funzionare non ne voglia sapere. Soprattutto in una città come Napoli, che oggi come non mai sta mostrando una scarsa inclinazione verso questi spettacoli. Ed è un vero peccato, non solo per gli appassionati, perché un festival come il Neapolis crea un grande indotto". Scarsa vocazione festivaliera a parte, il muro di gomma contro al quale rimbalzano i tentativi degli organizzatori pare essere il solito: "La mancanza di collaborazione da parte delle istituzioni è totale", denuncia Caccese, "Ormai, ad averli come interlocutori, non ci proviamo nemmeno più. Per il resto noi non molliamo, e a organizzare il festival ci proviamo. Magari su soli due giorni, invece di tre, come successo in occasione delle passate edizioni, magari più in piccolo: se non quest'anno, l'anno prossimo la formula giusta per imbastire la manifestazione la si troverà". E se dovessimo dare una percentuale di possibilità di una riapertura dei battenti già per la prossima estate? "Il 20, 30%. Non di più...". E non c'è storia o tradizione, quando si tratta di mettere in piedi un festival, a tenere. Lo sanno bene gli organizzatori di Arezzo Wave, una delle sigle storiche sul panorama tricolore, che da un paio d'anni a questa parte sembrava aver ritrovato il suo spazio - seppure decentrato, nel 2013, quando si tenne in Valdichiana, rispetto alle edizioni storiche - nella città che gli aveva dato i natali: l'edizione del 2015 della manifestazione ideata da Mauro Valenti è a rischio. Il problema? Il solito: istituzioni estremamente lente nel fornire risposte e comitati di zona sul piede di guerra. A spiegarlo è stato lo stesso Valenti, in una lettera aperta inviata al Corriere di Arezzo: "Nelle edizioni 2012 e 2014 (nel 2013 non ci è stata data la possibilità di farlo ad Arezzo) abbiamo investito più di 1.200.000 euro senza ricevere un euro dal Comune, portando risorse nel territorio e mettendo Arezzo come capitale delle politiche musicali giovanili del nostro paese. Ciò nonostante ogni nostra richiesta è ignorata, cosa strana visto anche il marchio di proprietà comune tra fondazione e amministrazione e l'obiettivo teorico della sua valorizzazione".

Storia di un fallimento (perchè l’Italia non ha un grande festival), si chiede  Daniele Salomone, Direttore di Onstage. Perché l’Italia non ha un grande festival? Perché non riusciamo ad organizzare un evento all’altezza di quelli che invidiamo ai paesi europei e agli Stati Uniti? Domande simili sono tornate di moda quest’anno perché è saltato l’Heineken Jammin’ Festival e abbiamo assistito al caso eclatante dell’A Perfect Day, annullato dopo che la line up completa era stata annunciata. Ma questo problema in Italia ha radici molto profonde: è un grave fallimento del sistema-paese. Se non abbiamo un festival degno di questo nome le responsabilità sono di tutti. Dei privati, delle istituzioni e del cosiddetto popolo. Il lungo periodo di recessione non aiuta, ma non può essere un alibi: in questo campo faticavamo molto anche quando il paese cresceva. I privati. Eventi come Glastonbury e Sziget contano su organizzazioni che lavorano 12 mesi l’anno sulle proprie creature, mentre da noi sono sempre stati i promoter a tentare di mettere in piedi i grossi festival. Un’anomalia che produce effetti negativi: intanto è possibile che una struttura impegnata nella produzione di concerti abbia poche risorse per organizzare raduni lunghi e di una certa dimensione. Poi c’è un conflitto d’interesse: il promoter tende a privilegiare l’artista del suo roster nella costruzione del cast, anche se la scelta si rivela controproducente per la qualità del cast stesso. Ma soprattutto esiste un problema imprenditoriale: nessuno è riuscito a proporre un prodotto-festival all’altezza del mercato. Per esempio, le location si sono sempre rivelate inadatte e l’offerta di ristorazione non si è mai evoluta: non è più accettabile stare in coda due ore per bere una birra e non poter mangiare altro che un panino freddo con la salsiccia scotta. Dovreste vedere come funzionano questi servizi nei festival europei. Non dimentichiamoci che stiamo parlando di eventi destinati a una fascia di popolazione benestante. Le istituzioni. Non è una novità che la classe politica italiana abbia problemi con la gestione del patrimonio e delle iniziative culturali. L’amministrazione pubblica non riesce a prendersi cura di un tesoro dell’umanità come Pompei, figuriamoci se può comprendere l’utilità di un festival musicale per l’economia di un territorio e di una collettività. Per il Sziget si mobilitano gli enti di promozione turistica ungheresi: non è un caso che degli oltre 350mila spettatori, la stragrande maggioranza sia straniera. Budapest spalanca le porte ai turisti e mostra all’Europa il suo profilo migliore. Noi non sappiamo farlo, eppure di turismo dovremmo essere campioni. E non posso fare a meno di chiedermi come si comporterebbe un Comune di fronte alla possibilità di organizzare un grande festival nel proprio territorio, se qualche abitante protestasse perché contrario. A giudicare da quanto avviene a Milano, dove un piccolo comitato di residenti condiziona la programmazione e la qualità (acustica) dei concerti a San Siro, ho come il sospetto di conoscere la risposta. Gli abitanti sono voti. Il pubblico. Noi. Noi che viviamo la musica come il calcio, con le tifoserie di artisti e generi che rifiutano tutto quello che è “avversario”. Noi che non abbiamo il minimo interesse per quello che non conosciamo e persino ai concerti dei nostri idoli non degniamo di uno sguardo gli artisti spalla. Noi che diamo la colpa agli organizzatori se il prezzo del biglietto ci pare troppo alto, quando invece dipende quasi sempre dal cachet degli artisti. Noi che se il prezzo è giusto ci lamentiamo del cast (e, appunto, ignoriamo le richieste dei big). Noi che tra un weekend al mare e tre giorni dentro una tenda non abbiamo dubbi. Noi che ai festival italiani non ci andiamo, ma all’estero si perché è più figo. In effetti. Ho citato Glastonbury e Sziget perché sono realtà virtuose che propongono modelli opposti. Il primo punta tutto sulla qualità (e la quantità) della proposta musicale, ma state certi che vostro figlio di due anni troverà tutte le strutture necessarie per passare una splendida giornata. E se vi si dovessero rompere le acque mentre ascoltate i Rolling Stones, non c’è problema. Tanto per capirci, in 40 anni di storia, Glasto si è costruito una tale credibilità che i biglietti finiscono 8 mesi prima dell’evento, quando nessun artista è stato annunciato. A Budapest invece hanno puntato sull’esperienza: andare al Sziget significa farsi una settimana di vacanza in un parco a tema (musicale) situato dentro un’isola sul Danubio. Concerti di tutti i generi e dimensioni, dj-set, ma anche giostre, meditazione, sport e infinite altre attività. Peace&Love. L’ingresso costa relativamente poco ma la struttura guadagna offrendo tutti i servizi necessari con efficienza ed efficacia. E Budapest gioca di sponda. Sia in Inghilterra che in Ungheria, pur in epoche e contesti diversi, hanno pensato a un prodotto (magari aggiustandolo in corsa), l’hanno posizionato presso un pubblico che lo chiedeva e non hanno incontrato resistenze sul territorio. Guadagnano, creano lavoro e fanno divertire un sacco di gente. Così succede negli Stati Uniti per eventi come Coachella e il South By Southwest. Noi, d’estate, dobbiamo accontentarci dei cosiddetti concert series, cioè manifestazioni che offrono più o meno uno show a sera in un determinato periodo e nella stessa location. Va bene perché comunque ci portano grandi nomi, soprattutto internazionali. Accontentiamoci, ma non nascondiamo la testa sotto la sabbia.

LA CONTROSTORIA DELLE CASE EDITRICI ALTERNATIVE.

"Controstoria", ecco il dossier sulle case editrici alternative, scrive Gaetano Farina su “Affari Italiani”. Poiché va tanto di moda pubblicare “dossier”, anche noi abbiamo deciso di elaborarne uno per scavare nell’“oscuro” mondo della Controinformazione.  In tutti questi anni di Governo– Berlusconi, il problema dell’indipendenza dell’informazione è inevitabilmente rimasto centrale nel dibattito del nostro Paese. I recenti avvenimenti – più o meno scandalosi - “Veline in Parlamento”, “Compleanno Noemi”, “Escort a Palazzo Grazioli”, “Festini ad Arcore”, “Guerra contro Anno Zero”, “Nuove Case ai Terremotati Abruzzesi”, “Querele a Repubblica, Unità e Manifesto”, “Decreto Intercettazioni”, “P3”, “Appaltopoli” e “Lodi vari”, anzi, hanno acceso, se non avvelenato, ancor di più il dibattito. E allora, dopo aver “recensito”, sempre su Affari Italiani, le testate on-line e cartacee cosiddette “alternative”, i tempi ci sembrano appropriati anche per proporre un ampio dossier sulle case editrici votate alla controinformazione, a pochi giorni dalla conclusione della seconda edizione del Salone dell’Editoria Sociale, nuovo punto di riferimento per l’editoria indipendente in contrapposizione alla Fiera del Libro di Torino sempre più assomigliante ad un “megagalatticomarket” spudoratamente allineato agli interessi ed alle strategie dei più forti marchi editoriali e dei numerosi sponsor bancari. Dunque, proviamo qui a riunire tutte quelle case editrici che - seppur con un profilo e un approccio differente - ricercano, molto più delle altre, le Verità oltre quelle ufficiali, istituzionali e veicolate dai media convenzionali; s’impegnano a diffondere storie ed informazioni taciute, scarsamente rappresentate o liberate dalla manipolazione mediatica. Un modus operandi che, in Italia, viene etichettato come Controinformazione. Un’etichetta paradossale dato che, dagli anni dello stragismo terroristico, passando per i delitti di Mafia, sino ad oggi, all’epopea del trionfante berlusconismo, la controinformazione è spesso coincisa con la vera informazione. Esplorare la produzione di queste agenzie culturali significa, contemporaneamente, ripercorrere i fatti e gli avvenimenti, analizzare i problemi cruciali della storia contemporanea d’Italia e del resto del mondo, al riparo dalle censure, le manipolazioni, le omissioni, le finalità propagandistiche, i limiti ed i difetti propri dei normali organi d’informazione, asserviti ai grandi poteri istituzionali ed economici. Le produzioni che tratteremo e la controinformazione, in generale, possono essere accusati di “dietrologia” o di alimentare “teorie complottiste”, ma, alla lunga, qui in Italia, riguardo alle grandi stragi, ai problemi legati alle grandi opere, agli sprechi miliardari, alla corruzione, alla connivenza Mafia-Politica, hanno quasi sempre avuto ragione. Hanno anticipato verità e futuri scenari, o, comunque, hanno contribuito a suggerirci altre strade di ricerca della verità, oltre a quelle battute dagli organi d’inchiesta (inclusi media) istituzionali o convenzionali. Inoltre, la controinformazione ha il merito di dar voce a culture, movimenti, comunità, aggregati di pensiero e di espressione alternativi al modello cultural-ideologico dominante che, spesso, per autopreservarsi, è costretto a nascondere, mistificare, dissimulare. Del resto, strati sempre più ampi della popolazione e dell’opinione pubblica faticano a identificare i giornali e l’informazione universale come un “contropotere”. Quando, al contrario, il ruolo, il mestiere, la vocazione del giornalista dovrebbe essere quella di controllare il Potere che, per natura, tende a strabordare, a violare quelli che dovrebbero essere i suoi limiti, che, per autoalimentarsi e riprodursi, tende a mettere in secondo piano gli interessi della collettività. La controinformazione è un “fenomeno” che ha origine dagli anni ’60-’70, grazie al lavoro ed alla militanza di quella che viene battezzata “Sinistra Antagonista”, massima contestatrice, almeno a quell’epoca, delle basi economiche e culturali su cui si regge il nostro sistema sociale. Oggi, tante cose sono cambiate, sembra quasi che la Sinistra sia collassata o preferisca/sia costretta ad essere assente, sebbene si continui a sostenere che la cultura, l’istruzione, l’intellettualismo “siano più cose di sinistra”. In verità, è un sentimento diffuso la nostalgia per la controinformazione ed il giornalismo d’inchiesta di una volta, si lamenta la perdita (e la mancanza) di intellettuali veri ed onesti e di giornalisti coraggiosi e liberi. Compito del vero (autentico) giornalista, a servizio non del suo giornale, ma della comunità e della Verità, dovrebbe esser quello di richiamare il Potere ai suoi doveri - in ogni settore e in ogni articolazione -, smascherarlo e denunciarlo se agisce contro il bene comune, se ricorre a trucchi ed accordi sottobanco per mantenersi intatto. Da un po’ di anni, fortunatamente (a dispetto di chi promuove campagne contro i movimenti d’opinione diffondibili sui social-network), ci è venuto in soccorso il Web ed i potentissimi strumenti che ci offre permettono di addestrarci e prepararci ad una rivoluzione nell’indagine giornalistica e nel modo di fare informazione, in generale. Nel o sul web, e quindi ad ogni lato ed angolo del planisfero, i fatti, le notizie, le foto, le immagini, i video, i grafici, i dati statistici, i commenti, le opinioni, i giudizi, le descrizioni, le osservazioni, le critiche, le riflessioni e le denunce circolano ad una rapidità tale che sono molto difficili da monitorare e quindi da “censurare”. Tanto che, grazie al lavoro e ai contributi condivisi in rete da qualsiasi area del mondo, si sono sviluppati – dal basso - network indipendenti di influenza globale come Indymedia. Estremamente utili, se non fondamentali, per chi cerca ricostruzioni non veicolate da media o da fonti giornalistiche “di parte”. Per chi vuole bypassare i network controllati o, almeno, condizionati da poteri economici e politici, asserviti, anche geneticamente o inconsapevolmente, alla cultura e al pensiero dominante, lottizzati, limitati ad una “visione occidentale” della realtà o a una sua visione “economica”-“capitalistica”, escludendo a priori l’ approccio “umanistico”, snobbisti dei “Sud” del mondo. Per chi è alla ricerca di fatti e notizie che normalmente sono oscurati o ignorati, per chi è interessato a quelle azioni, istanze, richieste, proposte e rivendicazioni provenienti da critici e contestatori dello status quo economico-sociale e dei modelli su cui si fonda, alle minoranze, ai gruppi sociali discriminati, alle controculture, ai portatori di valori e di sistemi di pensiero minoritari. Tutte le 7000 case editrici sparpagliate sul nostro territorio si possono avvalere dei prodigi di Internet, ossia dell’estrema facilità e velocità con cui si possono ricercare e reperire analisi, documenti, commenti, interpretazioni, confronti, dibattiti, approfondimenti, proposte, idee su determinate questioni e problematiche. Tanto che è sempre più fiorente la produzione di quelli che vengono chiamati “Istant Book” su problemi, vicende politiche e giudiziarie, catastrofi, tragedie, delitti e fatti criminosi di particolare gravità ancora all’ordine del giorno. Certo, nel catalogo di quasi tutte le case editrici, anche di colossi come Arnoldo Mondadori per intenderci, si ritrovano opere che - per come solitamente viene intesa rispetto ai criteri che abbiamo descritto sinora - si possono definire di “controinformazione” o che, in diversa maniera e misura, non risparmiano critiche feroci o sbattono in faccia verità scomode ai poteri forti e/o ai “padroni del mondo”. Tuttavia, in quello stesso catalogo se ne possono trovare, contemporaneamente, tante altre (di opere) che sostengono questi poteri o esaltano idee e tesi a loro favorevoli. Nell’elenco che fra qualche riga vi presenteremo, abbiamo voluto visibilizzare, invece, quelle realtà che, sfruttando lo strumento-libro, sono nate per/ si pongono l’obiettivo di sostenere e diffondere una visione, un’interpretazione, una lettura alternativa della società, del presente e del passato, dei fatti, degli avvenimenti, dei problemi più complessi. “Alternativa” che si può tradurre in: contropotere, controculturale, antistituzionale, anticapitalistica e antimperialistica, antilobby, nonviolenta, fuori dal pensiero dominante, umanistica, improntata alla centralità assoluta dei diritti umani, al dialogo ed alla solidarietà fra i popoli, alla ricerca della verità oltre le rappresentazioni ufficiali, all’incontro con la “diversità”, che non si fida dei media convenzionali – solitamente di proprietà di rilevanti gruppi economici -, che non si fida delle promesse e degli appelli dei politici e della politica, di chi ci governa, che è per il rispetto dell’ambiente e per uno sviluppo sostenibile. Certo, come ammonisce il giornalista-attivista Paolo Barnard, bisogna stare attenti a identificare alcuni scrittori, giornalisti, giornali ed editori come degli “Eroi Anti-Sistema”. Altrimenti si rischia di prendere per “oro colato” tutto quello che dicono, quando, invece, anche nei confronti di chi ci appare “amico” o “fidato” occorre mantenere costantemente una distanza critica. Alla lunga, in tanti si possono rilevare dei finti eroi, interessati esclusivamente a crearsi un determinato tipo di pubblico a cui destinare in vendita i propri “prodotti” e nulla più. Qui di seguito troverete quasi 300 schede di case editrici più o meno conosciute; alcune, in verità, sono completamente nuove al grande pubblico e possono risultare delle “semplici” associazioni culturali. Ciò significa che hanno bisogno ancor di più di questa “vetrina”…In ogni scheda proposta viene sintetizzata la biografia e l’ “identità” della casa editrice, ma, soprattutto, sono recensite alcune sue pubblicazioni, diciamo, “rappresentative” o che siamo riusciti ad analizzare. Considerando anche il grado di collaborazione delle case editrici interpellate, possono essere presentati uno o più titoli per ogni scheda. In universo così magmatico come quello dell’editoria italiana, in cui navigano oltre 7000 editori, ammettiamo di aver potuto perdere la bussola, qualche volta: pertanto, ci scusiamo, fin da ora, con chi abbiamo dimenticato o “non recuperato”. Siamo pronti ad essere redarguiti ed, eventualmente, a “riparare” in qualche modo, rivisitando e “ristrutturando” periodicamente il dossier. Ma, insomma, avendo a disposizione gli spazi offertici da Affari Italiani, ci sembrava doveroso contribuire alla riaffermazione degli attori, delle agenzie, dei laboratori e delle correnti culturali impegnati nella contro-informazione e offrire un minimo di visibilità a quei marchi che, soffocati e stritolati nel mercato editoriale da grandi colossi quali Mondadori, Rizzoli o Feltrinelli, meriterebbero più considerazione per le storie e le Verità che ci propongono.

FAMILISMO AMORALE. LE GUERRE PER L'EREDITA' DEGLI ARTISTI.

Anche per Totò, il principe, ci furono due funerali. Una folla immensa e commossa diede l'ultimo saluto al grande attore. ''A Roma 30mila e nella sua Napoli 150mila'' dice il cinegiornale Luce del 24 aprile del 1967, che titolò il servizio: ''Il principe e la marionetta''.

La morte di Pino Daniele. Due verità sulle ultime ore. L’ex moglie rilancia: era svenuto, ritardi nei soccorsi. Amanda: ha deciso lui. Furto nella villa in Maremma. L’autopsia: confermata l’insufficienza cardiaca, scrive Fulvio Fiano su “Il Corriere della Sera”. Non poteva essere l’autopsia a dare una risposta alle domande sulla scomparsa di Pino Daniele, che - come appurato dall’esame effettuato ieri - è morto per insufficienza cardiaca (e dietro l’asciutta formula ci sono i vent’anni di gravissimi e ben noti problemi al cuore del cantautore, anche questi confermati dai medici incaricati dalla procura). Di altro tipo sono i dubbi rilanciati anche ieri dalla seconda moglie dell’artista, Fabiola Sciabbarrasi: «Qualcosa è andato storto, Pino stava molto male e la scelta di portarlo in auto in un ospedale lontano oltre 150 chilometri non me la spiego». Il dolore delle parole non fa sconti alla rivale in amore e ultima compagna del bluesman, Amanda Bonini, di avergli quanto meno prestato soccorsi (e consigli) inadeguati. «Pino era svenuto non avrebbe potuto decidere lui di andare a Roma», accusa la prima. «Era lucido, ha detto lui di metterci in auto», replica la seconda. Una doppia verità che segna una distanza tra le due famiglie marcata già dalle divisioni sui funerali, replicati a Napoli poche ore dopo Roma. Se quel viaggio si potesse e dovesse evitare resta una valutazione soggettiva, in mancanza di una diagnosi medica diretta sul malore. L’unico consulto, che ha preceduto la chiamata, poi annullata, al 118, c’è stato al telefono con Achille Gaspardone, che in tutti questi anni lo ha avuto in cura, con successo: «Pino stava sufficientemente bene - racconta il cardiologo -. Mi ha detto che aveva un senso di malessere, ma non mi ha trasmesso l’ansia di una situazione grave». Sintomi analoghi c’erano stati già in passato e in quei casi Daniele aveva preferito farsi visitare di persona dal medico di fiducia: «Ho parlato sia con lui che con la compagna - continua Gaspardone - e gli ho consigliato di chiamare l’ambulanza». Quindi, prosegue lo specialista, «credo abbia chiamato e poi disdetto perché stava sufficientemente bene, era piuttosto stabile e preferiva andare in un ambiente dove era conosciuto. Poi tutto è precipitato come può succedere nei casi di ischemia miocardica». Daniele, 59 anni, è arrivato nella Capitale dopo oltre un’ora d’auto, quando era già morto. Si sarebbe potuto salvare con un intervento più tempestivo? «Sarebbe prematuro e senza alcuna oggettività dirlo adesso», sottolinea Vittorio Fineschi, uno dei medici incaricati dell’esame (presenti i periti nominati da Fabiola Sciabbarrasi). L’autopsia è durata tre ore e mezza e darà ulteriori risultati nei prossimi giorni con gli accertamenti in programma su campioni prelevati. Dopo la folla dei giorni scorsi, l’artista era solo nella camera mortuaria. Tanti invece gli amici e parenti di un 21enne ucciso la scorsa notte in una storia di camorra. La salma del cantante è tornata in serata a Roma, al cimitero di Prima Porta, per la cremazione. Acquisita all’inchiesta per omicidio colposo (a carico di ignoti) la documentazione medica pregressa. E al ritorno nella villa in Maremma un’altra brutta notizia per la famiglia del cantautore. La serratura di una porta finestra sul retro scardinata ha aperto l’ex podere alla razzia dei ladri. Rubati contanti e due preziose chitarre. A dare l’allarme, ieri pomeriggio, è stata Amanda Bonini. La villa, in una zona isolata, con un ampio giardino attorno e le mura di cinta delimitate da cipressi, non è dotata di videosorveglianza ma di un sistema d’allarme che però sarebbe stato divelto dai ladri, entrati nella proprietà dopo aver scavalcato la recinzione. Secondo i primi accertamenti dei carabinieri di Orbetello il furto sarebbe avvenuto la sera in cui centinaia di migliaia di persone piangevano l’artista scomparso.

Battisti, Pavarotti, Dalla: quando la morte finisce in lite. La decisione sulle esequie e le battaglie per l’eredità. All’origine un incrocio di affetti privati, scrive Renato Franco su “Il Corriere della Sera”. Quei nemici di casa. “Parenti serpenti” (Mario Monicelli, 1992), ma anche “Fratelli coltelli” (Maurizio Ponzi, 1997). La famiglia che da vincolo di solidarietà e fratellanza si trasforma in groviglio di attriti. La battuta di Kipling («tre italiani, tre partiti politici») nel momento solenne della morte diventa «tre parenti, tre opinioni diverse». Se poi i parenti sono pure di più il caos è esponenziale. Nelle famiglie - larghe o allargate che siano - ognuno vuole dire la sua quando arriva l’ora di funerali & eredità. Ma basta anche una testa sola, ma tenace, come quella della vedova di Lucio Battisti a rendere complicati omaggi e celebrazioni.

Grazia Veronese, vedova Battisti, negli anni ha sempre cercato di bloccare tutte le manifestazioni di omaggio al cantautore tanto a Poggio Bustone (Rieti) dove era nato quanto a Molteno (Lecco) che aveva eletto a buen retiro. Ora sarà la Cassazione a decidere la legittimità o meno del Festival «Un’avventura, le emozioni» che si è sempre tenuto a Molteno. Nel frattempo per scoraggiare il pellegrinaggio dei fan sulla tomba di Battisti, ha deciso che le spoglie avrebbero lasciato il cimitero. Sono rimaste solo le canzoni.

Non è stata semplice la gestione dell’eredità Pavarotti. Il tenore morto nel 2007 ci mise del suo, facendo diversi testamenti. Mentre all’indomani del funerale spuntò un’amica che accusò la seconda moglie, Nicoletta Mantovani, di isolarlo dalle figlie avute dal primo matrimonio. Ci fu anche un’inchiesta della procura di Pesaro, a carico di ignoti, su una presunta circonvenzione di incapace quando Pavarotti prima di morire ridefinì eredità ed eredi. Alla fine pace fu: Nicoletta Mantovani e le tre figlie nate dal matrimonio con Adua Veroni hanno raggiunto un accordo per la divisione dei beni immobili.

Per Lucio Dalla nessun testamento, cinque eredi e un grande escluso. Gli eredi sono i cinque cugini (con i figli sono in 10 ad avere voce in capitolo), il grande escluso è quel Marco Alemanno che ha convissuto con il cantante fino alla sua morte. Quindici anni insieme, ma per la legge sono nulla.

FAMILISMO AMORALE (E PATRIMONIALE) - LA GUERRA TRA MADRE E FIGLIO, PER IL TESTAMENTO DI ORIANA FALLACI, È SOLO L’ULTIMO EPISODIO DI UNA FICTION SGUAIATA CHE VEDE LE COSIDDETTE ‘FAMIGLIE PER BENE’ PRENDERSI A CALCI IN FACCIA PER L’EREDITÀ - E’ ACCADUTO IN CASA AGNELLI, CON LA FAIDA TRA MARGHERITA E MARELLA CARACCIOLO - TRA IL FIGLIO ADOTTATO DI RENATO GUTTUSO E MARTA MARZOTTO - FINIRONO IN TRIBUNALE ANCHE I QUADRI DELLA COLLEZIONE DI CARMELO BENE E LE VILLE DI PAVAROTTI…

Francesco Persili per "Il Messaggero". Dynasty all'italiana. La battaglia sull'eredità di Oriana Fallaci è solo l'ultima puntata di una saga di contenziosi giudiziari e appetiti patrimoniali che ha visto dilaniarsi i rapporti all'interno delle grandi famiglie del capitalismo italiano e ha raccontato di lotte senza esclusioni di veleni per le grandi fortune di Guttuso, Carmelo Bene, Pavarotti. Più che la storia di un'eredità contesa, è la fotografia in chiaroscuro della più grande dinastia italiana, la guerra degli Agnelli che ha opposto la figlia Margherita alla madre, Marella Caracciolo, al resto della famiglia, e ad alcuni fra i più importanti avvocati e manager dell'Avvocato. Una disfida sul patrimonio che ha portato la mamma di John, Lapo e Ginevra Elkann a «sentirsi danneggiata dagli accordi ereditari con cui sono stati spartiti i beni del padre Gianni» e ad avviare, prima della pax, una battaglia legale che ha riguardato ville, società, quadri, proprietà e un presunto «tesoretto» di un miliardo di euro. Un altro conflitto che sa di maledizione è quello che ha visto protagonisti gli eredi Formenton e Mondadori sullo sfondo di quella partita di complessi equilibri e battaglie legali mai finite tra Berlusconi e De Benedetti che passerà alla storia come guerra di Segrate. Si trasforma in un feuilleton, invece, la contesa testamentaria sull'eredità di Renato Guttuso, che disvela una lunga controversia tra la musa del grande pittore siciliano, Marta Marzotto, e il figlio adottivo, Fabio Carapezza, designato dall'artista di Bagheria, in punto di morte, suo erede legittimo. La contessa viene accusata dalla magistratura di Varese di aver realizzato in concorso con lo stampatore, Paolo Paoli, e senza l'autorizzazione dell'erede legittimo dell'artista, settecento copie di opere che il pittore siciliano le aveva regalato negli anni del loro grande amore. Marzotto esibisce la fotocopia di una lettera autografa di Guttuso, datata «Roma 23 settembre 1986» con la quale l'artista la autorizzava a riprodurre le sue opere. La vicenda si trascina per anni, il giudice della corte di Appello dà ragione a Marzotto, inizialmente condannata, anche se Fabio Carapezza continua ad essere il solo titolare dell'eredità Guttuso. Un altro artista, la cui eredità diventa un caso giudiziario internazionale al punto da coinvolgere la magistratura italiana, quella francese, e quella del principato di Monaco, è Alberto Burri, il cui patrimonio viene conteso tra il fratello della vedova, la ballerina e coreografa americana, Minsa Craig, e la fondazione dedicata al maestro umbro. La controversia si è chiusa nel 2007 con un accordo che stabilisce che tutte le opere e i beni del maestro spettano alla Fondazione a lui intitolata mentre ai parenti di Minsa Craig sarebbe stata destinata la parte di patrimonio che aveva ereditato da Burri. Tre De Chirico, una tela di Dalì, un dipinto di Kandinskij, un disegno di Tirinnanzi nel quale Carmelo Bene amava specchiarsi, e altri oggetti d'arte sono le opere, invece, al centro del contenzioso tra Raffaella Baracchi, vedova dell'attore e madre della sua unica figlia Salomè, e l'ultima compagna di Bene, Luisa Viglietti, accusata di furto aggravato e continuato. Se il Tribunale civile di Roma ha definitivamente affermato che gli unici eredi dello scrittore Giorgio Bassani sono i figli Paola ed Enrico, rigettando l'impugnazione del testamento avanzata da Portia Prebys, l'insegnante americana che è stata la compagna del romanziere negli ultimi vent'anni di vita, l'eredità di Luciano Pavarotti ha detto della battaglia tra le figlie nate dal matrimonio con Adua Veroni e l'ultima moglie Nicoletta Mantovani. Il contenzioso si è risolto con l'assegnazione a Nicoletta degli immobili newyorchesi, mentre alle figlie restavano la villa di Pesaro, l'appartamento di Montecarlo e alcune proprietà italiane, oltre a una cospicua somma di denaro. Si è conclusa, invece, con una transazione la controversia, condotta a colpi di carte bollate, richieste di prova del Dna e bordate a mezzo stampa, sull'eredità del conte amateur Carlo Caracciolo, tra gli editori più importanti d'Italia, presidente del gruppo L'Espresso e fondatore del quotidiano La Repubblica. Carlo Edoardo e Margherita Revelli, che alla morte dell'editore avevano chiesto il riconoscimento di paternità per poter partecipare all'eredità, si sono visti assegnare parte dell'11,72% dell'Espresso, che alla morte di Caracciolo, era passato a Jacaranda Falck. Un compromesso che fa calare il sipario su una serie vicissitudini dinastiche ché tanto, poi, come scriveva Tolstoj, «le famiglie felici si somigliano tutte mentre ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». Specie quando c'è di mezzo l'eredità.

Eredità, da Fallaci a Pavarotti: i contenziosi sulle grandi fortune, scrive Adnkronos. La guerra tra le figlie del tenore modenese e Nicoletta Mantovani; Marta Marzotto contro il figlio adottivo di Renato Guttuso, Fabio Carapezza. Aspra la contesa tra la vedova di Burri e la fondazione intestata all'artista. La battaglia legale sull'eredità di Oriana Fallaci, scomparsa nel 2006, è un ulteriore capitolo che si aggiunge alla storia dei contenziosi giudiziari che si aprono ogni volta che muore un grande personaggio. Da Pavarotti a Guttuso, da Burri a Bassani a Carmelo Bene, le guerre tra gli eredi hanno sempre riempito pagine di cronaca e aule di tribunali. L'ultima in ordine di tempo è quella che riguarda l'eredità di Luciano Pavarotti. Il tenore modenese è scomparso nel 2007, un anno dopo la Fallaci, ma nel caso di Big Luciano la battaglia si aprì subito tra le figlie della prima moglie e Nicoletta Mantovani. Nel testamento depositato dal notaio Luciano Buonanno, uno dei tre in circolazione, il tenore scriveva che il 50% del suo patrimonio sarebbe stato diviso tra le quattro figlie, il 25% sarebbe andato alla moglie e il restante 25 avrebbe rappresentato, invece, la 'disponibile', di cui il testatore poteva fare quello che riteneva opportuno. Il contenzioso tra Mantovani e le tre figlie del tenore, nate dal matrimonio con Adua Veroni, si sarebbe risolto un anno dopo con l'assegnazione a Nicoletta degli immobili newyorchesi, mentre alle figlie restava la villa di Pesaro, l'ambito appartamento di Montecarlo e alcune proprietà italiane, oltre a una cospicua somma di denaro liquidata loro da Nicoletta Mantovani. Un altro contenzioso giudiziario che ha fatto epoca è quello per l'eredità del grande pittore siciliano Renato Guttuso, scomparso il 18 gennaio 1987. La magistratura ha sempre dato ragione a Fabio Carapezza, l'allora giovane funzionario del ministero degli Interni che, Guttuso, gravemente malato e prostrato dall'improvvisa morte della moglie Mimise Dotti, aveva adottato nell'ottobre 1986 e, sul letto di morte, designato suo erede legittimo. Fu un'adozione lampo (tutto, dall'istanza alla sentenza, si svolse nel solo mese d'ottobre al Tribunale di Roma) dichiarata senz'ombre da altri giudici che hanno rigettato le denunce dei nipoti Dotti. All'epoca dell'adozione Carapezza aveva 32 anni. Quanto a Marta Marzotto, a lungo sua musa ispiratrice e amante, non ha mai dimenticato come fu emarginata da Palazzo del Grillo, casa-studio a Roma del pittore, nei giorni dell'agonia di Guttuso e della sua improvvisa conversione. Nel febbraio 2006 la Marzotto è stata accusata dalla magistratura di Varese di aver realizzato in concorso con lo stampatore, Paolo Paoli, senza l'autorizzazione dell'erede legittimo dell'artista, Fabio Carapezza Guttuso, 700 copie di opere che il pittore siciliano le aveva regalato negli anni del loro grande amore. E questo è solo l'ultimo processo della serie. Senza il consenso dell'erede di Guttuso, Marta Marzotto aveva fatto incollare sul retro delle opere una sorta di personale autentica. Si trattava della fotocopia di una lettera autografa di Guttuso, datata 'Roma 23 settembre 1986', con la quale l'artista autorizzava l'ex contessa a riprodurre le sue opere, in diversi materiali (carta, ceramica etc.) per lo scopo che lei avrebbe ritenuto opportuno. Peccato, però che, all'improvviso poche settimane dopo adottò Fabio e lo nominò suo erede, e che quella lettera non essendo stata autenticata da un notaio non aveva nessun valore legale. Il 16 aprile 2002 la Cassazione ha, infatti, confermato le pronunce del Tribunale e della Corte d'Appello di Milano: Fabio Carapezza Guttuso è il solo titolare dell'eredità Guttuso. Dal civile al penale: Fabio Carapezza Guttuso ha portato alle sbarre la ex contessa. "Ma niente di personale, in giro per l'Italia ci sono 40 processi contro chi ha riprodotto o contraffatto opere di Guttuso", dichiarò. Dopo la morte del pittore, il figlio adottivo ha fondato gli Archivi Guttuso, cui ha destinato lo studio di Piazza del Grillo, e ha integrato la collezione del museo di Bagheria. Ben più intricata la vicenda giudiziaria scatenatasi dopo la morte dell'artista umbro Alberto Burri, scomparso a Nizza nel 1995, che ha coinvolto le magistrature italiana, francese e quella del Principato di Monaco. Il contenzioso si è concluso nel 2007 con un accordo che stabilisce che tutte le opere e i beni del maestro spettano alla Fondazione a lui intitolata. Il patrimonio di Minsa Craig, vedova dell'artista, ballerina e coreografa americana, andrà invece al fratello Cecil e agli altri parenti. Ma la fortuna lasciata da Burri era stata contesa, in un primo momento, tra la vedova e la Fondazione dedicata al marito. Nel 2001 la tregua davanti al notaio: alla fondazione spettevano tutte le opere custodite nell'ex essicatoio del tabacco di Città di Castello, a palazzo Albizzini e nell'abitazione del maestro, mentre a Minsa Craig andavano il casale, i terreni, le ville in Francia incluso tutti i beni che vi erano custoditi e una cospiciua somma di denaro. A riaprire il contenzioso fu il fratello 85enne di Minsa, quando questa scomparve nel 2003. L'accordo raggiunto ha quindi rispettato quello precedente tra la fondazione e la vedova, destinando ai parenti di quest'ultima la parte di patrimonio che aveva ereditato dall'artista umbro. Risale al 2003, invece, la chiusura della battaglia giudiziaria per ereditare i beni lasciati dallo scrittore Giorgio Bassani, scomparso all'età di 84 anni il 13 aprile 2000. La quarta sezione del Tribunale civile di Roma, a marzo di quattro anni fa, ha definitivamente affermato che gli unici eredi dell'autore del capolavoro 'Il giardino dei Finzi Contini' sono Paola ed Enrico Bassani, rigettando l'impugnazione del testamento avanzata da Portia Prebys, l'insegnante americana che è stata la compagna del romanziere negli ultimi vent'anni di vita. A promuovere la causa civile era stata Portia Prebys, che aveva chiesto al Tribunale di diseredare i figli dello scrittore "per indegnità a succedere al padre". Questa richiesta era l'ennesimo atto di una battaglia legale tra i figli e la compagna del loro anziano padre. "Finalmente, ora, questa sentenza, dopo anni di aspra contesa, ha riconosciuto che i figli del professor Giorgio Bassani sono gli unici eredi, respingendo le pretese finora avanzate dalla sua ex convivente, e riconoscendo ai figli quel ruolo morale e affettivo che essi hanno sempre rivendicato con decisione e fierezza", aveva commentato in quell'occasione l'avvocato Alessandro Mete, legale di Paola ed Enrico Bassani. In base al testamento del romanziere, aperto a Roma a metà maggio del 2000 (depositato dal notaio Livio Colizzi presso l'Ufficio successioni del Tribunale civile di Roma), gli unici eredi sono Enrico e Paola Bassani, avuti dalla moglie Valeria Sinigallia, con il quale era separato di fatto. Quel testamento olografo, cioè scritto di pugno, fu steso dallo scrittore ferrarese il 13 luglio 1997. Questo atto notarile ha annullato il precedente testamento redatto nel 1991, nel quale era inclusa tra i beneficiati dall'eredità anche Portia Prebys. Il testamento del 1997 nomina eredi universali i due figli, i quali sono impegnati espressamente dal padre "a curare con sensibilità ed amore la pubblicazione e la diffusione delle mie opere". Prebys aveva chiesto dichiarare nullo questo testamento, ma il Tribunale civile, nel 2003, ha rigettato l'istanza. Tre De Chirico, una tela di Dalì, un dipinto di Kandinskij, un disegno di Tirinnanzi nel quale Carmelo Bene amava specchiarsi, e altri oggetti d'arte. Sono le opere al centro del contenzioso tra la vedova dell'attore e madre della sua unica figlia Salomè, Raffaella Baracchi, e l'ultima compagna di Bene, Luisa Viglietti, finito in tribunale con una denuncia per furto aggravato e continuato fatta dal pm Fabio Santoni ai danni di Viglietti. E Baracchi si è costituita parte civile. La vedova dell'attore, ex Miss Italia '83, che fece coppia con Bene, scomparso nel 2002, dal 1988 al 1992, ha sempre detto di volere tutelare la figlia che oggi ha 19 anni. Moglie e figlia avevano ottenuto l'eredità, pari a circa 3 milioni di euro, nel 2005, dopo che il Tribunale ha condannato la Fondazione 'L'Immemoriale di Carmelo Bene' a rinunciare ai beni che lo stesso attore e regista aveva assegnato alla Fondazione in due testamenti, redatti il 6 ottobre 2000 e il 21 giugno 2001. Bene infatti non aveva lasciato nulla alla moglie, mentre alla figlia Salomè aveva intestato la metà delle quote (l'altra metà come tutto il resto andava alla Fondazione) della società 'Nostra Signora' che gestisce i diritti d'autore e l'appartamento di via Aventina a Roma. All'ultima compagna, Luisa Viglietti, accusata di furto, Bene aveva lasciato il diritto di abitare una parte della casa rimasta a Salomè. Una vicenda intricata nella quale si innestano anche le rivendicazioni della sorella del regista, Maria Luisa Bene, che si è rivolta in Tribunale più volte chiedendo di far luce sulle circostanze della morte del fratello.

NEOREALISMO E MODA.

Il neorealismo di Dolce e Gabbana. «All’Italia del Dopoguerra ha dato un’immagine fortissima. Adesso invece c’è chi pensa che “troppo italiano” sia volgare. Che errore», scrive Paola Pollo su “Il Corriere della Sera”. «Siamo stilisti, non costumisti». Domenico Dolce e Stefano Gabbana mettono subito le cose in chiaro. Non sia mai che qualcuno fraintenda: tra loro e il cinema, anzi il cinema neorealista, è «solo» amore, passione, attrazione. Nonché fonte inesauribile di ispirazione. Così se a New York sono i supporter di «Costumes for Cinema from Tirelli Atelier», esposizione dei capi della sartoria romana creata per i più famosi film, al MoMi (Museum of Moving Arts) è solo perché, nella vita, ad un certo punto tutto torna. Ecco cosa. Inaugurazione, serata, premio (agli stilisti per il «Fashion Award»; a Baz Luhrman per il «Movie Award») e installazione «Nero Sicilia» (24 look uomo e donna dall’archivio).

«È che quando ci è stato chiesto di collaborare a questa iniziativa, per noi è stato come andare a nozze». Tirelli, cioè il Gattopardo: «Erano i primissimi anni e ci ispiravamo a quelle immagini. Ma eravamo giovani non sapevamo chi aveva fatto quegli abiti. Quando lo scoprimmo decidemmo di commissionare a Tirelli l’abito bianco della Cardinale. Volevamo capire se eravamo sulla strada giusta. E quando arrivò ci piaceva certo, ma era così rigido e pesante! Ecco la differenza fra lo stilista e il costumista, ci siamo detti».

Però è anche vero che il neorealismo ce lo avete nel sangue.

«Di più è il nostro mondo. La prima musa fu la Magnani, poi la Loren: mediterranee e formose, sempre le stesse donne».

Possibile che non siete mai stati tentati dagli abiti di scena?

«Ce l’hanno chiesto ma il lavoro del costumista è conoscere, veramente, la storia. Noi ne siamo solo incuriositi. Comunque anche quando lavoriamo con Tornatore e Scorsese per i nostri film chiariamo subito che agli abiti ci devono pensare loro perché la moda in quelle immagini non la vogliamo vedere».

Quindi in un film la moda non dovrebbe mai prendere il sopravvento sul resto?

«Assolutamente no».

Ma ci sono grandi film imprescindibili dalla moda…

«Come colazione da Tiffany, certo. Ma adesso non può essere più così».

Al successo di «Sex in the city» hanno contribuito anche abiti e scarpe.

«E hanno usato anche molti nostri capi, certo. Ma in quei filoni gli abiti durano cinque minuti, poi via un altro».

Facile raccontare ora di voi e il neorealismo, ma quando avete cominciato era a dir poco bizzarro che due poco più che ventenni guardassero a quel mondo.

«Le nostre prime due collezioni parlavano di super modernismo e trasformismo: un vestito poteva diventare tre abiti diversi. Ma fu un insuccesso commerciale: arrivavano i capi e non sapevano neppure come appenderli alle grucce e ci volevano le istruzioni per indossarli. Detto questo: il nero e la femminilità c’erano. Poi a Palermo vedemmo quella locandina con una donna nuda avvolta in uno scialle nero al balcone di un palazzo barocco! “Questo dobbiamo fare noi”, ci siamo detti. Era il 1986. Silvana Torregrossa, un’amica, ci disse che il fotografo era Ferdinando Scianna. E lì nacque tutto. Lo cercammo come pazzi, all’ultimo tentativo lui rispose, salvo scoprire che quella foto non era sua ma lui era l’uomo giusto».

Stefano Gabbana: «Io poi ero attratto da quel mondo che non conoscevo. Domenico invece mi diceva che ero pazzo a parlare di uncinetto e che lui era scappato da quelle cose e che aveva buttato via tutti i portaombrelli di ceramiche! Io adoravo. Milanese con genitori veneti, ero sempre stato infatuato dal Sud. Poi comunque mia nonna vestiva di nero e con il fazzoletto in testa. Quindi era un immagine che conoscevo». Domenico Dolce: «Al liceo mi ero iscritto ai cineforum e andavo a vedermi tutti i film dedicati a Visconti. Ricordo che mi era innamorato di Morte a Venezia. Ma a quell’età non è che sei attratto dall’estetica, non sapevo neanche che avrei fatto questo lavoro».

I film cult e gli abiti di conseguenza?

«“La terra trema”, con gli abiti sdruciti di Tony; “Rocco e i suoi fratelli” e le maglie di Delon, “Bellissima” con i tailleur e le sottovesti della Magnani, “Ossessione” e le canotte bianche di Massimo Girotti».

Il neorealismo oggi?

«Giuseppe Tornatore. Ma viviamo in un’epoca dove tutto è troppo ritoccato e dove ognuno vuole dire la sua. La presa diretta è impossibile. Il neorealismo rappresentava un Paese, che era l’Italia nel Dopoguerra, un’immagine fortissima. Adesso addirittura la gente pensa che il troppo italiano è volgare. Peccato perché non è così La «Grande bellezza? «Meraviglioso ma tristemente vero. E fa pure un po’ male: tutte quelle donne rifatte e ansiolitiche. E anche lui che perde il suo tempo in feste quando potrebbe scrivere. Lo specchio dei tempi: cioè la ciafferia. Ma non ci piace perché noi siamo romantici e sognatori e vogliamo che le donne siano belle e reali».

CHE QUALCUNO LA RACCONTI GIUSTA! LA STORIA NON SIAMO NOI……

Ai posteri l'ardua sentenza. Così si suol dire. Ma noi siamo capaci di giudicare, specialmente noi stessi?

Le sentenze di assoluzione sono una vergogna! Scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Le sentenze sono di due tipi. Quelle di condanna e quelle di assoluzione. Se sono di condanna vanno bene, e sanciscono il fatto che il condannato è colpevole. Su tutti i giornali si dichiara in modo solenne e devoto: le sentenze (di condanna) si eseguono, non si commentano. E soprattutto non di discutono, non si criticano, non si protesta contro di loro, non le si dichiara ingiuste. Una condanna vale la verità. Il secondo tipo di sentenze sono le sentenze di assoluzione. Queste sentenze sono una vergogna. Per definizione sono una vergogna. E infatti, in genere, in aula c’è un bel gruppetto di persone che grida: “vergogna, vergogna”. E se non c’è, il giorno dopo molti giornali titoleranno così: “Vergogna”. Oppure, in modo più efficace, titoleranno: “delitto tal dei tali, non lo ha commesso nessuno”. O: “Nessun colpevole”. Negando la possibilità che qualcuno abbia commesso il delitto ma non sia stato scoperto, cosa che ogni tanto succede. Le sentenze di condanna, per definizione, non si discutono. Le sentenze di assoluzione, per definizione, sono una vergogna. Come mai? Semplice. Il processo penale, da qualche anno, non si celebra più nelle aule dei tribunali ma molto prima. Quando un Pm emette un avviso di garanzia, il processo è già svolto, di fatto, e l’avvisato, o l’indagato, è – di prassi – considerato colpevole del delitto del quale è accusato. Non c’è bisogno di nessunissima sentenza. Da quel momento si inizia a eseguire la prima parte della condanna che talvolta è il carcere preventivo, il quale può durare anche molti anni, altre volte è la gogna realizzata attraverso giornali e Tv, altre volte è tutte e due le cose. In più c’è spesso la perdita del lavoro, gigantesche spese per pagare gli avvocati, problemi di salute, di tenuta nervosa, eccetera. Poi, molti anni dopo, la magistratura giudicante emette la sentenza, ma è chiaro che la sentenza deve essere di condanna, visto che l’imputato è colpevole, altrimenti non sarebbe stato indagato. E se invece la sentenza è di assoluzione, e dunque nega l’evidenza che l’imputato, in quanto imputato, è colpevole, allora è chiaro che è una sentenza vergognosa. Perché è una vergogna mandare assolti i colpevoli, per di più dopo che comunque hanno già scontato (col carcere e con il letame) gran parte della condanna. E i giudici che mandano assolto un imputato sono corrivi, anzi fetenti. A quel punto conta poco anche il capo di imputazione. Ieri, per esempio, “Il Fatto” ha spiegato che l’assoluzione degli scienziati che erano stati messi sotto accusa (come poteva succedere solo in Corea del Nord) per non aver previsto un terremoto, equivale alla sentenza di assoluzione degli agenti che erano accusati di avere ucciso a botte Stefano Cucchi. Naturalmente, in parte, questo è vero: se non esistono prove della colpevolezza di quegli agenti – lo abbiamo già scritto – è sacrosanto che siano stati assolti. Perché – a occhio – l’assoluzione non dovrebbe dipendere dalla gravità della colpa ma dalle prove raccolte contro l’imputato. Così dicono, almeno, i vecchi libri, polverosissimi, di diritto. E però per giungere ad accostare il reato di omicidio al reato di mancata previsione di un terremoto, bisogna metterci un bel po’ di faziosità e pregiudizio. Credo. Ma forse mi sbaglio, non è faziosità: quelli del ”Fatto” credono davvero che gli scienziati dovrebbero prevedere i terremoti, e conoscere gli oroscopi, e indovinare il futuro (almeno il futuro prossimo) e altre cose così. Anche a Salem (Massachussets) nel seicento, molti credevano che le donne poco “timorate di Dio” fossero streghe, avessero poteri soprannaturali e fossero al servizio del diavolo. E dunque, saggiamente, le bruciavano vive, perché ritenevano che quello fosse l’unico modo per cancellarle per sempre. Ciascuno è bene che sia fedele ai propri principi. Anche Travaglio. Anche Kim il Sung, o come diavolo si chiama suo nipote.

Troppa voglia di giustizia sommaria, scrive Cesare Martinetti su “La Stampa”. Viviamo sull’orlo dell’indignazione permanente. «Vergognosa» la sentenza dell’Aquila. «Sconvolgenti» le assoluzioni dei boss della camorra nel processo Saviano. Non parliamo di quelle del caso Cucchi. Va da sé che i parenti delle vittime del terremoto hanno il sacrosanto diritto di chiedere giustizia. È ovvio che ci sembra incomprensibile una sentenza che condanna l’avvocato che per conto dei boss ha proferito miserabili minacce contro uno scrittore e assolve i mandanti. Siamo con il cuore, e non soltanto, accanto alla signora Ilaria che per amore del fratello morto in carcere e con un vivo sentimento di coraggio civile sta battendosi per una causa che dev’essere di tutti. Ciò detto, però, c’è qualcosa che non va in tutte queste indignazioni che si rivolgono contro giudici legittimi che – salvo prova contraria – hanno pronunciato sentenze legittime in legge e coscienza. Questo qualcosa è che nel nostro Paese è caduto il riconoscimento del potere costituito, sia esso politico, scientifico o, come in questo caso, giudiziario. C’è una domanda di giustizia sommaria. O arriva la sentenza sull’onda di un’accusa costruita sull’indignazione popolare e mediatica, rapida e senza appello, o si castigano in modo esemplare gli imputati del caso anche se ricoprivano nella vicenda un ruolo marginale o subalterno, o è «Vergogna, vergogna, vergogna». E tutto questo quasi sempre senza aver analizzato o conosciuto a fondo le prove di accusa e quelle di difesa, collocato nella giusta valutazione le une e le altre mettendosi nel difficile ruolo del giudice che deve decidere. Condannare i sismologi per il terremoto dell’Aquila è certamente molto popolare ed emotivamente compensatorio nei confronti dei parenti delle vittime. Gli scienziati costituiscono un capro espiatorio ideale e paradigmatico per quanto caricaturale: che fa un sismologo se non sa nemmeno prevedere un terremoto? Gli anni di galera fanno un bel titolo sul giornale. Ma poi? Ha detto il professor Enzo Boschi, prima condannato poi assolto: «Spiegai che il terremoto era improbabile, ma non si poteva escludere... il linguaggio della scienza è diverso da quello dei media...». Superata l’emergenza emotiva che chiedeva la condanna immediata ed esemplare di qualcuno in primo grado, si va in appello, l’emozione è rarefatta e le cose appaiono un po’ diverse. Si scopre, come quasi sempre in Italia, che le indagini sono state incomplete (caso Cucchi) che bisognava risalire alla fonte che non è un’onnipresente Spectre italica che obnubila, confonde, occulta una verità alla Pasolini nota a tutti: io so chi è il colpevole, ma non ho le prove... È invece quella frantumazione di responsabilità che si trasforma in de-responsabilità dove la burocrazia si incrocia con la politica in un impasto oscuro e impunito. Ed è in questo strato opaco che sta il vero scandalo, è lì che si costruisce la vera ingiustizia. Trattasi di una procedura antica, quasi costitutiva del sistema Italia, un Paese dove alla parola «stragi» si unisce con tragico automatismo l’aggettivo «impunite» anche quando impunite non sono. C’è dunque un sentimento diffuso di ingiustizia che giustifica il sospetto e l’indignazione. C’è un sistema giudiziario dove alle inerzie corporative si sommano anni di leggi, leggine e circolari costruite apposta per bloccare e rallentare il corso delle indagini e dei processi. C’è un’insopportabile lentezza delle procedure. In Sud Corea ieri è stato condannato (a 36 anni di carcere) il comandante del traghetto affondato in primavera e 300 studenti sono morti. Era accusato di aver abbandonato la nave. Lo chiamavano lo Schettino di Corea. Da noi il vero Schettino, dopo quasi tre anni dal disastro è ancora sotto processo, nel frattempo ha fatto una lezione all’università ed è diventato personaggio da paparazzare per i rotocalchi, drammatica e patetica maschera della giustizia sospesa: ci dicano se è innocente o colpevole. Tutto questo è insopportabile, ma ciò non toglie che quei «vergogna» lanciati contro i giudici senza nemmeno aver letto i perché di una sentenza siano sbagliati, come erano sbagliati gli applausi per le condanne e gli arresti facili contro i nemici politici o il capro espiatorio del momento. I giustizialisti, che prima invocano le manette per gli altri e poi rifiutano le sentenze su se stessi come il sindaco di Napoli De Magistris sostenuto dal Tar di turno, producono quella nebbia in cui ogni «vergogna» si giustifica. Diradare questa nebbia, rendere trasparenti e riconoscibili le responsabilità politiche e amministrative, semplificare le procedure, sarebbe la prima riforma necessaria al Paese perché i cittadini, innocenti, colpevoli e vittime, si riconoscano senza vergogna nel Paese. E nella sua giustizia.

La storia non siamo più noi: lettere e risposte su “L’Espresso".

La storia siamo noi, nessuno si senta offeso, siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo.

La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso.

La storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da masticare.

E poi ti dicono “Tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera”.

Ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera.

Però la storia non si ferma davvero davanti a un portone, la storia entra dentro le stanze, le brucia, la storia dà torto e dà ragione.

La storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere, siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto da perdere.

E poi la gente, (perchè è la gente che fa la storia) quando si tratta di scegliere e di andare, te la ritrovi tutta con gli occhi aperti, che sanno benissimo cosa fare.

Quelli che hanno letto milioni di libri e quelli che non sanno nemmeno parlare, ed è per questo che la storia dà i brividi, perchè nessuno la può fermare.

La storia siamo noi, siamo noi padri e figli, siamo noi, bella ciao, che partiamo.

La storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano.

La storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano.

Mi scuso per la citazione integrale del bel testo di Francesco De Gregori, “La storia”, che comunque è sempre una bella lettura, ma credo, anzi temo, che ormai la storia non siamo più noi. Quel vento che gonfiava le vele della storia, che proveniva da lontano, che spalancava i portoni chiusi e che, a torto o a ragione, con i suoi eccessi, le sue atrocità, ma con le sue conquiste diede origine alla rivoluzione francese nel 1789, dopo cui il concetto di eguaglianza tra cittadini ha trovato ospitalità, (pur con tutte le ambiguità ed ipocrisie del caso, specie in Italia, terra di gattopardi), quel vento ormai non soffia più. La storia ha cambiato percorso, è sempre più in mano ad un oligopolio di poteri che pur pochi rispetto al totale della popolazione mondiale decidono per tutti. E qui non si tratta di tirare in ballo ipotetici complotti di “illuminati”, massoni e/o quant’altro, pur senza volerli obbligatoriamente escludere, ma semplicemente di prendere atto che le decisioni di una nazione, economiche e quindi sociali sono oramai transnazionali in uno scacchiere in cui l’Unione europea, ad esempio, conta due su dieci (figuriamoci l’Italia da sola quanto conterebbe..). Molti dicono che questo sia il prezzo da pagare per la pace, ma ai molti io replico che la cosiddetta pace riguarda nel caso la sola Europa, non investendo in maniera reale e continuativa nessuno degli altri continenti tranne l’Australia e il Nord America sino al confine con il Messico. E allora gentili forumnauti, se quanto sopra esposto è non dico vero ma almeno verosimile e ragionevole, in questa cultura dell’effimero (nulla a che vedere con quella dello scomparso Renati Nicolini, che nel suo ambito era cosa seria) e dell’apparenza che proprio qui in Italia ha preso così piede (ne dubitavate? Io no…), prendiamone atto. I nostalgici della visione marxiana potranno sostenere che il capitalismo sta vincendo prendendosi la rivincita sul periodo in cui per un po’ vacillò, i liberali saranno o afasici o liberisti, destrelli e sinistrelli si ritroveranno spiazzati perchè entrambi convinti di poter guidare il corso (e gli obiettivi) della storia, si riscoprono invece al più pedine inutili di un gioco che non solo li sovrasta ma li ignora. Il mondo nuovo pare non prevederli, le stesse istanze di cui sono stati portatori si sono riamalgamate tra loro (ironia del melting pop…) e cercano nuovi modi di rappresentanza. Su tutto pare vigere, immanente, un precariato stabile che di fatto impedisce ogni tipo di equilibrio e di futuro sociale che ha già da un pezzo trovato i suoi alfieri e a cui - ecco il punto - le nuove generazioni sono state educate sino a considerarlo l’unico futuro possibile. E i pochi gongolano mentre i molti ogni giorno di più soffrono. Ma non accade nulla, come avvenne invece nel 1789 e per ragioni in parte simili nel 1917 nella Russia zarista dei servi della gleba. Concludendo oggi De Gregori la sua “Storia” non potrebbe più scriverla, perchè la storia non siamo più noi.

La storia dei contemporanei dopo anni va riscritti dai posteri.

“Il consulente di Cossiga deve essere indagato per concorso nell’omicidio di Aldo Moro”. La richiesta del pg Luigi Ciampoli contro Steve Pieczenik, l’ex funzionario del Dipartimento di Stato americano coinvolto nell’unità di crisi durante il rapimento, scrive Raphaël Zanotti su La Stampa”. La richiesta è di quelle shock: il pg Luigi Ciampoli chiede che la procura generale proceda nei confronti di Steve Pieczenik, ex funzionario del Dipartimento di Stato americano e superconsulente di Francesco Cossiga, per concorso nell’omicidio dell’onorevole Aldo Moro avvenuta in Roma il 9 maggio 1978. Secondo il pg, che ieri è stato sentito dalla commissione parlamentare istituita sulla vicenda, sarebbero emersi gravi indizi nei suoi confronti in merito all’istigazione o perlomeno al rafforzamento del proposito criminale delle Br di uccidere lo statista italiano. Elementi contenuti nelle oltre cento pagine di richiesta d’archiviazione che il pg ha consegnato al tribunale per quanto riguarda le rivelazioni dell’ex ispettore di polizia Enrico Rossi che aveva ipotizzato la presenza di agenti dei Servizi Segreti a bordo di una moto Honda, in via Fani, la mattina del rapimento. Non è stato possibile identificare quelle misteriose presenze, ma altri elementi sono emersi dall’indagine. Elementi che portano a una possibile responsabilità di Pieczenik. D’altra parte un ruolo centrale nel drammatico sviluppo di quei giorni se l’era ritagliato lo stesso Pieczenik, psicologo, in un libro confessione (edito in Italia da Cooper nel 2008 e passato sotto silenzio dal titolo «Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall’ombra»). Nel libro Pieczenik raccontava: «Ho messo in atto una manipolazione strategica che ha portato alla morte di Aldo Moro». Il superconsulente racconta come, all’epoca, sarebbe riuscito a portare i comitati dell’unità di crisi dalla sua parte sostenendo di essere l’unico ad avere a cuore la sorte di Aldo Moro visto che era l’unico a non conoscerlo personalmente. In realtà, rivelava qualche anno fa, l’obiettivo era eliminare Moro: lo si voleva uccidere, ma a farne le spese sarebbero state le Br. Sempre secondo Pieczenik l’operazione sarebbe stata condotta facendo crescere la tensione in modo spasmodico, così da mettere le Br con le spalle al muro e non lasciare loro alcuna via d’uscita se non uccidendo Moro. «Mi aspettavo che si rendessero conto del loro errore e che lo liberassero facendo fallire il mio piano - racconta ancora Pieczenik - Fino alla fine ho avuto paura che lo liberassero. Per loro sarebbe stata una grande vittoria». Tutti sappiamo come andò. Pieczenik venne mandato dagli Stati Uniti a Roma come super esperto di terrorismo. «La sua autoreferenzialità era esasperata e quasi schizofrenica - ha detto ancora il pg Ciampoli - In un’intervista a Giovanni Minoli su Rai Storia raccontò che Moro doveva morire perché in questo modo si sarebbero destabilizzate le Brigate Rosse. Noi abbiamo acquisito il cd di quell’intervista televisiva e tutto il girato completo e siamo convinti che la sua posizione meriti un approfondimento da parte della Procura». Nell’intervista televisiva di Minoli, Pieczenik aveva spiegato anche i motivi della sua azione: «Quando sono arrivato in Italia c’era una situazione di disordine pubblico: c’erano manifestazioni e morti in continuazione. Se i comunisti fossero arrivati al potere e la Democrazia Cristiana avesse perso, si sarebbe verificato un effetto valanga. Gli italiani non avrebbero più controllato la situazione e gli americani avevano un preciso interesse in merito alla sicurezza nazionale. Mi domandai qual era il centro di gravità che al di là di tutto fosse necessario per stabilizzare l’Italia. A mio giudizio quel centro di gravità si sarebbe creato sacrificando Aldo Moro». Impossibile risalire all’identità delle due persone a bordo della Honda, quella mattina in via Fani, segnalati in una lettera anonima arrivata nel 2010 alla questura di Torino. Non erano sicuramente Peppo e Peppa (i due agenti dei Servizi il cui coinvolgimento era già stato escluso dalla polizia). E nemmeno Antonio Fissore, il fotografo piemontese morto nel 2012 in Toscana che l’anonimo dichiarava essere un agente segreto sotto il comando del colonnello Camillo Guglielmi dei Servizi. In realtà i magistrati hanno appurato che quella mattina Fissore era su un volo Levaldigi-Varese con rientro su Levaldigi alle 17.15. I magistrati hanno anche risentito l’ingegner Alessandro Marini, l’uomo che quella mattina in via Fani per un miracolo non venne colpito dai proiettili sparati dall’uomo sul sellino posteriore della Honda che s’infransero sul parabrezza del suo motorino. La Procura generale ha appurato che in quei giorni Marini aveva denunciato di aver ricevuto minacce (senza però saper spiegare quali) e che per questo motivo venne montato nel suo appartamento un baracchino per intercettare le chiamate in entrata al suo telefono. Incredibile ma vero, a 36 anni di distanza quel baracchino non era mai stato smontato e la Procura generale lo ha acquisito. Figura centrale nell’inchiesta, il colonnello Camillo Guglielmi, in servizio all’ufficio “R” della VII divisione del Sismi nonché istruttore abba base Gladio di Capo Marrangiu dove gli agenti venivano addestrati anche alla strategia della tensione. Il pg Ciampoli ha riferito che nei suoi confronti si potrebbe ipotizzare un’accusa per concorso nel rapimento di Aldo Moro e nell’omicidio degli uomini della scorta, ma è impossibile procedere perché il colonnello è nel frattempo morto. L’unica cosa certa, però, è che quella mattina intorno alle 9 il colonnello si trovava in via Fani senza un motivo ragionevole. Alla Corte d’assise ha riferito che era lì per caso, perché doveva andare a pranzo con un collega che viveva nelle vicinanze. Una versione ritenuta «risibile» dal pg Ciampoli, nonché smentita dallo stesso collega. Il suo ruolo nel rapimento, dunque, rimane per ora un mistero. 

Consulente Usa accusato di concorso in omicidio nel sequestro di Aldo Moro. La procura di Roma accusa lo 007 americano Steve Pieczenik: "Deve essere processato, ci sono gravi indizi circa il suo concorso al delitto di Via Fani", scrive Ivan Francese su “Il Giornale”. Ci sono importanti novità giudiziarie sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978. ll procuratore generale di Roma Luigi Ciampoli ha chiesto alla procura di procedere nei confronti dello 007 americano Steve Pieczenik, ex funzionario del Dipartimento di Stato Usa e superconsulente del Governo italiano, verso cui vi sarebbero "gravi indizi circa un suo concorso nell'omicidio" dello statista. Il presunto coinvolgimento di Pieczenik è emerso nel corso della richiesta di archiviazione che il pg Ciampoli aveva inoltrato ieri al gip del Tribunale romano per un'altra inchiesta: quella relativa alle rivelazioni dell'ex poliziotto Enrico Rossi, che aveva insinuato la presenza di uomini dei servizi segreti al momento del rapimento di Moro. Ciampoli ha quindi ordinato la trasmissione della richiesta di archiviazione alla procura romana "perché proceda nei confronti di Steve Pieczenik in ordine al reato di concorso nell'omicidio di Moro". Pieczenik, all'epoca consulente del Viminale guidato da Francesco Cossiga, faceva parte del comitato di crisi istituito dal ministero dell'Interno nel giorno del sequestro dello statista democristiano. Dalla procura generale di Roma viene evidenziato che a carico di Piezcenik "sono emersi indizi gravi circa un eventuale concorso nell'omicidio, fatto apparire, per atti concludenti, integranti ipotesi di istigazione, lo sbocco necessario e ineludibile, per le Brigate Rosse, dell'operazione militare attuata in via Fani, il 16 marzo 1978, o, comunque, di rafforzamento del proposito criminoso, se già maturato dalle stesse Br". Pieczenik ha studiato ad Harvard e al Mit, è stato psichiatra ed esperto di terrorismo: nel dibattito storiografico è considerato un personaggio cruciale nella storia dei rapporti tra Italia ed Usa durante gli anni delicatissimi dell'esplosione del terrorismo. Nel 2008 pubblicò un libro-intervista in cui rivelò di aver sviluppato un piano di "manipolazione strategica" che conducesse all'uscita di scena di Moro, considerata ineludibile nel piano di "stabilizzazione" del nostro Paese. Decisivo sarebbe stato il suo ruolo nell'impedire un'iniziativa vaticana (Papa Paolo VI era amico personale di Moro, ndr) per raccogliere denaro da destinare alla liberazione del presidente Dc: "In quel momento stavamo chiudendo tutti i possibili canali attraverso cui Moro avrebbe potuto essere rilasciato. Non era per Aldo Moro in quanto uomo: la posta in gioco erano le Brigate rosse e il processo di destabilizzazione dell'Italia".

L'americano che aiutò Cossiga: "L'ordine degli Usa non era di far rilasciare Moro ma di stabilizzare l'Italia". La testimonianza dello psichiatra americano che nel 1978 arrivò in Italia per aiutare il ministro dell'Interno Cossiga dopo la strage di via Fani, scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale”. Nelle drammatiche settimane del sequestro Moro "nessuno era in grado di fare qualcosa, né i politici, né i pubblici ministeri, né l'antiterrorismo. Tutte le istituzioni erano assenti". Ad affermarlo, 36 anni dopo, è lo psichiatra statunitense Steve Pieczenik. Già assistente al sottosegretario di Stato del governo americano e capo dell'Ufficio per la gestione dei problemi del terrorismo internazionale, Pieczenik nella primavera del lontano 1978 fu inviato in Italia per assistere il ministro dell'Interno Francesco Cossiga. Rimasto nell'ombra per molti anni, alla fine di maggio è stato interrogato dal pm Luca Palamara, che è andato a sentirlo in Florida. Ne parla oggi Giovanni Bianconi in un articolo sul Corriere della sera. Fu Cossiga a chiedere l'aiuto del dottor Pieczenik al segretario di Stato Cyrus Vance: "Ero appena riuscito a negoziare il rilascio di 500 ostaggi americani a Washington in tre diversi palazzi utilizzando tre ambasciatori arabi". Insomma, si era guadagnato una certa fama e così fu chiamato in Italia, dove sbarcò una decina di giorni dopo la strage di via Fani. Lo psichiatra svela quale fosse l'intenzione del suo Paese: "L'ordine non era di far rilasciare l'ostaggio, ma di aiutarli nelle trattative relative ad Aldo Moro e stabilizzare l'Italia". Per gli Stati Uniti, dunque, la vita dello statista della Democrazia cristiana era un particolare secondario. La tesi americana, maggioritaria (a livello politico) anche in Italia, era questa: "In una situazione in cui il Paese è totalmente destabilizzato e si sta frantumando, quando ci sono attentati, procuratori e giudici uccisi, non ci possono essere trattative con organizzazioni terroristiche... se cedi l'intero sistema cadrà a pezzi". E il cedimento non ci fu. Anche se costò la vita a Moro. Ma cosa fece di concreto Pieczenik, oltre a passare le sue giornate nell'ufficio di Cossiga? "Dovevo valutare che cosa era disponibile in termini di sicurezza, intelligence, capacità di attività di polizia. E la risposta è stata: niente". Prosegue mostrando un quadro a dir poco imbarazzante per il nostro Paese: "Ho chiesto a Cossiga che cosa sapeva delle trattative per gli ostaggi e lui non sapeva niente...". E poi ancora: "Dovevamo valutare la capacità delle Br nelle trattative e sviluppare una strategia di non-negoziazione, non-concessione". Su precisa domanda del pm Palamara (è vero che lo Stato italiano ha lasciato morire Moro?) il dottor Pieczenik risponde di no: "L'incompetenza dell'intero sistema ha permesso la morte di Moro. Nessuno era in grado di fare niente... tutte le istituzioni erano insufficienti e assenti". E sottolinea che andò via prima dell'omicidio, dopo essersi reso conto che l'America poteva stare tranquilla: "Cossiga era un uomo estremamente intelligente che ha capito molto in fretta ciò che doveva fare, ed è stato in grado di attuarlo... nessuno scambio di terroristi e nessun altro scambio". Seppe della morte dello statista italiano quando era già in America. E fece questa constatazione: "Ho pensato che sfortunatamente erano dei dilettanti e avevano fatto davvero un grande sbaglio. La peggiore cosa che un terrorista può fare è uccidere il proprio ostaggio. Uccidendo Aldo Moro hanno vinto la causa sbagliata e creato la loro autodistruzione". Ai microfoni di Mix24 nel settembre dell'anno scorso Pieczenick aveva svelato altri particolari interessanti a Giovanni Minoli, parlando chiaramente di una "manipolazione strategica al fine di stabilizzare la situazione dell'Italia" in quel periodo. E rivelò persino di aver temuto che Moro venisse alla fine rilasciato. "A un certo punto - raccontò ancora lo psichiatra a Mix24 - per poter incidere in una situazione di crisi, sono stato costretto a sminuire la posizione e il valore dell'ostaggio, a Cossiga ho suggerito di screditare la posta in gioco" fino a suggerirgli di dire che "quello delle lettere, le ultime soprattutto, non era il vero Aldo Moro". E infine giocò un ruolo determinante nel bocciare l'iniziativa del Vaticano di raccogliere una cospicua somma di denaro per pagare un riscatto. "In quel momento stavamo chiudendo tutti i possibili canali attraverso cui Moro avrebbe potuto essere rilasciato. Non era per Aldo Moro in quanto uomo: la posta in gioco erano le Brigate rosse e il processo di destabilizzazione dell'Italia". Già in un libro del 2008 ("Abbiamo ucciso Aldo Moro", Cooper edizioni) Pieczenick aveva svelato l'importanza della manipolazione delle informazioni, nella difficile gestione del sequestro Moro. Il 18 aprile 1978 fu diramato il falso comunicato del lago della Duchessa (il luogo dove si sarebbe trovato il corpo di Moro, ndr). Secondo lo psichiatra americano era un tranello elaborato dai servizi segreti italiani che era stato "deciso nel comitato di crisi". Il falso comunicato serve a preparare l’opinione pubblica al peggio. Ma sarebbe servito soprattutto a choccare i brigatisti. Una mossa che, alla fine dei conti, metteva in conto l’omicidio di Moro. Che poco dopo sarebbe puntualmente arrivato. 

Ho manipolato le Brper far uccidere Moro. Dopo 30 anni le rivelazioni del «negoziatore» Usa, scrive “La Stampa”. «Ho mantenuto il silenzio fino ad oggi. Ho atteso trent’anni per rivelare questa storia. Spero sia utile. Mi rincresce per la morte di Aldo Moro; chiedo perdono alla sua famiglia e sono dispiaciuto per lui, credo che saremmo andati d’accordo, ma abbiamo dovuto strumentalizzare le Brigate Rosse per farlo uccidere. Le Br si erano spinte troppo in là». Chi parla è Steve Pieczenick. Un uomo misterioso, che volò in Italia nei giorni del sequestro Moro, inviato dall’amministrazione americana ad «aiutare» gli italiani. Pieczenick non ha mai parlato di quello che fece in quei giorni. Dice addirittura di essersi impegnato con il governo italiano di allora a non divulgare mai i segreti di cui è stato a conoscenza. Ed è un fatto che né la magistratura, né le varie commissioni parlamentari sono mai riuscite a interrogarlo. Finalmente però l’uomo del silenzio ha parlato con un giornalista, il francese Emmanuel Amara, che ha scritto un libro («Abbiamo ucciso Aldo Moro», Cooper edizioni) sul caso. Le rivelazioni sono sconvolgenti. Pieczenick, che è uno psichiatra e un esperto di antiterrorismo, avrebbe avuto un ruolo ben più fondamentale in quei giorni. E che ruolo. «Ho manipolato le Br», dice. E l’effetto finale di questa manipolazione fu l’omicidio di Moro. Il «negoziatore» Pieczenick arriva a Roma nel marzo 1978 su mandato dell’amministrazione Carter per dare una mano a Francesco Cossiga. E’ convinto che l’obiettivo sia quello di salvare la vita allo statista. Ben presto si rende conto che la situazione è molto diversa da quanto si pensi a Washington e che l’Italia è un paese in bilico, a un passo dalla crisi di nervi e dalla destabilizzazione finale. Da come maltratta l’ambasciatore e il capostazione della Cia si capisce che Pieczenick è molto più di un consulente. E’ un proconsole inviato alla periferia dell’impero. «Il capo della sezione locale della Cia non aveva nessuna informazione supplementare da fornirmi: nessun dossier, nessuno studio o indagine delle Br... Era incredibile, l’agenzia si era completamente addormentata. Il colmo era il nostro ambasciatore a Roma, Richard Gardner. Non era una diplomatico di razza, doveva la sua nomina ad appoggi politici». Cossiga è molto franco con lui. «Mi fornì un quadro terribile dalla situazione. Temeva che lo Stato venisse completamente destabilizzato. Mi resi conto che il paese stava per andare alla deriva». Nella sua stanza all’hotel Excelsior, e in una saletta del ministero dell’Interno, Pieczenick comincia lo studio dell’avversario. Scopre che invece sono i terroristi a studiare lui. «Secondo le fonti di polizia dell’epoca, ventiquattr’ore dopo il mio arrivo mi avevano già inserito nella lista degli obiettivi da colpire. Fu allora che capii qual era la forza delle Brigate Rosse. Avevano degli alleati all’interno della macchina dello Stato». Una sgradevole verità gli viene spiegata in Vaticano. «Alcuni figli di alti funzionari politici italiani erano in realtà simpatizzanti delle Brigate Rosse o almeno gravitavano nell’area dell’estrema sinistra rivoluzionaria. Evidentemente era in questo modo che le Br ottenevano informazioni importanti». Così gli danno una pistola. «Ogni volta che uscivo in strada stringevo più che mai la Beretta che avevo in tasca». Comincia una drammatica partita a scacchi. «Il mio primo obiettivo era guadagnare tempo, cercare di mantenere in vita Moro il più a lungo possibile, il tempo necessario a Cossiga per riprendere il controllo dei suoi servizi di sicurezza, calmare i militari, imporre la fermezza a una classe politica inquieta e ridare un po' di fiducia all’economia». Ma la strategia di Pieczenick diventa presto qualcosa di più. E’ il tentativo di portare per mano i brigatisti all’esito che vuole lui. «Lasciavo che credessero che un’apertura era possibile e alimentavo in loro la speranza, sempre più forte, che lo Stato, pur mantenendo una posizione di apparente fermezza, avrebbe comunque negoziato». Alla quarta settimana di sequestro, però, quando comincia l’ondata delle lettere di Moro più accorate, tutto cambia. Una brusca gelata. Il 18 aprile, viene diramato il falso comunicato del lago della Duchessa. Secondo Pieczenick è un tranello elaborato dai servizi segreti italiani. «Non ho partecipato direttamente alla messa in atto di questa operazione che avevamo deciso nel comitato di crisi». Il falso comunicato serve a preparare l’opinione pubblica al peggio. Ma serve soprattutto a choccare i brigatisti. Una mossa che mette nel conto l’omicidio di Moro. E dice Pieczenick: il governo italiano sapeva che cosa stava innescando. «Fu un’iniziativa brutale, certo, una decisione cinica, un colpo a sangue freddo: un uomo doveva essere freddamente sacrificato per la sopravvivenza di uno Stato. Ma in questo genere di situazioni bisogna essere razionali e saper valutare in termini di profitti e perdite». Le Br di Moretti, stordite, infuriate, deluse, uccidono l’ostaggio. E questo è il freddo commento di Pieczenick: «L’uccisione di Moro ha impedito che l’economia crollasse; se fosse stato ucciso prima, la situazione sarebbe stata catastrofica. La ragion di Stato ha prevalso totalmente sulla vita dell’ostaggio».

 “Quel giorno ero in via Montalcini e arrivò l’ordine di non intervenire”. L’ex brigadiere della Finanza finito sotto accusa per le clamorose dichiarazioni sul caso Moro racconta per la prima volta la sua verità: «Con altri militari presidiavamo il palazzo adiacente la prigione di Moro. Quando tutti finì ci venne ordinato di dimenticare quello che era successo». Roma, via Caetani, 9 maggio 1978. Il cadavere di Aldo Moro viene fatto ritrovare tra la sede del Pci e della Dc. Due giorni prima l’ex finanziere novarese assicura che era in servizio di vigilanza in un palazzo di via Montalcini, scrive Carlo Bologna suLa Stampa”.  Giovanni Ladu, ex brigadiere della Finanza in pensione da un anno e mezzo, vive a Novara. Il suo nome è venuto alla ribalta in occasione della pubblicazione del libro dell’ex giudice Ferdinando Imposimato al quale Ladu si era rivolto anche con un’altra identità, quella di un fantomatico Oscar Puddu, per rafforzare la tesi del mancato blitz nel covo delle Brigate Rosse in cui era prigioniero Moro. L’ex magistrato, dopo la pubblicazione del libro, si è rivolto alla Procura di Roma sollecitando nuove indagini. C’è voluto poco per scoprire che Ladu e Puddu sono la stessa persona. Ora l’ex finanziere è indagato per calunnia. Per la prima volta ha deciso di rilasciare a La Stampa un’intervista sulla sua versione dei fatti. Respinge l’etichetta di «calunniatore». Giovanni Ladu, ex brigadiere della Guardia di Finanza, parla per la prima volta accanto ai suoi difensori, gli avvocati Gianni Correnti e Giorgio Legnazzi. Nel 1978, nei giorni del sequestro Moro, era un bersagliere di leva. È indagato dalla Procura di Roma perché sostiene che lo Stato era a conoscenza della prigione dello statista ed ha fatto un passo indietro due giorni prima che venisse ritrovato nella Renault rossa in via Caetani. Lui, con altri gruppi pronti al blitz per liberare il leader Dc, garantisce che il 7 maggio era in via Montalcini. Dall’«alto» arrivò l’ordine che l’ex giudice Imposimato, nel libro «I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia» traduce in una denuncia-bomba: la liberazione fu impedita da Cossiga e Andreotti. Imposimato solo a libro stampato si è affidato alla Procura. 

Ladu, la sua è una verità contestata.

«Le e-mail a Imposimato sono state mandate dal 2012 a maggio di quest’anno però quei fatti del ’78 sono stati resi noti ai miei superiori, inizialmente a voce al mio comandante Alessandro Falorni. Dopo le opportune verifiche è stato contattato il giudice che si era occupato del caso Moro».

Lei ha iniziato a raccontare questi fatti nel 2008, perché solo allora? Temeva una rappresaglia?

«Sì, anche perché quando finì tutto, ci era stato detto di dimenticare quello che era successo».

Ma lei chi era in quei giorni?

«Avevo 19 anni, l’anno primo avevo finito il diploma. Ero in servizio di leva obbligatoria ai bersaglieri della caserma Valbella, ad Avellino».

Vi avevano preparato a questa missione?

«No. Ci hanno imbarcato su un pullman “dovete andare a Roma”. Sulle prime ci portano alla caserma dei carabinieri vicino all’hotel Ergife».

Sapevate che c’erano altri gruppi pronti a intervenire in quella che sarebbe risultata la prigione di Moro?

«Inizialmente no. Poi prendiamo possesso di un appartamento adiacente allo stabile dove, scopriremo poi, c’era Moro. Eravamo dieci militari, non in divisa. Non avevamo attrezzature di ascolto (queste attrezzature sono state poi messe in una cascina abbandonata che era di fronte al palazzo, lì c’era una postazione di controllo già predisposta prima che arrivassimo. Noi dovevamo solo verificare chi entrava e usciva, se c’erano persone sospette».

Quando avete intuito che poteva essere il covo?

«Ci avevano detto che c’era un noto personaggio in quell’appartamento, messo in condizione di non uscire. Moro era stato rapito il 16 marzo , in Italia si parlava solo di quello».

E arriva il 7 maggio 1978, con l’ordine di smobilitare senza liberare il «personaggio». In seguito scoprirete che là dentro c’era proprio il presidente della Dc.

«Certo, leggendo i giornali. Io mi sono anche strizzato sotto. Rientrato ad Avellino sono stato destinato subito al reggimento, alla caserma dei bersaglieri di Persano (Salerno)».

I dieci commilitoni non li ha più sentiti?

«No, non so nemmeno che fine abbiamo fatto. Nessun contatto».

Dopo trent’anni, nel 2008, decide di parlare. Perché?

«Ogni anno, in occasione dell’anniversario dell’uccisione di Moro, venivano riferite falsità».

Non ha mai cercato di «vendere» la sua verità?

«Assolutamente no, all’epoca ero ancora in servizio. Non ho avuto, né cerco compensi. Ho fatto i miei passaggi rivolgendomi ai miei superiori gerarchici, loro hanno poi informato il procuratore di Novara Francesco Saluzzo al quale ho fornito un memoriale di tre pagine. Non ho fatto alcun nome, nessun riferimento ai vertici dello Stato. Ho soltanto indicato i fatti di cui sono a conoscenza. E non sono state ravvisate ipotesi di calunnia perché nel 2011 questo procedimento è stato archiviato».

Lei, in questa prima fase, è Giovanni Ladu. Poi nel 2012 si ripresenta con il nome fittizio di Oscar Puddu. Al punto che Imposimato ci casca, pensa che Ladu e Puddu siano due persone distinte. Perché questo espediente?

«Volevo che si riaprisse il caso, per venire a capo di questa vicenda. L’ex giudice faceva delle domande, io rispondevo. Ci siamo scambiati 84 mail, da privato a privato. Io ero in pensione dalla Finanza, Imposimato dalla magistratura».

Imposimato, anche sulla base della sue rivelazioni, arriva a scrivere che «Moro fu vittima della ferocia delle Br ma anche di un complotto ordito da Andreotti e Cossiga».

«Mai fatti quei nomi, sono conclusioni di Imposimato. Lui mi chiese se erano al corrente dell’ipotesi di un blitz e della decisione di fermarlo».

Il figlio di Cossiga ha definito le sue ricostruzioni da «trattamento sanitario obbligatorio».

«Non sono matto, né mitomane. E non ho mai detto che Cossiga ha ordinato quel delitto».

E a chi parla di depistaggio, cosa risponde?

«Nessuna intenzione di alzare polveroni o coprire qualcuno, chiedo l’opposto: che si arrivi alla verità. Non volevo nemmeno tutto questo clamore. Quando ho visto il mio nome nel libro di Imposimato mi sono pure arrabbiato. Ho fatto tutto questo anche contro il volere della mia famiglia ma sentivo che dovevo togliermi un peso. Tutti gli altri hanno seguito l’ordine di dimenticare, io non ci sono riuscito».

L’ex ispettore e i misteri del caso Moro “Parlerò solo con pm e in Parlamento”

Enrico Rossi aveva indagato su una lettera inviata nel 2009 a La Stampa Al centro i due motociclisti sulle Honda comparsi in via Fani. C’era un torinese? Scrivono Grazia Longo e Massimo Numa su “La Stampa”. L’ex ispettore della Digos Enrico Rossi sa di essere, da poche ore, al centro dell’attenzione. Ha rivelato all’Ansa alcuni retroscena del caso Moro, in particolare sul ruolo - mai chiarito - di un motociclista, in sella a una Honda, comparso in via Fani nell’ora X del rapimento di Aldo Moro e della strage della sua scorta. Deciso a raccontare la «sua» verità, perchè gli accertamenti che furono svolti in allora dai suoi colleghi in modo scrupoloso non portarono a nulla. «Tutto è partito - ha detto Rossi all’Ansa - da una lettera anonima scritta dall’uomo che era sul sellino posteriore dell’Honda in via Fani quando fu rapito Moro. Diede riscontri per arrivare all’altro. Dovevano proteggere le Br da ogni disturbo. Dipendevano dal colonnello del Sismi che era lì». Le ricerche dell’ispettore sono nate da una lettera anonima inviata nell’ottobre 2009 alla redazione de La Stampa. Questo il testo: «Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente...Tanto io posso dire, sta a voi decidere se saperne di più». La polizia avviò così le prime indagini. In una casa di Cuneo, dove l’uomo ha vissuto con la prima moglie, vengono trovate due armi regolarmente denunciate: una Beretta e una Drulov, un’automatica di precisione di fabbricazione cecoslovacca. E le pagine originali di Repubblica dei giorni del sequestro Moro. Rossi afferma di aver chiesto di sentire la coppia e di ordinare una perizia sulle armi. Ma non accadde nulla. Sui dettagli dell’indagine Rossi è pronto a testimoniare. «Ma solo con la magistratura e nelle commissioni parlamentari. Aspetto di essere convocato». Che l’Honda blu presente in via Fani il 16 marzo del 1978 rappresenti un mistero è un dato assodato. Tutte da chiarire sono invece le rivelazioni di Rossi: la procura di Roma, che si sta occupando del caso, non ha per ora trovato riscontri. L’attività degli inquirenti, comunque, prosegue. Intanto la memoria ricorre a pochi mesi fa, quando - il 6 novembre scorso - l’ex brigadiere della Guardia di Finanza Giovanni Ladu è stato indagato per calunnia dalla procura della capitale proprio perché, secondo la pubblica accusa, aveva fornito informazioni false sul caso Moro .

La moto Honda di via Fani Un mistero lungo 36 anni. Le rivelazioni di un ex poliziotto: “A bordo c’erano due 007”, scrive “La Stampa”. Per una volta sono tutti d’accordo: magistrati e Br. La Honda blu presente in via Fani il 16 marzo del 1978 è un mistero. I capi brigatisti hanno sempre negato che a bordo ci fossero due loro uomini, ma da quella moto si spararono - sicuramente - gli unici colpi verso un “civile” presente sulla scena del rapimento, l’ingegner Alessandro Marini, uno dei testimoni più citati dalla sentenza del primo processo Moro. Mario Moretti e Valerio Morucci sono stati sempre chiarissimi su quella moto blu di grossa cilindrata: «Non è certamente roba nostra». L’ingegner Marini si salvò solo perché cadde di lato quando una raffica partita da un piccolo mitra fu scaricata contro di lui “ad altezza d’uomo” proprio da uno dei due che viaggiavano sulla moto. I proiettili frantumarono il parabrezza del suo motorino con il quale l’ingegnere cercava di “passare” all’incrocio tra via Fani e via Stresa. Marini fu interrogato alle 10.15 del 16 marzo. Il conducente della moto - disse - era un giovane di 20-22 anni, molto magro, con il viso lungo e le guance scavate, che a Marini ricordò «l’immagine dell’attore Edoardo De Filippo». Dietro, sulla moto blu, un uomo con il passamontagna scuro che esplose colpi di mitra nella direzione dell’ingegnere perdendo poi il caricatore che cadde dal piccolo mitra durante la fuga. La sera a casa Marini arrivò la prima telefonata di minacce: `Devi stare zitto´. Per giorni le intimidazioni continuarono. Si rafforzarono quando tornò a testimoniare ad aprile e giugno. Poi l’ingegnere capì l’aria, si trasferì in Svizzera per tre anni e cambiò lavoro. Il caricatore cadde certamente dalla moto e Marini, dicono le carte, lo fece ritrovare ma questo non sembra essere stato messo a raffronto con i tre mitra (ritrovati in covi Br) che spararono in via Fani (ce ne è anche un quarto, mai ritrovato). Di certo da quella moto si sparò per uccidere Marini, tanto che i brigatisti sono stati condannati in via definitiva anche per il tentato omicidio dell’ingegnere. Marini d’altra parte confermò più volte durante i processi il suo racconto e consegnò il parabrezza trapassato dai proiettili. A terra in via Fani rimasero quindi anche i proiettili sparati dal piccolo mitra ma le perizie sembrano tacere su questo particolare. Sarebbe questa l’ottava arma usata in via Fani: 4 mitra, 2 pistole, oltre alla pistola dell’agente Zizzi, che scortava Moro, e quella in mano all’uomo della Honda: il piccolo mitra. Su chi fossero i due sulla Honda tante ipotesi finora: due autonomi romani in “cerca di gloria” (ma perché allora sparare per uccidere?); due uomini della `ndrangheta (ma non si è andati oltre l’ipotesi); o, come ha ventilato anche il pm romano Antonio Marini che ha indagato a lungo sulla vicenda, uomini dei servizi segreti o della malavita. I Br negano ma, ha detto il magistrato, «una spiegazione deve pur esserci. Io vedo un solo motivo: che si tratti di un argomento inconfessabile». Uomini della malavita o dei servizi? «Allora tutto si spiegherebbe». Certo che quella mattina a pochi passi da via Fani c’era, per sua stessa ammissione, Camillo Guglielmi, indicato alternativamente come addestratore di Gladio o uomo dei servizi segreti, invitato a pranzo alle 9.15 di mattina da un suo collega. E Guglielmi è proprio l’uomo dei servizi chiamato in causa nella lettera anonima che ha dato il via a Torino agli accertamenti sui due uomini a bordo Honda, poi trasferiti a Roma. A Guglielmi si è addebitata anche la guida di un gruppo clandestino del Sismi incaricato di “gestire” il rapimento Moro secondo un’inchiesta che è anche nell’archivio della Commissione stragi, in Parlamento.

Il martire del terrorismo su cui l'Italia resta spaccata. C'è chi ha avviato il processo per la sua beatificazione, chi lo considera un cattocomunista responsabile di molti dei problemi italiani: Aldo Moro rimane uno dei personaggi più controversi della Prima Repubblica, scrive Livio Caputo su “Il Giornale”. C'è chi ha avviato il processo per la sua beatificazione, chi lo considera un cattocomunista responsabile di molti dei problemi italiani. C'è chi esalta tuttora la sua politica di avvicinamento al Partito Comunista di Enrico Berlinguer (le famose convergenze parallele), chi è convinto che il suo progetto di compromesso storico avrebbe addirittura messo in discussione la nostra appartenenza al blocco occidentale. C'è chi ha parole di elogio per la sua politica estera filoaraba, chi la critica al punto di averlo ribattezzato Al-Domor. C'è chi ritiene che con le sue ripetute prese di distanza dagli Stati Uniti d'America abbia fatto gli interessi dell'Italia, chi lo esecra ancora per avere concluso il famigerato trattato di Osimo con la Jugoslavia di Tito. A quasi trentacinque anni dal suo rapimento ed assassinio ad opera delle Brigate Rosse, Aldo Moro, primo capo di un governo di centro-sinistra e poi per cinque volte presidente del Consiglio tra il 1963 e il 1976, rimane uno dei personaggi più controversi della Prima Repubblica. Pugliese di nascita, laureato in legge, profondamente cattolico, Moro ha fatto parte fin dal principio della corrente dossettiana di sinistra, critica della politica centrista di Alcide De Gasperi, ed è rimasto sempre su queste posizioni. Quando fu rapito il 16 marzo del 1978, era presidente del partito e si apprestava a realizzare il suo obbiettivo di inserire formalmente il Partito comunista italiano nei meccanismi del potere. I cinquantacinque giorni della sua prigionia furono i più drammatici degli anni del terrorismo, spaccando governo, partiti e parlamento in un fronte della fermezza, contrario a ogni trattativa per la sua liberazione per non dare un riconoscimento politico alle Brigate Rosse (Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, il Partito Comunista Italiano) e un fronte possibilista disponibile a negoziare uno scambio di prigionieri coi rapitori (Bettino Craxi, Amintore Fanfani, il Vaticano). Durante la prigionia scrisse 86 lettere, di cui alcune ferocemente critiche verso i dirigenti della Democrazia Cristiana («Il mio sangue ricadrà su di loro»). Ma tutto fu inutile: il 9 maggio il suo corpo crivellato di colpi fu ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 rossa a pochi metri da piazza del Gesù a Roma. Per protesta, i familiari rifiutarono i funerali di Stato. Vari aspetti della vicenda sono ancora circondati dal mistero, dando vita a una pletora di teorie complottistiche che attribuiscono il suo assassinio alla P2, alla CIA, al KGB o addirittura ad ambienti democristiani. Inutile dire che nessuna è stata provata.

Troppi bugiardi sul memoriale Moro. La figlia legge il libro di Gotor sugli scritti dalla prigionia "È il momento per chi ha sempre taciuto di dire la verità", scrive Agnese Moro su “la Stampa”. Il nuovo libro dello storico Miguel Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l'anatomia del potere italiano (Einaudi, 2011, 622 pagine, 25 euro) è un lavoro interessante, che ci accompagna nelle avventurose traversie di quel Memoriale che raccoglie le risposte che mio padre, Aldo Moro, diede alle Brigate Rosse, durante gli interrogatori ai quali fu sottoposto nel corso della sua prigionia (16 marzo - 9 maggio 1978). L'Autore ha fatto un minuzioso lavoro di ricostruzione delle vicende che interessarono quello scritto: la pubblicazione, nel corso del sequestro, di alcune pagine riguardanti l'onorevole Paolo Emilio Taviani; il ritrovamento, da parte degli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nell'ottobre del 1978, nel covo di via Monte Nevoso a Milano, di un testo consistente in fotocopie di un dattiloscritto; il secondo ritrovamento, nell'ottobre del 1990, sempre nello stesso covo brigatista, di fotocopie di lettere e di un manoscritto, il cui contenuto è parzialmente diverso da quello del dattiloscritto rinvenuto nel '78. Fino ad arrivare alla ragionevole e documentata ipotesi della esistenza di un manoscritto più ampio di quello del '90 (identificato dall'Autore come ur-memoriale), fin qui mai ritrovato. Le tracce di questo testo originario vengono seguite da Gotor attraverso una raccolta di dichiarazioni di chi quel testo - con ogni probabilità - lo vide e lo lesse. Testimoni che, nel libro, sono divisi in due gruppi: i morti (il generale Dalla Chiesa, il giornalista Mino Pecorelli) e i sopravvissuti (i brigatisti, alcuni giornalisti ad essi in qualche modo contigui, esponenti dell'area dell'autonomia, Francesco Cossiga). C'è un grande lavorio attorno al Memoriale: impossessarsene, ritrovarlo, delegittimarlo (assieme al suo autore), farlo sparire, edulcorarlo. Tutto sembra ruotare attorno alla figura di Giulio Andreotti, sul quale mio padre avrebbe fatto - è questa l'ipotesi - dichiarazioni molto compromettenti. La posta in gioco nella gara drammatica per il recupero e la pubblicazione del manoscritto originale, o, al contrario, perché ciò non avvenga, riguarda, infatti, la presa del potere in Italia, che si gioca proprio attorno alla figura di Giulio Andreotti, e degli ambienti emergenti che a lui fanno riferimento. Si tratta di una destra profonda, ben più ampia di quella rappresentata come tale in Parlamento, alla quale non sono estranee la loggia massonica deviata P2, pezzi dei servizi segreti, la criminalità organizzata, i grandi interessi privati. Una presa di potere che poi effettivamente avverrà, almeno al livello nazionale, con un cambiamento radicale della finalità e della qualità della nostra vita democratica. Non si tratta, purtroppo, di una spy-story, o di uno scritto «a tesi». E' piuttosto la puntigliosa e precisa ricostruzione di un pezzo importante di storia del nostro Paese, che Gotor fa passare sotto i nostri occhi senza abbellimenti. E con una drammaticità non retorica, dal momento che è una storia piena di speranze e di sangue. Al termine di una lettura che mi ha particolarmente, e ovviamente, coinvolta, mi pongo tre quesiti. Il primo riguarda il manoscritto completo: esiste ancora da qualche parte? Sarebbe davvero bellissimo che fosse così, perché ci aiuterebbe a comprendere meglio quello che avvenne allora. Se qualcuno ne sapesse qualcosa sarebbe il momento di dirlo. Il secondo quesito riguarda la consapevolezza o l'inconsapevolezza del mondo politico nel suo insieme rispetto a quanto stava avvenendo, ovvero alla lotta per il potere combattuta con tenacia da forze ostili alla democrazia repubblicana, con tutto quello che essa comporta in termini di sovranità di ogni cittadino, solidarietà e impegno per la costruzione della giustizia. Quanti sapevano? Chi sapeva in quel 1978? Il terzo quesito: quanto hanno pesato le vicende che Miguel Gotor descrive nel libro sulla decisione di non far nulla (come disse papà in una delle sue lettere: «Non c'è niente da fare quando non si vuole aprire la porta») per salvare Moro? Il valore di un libro non si vede solo dalle cose alle quali dà una risposta, ma anche dai quesiti che pone in tutta evidenza, senza che si possa sfuggire loro. Personalmente sono convinta che sia venuto il tempo di unire le forze per dare una compiuta ricostruzione e spiegazione di quegli anni difficili. Unire le forze: gli storici, i protagonisti attivi nella lotta armata, nelle attività eversive,nella politica, nei Servizi o nell' antiterrorismo, coloro che custodiscono i documenti e chiunque possa dare un contributo per chiarire le cose. E noi che abbiamo patito i frutti avvelenati di quella stagione. E' una strada certamente complessa e dolorosa, ma è necessario percorrerla se vogliamo avere quella verità che come Paese attendiamo da troppo tempo. E' il prezzo che dobbiamo pagare se vogliamo rimettere il passato al suo posto, e riprendere, con mitezza e serenità, il cammino che quegli anni terribili hanno interrotto.

Alla fine la storia dà lustro ai bistrattati contemporanei. 

Il ritratto di Giorgio Almirante, il "fascista che amava il Parlamento", scrive Mario Bernardi Guardi su “Libero Quotidiano”. Giorgio Almirante, ricoverato per ischemia cerebrale nella clinica romana «Villa del Rosario», muore il 22 maggio 1988, un mese prima di compiere 74 anni. Accanto a lui la moglie, Donna Assunta Stramandinoli, che della sua «eredità d’affetti» si farà colorita custode. Come nota Aldo Grandi (Almirante. Biografia di un fascista, Sperling & Kupfer, pp. 468, euro 18,90, da oggi in libreria), a scrivere il “coccodrillo” più schietto e polemico fu Indro Montanelli, che «non fece piangere nessuno, ma arrossire tanti», tutti quelli che per oltre 40 anni avevano cercato di emarginare il leader missino. Chissà cosa avrebbe potuto fare quest’uomo - si chiedeva Indro - se avesse scelto di militare in un partito antifascista. Ma, fedele com’era alla milizia repubblichina, nemmeno a pensarci! Tuttavia, nessuno come lui «si adattò alla libertà e seppe adattarvi un partito nutrito di rimpianti totalitari e di tentazioni eversive». Chissà cosa avrebbe potuto provocare il terrorismo nero, «se avesse avuto il supporto, anche solo morale, di un partito organizzato». Invece Almirante lo sconfessò, «prima ancora che il Pci sconfessasse il terrorismo rosso», frenò sempre le tentazioni bombarole e golpiste e, convinto che il Msi potesse avere un avvenire solo se si distaccava dal passato, dette vita alla Destra Nazionale, per costruire un partito moderno e addestrarlo alle battaglie parlamentari. Infatti al fascista Almirante piaceva, eccome, quel Parlamento dove poteva cimentarsi al meglio con la sua «oratoria efficace» e i suoi «interventi puntuali, tempestivi, brillanti». Onesto e coraggioso, era «uno di quei pochi politici cui si poteva dare la mano senza paura di sporcarsela». Su questa immagine positiva, Grandi è d’accordo, tanto che chiude il suo libro proprio con le parole di Indro. Ma il percorso biografico che traccia non ha nulla a che fare con l’agiografia. Perché è, piuttosto, un invito a dibattere, con tanto di documenti e testimonianze, su una figura ricca di luci e ombre. E allora va ricordata prima di tutto la coerenza del fascista. Non un “mistico” come quel Giani o quel Pallotta venerati da Montanelli, ma di sicuro un convinto militante. Con la Destra Nazionale indossò il doppiopetto? Sì, ma non rinnegò mai nulla. Meno che mai Salò. Per dirne una, nel primo comizio che tenne (Brescia, 29 giugno 1969) dopo esser tornato alla guida del partito, affermò che i motivi ispiratori della Rsi dovevano essere «richiamati, attualizzati, proiettati in avanti, per la loro validità storica e per la loro permanente validità morale». Se fu sempre fedele alla sua giovinezza in camicia nera, l’Almirante parlamentare e segretario del Msi prese invece le distanze dalle battaglie antisemite combattute sui giornali di Telesio Interlandi. Mea culpa, confessava Almirante, aggiungendo che, comunque, era sempre stato distante dal razzismo biologico di stampo nazista. Vero? Beh, osserva Grandi, che è andato a rileggersi tutti gli articoli razzisti, Almirante non inneggiava certo allo sterminio, ma auspicava una forte mobilitazione politico-culturale contro l’ebraismo. A partire dal mondo del cinema, formidabile macchina di educazione e propaganda. Insomma Almirante, parlando dei propri trascorsi, gettava un bel po’ d’acqua sul suo «interventismo culturale» razzista. Imbarazzi, reticenze e mezze verità che Julius Evola gli rimproverò. Perché, gli faceva osservare il Barone Nero, prendendo le distanze da ogni furore persecutorio, non hai rivendicato la legittimità di un «razzismo dello spirito», volto alla disciplina del carattere, alla formazione interiore e alla difesa della tradizione culturale “romana” contro ogni meticciato? Mica facile, però, precisare e distinguere… Va da sé che il lungo viaggio attraverso l’antifascismo compiuto dal fascista Almirante avrebbe messo a dura prova chiunque altro non avesse avuto la sua tempra. Anche se non mancano gli errori. Ad esempio, non è certo lungimirante quando oppone al ’68 come «rivolta generazionale», potenzialemente al di là della Destra e della Sinistra, un trucido forcaiolismo piccolo-borghese a presidio del sistema. E poi ci sono un po’ di misteri non del tutto chiari: il passaggio dall’antiamericanismo e dal filoarabismo al sostegno, sempre e comunque, a Usa e Israele, le contraddizioni sulla rivolta di Reggio, il golpe Borghese, i rapporti con la destra radicale, il filo (in)diretto con le questure, il viavai dei servizi segreti... Eppure, alla fine e parafrasando Montanelli: ma se non ci fosse stato Almirante?

E poi si ristabilisca la verità sulle pagine nere della storia italica.

VIA RASELLA Un mistero che dura da sessant'anni, scrive Pierangelo Maurizio su “Il Giornale”. E così la Cassazione ha condannato il Giornale per un articolo di undici anni fa che criticava l'attentato di via Rasella compiuto dai Gap, il braccio armato del Partito comunista italiano, il 23 marzo '44, e ha confermato che si tratta di un'«azione di guerra». Siccome mi sono occupato a lungo di quella vicenda - in quel budello di strada che è via Rasella nel centro storico di Roma ci ho passato i mesi, mentalmente gli anni - provo a offrire la mia testimonianza. Nel '96 - allora lavoravo al Tempo - cominciai l'inchiesta. Trovai le foto del corpo di Piero Zuccheretti, un bambino di 13 anni, fatto a pezzi dall'esplosione della bomba dei Gap. Soprattutto rintracciai il fratello gemello di Piero. Mi raccontò la tragedia abbattutasi sulla famiglia e la rabbia per essere stati costretti al silenzio. Riuscii anche ad avere il certificato di morte di Piero Zuccheretti: risultava morto il 23 marzo '44 «per scoppio di bomba». Se non vado errato, solo a quel punto Rosario Bentivegna, cioè colui che accese la miccia nel carrettino da spazzino imbottito di tritolo, e la «letteratura resistenziale» hanno ammesso che a via Rasella «purtroppo morì un bambino, Piero Zuccheretti». Eppure la famiglia aveva pubblicato fin dal giorno dopo l'attentato sul Messaggero il necrologio di Piero. Primo mistero: perché c'è voluto mezzo secolo per ammettere la morte di un bambino (e dargli un nome)?
Secondo mistero. A via Rasella ho ricostruito l'identità di un altro morto. Si chiamava Antonio Chiaretti. E qui le cose si complicano. Già, perché Chiaretti era un partigiano di «Bandiera rossa». Ma la sua memoria, di partigiano caduto in via Rasella, è stata cancellata. Perché? Come mai? Con lui si trovavano alcuni compagni di «Bandiera rossa» che finirono alle Ardeatine. Che ci facevano a via Rasella? Nei loro ricordi gli ultimi sopravvissuti di «Bandiera rossa» che ho incontrato conservavano l'idea che fossero stati attirati in una trappola. E adombravano il sospetto che si volesse far ricadere la responsabilità dell'attentato su quella formazione. Sul giallo di questa presenza a via Rasella né da Bentivegna né dalla vulgata resistenziale è venuto un aiuto a capire di più.
Terzo mistero. Quante furono le vittime, esclusi i 32 soldati del battaglione Bozen, poi diventati 33 e poi oltre 40? La perizia del professor Ascarelli (lo stesso che eseguì le autopsie sui 335 morti delle Fosse Ardeatine) su quei poveri resti è sparita. Se ne trovano tracce nella sentenza del processo Kappler del '48. Parla, senza fare i nomi, di due cadaveri, un adulto e «una bambina» . Forse si confuse con Piero Zuccheretti? Strano. Oppure le vittime civili furono più di due. Come la Cassazione possa affermare che «ora nessuno più mette in discussione che quelle vittime furono soltanto due» è, storicamente, incomprensibile. La Cassazione fa una descrizione precisa dei componenti del Battaglione Bozen, come «di uomini pienamente atti alle armi, di età compresa tra i 26 e i 43 anni». Vero. Ma traccia il ritratto, in un'epoca in cui la migliore gioventù di 18-20 anni veniva maciullata al fronte, dei perfetti riservisti. È vero, avevano un moschetto e tre bombe a mano alla cintola. La Cassazione però dimentica un piccolo particolare. Nel '96 rintracciai un superstite del «Bozen». Mi raccontò che il Comando tedesco, in ragione dello status di Roma come «Città aperta», con teutonica ottusità, li faceva marciare con i moschetti scarichi. Erano montanari altoatesini, che avevano optato per la cittadinanza tedesca ed erano stati forzatamente arruolati. A Roma stavano seguendo un corso di addestramento, al termine sarebbero stati impiegati come piantoni. Certamente non erano destinati a reparti d'assalto o di SS. Via Rasella non è sempre stata un'«azione di guerra», come ha ora ribadito la Corte di Cassazione. A cose ancora calde, nel '48 la sentenza del Tribunale militare di Roma contro il colonnello delle SS Herbert Kappler, condannato all'ergastolo per le Fosse Ardeatine (non per la rappresaglia ma per i condannati in più che aggiunse arbitrariamente), definì l'attentato dei Gap un «atto illegittimo» contrario a tutte le convenzioni internazionali. Tanto che i familiari di tre poveri ebrei finiti a far numero alle Fosse Ardeatine cercarono di portare in giudizio non solo gli esecutori dell'attentato ma anche i mandanti tra cui, a torto, Sandro Pertini. Per motivi incomprensibili, si trovò il modo di incardinare il processo non al Tribunale militare, non in sede penale, ma in sede civile. Nel '51 poche settimane prima che ci fosse il verdetto il governo De Gasperi conferì onorificenze al valor militare agli esecutori materiali di via Rasella (la medaglia d'argento a Rosario Bentivegna è stata consegnata solo nell'83 dall'allora Presidente-partigiano Sandro Pertini). Qualche settimana dopo il Tribunale civile sentenziò, pressoché sulla base di questo assunto: gli attentatori sono stati appena premiati pubblicamente come eroi, dunque nessun atto illegittimo può essere addebitato loro. Da qui nasce il mito intoccabile di via Rasella «azione di guerra». Da allora chiunque abbia osato contestarlo è stato passibile di querela, con condanna più che probabile. Ne fece le spese anche il grande Indro Montanelli, per aver violato in un libro la sacralità del mito; la Rizzoli - a quanto mi è stato detto - fu costretta a mandare al macero 30mila copie. A lungo si è parlato, e ora ci è tornata sopra la Cassazione, dei manifesti che il Comando tedesco avrebbe affisso invitando gli attentatori a consegnarsi per evitare la rappresaglia, e di cui nessuno è mai riuscito a fornire una prova. Tempo perso. Non è questo il problema. Qualche anno dopo in un'intervista a un settimanale Rosario Bentivegna e la moglie Carla Capponi dissero che «se anche avessimo voluto consegnarci, il partito ce lo avrebbe impedito». E questo è il punto. L'ineffabile professor Nicola Tranfaglia, storico, richiesto di un commento alla nuova sentenza della Cassazione, ha dichiarato che «alle Fosse Ardeatine vennero uccisi antifascisti, ebrei, oppositori». Nella più che prevedibile rappresaglia nazista furono sterminati in prevalenza appartenenti a «Giustizia e libertà», a «Bandiera rossa», ai partigiani monarchici, tutte e tre formazioni contrapposte al Pci o sue rivali. Tutti, a cominciare dall'eroico colonnello Montezemolo (zio di Luca), che come capo del «Fronte militare clandestino» aveva vietato gli attentati a Roma proprio per evitare rappresaglie, nei mesi e nelle settimane precedenti erano stati arrestati, il più delle volte sulla base di delazioni provenienti dall'interno della Resistenza. Nei mesi precedenti l'Unità clandestina, diretta da Mario Alicata, fece una guerra spietata a quelli di «Bandiera rossa», formazione in cui c'erano trozchisti, un anarchico, qualche repubblicano e soprattutto numerosi ufficiali «democratici» come Aladino Govoni (trucidato alle Ardeatine), il figlio del poeta Corrado. Il foglio del Pci arrivò a definirli «emissari di Goebbels» uguagliandoli ai nazisti. Poche settimane prima di via Rasella avvertì che se qualcosa di grave fosse accaduto a Roma «sappiamo di chi è la responsabilità». Lo sterminio alle Fosse Ardeatine di «Bandiera rossa» e delle altre formazioni fu un danno collaterale dell'azione di via Rasella? Un caso? Antonello Trombadori, uno dei leader del Pci, che aveva capeggiato i gappisti romani nella prima fase e si trovava nel carcere di Regina Coeli, si salvò grazie al medico del carcere, il dottor Monaco, che lo dichiarò «intrasportabile» perché malato. Ma alle Fosse Ardeatine finirono storpi e anche un ragazzo di 14 anni. Si potrebbe poi parlare - tra le tante ombre di questa vicenda - del segretario romano del Pci che all'epoca era un informatore dell'Ovra la polizia politica di Mussolini. Il commando di via Rasella in parte fu arrestato poche settimane dopo l'attentato (tranne Rosario Bentivegna e Carla Capponi) e salvato grazie alle complicità della Questura. Si potrebbe discutere degli intrecci e del potere che, a partire dalla «geometrica potenza» dispiegata il 23 marzo del '44, i vertici del Partito riuscirono a imporre su una parte dei servizi segreti ex fascisti. Giorgio Amendola, comandante militare dei Gap a Roma che fece da supervisore dell'attentato, si è portato dietro per tutta la vita il cruccio di via Rasella. Rosario Bentivegna continua a tacciare come «imbecilli e faziosi» quelli che mettono in dubbio la vulgata. Ma io lo abbraccerei, Bentivegna. Pur di mantenere intoccabile il mito si è assunto le responsabilità per tutti, compresi storici e pseudo-storici come i giornalisti, trascinando per decenni il peso di quel carretto carico di centinaia di morti. Lo abbraccerei, e gli chiederei solo: che cosa pensi veramente, che cosa hai capito di questa storia? Ma so che è inutile.

Via Rasella, finalmente qualcuno la racconta giusta. Dopo Via Rasella, una piece teatrale racconta i fatti con empatia verso gli esseri umani, scrive Simonetta Sciandivasci su “Il Giornaleoff”. Per andare da Casalbertone a Termini, a piedi, ci vogliono 50 minuti. Le pallottole non fanno curve, corrono dritte. Niente whiskey, c’è solo l’amaro fatto in casa. Quelle che imparano a scrivere a macchina studiano dattilografia. I notai sono ricchi. Vittorio, protagonista di “Dopo Via Rasella”, si fa prendere da tutto questo mentre tenta di raccontare a Giacomo (Antonio Pisu) la rappresaglia seguita all’attentato del GAP in cui rimasero uccisi 33 tedeschi e che costò la vita a 335 italiani. Si fa prendere da visioni e battute. Vuole dire quanto freddo fa, quanto cammina, com’è il suo lavoro. Non pensiamo mai che alla storia sia attorcigliata la vita e a quanto essa sia materialista, pratica. Se immaginiamo Roma, la mattina dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, la pensiamo solenne, piegata. Invece, era solo Roma: fredda, lunga, rumorosa, tutti incazzati. Compreso Vittorio, ferroviere ed ex alpino, reduce dalla guerra in Grecia, che si sveglia dicendosi “oggi non vado a lavoro”, ma poi ci va. E passa al cimitero, perché di parlare con Dio non se la sente, ma con la moglie sì. Vittorio, nella sua narrazione, fa vincere la vita, che è sempre una distrazione dal suo senso, dal percorso collettivo su cui il tempo la incunea. Non appena comincia a capire cosa gli è successo, di essere stato salvato dal rastrellamento e di essere, quindi, un debitore, Pierpaolo De Mejo, che di “Dopo Via Rasella” è autore, sceneggiatore e attore, fa calare il sipario. Una scelta perfetta che rende lo spettacolo, in scena a Roma dal 6 al 30 novembre presso il Teatro Elettra, quello che il suo autore voleva che fosse: il racconto di una vicenda umana, i cui protagonisti (con Vittorio e Giacomo c’è una ragazza, Olivia Cordsen, che ricorda che si sta parlando di guerra, che sono morte persone ed è importante dire quante e come) hanno un ruolo misericordioso: prescindere da bene e male, dalle coscienze dei carnefici. Per Adorno, dopo l’olocausto non sarebbe più stata possibile la poesia. Si ricredette presto, capendo che proprio da poesia e arte l’umanità sarebbe ripartita. Pierpaolo, trentenne poderoso, dimostra che il teatro, che è poesia mobilitata, può essere civile senza essere politico, guardando con gli occhi (non con i manuali) la storia. Se riuscissimo ad affrontarla senza emotività, l’appropriazione delle tragedie per corroborare o distruggere ideologie sarebbe impensabile: basterebbe l’intuito per illuminarci sulla funzionalità degli eventi e riallacciarci all’empatia verso gli altri esseri umani, anche quelli con le responsabilità peggiori. Quando ci riusciremo, potremo riflettere su quanto strana sia stata la scelta dei partigiani, a pochi giorni dalla liberazione di Roma, di attentare alla vita dei tedeschi, ormai in ritirata.

In questo modo non è scandaloso rivalutare la statura degli statisti del tempo che fu.

 “L’unica lotta alla mafia? Quella di Mussolini”. Una passione per i perdenti, gli oscuri, i  presunti cattivi. Un interesse per i lati poco indagati o indagati male di storia, antropologia, geopolitica. Un certo anti-modernismo di fondo che non è mai diventato mentalità reazionaria. E la convinzione che le categorie di destra e sinistra siano un’eredità ormai da dismettere. Questo è Massimo Fini. Di padre toscano e di madre ebrea russa, brillante ediorialista e inviato per il Giorno e l’Europeo. Compagno di scorribande di Vittorio Feltri all’Indipendente, ora editorialista de Il Fatto Quotidiano. Autore di saggi controcorrente. Siamo andati a trovarlo per una chiacchierata su Nerone, che poi è andata per conto suo. Lo spettacolo di Edoardo Sylos Labini, in questi giorni al Manzoni di Milano, prende titolo, argomento, e impostazione proprio da un saggio di Fini: Nerone. Duemila anni di calunnie (Marsilio, pp 267, Euro 12) “Della piéce mi ha colpito la drammaturgia, la scrittura. Era molto difficile fare una sceneggiatura di quest’opera, soprattutto avendo scelto di valorizzare Nerone e Seneca. Nonostante la modernizzazione degli ambienti siamo all’interno di una storia a pieno titolo romana” racconta Fini a ilgiornaleoff.it.

Qual è il significato storico di una figura come Nerone?

«Nerone è stato un principe rinascimentale calato nella storia romana. Con visioni molto ampie in tutti i campi, ma nato con troppi secoli di anticipo. Da un punto di vista politico fa parte di una linea che parte da Catilina, che tenta di tagliare un po’ le unghie ai “fannulloni” (come li chiama lui) del Senato, e di dare una dignità alla plebe».

E’ una costante della storia romana, dalla crisi della Repubblica in poi: chi vuole il comando cerca di bypassare il Senato e di farsi amica la plebe. Populismo?

«Due imperatori, Caligola e Nerone si interessarono alla plebe per riequilibrare le forze. Nerone di più. E infatti fu amatissimo dal popolo che continuò a portare foori a lungo sulla sua tomba, aspettandone il ritorno. E nei decenni successivi ci furono ben tre falsi Nerone che si presentarono come la sua reincarnazione. Come statista Nerone ebbe una visione molto ampia. Volle abolire le imposte indirette ma senza aumentare quelle dirette attraverso una politica keinesiana di grandi lavori pubblici. Non aveva grande voglia di fare l’imperatore: Nerone era un amante delle arti. Ma ebbe il suo peso anche come uomo politico».

Da un certo momento in poi gli imperatori usano la cultura per realizzare il loro progetto politico. Augusto fa scrivere l’Eneide, Nerone usa molto gli spettacoli del circo…

«Ma mentre il tentativo di Augusto è elitario quello di Nerone no: nell’anfiteatro ci andavano tutti. Augusto era una sorta di proto-democristiano: governava per l’aristocrazia. Un personaggio abbastanza spregevole, tutto sommato».

Seneca. Viene citato ancora oggi come saggio universale, mentre sembra di capire che a lei fa abbastanza orrore. Perché?

«E’ il classico personaggio dalla doppia morale. Faceva prestiti a usura in proporzioni pazzesche. Una delle guerre che a Nerone tocca fare nasce perché Seneca richiede ai Britanni il rientro immediato di dieci milioni e mezzo di sesterzi. E anche come pensatore, Caligola lo definisce “sabbia senza calcina”. E’ un ottimo divulgatore dello stoicismo. Ma non va al di là di questo».

Questa sua mania per vedere i lati oscuri dei personaggi positivi, anche nell’attualità. Qualche anno fa stroncò Emma Bonino, che si era introdotta nei reparti femminili di un ospedale afghano con un codazzo di uomini.

«Lì la Bonino era da frustare con le verghe sacre. Bisogna tenere conto della cultura del paese in cui si entra».

Altre buone fame di cui diffida?

«Per esempio quella di Matteo Renzi. Del tutto basata sul virtuale. Non c’è nulla di concreto che la giustifichi».

Renzi recentemente è andato da Barack Obama.

«Obama quando è venuto in Italia l’unica cosa che ha saputo dire era che il Colosseo è più grande di un campo da baseball. Ma sono due poveretti che non contano più nulla di fronte a Cina, Russia e altre potenze emergenti mondiali. Comunque sappiamo com’è la storia…»

E com’è?

«Il solito tributo all’alleato presunto importante. A proposito, in Italia l’unico che ha tentato una politica autonoma è stato Andreotti. Ha fatto una politica di avvicinamento al mondo mediterraneo, anche molto abile e molto coraggiosa. In un altro paese sarebbe stato un grande statista. Nel nostro è stato a metà un grande statista e a metà un delinquente. Perché purtroppo in Italia non può non andare cosi. Il giornale per il quale scrivo insiste sul parallelo Andreotti-belzebù, i contatti con la mafia…»

E non li aveva?

«Ce li avevano tutti. Anche l’integerrimo Ugo La Malfa aveva il suo uomo in Sicilia, Aristide Gunnella, che era un mafioso…»

Bisogna prendere i voti al Sud…

«Certo. E poi, è noto che la mafia assume il potere che assume perché gli americani l’hanno usata come appoggio per lo sbarco in Sicilia. L’unico regime che l’ha davvero combattuta è stato il fascismo. Un regime forte non può accettare che ci sia all’interno un altro regime forte. Che poi è il motivo perché Saddam Hussein detestava Bin Laden, e quest’ultimo in Iraq non c’è mai stato».

E a questo punto parliamo di geopolitica. Quest’Europa che si preoccupa tanto di osteggiare la Russia, mentre infuria la guerra dell’Isis, è legata a una contrapposizione da guerra fredda, ormai vecchia?

«Assolutamente stupida. Avremmo dovuto prendere le distanze dagli Usa col crollo dell’Urss. Fino ad allora il legame aveva avuto un senso. Ma come dice Luciana Littizzetto (a volte i comici dicono meglio) “Ma quand’è che scade il mutuo?”. Oggi sarebbe molto più ragionevole una vicinanza con la Russia, che ci è più vicina geograficamente e culturalmente. La Russia è Europa».

Ma perché l’idea del dialogo con la Russia ce l’ha solo gente di destra, anche estrema, mentre la sinistra è in blocco filoamericana? Non le sembra un paradosso?

«La destra (parliamo in generale, banalizzando) ha una concezione individualista, è più libera in certe cose. La sinistra sconta ancora il materialismo storico, è collettivista, non riesce a staccarsi dalle sue categorie(tte). E poi chi governa (al momento la sinistra) pensa solo al qui e ora. E vengono fuori disastri, come il fatto che gli Usa ci abbiamo trascinati nella guerra in Libia. Totalmente autolesionista. O nella guerra alla Serbia. Ce la siamo presa con un paese cristiano ortodosso. Attaccare questi per favorire la componente musulmana nei Balcani non è stata una cosa intelligente. Ora in Kossovo e in Albania sono cresciute cellule di radicalismo islamico che ci possono colpire in ogni momento».

Lei si definisce un “onesto pagano”. Non è certo un cattolico. Le domando: c’è un fondamentalismo laico? Ci sono i Mullah del laicismo?

«E come no? L’altro giorno ho pubblicato con gran dispetto del mio direttore una frase di un leader della rivoluzione francese come Louis Antoine de Sant Just: “La verità è una sola, può essere ammesso solo il partito che si riconosce in questa verità. Tutti gli altri devono essere soppressi”. Il gene del totalitarismo laico c’è già. E oggi si è fatto carne. E sta in questa convinzione che il mondo occidentale sia migliore e abbia il dovere di imporre i propri valori agli altri mondi. Lo scontro che c’è adesso in Iraq è lo scontro tra due totalitarismi, laico e religioso».

E questo fondamentalismo laico esiste anche in Occidente? Per esempio col controllo del linguaggio, completamente asservito alla correttezza politica? Non si può più dire “frocio”.

«Non si può più dire “finocchio”. Sono infinite le cose che non puoi più dire in Occidente. E’ una cosa orwelliana, è un aspetto del totalitarismo più complessivo. Questa società di fatto (e credo di poterlo dire) non tollera idee che siano sovversive. E’ un sistema soft di totalitarismo. Non si può parlare di cos’è veramente la donna oggi, per esempio».

Ecco, le donne. Lei ha fama di essere un grande cultore della femmina.

«Della femmina, non della donna».

Che vuol dire?

«Che non amo la donna. Amo la femmina. Conosco donne che arrivano a 36 38 anni e si accorgono che è tardi per avere dei figli, e rimpiangono di non averne avuti. Si guardi in giro. Non si vedono che cani, e niente bambini. Non esiste più la parte materna-accuditiva, che è pure importante. E’ anche vero che contemporaneamente il maschio non fa più il maschio».

E questo dove si vede?

«L’altro giorno ero al bar. Passa una bella donna, vistosa. Un operaio le fa un fischio. Lei lo fulmina con lo sguardo. Poi, quando passa davanti a me, dico alla ragazza: “signora, rimpiangerà il giorno in cui non le faranno più questi fischi”. La sovrastruttura donna ha molto compromesso la struttura femmina».

Bene. Adesso la frittata d’Occidente è fatta. Cosa fare? Cosa consiglierebbe a un giovane per non restare incastrato sotto lo spirito del tempo?

«C’è chi cerca di scappare. Chi se ne va in una cascina. C’è chi si arruola nei fondamentalisti. Uno scrittore può cercare di svegliare le coscienze. Ma il pessimismo non permette di indicare una via d’uscita. Ma non dipende da noi. Questo mondo, come tutti i mondi totalitari imploderà su se stesso».

LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE. L’ALTRA FORMA DI CENSURA: IL POLITICAMENTE CORRETTO.

A proposito della foto del ministro Marianna Madia pubblicata su "Chi" con il titolo "con il gelato ci sa fare". c'è chi scrive Madia-Signorini: giù le mani dal pompino! Scrive Fulvio Abbate su “Il Garantista”. Giù le mani dal pompino! Ecco, di fronte alla querelle Signorini-Madia, volendo essere epici, ma ancora di più sinceri, onesti, popolari, bisognerebbe dire subito così, affermando questa semplice verità, quasi un bisogno di liberazione dalla falsità, perfino dall’ipocrisia virtuosa da educandato o perfino terrazza di sinistra. E ancora di più, occorrerebbe aggiungere abbasso ogni forma di allusione, assodato che alludere in certi casi, quando c’è di mezzo il piacere, il corpo, la realtà genitale, cioè la fica e il cazzo, significa innanzitutto non consentire a un concetto di liberamente volare, quasi che dovessimo vergognarci d’aver semplicemente chiamato una certa cosa, un certo atto, con il suo nome proprio. Dunque, così come una rosa è una rosa, una fellatio è una fellatio, un pompino è un pompino, un cazzo, una fica, ecc…Per questa ragione, sebbene ne abbiamo appena pronunciato la parola, talvolta è davvero da ipocriti dire fellatio, quasi a voler nascondere dietro la grazia remota e letteraria di un affresco pompeiano la realtà delle cose, la realtà concreta del pompino, come atto di piacere e d’amore. Di voglia. Punto. Al di là di chi lo pratica e dei sessi implicati, cioè in questione. Volendo restare in ambito storico, c’è stato un tempo in cui molti infelici, forti di una cultura da bordello, erano assolutamente convinti che quella del pompino fosse una pratica “degradante”, non a caso le prostitute, attribuendo loro un tratto razzista, erano dette e ritenute anche “pompinare”, quasi come un titolo-marchio di felice e necessaria infamia, un Collare della Santissima Annunziata ulteriore, lì a garantire le loro prerogative, la loro abiezione quasi, e tuttavia doverosa. Menzogne, tutte bugie, tutti e tutte, uomini e donne, amano i pompini: farli e averli fatti, riceverli e offrirli. Tutte sciocchezze da antichi tabù da sottoscala o refettorio cattolico concentrazionario sessuofobico che tutto ciò non sia vero. Per questa ragione le allusioni alle foto della ministra Marianna Madia che lecca un cono gelato sono innanzitutto desolanti, così come lo è altrettanto, se non di più, l’idea d’essere in presenza di una lesa maestà per il fatto stesso di avere associato quel gelato all’atto sessuale di cui sopra. Anche il manifesto di “Lolita” con la ragazza Sue Lyon che, armata di occhiali a forma di cuore, tiene tra le labbra un lecca-lecca alludeva, e tuttavia quelle immagini nella loro allusione sembravano esser lì a tracciare un ideale arcobaleno di piacere nel cielo della consapevolezza sessuale. Fa davvero specie che i volti sfigurati dei bambini morti in guerra non facciano suonare la stessa sirena dello sdegno pieno, così come invece accade con il pensiero stesso di un coito orale. Ripeto: nulla è più penoso della cultura rionale dell’allusione, dell’ammicco, del doppio senso di cui si è nutrito l’avanspettacolo del peggiore casino per decenni, forte di canzoni come “Ai romani piaceva la biga, più dinamica della lettiga” o del poema di Ifigonia e delle sue ancelle che “nell’arte di fare pompini battevano le troie di tutti i casini”, e giù con le risate, e giù a ridere ancora con la mano sul “pacco” – ma è ancor più ripugnante pensare che si debba rigorosamente arrossire o magari provare sdegno davanti a un qualcosa che appartiene all’immaginario desiderante, cioè del piacere, dunque della condivisione, poiché in nome di un sacro codice ipocrita si è ritenuto che si tratti di cose indicibili. Anni fa, ragionando nero su bianco sulla sparizione del cosiddetto 69 su un quotidiano, mi ritrovavo a constatare che quel genere di doppio scambio era pressoché svanito dal palmarès delle predilezioni condivise, al contrario, volate via le vecchie bugie sessuofobiche della cultura da bordello, la fellatio – cioè il pompino o bocchino o pompa – e chiamarli qui con il loro nome è innanzitutto un fatto politico, liberatorio, viveva invece intatto e acclamato sull’ideale tabellone luminoso delle predilezioni, dei desideri, delle voglie, per questa ragione non c’è davvero scandalo nelle immagini di Marianna Madia felice del suo gelato da leccare, così come non c’è scandalo nell’affiancare quelle stesse foto al già citato manifesto del film di Kubrick. Giù le mani!

Il mondo è una community sui social network. Nessuno comunica più fisicamente. L’anonimato sui social ci protegge. Fisicamente non ci rimane che comunicare a gesti, oppure conformarsi al politicamente corretto di sinistra o al bacchettone bigotto di destra.

Riportiamo l'opinione del Dr Antonio Giangrande, sociologo storico e noto saggista, autore della collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo".

La virtualizzazione della società si fa sentire in molti aspetti della nostra vita quotidiana. Uno degli ambiti in cui è più presente, e spesso ha effetti più limitanti, è quello della comunicazione fra mezzi d’informazione e pubblico, fra istituzioni e cittadini, fra cittadini e altri cittadini.

Era della comunicazione dove non comunichiamo. Questo paradosso la dice lunga e ci avverte che non si ascolta più, si parla e basta.

Leggiamo sui giornali o ascoltiamo in televisione, morto per overdose…, si uccide perché va male a scuola, bambino di tre anni ucciso in circostanze misteriose,…, figli che uccidono i genitori, madri che uccidono i figli e quel che è incredibile è che le persone si stanno abituando ai fatti negativi. Divenendo negativi essi stessi. Abitudine che potrebbe essere la punta di un iceberg, dove sotto c’è un vuoto di valori causato anche da una generazione che è riuscita a mettere in discussione tutto e il contrario di tutto.

Sono andati in crisi le istituzioni, la chiesa, la famiglia, la scuola, il mondo del lavoro e siamo senza un collante per regole e certezze e la community virtuale è la nostra isola felice dove sfogarci.

Ci indaffariamo a cercare amici sui social e ad aumentarne il numero sui nostri profili per avere visibilità e proseliti, per poi scoprire che proprio amici non sono. Ostilità od indifferenza sono le loro caratteristiche. Le nostre caratteristiche, perchè loro siamo noi.

Recentemente, ci sono stati diversi casi di chiusura di account legati a minacce ed offese sui principali social network. Non ultimo, il direttore del TG di La7, Enrico Mentana, che ha deciso di cancellare il proprio profilo Twitter a causa di continui insulti. Personaggi noti, del mondo dello spettacolo e non, denunciano quasi quotidianamente questo fenomeno dilagante. Insulti gratuiti, minacce, gravi offese e istigazioni alla violenza di ogni genere. C'è un po' di tutto nei social network più famosi. Chiunque, sui social network, inserisce ciò che vuole: considerazioni su politica, personaggi dello spettacolo, link divertenti, video divertenti, fotografie, aggiornamenti di stato….

Questo popolo social ciarlante ed imperito, spesso, vuol far politica......

Il paradosso è che il potere si difende punendo questi comportamenti, con l'intento di renderci tutti conformisti.

Conformista come già cantò Giorgio Gaber

"Io sono un uomo nuovo, talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista.

Sono sensibile e altruista, orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista.

Da un po' di tempo ambientalista, qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo, per carità lo dico in senso letterale.

Sono progressista, al tempo stesso liberista, antirazzista e sono molto buono, sono animalista.

Non sono più assistenzialista, ultimamente sono un po' controcorrente, son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta.

Il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa, è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani e quando ha voglia di pensare, pensa per sentito dire.

Forse da buon opportunista, si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza.

Il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza, è un animale assai comune che vive di parole da conversazione.

Di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori, il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo e farsi largo galleggiando.

Il conformista, il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario, sono femminista

Son disponibile e ottimista, europeista, non alzo mai la voce, sono pacifista.

Ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone.

Il conformista aerostato evoluto, che è gonfiato dall'informazione, è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie, poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato.

Vive e questo già gli basta e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi.

Il conformista, il conformista.

Io sono un uomo nuovo, talmente nuovo che si vede a prima vista sono il nuovo conformista."

Non so più dove girarmi. Giornali on line e non, social network, radio, tv…Non c’è scampo: il buonismo dilaga ovunque. Un buonismo fintissimo: quello politicamente corretto.

Perché oggi, in Italia, se critichi qualsivoglia malvivente sei razzista (se è straniero). 

Sei intollerante (se è italiano). 

Sei sessista (se è un uomo e tu una donna, e viceversa). 

Sei cattivo (se è un essere umano). 

Dobbiamo essere tutti bravi, altruisti e generosi. Comprensivi, giusti e dalla mente aperta. Certo che dobbiamo! Ma non significa certo che dobbiamo anche giustificare tutto e tutti o conformaci alla cultura mediatica che va per la maggiore.

Potremmo esprimere il nostro pensiero con un linguaggio che nel gergo quotidiano è consentito, mentre se diffuso a mezzo stampa è definito scorretto?

Potremmo esprimere un'opinione, senza essere tacciati come discriminatori?

La discriminazione consiste in un trattamento non paritario attuato nei confronti di un individuo o un gruppo di individui in virtù della loro appartenenza ad una particolare categoria. Alcuni esempi di discriminazione possono essere il razzismo, il sessismo, lo specismo e l'omofobia.

L'espressione politicamente corretto (traduzione letterale dell'inglese politically correct) designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di estrema attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona.

Insomma, politicamente corretto significa ipocrisia.

"L'ipocrisia è il linguaggio proprio della corruzione". Lo afferma Papa Francesco, nell'omelia durante la messa mattutina celebrata nella cappella della Domus Santa Marta in Vaticano, presenti fra gli altri i vertici della Rai, con la presidente Anna Maria Tarantola e il direttore generale Luigi Gubitosi. "L'ipocrisia - sottolinea il Papa, facendo riferimento alla pagina del Vangelo sulla domanda dei farisei sulla liceità del tributo da dare a Cesare - non è un linguaggio di verità, perché la verità mai va da sola, mai, ma va sempre con l'amore. Non c'è verità senza amore, l'amore è la prima verità e se non c'è amore non c'è verità". I farisei, gli ipocriti, "vogliono invece una verità schiava dei propri interessi; l'amore che c'è è quello di se stessi e a se stessi: quell'idolatria narcisista li porta a tradire gli altri, li porta agli abusi di fiducia". Francesco punta il dito sui falsi amici che "sembrano tanto amabili nel linguaggio", sui "corrotti che con questo linguaggio cercano di indebolirci". Infatti, "gli ipocriti che cominciano con la lusinga, con l'adulazione, finiscono cercando falsi testimoni per accusare chi avevano lusingato. Il nostro linguaggio - conclude il Papa - sia il parlare dei semplici, con anima di bambini, il parlare in verità dall'amore".

Il politicamente scorretto è tale, però, ad intermittenza.

Sto pensando agli epiteti che sono stati lanciati ad Andreotti sulla sua scoliosi, a Berlusconi o Brunetta per la loro altezza, Alfano per il suo viso... etc. La scusa sciocca della satira non basta: anche al sesso maschile (o femminile purchè del campo avverso) vengono riservate considerazioni sgradevoli. Vogliamo fare una carrellata che non ha scandalizzato stranamente nessuno?

"Condoleezza [Rice], con quelle guancette da impunita, è la leader maxima delle donne-scimmia" (Lidia Ravera, L'Unità, 25 ottobre 2004).

"Di sicuro [il Ministro Gelmini] non è un essere umano. Dovremmo chiamare i professori di chimica per capire che cos’è" (Andrea Camilleri).

"Se dopo De Nicola, Pertini e Fanfani, ci ritroviamo con Schifani, sono terrorizzato dal dopo: le uniche forme residue di vita sono il lombrico e la muffa. Anzi, la muffa no perché è molto utile" (Marco Travaglio).

Appari politicamente scorretto, anche se non lo sei? Scatta l'invettiva, secondo l'accusa dei giornalisti, anche per frasi o comportamenti innocenti.

L'invettiva razzista. Il caso forse più noto tra quelli registrati, però, riguarda la televisione. Si tratta della vicenda che ebbe per protagonista Paolo Bonolis il quale, nel corso della trasmissione di Canale 5 “Avanti un altro” ebbe la infelice idea di travestirsi da domestico filippino e di esibirsi in una gag che scatenò la reazione indignata della comunità filippina in Italia, stufa di essere considerata alla stregua di un'associazione di camerieri e di donne di servizio. Romulo Sabio Salvador, consigliere aggiunto di Roma Capitale, a nome dei suoi connazionali scrisse una lettera indignata a Mediaset, all'Agcom e, appunto, all'Unar. E proprio a proposito di filippini. Il presidente della Sampdoria parlando con Massimo Moratii, ex presidente dell’Inter, ebbe a dire a proposito di Thohir, il suo successore all’Inter: “caccia quel filippino”, giustificandosi poi con Valerio Staffelli su Striscia La Notizia dicendo “l’ho saputo dalla televisione che era indonesiano….”.  Carlo Tavecchio, presidente FIGC, ha dichiarato: «Le questioni di accoglienza sono un conto, le questioni del gioco sono un altro. L’Inghilterra individua i soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare. Noi, invece, diciamo che Opti Poba - dice inventando un nome - è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio. E va bene così. In Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree». Tavecchio è stato punito dai media, dalla UEFA e dalla FIFA.

L'invettiva omofoba. Eziolino Capuano, allenatore dell’Arezzo (Lega Pro), «Prendere gol in superiorità numerica al 90’ è vergognoso, non lo accetto», ha detto a Radio Groove dopo la sconfitta di Alessandria degli amaranto, e prima di esplodere: «Se avessero perso in maniera diversa non avrei detto nulla, però in campo le checche non vanno bene. In campo devono andare gli uomini con le palle e non le checche» Capuano è stato crocifisso dai giornali. Ormai la lobby gay in Parlamento non solo mira ad avere un matrimonio tutto loro ed avere figli non loro, ma sulla comunicazione comune vieta ogni parola riferita alla loro condizione sessuale. Più per gli uomini. Ormai è vietato dire quelli dell'altra sponda, quelli dell'altra parrocchia e poi frocio, ricchione, finocchio, culo, culattone, culano, culatino, bucaiolo, buso o busone, bardassa o bardascia, buggerone, checca, cupio, garrusu, invertito, gay, urningo o uraniano, femminello, mezzafemmina, pederasta, sodomita, invertito, pigliainculo.

L'invettiva sessista. Il settimanale diretto da Alfonso Signorini pubblica quattro fotogrammi rubati del ministro mentre mangia un gelato con il titolo “ci sa fare con il gelato” e l'Ordine dei giornalisti apre un procedimento. "Uno schifo". "Qualcosa di disgustoso". "Spazzatura". L'indignazione, a dir poco, esplode in rete insieme a disgusto e incredulità per quattro fotogrammi rubati al ministro Marianna Madia, e messi in doppia pagina su "Chi" con un titolo volgare e ammiccante. I tweet e i post su Facebook sono migliaia. Due facciate che vengono "difese" proprio dal direttore di Chi, Alfonso Signorini. che twitta: "Calippo si e gelato no?", con l'ashtag #duepesiduemisure. Il riferimento è alle foto di Francesca Pascale apparse nel febbraio 2013. Il riferimento non è puramente casuale, anzi è chiaro e diretto al servizio pubblicato tempo fa da Oggi, gruppo Rcs, in cui venivano riproposte vecchie immagini di Francesca Pascale che mangiava un Calippo nel corso di una clip per una televisione locale. Il direttore di Chi poi, intervistato da Giorgio Mulè alla presentazione del suo libro "L’altra parte di me" nella tappa catanese del tour Panorama d’Italia, ha spiegato meglio il suo pensiero: "Chi oggi s’indigna per il titolo che ho fatto alle foto della Madia che mangia il cono gelato ha marciato per anni sul calippo della Pascale. Io aderisco a una scuola di pensiero secondo cui la malizia sta negli occhi di chi guarda e non di chi la fa, accusare me di sessismo o di persecuzione a sfondo sessuale è assurdo, per non parlare di certe campagne davvero infamanti, per usare la stessa parola che usano oggi contro di me, sulle giarrettiere della Brambilla o il calendario della Carfagna".

L'invettiva pedofila. Del resto oggi tutto ha il sapore di proibito, ma anche solo pensare di essere amorevole con i figli, ti conduce subito sulla sponda più terribile: quella dei genitori oggetto di riprovazione. È una categoria semplice, assoluta e falcidiante. Ha il potere di bloccare l'azione sul nascere, perché influisce direttamente sul pensiero: è la forza del politicamente corretto, che rovina perfino i momenti di divertimento o di affetto. È il motivo per cui non si dà più un bacio innocente o una carezza, agli adulti, così come ai bambini: passi immediatamente per un maniaco o per un pedofilo. Ecco il motivo per cui i bambini non giocano più nei cortili, non prendono più un ascensore da soli, non possono giocare a palla in riva al mare, mentre è così difficile fermare i piccoli sbandati o i delinquenti, quelli veri. Ed è molto più facile fare sentire un genitore come un criminale, che fare divertire un bambino.

L'invettiva giudiziaria. Le lacrime e la rabbia lasciano il posto alla determinazione. «Mi devono uccidere per fermarmi», dice Ilaria Cucchi all’indomani della sentenza della corte di appello di Roma che vede tutti assolti gli imputati per la morte del fratello Stefano, deceduto il 22 ottobre di cinque anni fa dopo una settimana di ricovero in ospedale. Una vicenda che ha provocato uno strascico di polemiche su cui interviene anche il presidente della Corte d’Appello di Roma, Luciano Panzani: «Basta gogna mediatica, non c’erano prove».

L'invettiva specista. Lo specismo è l'attribuzione di un diverso valore e status morale agli individui a seconda della loro specie di appartenenza. Il termine fu coniato nel 1970 dallo psicologo britannico Richard Ryder, per calco da razzismo e sessismo, con l'intento di descrivere in particolare gli atteggiamenti umani che coinvolgono una discriminazione degli individui animali non umani, inclusa la concezione degli animali come oggetti o proprietà. Il termine viene usato comunemente nel contesto della letteratura sui diritti animali, per esempio nelle opere di Peter Singer e Tom Regan. Succede spesso di leggere sui giornali o di vedere video su youtube di incredibili salvataggi, per mano umana,  di animali (specialmente cani) in difficoltà. Quello che però lascia perplessi è leggere di un intervento simile proprio in un luogo come quello di Carloforte, noto per la tradizionale mattanza dei tonni. Questo salvataggio, se ci si sofferma un attimo a pensare, ha davvero dell’incredibile. Uomini che si uniscono e si impegnano con tutte le loro energie per salvare una vita da annegamento certo mentre stanno per calare le reti che spezzeranno le vite, attraverso una lenta e dolorosa sofferenza, di centinaia e centinaia di pesci. Purtroppo questo è lo specismo, che quotidianamente e ovunque nel mondo continua a dilagare ma che dobbiamo cercare di abbattere. Come per l'allevamento Green Hill, ovvero: la preoccupazione riguarda solo i cani di Green Hill, non c'è nessuna condanna delle inenarrabili crudeltà perpetrate in laboratorio su altri animali quali topi, ratti o maiali.

Era della comunicazione dove non comunichiamo. Non si ascolta più, si parla e basta....

In conclusione. Come si può non essere politicamente corretti e conformisti? Basta essere corretti e veritieri nell’espressione del pensiero. Basterebbe abbeverarsi dal sapere dei buoni maestri senza tema di smentita, pensare un attimo a quello che si dice o si scrive e non vedere cose brutte in cose estremamente innocenti!

L'ipocrisia dei "no Cav". Giornalismo malato da  una  guerra  civile. L’odio nei confronti di Berlusconi trasuda sulla stampa di sinistra che rivendica anche la propria egemonia culturale, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Su «Carta straccia» Giampaolo Pansa offre di giornali e giornalisti di oggi uno spettacolo spesso grottesco, ma più spesso desolante. Che il giornalismo italiano sia diverso da quello degli altri Paesi è un fatto storico: per lo più scritto con pretese letterarie e molta retorica supponente si sta trasformando sempre più in una brodaglia di violenza e imprecisione che lascia spesso sbalorditi i colleghi stranieri: «Davvero potete scrivere usando il condizionale senza prove? Da noi ci sbatterebbero in galera…». A nessuno, mai, nel Regno Unito o negli Stati Uniti, in Francia o in Svizzera, ma neanche in Polonia o in Romania, verrebbe in mente di inserire (come è accaduto in questi giorni) nell’articolo di un cattedratico un lungo brano ignoto all’autore ma spacciato come autentico e difendere poi un tale arbitrio come libertà d’informazione. Non sono di quelli che esaltano il giornalismo «anglosassone» immaginato come asettico e impersonale, ma ho un grande rispetto per il giornalismo americano e britannico e per il modo accurato in cui trattano i fatti anche quando le testate si schierano politicamente: del resto in quei Paesi la pagina dei commenti è di competenza dell’editore, perché il direttore si deve preoccupare soltanto delle notizie e curare che siano complete e corredate dalle fonti.
Quel giornalismo, che non è certo esente da difetti, ha però prodotto antidoti e anticorpi che ancora funzionano bene, attraverso scandali e processi sulla cattiva informazione. Walter Lippmann, che influenzò il presidente Wilson alla fine della Grande Guerra e che morì criticando Lyndon Johnson per la politica bellicosa nel Vietnam, creò la parola «stereotipo» – oggi si direbbe «politicamente corretto» – per indicare il pericolo delle opinioni automatiche e moralmente prefabbricate. Fu lui del resto a dire che «la salute della società dipende dalla qualità delle informazioni che riceve» affermazione non contestabile ma priva di riscontro in Italia. Lippmann ricordava anche che la notizia e la verità non sono la stessa cosa e questo perché l’informazione e la comunicazione non sono la stessa cosa: spacciarle l’una per l’altra produce una forma di giornalismo che si vieta di pensare, anticipando così, come ha scritto Marco Bardazzi su «Ttl», il monito di Hannah Arendt: «quando gli uomini rinunciano a dire quel che pensano, spesso smettono anche di pensare». Da noi, peccato, niente Hannah Arendt e niente Walter Lippmann, ma tutt’al più un composto Umberto Eco che nel suo «Costruire il nemico» riconosce che Julien Assange, la primula rossa di WikiLeaks, ha finalmente certificato che il re è nudo ponendo la stampa di fronte alla responsabilità di decidere, senza ricorrere a Internet, che cosa sia reale e meriti di essere stampato. Di «Carta Straccia» condivido il giudizio positivo su Antonio Padellaro direttore del Fatto Quotidiano, e su Marco Travaglio come fenomeno di straordinaria efficacia e qualità, a prescindere dalle differenze di opinione. Del resto è stato proprio il direttore del Fatto Quotidiano a dire a Laura Cesaretti, sul Giornale del 1° novembre 2010, che «la sinistra ha una grande suscettibilità nei confronti della libertà di stampa. Una suscettibilità che può raggiungere livelli insopportabili, in-sop-por-ta-bi-li!». E lo stesso Padellaro, ricorda Pansa, considerò la campagna sulla casa di Montecarlo un’operazione giornalistica efficace e ineccepibile. Anche a me la nascita e il successo del Fatto hanno entusiasmato al di là della linea politica, perché quel successo dimostra che esistono segmenti di opinione pubblica in attesa di essere rappresentati sia sui giornali che in politica. Ma ecco che mi imbatto, fra i documenti di «Carta straccia» in alcune parole di Marco Travaglio che ignoravo, pubblicate sul blog di Beppe Grillo e che, sorpresa, esaltano e rivendicano il diritto all’odio. Così: «Chi l’ha detto che non posso odiare un politico? Chi l’ha detto che non posso augurarmi che il Creatore se lo porti via al più presto? Non esiste il reato di odio». Che cosa rispondere? Che è vero, il reato di odio non esiste sui codici, ma dovrebbe esistere nelle coscienze. Oggi l’odio trasuda dalle pagine stampate di entrambi i fronti, ma con una sperimentata prevalenza dell’odio di sinistra, che è più antico, raffinato e velenoso. Sul Giornale io stesso alcuni anni fa denunciai la categoria degli «odiatori professionisti», come nuova mutazione giornalistica: gente che non attacca soltanto con le notizie, ma che incita all’odio e, di conseguenza, alle sue applicazioni pratiche. Una volta rivendicato il diritto di esprimere l’odio, è difficile prendere le distanze da atti di violenza come il famoso duomo sulla faccia di Berlusconi, a causa del quale Sabina Guzzanti è stata violentemente attaccata avendo lei, antiberlusconiana, espresso disagio alla vista del sangue. Ma la pratica dell’odio e del disprezzo non è una novità fra giornalisti e intellettuali: ricordo che quando da giornalista certificavo che Francesco Cossiga non era affatto matto (come voleva invece il comitato degli intellettuali che seguivano le indicazioni di Eugenio Scalfari) amici e colleghi cominciarono a cambiare marciapiede quando mi vedevano. Ricordo Tullio de Mauro, il celebre linguista, che mi sibilò: «Ma che cazzo scrivi Paolo? Ma non ti vergogni?». E non mi rivolse più la parola. Il giornalismo è da molto tempo al limite della guerra civile latente, sicché berlusconismo e antiberlusconismo sono diventate due categorie del cattivo spirito dei tempi, uno Zeitgeist al limite della malattia mentale. Ma, ancora una volta, non si tratta di una novità dovuta alla discesa in campo dell’uomo descritto come il «Grand Villain», o «Caimano» perché prima di Berlusconi esistevano altri «grand villain» contro i quali la stessa macchina da guerra funzionava attaccando Bettino Craxi e Andreotti, e prima ancora Forlani e Fanfani senza escludere Aldo Moro. Anche allora, con appena una misura di maggior pudore, il clima era quello di una guerra civile giornalistica agli ordini di quella politica è sempre stata coltivata con genialità da personalità della sinistra estremamente colte e raffinate anche se crudeli, come Palmiro Togliatti (sotto lo pseudonimo di «Roderigo de Castilla») o geniali e letterarie come «Fortebraccio» (Mario Melloni). La sinistra nata dai lombi del Pci si presenta poi sempre come un unico campione etico rivendicando di conseguenza una egemonia culturale che interviene alla fine sulle carriere, i finanziamenti, i premi, i festival, le legittimazioni e le delegittimazioni. E questo è un mestiere che il giornalismo di destra, per sua colpa o per un suo limite genetico, non ha mai saputo o voluto correggere, limitandosi a protestare in maniera inconcludente e anche un po’ isterica. L’Italia che Pansa descrive in «Carta Straccia» è un caso grave ma non unico perché l’egemonismo giornalistico di sinistra è universale dagli Stati Uniti alla Francia dove il politico italiano di sinistra Dario Franceschini può veder pubblicato il suo ottimo romanzo presso un editore come Gallimard, cosa che difficilmente potrebbe accadere ad un politico di centrodestra di pari valore. E così nella letteratura: se Gabriel Garcia Marquez, ritenuto di sinistra e amico personale di Fidel Castro, ebbe il Nobel per la letteratura nel 1982, il vecchio e cieco Jorge Luis Borges, accusato di essere un reazionario aspettò invano per tutta la vita. E infatti ha fatto discutere l’anomalia grazie alla quale il premio Nobel sia andato nello scorso ottobre a Mario Vargas Llosa, considerato di destra ma nato a sinistra, autore col figlio anche di un folgorante «Manual del Perfecto idiota Latino-Americano» che ha spellato il giornalismo sinistrese del suo mondo. In Italia, Paese da cui scaturiscono o sono scaturiti cattolicesimo, fascismo e il più influente partito comunista occidentale, la sostituzione del giornalismo con la propaganda è stata una strada obbligata: soltanto da noi si poteva inventare l’espressione «linea editoriale» per giustificare nel servizio pubblico televisivo l’uso di un linguaggio di propaganda, la censura e l’eccesso, sia di sinistra che di destra. La «verità» stessa, come premessa dell’informazione corretta e completa, in Italia è relegata al rango di «arroganza». Ed è questo il motivo per cui, senza dover aspettare Berlusconi, i politici italiani hanno sempre avuto nei confronti del giornalismo un atteggiamento padronale creando il ridicolo fenomeno del politico «di riferimento», padrino-padrone che promette carriere e direzioni nei telegiornali «d’area». Ci fu un tempo in cui Giampaolo Pansa ed io chiudevamo di notte la seconda edizione di Repubblica in tipografia. Una notte arrivarono in redazione, piangendo disperati, i parenti di alcune persone morte avvelenate. Li ascoltammo e Pansa disse: «Avete ragione, è una tragedia immane, guardate qui: “familia” nel titolo senza la “g”! Santo cielo, che catastrofe…». Mentre i parenti delle vittime se ne andavano stizziti per la nostra insensibilità ci precipitammo a correggere il titolo. Un episodio minimo, che però Pansa e io ricordiamo ogni volta che ci parliamo perché contiene forse la misura dell’aneddoto buffo, del mestiere minore, la corsa in tipografia, i casi della vita, quel modo semplice e casuale che costituiva la cifra del nostro mestiere. Eravamo in fondo dei proletari della notizia e appartenevamo a una generazione che si poteva permettere un giornalismo tutt’altro che neutrale, anzi schierato e combattivo, ma usando sempre e soltanto rigorosamente i fatti.

Giampaolo non ha nessuna intenzione di accedere - come molti suoi coetanei - a una vecchiaia omaggiata e sacrale, scrive Luca Telese su “Il Fatto Quotidiano. Non aspira a entrare nel novero dei vecchi saggi che invecchiano bene, centellinano il talento e le esternazioni, amano farsi benvolere da tutti, si risparmiano molto e si fanno celebrare di più. Nel suo ultimo libro, per esempio, Pansa spara su Fabio Fazio, su Ezio Mauro, su Nichi Vendola, su Michele Santoro sul nemico (di sempre!) Giorgio Bocca e tanti altri (ma, stranamente, parla bene di questo quotidiano). E risparmia la destra. Il fatto è che Giampaolo Pansa ha scritto un altro libro sul giornalismo (si intitola Carta Straccia), e ha - diciamo la verità - un caratteraccio: gli piace che nella sua scrittura si indovini il ghigno dei cattivi del cinema francese in bianco e nero, un Jean Gabin marsigliese tutto sangue e inchiostro. In questa parte della sua vita, per dire, Pansa ama farsi nemici, tirare freccette al curaro su alcuni bersagli privilegiati, fra cui svetta Repubblica, il quotidiano che lo ha consacrato. Non è elegante, ma lui se ne frega. Giampaolo è romantico, passionale, viscerale vendicativo, ma anche cameratesco: ora è a Libero, e "i due mastini" della coppia di direzione si trovano effigiati in un capitolo celebrativo che li mostra un po' canaglie, ma simpaticissimi. Pansa, temo, ci seppellirà tutti con uno sberleffo o con una scudisciata a mezzo stampa. Giampaolo, in fondo - se passi ai raggi X la sua bibliografia di ben 45 tomi - ha scritto praticamente trenta libri su due soli argomenti: il giornalismo (e la propria vita); e poi la Resistenza e il fascismo (prima e dopo "il ciclo dei vinti"), su cui ha cambiato clamorosamente idee. Non lo nega, anzi. Ma l'amore ne esaltava la Resistenza e l'eroico partigiano "Infuriato", il ciclo dei vinti è dedicato alla demolizione della Resistenza (prima "quella comunista", poi tutte "le altre"). Insomma, questi libri Pansa li ha scritti raccontando sempre la stessa storia (e talvolta persino gli stessi aneddoti) ma virandoli in maniera diversa, in nome di un revisionismo esistenziale che è uno dei motivi per cui una sterminata tribù di lettori almanacca i suoi libri. Meravigliosa contraddizione: un titolo dispregiativo per officiare il culto della stampa. Anche in questo libro, per esempio, c'è la storia del suo binocolo Zeiss, c'è la redazione de La Stampa conosciuta da ragazzo, e raccontata anche ne Il Revisionista (2009), ma pure nel ''Romanzo di un ingenuo'' (2000) che è stata la sua prima autobiografia. C'è di nuovo l'intervista a Enrico Berlinguer che è stata già raccontata in ''Ottobre addio'' (1982) e - ancora - ne Il Revisionista (2009). E così c'è da esser certi che arriveranno anche un altro libro e un altro ritorno, perchè Pansa riscrive se stesso cambiando continuamente lo scenario che gira intorno,la fissità del demiurgo che scruta il mondo nel circo immaginario del suo Bestiario. Giampaolo è meticoloso, a volte maniacale. Un altro, in un capitolo dedicato alla demolizione sistematica e feroce di Fazio non metterebbe mai una frase come questa: "Non mi ha mai voluto nel suo salotto per una colpa imperdonabile: il mio presunto anti-antifascismo, attestato dai libri che andavo scrivendo sulla guerra civile. Però aveva accolto col tappeto rosso quel collaudato fascista di Fini". Fazio non lo ha voluto e lui ratatatà - squaderna la sua arma più micidiale, l'archivio. Una volta me lo fece vedere, senza compiacimento, come un chirurgo che apre la teca dei bisturi. Un garage della sua casa di San Casciano, un arsenale pronto per essere usato a ogni occorrenza, contro chiunque: "Ho una cartellina anche su di te", e rideva. Pansa è un vecchio cronista cresciuto nella religione del "cartaceo": ritaglia anche le lettere dei lettori. Oppure estrae dal garage la raccolta de ''Il dito nell'occhio'', la rubrica che 15 anni fa Nichi Vendola teneva su Liberazione, infilando una antologia antidalemiana: "Massimo è gravemente atlantico", "cinicamente spoglio di dolore", "goffamente demagogico", "con una spocchia da statista neofita", "livido come i neon del metrò". Conclusione dell'autopsia: "12 anni fa il deputato Vendola era un polemista dal pensiero violento e dal linguaggio stridulo". In fondo ''Carta straccia'', il potere inutile dei giornalisti italiani (Rizzoli, 427 pagine 19.50) è la fusione di uno strumento perfetto e di un umore sulfureo. E' un viaggio nel garage di San Casciano con intenzioni contundenti, ed effetti sorprendenti. Ad esempio nel capitolo su Il Fatto, che dopo tre pagine sugli strafalcioni dei giornali italiani e un paio di scotennamenti senza rete ti potresti stupire: "Nella Grande crisi della carta stampata un solo giornale si rivelò capace di andare contro la corrente: Il Fatto".A Giampaolo questo giornale non piace, ma dopo aver tratteggiato i medaglioni di "Beriatravaglio" (copyright di Staino) e di Antonio Padellaro, rende un onore delle armi al successo ottenuto: "Di chi era il merito? Prima di tutto del direttore, Padellaro. Poi della star del giornale, Travaglio. Infine della redazione". Memorabile l'episodio di un collega di La Repubblica - unico non citato per nome - che propone una brillante intervista al segretario del Psdi Luigi Longo. Il giorno dopo Pansa, all'epoca vicedirettore riceve questa telefonata di Longo: "Ho letto l'intervista. Mi sembra molto fedele, rispecchia bene il mio modo di considerare il momento politico. Ha un solo difetto. Io non ho mai dato nessuna intervista". Per colpire Bocca (per lui ha la stessa passione che Achab ha per Moby dick) estrae dal'articolo una "intervista doppia" del 1980 sul terrorismo raccolta da un giovanissimo Lucio Caracciolo. Bocca sosteneva che i covi delle Br erano una invenzione, Pansa che le Br erano attive dal 1971. Sul quotidiano di Mauro un intero capitolo, e una sentenza feroce: "Perché non fare di La Repubblica una vera formazione politica? I militanti c'erano. I Soldi pure. Anche il leader non mancava. Era un direttore-segretario caparbio, aggressivo, più carismatico di moti big della casta partitica".

Giampaolo Pansa è uomo di furori, non di convenienze, scrive Stefano Di Michele su “Il Foglio”. Pure di rancori, ma non di ipocriti ritegni. E nemmeno di malafede. Forse si è sentito ferito, Pansa – anzi, sicuramente è stato ferito. Una ferita non medicata, la sua, né dagli amici che furono né dai compagni che l’amarono – ché loro, soprattutto, si fecero assalitori. Piuttosto, ognuno a versare sale, su quella ferita, a lanciare stupide accuse, ad attruppare becere squadracce iperdemocratiche (l’iperdemocrazia essendo la china che conduce prima a un’eccessiva considerazione di sé, quindi al fanatismo) per impedirgli di presentare i suoi libri su quella che lui – con ostinazione sempre più ostinata ogni volta che qualcuno gliela rinfaccia – chiama la “guerra civile”. Si è aperta con “Il sangue dei vinti” la seconda vita (da scrittore di gran successo) di Pansa. E con “Il sangue dei vinti” ha avuto inizio la seconda esistenza (di gran disdegno) di Giampaolo agli occhi dei suoi detrattori. Quelli fanatici e offesi, lui cocciuto. E il suo sarà, c’è da pensare, il secondo paradosso giornalistico-politico di quest’Italia da Seconda Repubblica e di ancestrali collere. Se Montanelli, icona del giornalismo di destra, è finito sugli altari davanti ai quali compie riti gente di ogni sfumatura di sinistra, probabilmente tra cento anni (nei giorni caldi della Ventinovesima Repubblica), quando Pansa non ci sarà più, sarà lui, antica icona del giornalismo di sinistra, issato sull’altare davanti al quale s’aduneranno manipoli di destrorsi incontinenti. Essendo uomo di carattere, Pansa ne ha uno pessimo – e la mai sopita intelligenza delle cose (movente, opportunità, aggressori) lo costringe a una tignosa, divertita e (magari) dolente ricapitolazione.+Perché fa i conti con i suoi nemici, Pansa, e fa anche i conti con se stesso. Un pugno di anni, e un intero orizzonte è mutato. E in fondo, come è stato con il suo precedente libro “Il revisionista”, anche questo “Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani” (Rizzoli), è un altro pezzo della sua resa dei conti – con l’antico universo che l’ha amato e poi espulso; con se stesso, che quell’universo ha prima attraversato e poi rinnegato. E’ un libro divertente, perfido, feroce – scritto divinamente, quindi scritto da Pansa. Ma le oltre quattrocento pagine, alla fine, lasciano un senso di amarezza: nell’area della sinistra decente e civile, che il Pansa che fu rimpiange, ma lo stesso ama il Pansa che è, innanzi tutto. E forse, nello stesso autore. Perché il libro è scanzonato, “libraccio carogna” come piace dire a lui, che marcia e macina – facce, parole, giudizi impertinenti. Ma non è un libro sul giornalismo e sui giornalisti: non così ampio, non così riduttivo. E’ un libro su Pansa e sul suo mondo di giornali e giornalismo. Su ciò che fu (con qualche eccesso di sottovalutazione, e forse qualche giudizio ingeneroso) e su ciò che è (con qualche eccesso di partecipazione, e forse qualche giudizio eccessivamente generoso). Una sorta di (nuova) autobiografia professionale, dove Pansa getta via quel che ancora conservava di ricordi affettivi sul fondo di un polveroso cassetto, e abbraccia – con la generosità di sempre, quella che ogni giovane cronista che ha avuto a che fare con lui ha sperimentato – il nuovo mondo: Belpietro invece di Scalfari, Feltri invece di Bocca “l’uomo di Cuneo” (in realtà da un pezzo, al posto di Bocca chiunque andava bene), e Lerner e l’Ingegnere e la ex direttrice dell’Espresso, e la Gruber, ed Ezio Mauro, e la Concita – per tacer, senza tacere, di quel Fazio lì… Ha invece pagine bellissime, commoventi, quando ricorda vecchi colleghi come Gaetano Scardocchia e Gianni Rocca. Fino all’eruzione finale: mai votato il Cav!, Pansa – solo i cretini pensano che le persone intelligenti possano cambiare idea facendo mercato di se stessi – ma se continuano a fargli girare i santissimi… Gran libro di cenere e furie – e pernacchie e (qua e là) persino risate.

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima.

Fino a poco tempo fa nessuno aveva mai parlato di inchini. Poi i giornali, in riferimento alla Concordia, hanno parlato di "Inchini tollerati". Lo sono stati fino a qualche ora prima della tragedia sulla Costa Concordia che ha provocato morti e feriti incagliandosi sulla scogliera davanti al porto dell'Isola del Giglio. Repubblica.it lo ha documentato: nei registri delle capitanerie di porto che dovrebbero controllare il traffico marittimo, emerge che la "Costa Concordia" - così come tutte le altre navi in zona e in navigazione nel Mediterraneo e nei mari di tutto il mondo - era "seguita" da Ais, un sistema internazionale di controllo della navigazione marittima che è stato attivato da alcuni anni e reso obbligatorio da accordi internazionali dopo gli attentati dell'11 settembre (in funzione anti-terrorismo) e dopo tante tragedie del mare avvenute in tutto il mondo. Si è scoperto così che quel passaggio così vicino all'isola del Giglio era un omaggio all'ex comandante della Costa Concordia Mario Palombo ed al maitre della nave che è dell'isola del Giglio. Si è scoperto anche che per ben 52 volte all'anno quella nave aveva fatto gli "inchini". Inchini che fino al giorno prima, fino a prova contraria, erano stati tollerati: nessuno fino ad allora aveva mai chiesto conto e ragione ai comandanti di quelle navi. Nessuno aveva cercato di capire perché passassero così vicini alla costa dove per legge è anche vietato (se una piccola imbarcazione sosta a meno di 500 metri dalle coste, se beccata dalle forze dell'ordine, viene multata perché vietato). Figuriamoci se a un bestione come la Costa Concordia è consentito "passeggiare" in mezzo al mare a 150-200 metri dalla costa. Il comandante Schettino, come confermano le indagini e le conversazioni radio con la capitaneria di porto di Livorno, ha fatto errori su errori, ma nessuno prima gli ha vietato di avvicinarsi troppo all'isola del Giglio. Quando si è incagliata era troppo tardi.

Da un inchino ad un altro. Dopo il 2 luglio 2014 l’anima italica, ipocrita antimafiosa, emerge dalle testate di tutti i giornali. I moralisti delle virtù altrui, per coprire meglio le magagne governative attinenti riforme gattopardesche. Si sa che parlar dei mondiali non attecchisce più per la male uscita dei pedanti italici. Pedanti come ostentori di piedi pallonari e non di sapienza. Lo dice uno che sul tema ha scritto un libro: “Mafiopoli. L’Italia delle mafie”.

Una protesta plateale. Se la Madonna fa l’inchino ai boss, i carabinieri se ne vanno. Se i fedeli e le autorità, civili e religiose, si fermano in segno di “rispetto”, davanti alla casa del mafioso, le forze dell’ordine si allontanano, in segno di protesta. E ne diventano eroi. Tanto in Italia basta poco per esserlo. È successo il 2 luglio 2014, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: durante trenta secondi di sosta per simboleggiare, secondo tutti i giornali, l’inchino al boss Giuseppe Mazzagatti, i militari che scortavano la processione religiosa si sono allontanati. Tutti ne parlano. Tutti si indignano. Tutti si scandalizzano. Eppure l’inchino nelle processioni è una tradizione centenaria in tantissime località del sud. Certo è che se partiamo con la convinzione nordista mediatica che il sud è terra mafiosa, allora non ci libereremo mai dei luoghi comuni degli ignoranti, che guardano la pagliuzza negli occhi altrui. Gli inchini delle processioni si fanno a chi merita rispetto: pubbliche istituzioni e privati cittadini. E’ un fatto peculiare locale. E non bisogna additare come mafiosi intere comunità (e dico intere comunità), se osannano i singoli individui e non lo Stato. Specie dove lo Stato non esiste. E se ha parvenza di stanziamento, esso dà un cattivo esempio. A volte i giudizi dei tribunali non combaciano con quelle delle comunità, specie se il reato è per definizione nocumento di un interesse pubblico. Che facciamo? Fuciliamo tutti coloro che partecipano alle processioni, che osannano chi a noi non è gradito? A noi pantofolai sdraiati a centinaia di km da quei posti? Siamo diventati, quindi, giudici e carnefici? Eliminiamo una tradizione centenaria per non palesare il fallimento dello Stato?

Dare credibilità agli amministratori locali? Sia mai da parte dei giornali. Il sindaco di Oppido Mamertina, Domenico Giannetta, ha rilasciato un lungo comunicato per spiegare l'accaduto «Noi siamo una giovane amministrazione che si è insediata da 40 giorni e non abbiamo nessuna riverenza verso un boss. Se i fatti e le motivazioni di quella fermata sono quelli ricostruiti finora noi siamo i primi a condannare e a prendere le distanze», spiega Domenico Giannetta, sindaco di Oppido Mamertina. «A quanto appreso finora - spiega ancora il sindaco - la ritualità di girare la madonna verso quella parte di paese risale a più di 30 anni, ma questa - chiarisce Giannetta - non deve essere una giustificazione. Se la motivazione è, invece, quella emersa condanniamo fermamente. Noi - sottolinea - siamo un’amministrazione che vuole perseguire la legalità. Ci sentiamo  come Amministrazione Comunale indignati e colpiti nel nostro profilo personale  e istituzionale. Era presente al corteo religioso tutta la Giunta Comunale, il Presidente del Consiglio Comunale, il Comandante della Polizia Municipale e il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Oppido. Giunti all'incrocio tra via Ugo Foscolo e Corso Aspromonte, nel seguire il Corteo religioso tutti i predetti camminando a piedi svoltavamo a sinistra, circa 30 metri dietro di noi vi erano i presbiteri e ancora dietro la vara di Maria SS. Delle Grazie. Mentre tutti procedevamo a passo d'uomo la vara si fermava all'intersezione predetta e veniva girata in direzione opposta al senso di marcia del Corteo, come da tradizione. Peraltro, nell'attimo in cui i portatori della vara hanno espletato tale rotazione, improvvisamente il Comandante della Stazione locale dei Carabinieri che si trovava alla destra del Sindaco si è distaccato dal Corteo, motivando che quella gestualità era riferibile ad un segno di riverenza verso la casa di Mazzagatti. Sentiamo dunque con sobrietà di condannare il gesto se l'obiettivo era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone che trasportano in processione l'effigie, venga dissacrata l'onnipotenza divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro nell'immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di buon senso e non abbiamo abbandonato il Corteo per non creare disagi a tutta la popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi paesi ed evitare il disordine pubblico».

Se non vanno bene, possiamo cambiare le regole. Bene ha fatto a centinaia di km in quel di Salerno il clero locale. Meno applausi e più preghiere, affinchè la processione di San Matteo ritorni ad essere «un corteo orante» e non un teatro o un momento «di interessi privatistici», scrive “La città di Salerno”. L’arcivescovo Luigi Moretti annuncia così le nuove “regole” che, in linea con la Cei, caratterizzeranno la tradizionale celebrazione dedicata al Santo Patrono, invitando tutti - fedeli, portatori, istituzioni - a recuperare il senso spirituale della manifestazione. Non sono previste fermate dinanzi alla caserma della Guardia di Finanza,  nè dinanzi al Comune. Aboliti gli “inchini” delle statue che per nessuna ragione dovranno fermarsi sulla soglia di bar e ristoranti, visto che «sono i fedeli che si inchinano ai Santi e non il contrario». Nessuna “ruota” delle statue, fatta eccezione per tre momenti di sosta all’altezza di corso Vittorio Emanuele, corso Garibaldi e largo Campo. I militari che sfileranno dovranno essere rigorosamente non armati e le bande saranno ridotte ad un unica formazione. Le stesse statue saranno compattate «in un blocco unico per evitare dispersioni». Nei giorni che precedono la processione saranno organizzate iniziative nelle parrocchie della zona orientale, «che prima erano tagliate fuori dalla celebrazione». Il corteo sarà aperto da croci e candelabri, poi le associazioni, con l’apertura anche a quelle laiche, altra novità di quest’anno. A seguire la banda, le statue, il clero «su doppia fila», l’arcivescovo che precederà San Matteo e dietro i Finanzieri, il Gonfalone del Comune e le autorità con il popolo. Durante la sfilata «si pregherà e verranno letti dei brani del Vangelo». No ai buffet allestiti per ingraziarsi il politico di turno con brindisi e pizzette. «Quelle, se i fedeli vorranno, potranno recapitarle a casa dei portatori», ha ironizzato Moretti. «Ben venga chi vuole offrire un bicchiere d’acqua a chi è impegnato nel trasporto delle statue, ma il resto no, perchè c’è un momento per fare festa ed uno per pregare».

In conclusione sembra palese una cosa. Gli inchini nelle processioni non sono l’apologia della mafia, ma spesso sono atti senza analisi mediatica dietrologica. Molte volte ci sono per ingraziarsi, da parte dei potenti, fortune immeritate. Sovente sono un segno di protesta contro uno Stato opprimente che ha vergognosamente fallito.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima. Si inchina a tutti, per poi, un momento dopo, tradirlo. D'altronde ognuno di noi non si inchina a Dio ed ai Santi esclusivamente per richieste di tornaconto personale? Salute o soldi o carriera?

Ricordatevi che lo sport italico è solo glorificare gli appalti truccati ed i concorsi pubblici falsati.

PREMIO STREGA ED AUTOCITAZIONI. LO SCRITTORE NON E’ MAI AUTORE.

Bisogna credere agli editori che in queste ore, alla vigilia del Premio Strega, ostentano nonchalance? Si chiede Silvia Truzzi per “Il Fatto Quotidiano”. Naturalmente no: giurano tutti indifferenza, intanto collezionano telefonate e questuano voti. Il clima è teso, quest’anno ci si è messa pure Federcosumatori, con una “richiesta di trasparenza” alla Fondazione Bellonci: “Qualche finalista è stato sorpreso con le mani nel sacco del ricorso al copia e incolla di passi presi da proprie precedenti opere. Altri finalisti vantano consorti collaboratrici del direttore della Fondazione organizzatrice del Premio”. Il riferimento è ad Antonio Scurati e alla sua, diciamo, “autocitazione” di una scena di sesso che compare pressoché invariata anche in un precedente libro (che pure era stato in concorso allo Strega). La seconda allusione invece è alla moglie di Francesco Piccolo, che fino all’anno scorso collaborava con la Fondazione Bellonci. Se la matematica è una scienza che porta a conclusioni necessarie, gli editori hanno ben altri motivi d’inquietudine. I numeri di questo Strega non sono incoraggianti: le statistiche Nielsen (la società che raccoglie i dati delle vendite senza includere la grande distribuzione) sul venduto dei titoli in concorso parlano chiaro. Ed ecco cosa dicono. Si difende Il desiderio di essere come TUTTI di Francesco Piccolo (Einaudi) che ha venduto 42 mila copie dal novembre 2013 (data di pubblicazione) a oggi. Bisogna dire che di questo “romanzo della sinistra italiana” - ancora prima di nascere era già il vincitore annunciato dello Strega - si è parlato molto sui giornali e Piccolo è stato anche ospite del salotto di Fabio Fazio. Non che Bompiani abbia lesinato pubblicità a Il padre infedele: eppure il libro di Antonio Scurati, uscito a ottobre 2013, resta fermo a 8.200 copie, che sono davvero poche per un autore già affermato. Va meglio in casa Feltrinelli, dove Non dirmi che hai paura di Giuseppe Catozzella, uscito a gennaio 2014, arriva alle 20 mila copie. La vita in tempo di pace, esordio letterario di Francesco Pecoraro con Ponte alle grazie – un piccolo caso per le ottime recensioni ottenute – ha venduto 4.500 copie da ottobre 2013 a fine giugno 2014. Ultima – ma il dato è poco significativo perché il romanzo è uscito a metà marzo di quest’anno – Antonella Cilento con Lisario o il piacere infinito delle donne (Mondadori), ferma a 3.800 copie. Naturalmente tutto questo non è strano, visto che il mercato editoriale non dà segni di miglioramento: nel 2013 ha registrato un -6,2% a valore e -2,3% a copie nei canali trade (quelli rivolti al pubblico: librerie, librerie online e grande distribuzione) rispetto al 2012. Gli italiani hanno acquistato lo scorso anno 99,2 milioni di volumi (2,3 milioni in meno del 2012) e il 2014 non si è aperto sotto auspici molto migliori, se nei primi tre mesi sono stati venduti 1,4 milioni di libri in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Lo Strega s’inscrive in una curva discendente e per questo vincerlo o no è, se possibile, ancora più importante. Non sfugge, ai sopracitati e irrequieti editori, che quest’anno è cambiato il sistema elettorale: si può votare – oltre che mettendo personalmente la scheda nell’urna domani sera – con un account personale da un computer che non può essere utilizzato per esprimere più d’una preferenza. Per la selezione della cinquina, su 460 aventi diritto, hanno votato in 403: di questi hanno utilizzato la scheda digitale in 320. Il sistema è più trasparente , sicuro e anonimo: certo toglie un’arma dalle mani degli editori, che non sempre si sono limitati alla moral suasion. È finita l’epoca dei telegrammi, dei voti raccolti dagli uffici stampa e di tutti i pasticci che tanto hanno contribuito alle numerose leggende del Ninfeo? Come da copione, anche quest’anno i giurati sono stati inseguiti da autori e direttori editoriali, ma nel segreto dell’urna digitale non si sa mai cosa può accadere: lo scopriremo domani al Ninfeo.

Ammaniti, Raimo e Pincio, che figuracce, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Vi ricordate tutte quelle belle discussioni su che cosa sia la letteratura? Rappresentazione del reale, suo stravolgimento, reinvenzione, altro? E ancora vi ricordate le appassionate disquisizioni sul ruolo degli scrittori? Beh dimenticatevi tutto questo. Oggi scrivere vuol dire raccontare di sé, autocitarsi. La hanno chiamata, nobilitandola, <autofiction finzionale> (Vanni Santoni su “La lettura” del Corriere) ma con il linguaggio forse un po’ volgare ma veritiero la potremmo definire “sega d’autore”. In alcuni casi “sega d’autore 2.0”. Partiamo dal 2.0. Ben due scrittori, Christian Raimo e Tommaso Pincio, stanno infatti per pubblicare due opere ispirate ai loro status su facebook. Raimo quelli scritti col personaggio del professore zimbello degli studenti; Pincio quelli che prendendo per il fondelli il senso comune avevano come incipit “Genti che non sanno”, che sarà anche il titolo del libro. Visti i like ricevuti, come sottolinea bene Simonetta Sciandivasci su Il Foglio, hanno deciso che la loro social produzione meritasse addirittura una consacrazione tipografica. La presunzione, tornando al dibattito iniziale, è che i loro status non abbiano a che fare con la realtà pedissequa di cui tutti raccontano, ma siano già opera letteraria. Invenzione o creazione che sia. Al di là del valore complessivo dei due libri -aspettiamo con impazienza di sfogliarli pur avendo letto tutti i vari status e essersi dopo un po’ rotte le scatole della ripetizione ossessiva - quello che colpisce è proprio questa idea. Cioè la convinzione che da una parte ci siano persone reali e dall’altra personaggi inventati dal genio dello scrittore. Niente di più sbagliato. Chi – come Raimo e Pincio – frequenta il social network sa bene che non è così. Anche il racconto più alla lettera, il commento più politico, la considerazione più legata al quotidiano costruiscono avatar di colui e colei che scrive. Questo vale per tutti. In molti poi, non certo con l’abilità  dei nostri scrittori, hanno fatto anche uno sforzo in più. Quello di costruire consapevolmente una narrazione orientata, pensata, voluta. I selfie spesso sono questo. Non un semplice autoscatto, ma la volontà di costruire un immaginario diverso. Il valore di queste narrazioni non è certo nella loro ricaduta sui mezzi di comunicazione tradizionali. Niente di più sbagliato. La novità è di per sé in questa narrazione diffusa, molteplice, spesso accattivante. Davanti a questo cambiamento epocale, che va ancora studiato e approfondito, lo smarrito possessore della verità narrativa che fa? Non si scoraggia e cerca di recuperare la posizione se non perduta messa fortemente in discussione. Scrive un libro che raccoglie i propri status. Non tanto per il valore in sé quanto per dare un messaggio chiaro: io sono io, voi non siete… etc etc… Almeno, a discolpa di Pincio e Raimo, bisogna dire che i due hanno capito che con i social sta avvenendo qualcosa di importante. Hanno però scelto la strada più facile: pensare che la logica che sottende facebook possa essere riportata su un libro come se niente fosse. I “sega d’autore” (senza punto zero) hanno fatto anche di peggio. Hanno saltato il passaggio dell’attraversata del mare magnum del web e si sono concentrati sulle loro personali e reali avventure. Sulle loro “Figuracce”, libro edito da Einaudi da un’idea di Niccolò Ammaniti, a cui hanno collaborato come coautori De Silva, Giordano, Pascale, Piccolo, Raimo, Stancanelli, Trevi. In questo caso il Corriere parla di autofiction e ci risparmia il finzionale. La sostanza è però la stessa. La messa in scena di se stessi, il guardarsi l’ombelico pensando che ai lettori possa interessare qualcosa. I diversi scrittori parlano delle loro figuracce legate al lavoro. Probabilmente il libro venderà, vista anche il battage di cui può contare e i nomi che lo hanno firmato, ma resta la domanda iniziale. Ma questa roba che cosa è?

Lo scrittore non è mai un autore. Il narratore di «Sentire le donne» esplora la distinzione tra cultura alta e passatempo. Troppi «commissari» e romanzi simili a compitini. Ma l’opera omologata è già passata, scrive Aldo Busi su “Il Corriere della Sera”. Che uggiosa stravaganza quella di suddividere le opere letterarie in autoreferenziali, cioè che parlerebbero autobiograficamente dell’autore che le scrive, e in altro-da-sé, cioè che parlerebbero della società e del vasto mondo esterno (?) all’autore! Oltretutto senza avere ancora operato con taglio netto la separazione tra scrittore e autore, cioè tra letteratura, che il fiasco un po’ se lo va a cercare, e, si spera, industria, fatturato (il testo alquanto mediocre di uno scrittore mi coinvolgerà sempre di più del meglio confezionato libro con commissario incorporato di autore), e senza alcun snobistico moralismo, giusto a vantaggio di entrambi gli scriventi — per sorvolare sulla pletora di quanti si descrivono nei blog e nei talk show come «attore e scrittore», «comico e scrittore», «pittore e scrittore», per arrivare all’ossimoro per eccellenza, «giornalista e scrittore». Quando uno non sa scrivere, scrive bene. Io, per scoraggiarla e quindi reprimerla, arriverei a teorizzare addirittura la sciocchezza tutta accademica di suddividere quanto pubblicato in opere scritte bene o scritte male — sempre soprassedendo al fatto che quando uno non sa scrivere, scrive bene, sicché ci sono almeno due modi per scrivere male convogliati entrambi nell’unico modo buono per tutti di non sapere affatto scrivere, e di solito chi non ha neppure un pensiero suo fa i compitini più perfetti e perfettamente in regola con le norme del bello scrivere e dell’ottimo pensare, altrui. Secondo un comune buon senso ancora del tutto ideale, l’unico metro di giudizio critico possibile. Chi non ha neppure un pensiero suo fa i compitini più perfetti da adottare per includere ed escludere dall’attuale lettura è tra opere di regime e nel regime di autori, pertanto coccolate dal mercato e dai non lettori, e opere di scrittori che vi si oppongono, che si oppongono a ogni possibile regime e, non appropriabili subito, perdurano in ogni regime, invise, poco lette, magari ammirate ma da lontano, senza mai farle avvicinare troppo perché ancora bruciano l’ipocrisia dell’io e di ogni relazione civile e politica e sentimentale tra codesti io e non permettono scampo ai sentimentalismi, ai sessualismi, ai familismi, alle superstizioni, alle religioni, agli assolutismi — anche tecnologici —, agli avventismi, alle reincarnazioni, ai migliorismi della scienza e della stessa economia, in altre parole, all’intrattenimento da qualsivoglia consolazione di progresso promesso e non mantenuto (soprattutto grazie a quelli che ci hanno creduto e poi però hanno letto noir per tutta la vita e osano lamentarsi o fare la voce querula della vittima fintamente, per l’appunto, inconsolabile); le prime, mere pubblicazioni, prendono solo quanto più possibile c’è da prendere, cioè da incassare, dal regime, dai suoi luoghi comuni e dai suoi sudditi, e se ne guardano bene dal cambiare una sola virgola al mondo così com’è, le seconde, che da mere pubblicazioni attingono nel tempo — e poi caso mai assurgono per sempre — alla dignità di opere, danno solo e, anche se sono più spiritose e divertenti, vivono di necessità per autocombustione sacrificale senza averne l’aria e senza attribuirsi alcun orfismo o sacralità d’accatto: in tutta semplicità anti-sacerdotale rivoluzionano o almeno aggiornano la condizione di beota stupidità di ogni regime e dell’umana fatalità che lo legittima e se ne sostenta (tra alti lamenti d’obbligo, va da sé). Un’opera omologata è un’opera estinta. La data di scadenza di ogni singola opera — e del suo autore — è conforme al suo grado di omologazione nel tempo: un’opera omologata è un’opera estinta; se non la si brucia, è perché non vale lo zolfo di un fiammifero, non certo perché il pregiudizio buonista vorrebbe che coi libri non si fanno falò: si aspetta direttamente l’inestinguibile benefattore piromane in tournée dopo aver fatto tappa alla biblioteca di Alessandria. Da qui il fatto che le opere preferite al momento di ogni momento sono quelle nate morte, punto. Nell’impossibilità di prevedere l’omologazione futura o futuribile di un’opera ora o prima immessa sul mercato, l’unico interrogativo possibile e passabile della critica, a prescindere dall’immediato successo di vendita e consenso «critico» dell’opera medesima, è: quanto è nata già morta? Quanto fa da compiaciuto specchio al morto non lettore che la fa propria, di fatto lasciandoci ancora un po’ della sua già scarsa vita a disposizione? Si potrebbe intanto stabilire subito chi è uno scrittore e chi, per quanto di moda, un becchino. Certo, occorrerebbe però un critico non di regime e non nel regime perché una domanda simile possa porsi e un simile filtro imporsi. Infatti, a parte me, che non sono nemmeno un critico, non l’ho mai sentita formulare da nessuno da che mondo è mondo.

ATTORI E REGISTI: UNA CASTA DI IDIOTI DI SINISTRA RACCOMANDATI.

«Date un luogo comune a un fanatico e ne farà un dogma». Così, sommessamente, Roberto Gervaso salmodiava per esorcizzare la malattia culturale del nostro tempo. Un virus che si è annidato per decenni in anfratti ben protetti, da dove ciclicamente esce per «evangelizzare» le nuove leve. Una malattia culturale che ha nella monopolizzazione della sinistra il suo sintomo più evidente. Quasi un gigantesco drago contro il quale faticano non poco gli sparuti san Giorgio indipendenti che tentano di difendere i principi della cultura liberale. Il paradosso è più raro e costoso di un diamante. Aveva ragione Longanesi a dire che il paradosso è il lusso delle persone di spirito, mentre la verità è il luogo comune dei mediocri. Le invettive, i paradossi, la libertà e l'indipendenza di un artista di razza non possono che scontrarsi con il muro di gomma tirato su da chi ha fatto della verità culturale prima un monopolio e poi un dogma. Si può parlare di tutto, beninteso. Però la chiave di lettura dominante su ogni argomento la dettano i giornali di sinistra, forti di una tradizione che ha origini lontane. E contro questo monopolio è giusto sempre scendere in guerra e combattere. Tra i luoghi comuni più odiosi c'è quello che da decenni identifica l'artista di valore come naturalmente schierato a sinistra. Una sciocchezza che è sempre stata venduta come oro colato. Mai come oggi, però, questa falsità mostra la sua pietosa debolezza dal momento che sono in molti a uscire allo scoperto. Insomma siamo all'outing collettivo di tanti artisti che finalmente possono mostrare tutto l'orgoglio del loro non essere allineati. Oggi è possibile rivendicare questa autonomia. Basta smascherare il vizietto del doppiopesismo e del miope allineamento ai dogmi.

Il cinema a sfondo politico è un genere cinematografico più italiano ed europeo che americano, che pone al centro del proprio interesse temi di attualità politica o storici, ma in questo caso con marcata spendibilità e risonanza nel dibattito politico contemporaneo. Quasi mai il Cinema politico (chiamato anche Cinema di impegno, politico o civile indifferentemente) è neutrale e nemmeno vuole esserlo, anzi esplicita con molta chiarezza la propria tesi, in alcuni casi si può parlare proprio di Cinema a tesi, la cui finalità è cioè quella di dimostrare una precisa posizione nel modo più chiaro e comprensibile possibile, con tanto di pericoli (sempre incombenti in questo caso) di didascalismo e semplificazione (vedi in proposito il Cinema del Realismo socialista e il Cinema di propaganda in generale). Strettamente collegato con il Cinema politico è il cosiddetto Cinema militante, in tutto simile al primo, se non fosse per il suo carattere prevalentemente documentarista, anziché di finzione, per una accentuata propensione propagandistica e soprattutto per il fatto che esso si muove al di fuori del circuito commerciale, indirizzandosi verso canali alternativi legati alle organizzazioni partitiche e politiche che hanno prodotto o commissionato il singolo film. Il Cinema militante ha conosciuto il suo periodo di maggior diffusione negli anni a cavallo del 1968, quando la Sinistra storica e quella extraparlamentare usarono con grande convinzione questo strumento, mai eccelso dal punto di vista qualitativo, ma a volte assai efficace nel comunicare idee e concetti spendibili nell'immediata urgenza politica. Il Cinema politico propriamente detto, invece, privilegia il film di finzione, spesso giovandosi di grandi budget e attori e registi di fama e senza mai dimenticare la dimensione spettacolare. Anch'esso ha conosciuto una stagione felice in coincidenza con gli anni sessanta e settanta, anche se i suoi antecedenti sono rinvenibili nel movimento del Neorealismo e del Realismo poetico francese. Politicamente orientato a sinistra (per trovare un Cinema politico esplicitamente e consapevolmente orientato a destra bisogna rifarsi ai film di propaganda fascista e nazista degli anni trenta o a certi prodotti statunitensi ferocemente anticomunisti del periodo maccartista degli anni cinquanta, per non parlare di tanto Cinema Bellico, soprattutto in coincidenza con le guerre mondiali), il Cinema politico ha offerto il meglio di sé quando ha saputo coniugare la critica sociale e la polemica politica con una salda e vigorosa struttura narrativa e il peggio quando è diventato manierata ripetizione di stereotipi e facile schematismo.

Il senso del Partito Democratico per il cinema, tratto da un articolo di Alberto Alfredo Tristano. Con l’ascesa di Matteo Orfini alla presidenza del Partito Democratico, si rafforza ulteriormente il senso del Pd per il cinema. E’ lunga la frequentazione e stretto il rapporto tra molti esponenti della prima formazione politica italiana e la settima arte. Non c’è solo un ex segretario ormai passato direttamente dietro la macchina da presa, qual è il caso di Veltroni col documentario su Berlinguer; c’è anche il neopresidente, archeologo di formazione e di famiglia cinematografara, col padre Mario regista e produttore delle – tra le altre cose – simpatiche incursioni sul grande schermo di Luciano De Crescenzo e Renzo Arbore; c’è Nicola Zingaretti, fratello di Luca “Montalbano”, il più amato personaggio della recente tv italiana; c’è Bettini, da poche settimane eurodeputato, che – forse per civetteria – fino a poco tempo fa usava presentarsi come direttore artistico di Moviemov, festival itinerante del cinema italiano per capitali dell’Oriente; c’è il ministro Madìa, moglie di Mario Gianani, che con Lorenzo Mieli, figlio di Paolo, e Saverio Costanzo, figlio di Maurizio, regge le sorti della Wild Side, arrembante casa di produzione cine-televisiva che spazia da Bernardo Bertolucci a “In Treatment”; e c’è anche Renzi, che alla Leopolda schierava Umberto Contarello, sceneggiatore tra l’altro con Sorrentino della “Grande bellezza”, e affidava il set della kermesse fiorentina al regista Fausto Brizzi. Certo è pur vero che dall’altra parte c’è Berlusconi, che col colosso Medusa grazie a Sorrentino s’è portato a casa l’Oscar, e che i film li ha pagati assai cari, visto che la condanna che sta scontando deriva proprio dai diritti tv delle pellicole acquistate da Mediaset. Ma in ogni caso: c’è una egemonia culturale del Pd sul nostro cinema? Probabilmente no, come forse non ce n’è mai stata una. Nemmeno col Pci. Partito che certamente sul campo fu molto attivo, anzi protagonista quanto ad organizzazione, e magnetico quanto a ideologia. Lunga è la lista dei registi militanti: Scola, Petri, Bertolucci, Pasolini (che in realtà ne fu espulso, ma rimase sempre legato a quell’idea sentimentale di partito come “Paese pulito in un Paese sporco”). Egemonia, si diceva, anche se è altrettanto lunga la lista di coloro che, se fecero dichiarazioni di appartenenza e molti le fecero, si pronunciarono non in senso comunista. Socialista era Monicelli, e socialisti i milanesi Lattuada e Comencini, come anche Rosi con discreta tradizione familiare nella massoneria (che lui però non volle seguire); di Fellini, forse il più grande di tutti, sempre allergico al dibattito eppure autore di film profondamente politici, si sanno la vicinanza a Nenni e poi La Malfa, e l’amicizia con Andreotti, che sboccò anche in un lungo carteggio privato; convinto saragattiano, più ancora che socialdemocratico, era Germi; Rossellini, certo, dopo la guerra (aveva debuttato, come molti, sotto il fascismo) fu vicino alla sinistra ma si appassionò assai più al francescanesimo che alle icone marxiste e al cinema portò la storia dell’anticomunista De Gasperi (si disse con finanziamenti dall’area fanfaniana). Certo va ricordato come il neorealismo fu difeso e crebbe sotto l’egida del Pci, si pensi solo a Visconti e alla difesa di De Sica e Zavattini sui “panni sporchi” che non piacevano al Divo Giulio: ma per completezza e senso della verità, va serenamente valutato – insieme con la creatività e il successo dei registi postbellici – anche il lavoro del giovane sottosegretario allo Spettacolo di De Gasperi per il rilancio del cinema italiano, grazie a una legge che richiamò ingentissimi investimenti sulle produzioni nazionali. Egemonia? Tornando all’oggi, se c’è un senso del Pd per il cinema, forse non vale il contrario. Si farebbe fatica a trovare una vera attenzione alla politica in generale da parte dei nostri autori. Se si escludono la passione di registi come Virzì o Moretti e pochi altri, disposti più schiettamente di altri a esporsi con giudizi e opinioni, e il rilancio del cinema politico col superbo “Divo” sorrentiniano (che è sembrato un caso unico e isolato, a dire il vero), c’è una sostanziale indifferenza di quel mondo verso il mondo della politica. E questo vale ancor di più per le leve più giovani, che appaiono sostanzialmente apolitiche. Il che è un po’ preoccupante. Anche perché la politica domina il dibattito nella comunità nazionale. Forse in un partito come il Pd, così grande e ambizioso e così anagraficamente ringiovanito nei suoi vertici, sarebbe opportuno che oltre il senso e l’attenzione e le personali frequentazioni e le individuali attitudini si sviluppasse un vero e più organico progetto di politica culturale. Foss’anche anche con una coltivata utopia di una bella, sana, civilissima egemonia…

“Dal fascismo al Pci il filo rosso di un’egemonia culturale”. Intervista a Pierluigi Battista di Cristiana Vivenzio.

Come si sono legati tra loro universo culturale, tendenze ideologiche e mondo politico negli ultimi quarant’anni?

«Ricostruendo un percorso reale che parte dall’inizio degli anni Sessanta, Pierluigi Battista, giornalista e saggista, editorialista della Stampa, nel suo ultimo libro “Il partito degli intellettuali” traccia i contorni del rapporto anomalo che in Italia ha legato gli intellettuali alla politica. Partendo dalla riflessione su temi noti ma ancor oggi di scottante interesse, questo libro riapre la strada ad una serie di problematiche in merito al ruolo svolto dagli uomini della cultura in Italia e soprattutto richiama ad una riflessione ampia e approfondita sul ruolo prossimo futuro dell’intellighenzia.»

Il monopolio culturale della sinistra: una delle tante anomalie della vita politica italiana?

«Non parlerei di monopolio culturale quanto piuttosto di egemonia. Il termine monopolio prefigura una sorta di irregimentazione. Del resto, il problema di un’egemonia culturale in Italia non è di natura quantitativa, non dipende cioè dal fatto che la maggior parte degli scrittori, degli intellettuali, degli uomini di teatro, dei registi mostrano un certo tipo di appartenenza politica. Il merito della sinistra italiana, e del Pci in particolare, è stato quello di dare il senso di una missione agli intellettuali italiani e al loro ruolo all’interno della società: infondendo l’idea che la cultura fosse un elemento essenziale della battaglia politica, che facesse parte integrante dello scontro per le civiltà. La cultura continuava ad essere vissuta e percepita come prosecuzione e prolungamento della lotta politica e la percezione generale era quella per cui fare un film, scrivere un libro, più in generale produrre cultura conferisse un ruolo meritorio. Poiché alimentava l’assoluta convinzione di possedere il monopolio di ciò che è giusto.»

Questo tipo di concezione egemonica della cultura può rintracciarsi anche in altre realtà europee?

«Non direi che questa sia un’anomalia esclusivamente italiana. La Francia ha presentato un modello analogo. Ma non è un caso che Italia e Francia abbiano avuto i partiti comunisti più forti d’Europa.»

Quindi la presenza di un forte partito comunista, in Italia come in Francia, è stato elemento determinante nel produrre questo tipo di rapporto tra cultura e politica.

«La forza dell’egemonia intellettuale di sinistra in Italia non è monocausale. Può essere rintracciata, naturalmente, in più di un fattore. In primo luogo questo ruolo dell’intellettuale militante e interventista è proprio di una certa mitologia già propria della cultura italiana a partire dagli inizi del Novecento: pensiamo a intellettuali come Papini, Prezzolini, Salvemini. Ma l’elemento determinante nella costruzione di un rapporto imprescindibile tra mondo culturale e mondo politico è stato istituito nel periodo fascista. Si è sempre fatto emergere il lato repressivo del fascismo nei confronti della cultura. Eppure la cultura è stata l’unico ambito, seppure attraverso manifestazioni allusive o dissimulate, in cui si poteva, anche in tempo di regime, dar vita ed espressione alle rivalità ideologiche. Nel passaggio dal fascismo alla democrazia, ad emergere sono stati gli elementi di affinità, che hanno costituito la linea di continuità tra l’appartenenza pre (la fascista) e quella post (rappresentata dal comunismo). Finita la guerra e liquidato il fascismo gli intellettuali italiani scelsero, liberamente e con entusiasmo, di trasmigrare a schiere compatte nei luoghi ove era possibile proseguire senza frustrazioni l’opera di fiancheggiamento politico rodata e perfezionata nel passato regime.»

Ma esistevano reali alternative a quella visione monotematica della cultura? E soprattutto le altre forze politiche italiane erano in grado di esprimere modelli alternativi?

«La sinistra ha schiantato tutte le appartenenze ideologiche alternative: sia quella liberal-conservatrice sia quella cattolica. L’ideologia comunista, o filo-comunista, come quella azionista, si è fatta promotrice del monopolio dell’etica. Questo ha prodotto un intollerantismo ideologico che ha portato all’automatica scomunica nei confronti di tutti coloro che manifestavano una qualsiasi forma di dissenso. Certamente la controparte ha dimostrato un’assoluta incapacità propositiva. I cattolici troppo attenti probabilmente ad un diverso modo di concepire la politica, legata al concreto esercizio del potere. I liberali per una tendenza snobistica ed elitaria nel concepire la cultura. Fatto sta che la storia è una storia di attacchi violentissimi. Da Sciascia a Fellini, da Montale a De Felice: tutti questi grandi intellettuali hanno assaggiato il bastone della scomunica.»

Il Cinema italiano e la sinistra, scrive Gaither Stewart su “Onlinejournal.com”. La storia di Roberto Rossellini è una storia molto italiana, che riguarda l’Italia nel cambiamento dal periodo fascista, che va oltre la sua esistenza, fino al 2009. Sebbene l’Europa non sia Europa senza l’Italia, la storia di Rossellini, nel più stretto senso, è una storia molto italiana; non una storia europea. Perchè l’Italia, separata dal resto dell’Europa dalle Alpi, è, e forse lo è sempre stata, qualcosa a parte, ancora oggi considerata dai nord europei un posto esotico verso cui fuggire. Come è comunemente detto, l’Italia è un posto meraviglioso da visitare, ma un inferno per viverci. La storia di Roberto Rossellini ha a che fare con questo paradosso. Leggi Roberto Rossellini e pensa all’Italia degli ultimi 75 anni. Il regista italiano Roberto Rossellini, conosciuto al 95% come neo-realista, ebbe molto successo nella sua carriera di regista. Tuttavia – e qui abbiamo due pezzi d’informazione che potrebbero essere notizia per gli appassionati del cinema – dopo essere cresciuto in una famiglia borghese nei pressi della Via Veneto della Dolce Vita a Roma e aver armeggiato con un cinema insignificante durante il periodo fascista, divenne poi un regista del cinema italiano della Sinistra. Più tardi nella sua vita, Rossellini ebbe una visione, una visione lontana anni luce dalla registica europea: negli anni ’70, molto più avanti del suo tempo, si innamorò dell’Oriente e sognava un ricongiungimento tra Occidente e Islam. Come gli scrittori, anche i registi creano nel loro lavoro una certa aura di se stessi, mentre, allo stesso tempo, proiettano un messaggio, un tema, nel migliore dei casi, qualcosa di universale. Il regista geniale è in qualche misura anche un visionario. Tuttavia, per diventare un visionario deve prima essere in grado di vedere la vita così com'è, toccarla, sentirne l'odore, assaporarla, soffrire per essa, e si spera infine, amarla. Questo è ciò che i registi italiani fecero nell’ Italia del dopoguerra, durante quel breve periodo di forse cinque anni quando crearono il loro cinema neo-realista che ha cambiato il mondo del cinema. Il regista geniale, quello eccezionale, si basa quindi sul fondamento della sua esperienza di vita, e, se è fortunato, potrebbe vivere momenti di trascendenza nella sua arte e produrre un capolavoro. In questi miei giorni "rosselliniani", mentre mi addentravo in quel passato, ho intervistato persone che avevano finito la scuola ed erano entrate nella vita negli “anni del neo-realismo” dopo la Seconda Guerra Mondiale. Tutti concordano che la vita era più reale allora; nella sua semplicità era piena di speranze e promesse; tutto era possibile. Paradossalmente, l'atmosfera dei turbolenti anni ‘70, dopo la rivolta del 1968 e la successiva esplosione del terrorismo interno, ha creato anche una pittoresca, folkloristica immagine dell'Italia, che sopravvive solo all'estero, non in Italia. Quelli non erano "i bei vecchi tempi" per gli italiani. L'Italia che rimane nella mente di molti non-italiani è morta decine di anni fa. La globalizzazione e il selvaggio capitalismo mondiale hanno spento i sentimenti di solidarietà che contagiavano gli anni ‘60 e '70. Se lo stato d'animo in Italia allora sapeva anche di ribellione e di anarchia, oggi ognuno pensa a se'. Nella misura in cui esiste ancora, l’ Italia cinematografica di oggi riflette uno stile di vita segnato da brutta televisione commerciale, pubblicità, e quota audience. Mai l'espressione italiana "stavamo meglio quando stavamo peggio" (la vita era meglio quando le cose erano peggiori) è stata più valida. Una volta in Italia c'era un cinema della Sinistra. Un cinema sulla sinistra. Era un diretto e chiaro appello a votare per i partiti della sinistra, guidati allora dal Partito Comunista Italiano, il PCI. Quel cinema di sinistra emerse in uno specifico ambiente italiano del post-fascismo, su cui è necessaria qualche valutazione per capire su cosa era improntato il suo cinema. Da un lato, il Maccartismo che soffocò Hollywood ebbe poco effetto sul cinema italiano. Ma lo sconvolgimento della gioventù degli anni ‘60, che esplose nel 1968, è stato vivido; la resistenza era nell'aria. Prima la rivolta, poi il terrorismo esplose contro lo stagnante sistema politico italiano in gran parte finanziato e controllato dagli Stati Uniti. A quei tempi, il giornale comunista di Roma, Paese Sera, stampava fino a sei edizioni al giorno, con rivelazioni e scoop, uno dei quali nel 1980 fu lo scandalo Iran-Contras. Il cinema di sinistra sosteneva le varie battaglie sociali e politiche dei partiti della Sinistra. Ogni notte, sale cinematografiche – di prima visione e molte sale meno costose di seconda e terza visione nella periferia – erano piene fino al soffitto, alcune con sistemi audio così cattivi che erano difficilmente comprensibili. I cinema di Roma erano rumorosi, o troppo caldi o troppo freddi, una nube densa di fumo azzurro che saliva verso il soffitto, per lo più giovani, e tutti della sinistra politica. Se arrivavi tardi, eri destinato alle prime file. A nessuno importava. Accendevi e ti univi alla folla. Tutti fumavano, specialmente al cinema. Specialmente al cinema della Sinistra. E tutti parlavano dei registi, i quali quasi tutti erano della Sinistra. Essi rispecchiavano la metà d'Italia che era Sinistra. La storia d'amore del "cinema di Sinistra" era reciproca e sembrava eterna. Era basata su convinzioni e impegno. Quando i partiti della Sinistra chiamavano, il cinema era presente. Allo stesso modo, dalla fine della guerra fino al '70 i partiti di sinistra appoggiavano il cinema. Era un rapporto d'amore. Il cinema italiano degli anni '60 e '70 aveva un colore. Era rosso: il cinema di Rossellini, Visconti, Pasolini, Rosi, Pontecorvo, Montaldo, Antonioni, Comencini, Monicelli, Damiani, Pirro, Scola, Scarpelli, Bertolucci. I loro film separavano la Sinistra dalla Destra. Dopo l'euforia, però, il cinema e la Sinistra si separarono. La vicenda passionale durò fino alla fine degli anni '70, momento in cui i partiti politici erano diventati centri di potere e superato il loro bisogno di avere per alleato il cinema. Allo stesso tempo la televisione di Stato era esplosa sulla scena, diventando uno dei più potenti strumenti di propaganda che il cinema avesse mai potuto immaginare. La decennale storia d'amore della Sinistra e del cinema perse il suo ardore, le parti si allontanarono, nella separazione, se non nel divorzio, lasciando l'industria cinematografica italiana letteralmente a secco. Così finì il grande cinema italiano che aveva conquistato il mondo. I registi italiani hanno parlato apertamente della causa del divorzio. Francesco Rosi: i partiti politici divennero centri di potere. Giuliano Montaldo: il timore che il nostro cinema denuncia sarebbe stato utilizzato per giustificare il terrorismo. Furio Scarpelli: la nostra incapacità di fare satira sulla Sinistra come facciamo con la Destra. Tuttavia, altri come Bernardo Bertolucci e Gillo Pontecorvo conservavano la fede in un potenziale di rinnovamento del cinema italiano. Purtroppo, non è mai successo. La commercializzazione grossolana della vita italiana, l’economicità, la volgarità e l'imitazione dell’America schiacciarono la maggior parte delle iniziative. Anche se oggi, di tanto in tanto, un buon film d'arte in qualche modo emerge dalle paludi, il cinema italiano ha toccato il fondo. Lo scrittore e instancabile critico cinematografico Alberto Moravia scrisse nell'introduzione alla sua collezione di 144 recensioni di film dal titolo Alberto Moravia Al Cinema che il regista o l'autore cinematografico è l'unico elemento che conta davvero in film di qualità, ossia, in film d'autore. Gli attori recitano solo, in meglio o in peggio. Buoni film, ha sottolineato, non sono da considerarsi “in base a chi o cosa interpretano, ma da chi." Il regista esprime se stesso, affrontando sempre nuovi problemi, sempre in cambiamento. Gli attori e la fotografia hanno il loro ruolo, ma la regia è l'aspetto centrale. "Il cinema è anche un prodotto estetico e come tale dovrebbe essere apprezzato anche per le sue immagini, ma un criterio del genere sarebbe troppo limitato". Il concetto di film d'autore era diametralmente opposto al sistema hollywoodiano degli Studio, in cui le compagnie cinematografiche come Paramount, MGM, Warner Brothers, e la Twentieth Century Fox controllavano tutti gli aspetti della produzione cinematografica. Grandi aziende controllavano i tipi di film che venivano fatti, così come i registi e gli attori. Lo star sistem era nato. Fare cinema divenne grande business. Questa era l'altra faccia della luna del cinema della Sinistra italiana del periodo neo-realista del cinema artistico impegnato. Un buon esempio di cinema impegnato è stato Francesco Rosi. Proveniente da una famiglia benestante della classe media di Napoli, Rosi è entrato nel cinema dopo la guerra come assistente di Luchino Visconti prima di fare il suo cinema socialmente molto impegnato, evidenziato da film come Le Mani Sulla Città, 1963, sulla dilagante speculazione edilizia che devastava le città d'Italia durante il cosiddetto "miracolo economico". Il film inizia con il crollo catastrofico di un grattacielo e molti morti, le cui inchieste vengono bloccate da macchinazioni politiche. Il film di Rosi denuncia il crimine. Nella nuova era della televisione e dei film spazzatura e di attrici nate in una notte, il figlio di Roberto Rossellini, Renzo Rossellini Jr. ha detto, a riguardo della fine della storia del cinema della Sinistra in un colloquio con me negli uffici Gaumont Italia di Roma nei primi anni 1980: “Niente succede come il successo”. Sapeva di cosa stava parlando perchè, col cambiamento dei tempi, lui e la Gaumont Productions fecero i loro compromessi, in cambio di un posto privilegiato nel cinema europeo. Il Neo-realismo nel cinema emerse dalla falsa coscienza, la sciocca decenza e l'insistenza sulla forma, sulla finzione e sul trionfo così prevalenti sotto il Fascismo. Emerse dall’esperienza della guerra, dalla paura patologica di un'altra guerra, e dalla situazione di stallo ideologico tra Est e Ovest. Per quanto riguarda l'influenza della Guerra Fredda, Eric Rhode nella sua La Storia del Cinema-Dalle Origini al 1970, scrive: "La sua (la guerra fredda) influenza immediata fu che il pubblico cercava qualità di calore, sebbene simulate. La critica elogiava i film italiani neo-realisti per la loro umanità spontanea e teneva in poco conto la loro dolcezza spesso artificiosa ". La scarsità di film americani durante la Seconda Guerra Mondiale permise al cinema tedesco di monopolizzare il mercato europeo e al cinema italiano di crescere rapidamente. Quando una valanga di film americani arrivò dopo la guerra, era evidente che Hollywood non aveva progredito di una virgola. Il cinema europeo, invece, era ricco di idee. Voleva essere ascoltato nel mondo. Anche se l'industria cinematografica tedesca fu distrutta, la Francia e soprattutto l’ Italia erano pronte. I nomi di Rossellini e De Sica si diffusero in tutto il mondo. Allora il Neo-realismo esplose sulla scena. Non più i film degli Studio di Hollywood, ma i film d'autore di decine di registi che avrebbero cambiato il mondo del cinema per sempre. Voglio fare marcia indietro per un momento per chiarire il coinvolgimento degli artisti italiani in generale con il Fascismo, tra i quali Rossellini era una figura in erba. Conformità compiacente e opportunismo, credo, sia la peggiore critica che si possa attribuire al Rossellini di quel periodo; aveva già 36 anni quando il Fascismo italiano crollò. Conformità e l'opportunismo vanno di pari passo. Sotto il Fascismo, lo stile era molto importante. L'osservazione e il pensiero critico non erano visti di buon occhio. Se non si accettavano i valori fascisti della famiglia e del patriottismo, ci si doveva adattare o scappare all'estero, come Moravia e altri intellettuali fecero. Come regola, i sistemi autoritari contano su artisti compromessi per produrre false immagini. L'artista che pratica il compromesso segue i vincitori. Inevitabilmente l'artista compromesso si colloca nel mezzo; evita di dire ciò che pensa per paura del suo posto nella società. Gli intellettuali italiani, fin dai tempi dell'unificazione italiana nella metà del 19° secolo, erano in gran parte obbedienti o silenziosi, come lo erano stati durante il Fascismo. L'annoiata indifferenza del popolo italiano nel suo insieme - non solo quella dei suoi intellettuali e artisti - facilitò la nascita e la ventennale sopravvivenza del Fascismo, la stessa indifferenza politica che contraddistingue la società italiana e americana di oggi di fronte a forme moderne dell'estremismo reazionario. Non c'è da meravigliarsi se, dopo la guerra, la generazione liberale d’Europa, specialmente i suoi creativi artisti, gravitò verso il Comunismo. Nonostante il Ventennio, i venti anni di Fascismo, il Socialismo era ancora una parte potente della psiche italiana, come lo era stato dalla fine del 19° secolo. Comunisti e socialisti guidarono la lotta partigiana anti- fascista e dopo la guerra, la nuova Repubblica Italiana venne fondata sul lavoro e sull’anti-fascismo. In seguito a confessione tardiva dello scrittore Premio Nobel Günther Grass diversi anni fa, il quale era entrato nella Waffen SS nazista a diciassette anni, alla fine del 1944, i critici italiani cominciarono a cercare di individuare le date precise, nella metà del secolo scorso, in cui gli intellettuali italiani erano passati dal fascismo al comunismo. Molti artisti avevano già confessato che una volta erano fascisti, ma datavano la loro uscita dal regime all’inizio del 1938, principalmente per prendere le distanze dalle brutali leggi razziali italiane. La verità è che alcuni di loro avevano continuato a collaborare con il regime fascista fino alla fine. In ogni caso, nella fase post-bellica della Seconda Guerra Mondiale, una maggioranza di scrittori europei e registi erano di sinistra. In Italia, la maggior parte aderì al Partito Comunista Italiano. Il loro cambiamento di colore politico era una questione molto soggettiva e non voglio invischiarmi qui in accuse di chi è colpevole di che cosa. La Hollywood dell'era McCarthy e il sorprendente numero di voltagabbana suggeriscono cosa sarebbe accaduto agli intellettuali americani - ciò che è già accaduto a molti – di fronte ad un fascismo americano. Le nuove leggi già in vigore forniscono una vaga idea di quello che essi avrebbero affrontato. Dietro la devastazione dell’Europa e la distruzione fisica e morale dell'Italia che derivavano da una combinazione di Fascismo e sconfitta militare, il neo-realismo arrivò come un mondo visto attraverso gli occhi dei bambini, gli occhi di un ladro di biciclette o gli occhi di un operaio indigente. "Anche se il Fascismo di Mussolini era stato apparentemente distrutto”, Rhode continua, "la sua influenza persisteva ovunque nell’Italia del dopoguerra. I migliori film neo-realisti tendevano ad includere molte delle confusioni e delle esitazioni di questa neonata società: le sue superstizioni, sia pagane che cristiane, le sue aspirazioni vagamente marxiste e la sua fame di dipendenza (in parte mitigata dal ruolo post-bellico degli Stati Uniti in Italia). L'entusiasmo suscitato da questi film in tutto il mondo rivela in che misura essi incarnavano un’ ideologia che andava oltre di interessi nazionali italiani ". Ma, vorrei aggiungere, che essi offrivano anche una risposta ambivalente e insoddisfacente all’ autorità, come fece Fellini più tardi.

Papa Francesco un pontefice comunista, pauperista, populista? «Io dico solo che i comunisti ci hanno derubato la bandiera. La bandiera dei poveri è cristiana. La povertà è al centro del Vangelo». Lo ha detto il pontefice in un’intervista al Messaggero il 29 giugno 2014. «I poveri - dice Papa Francesco - sono al centro del Vangelo. Prendiamo Matteo 25, il protocollo sul quale noi saremo giudicati: ho avuto fame, ho avuto sete, sono stato in carcere, ero malato, ignudo. Oppure guardiamo le Beatitudini, altra bandiera. I comunisti dicono che tutto questo è comunista. Sì, come no, venti secoli dopo. Allora quando parlando si potrebbe dire loro: ma voi siete cristiani».  Il pontefice ha poi parlato della corruzione e ha spiegato che il corrotto non ha amici, ma solo complici. «Difficile rimanere onesti in politica, vieni fagocitato da un fenomeno quasi endemico» ha commentato. «E’ l’ambiente che facilita la corruzione -ha aggiunto -. Non dico che tutti siano corrotti, ma penso sia difficile rimanere onesti in politica. Parlo dappertutto, non dell’Italia. Penso anche ad altri casi. A volte ci sono persone che vorrebbero fare le cose chiare, ma poi si trovano in difficoltà ed è come se venissero fagocitate da un fenomeno endemico, a più livelli, trasversale. Non perché sia la natura della politica, ma perché in un cambio d’epoca le spinte verso una certa deriva morale sono più forti».

C’eravamo tanto amati. Perché tra sinistra e popolo sembra tutto finito. Non si riconoscono più, è rimasta solo una reciproca antipatia, scrive Ritanna Armeni (di sinistra) su “Il Foglio” di Giuliano Ferrara (di centro- destra). Diciamo una verità scomoda: il popolo non ama la sinistra. Anzi, gli sta abbastanza antipatica. Del resto neppure la sinistra ama così tanto il popolo e i poveri. Sia chiaro: per poveri non si intendono i mendicanti, i disperati e col termine di popolo non ci si riferisce agli operai o ai lavoratori sindacalizzati. Quando parliamo di popolo pensiamo a quella famiglia che all’Autogrill si ingozza di panini, parla con un tono di voce insopportabile e non risparmia qualche scappellotto ai bambini. A quei giovinastri che tengono l’autoradio a tutto volume e se ne sbattono del fracasso che provocano. Alle donne con la busta della spesa che sgomitano e smoccolano in autobus. A tutti quelli che vanno al cinema solo a Natale, forse neppure, e non sanno fare alcuna distinzione fra il gusto dell’aspirina e quello del tartufo. Ai tanti che bevono il vino meno costoso del supermercato e non lo trovano così diverso dal Barolo più raffinato. Che leggono meno di un libro all’anno – o che non leggono affatto – e si fanno prestare il giornale dal vicino solo per sfogliare le pagine sportive. “Popolo” sono le donne che tengono la televisione accesa tutto il giorno, le ragazze che aspirano al top leopardato, i ragazzi che passano la notte con il telefonino acceso e due birre, la casalinga che strilla al mercato perché l’hanno fregata sul peso della verdura. Lo incontriamo questo popolo e ci pare cafone, maleducato, aggressivo, malvestito. Sgomita e strilla, rubacchia allo stato quando può, non rispetta le file, si arrangia in tutti i modi, anche non sempre legittimi, e tira avanti. I poveri poi – si sa – spesso non sono buoni e qualche volta appaiono anche poco intelligenti. Per questo la sinistra non li sopporta e cerca di dimenticarli. O meglio, li dimentica fino alle elezioni quando si accorge che “il popolo” non vota più per lei. Che si è rotto qualcosa, e questo ha ripercussioni anche sui consensi. La straordinaria affermazione nei sondaggi di Marine Le Pen, leader del Front national, a spese dei socialisti francesi e nei luoghi dove erano più forti, ha fatto gridare all’allarme, com’era prevedibile. Ma è solo l’ultimo caso dei tanti che si sono susseguiti in questi anni di spostamento, quasi repentino, dei voti. In Italia la sinistra ha cominciato ad accusare il colpo negli anni Novanta, quando scoprì all’improvviso che gli operai del nord, addirittura anche quelli iscritti alla Fiom, il sindacato dei metalmeccanici della Cgil, votavano Lega. C’era da riflettere e molto, ma non mi pare che in questi venti anni sia stato fatto. E infatti, alle ultime elezioni politiche, nuovo sbigottimento. Si predicava il cambiamento ma il primo partito del voto operaio non è stato il Pd, bensì il Movimento cinque stelle, seguito dal Pdl (primo fra le casalinghe: anche loro popolo, eccome) mentre al Pd è andato solo il terzo posto. I voti fuggiti via sono però solo la conseguenza, una delle conseguenze, di questa reciproca antipatia, ciò che la rende evidente. E’ difficile pensare di essere rappresentato da chi ti sta antipatico e che – lo senti – nutre per te un malcelato disprezzo. I motivi, quelli veri e profondi, sono altri. In un famoso libro del 2004, più volte aggiornato e tradotto in francese con il titolo “Perché i poveri votano a destra” (in originale “What’s the Matter with Kansas?”), ne ha parlato l’americano Thomas Frank, analista e collaboratore del Monde Diplomatique e di Harper’s Magazine. La sua idea è che negli ultimi decenni il populismo di sinistra rooseveltiano, egualitario, capace di conquistare gli animi, si è trasformato in un populismo di destra fondato sulla paura di tanti di perdere anche quei pochi vantaggi che avevano conquistato e che appaiono insidiati da altri più poveri di loro. Frank fa un’analisi del fenomeno negli Stati Uniti dove la distinzione e l’antipatia fra liberal e popolo sembra netta e la spaccatura è chiara come il sole. L’America da un pezzo è divisa in due, c’è addirittura chi parla di due Americhe: da una parte quella “normale” detta anche “profonda”, che ama la famiglia, crede nei valori della tradizione, omaggia la bandiera a stelle e strisce, dipende dalla tv e dallo junk food; dall’altra ci sono i progressisti, gli intellettuali che abitano sulla costa e che con i primi non hanno nulla a che fare perché trovano che hanno gusti volgari, non leggono, non vanno al cinema e non conoscono buoni ristoranti. Le due parti si riconoscono anche da lontano e si evitano. Thomas Frank ha scritto il suo libro dopo aver scoperto che nella contea più povera degli Stati Uniti Bush aveva ricevuto l’ottanta per cento dei voti. “Come si fa a votare per un repubblicano quando almeno una volta nella vita si è lavorato per un padrone?”, gli ha chiesto un amico, ovviamente di sinistra. E lo scrittore, come molti politici, sociologi, osservatori della sinistra europea ha spiegato il fenomeno a partire dalla “struttura”: la scomparsa delle grandi fabbriche, la crisi verticale dei sindacati, la fine delle sicurezze che derivavano dal lavoro. A tutto questo vanno affiancate le nuove proposte di sicurezza che la destra ha riproposto con nuovo vigore: quelle fondate sulla tradizione, sulla difesa di valori ampiamente riconosciuti e sulla lotta contro coloro che vogliono mettere in crisi l’identità che su questi valori si fonda, che sostengono, per esempio, l’aborto o il matrimonio gay. Le analisi sulle modifiche della struttura e le conseguenti modifiche sociali sono sicuramente importanti, e si potrebbero aggiungere le considerazioni su quello che ha rappresentato contemporaneamente la fine del comunismo e della identità fra partiti comunisti e popolo. Ma rispondono solo in parte alla domanda di fondo sul perché la sinistra è antipatica ai poveri e perché i poveri la guardano con sospetto e disprezzo. Si può anche perdere la propria base sociale tradizionale per molti importanti motivi, economici e legati agli inevitabili cambiamenti della modernità, e si possono perfino perdere voti ed essere una minoranza. Ma si può rimanere interessanti, stimabili, stimolanti, attraenti. E invece questo non è accaduto. Con una differenza fra i due atteggiamenti antipatizzanti, quello del popolo verso la sinistra e quello reciproco. Mentre nei poveri l’antipatia provoca distacco e disprezzo, i progressisti per difendere la loro identità e la loro stessa ragione sociale, pretendono di aiutarli e di rappresentarli, di fornire loro le basi di una emancipazione sociale. Devono, quindi, almeno fingere di amarli. E infatti ci provano, ma non ci riescono. E non solo in un’America che, si sa, ama dividere con qualche semplificazione e giudicare rozzamente, ma anche nella più raffinata Europa e persino in quei paesi culturalmente lontani dall’una e dagli altri. Possiamo dire, insomma, che la sinistra con le sue élite intellettuali e i suoi gruppi dirigenti in questi anni è riuscita ad apparire veramente antipatica. Ci è riuscita perché l’immagine che ha costruito di sé, quella con la quale viene identificata, è ritenuta imbrogliona, bugiarda, ipocrita. Forse l’immagine non corrisponde del tutto alla realtà, ma su quella realtà vince. I progressisti – così si pensa – parlano dei poveri ma vivono da ricchi. Propongono di abolire il privilegio, ma sono privilegiati. Vogliono essere vicini al popolo, ma non lo conoscono. Nella società occupano la parte “alta”, che guarda al “basso” ma non vi entra in contatto. In gran parte, insomma, offrono di sé un’immagine radical chic. Questo termine e questa accusa riassumono bene i motivi dell’antipatia per la sinistra. Per radical chic – dice la Treccani – si intende “ironicamente” il “borghese che, per moda o convenienza, professa tendenze politiche radicali di sinistra, con atteggiamento fortemente snobistico e contrario al proprio ceto di appartenenza”. Definizione giusta, ma non esaustiva, perché su questa figura si possono dire molte altre cose. Il radical chic finge di disprezzare il denaro e il modo in cui la maggior parte della gente se lo procaccia, ma lo guadagna nello stesso modo. E’ convinto della propria superiorità culturale e morale, è noiosamente ricercato nei gusti e volutamente provocatorio nelle affermazioni, ha atteggiamenti fintamente modesti. Un tipo così non può essere simpatico. Ne parlava lo scrittore Tom Wolfe nel famoso articolo, poi divenuto libro, apparso nel giugno del 1970 sul New York Magazine. Si intitolava appunto “Radical chic” e parlava della moda dilagante fra gli intellettuali newyorchesi, ricchi, ricchissimi e importanti, di ospitare nei loro salotti i rivoluzionari dell’epoca, dalle Pantere Nere ai pacifisti, agli hippie di tutti i generi, per mostrare in questo modo il proprio anticonformismo e la propria non adesione al sistema. Wolfe descrive con eccezionale vivacità e veridicità i salotti, le cene, gli inviti all’insegna di “Invita-una-Pantera-Nera-al-Cocktail”. Lo scandalo fu grande: mai prima di allora il progressismo dei ricchi e dei famosi era stato preso in giro con tanta ferocia. Dal libro di Wolfe sono passati oltre quarant’anni e il fenomeno, in parte modificato, si è esteso. Non ci sono più i rivoluzionari da invitare a cena nelle grandi case della Milano bene e neppure chi, come Giangiacomo Feltrinelli, prese tutto così sul serio da morire su un traliccio dell’alta tensione. Oggi altri sono i tratti distintivi del radicalismo chic, altri i contenuti che convivono con l’agio sociale e l’osmosi con il potere. Ma suscitano la stessa antipatia e si identificano, ahimè sempre di più, con la sinistra. I radical chic sono diventati antipatici a livello planetario. Non sono certo amati in Francia, dove sono la cosiddetta “gauche caviar”, né in Germania dove, con disprezzo teutonico vengono definiti “Toskanafraktion” (pare che i progressisti di quelle parti amino la Toscana). L’Irlanda benevolmente li addita come “smoked salmon socialist”, mentre in Svezia sono la “rödvinsvänster”, sinistra del vino rosso, in quel paese raro e raffinato. L’elenco potrebbe continuare, ma quel che stupisce è l’esistenza di una definizione per questa sinistra anche in Brasile che ha la sua “esquerda festiva”, o in Cile dove i nostri radical chic li additano come “red set”, e addirittura in Grecia. La quale, fra tutti i guai di cui soffre, può annoverare la sua canonica “aristerà tu saloniù”, sinistra da salotto. Per amore di giustizia dobbiamo dire a questo punto che la sinistra non è formata solo da radical chic. E che la destra, accusando la sinistra, tutta la sinistra, di radicalismo chic, dà spesso dimostrazione di volgarità e strumentalismo. Per averne un esempio, basta ricordare il precursore di questo atteggiamento che oggi è stato ereditato da parte consistente del centrodestra. Negli anni Settanta, Indro Montanelli scriveva a Camilla Cederna, che allora indagava sulla strage di piazza Fontana, parole a dir poco volgari, cavalcando l’accusa che poi gran parte della destra avrebbe rivolto alla sinistra: “Ti sei innamorata – le scrisse – dei bombaroli, e questo, conoscendo i tuoi rigorosi e severi costumi, posso accettarlo solo se alla parola ‘amore’ si dia il suo significato cristiano di fratellanza… Fino a ieri testimone furtiva o relatrice discreta di trame e tresche salottiere, arbitra di mode, maestra di sfumature, fustigatrice di vizi armata di cipria e piumino, ora si direbbe che tu abbia sempre parlato il gergo dei comizi e non sappia più respirare che l’aria del Circo. Ti capisco. Deve essere inebriante, per una che lo fu della mondanità, ritrovarsi regina della dinamite e sentirsi investita del suo alto patronato. Che dopo aver tanto frequentato il mondo delle contesse, tu abbia optato per quello degli anarchici, o meglio abbia cercato di miscelarli, facendo anche del povero Pinelli un personaggio della café society, non mi stupisce: gli anarchici perlomeno odorano d’uomo anche se forse un po’ troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci. Una droga”. Ma torniamo all’oggi. Non è dell’antipatia della destra nei confronti della sinistra di cui ci vogliamo occupare, né della immagine che da Montanelli a Brunetta (che, ben conoscendo il popolo, pensa di sputtanare in diretta i giornalisti televisivi che sono di sinistra con l’accusa di guadagnare troppo) si tende a dare di questa. Ognuno nella battaglia politica usa gli strumenti, anche intellettuali, che possiede. Quello di cui la sinistra dovrebbe preoccuparsi è che questa immagine è diffusamente penetrata nel popolo. E la penalizza non poco. Sono proprio tutti antipatici? Pare di sì, ma in modo diverso. La “gauche caviar” francese, per esempio, ha una sua antipatia che deriva da una laïcité irrispettosa sia del velo che della croce. Oggi possiamo dire che gli italiani aggiungono due caratteristiche specifiche: sono piagnoni e manettari. Fra i nostri radical chic lamentarsi va di moda, anzi è l’ultima moda. Non che motivi di lagnanza in questo disastrato paese non ce ne siano, ma questi antipatici – proprio loro – non hanno quasi nessun motivo di compiangersi. In gran parte occupano posti di lavoro di prestigio, hanno redditi medio alti, sono egemoni nei luoghi della cultura, continuano a permettersi quelli che oggi sono i veri privilegi, perfino maggiori del denaro: una vita che può non essere contaminata dalla volgarità, dalla grossolanità, dallo stress a cui è sottoposta la gente cosiddetta normale, cioè il popolo e i poveri. I ristoranti dove il cibo è ricercato, il cinema, le buone letture, le conoscenze interessanti, le scuole d’élite per i figli, le vacanze, la grande forza che deriva dalla consapevolezza di vivere al centro e non alla periferia del mondo. Ma si sa, oggi i poveri stanno male. La crisi li ha colpiti duramente. E se nell’America degli anni Settanta, per essere di sinistra, si doveva invitare a cena un rappresentante dei Black Panter, oggi per dimostrare solidarietà e unità con il popolo ci si lamenta con lui e più di lui. Si aggiungono lagnanze del tutto ingiustificate a quelle di chi se la passa male davvero. In questo modo gli “champagne socialist” (questo è il nome inglese) si mettono a posto la coscienza: nella crisi tutti soffriamo insieme. Ma non è così. E il popolo non la beve. Se sentissero i commenti ai loro piagnistei ne uscirebbero tramortiti. Se osservassero bene gli sguardi di coloro a cui vorrebbero mostrare solidarietà, tacerebbero immediatamente e cambierebbero strada. Lamentarsi perché è aumentata l’Imu sulle seconde e sulle terze case, o sono saliti i prezzi dei ristoranti, di fronte a chi non si permette neppure una pizza suona irrispettoso, oltre che, naturalmente, ipocrita e antipatico. E poi il “radikal elegance” (definizione norvegese) nostrano è tendenzialmente “manettaro”, tende a pensare che tutti i problemi si possano risolvere con un po’ più di severità e di carcere. Pensa che la moralità possa essere ristabilita con atti forti di distinzione, alzando alte le bandiere del giusto, del legittimo, impugnando la lotta per le regole con veemenza attraverso la continua affermazione delle manette. Il carcere per i nostri radical chic è una panacea che può curare tutti i mali, compresi quelli che derivano da culture radicate e purtroppo assai dure da estirpare. Anche questo è un tentativo goffo e disperato di riconquistare un rapporto col popolo. Si pensa che questa sia la via più facile: i poveri, si sa, sono rozzi e anche esasperati, quindi non possono non seguire chi propone punizioni esemplari, chi addita colpevoli sicuri, chi si mostra deciso nella condanna della pubblica immoralità. Naturalmente anche questa è un’illusione. Forse il popolo segue, forse si mostra veemente e arrabbiato, ma continua a non amarli. Perché non c’è nulla di peggio ai suoi occhi dei moralisti e dei paladini della legge che poi sono i primi a preferire le vie del compromesso, della raccomandazione, del sotterfugio. In questi anni, in quanti scandali si sono trovati politici della sinistra? In quante cronache di carriere universitarie abbiamo letto di moglie e figli di baroni rossi che hanno fatto carriera? Il popolo evidentemente – è desolante ma è così – preferisce i malfattori sinceri, i ricchi che ostentano la loro ricchezza, gli evasori di grandi fortune che li fanno sentire meno colpevoli della loro piccola evasione, gli imbroglioni dichiarati. Ma se è così quando e con quali gesti la sinistra si porrà il problema di spezzare una sua immagine tanto radicalmente odiata?

I registi italiani? "Tutti comunisti", ma con "case dappertutto". A dirlo è Gérard Depardieu in un'intervista a Valerio Cappelli su “Il Corriere della Sera”.  L’attore ha preso la cittadinanza russa, per qualcuno lo ha fatto per non pagare le tasse esose in Francia. «Non sono andato a Mosca per evadere le tasse ma perché Putin mi ha dato un passaporto e perché mi piace la letteratura russa -  racconta ora - Non è una questione di soldi, io vengo dalla terra, sono nato povero, sai che me ne frega dei soldi. Amo più di tutto l'Italia (dove si mangia bene ovunque e non c'è bisogno di andare nei grandi ristoranti, bastano le trattorie), e la Russia, dove non conosco nessuno, specialmente i giornalisti. In Francia dicono che Putin è un dittatore. Io dico che cerca solo di fare il meglio per il suo Paese. Intanto in Francia hanno ucciso i piccoli agricoltori, quanto alla cultura ad Avignone protestano... Non ci sono più festival in Francia, solo bagarre. Bisogna viverci in un Paese prima di criticarlo, hanno sbagliato indirizzo, che andassero nella Corea del Nord». E a Ettore Scola, che accusa Depardieu di evasione fiscale, replica: «Abbiamo un progetto per un film, una bellissima storia di cui non voglio parlare. Prima Scola non voleva farlo perché lo produceva Berlusconi e ora non so. Non credo che troveranno i soldi. Amo Ettore Scola anche se mi ha criticato. Io non sono né di sinistra né di destra, glielo dissi tanto tempo fa a Bertolucci, voi registi italiani siete tutti comunisti, però avete case dappertutto. Mi rispose che in Russia è pieno di Mercedes. Io sono un essere vivente, mi piace la vita. Sono un cittadino del mondo, in Russia sono un viaggiatore e basta».

Il commento di Ginevra Sorrentino su “Il Secolo D’Italia”. Cosa lega Gérard Depardieu a Carlo Verdone? Oltre al fatto di essere due attori capaci di utilizzare sia le corde comiche che quelle drammatiche, il filo di una polemica sempre aperta con la critica integralista. E allora, se «meglio rosso che Verdone» era lo slogan in voga qualche anno fa, all’epoca della diatriba tra il regista e attore romano e l’intellighenzia di sinistra, austera e radical kitsch, oggi l’asse polemico viene spostato dall’istrione francese proprio sui cineasti di casa nostra che, in un’intervista al Corriere della sera, senza troppi giri di parole etichetta così: «I registi italiani? Tutti comunisti con case ovunque». Sempre pronti, aggiungiamo noi, autori e critici fondamentalisti militanti, a incentivare con manifesti ideologici e proclami mediatici esterofilia cinefila e produzioni drammatiche, e, parallelamente, ben disposti a storcere accademicamente il naso contro la commedia, dai tempi del neorealismo bollata severamente come genere di serie B. Con buona pace degli incassi milionari di Checco Zalone e Christian De Sica, veri “re Mida” di celluloide grazie ai quali – in barba ad austeri dibattiti estetici e forum sul rigore formale – il cinema può tornare a godere di nuova linfa economica e spettacolare. Dunque oggi la differenza per il successo la fanno lo spettatore e i risultati al botteghino: e a quella nutrita schiera di sceneggiatori, registi e attori – ma anche cantautori e istrioni da palcoscenico – che si sono nei decenni cullati sugli allori dell’incoronazione mediatica e della continuità professionale grazie all’arruolamento ideologico nelle fila della sinistra militante e sponsorizzante, non resta che farsene una ragione. Un’egemonia culturale e spettacolare, quella democrat, che ha avocato a sé talenti della settima arte, della canzone d’autore e della letteratura, a cui il brand progressista ha garantito sempre partecipazioni ai festival del cinema che contano, agli agoni editoriali più in voga, ai palcoscenici discografici più blasonati. Oggi, invece, il trend si inverte: e mentre una firma del grande schermo come Ettore Scola, rivela Depardieu dalle colonne del quotidiano di via Solferino, avrebbe un progetto nel cassetto – («una bellissima storia di cui non voglio parlare. Prima Scola – prosegue l’attore – non voleva farlo perché lo produceva Berlusconi, e ora non so. Non credo che troveranno i soldi») – autori non schierati a sinistra lavorano. Incassano. Vengono promossi a suon di record dalle platee e, gioco forza, in qualche modo anche rivalutati dalla critica costretta a rileggere morfemi e grafemi della sua grammatica giudicante. Chissà, allora, come sarebbe stata la parabola del successo di attori come Lando Buzzanca o come Lino Banfi – oggi nobilitati dalla tv e riaccreditati da un tardivo revisionismo critico – se negli anni Settanta, invece di pagare a suon di commediole scollacciate e di stroncature lo scotto di una mancata adesione culturale e politica a sinistra, avessero potuto vedere capacità e fortuna decretate semplicemente dal pubblico in sala… Ai posteri l’ardua sentenza.

Luca Barbareschi intervistato al telefono da Gabriele Lazzaro a “Anche io ero off” e pubblicato su “Il Giornale”: «Sono solo contro una casta di idioti raccomandati».

Luca, mi racconti un episodio OFF degli inizi della tua carriera?

«Ce ne sono tanti… quest’anno compio quarant’anni di carriera…»

Uno che però non hai mai raccontato a nessuno?

«Il mio vero primo ruolo nell’Enrico V – poi dopo ho lavorato solo in ruoli più importanti – era suonare il tamburo nascosto in quinta, cioè, fare le rullate mentre Gabriele Lavia faceva i monologhi. Chiuso in una scatola di legno, a Verona, a luglio, con un caldo infernale, suonavo questa grancassa per circa un’ora e mezza pensando di suonare la batteria. Questo è stato il mio debutto teatrale, a diciotto anni.»

Come si vive a diciotto anni un’esperienza del genere?

«Mah, io ero felice! mi sembrava di toccare il cielo con un dito! Era una compagnia meravigliosa, c’era il Garrani, Lavia… Meschieri e Fo erano i produttori… Ciò che mi fa tristezza oggi è  vedere ragazzi di 18 anni che sono già vecchi. Sanno già tutto, hanno già capito tutto, sono già depressi. E’ tutto politico… invece ai miei inizi era poesia pura, arte pura: il teatro, di sera, nella Piazzetta delle Erbe… Suonavo bene la chitarra e il piano: ero un musicista, più che altro, per cui intrattenevo gli altri, cercavo gli spazi cercando di fare simpatia e di fare il mio lavoro: l’entertainer. Ma questo ha messo in moto il mio  futuro: il regista mi aveva preso all’inizio come uno che doveva fare il caffè, poi sono diventato il suo primo aiuto – lui era il numero due insieme a Strehler al Piccolo – e due mesi dopo ero a Chicago a fare il primo aiuto all’Opera Lirica. Le opportunità, se le vivi con entusiasmo, sono bellissime. Anche perché poi, questo lo vedo adesso, a quasi sessant’anni vuoi circondarti di persone piene di entusiasmo, di voglia di fare, e di bellezza. No?»

Certo. E quindi questo stupore è un po’ quello che ti ha accompagnato in questi quarant’anni di carriera…

«E’ ancora così per me. Se vieni a vedere il mio one man show a Spoleto a giugno, piangerai e riderai. Ci sono io con una band di cinque elementi, uno è Marco Zurzolo, un jazzista che ha aperto Umbria Jazz, tra i più bravi musicisti italiani; io mi diverto con in scena le mie Stratocaster, le Martin, un pianoforte a coda Steinway, cinque elementi d’orchestra… facciamo di tutto, per due ore e un quarto. Come se avessi quindici anni.»

Il tuo one man show, “Cercando segnali d’amore nell’universo”, per la regia di Chiara Noschese lo vedrò al Teatro Manzoni, perché verrai anche qui a Milano… ti aspettiamo! Nella tua carriera hai fatto veramente di tutto: teatro, cinema, hai condotto programmi di successo:  alcuni me li ricordo anche molto bene…

«“Il grande bluff”…»

Come no! E “C’eravamo tanto amati”. Ma questo tuo essere così tanto eclettico e così professionale in qualche modo lo devi all’esperienza americana?

«Infatti io sto sulle palle a tutti i vari Virzì e Servillo… questa gente qui mi odia, perché loro sono degli snob tremendi… quindi, fanno finta di essere intimisti, profondi, ma è tutta gente che vive in una casta. Io ho imparato a vivere in America che qualsiasi cosa fai ti arricchisce: facevo l’aiuto regista, facevo i servizi per Gerry Minà sulla storia della boxe e contemporaneamente vincevo a Venezia con il mio film “Summertime”. Poi non c’avevo più una lira di nuovo e facevo l’aiuto regista per Mario Merola in “Da Corleone a Brooklyn”… In questo modo mi sono costruito un curriculum che credo non abbia nessuno. Ho una bellissima azienda, oggi, che ha prodotto più di centotrenta film, ho quotato in borsa la mia azienda di informatica… e l’ho fatto per curiosità. Quando vedo i ragazzi demotivati…  Io adesso sto facendo un film sulla vita di Pietro Mennea, per esempio, è la cosa più bella è che lui è stato il più grande campione del mondo come velocista e poi si è preso tre lauree, si è candidato parlamentare europeo, è ricordato come uno degli uomini più importanti del Parlamento Europeo… Perché tutto dipende da noi, alla fine. Da quanto tu credi che la vita ti possa dare e da quanto sei aperto.»

Proprio parlando di tutte queste trasformazioni che possono far parte del percorso di una persona, nel 2002 hai diretto “Il trasformista”, che è un film molto arrabbiato verso il cattivo uso della politica…

«I miei film verranno apprezzati tra vent’anni. Perché in quel film ho detto tutto quello che sarebbe successo dieci anni dopo, ma quando l’ho fatto io… poi, quando l’hanno dato in televisione è andato bene, ma in sala… mi ricordo che quando ho fatto il primo film, Ardena, tutti i vari ortodossi della sinistra hanno fatto un picchetto per impedire al Barberini di andare a vedere il film del fascista Barbareschi. Che imbecillità… il povero Morando Morandini ha anche scritto da qualche parte: “Barbareschi ha osato fare un film falcata, tempio degli intellettuali come Amanda Sandrelli”… delle cazzate così neanche uno sceneggiatore se le può inventare. Adesso l’ha rifatto con “Something good”, questo film sulle frodi alimentari, l’han tolto dopo un giorno dalle sale! Tu pensa a Milano Expo il tema è la sicurezza alimentare, ed il mio film che è venduto in tutto il mondo, girato in Cina sul tema alimentare, niente. Non è interessante!»

È pazzesco, perché tra l’altro è stato anche apprezzatissimo da Spielberg…

«Ti mando le foto: alla prima al festival di Los Angeles, c’erano ad applaudire Meryl Streep, Julia Roberts, Tom Hanks, Bono degli U2 con il suo chitarrista The Edge… c’era tutta Hollywood ma in Italia non se ne è parlato per niente. Basta vedere i David di Donatello: la più grande porcata fatta in televisione negli ultimi vent’anni. Dove un’idiota come Ruffini si permette di insultare Sophia Loren dicendole “bella topa”… Qui c’è una casta di idioti raccomandati, protetti dalla politica, protetti dalla casta autocelebrativa, che ha ucciso lo spettacolo italiano. Ci sono anche quelli veri, oggi, nello spettacolo, c’è gente che fa un patto col pubblico: Brignano fa 130 mila euro a sera. Cioè, gente vera… Proietti, io, che faccio teatro da quarant’anni,Branciaroli… Poi però c’è una casta autocelebrata che può anche fare un peto al cinema o in teatro. Ed è sempre Chanel.»

Una Casta che lavora moltissimo…

«Io il David di Donatello non lo vincerò neanche se faccio Ben Hur… io non son stato neanche invitato.»

Perché Ruffini alla conduzione? È sempre stato molto istituzionale…

«Perché non hanno capito che chi deve celebrare la messa non può far le pernacchie. Il master of ceremony deve essere istituzionale. O sennò è un genio come Billy Crystal, quando ha presentato una volta gli Academy Awards, che però non si è permesso di insultare Jack Nicholson. Anche perché Jack Nicholson gli staccava la testa in diretta… Invece i premi italiani sono finti. I David sono finti, i Leoni sono finti. Io ho ricevuto una lettera di Alberto Barbera, il direttore della Mostra del cinema di Venezia, quest’estate … non mi hanno preso  perché non faccio parte della schiera dei suoi amici.»

È una cosa forte, questa…

«Ma mi ha scritto su carta da bollo protocollata! Allora, siccome sono cretini, fanno marchette autocelebrativa che infatti hanno ucciso il cinema. Lo scollamento dell’autocelebrazione critica della casta è totale. Checco Zalone può piacere o non piacere – a me personalmente piace – e quest’anno ha fatto settanta milioni. Ma non può non aver vinto un premio! È bravissimo e spiritosissimo e non puoi non tener conto di quello che esiste, no? Ma ho detto una vecchia cosa. Tornatore ha fatto un film bellissimo quest’anno e in televisione l’avrebbero ucciso.»

Tornando a bomba sulla politica di cui tu hai parlato ne “Il trasformista”, quindi sei stato un po’ profetico… com’è cambiata la politica del 2002 rispetto a quella di oggi? I politici sono gli stessi…

«La politica di una volta  – ti faccio un’immagine molto semplice – da cinquant’anni in America ci sono due simboli: l’asinello e l’elefantino. Uno sono i repubblicani e l’altro i democratici. Dentro quei due piccoli simboli per cinquant’anni cambiano le facce. In Italia succede l’opposto: le facce son le stesse, cambiano i simboli. Ulivo, melo… il nome: PD, PDC MDC, CFC…Questa secondo me è l’immagine di un paese morto. A parte che è morto perché in mano a mafia, ’ndrangheta e camorra.  Al di là della corruzione dei politici, che fanno schifo, al di là di queste facciate delle Iene da cui mi son preso delle querele, io le leggi le ho fatte. Tu vai a vedere la legge sulla tax credit, è mia. Pensi che qualcuno mi abbia ringraziato?»

Penso proprio di no.

«Infatti, nessuno. La legge sulla pedofilia, l’ho fatta io. Poi l’altro giorno ho fatto un tweet di sfogo, stupido, da ragazzino, che dimostra la mia età dell’anima… dicevo che qualsiasi cosa io faccia – perché l’altro giorno c’è stato un processo in cui ero parte lesa, perché dopo otto anni hanno finalmente condannato una pazza…»

La skipper?

«La skipper, sì. Sai cos’ha scritto Repubblica? “Barbareschi dal suo panfilo caccia una povera lavoratrice del mare”. Capisci che, visto così, la mia responsabilità va a quel paese. Io, anche se faccio Arancia Meccanica moltiplicato per Otto e mezzo di Fellini, devo firmarlo con un nome diverso. Perché sono scomodo, perché voglio essere indipendente, non me ne frega più un cazzo di nessuno di questi servi che hanno scritto sulla stampa le cose peggiori, anzi non hanno scritto… La vera tangentopoli dei  giornalisti dev’essere ancora scritta!»

Ti fa  onore l’aver trasformato il tuo percorso artistico, la tua fortuna, tutto quello che fa parte del tuo impero, in forza lavoro, perché hai aperto una società di produzione…

«È questo, il mio “Summertime”, che ha vinto a Venezia quando non c’erano ancora questi mentecatti servi dei politici.»

In un certo senso sei un esempio per i giovani…

«Voi però dovete ribellarvi! Dovete mandarli a fanculo. Sai perché odio quelli del Valle? Non perché l’hanno occupato, perché l’occuperei anch’io, ma perché non hanno fatto un cazzo dentro il Valle. È questa la tragedia: Peter Brook alla Gare du Nord dentro un garage ha rivoluzionato il teatro mondiale! Noi, nel nostro piccolo, all’Elfo di Milano… “Sogno di una notte d’estate” fatto trent’anni fa, è stato in cartellone un anno, ed eravamo degli illustri sconosciuti! Io, Claudio Bisio, Paolo Rossi, Maddalena Crippa, Irene Capitani… oggi siamo tutti conosciuti, ma allora eravamo sconosciuti. Eravamo in un garage, non è che fossimo al Piccolo. Un anno in cartellone, ottocento persone a sera. Contro il Piccolo di Strehler, che stava morendo. Non abbiamo mica avuto bisogno di occupare il Teatro Lirico… Però c’era talento. Eravamo tutti giovani pieni di talento che hanno fatto delle cose. Qui invece occupano i teatri e non hanno idee… e questo è il risultato.»

Hai citato il Teatro Valle… noi abbiamo lanciato anche una petizione…

«Sai chi sono i peggiori, in malafede? Sono Gifuni, il figlio di Gifuni, il funzionario di stato. Quell’altro, come si chiama? Che è anche un bravissimo attore, ricciolino, rosso…»

Elio Germano?

«Elio Germano. Tutti froci col culo degli altri! Vanno al Valle, fanno i combattenti, però col cazzo che si fanno arrestare. Hanno distrutto la società di raccolta per gli attori, questo per colpa anche di un senatore idiota del Pdl… tutti quelli di adesso hanno distrutto la Repubblica. Perché non appena arriva uno di sinistra si calano le braghe per essere accettati. Di società di raccolta ce ne erano tre, adesso più niente.»

Noi fra l’altro siamo contenti di averti fra le firme di quelli che hanno aderito a questa petizione per liberare il Teatro Valle perché l’iniziativa che ha lanciato Edoardo Sylos Labini dalle nostre pagine secondo me è fondamentale…

«È encomiabile, ha fatto bene. Infatti ho aderito subito, io ci sono anche andato a litigare da solo.»

Ma sai che non è facile…

«Io ho chiesto di farmi entrare perché volevo parlare. Ma ormai non c’è più nessuno, cinquanta precari, gente che non ha mai fatto un provino in vita sua, non c’è gente dello spettacolo lì.»

Ma ti hanno ascoltato, quando sei andato a bussare alla loro porta?

«Ma chi? Non sono attori! Qui c’è il malinteso: gli occupanti del Valle non sono attori. Non sono registi, non sono scenografi… sono dei precari, c’è gente di cinquant’anni. Ma sai chi è l’altro deficiente, lì? Ronconi è andato al Valle a dire “sono con voi”. Ronconi! Ronconi ha devastato il teatro italiano: al Piccolo non lavora un giovane da vent’anni. Capisci com’è facile il trucco? Quando c’erano le manifestazioni a Milano, c’era gente che scendeva dalle Rolls Royce col maggiordomo, che diceva: “Vi passo a prendere dopo, che la mamma vi manda tutti a Saint Moritz?”, questo era il movimento studentesco a Milano. Nessuno racconterà mai la verità su questo. I movimenti veri erano Lotta Comunista, Lotta Continua a Torino. Gli operai, non i fighetti di Milano!»

Però, Luca, non è semplice…

«Posso dirti? Il signore del Giornale vostro, il signor Sallusti, quando c’è da fare una battaglia con quelli come me non la fa. Diteglielo pure. Io non sono mica la Santanché.»

Glielo stai dicendo tu, perché sarai ascoltato…

«Glielo dico, glielo dico. Perché son spariti tutti, invece di far coesione fra i cervelli migliori, vanno a Cannes, si fanno vedere alla Festa dei Ciak…c’è  Servillo a braccetto con Verdone e la Santanché…. Qui è una questione di competenze, di mettere il meglio, fare scuole di eccellenza, però bisogna capirle, le cose. Io son contento che ci sia Edoardo, perché ha tanta competenza e tanta voglia di fare. Io le ho fatte le mie battaglie, da onorevole, per cinque anni. Litigai con lo stesso Berlusconi con cui ai tempi non ero d’accordo.»

Ecco, il bello della battaglia di Edoardo è proprio che è bipartisan, a nome della cultura libera e al di là del colore politico.

«Ma non vi caga nessuno. Guarda, io sto a testa alta, perché nelle mie produzioni, tu le avrai viste, da Olivetti a Walter Chiari, lavorano solo professionisti. Mai raccomandati. Tu vedrai da Paolo Graziosi a Rocco Papaleo. Però se faccio la prima di “Something Good” gli attori che ho fatto lavorare credi che siano venuti? No, perché hanno paura che se vai a una prima di Barbareschi magari non ti chiama Nanni Moretti. A me di Nanni Moretti non me ne frega un cazzo, ma neanche a nessuno di questi. Io lavorerei domani con Moretti, se ha voglia, alla pari però.»

Torniamo alla tua carriera: tu teatralmente hai sempre fatto delle scelte originali. Hai portato sulla scena italiana autori come Mamet, Polanski…  oggi, secondo te, di quali testi avremmo ancora bisogno teatralmente?

«Banalmente di copiare quello che hanno fatto all’estero. Se tu vai a vedere, il teatro è contemporaneo: solo qui è un’eccezione. Il teatro racconta quello che accade in questo momento, non quello che accadeva. Poi, i grandi teatri stabili dovrebbero star fermi e non itinerare. Ma i teatri non me li danno mai, l’unico teatro che ho diretto per due anni è stato l’Eliseo e hanno tentato di cacciarmi subito, perché io mi opponevo a questa consorteria degli scambi, di comprare a scatola chiusa uno spettacolo.»

«Ma infatti la tua direzione artistica si è conclusa poco dopo…

«Perché ho detto che avrei fatto una compagnia fissa a Roma, con otto novità all’anno e fine. Risparmiavo sulle spese per i trasporti e diventava un teatro innovativo.»

Quindi copiamo dall’estero. Importiamo novità dall’estero…

«Ma li vedi questi qua del Piccolo? Che non sanno neanche la differenza tra sceneggiatura, scenografia e coreografia? Gente attaccata alla sedia, al potere, fanno gli scambi, prendono chi è utile, che è figlio di questo o di quello…»

SI CENSURA, MA NON SI DICE.

Non fu la resistenza a liberare l'Italia ma solo gli alleati. Gli elementi dominanti della Resistenza, quelli comunisti, lottavano per l'Unione sovietica. Ecco perché Churchill voleva puntare non sulla Francia, ma sull'Italia, scrive Nicholas Farrell su “Il Giornale”. Quando guardo in streaming le facce nobili dei vecchi uomini inglesi e americani e del Commonwealth che hanno partecipato all'invasione della Francia nel 1944 e che ora sono tornati alle spiagge della Normandia per commemorare il 70° anniversario del «Longest Day», e poi, quando ascolto le loro parole piango - sorridendo. Sono da onorare perché sono uomini in perfetta sintonia con la regola antica della vita, cioè: per meritare l'onore, un uomo deve dimostrare prima l'umiltà e poi la virtù. E loro, questi uomini che ormai hanno compiuto i 90 anni - e tutti i loro compagni caduti in nome della libertà - ce l'hanno fatta. Poi, però, penso alla liberazione di Roma dagli stessi anglo-americani, accaduta due giorni prima del D-Day - il 4 giugno 1944 - e mi incazzo. Per parecchi motivi. In anzitutto, mi incazzo perché sono inglese ma in Italia si commemora la liberazione d'Italia ogni 25 aprile come se fosse un lavoro compiuto da partigiani e basta. E mi sento offeso che a Forlì in Romagna dove abito la strada che porta ad uno dei due cimiteri degli alleati nella città si chiama Via dei Partigiani. E mi sento offeso che quando si parla di alleati in discorsi o sui giornali, si fa riferimento solo agli «americani». In quei due cimiteri di Forlì giacciono i resti mortali di 1.234 soldati dell'Ottava Armata Britannica. Così tanti morti, solo a Forlì. Ma vi rendete conto? Non è ora - dopo 70 anni - di affrontare una semplice verità? Eccola: la Resistenza in Italia era completamente irrilevante dal punto di vista militare. In ogni caso, nell'estate del 1944 non esisteva una Resistenza in Italia. Dopo, invece - dall'autunno del 1944 in poi - che cosa di concreto ha portato questa Resistenza? Peggio. Secondo la storiografia la Resistenza lottava per la patria, la libertà e la democrazia. Non è vero. I suoi elementi comunisti (quelli dominanti) lottavano per l'Unione sovietica, la dittatura e il comunismo. Ecco perché Churchill voleva puntare non sulla Francia, ma sull'Italia. Voleva a tutti costi fermare le forze comuniste nei Balcani e in Austria. Roosevelt no, invece, e ha prevalso il Presidente americano. Perciò, gli alleati, che avevano invaso l'Italia nel 1943, non ebbero le forze necessarie in Italia per liberarla fino all'aprile 1945. Si dice: solo grazie alla Ue ci sono stati 70 anni di pace in Europa. Non è vero. C'è stata pace in Europa solo grazie agli anglo-americani e al piano Marshall. Oggi, la Ue e la sua moneta unica rappresentano la più grave minaccia alla pace in Europa.

Di questo oscurantismo la tv di Stato ne è molto responsabile, ma guai a toccarla. Santoro confessa: "Sono un vecchio comunista", scrive “Libero quotidiano”. Il teletribuno: "Giusto lo sciopero in Rai, ma la tv pubblica è vecchia e tre tg sono troppi". Lo sciopero Rai? Se lui lavorasse ancora nella tv pubblica vi aderirebbe, "perchè sono un vecchio comunista e se il mio sindacato me lo chiede io non faccio il crumiro". Esordisce così, Michele Santoro, nell'intervista concessa oggi a Repubblica e nella quale affronta lo spinoso tema della televisione pubblica, alle prese col taglio da 150 milioni imposto da Renzi. una mossa che il teletribuno applaude nei fini ma non nei contenuti: "Tagliare di botto 150 milioni significa imporre tagli lineari, costringere l'azienda a ridimensionare il prodotto. Ma Renzi, che ha nell'intuito la sua più grande dote, ha capito che la Rai è l'ultima sopravvissuta del vecchio sistema politico e i tagli sono un modo per destabilizzare tutto. Nel senso che Grillo si è messo a difendere lo sciopero passando così come l'alfiere del passato, col "vecchio" Pd e Forza Italia che hanno fatto alleanza mentre lui li osserva dall'altra parte. Un capolavoro politico". Santoro ricorda i suoi esordi in viale Mazzini nel lontano 1987, "quando ero la voce della piazza mentre ora rischio anch'io di passare per istituzionale perchè la tv generalista, non solo la Rai, è in crisi profonda per una mancanza di reale concorrenza tra i due grandi poli che ha abbattuto la qualità di ciò che viene trasmesso. Basti guardare le fiction: parlano di preti, di carabinieri, di buoni sentimenti. Non c'è il futuro, non c'è modernità, capacità di innovare". Poi c'è la questione della "lottizzazione" e dei tre tg nazionali: "Un sistema vecchio, figlio di quando c'erano le grandi ideologie a contendersi il Paese. Ma oggi non c'è una domanda di pubblico che giustifiche tre grandi redazioni". Con un occhio al suo futuro professionale, con voci che ogni anno lo vedono verso un rientro in Rai, Santoro definisce invece demagogia chiedere che le star del piccolo schermo, da Vespa a Floris a Fazio si taglino lo stipendio: "Se non hai Maradona, lo stadio non lo riempi, così senza Celentano non fai audience". E il futuro di viale Mazzini? "un canale finanziato col canone che faccia tutto quello che il mercato non fa: niente reality, grande informazione, innovazione. E due canali aperti ai privati".

Quando Santoro e De Gregorio erano colleghi al quotidiano comunista. Dopo la parentesi in un gruppo maoista, il teletribuno lavorò a "La Voce della Campania". E tra i collaboratori c'era il nuovo idolo della sinistra, scrive “Libero Quotidiano”. Dopo Massimo Ciancimino, la sinistra manettara, santoriana e travaglina ha un nuovo totem: Sergio De Gregorio. L'ex senatore dell'Idv è il testimone chiave dell'inchiesta napoletana sulla compravendita di onorevoli, per le toghe orchestrata da Silvio Berlusconi, che tra il 2007 e il 2008 avrebbe fatto cadere il governo Prodi. Roba tosta, insomma, roba in grado di trasformare De Gregorio in superstar della prima puntata della nuova stagione di Servizio Pubblico, la trasmissione di Michele Santoro a cui partecipa Marco Travaglio e dalle cui labbra pende tutta la sinistra manettara. Il terzetto si ricompone, insomma, e con De Gregorio si trasforma in quartetto. In questo quartetto, però, c'è un legame che affonda le sue radici più in là nel tempo. E' quello tra il teletribuno Michele e l'ex "traditore" De Gregorio, fino a qualche mese fa liquidato nel migliore dei casi come "maneggione" e oggi, invece, asso nella manica nella guerra contro il Cavaliere. Già, perché i due sono ex colleghi. Entrambi campani - Santoro classe 1951, De Gregorio 1960 -, il primo giornalista e il secondo, invece, ex giornalista, avevano iniziato le loro attività da cronisti nel quotidiano comunista La voce della Campania tra la fine degli anni '70 e gli inizi degli anni '80. Una conoscenza, la loro, nata tra le scrivanie della redazione di un quotidiano comunista: nessuna sorpresa per Santoro, un po' di stupore in più, invece, per De Gregorio (ex socialista ed ex valorista). Che Santoro abbia lavorato a La Voce della Campania non è certo un mistero: la sua parentesi al quotidiano rosso iniziò dopo quella con il periodico Servire il popolo, edito dal gruppo maoista Unione Comunisti Italiani in cui militò fino alla sua chiusura, nel 1975. De Gregorio collaborò con La voce della Campania proprio nella seconda metà degli anni '70: negli anni successivi, dopo l'ingresso in politica, promosse il ritorno in edicola della testata. Il nuovo idolo della sinistra, insomma, il senatore De Gregorio (lo stesso che, ha denunciato Maurizio Belpietro, "mi propose di pagare la Camorra"), consosceva Santoro da anni, dai tempi della militanza comunista. Una carriera iniziata insieme, quella di Michele e Sergio, che a distanza di quasi 40 anni si sono ritrovati sul piccolo schermo, a La7, per spalare fango contro Berlusconi.

La Rai "censura" il giornalista e le sue scomode verità sulla Sardegna. La Rai intervista Anthony W. Muroni (direttore dell'Unione Sarda) e dopo decide per la "censura", non mandando in onda il suo intervento. Poi la retromarcia: ecco la denuncia. Prima l'hanno chiamato per un'intervista sulla tragedia della Sardegna e poi gli hanno riferito che non sarebbe mai andata in onda, con un commento secco: "Meglio non parlare di queste cose". E lui, Anthony W. Muroni, direttore dell'Unione Sarda, ha denunciato la "censura" della Rai sulla sua pagina Facebook. Nell'intervento registrato per il Tg2, riferisce lo stesso Muroni, il giornalista aveva invitato ad interrogarsi sul "perché i ponti crollano, sul perché i cantieri per la messa in sicurezza dei fiumi si bloccano per anni a causa di contenziosi tra Comuni e imprese appaltatrici". Ecco la sua denuncia su Facebook: Mezz'ora fa ho registrato un intervento per il Tg2, nel quale ripetevo i concetti già espressi a Uno Mattina: serve solidarietà, servono interventi, servono aiuti, serve combattere l'emergenza, Ma serve anche interrogarsi sul perché i ponti crollano, sul perché i cantieri per la messa in sicurezza dei fiumi si bloccano per anni a causa di contenziosi tra Comuni e imprese appaltatrici. Ho detto anche: va bene la solidarietà del governo e gli stanziamenti, ma forse dovrebbero rendersi conto che c'è un intero sistema che non funziona. E che in Sardegna, dieci anni dopo Capoterra, stiamo ancora parlando delle stesse cose. Mi ha appena chiamato una collega della Rai: l'intervista non verrà mandata in onda: "Meglio non parlare di queste cose". Tanti saluti. Poi è arrivata la retromarcia, dopo che la notizia aveva fatto il giro dei social network. Come scrive su Twitter lo stesso Muroni, l'intervista, dopo un equivoco, andrà in onda questa sera: "Mi ha chiamato Rocco Tolfa, vicedirettore Tg2: c'è stato equivoco. Intervista in onda alle 20.30".

Censura in Italia. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. L'Italia è ad uno dei livelli più bassi per quanto concerne la libertà di stampa in Europa. Un'analisi effettuata da Freedom House classifica l'Italia come "parzialmente libera", uno dei soli due paesi dell'Europa Occidentale (il secondo è la Turchia), relegandola dietro anche a diversi paesi comunisti dell'Europa Orientale. A livello mondiale, Reporter Senza Frontiere classifica l'Italia al 57º posto per la libertà di stampa. La censura viene applicata tanto sulla televisione quanto sugli altri mezzi di informazione e di stampa.

Storia della censura in Italia. Nel periodo che segue il Congresso di Vienna (1814-1815), in territorio italiano era in atto un incisivo controllo sulla stampa da parte delle monarchie. Nelle capitali dei vari staterelli, e nei centri urbani più importanti, in genere usciva solo un foglio ufficiale della monarchia, generalmente intitolato Gazzetta, che serviva per la pubblicazione delle leggi e di una cronaca attentamente selezionata. Oltre a questi tuttavia erano presenti dei periodici letterari e culturali, dove potevano essere espresse nuove idee. Nel 1816, su iniziativa degli austriaci, a Milano fu fondato un mensile letterario intitolato Biblioteca Italiana, in cui vengono invitati a collaborare (non sempre con successo) oltre 400 fra intellettuali e letterati di tutta Italia. A questa rivista faceva da contraltare Il Conciliatore, periodico statistico-letterario vicino alle idee romantiche di Madame de Staël, che continuerà ad uscire fino al 1819, quando sarà costretto alla chiusura. La situazione del giornalismo italiano comincia a cambiare con la nascita di numerosi fogli clandestini, stampati dai nuclei carbonari e dai movimenti rivoluzionari sotterranei, che porteranno ai moti del 1820-1821. Uno dei giornali più noti di questo periodo è L'Illuminismo, pubblicato nelle Legazioni pontificie nel 1820, ma abbiamo anche La Minerva di Napoli e La Sentinella subalpina di Torino. Nello stesso periodo, anche negli ambienti liberali italiani ci fu un certo attivismo giornalistico. Risalgono a quegli anni infatti Antologia, giornale di scienze, lettere e arti, nato a Firenze nel 1821, i genovesi Corriere mercantile del 1824 e L'Indicatore genovese, cui collaborò anche il giovane Giuseppe Mazzini. Nel 1847 e nel 1848 furono promulgati gli editti di Pio IX e di Carlo Alberto, relativi alla libertà di stampa. La prima legge che introduceva un vero e proprio intervento censorio è quella relativa alle proiezioni cinematografiche e risale al 1913. Con questa legge si impediva la rappresentazione di spettacoli osceni o impressionanti o contrari alla decenza, al decoro, all'ordine pubblico, al prestigio delle istituzioni e delle autorità. Il successivo regolamento, emanato nel 1914, elencava una lunga serie di divieti e trasferiva il potere di intervento dalle autorità locali di pubblica sicurezza al Ministero dell'Interno. Nel 1920 con un Regio Decreto fu istituita una commissione, che fra le altre cose aveva il compito di visionare preventivamente il copione del film prima dell'inizio delle riprese. La censura fascista in Italia, consistente nella forte limitazione della libertà di stampa, radiodiffusione, assemblea e della semplice libertà di espressione in pubblico, durante il ventennio (1922-1944), non fu creata dal regime fascista, e non terminò con la fine di questo.

I principali scopi di questa attività erano:

Controllo sull'immagine pubblica del regime.

Controllo costante dell'opinione pubblica come strumento di misurazione del consenso.

Creazione di archivi nazionali e locali (schedatura) nei quali ogni cittadino veniva catalogato e classificato a seconda delle sue idee, le sue abitudini, le sue relazioni d'amicizia e sessuali, costituendo così di fatto uno stato di polizia.

La censura fascista combatteva ogni contenuto ideologico alieno al fascismo o disfattista dell'immagine nazionale. La censura nel settore dei media veniva posta in atto dal Ministero della Cultura Popolare (Min.Cul.Pop.), che aveva competenza su tutti i contenuti che potessero apparire in giornali, radio, letteratura, teatro, cinema, ed in genere qualsiasi altra forma di comunicazione o arte. Nel 1930 fu proibita la distribuzione di libri con contenuti di ideologia marxista o simili. Questi libri dovevano essere raccolti, presso le biblioteche pubbliche, in sezioni speciali non aperte al vasto pubblico. Per avere accesso a questi testi bisognava ottenere una autorizzazione governativa, che veniva concessa dietro alla manifestazione di validi e chiari propositi scientifici o culturali. Grandi falò di libri si verificarono sin dal 1938: le opere contenenti temi sulla cultura ebraica, la massoneria, l'ideologia comunista, vennero rimosse dagli occulti scaffali di biblioteche e librerie. Per poter evitare i sequestri e le conseguenze delle ispezioni fatte dalla polizia fascista, molti bibliotecari nascosero le opere incriminate, ed in effetti in molti casi queste vennero ritrovate alla fine della guerra. Un episodio recente di censura è stata la cancellazione di una puntata della trasmissione televisiva Le Iene che avrebbe dovuto mandare in onda un test sull'uso della droga all'interno del Parlamento Italiano. Come per tutto il resto dei sistemi di informazione italiani, l'industria della televisione italiana è considerata, sia da fonti interne che esterne al paese, ampiamente politicizzata. Riprendendo un sondaggio effettuato nel dicembre del 2008, solo il 24% degli italiani crede ai programmi informativi televisivi, in netto svantaggio ad esempio con il dato della Gran Bretagna che è al 38%, facendo dell'Italia uno degli unici tre paesi esaminati dove le risorse online informative sono ritenute più affidabili di quelle televisive. Spesso in Italia i cartoni animati e gli anime vengono tagliati o modificati per evitare scene di violenza o di sesso. Uno degli esempi più eclatanti è sicuramente Naruto. L'8 dicembre 2008, la rete televisiva Rai 2 ha diffuso una versione censurata del film I segreti di Brokeback Mountain nella quale due scene sono state tagliate (la scena dove è rievocata la prima relazione sessuale tra i due eroi e la scena dove si abbracciano). La censura ha suscitato le proteste dei telespettatori e delle associazioni omosessuali. Nel 2009 la RAI e Mediaset si sono rifiutate di mandare in onda il trailer promozionale di Videocracy, un'analisi del potere della televisione e di come essa influenzi comportamenti e scelte della popolazione italiana, di come essa sia entrata nella vita quotidiana come principale fonte di informazione per la quasi totalità delle persone, a causa di motivi, rispettivamente per RAI e Mediaset, politici e di opportunità. Nel 2010 in concomitanza con le elezioni regionali, erano stati sospesi i talk show informativi dell'intero panorama televisivo italiano, su ordinanza dell'Agcom, poi abrogata dal TAR del Lazio con sentenza del 12 marzo 2010. In realtà poi rimasero sospesi alcuni talk show RAI, inclusi Porta a Porta, Ballarò e Anno Zero, come precedentemente sancito dal Consiglio di Amministrazione e poi ribadito dalla Commissione Vigilanza della RAI, in ottemperanza al previgente ordinamento Agcom. Nel 2009 la televisione di stato RAI tagliò i fondi per l'assistenza legale al programma televisivo d'inchiesta giornalistica Report (messo in onda da Rai 3). Il programma si è sempre interessato di questioni molto sensibili, esponendo spesso i giornalisti ad azioni legali (esempio fra tutti l'autorizzazione alla costruzione di edifici che non rispondevano a specifiche tecniche di resistenza ai terremoti, casi di eccessiva e mala burocrazia, i lunghi tempi della giustizia italiana, prostituzione, scandali di malasanità, casi di banchieri falliti che segretamente possedevano dipinti e opere d'arte di altissimo valore, cattiva gestione dei rifiuti tossici e di diossina, casi di cancro causati dalle schermature antincendio in amianto (Eternit) e casi di inquinamento ambientale causati da centrali elettriche a carbone (Taranto). Un accumulo di cause pendenti contro i giornalisti in assenza di fondi per la loro gestione potrebbe portare il programma ad una fine. Prima del 2004, nel rapporto dell'organizzazione americana Freedom House sulla libertà di stampa, l'Italia era sempre stata considerata "libera". Nel 2004 fu declassata a “Parzialmente Libera” a causa dei '”'20 anni di fallita amministrazione politica”, la “controversa Legge Gasparri del 2003” e soprattutto per tutte le “possibilità del primo ministro di influenzare la RAI (radiotelevisione italiana di stato), uno dei più lampanti conflitti d'interesse al mondo” (citazione del rapporto). Lo status del resoconto risalì al grado libero dal 2007 al 2008 durante il Governo Prodi II, per tornare subito a parzialmente libero dal 2009 con il Governo Berlusconi IV. La Freedom House ha notato come l'Italia costituisca un “valore erratico regionale” e, più precisamente, che “l'attuale governo ha incrementato i tentativi di interferire con la politica editoriale della televisione di stato, in particolare per quanto riguarda la copertura degli scandali che circondano il presidente Silvio Berlusconi”. Il controllo estensivo di Berlusconi sui media è stato ampiamente criticato sia da analisti che da organizzazioni per la libertà di stampa, che concordano nel considerare i media italiani con una limitata libertà di espressione. La Freedom of the Press 2004 Global Survey, uno studio annuale promosso dall'organizzazione americana Freedom House, per tali motivi ha più volte declassato l'Italia da Libera a Parzialmente Libera esplicitamente a causa dell'influenza di Berlusconi sulla Rai, una valutazione condivisa in tutta l'Europa Occidentale solo dalla Turchia. Reporter Senza Frontiere afferma che nel 2004 Il conflitto d'interessi che coinvolge il primo ministro Silvio Berlusconi e il suo vasto impero mediatico non è stato ancora risolto e continua a minacciare la democrazia informativa. Nell'aprile del 2004, la Federazione Internazionale dei Giornalisti si unì a tali critiche, obiettando al passaggio di una legge respinta da Carlo Azeglio Ciampi nel 2003, che criticanti credono sia disegnata appositamente per proteggere il controllo al 90% del sistema televisivo italiano da parte di Silvio Berlusconi. L'influenza di Berlusconi sulla RAI divenne evidente quando a Sofia, Bulgaria, espresse le sue opinioni sui giornalisti Enzo Biagi e Michele Santoro, e sul comico e attore Daniele Luttazzi. Berlusconi disse che “usano la televisione come un mezzo di comunicazione criminale”. Come risultato i tre persero il loro lavoro. Questa affermazione fu chiamata dai critici "Editto Bulgaro". La trasmissione televisiva di un programma satirico chiamato Raiot fu censurata nel novembre del 2003 dopo che la comica Sabina Guzzanti aveva espressamente criticato l'impero mediatico di Silvio Berlusconi. Nel 2006, all'uscita del film Il caimano di Nanni Moretti, la RAI (che essendo televisione di stato utilizza denaro pubblico) acquisisce il film per un milione e mezzo di euro per 5 passaggi del film sulle reti RAI in altrettanti anni. Il film, che ricalca in molti punti e situazioni la figura di Silvio Berlusconi e soprattutto le questioni riguardanti i media e le sue controversie con la giustizia italiana, non è stato tuttora mai trasmesso. La questione risulta particolarmente calda durante gli scandali che coinvolgono il presidente del consiglio Silvio Berlusconi nel 2010 e 2011, facendo risultare il film di Nanni Moretti particolarmente profetico e accendendo a tal riguardo l'opinione pubblica. La Mediaset, il gruppo televisivo di Silvio Berlusconi, ha affermato che esso utilizza gli stessi criteri della televisione pubblica (RAI) nell'assegnazione di un'appropriata visibilità ai più importanti partiti movimenti politici (la cosiddetta par condicio) – tale affermazione è stata più volte confutata. Nel mese di ottobre del 2009, il segretario generale di Reporter Senza Frontiere Jean-François Julliard dichiarò che Berlusconi è sul limite per essere aggiunto sulla nostra lista dei Predatori della Libertà di Stampa, rendendolo così il primo leader europeo della lista. Aggiunse anche che l'Italia sarebbe probabilmente posizionata all'ultimo posto nell'Unione Europea per quanto riguardava l'imminente edizione della lista annuale dei paesi in base alla libertà di stampa. Attualmente la filtrazione internet in Italia viene applicata a circa 5500 siti sulla base di richieste dell'autorità giudiziaria, della polizia postale e delle comunicazioni (tramite il Centro nazionale per il contrasto alla pedo-pornografia su Internet), dell'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Nell'elenco sono compresi anche siti web che contengono pedopornografia e ad alcuni siti P2P. Dal febbraio del 2009 il sito internet The Pirate Bay e il loro indirizzo IP è stato reso inaccessibile dall'Italia, bloccato direttamente dai Provider e seguendo un verdetto definito dalla Corte di Bergamo, poi confermato dalla Corte Suprema definendo quest'azione utile per la prevenzione dell'infrangimento del copyright. Un filtraggio pervasivo viene applicato ai siti di gioco d'azzardo che non hanno una licenza locale per operare in Italia. Vari strumenti legali vengono però anche utilizzati per monitorare e censurare l'accesso ai contenuti internet. Alcuni esempi sono dati dalle applicazioni della legge Romani, in seguito ai numerosi casi di gruppi Facebook creati contro il primo ministro Silvio Berlusconi. Una legge anti-terrorismo venne promulgata nel 2005 dopo gli attacchi terroristici a Madrid e a Londra, con essa il ministro degli interni Giuseppe Pisanu restrinse l'apertura di nuovi Hotspot (WLAN), sottoponendo così le entità interessate ad una richiesta di permesso da aprire presso la Polizia di Stato di competenza e gli utenti di Internet ad identificazione, presentando un documento d'identità. Ciò inibì l'apertura di hotspots in tutta l'Italia, con un numero di hotspots inferiore di 5 volte rispetto alla Francia e con la sostanziale assenza di network wireless municipali. Nel 2009 solo il 32% degli utenti Internet italiani ha un accesso Wi-Fi. L'Italia ha inoltre posto una restrizione ai bookmaker stranieri su internet, dando mandato ad alcuni ISP di deviare il traffico di alcuni host DNS.

C'era una volta... la censura Rai, scrive Alesandra Comazzi su “La Stampa”. Avevo scritto per La Stampa un pezzo sulla puntata di "Da da da" dedicata alla censura Rai. Poi, sapete come capita nei giornali, il pezzo è saltato, scacciato dalla morte di Amy Winehouse. Allora eccolo qui sul blog, ci sono cose divertenti. E' «Da da da» una trasmissione a basso costo ma ad alto contenuto, concentrato in una mezzora, su Raiuno dopo il Tg. «Da da da» come la vecchia canzone del 1982, gruppo tedesco Trio. Ideatore è Michele Bovi, capostruttura intrattenimento, la firma è di Elisabetta Barduagni, ricercatrice e regista Rai. Ogni puntata, un argomento diverso, qualche sera fa toccava alla censura televisiva Anni '60-'70. Dunque censura Rai, operando a quei tempi la Rai in regime di monopolio. Intorno al tema, si costruisce una narrazione fatta di spezzoni d'epoca, ritagli definiti «tivucinemusicali». Attraverso questi ritagli si racconta la storia del Paese, dove non si stava meglio quando si stava peggio: ma certo, si stava diversamente. Tra i censurati d'epoca, antesignani di Morgan, di Daniele Luttazzi, di Sabina Guzzanti, rivedremo Clem Sacco, Herbert Pagani, i Nomadi, Giorgio Gaber, tutti bloccati a causa di quelle che evidentemente non erano solo canzonette. «Clem Sacco - racconta Michele Bovi - si può considerare il nonno di Elio e le Storie Tese, il suo cavallo di battaglia si intitolava "Baciami la vena varicosa". Figuriamoci se una cosa così poteva passare, in quegli anni». E le altre canzoni proibite? «Solo alcuni esempi: Herbert Pagani non potè cantare "L'albergo a ore", I Nomadi "Dio è morto" e Gaber "Addio Lugano bella", c'erano problemi con la Svizzera». Insomma, in quegli anni di tv educativa, la censura era pesante, sul piano politico, ma anche su quello del «buon costume». Gli zelanti funzionari Rai avevano prepararo un elenco di parole impronunciabili: non si poteva dire «membro» di un partito; restò memorabile il grottesco giro di parole sul quale si dovette inerpicare Ugo Zatterin, che conduceva il telegiornale, per dire che era stata approvata la legge Merlin, e che si chiudevano le case di tolleranza. Ma dagli stessi problemi censori nascevano scene sarcastiche e provocatorie, come quelle di Tognazzi e Vianello in «Un, due, tre». Il loro programma fu sospeso quando si permisero di prendere in giro il presidente della Repubblica Gronchi. Le ballerine dovevano fare il loro mestiere con i mutandoni; le gemelle Kessler, che per prime misero in mostra le gambe, ebbero a ricoprirle con una pesante calzamaglia nera. Ancora adesso ricordano: «Non si doveva vedere la pelle. E quando facevamo la prova generale, c'era sempre un funzionario del Vaticano che vigilava. Se qualche scollatura era troppo profonda, qualche parola troppo spinta, lui segnalava, e gli autori cambiavano». Un funzionario del Vaticano, addirittura: siete sicure? «Siamo sicure». L'americana Abbe Lane, moglie del cubano Xavier Cugat, che dirigeva l'orchestra con il cagnolino in braccio, fu costretta a cucirsi una rosa sul generoso petto, tanto per coprirlo un po': e a ballare praticamente da ferma. D'altronde, e «Da da da» si è aperta proprio con Fanfani, il governo aveva appena approvato la legge sul buon costume, «La dolce vita» era oggetto di attacchi furibondi («come osa Fellini dissacrare la città del Papa?»), in un ristorante Scalfaro aveva schiaffeggiato una signora che si era tolto il giubbino. E poi, in questa tv bacchettona ma nello stesso tempo fervida, ci fu la cacciata di Dario Fo, avvenuta durante la «Canzonissima» 1962. Ettore Bernabei era diventato direttore generale Rai nel 1961, con l'appoggio di Fanfani. Manterrà la carica fino al 1974. Raccontò così il caso Fo: «La mia non fu censura. C'era lo sciopero nazionale degli edili, una manifestazione in piazza SS. Apostoli degenerò in scontri violentissimi con la polizia, che aveva ordini di non infierire, trenta poliziotti finirono all'ospedale. Dario Fo volle cambiare lo sketch previsto con la solita figura del costruttore col panciotto, il palazzinaro romano che, quando gli portano la notizia di un suo operaio che cade da un'impalcatura e muore, se ne infischia e regala un gioiello all'amante. Io bloccai tutto, sì: troppa tensione in piazza». Aggiunge Bovi: «Un uso del repertorio dinamico, non parassitario, ci aiuta a raccontare, ben più della politica, quanto sia cambiato il comune senso del pudore». 

Anche la Rai "censura" Tortora Se questo è servizio pubblico...Dopo l'esclusione del docufilm dal Festival del cinema di Roma un'altra bocciatura. Il Pd attacca viale Mazzini: "Occasione persa", scrive Emanuela Fontana suIl Giornale”. Il film escluso, condiviso, e ora «scippato». Enzo Tortora, una ferita italiana di Ambrogio Crespi è stato proiettato in anteprima nazionale ieri alla Camera dei deputati, ed è questa condivisione, tra parlamentari di partiti diversi, il riscatto per una pellicola esclusa dal Festival del cinema di Roma, ma ancora di più per Tortora e per la «malagiustizia», per dirla con le parole del regista. La polemica, partita proprio dal «no» alla proiezione all'auditorium dei red carpet, è sempre alta. E questa volta investe in pieno i concorrenti Rai e Mediaset. Stralci del film sono stati mostrati a Matrix ieri su Canale 5, e la produzione ha ufficializzato che la prima proiezione integrale è stata ottenuta proprio da Mediaset, a discapito della Rai. Rai che era la casa di Tortora e del suo Portobello. Il Pd ha fatto partire un bombardamento contro i piani alti di viale Mazzini: «Un'occasione persa per la Rai. L'azienda si è fatta scippare da Mediaset il docufilm». A firmare la dichiarazione i deputati Michele Anzaldi e Gero Grassi, con il senatore Federico Fornaro. Alla Rai non sarebbero mancati gli spazi per inserire il docufilm, insistono i parlamentari, «ma appare evidente che l'azienda ha deciso di regalare il ruolo di servizio pubblico a Mediaset, perdendo una nuova occasione per fare della buona informazione». Non si conosce ancora la data della messa in onda del film, ma regista e produzione hanno precisato che l'interesse non è il lucro: «Questo film dovrà essere di tutti, proiettato nelle scuole», la precisazione ieri di Crespi. E a eccezione delle «piccole spese» di produzione, gran parte degli introiti sarà destinato alla fondazione presieduta dalla compagna di Tortora, Francesca Scopelliti. Un grazie per la proiezione in Parlamento «va ai radicali - chiarisce il regista - poco fa mi ha chiamato Pannella in lacrime, dopo aver visto il film. Se ripenso a quanto ha lottato in quegli anni, per me è il miglior premio che potessi ricevere». È normale che ieri ci sia stata qualche garbata reazione al rifiuto della proiezione al festival romano. Tra le motivazioni della direzione: il film è troppo televisivo e «dura solo cinquanta minuti, forse non hanno controllato l'orologio», dice Francesca Scopelliti. In una conferenza stampa che ha preceduto la proiezione, l'ex compagna del conduttore ha poi invitato le forze politiche a pensare a una «legge Tortora»: sono ancora troppi i detenuti nelle carceri in attesa di giudizio, è necessaria una riflessione più approfondita «sulla modifica del codice penale». A 30 anni dall'arresto, 25 dalla morte, questa storia rimane sempre una «ferita» della giustizia. Una storia ora contesa dalla televisione, senza pace ma che parla «anche per coloro che non possono parlare», come ricorda Scopelliti citando una frase di Tortora. Un film che «non è né berlusconiano né antiberlusconiano», chiarisce Crespi. Non è «contro i magistrati», ma contro «la malagiustizia. Muller (il direttore artistico del Festival, ndr) è stato forse un po' miope nell'anima».

Censura Rai, una storia antica, scrive Franca Rame suIl Fatto Quotidiano”. Ci sono nella vita di ogni uomo o donna, o in entrambi, uno o due momenti chiave con picchi a salire e a scendere. Dario e io ne abbiamo vissuti più di uno e tutti di straordinario valore, anche perché non si muovevano solo nell’ambito del nostro particolare interesse, ma coinvolgevano molta altra gente. Quando esplose per esempio lo scandalo Canzonissima, non si trattò solo di un contenzioso fra la televisione e noi, cioè due attori e autori di un programma di sketch e di canzoni che si ribellavano ad un Ente statale a proposito di un contratto, ma tirava in ballo la vita e i diritti degli operai, quella della libertà di informazione oltre che di esprimersi riguardo alla politica: cioè tirava in ballo addirittura la Costituzione.  Inoltre, per la prima volta attraverso un programma di puro intrattenimento popolare, si denunciava l’esistenza di due grandi conflitti, nei quali c’erano morti e feriti ogni giorno. Si trattava delle morti sul lavoro e della guerra di mafia. Di questi atti incivili e spesso criminali non se ne parlava mai in televisione e molto raramente sui quotidiani. Anzi, in televisione nessuno aveva mai trattato di questa realtà. Tutto era mascherato e seppellito. Il fatto poi che il vaso delle nefandezze fosse rovesciato nel programma più seguito non solo in televisione, ma anche attraverso la totalità dei mezzi d’informazione, fu il detonatore massimo della bomba e del relativo scandalo. Il caso volle che, nello stesso momento in cui andava in onda la scena che trattava delle morti bianche, tutti gli operai d’Italia, in primo luogo i muratori, avessero indetto uno sciopero di alcuni giorni per protestare contro la mancanza di protezione sul lavoro, cioè la causa prima dei continui incidenti che causavano ormai una vera e propria strage in tutti settori. Proibire che quell’atto unico satirico e di forte denuncia fosse trasmesso, era come buttare benzina sul fuoco. Bernabei, direttore politico e organizzativo dei programmi Rai, scelse per il fuoco, sperando nei pompieri, quelli politici, soprattutto. Ma la cosa non funzionò e la protesta divampò coinvolgendo anche quei movimenti sindacali che normalmente accettano compromessi come certi pesci s’ingoiano l’esca con l’amo. Sempre in Canzonissima, mi pare la puntata appresso, ecco che va in scena un dialogo fra una “mugliera” sicula e un giornalista inviato dal continente. La donna è intenta ad avvolgere un lungo filo. Forse allude a una delle tre Parche, allegoria della vita e della morte. Ogni tanto si odono degli spari e qualche botto. Il giornalista chiede di che si tratti, e la donna risponde che forse, quello sparo, proviene dal fucile di qualche cacciatore solitario, ma poi si corregge: può darsi che sia anche quello che uccide un infame che si piglia la sentenza. Altro sparo, ed ecco che viene indicato un sindacalista che creava guai; un botto, ed è il salto in aria della casa di qualcuno che non ha pagato il pizzo e così via, fra spari e mitragliate si arriva al punto in cui il giornalista chiede: “Come mai all’istante hanno cessato di far botti?” e la donna risponde: “Sempre prima dell’ultimo sparo c’è un attimo di silenzio”. “E a chi andrà l’ultimo botto?” Chiede il cronista. E la donna risponde: “A chillu cchi fa troppe domande, cioè a te”. Sparo, il cronista cade riverso. Il peso e la forza di quella satira sfuggì ai censori. Era ritenuta troppo enigmatica per preoccuparsene, ma tutti gli spettatori, soprattutto a cominciare da quelli siciliani, capirono immediatamente che si trattava di discorsi sulla mafia e sui crimini che nell’isola si susseguivano a ripetizione (giudici, poliziotti e 70 sindacalisti uccisi in pochi anni). Si scandalizzarono i politici, a cominciare dai ministri del governo. Perfino i liberali con il loro segretario in capo, Malagodi, presero una posizione durissima, insultandoci e ricordandoci che già altri comici avevano sbattuto tempo addietro la faccia sulle tavole del palcoscenico, per aver esagerato nell’ironizzare sul potere; ma chi erano questi comici colpiti con tanta ferocia? Ed ecco che il segretario dei liberali fa il nome di un certo Mattia Perollo, comico di Trieste che si prese una fucilata da un fanatico fascista durante una rappresentazione. Il cardinale arcivescovo di Palermo fece pure un’omelia contro quello sconcio in grottesco; urlò: “La mafia non esiste, o ad ogni modo non si tratta di un’organizzazione criminale che voglia sostituirsi allo Stato, ma di normale delinquenza locale”. Ricevemmo lettere minatorie in gran numero, scritte addirittura col sangue e biglietti sui quali era disegnata una lupara. Le minacce arrivarono anche su nostro figlio Jacopo, che aveva sei anni, al punto che per tutto l’anno scolastico dovemmo vederlo andare a scuola protetto da due poliziotti. Il direttore in capo della Rai, all’unisono con il dottor Bernabei, quando ci rifiutammo, in seguito alle loro censure, di salire sul palcoscenico per recitare il nulla (giacchè ogni sketch di satira ci era stato cancellato) ci avvertì: “Voi rischiate molto, più di quanto non crediate. A parte una denuncia per turbativa dell’ordine pubblico, per la quale rischiate l’arresto immediato, sappiate che per anni e anni non vi capiterà più di poter calcare le scene della televisione…” e fu proprio così. Fummo letteralmente cancellati dallo schermo televisivo per la bellezza di sedici anni, il che significa, nel mondo dello spettacolo, essere messi al bando per una vita. Ci restava solo il teatro, ma le varie piazze gestite da comuni dalla Dc come Bergamo, Vicenza, Padova, Rovigo, eccetera erano per noi assolutamente proibite. Ma il nostro gesto aveva mosso una notevole solidarietà da parte dei nostri colleghi, che avevano capito che bisognava rispondere non a branco, contro la prepotenza dei gestori culturali di Stato, ma era giocoforza organizzarsi con la creazione di un autentico sindacato degli attori e dei tecnici. La sorpresa più straordinaria l’avemmo dal pubblico che, come rimontammo sulla scena con un nuovo spettacolo – si trattava di “/Isabella, tre caravelle e un cacciaballe/” – rispose al nostro apparire con uno slancio ed entusiasmo sconvolgenti. L’Odeon, teatro nel quale avevamo debuttato, era stato letteralmente preso d’assalto. Il botteghino dovette aprire le prenotazioni addirittura con dieci giorni di anticipo. La gente ci fermava per strada e ognuno ci dimostrava affetto e stima. Per di più la notizia della nostra vicenda era giunta anche all’estero, per cui ricevemmo visite da cronisti da tutta Europa, nonché inviti da alcuni teatri di Francia e d’Inghilterra perché debuttassimo da loro. Naturalmente la Rai ci fece causa, ma prevedendo il gesto, riuscimmo a superare in velocità l’ente pubblico e sporgemmo denuncia contro di loro con grande anticipo. Eravamo nei primi anni ’60, e quello era il tempo in cui esplodeva il grande miracolo economico dell’Italia… dappertutto crescevano case e palazzi come funghi, la produzione industriale era in forte rimonta e il grande successo della nostra economia aveva sorpreso tutti gli altri paesi dell’Europa; anche la coscienza civile e politica delle classi subalterne si trovava in forte crescita e ognuno era partecipe del fermento culturale che stava montando in tutti i settori, dal cinema alla letteratura al teatro. Uno degli argomenti di cui maggiormente si discuteva riguardava il ruolo dell’intellettuale nella società. Naturalmente c’era chi parlava di impegno politico, e in particolare se gli uomini di pensiero ed arte dovessero schierarsi per una causa o dovessero rimanere al di fuori d’ogni coinvolgimento, completamente autonomi e indipendenti da ogni gioco di potere. Fra l’altro c’era chi riprendeva l’antico tema dell’arte per l’arte alla ricerca della pura bellezza edonistica. Fu proprio per entrare a piedi giunti nel dibattito che scegliemmo il tema delle grandi scoperte, prima fra tutte quella che culminò con il viaggio di Colombo nelle Americhe. Ci siamo serviti come testo base del saggio del grande storico spagnolo Salvador De Madariaga e ci inserimmo come contrappunto dominante la repressione condotta dal Tribunale dell’Inquisizione in quell’epoca in tutta la penisola iberica. Lo spettacolo si apriva infatti con una processione d’auto da fè, dove si notava subito la presenza d’alcuni condannati per eresia, fra i quali in primo piano appariva un attore capocomico che veniva portato al patibolo poiché ritenuto colpevole d’aver messo in scena un testo satirico che prendeva spunto dalla spedizione di Cristoforo Colombo, con relativa strage di selvaggi rei di credere in divinità estranee alla fede cristiana. Oltretutto nel testo opera presunta di Fernando de Rojas si trattava della grande diaspora di ebrei che venivano spogliati dei propri beni allo scopo di rimpinguare le casse dissanguate dello Stato. Il condannato spera nel sopraggiungere seppur in extremis della grazia concessa dal re. Quasi a mo’ di beffa gli viene ingiunto di recitare insieme alla sua compagnia, che finora lo ha seguito in prossimità del patibolo, l’opera che gli ha causato la condanna, cioè la vita di Cristobal Colon, il tutto direttamente sul palco del supplizio. Pur di prender tempo l’attore accetta: il palco delle esecuzioni si trasformerà in palcoscenico e di volta in volta diventerà nave, con tanto d’alberi e vele, cattedrale e trono sul quale siederanno il re e la regina contornati dai giudici dell’Inquisizione. Con questo espediente è logico che tutta la vicenda riceverà una spinta paradossale straordinaria. Più che di personaggi, quindi, si tratterà di maschere: re, ammiragli e regine appariranno in tutta la loro vis comica deformante. Cristoforo Colombo verrà interpretato dall’attore condannato, quindi le vite dei due personaggi saranno costrette a una sintonia quasi metafisica. E così scopriremo se il grande navigatore è maggiormente interessato alla scienza o agli affari e le cariche di potere; se dimostra pietà per i selvaggi fatti schiavi o piuttosto ha interesse a trarne utile nella tratta; e soprattutto capiremo come mai alla fine dei suoi viaggi, che hanno procurato tanta ricchezza e prestigio alla corte spagnola, viene da questa condannato alle catene e posto in galera. Dicevamo che la turnè con quest’opera ci regalò un notevole successo, applausi ma anche contestazioni da parte di alcuni scalmanati reazionari, che male accettavano si svelassero alcune verità troppo aspre per alcuni palati. Fra l’altro, la commedia satirica era sostenuta da canti carichi di esplicita ironia; un coro, eseguito da otto uomini d’ordine esaltava l’odio razziale e l’intolleranza come aspetti del tutto positivi di una società. La prima strofa diceva: “Ogni tanto fa un certo piacere/ il poter bastonare qualcuno, il poter legalmente sfogare/ il livor di sentirsi nessuno/ su, urliamo, copriam di pernacchie/ Questa razza di bestie in ginocchio/ su pestiamoli senza pietà./ Oh che grande invenzione il nemico/ un nemico che sia disarmato/ ringraziam chi ce l’ha procurato/ umiliato e per giunta marchiato”. Ognuno può ben capire che si tratta di versi, ahimè, di una attualità sconcertante. È facile intuire che questo fosse uno dei momenti dello spettacolo che in qualcuno poteva maggiormente produrre forte indignazione e rabbia, tant’è che una sera, all’uscita del teatro Valle di Roma, fummo aggrediti da una squadra di fascisti che ci tirò addosso ogni lordura. Poi giacchè noi si era reagito, eccoli fuggire come di regola. In quegli anni, una compagnia di Barcellona – mi pare si chiamassero i Comedians – tentò di mettere in scena la satira su Colon. La Spagna era ancora sotto il regime di Franco. La compagnia riuscì anche ad eseguire la prova generale. Alla fine della prova gli attori furono tutti arrestati e portati in carcere, compreso il suggeritore. Chi guarda oggi la televisione italiana probabilmente non crederà che solo fino a una ventina di anni fa le donne vestivano in modo poco vistoso, le ballerine portavano il calzamaglia per non mettere in mostra le gambe nude e il linguaggio doveva essere controllatissimo: parole come amante, parto, vizio, verginità, talamo, alcova, amplesso erano assolutamente vietate. E vietatissime erano espressioni come "membro del parlamento" o "in seno alla commissione". Figuriamoci le parolacce!, Scrive Roberto Tartaglione. Negli ultimi anni le censure collegate al linguaggio, al comportamento, alla morale, al sesso e all'esibizione del nudo sono praticamente scomparse. Resta invece (e forse aumenta pericolosamente) la censura (e l'autocensura) collegata alla politica. Vediamo una rapida carrellata degli episodi censori più famosi dei cinquant'anni di televisione italiana. 

Nel 1954 il varietà "La piazzetta" viene sospeso: la ballerina Alba Arnova porta un calzamaglia così aderente che sembra nuda. Scandalo! Il primo caso di censura "storica" riguarda però la coppia di comici Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi: in una popolare trasmissione dal titolo Un, due, tre, i due prendono in giro il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi che, durante una serata di gala con il Presidente francese Charles de Gaulle, si era seduto male su una sedia e era caduto per terra. L'umorismo sullo scivolone presidenziale non piace al mondo politico di allora e il varietà viene sospeso. Siamo nel 1959.

Nel 1960 viene allontanato dalla televisione il presentatore Enzo Tortora: in una sua trasmissione l'imitatore Alighiero Noschese aveva scherzato su Amintore Fanfani, potente uomo della Democrazia Cristiana. Tortora rientrerà in televisione solo dieci anni dopo. Un clamoroso caso di censura riguarda Dario Fo (premio Nobel per il teatro nel 1997): insieme a Franca Rame, nel 1962, è conduttore e autore dei testi del varietà Canzonissima, probabilmente la più famosa trasmissione della televisione italiana di tutti gli Anni Sessanta. Le sue scenette sulla mafia e sulle fabbriche (in particolare quella che parla di incidenti sul lavoro) non piacciono ai vertici della RAI. I due sono costretti ad abbandonare la trasmissione. Dario Fo ritornerà in video soltanto nel 1977 con il suo famoso spettacolo Mistero Buffo: anche questa volta suscita scandalo e da allora le sue presenze sugli schermi della televisione sono stati pochissime. Ancora oggi, nonostante il Nobel vinto nel 1997, ha qualche difficoltà a portare in giro le sue opere nei teatri italiani.

Nel 1974 in Italia c'è il referendum sul divorzio. Durante lo sceneggiato televisivo David Copperfield viene censurato l'audio di una frase detta da un vecchio signore alla sua giovane moglie. La frase tagliata è: "Se vuoi ti concedo il divorzio, non mi oppongo!" Nel 1980 è Roberto Benigni (premio Oscar per il film La vita è bella del 1998) a incorrere nelle ire dei vertici Rai: durante un Festival di Sanremo dice scherzosamente e affettuosamente Woytilaccio, riferito a Papa Woytila, Giovanni Paolo II. L'espressione, tipicamente toscana e comunque non offensiva, viene però ritenuta assolutamente irrispettosa. 

Nel 1984, durante la trasmissione musicale Blitz, programma della Rai condotto da Stella Pende, a Leopoldo Mastelloni scappa una bestemmia. Condannato per "turpiloquio" viene cacciato dal video e il suo "esilio" dura ancora oggi.Beppe Grillo viene allontanato dalla televisione nel 1986. Durante un programma attacca duramente i socialisti (racconta che quando Craxi era andato in Cina accompagnato da decine di compagni di partito, Claudio Martelli, il suo vice, gli ha domandato: "Ma se sono tutti socialisti, a chi rubano?"). Tutto questo alcuni anni prima che lo scandalo di "Tangentopoli" mettesse fuori gioco l'intero partito socialista che poi sparirà dalla geografia politica italiana. Fatto è che l'attacco di Beppe Grillo provoca la sua espulsione dalla tv e, ancora oggi, il popolare comico si esibisce quasi esclusivamente nei teatri senza poter rientrare negli schermi televisivi.

Nello stesso 1986 uno sketch del trio comico Marchesini-Lopez-Solenghi provoca quasi un incidente diplomatico: i tre prendono in giro addirittura l'Ayatholla Khomeini. L'Iran-air chiude i voli per l'Italia e a Tehran ci sono seri problemi per l'Ambasciata e per l'Istituto Italiano di Cultura, uno dei pochissimi centri culturali stranieri ancora aperti nella capitale persiana. In breve l'incidente si chiude e i tre comici riprenderanno a lavorare per la televisione senza problemi. Il resto è storia contemporanea: le censure politiche negli ultimi due anni sono più numerose di tutte quelle degli anni precedenti.

Nel 2001 il Presidente del Consiglio italiano Berlusconi dichiara pubblicamente che i giornalisti Enzo Biagi e Michele Santoro, insieme con il comico Daniele Luttazzi "fanno una televisione criminale". Immediatamente tutti e tre vengono allontanati dalla tv e le loro trasmissioni sono sospese.

Il programma satirico Blob, nel 2002, prevede quattro trasmissioni speciali sul Presidente del Consiglio: vanno in onda le prime tre puntate e la quarta viene annullata. Nel 2003 - dopo la prima puntata - viene sospesa la trasmissione Raiot, di Sabina Guzzanti: la satira contro il Presidente del Consiglio e il governo di centro-destra è giudicata troppo forte. Nello stesso anno viene impedito al comico Paolo Rossi di presentare in televisione un brano teatrale tratto da un discorso di Pericle. Il pezzo, che è di 2500 anni fa, sembra attaccare troppo direttamente il Presidente del Consiglio italiano. Questo il pericolosissimo testo:"Qui ad Atene noi facciamo così. Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi per questo è detto democrazia. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private. Ma in nessun caso si occupa delle pubbliche faccende per risolvere le sue questioni private. Qui ad Atene noi facciamo così, ci è stato insegnato a rispettare i magistrati e c'è stato insegnato a rispettare le leggi, anche quelle leggi non scritte la cui sanzione risiede soltanto nell'universale sentimento di ciò che è giusto e di buon senso. La nostra città è aperta ed è per questo che noi non cacciamo mai uno straniero. Qui ad Atene noi facciamo così" .

Niente nudi, sangue e fasci Così la censura spegneva i film. La religione, la politica, il sesso e la violenza: ecco tutte le scene vietate nel nostro Paese in cento anni di (assurdi) divieti cinematografici, scrive Cinzia Romani su "Il Giornale”. Finalmente conquistiamo un profilo internazionale con la divulgazione elettronica del nostro pregiato patrimonio cinematografico. Qualcosa che il mondo ci invidia e che giaceva sepolto dall'incuria e la burocrazia. Il film di Totò "Gli onorevoli" (1963) di Corbucci andò nei cinema dopo che le parole "culo" e "rincoglionito" furono sostituite con "popò" e "rimbambito". Arriva Cinecensura. 100 anni di revisione cinematografica italiana (dal 12 disponibile in Rete: cinecensura.com), mostra online della Cineteca Nazionale e del Ministero dei Beni e le attività culturali, progettata dagli studiosi di cinema Pier Luigi Raffaelli e Tatti Sanguineti, che dopo anni di trappismo d'archivio, con la Cineteca di Bologna, l'Archivio Luce, il Museo del cinema di Torino e l'Archivio centrale di Stato, hanno messo su piattaforma digitale, a disposizione di tutti, un'esposizione davvero notevole. Che ha il pregio di appassionare non soltanto i cinefili, ma anche chi voglia conoscere il secolo trascorso, dal punto di vista del costume e dei cambiamenti sociali. Così profondi, sotto la lente dell'intrattenimento pop, che ci s'intenerisce, di fronte alle richieste dei prefetti di provincia, o degli spettatori più bigotti, tra i pruriginosi Quaranta e Cinquanta, lesti a invocare revisioni e controlli di frasi, cosce, allusioni. E giù lettere, carte da bollo di Lire 200, processi e ricorsi, dove Visconti e Pasolini, De Sica e Bertolucci vagano per tribunali, alla mercè di qualche massaia, pronta a scandalizzarsi per un particolare, che oggi fa sorridere. Il materiale a disposizione è sterminato: 300 lungometraggi, 90 cinegiornali o pubblicità, 86 cortometraggi, 28 manifesti censurati, filmati di tagli di 75 film, 15 cinegiornali e videointerviste. Il tutto divido in sale virtuali “a tema”: sesso, politica religione, violenza. Sesso: se nel 1938 il Trio Lescano cantava Ma le gambe, nei Cinquanta repressi gli arti inferiori femminili destano prurigini. Dove sta Zazà (1947) di Giorgio C. Simonelli ottiene il nulla osta, a patto si eliminino alcune scene. Le donne cristiane del Centro italiano femminile di Palermo scrivono al ministero degli Interni, sentendosi insultate dalla pubblicità «ad ogni angolo di strada, raffigurante una ballerina quasi nuda». La dignità morale del popolo pare vilipesa anche ne La famiglia Passaguai (1951) di Aldo Fabrizi, con la procace Rita Dover: foto-busta sotto accusa. Un kafkiano Segretariato della Moralità di Foligno inoltra formale denuncia alla Procura della Repubblica di Perugia, chiedendo l'immediato ritiro del materiale raffigurante «una persona in succintissimo e disgustoso atteggiamento,con una bottiglia in mano e in posizione quanto mai provocante in cabina da bagno». Oggi che si fa sesso per strada, chi pensa alle cabine? Ma è Ultimo tango a Parigi (1972) di Bertolucci il film-simbolo della guerra tra censura e libertà espressiva. Denunciato e condannato “al rogo” per la scena in cui «il protagonista, utilizzando del burro, possiede contro natura la ragazza». Vani i tagli per 9,80 metri di pellicola... Certi fatti hanno perso capacità offensiva, se pensiamo che in Terza liceo (1954) di Luciano Emmer, vietato ai minori di 16 anni, un prof. si stranisce, scoprendo nel libro di un'allieva «Anita nuda con i baffi»: per la versione tv, via la sequenza. Tacendo di Nino Manfredi, una condanna penale per essere apparso «in mutande, con i pantaloni in mano» nel film a episodi Le bambole (1965). Sequestri e denunce aprono la strada al cinema a luci rosse, nei '60 e '70 affollati di pellicole vietate ai minori. «Scopate e fellatio entrano così in modo surrettizio», spiega Sanguineti. Politica. C'è sempre qualcuno che si sente diffamato. Così sparisce Tragica alba a Dongo (1951) di Vittorio Crucillà, redattore di Omnibus, che mai avrà il nulla osta per il film. Frutto della collaborazione tra Comune di Dongo, partigiani e volontari della guerra di Liberazione, il film ritrae Mussolini e Claretta Petacci, visti di spalle, durante la loro fuga, cattura e fucilazione. Materia scottante, che per l'onorevole Andreotti «può ingenerare all'estero errati e dannosi apprezzamenti sul nostro Paese». La diffida della famiglia Mussolini, verso la casa produttrice, metterà una pietra tombale su quei 1040 metri di docufilm, che per Crucillà, «umile regista e soggettista», implorante udienza ad Andreotti, doveva «preparare la rinascita dell'Italia democratica». Ce n'è pure per Togliatti è ritornato (1948) di Lizzani, stoppato per le immagini d'una festa dell'Unità al Foro Italico: potevano «determinare perturbamento dell'ordine pubblico». Peccato che sia una canaglia (1954) di Alessandro Blasetti è bloccato perché un maresciallo «si esprime con espressioni dialettali e grottesche»...Religione. Nei Cinquanta, i preti spopolano al cinema. Anche perché sono 5.900 le sale parrocchiali, dove censura di Stato e revisione cattolica controllano l'orientamento delle masse. Così non si contano i processi intentati da associazioni cattoliche. A finire nel tritafilm, Viridiana (1961) di Buñuel; La dolce vita (1960) di Fellini e Ro.Go.Pa.G (1963), film a episodi, che suscitò accanimento giudiziario nei confronti dell'episodio La ricotta di Pasolini: «È sempre un rischio violare il mistero che circonda ogni uomo», scriveva la Pontificia Università Gregoriana al produttore, Alfredo Bini. Adesso, certi misteri non lo sono più.

Censura cinematografica. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La censura cinematografica è il mezzo attraverso il quale una autorità attua il controllo preventivo di un'opera cinematografica, autorizzando o negando la sua proiezione in pubblico, o limitandone la visione ad un pubblico adulto. Lo Stato si è sempre riservato la possibilità di intervenire sui contenuti di rappresentazioni pubbliche, offensivi alla morale e al buon costume o pericolosi per l'ordine pubblico, ancora prima della nascita del cinematografo. Risale tuttavia al 1913 la prima legge che introduceva un vero e proprio intervento censorio sulle proiezioni, allo scopo di impedire la rappresentazione di spettacoli osceni o impressionanti o contrari alla decenza, al decoro, all'ordine pubblico, al prestigio delle istituzioni e delle autorità. Il successivo regolamento elencava una lunga serie di divieti e trasferiva il potere di intervento dalle autorità locali di pubblica sicurezza al Ministero dell'Interno. Questi, dopo il giudizio espresso da un revisore, rilasciava il nulla osta, eventualmente eliminando alcune parti della pellicola giudicate non idonee alla proiezione. Era prevista comunque la possibilità di un secondo grado di giudizio, al quale poteva essere sottoposta la pellicola se giudicata in primo grado non idonea. Nel 1920 un Regio Decreto istituì una vera e propria commissione, composta anche da soggetti esterni alle istituzioni: ne facevano parte, oltre a due funzionari di pubblica sicurezza, un magistrato, un educatore o un rappresentante di associazioni umanitarie, una madre di famiglia, un esperto di arte o di letteratura e un pubblicista. Con questo decreto si prevedeva anche che il copione del film venisse preventivamente sottoposto alla commissione prima dell'inizio delle riprese. Il regime fascista confermò le disposizioni precedenti, intuendo fin dall'inizio le potenzialità del cinema come mezzo di comunicazione e utilizzandolo spesso a fini di propaganda politica. Il controllo, prima accentrato presso il ministero dell'Interno, venne in seguito affidato al Ministero della Cultura popolare. Venne introdotta la possibilità di sottoporre a revisione ogni fase della realizzazione del film, quindi la possibilità anche di interrompere le riprese, se necessario, e venne istituito un nulla osta anche per le pellicole destinate alla proiezione all'estero, nulla osta che poteva essere negato se il film era ritenuto dannoso per il decoro e il prestigio della nazione o se poteva turbare i rapporti internazionali. Nel 1926 fu anche introdotta la tutela dei minori, con un decreto che consentiva il divieto della visione di alcuni film ai minori di 16 anni. Durante il ventennio, la censura venne "potenziata" sia in senso preventivo, sia per "istruire" le folle ai valori del regime, tanto che nel 1934 venne istituita una apposita Direzione generale per la cinematografia. Con l'avvento della repubblica, contrariamente a quanto si pensa, non vennero introdotte sostanziali modifiche, nonostante l'articolo 21 della Costituzione consentisse la libertà di stampa e di tutte le forme di espressione. Su pressioni soprattutto del mondo cattolico, venne anzi aggiunto il comma che sancisce il divieto degli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. Presso la Presidenza del Consiglio fu istituito un Ufficio centrale per la cinematografia, al quale confluivano i giudizi delle commissioni di primo e secondo grado, che in sostanza erano rimaste quelle del 1923, anche se leggermente variate nella loro composizione. Nel 1949 fu emanata una legge, presentata dall'allora sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti, che doveva sostenere e promuovere la crescita del cinema italiano e al contempo frenare l'avanzata dei film americani ma anche gli imbarazzanti "eccessi" del neorealismo. A seguito di questa norma, prima di poter ricevere finanziamenti pubblici, la sceneggiatura doveva essere approvata da una commissione statale. Inoltre se si riteneva che un film diffamava l'Italia poteva essere negata la licenza di esportazione, insomma era nata una sorta di censura preventiva. Nel 1962 venne approvata una nuova legge sulla Revisione dei film e dei lavori teatrali, tuttora in vigore: pur apportando alcuni cambiamenti, essa confermava il mantenimento di un sistema preventivo di censura e assoggettava al rilascio del nulla osta la proiezione pubblica dei film e la loro esportazione all'estero. In base a tale legge, il parere sul film viene dato da un'apposita Commissione di primo grado (e da una di secondo grado per i ricorsi), mentre il nulla osta è rilasciato dal Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Le Commissioni di censura, definite dalla legge "Commissioni per la revisione cinematografica", sono otto e fanno capo al Dipartimento dello Spettacolo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Ogni commissione è composta da un presidente (di solito un magistrato o un docente di diritto), due esponenti della categoria (produttori e distributori), due genitori in rappresentanza delle associazioni per i diritti dei minori, due esperti di cultura cinematografica, uno psicologo. Ad essi si affianca un esponente delle associazioni animaliste se nel film compaiono anche animali. Ad ognuna di queste otto commissioni sono assegnati dei film da visionare. Le commissioni possono approvare la diffusione del film per tutti o imporre un divieto ai minori. La casa distributrice dell’opera ha a disposizione 20 giorni per presentare appello, o per effettuare tagli e modifiche, di solito suggerite dalla commissione stessa, per rendere la pellicola adatta ad un pubblico di minori. Una volta accolto l’appello, la commissione visiona nuovamente il film e decide se confermare il divieto, abbassarlo dai 18 ai 14 anni oppure revocarlo definitivamente una volta accertata l’eliminazione delle scene suggerite. In caso di ulteriore rifiuto, è possibile il ricorso al TAR. L'autore o il produttore del film può chiedere eventualmente di essere ascoltato dalla commissione, per "difendere" le ragioni del film e per evitare il rifiuto del nulla osta o il divieto della visione del film ai minori. Il rilascio del nulla osta condizionato dal divieto ai minori di anni 14 o 18 si ripercuote anche sullo sfruttamento televisivo del film. Infatti i film ai quali viene negato il nulla osta e quelli vietati ai minori degli anni 18 non possono essere trasmessi in televisione, mentre i film vietati ai minori degli anni 14 possono essere trasmessi solo in determinate fasce orarie, regolate dalla successiva Legge 203 del 1995, per cui la trasmissione di film che contengano immagini di sesso o di violenza tali da poter incidere negativamente sulla sensibilità dei minori, è ammessa (...) solo fra le 23 e le 7. Talvolta i distributori e i produttori anticipano le probabili richieste delle Commissioni, presentando alla revisione pellicole già ridotte nelle parti che condurrebbero ad un divieto per i minori. Oggi, vista la soppressione del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, le sue funzioni sono state delegate, dal 1998, al nuovo Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Sempre nel 1998 veniva abrogato l'art. 11, rimuovendo quindi la censura dalle opere teatrali. A luglio 2007 il disegno di legge Modifiche alla legge 21 aprile 1962, n.161, in tema di revisione cinematografica, è stato approvato dal Consiglio dei ministri. Esso cancella la censura preventiva nei film, ma introduce nuovi paletti per la visione di film e cartoni: i produttori di programmi, film, cartoni dovranno autocertificare se il loro prodotto è per tutti, o deve essere vietato ai minori di 18, 14 o 10 anni (quest'ultimo divieto introdotto appositamente con questa legge), oppure affidarsi ad un'apposita Commissione di classificazione dei film per la tutela dei minori istituita presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali che esprimerà un parere sulla classificazione. Nel caso la classificazione autocertificata non sia poi considerata consona, sono previste sanzioni amministrative fino a 100.000 euro e l'arresto fino a sei mesi. Oltre alla censura totale, dagli anni trenta fino agli anni novanta in Italia è stata in voga un'altra forma di censura, quella dei tagli mirati. In pratica si usava tagliare le parti di pellicola che non si voleva venissero mostrate, permettendo tuttavia di mandare in visione il film così mutilato.

La censura ed il cinema. Una torbida storia di censura, autori seviziati e pellicole passate al tritacarne. Leggi censorie. Si intende di seguito presentare una breve carrellata delle normative che hanno interessato l’industria cinematografica dal 1913 al dopoguerra, per arrivare poi alla normativa vigente ( Legge 161 del 21 aprile 1962).

20 febbraio 1913 Il presidente del Consiglio Giolitti dirama ai prefetti una circolare che colpisce “le rappresentazioni dei famosi atti di sangue, di adulteri, di rapine, di altri delitti” e i film che “rendono odiosi i rappresentanti della pubblica forza e simpatici i rei; gli ignobili eccitamenti al sensualismo (…), ed altri film da cui scaturisce un eccitamento all’odio tra le classi sociali ovvero di offesa al decoro nazionale”.

Legge 25 giugno 1913, n. 785 Il primo provvedimento legislativo registrato in materia di censura autorizza “il governo del Re ad esercitare la vigilanza sulla produzione delle pellicole cinematografiche, prodotte all’interno o importate dall’estero”.

Il regolamento esecutivo della legge (Regio decreto 31 maggio 1914, n. 532) è di grande importanza, perché introduce quella casistica di argomenti suscettibili di rientrare nell’ambito della censura che verrà ripresa fedelmente, adattata e ampliata, non solo nel periodo fascista ma anche in età repubblicana.

Obiettivo della legge è vietare al pubblico la visione di: “spettacoli offensivi della morale, del buon costume, della pubblica decenza e dei privati cittadini; spettacoli contrari alla reputazione e al decoro nazionale o all’ordine pubblico, ovvero che possano turbare i buoni rapporti internazionali; spettacoli offensivi del decoro e del prestigio delle istituzioni e autorità pubbliche, dei funzionari e degli agenti della forza pubblica; scene truci, ripugnanti o di crudeltà, anche se a danno di animali; delitti o suicidi impressionanti e in generale azioni perverse o fatti che possano essere scuola o incentivo al delitto, ovvero turbare gli animi o eccitare al male”. La legge accenna anche alla questione della lingua straniera: “I titoli, i sottotitoli e le scritture (…) debbono essere in corretta lingua italiana. Possono tuttavia essere espressi anche in lingua straniera, purché riprodotti fedelmente e correttamente anche in lingua italiana”. La censura sui film è esercitata dal ministro dell’Interno, cui spetta concedere o negare il nulla osta “in conformità al giudizio del revisore” (ed eventualmente imporre una nuova revisione a film già muniti di nulla osta). Sono previsti due gradi di giudizio per la revisione delle pellicole: in primo grado il revisore è un funzionario della Direzione Generale della Pubblica Sicurezza o un commissario di polizia, in secondo grado una commissione composta dal vice-direttore generale e da due capi divisione della Direzione Generale della P.S.

Il R.d. 9 ottobre 1919, n. 1953 introduce il controllo preventivo sul “copione o scenario”: perché una pellicola possa accedere al procedimento di revisione, prima dell’inizio delle riprese il soggetto deve essere “in massima riconosciuto rappresentabile” dalla censura. Nella pratica, tuttavia, il copione viene sempre presentato alla commissione di primo grado insieme al film finito: il controllo preventivo sarà applicato con rigore solo a partire dal 1935.

R.d. 22 aprile 1920, n. 531 (a firma del ministro dell’Interno F. S. Nitti). Anche la revisione di primo grado è affidata a una commissione, che non ha più una natura solo repressiva ma si allarga ad altri soggetti, seppur sempre di nomina ministeriale: oltre a due funzionari della Pubblica Sicurezza, “un magistrato, una madre di famiglia, un membro da scegliersi fra educatori e rappresentanti di associazioni umanitarie che si propongono la protezione morale del popolo e della gioventù, una persona competente in materia artistica e letteraria e un pubblicista”. Alla casistica censoria si aggiungono l’offesa al “pudore”, l’offesa al “Regio esercito e alla Regia armata”, “l’apologia di un fatto che la legge prevede come reato” e “le operazioni chirurgiche e i fenomeni ipnotici e medianici”.

R.d. 24 settembre 1923, n. 3287. La composizione delle commissioni di revisione viene trasformata in senso rigidamente burocratico. Quella di primo grado si riduce a “singoli funzionari di prima categoria dell’Amministrazione dell’Interno appartenenti alla Direzione Generale della Pubblica Sicurezza”, ma viene ripristinata un anno dopo (R.d. 18 settembre 1924, n. 1682) e conta tre membri: un funzionario di polizia, un magistrato e una madre di famiglia. In quella di secondo grado o di appello, che rimane di sette membri, l’educatore è sostituito con un professore e la “persona competente in materia artistica e letteraria” è prima eliminata e poi reintegrata. L’elenco delle scene da proibire riprende fedelmente quello del 1920 (a sua volta ricalcato su quello del 1914), con l’aggiunta di una sola frase sulle “scene, fatti e soggetti” che “incitino all’odio fra le varie classi sociali”, tuttavia già presente nella circolare del 1913. È stabilita un’apposita revisione per le pellicole destinate all’esportazione: sono da vietare quelle che possano, tra l’altro, “ingenerare, all’estero, errati o dannosi apprezzamenti sul nostro paese”.

Il R.d. 6 novembre 1926, n. 1848 introduce una prima forma specifica di tutela dei minori: è consentito vietare la visione dei film ai minori di anni 16, pur senza alcuna indicazione sui motivi del possibile divieto. Un precedente si ritrova nella l. 10 dicembre 1925n. 2277, art. 22: “La commissione a cui spetta di autorizzare gli spettacoli cinematografici deciderà a quali di essi possano assistere i fanciulli e adolescenti dell’uno e dell’altro sesso”, che verrà applicata con un divieto ai minori di anni 15.

L. 16 giugno 1927, n. 1121 Tra i parametri di valutazione di un’opera in sede di censura rientra anche la qualità artistica: un film può essere vietato quando non presenti “sufficienti requisiti di dignità artistica così nella trama del soggetto, come nella esecuzione tecnica”.

R.d. 9 aprile 1928, L. 24 giugno 1929, L. 18 giugno 1931 Aumenta progressivamente la politicizzazione delle commissioni di revisione. Sia in quelle di primo che di secondo grado, entrano rappresentanti del Partito Nazionale Fascista e dei ministeri dell’Educazione Nazionale, delle Corporazioni, delle Colonie e della Guerra (gli ultimi due competenti solo per copioni e pellicole di carattere “militare o coloniale”). La presenza di rappresentanti dell’Istituto Nazionale LUCE e dell’Ente nazionale per la cinematografia, introdotta nel 1929, dura solo due anni: la legge più restrittiva del ’31 riduce di nuovo il numero dei censori abolendo anche le persone “competenti in materia artistica, letteraria e tecnica cinematografica” nominate dal Ministero dell’Educazione.

Il R.d. 28 settembre 1934, n. 1506 trasferisce la responsabilità amministrativa della censura, non solo cinematografica, dal Ministero dell’Interno al nuovo Sottosegretariato di Stato per la Stampa e la Propaganda (trasformato un anno dopo in Ministero, rinominato nel 1937 Ministero della Cultura Popolare). Come sezione del Sottosegretariato nasce anche la Direzione generale della cinematografia, che riunisce le competenze sul cinema prima suddivise fra i vari ministeri ed è affidata a Luigi Freddi, protagonista indiscusso della politica cinematografica italiana e convinto sostenitore del rafforzamento del ruolo della censura, che d’ora in poi non si limiterà a compiti di mero controllo ma sarà anche attiva, “ispiratrice”, propositiva. Tra le competenze della Direzione generale c’è infatti quella di esaminare e revisionare i soggetti dei film di produzione nazionale: comincia l’applicazione rigorosa del principio della censura preventiva, già formulato nel 1919.

La l. 10 gennaio 1935, n. 65, conversione del decreto precedente,uniforma la composizione delle commissioni di primo grado e di appello fissando per entrambe a cinque il numero di membri: tre in rappresentanza dei ministeri dell’Interno, delle Corporazioni e della Guerra, uno del Partito Nazionale Fascista e uno dei GUF (Gruppi Universitari Fascisti), designato dal segretario del partito. Il processo di assoggettamento al potere politico è completo: gli ultimi ad essere esclusi sono il magistrato e la madre di famiglia. La presidenza spetta per legge a un funzionario del Sottosegretariato per la Stampa e la Propaganda nelle commissioni di primo grado, direttamente al Sottosegretario o per delega al Direttore generale della cinematografia in quelle di appello.

L. 29 maggio 1939, n. 926 A seguito della conquista dell’Etiopia, si aggiunge in entrambe le commissioni di controllo un rappresentante del Ministero dell’Africa Italiana, per stabilire “quali delle pellicole, sia nazionali che estere, possono essere destinate alla proiezione nell’Africa Italiana”.

Il R.d. 30 novembre 1939 ufficializza la censura preventiva: “Chiunque intenda produrre una pellicola cinematografica destinata alla rappresentazione nel Regno o all’esportazione, dovrà ottenere, prima di iniziarne la lavorazione, il nulla osta del Ministero della Cultura Popolare. Sono esenti dal nulla osta (…) le pellicole di attualità e i documenti eseguiti dall’Istituto Nazionale LUCE”.

L. 16 maggio 1947, n. 379 L’Assemblea costituente affida il controllo preventivo sui film al nuovo Ufficio centrale per la cinematografia, costituito presso la Presidenza del Consiglio, previo parere delle Commissioni di primo e secondo grado, nuovamente mutate nella loro composizione. Si elimina l’obbligo della revisione dei copioni, ma per il resto sono confermate tutte le disposizioni contenute nella legge del 1923, compresa la casistica delle scene da proibire.

L’art. 21, comma VI, della Costituzione recita: “Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”.

La l. 29 dicembre 1949, n. 958 non apporta nessuna innovazione in materia. La necessità di un aggiornamento della disciplina si realizzerà solo con la legge 161/1962, che in ogni caso, nonostante le novità, manterrà il sistema della censura preventiva.

(fonti: italiataglia.it  e P. Caretti, Diritto pubblico dell’informazione, Bologna, Il Mulino, 1994).

Andreotti e il cinema, dalla censura di Stato al maligno "Il Divo", scrive “Notizie Tiscali”. Quando la televisione non c'era ancora, e i politici non litigavano per la presidenza della commissione di Vigilanza Rai, un sottosegretario di appena una trentina d'anni vigilava sul cinema italiano, allora ritenuto un potente mezzo di formazione delle coscienze dei cittadini. Tra il luglio del 1951 e il luglio del 1953, Giulio Andreotti, nel settimo e ottavo governo De Gasperi, aveva il delicato compito di occuparsi di tutto il settore dello spettacolo. Luci e ombre caratterizzano l'operato di quel suo primo incarico governativo. L'allora sottosegretario, per dirne una, aveva obbligato le produzioni americane a versare nelle casse dello Stato italiano una percentuale degli utili del botteghino. La tassa su Hollywood serviva per finanziare il cinema tricolore, e qui cominciavano i guai. Per accedere ai contributi, bisognava passare attraverso il giudizio di commissioni e burocrati di nomina governativa: e così succedeva che la saga di Peppone e Don Camillo ricevesse dieci volte di più di un film di Vittorio De Sica. Il fatto è che, al giovane sottosegretario, il neorealismo proprio non piaceva, perché insisteva troppo sugli aspetti tragici dell'Italia del dopoguerra. Secondo la vulgata, Andreotti avrebbe espresso il suo astio nei confronti dei neorealisti con la celebre battuta (sempre smentita) "i panni sporchi si lavano in famiglia". Se l'autenticità della frase è dubbia, viene però dalla penna di Andreotti un articolo per "Il Popolo" contro "Umberto D.", un film di Vittorio De Sica che racconta la storia di un pensionato ridotto alla miseria: "Se nel mondo si sarà indotti, erroneamente, a ritenere che quella di Umberto D. é l'Italia della metà del XX secolo - scriveva Andreotti - De Sica avrà reso un pessimo servigio alla patria, che è la patria di don Bosco, di Forlanini e di una progredita legislazione". Il film di De Sica, come ha denunciato recentemente il figlio Manuel, ancora oggi non può essere trasmesso in Tv in prima serata, perché fu bollato dalla commissione censura (della quale Andreotti faceva parte) come "disfattista". Dietro la posizione di Andreotti c'era l'insofferenza del Vaticano per la lontananza della cinematografia italiana dai valori della tradizione cattolica. "La verità - scrisse Andreotti a monsignor Montini, il futuro Paolo VI - è che la gran parte dei registi, dei produttori e dei soggettisti non proviene dalle nostre file né condivide con noi le essenziali convinzioni religiose". Lo stesso Andreotti, nei suoi diari, racconta che papa Pio XII gli telefonava per protestare contro questa o quella scena scabrosa vista in un film. Una volta Papa Pacelli lo chiamò perché in una copertina della Settimana Incom Illustrata si vedeva un'attrice che, scendendo dalla macchina, mostrava le gambe un po' sopra le ginocchia. Il Vaticano non transigeva e Andreotti non risparmiava energie per raddrizzare le storture. Largamente sua era la normativa contro l'oscenità e "tutto ciò che può turbare l'adolescenza" (ma anche un certo numero di esponenti della sinistra, tra i quali Pietro Ingrao, votarono a favore). Anni dopo, quando la sua stella era all'apogeo, Andreotti accettò di interpretare sé stesso nel film di Alberto Sordi "Il tassinaro". A bordo del taxi di Sordi, tra le strade di una Roma dei primi anni '80, Andreotti chiacchierava con il conducente di calcio e politica, probabilmente convinto che la Dc avrebbe governato l'Italia per altri 50 anni. Passati altri 20 e più anni, con la prescrizione al processo per mafia alle spalle, Andreotti si è ritrovato protagonista di un film che lo presentava come il simbolo del "lato oscuro" della politica italiana. Di fronte a "Il Divo" di Paolo Sorrentino, il flemmatico Andreotti è sbottato: "E' cattivo, é maligno, è una mascalzonata", disse il giorno della prima. Poi però tornò a essere andreottiano: "Ho esagerato, le mascalzonate sono ben altre. Questa la cancello".

BERLINGUERISMO. I MITI DELLA SINISTRA.

Enrico Berlinguer, l'ultimo leader. Enrico Berlinguer nacque a Sassari il 25 maggio del 1922 figlio di Mario Berlinguer, un avvocato repubblicano, antifascista e vicino alla massoneria, come molti intellettuali laici dell'epoca, discendente da una nobile famiglia catalana stabilitasi in Sardegna all'epoca della dominazione aragonese, e di Maria Loriga. La famiglia portava i titoli nobiliari di Cavaliere, Nobile, con trattamento di Don e di Donna per concessione il 29 marzo 1777 a Giovanni e Angelo Ignazio da Vittorio Amedeo III Re di Sardegna. Nel dopoguerra, Mario Berlinguer fu parlamentare socialista. Enrico crebbe quindi in un ambiente culturalmente assai evoluto (il nonno, suo omonimo, era stato il fondatore del giornale La Nuova Sardegna, e aveva avuto contatti con Garibaldi e Mazzini) ed ebbe occasione di profittare di relazioni familiari e politiche che influenzarono notevolmente la sua ideologia e la carriera politica successiva. Era parente di Francesco Cossiga (le rispettive madri erano cugine tra loro) – che fu presidente della Repubblica – ed entrambi erano parenti di Antonio Segni, anch'egli Capo di Stato. Condotti gli studi liceali classici presso il Liceo Azuni di Sassari, nel 1943 Berlinguer si iscrisse al Partito Comunista Italiano e ne organizzò la sezione sassarese, svolgendo un'intensa attività di propaganda. Nel gennaio del 1944 la fame spinse la popolazione a saccheggiare i forni della città e Berlinguer fu accusato di esserne stato uno degli istigatori. Fu quindi arrestato e trattenuto in carcere per tre mesi, dopo i quali fu prosciolto dalle accuse e liberato.

Berlinguerismo: un misto di filosofia da oratorio e di marxismo in caricatura, scrive Ishmael su “Italia Oggi”. 2014. Sono passati trent'anni dalla morte d'Enrico Berlinguer, quasi altrettanti dalla caduta del Muro di Berlino, ma l'ideologia berlingueriana, un misto di filosofia da oratorio e di marxismo in caricatura, continua a pesare sulla sinistra italiana come un incubo: la «diversità», la «questione morale», il «nuovo modello di sviluppo» e soprattutto l'incapacità «di pensare la democrazia nella sua realtà politica, affrancandosi dal mito comunista e togliattiano della democrazia progressiva», come scrive Claudia Mancina — ex comunista, deputata diesse negli anni novanta — nel suo nuovo libro, Berlinguer in questione (Laterza 2014, pp. 136, 12,00 euro, ebook 7,99 euro). Come tutti i leader del comunismo italiano, anche Berlinguer, l'ultimo dei grandi segretari generali, partecipava di due nature: la fedeltà al «campo socialista» e l'istinto politico di conservazione, che gli faceva preferire l'ovest all'est, la Nato all'Armata rossa, la democrazia parlamentare alla democrazia popolare. Ma «agli occhi dei comunisti», scrive sempre Mancina, «la democrazia vera non è quella formale ma quella sostanziale», una democrazia «che consiste nella mobilitazione delle masse, nel potere dei lavoratori nel luogo di lavoro, dei sindacati sulla politica economica, o perfino degli studenti nell'università o dei genitori nella scuola». Berlinguer, ai suoi tempi, stabilì con accenti pasoliniani che «l'Italia non avrebbe seguito le banali strade delle democrazie occidentali, nelle quali c'è alternanza di governo e a volte vince la destra, altre la sinistra. Troppo poco per questo paese così speciale, il paese del più grande partito comunista d'Occidente! A noi toccava invece superare il capitalismo e portare a maturazione piena la democrazia, cioè realizzare la mitica democrazia sostanziale». Caduto il Muro di Berlino, passata Tangentopoli, con Berlusconi sugli altari, «i postcomunisti non hanno fatto che oscillare tra ipotesi di riforma elettorale e costituzionale e difesa acritica della costituzione, fino alla favola della costituzione più bella del mondo». Quanto all'eredità berlingueriana, invece di restare patrimonio dei solo ex e post e vetero comunisti, è diventata patrimonio collettivo, come i mezzi di produzione socializzati della favola marxista. «Per la sua deriva moralistica», l'intervista sulla questione morale di Berlinguer «è oggi un testo sacro per gli antipolitici». È grazie a Berlinguer e al suo marxismo bacchettone che «ancora oggi si pensa che l'intransigenza sia una politica».

Le grandi firme di ieri e di oggi per raccontare il segretario del Pci. "L'Espresso" ha scelto di celebrarlo, a trent'anni dalla morte con un libro impostato su un doppio registro: una riflessione attuale e la riproposizione degli articoli a lui dedicati negli anni della sua segreteria, dal 1972 al 1984, scrive Loredana Bartoletti su “L’Espresso”. Berlinguer come se fosse appena successo. A trent'anni dalla morte, l'ultimo grande leader del Partito comunista è tornato di attualità sulla ribalta politica. Evocato dai palchi dei comizi elettorali per solleticare consensi in suo nome, celebrato con film, documentari, libri e ricordi vari. Certo c'è un anniversario importante - trent'anni appunto da quell'11 giugno 1984 - ma c'è anche l'omaggio, il rispetto e quasi la nostalgia per un politico che appare diverso dal panorama cui ci siamo abituati, quasi un alieno nella sua severità di tratto e di comportamento e in più un contemporaneo per quelle parole d'ordine, come la questione morale, che a decenni di distanza non hanno ancora trovato una risposta. Il ricordo di un politico diventato icona può però tendere a idealizzare, a semplificare, a minimizzare le difficoltà e gli ostacoli che quel leader e il suo progetto hanno dovuto affrontare. Anche per questo "l'Espresso" ha scelto di celebrare Berlinguer con un libro impostato su un doppio registro: una riflessione attuale e la riproposizione degli articoli dedicati al capo di Botteghe Oscure proprio negli anni della sua segreteria, dal 1972 al 1984. Nel volume si alternano così le grandi firme del nostro settimanale, quelle di oggi e quelle di ieri. I bilanci e i giudizi su Berlinguer che la distanza di tempo consente di tracciare con maggiore lucidità e le cronache dirette del suo agire politico, dove emergono i tormenti di Botteghe Oscure, i "processi" che il leader subì da parte dei suoi, il lungo scontro con Bettino Craxi, i colpi inferti dal terrorismo, il tormentato rapporto con l'Urss... Insomma la complessità dell'azione di un grande leader. Ma la lettura di quegli articoli di decenni fa consente anche di riflettere sul modo di fare informazione politica di allora. In parte diversa, più stretta al succedersi degli eventi che non ai retroscena, e in parte anticipatrice di modelli poi ampiamente copiati: curiosa, irriverente, capace di disegnare legami e collegamenti inediti. Molto "Espresso", se è consentito dirlo. Il libro "Berlinguer", che sarà dal 6 giugno nelle edicole, è aperto da un’introduzione del direttore dell’”Espresso”, Bruno Manfellotto che riflette sul "politico perbene", poi una intervista di Denise Pardo a Eugenio Scalfari, in cui il grande giornalista ripercorre la carriere politica di Berlinguer, commenta gli eventi di quegli anni ma racconta anche il rapporto personale che ebbe con il leader di Botteghe Oscure. Questione morale, compromesso storico ed eredità politica: Eugenio Scalfari parla del segretario del Pci. L'intervista di Denise Pardo. Poi Chiara Valentini ricostruisce gli anni giovanili di Berlinguer, dal primo arresto in Sardegna all’incontro con Togliatti fino alla scalata al vertice del partito. Quindi Paolo Franchi analizza la strategia del compromesso storico mentre Marco Damilano firma un intervento sull’eredità politica di Berlinguer. L’ampia sezione centrale del libro è poi dedicata agli articoli di ieri, con una carrellata di grandi pezzi e grandi firme tra cui Livio Zanetti, Nello Ajello, Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Gianni Corbi, Paolo Mieli, Lucio Colletti, Ernesto Galli della Loggia, Giampaolo Pansa. A chiudere una sezione “pop”, con le copertine che il settimanale ha dedicata a Berlinguer e una trentina di straordinarie tavole di Pericoli e Pirella, tutte con il leader politico come protagonista, più un quiz divertito e divertente su Berlinguer, apparso nel 1972 sull’”Espresso colore”.

San Berlinguer martire e apostolo. È in atto la costruzione di un Mito, l'invenzione di un Grande. Serve a nobilitare il comunismo passato. A deprecare il presente renziano, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. San Berlinguer, il Terzo Santo. Dopo i film, i libri, gli inserti, ora un largo Berlinguer al centro di Roma e la canonizzazione proclamata da Napolitano in un libro-intervista, Quando c'era Berlinguer, curato da Veltroni. È in atto la costruzione di un Mito, l'invenzione di un Grande. A cosa serve? A nobilitare il comunismo passato. A deprecare il presente renziano. A rianimare un partito spaesato. A cercare nel vintage un titolo di nobiltà. A rifarsi le labbra col silicone moralista. A lanciare qualcuno per il Quirinale. Berlinguer non aveva la statura di Togliatti e, quanto a svolte, fu più ardito Occhetto, seppur col favore dei muri crollati. Berlinguer era modesto, per lunghi anni allineato anche ai più sordidi eventi, mestamente comunista, non lasciò tracce importanti, si oppose alla socialdemocrazia e la storia gli dette torto, considerò il Partito come l'Assoluto. Fu una persona onesta, per bene, ma basta la sua decorosa mediocrità per farne un santo con relativa agiografia? In realtà, tramite la copiosa apologetica su di lui, si vuol celebrare il popolo di sinistra. Berlinguer è un pretesto narrativo per santificare gli eredi. L'industria del santino che abbina il leader del Pci a Papa Francesco (Scalfari dixit) è all'opera. Rischiamo un pantheon di fuffa, tra finti eroi e finti geni, finti grand'uomini e palloni gonfiati, sfornati dalla Ditta Tarocco che produce falsi d'autore. Il P.C. oggi si traduce con Politically Correct. Finite le sciagurate illusioni, la sinistra passò all'illusionismo.

La beatificazione di Berlinguer sempre fedele a Stalin, scrive Mario Cervi su “Il Giornale”. Un supplemento di 100 pagine dell'Unità, convegni e dibattiti, o fervidi elogi del mondo politico, gli applausi dei grillini: per i trent'anni dalla morte di Enrico Berlinguer il ricordo prende i connotati della venerazione se non della santificazione laica. Omaggi più che meritati se si riferiscono all'uomo. Che fu onesto, intelligente, riservato in un mondo di ciarlatani, gran lavoratore. Per dirlo in sintesi una persona per bene. Il culto per lui di chi ha nostalgia dal Partito (...) (...) comunista italiano e alimenta ancora speranze in fulgide sorti progressive della sinistra è non solo giustificato ma doveroso. Perché riguarda chi fu comunista nell'essenza e in tutte le implicazioni del termine. E lo restò sfidando i fatti e le e delusioni con la tenacia indomabile dei credenti. Gian Carlo Pajetta disse, con il sarcasmo d'obbligo, che «si iscrisse giovanissimo alla direzione del Pci». Lasciando con questo intendere che il ragazzo di buona famiglia borghese fosse stato agevolato nello scalare la Nomenklatura delle Botteghe Oscure. Un raccomandato. In effetti l'ascesa di Berlinguer ai vertici comunisti ebbe l'avallo di Palmiro Togliatti che ai compagni altolocati indirizzò un biglietto così concepito: «Questo è il compagno Berlinguer che viene dalla Sardegna. Utilizzatelo nella vostra organizzazione». In verità, pur con l'iniziale e potente spinta di Ercoli, la successione di Togliatti e di Longo gli spettava di diritto: per le sue qualità e per la sua ortodossia ideologica. Alla valanga di articoli di questi giorni ne aggiungo uno mio. Con l'ambizione di non voler offendere una memoria, ma anche di non aggiungermi ai gloria imperversanti. Il primo incarico di gran rilievo del ragazzo sardo fu la guida della Federazione giovanile comunista italiana. Il che gli dava accesso ai sommi uffici, compreso quello del sommo tra i sommi, il Migliore. Al rispetto delle gerarchie ci teneva molto. Gli era stato assegnato un segretario particolare, Mario Pirani, (ora editorialista di Repubblica), e s'era accorto che Pirani sfogliava prima di lui la mazzetta dei quotidiani. «Dice con piglio da dirigente - cito dalla biografia di Chiara Valentini - che il primo a sfogliarli vuole essere lui». Non era incline all'ironia e nemmeno alle confidenze. Aveva da poco compiuto i 24 anni - attingo di nuovo al saggio citato - quando andò per la prima volta in Unione Sovietica con una delegazione di giovani partigiani. Rimase estasiato. Ripeteva in ogni discorso che «la gioventù sovietica felice canta nelle piazze la sua canzone preferita, Com'è bello vivere nel Paese dei Soviet». Ammirava sconfinatamente Stalin che ebbe la fortuna - almeno lui la ritenne tale - di incontrare. Togliatti era il Maestro: da lui aveva mutuato il vezzo d'indirizzare bigliettini in inchiostro verde ai collaboratori. Alla fine del viaggio russo fece firmare dalla delegazione un documento unitario che esaltava le conquiste e le libertà dello stalinismo. Al ritorno a Roma ci fu chi ebbe l'audacia di chiedergli qualcosa sulle donne russe, su come si vestivano, su come si truccavano. La risposta può essere collocata nella casistica del fanatismo quasi delirante. «Nel Paese del socialismo le donne non hanno bisogno di nessun orpello per attrarre gli uomini. In Urss non ci sono donne. Ci sono compagne sovietiche». Sciocchezze d'un ventenne, si dirà. Invece quel ventenne non era per niente sciocco, era un apparatchik inflessibile che nella sostanza rimase tale fino all'ultimo, quando un malore lo uccise e Sandro Pertini presidente della Repubblica, tanto si agitò da dare l'impressione che protagonista del funerale fosse lui. Ebbe anche nell'abbigliamento e nel linguaggio tratti da asceta. In un suo volumetto Dietro la vetrina a Botteghe oscure, il vecchio militante Fidia Gambetti, messo a dirigere la biblioteca di Rinascita a Roma, così scrisse: «Da Bologna ritorna vincitore Berlinguer, unico e naturale successore di Togliatti e di Longo. Con il suo aspetto sofferente di sempre, più piegato che mai sotto gli sfuggenti colli del soprabito e della giacca. Se dovessi dare un giudizio non potrei che rispondere non lo conosco. Non ha mai messo piede in libreria. Il primo a comparire è il grande sconfitto, Napolitano, sereno e signore come sempre». Ho indugiato su questi aspetti marginali della vita di Berlinguer non per sminuirlo ma per collocarlo sul podio che gli spetta e che a mio avviso è quello d'un conformista preparato e anche illuminato, non quello degli innovatori. Fu preso a rimorchio dai cambiamenti, talvolta rassegnandosi a malincuore. Anche gli strappi che gli sono valsi inni d'ammirazione erano tutto sommato prudenti e inevitabili. Non si rese mai conto del baratro verso il quale il comunismo si stava avviando, o se si rese conto lo tenne per sé. Ha scritto Alfredo Reichlin nell'inserto dell'Unità: «È vero, noi non fummo liberaldemocratici. Non avevamo letto i libri dei politologi americani e a Botteghe Oscure del modello Westminster non si parlava». Concesso. Ma la straordinaria vittoria del capitalismo sul comunismo che già era nell'aria non derivava dalla genialità dei politologi, derivava dal disastro di un'utopia tirannica. Berlinguer non sarebbe stato un tiranno. Probabilmente dei tiranni in cui aveva fiducia sarebbe stato vittima. Dopo averli osannati. A Berlinguer viene accreditato l'aver posto la «questione morale». Credo fosse sincero nel metterla sul tappeto. Credo anche che con la sua condotta privata si sia dimostrato degno della battaglia contro la corruzione. Non lo fu come massimo dirigente del Pci foraggiato e mantenuto dall'Urss. Personalmente accredito a Enrico Berlinguer, senza distinguo, la scelta della fermezza dopo il sequestro di Aldo Moro e la strage della sua scorta. La scelta arrivò dopo un lungo flirtare del Pci con le frange eversive della sinistra. Ma fu una scelta decisa. Molti anche oggi spiegano che il negoziato con i terroristi assassini sarebbe stato la via migliore per salvare la vita del leader democristiano. Io ritengo che una trattativa svolta ignorando il sacrificio di cinque servitori dello Stato sarebbe stata ignobile.

Berlinguer, anatomia di una sconfitta. Il libro di Claudia Mancina analizza la criticamente l'attività del leader di Botteghe Oscure, scrive “Europa Quotidiano”. Claudia Mancina ha vissuto dall’interno i travagli del Pci e cerca in questo veloce ma denso volumetto (Berlinguer in questione, edito da Laterza, 2014) di sviluppare un bilancio critico molto argomentato della leadership di Enrico Berlinguer. Ne esce fuori un ritratto molto simile, quasi identico, a quello delle memorie sull’Italia dell’ex-ambasciatore francese Gilles Martinet, inviato a Roma nel 1981. Berlinguer appare «più umano, più autentico, più comunicativo» di Palmiro Togliatti, al punto che ciò «lo rese accetto anche a chi non avrebbe mai votato comunista», essendo peraltro alla guida di un partito che dopo il dissenso sulla Cecoslovacchia aveva espanso i suoi consensi nei ceti medi urbani, specie giovanili. Eppure, se quelle erano le premesse personali, il bilancio strettamente politico è quello di una sconfitta: al di là delle diverse strategie (dal compromesso storico alla regressione neo-identitaria successiva) Berlinguer elude l’unica possibile opzione, quella della trasformazione esplicita in una moderna forza inserita nel socialismo europeo, ossia dentro l’orizzonte dell’economia di mercato. Volendo mantenere un riferimento rivoluzionario (anche se i contenuti con cui esso si identifica si modificano, dall’ammirazione per l’Urss si passa a una sorta di diversità etica, di ripulsa morale per la società dei consumi lontana dall’apertura modernizzante del marxismo) ma al contempo anche delineare una prospettiva credibile di accesso al governo, la soluzione consiste nell’idea di farsi legittimare da un sistema di alleanze. Come, nonostante le differenze e gli accenti, la elude la prospettiva “comunista e riformista” rivendicata ancora qualche mese fa da Emanuele Macaluso nel suo ultimo libro, in alternativa all’opposta ricostruzione di Enrico Morando. In questo senso è la storia politica del Pci, come sostengono Mancina e Morando, ad essere tramontata come tale nel segno della sconfitta, al di là delle energie che essa ha liberato dopo quella sconfitta. Da qui il rapido declino che si manifesta subito dopo la sua scomparsa, che lascia in eredità il referendum sulla scala mobile, voluto non per ragioni di contenuto ma per difendere il potere di veto del proprio partito. Un’impostazione che si riflette sulle questioni elettorali e istituzionali dove paradossalmente un partito di sinistra, che dovrebbe essere in astratto preoccupato di garantire forza ai governi per riequilibrare le disuguaglianze sociali, finisce per difendere a lungo regole iper-garantistiche varate nel periodo della frattura verticale della Guerra fredda. Anche il Pci, insieme alle forze di maggioranza, contribuisce quindi attivamente all’esito catastrofico del primo sistema di partiti, che nel suo insieme, come nota Pietro Scoppola richiamato da Mancina, non riesce a uscire da quella sorta di grande coalizione anomala che era la solidarietà nazionale per giungere ad una fisiologica democrazia dell’alternanza europea, come avrebbe voluto Aldo Moro. Alla fine Mancina ci propone un paradosso: la personalità politica che più ha insistito per una continuità ideale con alcuni aspetti di Berlinguer, Walter Veltroni, è quella che si è più battuta per una trasformazione post-ideologica, per un nuovo centrosinistra a vocazione maggioritaria che non avesse bisogno di protesi centriste; viceversa la persona più critica con Berlinguer in nome di una visione realistica della politica, D’Alema, rivendicando orgogliosamente la continuità con la storia del Pci ha poi sempre voluto alleati centristi per accedere al governo. Alla fine, però, la mutazione molto netta del centrosinistra è arrivata, dando ragione alla frase di Aldo Moro che Mancina premette: «Perché qualcosa cambi, dobbiamo cambiare anche noi».

QUANDO IL CAPO ERA QUASI SACRO. Nel dicembre del 1977, all'indomani di una grande manifestazione di metalmeccanici, sulla prima pagina di Repubblica Giorgio Forattini disegnò il Segretario, o meglio il Segretario Generale del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer che adagiato in vestaglia su una poltrona sorbiva una tazza di tè incurante delle grida che gli giungevano dalla finestra di casa sua, scrive Filippo Ceccarelli su “Il Corriere della Sera”. Si trattava appunto di una vignetta. Senonché il giorno dopo lo storico ufficiale del Pci Paolo Spriano scrisse a Repubblica una sdegnatissima lettera chiedendo conto ai responsabili del misfatto: «Ma avete idea della vita di sacrificio, di passione rivoluzionaria, di tensione politica e morale di un dirigente comunista come Berlinguer?». Contro la caricatura prese posizione anche Trombadori e persino Fortebraccio, mentre Pajetta decretò che non faceva ridere. Nel rispondere a tutti, Eugenio Scalfari osservò che per i compagni Berlinguer era considerato «poco meno che l'Immacolata Concezione». Il richiamo dogmatico e dottrinario aiuta a comprendere in che modo quella carica fosse allora vissuta nel partito. Nell'immaginario comunista la figura del segretario non solo era per sua natura sottratta alla competizione, ma specialmente e letteralmente incarnava la Razionalità della Storia. Anche per questo un'atmosfera mistico-magico già aleggiava intorno a Togliatti, la cui guardia del corpo Armandino pretendeva che mangiasse ogni giorno un piatto di cervello perché doveva «pensare a tutti noi»; così come il suo medico personale, Spallone, si preoccupava anchea livello organizzativo della vita sessuale del Migliore per evitare «che la tensione affettiva, se contrastata, impedisse alla mente di Togliatti di ragionare con la lucidità che gli era propria e ai suoi nervi di essere meno saldi del consentito». E tuttavia con lo scorrere del tempo quest'aura al tempo stesso corporeae sacrale, venne meno e nel 1986 l'inserto satirico dell' Unità, Tango, raffigurò il povero Natta, allora in carica che ballava nudo al suono della fisarmonica di Craxi. Quest'ultimo ne fu piuttosto impressionato. Nessuno a via del Corso si sarebbe mai spinto a tale dileggio. Rispetto alla separatezza che persino nelle dislocazioni logistiche informava l'intangibile solitudine dei capi alle Botteghe Oscure, il vertice del Psi era da sempre più libero, provvisorio, litigioso e sgangherato. Il "Vecchio", cioè Nenni, era persona amabile e tollerante; e la guerra permanente fra Mancini e De Martino aveva finito per insediare una specie di rispettosa alternanza con tanto di stratificazioni. Craxi al contrario instaurò un cesarismo piuttosto prepotente, forse necessario alla guerra di corsa, ma di certo basato sulla paura e sul conformismo. Rimase segretario anche a Palazzo Chigi, lasciando che nel partito crescessero ambizioni e appetiti, cacicchi e ladroni. Del resto anche La Malfa senjor, Saragat, Malagodi e Almirante ebbero personalità così forti da oscurare sia avversari che re travicelli di Pri, Psdi, Plio Msi. Caso tutto diverso quello dei segretari della Dc. Qui occorrevano indispensabili requisiti, il primo dei quali era il favore delle gerarchie ecclesiastiche; il secondo imponeva una situazione coniugale regolare e il terzo una teorica indisponibilità al comando (« Domine non sum dignus ») temperata da spirito di servizio. Eletto primus inter pares, e tuttavia investito del maggior potere possibile, il segretario dc era in realtà in quel posto come garante del governo, delle alleanze, delle oligarchie, delle corporazioni, dei gruppi collaterali, dei territori, delle correnti, della tribù. Per cui ogni tanto veniva fatto secco ma non per sempre, un po' come succede nel Pd - ma con molta più fantasia e perizia.

SIAMO TUTTI PUTTANE.

E Gesù sposò Maddalena: non è Dan Brown, ma un codice del 570 d.C. Scritto in siriaco su pergamena sarà presentato domani alla British Library, scrive Vittorio Sabadin su “La Stampa”. Un altro tassello fortifica la ancora traballante tesi che Maria Maddalena fosse la moglie di Gesù e la madre dei suoi figli. Un libro scritto nel 570 in siriaco su pergamena, e ora custodito alla British Library, racconta una storia diversa da quella dei quattro Vangeli canonici, molto più vicina - come si è affrettata a ironizzare la Chiesa d’Inghilterra - al Codice da Vinci di Dan Brown. Ma il numero di antichi documenti che conferma questa tesi continua a crescere, e decine di seri studiosi vi si stanno dedicando senza pregiudizi. Domani la stessa British Library terrà una conferenza stampa, e si conosceranno altri dettagli. Il libro proviene da un monastero egizio ed era stato acquistato nel 1847 dal British Museum. Probabilmente si tratta di una traduzione dall’aramaico di un testo più antico. Redatto in 29 capitoli, racconta la storia di Joseph, un giovane molto noto all’epoca, conosciuto dall’imperatore Tiberio e dal faraone d’Egitto (forse Natakamani), che lo considerava figlio di Dio. A 20 anni Joseph va in sposo ad Aseneth, che gli dà due figli: Manasseh ed Ephraim. Simcha Jacobovici, giornalista investigativo israeliano che scrive anche sul New York Times, e Barrie Wilson, professore di ricerche religiose a Toronto, hanno studiato per sei anni il manoscritto e raccolto le loro deduzioni nel libro The Lost Gospel, il vangelo perduto.  In una delle prime pagine dell’antico testo il misterioso autore avverte che tutto quello che segue è scritto in un codice che va interpretato. I riferimenti cristiani contenuti nelle pagine sarebbero però così tanti che non è necessario essere Robert Langdon per capire che i nomi di Joseph e Aseneth nascondono quelli di Gesù e Maria Maddalena. Nel testo si narra che alla donna, dopo la morte del marito, viene somministrata l’eucarestia, «il pane e il calice della vita». Gli unici quattro Vangeli autorizzati dalla Chiesa dopo le riforme di Costantino non raccontano nulla della vita di Gesù tra la sua infanzia e l’età matura, un periodo nel quale, per un «rabbi», sarebbe stato obbligatorio sposarsi. Ma la storia di Joseph e Aseneth sarebbe raccontata anche in altri manoscritti, sopravvissuti alla sistematica distruzione dei Vangeli apocrifi solo grazie al fatto che celavano la vera identità dei due sposi. Anche il testo della British Library non sembra però sfuggito alla censura: alcune pagine sono state vistosamente strappate via. Due anni fa la docente di Harvard Karen L. King aveva annunciato la scoperta di un frammento di papiro in copto di uno di questi testi perduti, nel quale si legge: «E Gesù disse loro: mia moglie…». Ma secondo Jacobovici e Wilson basta anche solo scorrere i Vangeli di Marco, Luca, Matteo e Giovanni per convincersi che Maddalena aveva un ruolo di primissimo piano accanto a Gesù. Assiste alla crocifissione, alla sepoltura e alla scoperta della tomba vuota. Lava il corpo del Cristo, cosa consentita solo alle mogli o ad altri uomini, ed è la prima persona alla quale Gesù si rivolge dopo la resurrezione.  Il sentimento popolare, soprattutto in Francia, non ha avuto bisogno di aspettare Dan Brown per venerare Maria di Magdala come la seconda donna più importante del Cristianesimo dopo la Vergine Maria, nonostante papa Gregorio Magno l’avesse bollata nel 590 come una prostituta, commettendo un vistoso errore - forse meditato e voluto - di interpretazione dei testi canonici. Per secoli è stata ritratta dai grandi maestri, da Tiziano a Caravaggio a Canova, come una penitente afflitta dai suoi peccati: che sia stata o no la moglie di Gesù, era un destino che non meritava. 

Maria Maddalena. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Maria Maddalena o di Magdala è stata, secondo il Nuovo Testamento, una donna discepola di Gesù; è venerata come santa dalla Chiesa cattolica, che celebra la sua festa il 22 luglio. La sua figura viene descritta sia nel Nuovo Testamento che nei Vangeli apocrifi, ma non è citata in altre fonti. Il nome Maddalena deriva da Magdala, una piccola cittadina sulla sponda occidentale del Lago di Tiberiade, detto anche di Genezaret. Le narrazioni evangeliche ne delineano la figura attraverso pochi versi, facendoci constatare quanto ella fosse una delle più importanti e devote discepole di Gesù. Fu tra le poche a poter assistere alla crocifissione e, secondo alcuni vangeli, divenne la prima testimone oculare dell'avvenuta resurrezione. Maria Maddalena è menzionata nel Vangelo secondo Luca (8:2-3) come una delle donne che «assistevano Gesù con i loro beni». Secondo tale vangelo, esse erano spinte dalla gratitudine: proprio da Maria di Magdala «erano usciti sette demòni». Costoro finanziavano personalmente la missione itinerante del Maestro. Secondo la tradizione, era una della tre Marie che accompagnarono Gesù anche nel suo ultimo viaggio a Gerusalemme (Matteo 27:55; Marco 15:40-41; Luca 23:55-56), dove furono testimoni della crocifissione. Maria rimase presente anche alla morte e alla deposizione di Gesù nella tomba ad opera di Giuseppe di Arimatea. «Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Màgdala.» (Giovanni 19,25) Fu ancora lei, di primo mattino nel primo giorno della settimana, assieme a Salomè e Maria la madre di Giacomo il Minore, (Matteo 28:1 e Marco 16:1-2, oltre che nell'apocrifo Vangelo di Pietro 12), ad andare al sepolcro, portando unguenti per ungere la salma. Le donne trovarono il sepolcro vuoto ed ebbero una "visione di angeli" che annunciavano la risurrezione di Gesù (Mt 28:5). «Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro... Maria di Màgdala andò subito ad annunziare ai discepoli: «Ho visto il Signore» e anche ciò che le aveva detto.» (Giovanni 20,1;20,18) Maria Maddalena, divenuta così prima testimone della resurrezione, corse a raccontare quanto accaduto a Pietro e agli altri apostoli, (Giovanni 20:1-2), guadagnandosi l'appellativo di "apostolo agli apostoli". Ritornata immediatamente al sepolcro, si soffermò piangendo davanti alla porta della tomba. Qui il "Signore risorto" le apparve, ma in un primo momento non lo riconobbe. Solo quando venne chiamata per nome fu consapevole di trovarsi davanti Gesù Cristo in persona, e la sua risposta fu nel grido di gioia e devozione, "Rabbunì", cioè "maestro buono". Avrebbe voluto trattenerlo, ma Egli glielo proibì e le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre mio; ma va' dai miei fratelli e dì loro: Sto ascendendo al Padre mio e al Padre vostro, al Mio Dio e al vostro Dio» (Giovanni 20:17).

Identificazione di Maria Maddalena con la peccatrice penitente. La figura di Maria di Magdala è stata identificata per lungo tempo con altre figure di donna presenti nei vangeli: alcune tradizioni accostano la figura di Maria Maddalena a Maria di Betania, la sorella di Marta e del risorto Lazzaro (Lc 10:38-42 e Gv 11:1-45) e alla peccatrice che unge i piedi a Gesù a casa di Simone il Fariseo, probabilmente a Nain, in Galilea: «Ed, ecco, una donna in città, che era una peccatrice, quando lei seppe che Gesù sedeva nella casa dei Farisei, portò una scatola di unguento, e si levò in piedi ai suoi piedi dietro lui piangendo, e iniziò a lavare i suoi piedi, e li pulì con i capelli della sua testa, e baciò i suoi piedi, e li unse con l'unguento.» (Luca 7:36-50) L'accostamento avviene poiché entrambe le donne (per intendersi, Maria di Betania e la peccatrice) lavano i piedi al Cristo e gli ungono il capo con il profumo, nel caso di Maria di Betania, il fatto avviene a casa di Simone il lebbroso, a Betania, in Giudea (Gv 12:1-11 - Mt 26:6-13) e l'episodio della peccatrice avviene in casa di uno di cui si dice che era un Fariseo di nome Simone. L'ipotesi che si tratti di due distinte figure è sostenuta dai seguenti particolari: l'unzione dei piedi di Maria appare verso la fine della vita pubblica di Gesù, quella della peccatrice non è specificato; Non è assolutamente assodato che Maria di Betania e Maria Maddalena siano la stessa persona. A sostegno dell'ipotesi che si tratti invece della stessa figura si può invece ricordare che: nel caso di Maria, Gesù è il festeggiato di una cena in casa di Simone il lebbroso, nel caso della peccatrice Gesù è in casa di uno che si chiama Simone; è molto improbabile che per due volte in due luoghi differenti Gesù sia stato unto con una quantità di olio di nardo avente esattamente lo stesso valore (Mc 14:5 e Gv 12:5) e che per due volte questo abbia dato luogo alle stesse pesanti critiche da parte dei presenti. In altri casi gli evangelisti sono in disaccordo su tempi e luoghi di eventi (es. i due racconti della natività in Matteo e Luca, le differenze nel giorno della crocifissione tra Giovanni e i sinottici e altri ancora). Più di una volta il Nuovo Testamento mostra imbarazzo e reticenza nei confronti delle persone che hanno stretti legami con Gesù (es. l'improvvisa menzione della leadership di Giacomo, "il fratello del Signore" (Ga 1:19), negli Atti (At 12:17, At 15:13), non preceduta da alcuna spiegazione o introduzione pur essendo essa ampiamente attestata dai più importanti scrittori cristiani antichi, Origene, Eusebio, San Girolamo, Pseudo-Clemente e anche da non cristiani come Giuseppe Flavio. Il comprensibile imbarazzo degli evangelisti di fronte agli elementi che indichino l'accoglimento da parte di Gesù delle aspettative di regalità terrena su di lui appuntate dalla popolazione ebrea. L'unzione è, in tal senso, il più caratteristico di essi. Se anche il senso teologico dei due episodi è diverso in Giovanni rispetto ai sinottici, si deve ricordare che l'autore del quarto Vangelo mostra non di rado la tendenza a subordinare il racconto degli eventi a esigenze teologiche. Nel situare, p.es., a differenza dei sinottici, la morte di Gesù al momento del sacrificio pasquale, Giovanni tende ad asserire l'identificazione tra Gesù e la vittima del sacrificio. Ancora, nel fornire il particolare, unico rispetto ai sinottici, della ferita al costato da cui esce sangue e acqua, Giovanni allude alla natura kosher della vittima. In entrambi i casi le implicazioni teologiche dei particolari sono così evidenti da non poter essere ignorate nell'analisi delle discordanze tra Giovanni e i sinottici. Maria viene inoltre scambiata per l'adultera salvata da Gesù dalla lapidazione (come raccontato nella Pericope Adulterae) in Gv 8:1-11. In questo caso non ci viene tramandato nemmeno il nome della donna e l'identificazione probabilmente avviene solo per analogia con il caso precedente. L'accostamento tra Maria Maddalena e l'adultera redenta risale in realtà al 591, quando il papa Gregorio Magno, basandosi su alcune tradizioni orientali, in un suo sermone identificò le due figure. L'identificazione di Maria Maddalena con Maria di Betania o con la peccatrice è stata infine esplicitamente ridiscussa dalla Chiesa cattolica nel 1969 (dopo il Concilio Vaticano II). Tuttavia, era comune nell'esegesi medievale, e per antichissima tradizione anche oggi, tanto che la figura della Maddalena peccatrice fu inserita accanto a quella del Buon Ladrone nella sequenza del Dies irae (utilizzata nella liturgia cattolica tradizionale dei defunti): «Qui Mariam absolvisti et latronem exaudisti mihi quoque spem dedisti.» A seguito della revisione post-conciliare il testo della sequenza è stato ritoccato ma non è stato ritoccato nella cosiddetta: Messa in latino, che ancora lo mostra integro: «Peccatricem qui solvisti et latronem exaudisti mihi quoque spem dedisti.» La stessa identificazione è rifiutata dai protestanti. Invece, nel cosiddetto Vangelo di Maria Valtorta, di poco anteriore al Concilio Vaticano II, la figura di Maria Maddalena è chiaramente identificata con quella di Maria di Betania e la peccatrice pentita. A causa di queste sovrapposizioni tra le varie figure dei Vangeli, Maria Maddalena divenne un simbolo di pentimento e divenne patrona di varie istituzioni che si occupavano della gioventù femminile, come l'Ordine di Santa Maria Maddalena o le congregazioni delle maddalene di Lubań e Torino. Il suo nome fu anche usato per le Case Magdalene in Irlanda, conventi che ospitavano ragazze inviate dalle famiglie o dagli orfanotrofi: l'ultima case Magdalena in Irlanda è stata chiusa nel 1996. Tuttavia l'identificazione di Maria Maddalena con la prostituta rimane ancora viva nella tradizione popolare. Come già accennato, ad esempio, in vari film che narrano di Gesù, Maria Maddalena viene effettivamente identificata con una prostituta, come in Mel Gibson, La passione di Cristo e nel film ispirato al romanzo di Nikos Kazantzakis L'ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese.

Le lucciole a Roma? Le hanno portate i papi. Al tempo del Papa re a Roma c'era una quantità impressionante di prostitute, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. È curiosa l'idea che Ignazio Marino si è fatto di Roma e del suo compito di sindaco. Nessuno dei problemi veri che vive Roma lo sfiora realmente: in compenso si occupa d'incalzare governo e Parlamento sui gay e le prostitute. Incurante della Cassazione, dei prefetti e delle leggi, il sindaco de Roma insiste a occuparsi della sfera sessual-affettiva dei romani anziché di quella civica e urbana. E lottizza la città destinando alcune aree a sorbirsi i rom, con relativo aumento di furti, e altre a subire il racket di prostitute. È un modo generoso di mandare una città a puttane. L'idea ha spaccato l'opinione pubblica e ha diviso al loro interno sinistra e destra. In tema di puttane però, lasciate che io spezzi una lancia in favore del sindaco marziano: il modello di riferimento per la zona a luci rosse non è Amburgo, Amsterdam o Bangkok, ma è la Roma dei Papi. Al tempo del Papa re c'era infatti a Roma una quantità impressionante di prostitute, c'erano accorsati lupanari e strade apposite (una ha ancora il nome di un tempo, via delle zoccolette). Perché la prostituzione era considerata dai cattolici di mondo una valvola di sfogo per l'esuberanza maschile (cardinali inclusi) e per salvaguardare la durata dei matrimoni. Mejo 'na mignotta che n'amante diceva la morale papalina - bollata come cazzolicesimo, da licet, è permesso - e discendeva nientemeno che da S. Agostino e S. Tommaso. Insomma del quartiere a luci rosse o Mignottown possono lamentarsi tutti, a partire dai residenti, meno i preti e santa romanesca chiesa.

Storie di puttane: 10 libri che parlano del mestiere più antico del mondo, scrive Valeria Merlini su “Panorama”. Una vera e buona puttana non ama che il piacere (Anonimo, La Cauchoise, ou Mémoires d'une courtisane célèbre, 1784). La letteratura è colma di storie in cui le protagoniste sono “signore del piacere”. Per scelta, per fatalità o per sventura. Moderne, lontane dal nostro presente, incastonate in pezzi di storia ormai trascorsa. La parola “prostituzione” deriva dal latino "pro statuere" che significa mettere in mostra, esporre; nell'uso comune ha preso il significato di prestazione sessuale a scopo di lucro. È senza dubbio un mestiere praticato da migliaia di anni: una volta erano le cortigiane, ma anche le favorite, quindi semplici puttane, ora le escort, tutte a praticare quello meglio conosciuto come il mestiere più antico del mondo. Da Messalina a Veronica Franco, da Emma Hamilton alla Bella Otero. Senza andare così lontano nel tempo, qui di seguito troviamo una selezione dei migliori romanzi recenti le cui protagoniste raccontano la loro storia composta sempre e comunque da una clientela quanto mai varia (ed avariata).

Puttana di Nelly Arcan Gremese, 2014 – (192 pagine). Nella camera del grande edificio di Montréal in cui svolge la sua professione, una prostituta aspetta tra un cliente e l’altro. L’attesa si nutre di ricordi e i ricordi danno voce all’incalzante, impudica confessione con cui Cynthia – è il suo nome da puttana – si racconta ai lettori. Nella scrittura disperata, con lunghi periodi inframmezzati da virgole come sospiri, come gemiti di un coito, la giovane Nelly Arcan, morta suicida nel 2009, riversa tutto il suo disgusto, tutto lo squallore che la circonda, tutta la sua inquietudine per un’esistenza lasciata trascorrere mentre la morte aspetta dietro l’angolo.

La favorita di Leda Melluso Piemme, 2014 – (378 pagine). 1580. Isabella, che tutti chiamano "la Castigliana", non avrebbe mai lasciato la Spagna per trasferirsi a Palermo se non per amore. Peccato che l’uomo che le aveva promesso amore eterno si è poi rifugiato in un matrimonio di convenienza. Fu così che Isabella, rimasta sola e senza possibilità di sostentarsi, imboccò l’unica via possibile: divenne una cortigiana. Da cortigiana a concubina per fuggire al Tribunale dell’Inquisizione il passo fu breve.

Storia di una puttana di Adele Carrion Lite editions, 2013. Kris è una donna contemporanea. È molto bella, giovane e disinibita. Ama il sesso e non ha nessun pudore. Per questo e per amore dei soldi ha deciso di fare la prostituta. Vende il suo corpo a clienti di alto livello e non si tira mai indietro anche di fronte a richieste poco convenzionali. Nella sua vita così ben organizzata qualcosa però s'incrinerà e la costringerà a fare i conti con effetti collaterali non prevedibili.

Sette diavoli di Marco Archetti Giunti, 2013 – (192 pagine). Egle Petrillo ha dodici anni, perde i genitori durante la guerra e uno zio sconosciuto prende lei e il fratello che ha difficoltà di apprendimento con sé trascinando entrambi in un’altra città. Per lei, finita la seconda guerra mondiale, comincia la guerra personale. Fuggirà da quella casa, verrà inseguita, fuggirà ancora. Il vicolo la ingoierà e diventerà una prostituta, sarà allora Sette diavoli per tutti. Ma a quel punto ci saranno ancora molti conti da regolare. Il romanzo racconta la sua vendetta, la sua sfida mettendo Dio sotto accusa, il suo riscatto.

Selvaggia di Leonardo Belmonte Arduino Sacco editore, 2013 – (340 pagine). Primi anni del 1900. Un’epoca fatta di fatica, sudore, pane sazio di dolore, femmine silenziose, uomini senza onore, con altrettanti maschi, in attesa dell’onore. Un’epoca che dava poco spazio all’essere di donna, cui era consentito solo dare mute risposte a doloranti domande. Risposte silenziose, con un altrettanto cenno à capo basso, solo questo era concesso loro, alle decisioni prese, dell’essere maschile che imponeva lo zittire. Per la donna, assai penosa e dolorante era partorire una figlia femmina considerata senza alcun valore, sé non quello restante di un villan allargar di cosce.

Quasi mai di Daniel Sada Del Vecchio, 2013 – (448 pagine). La Seconda Guerra Mondiale è appena finita e Demetrio Sordo, un giovane agronomo di inconsistenti ambizioni è preso da una novità: il sesso a pagamento nei bordelli. Proprio in uno di questi, sviluppa una passione per Mireya: è lei l’unica prostituta che desidera, e per averla ogni giorno pagherà una tariffa extra e sarà costretto a chiedere un aumento di stipendio. In breve la sua vita sembra esaurirsi in questa relazione fisica. Fino a quando…

Due vite in vetrina di Martine & Louise Fokkens Vallardi, 2013 – (208 pagine). Martine e Louise Fokkens sono sorelle gemelle. Oggi hanno settant'anni, e per cinquanta si sono messe in vetrina nel Red Light District di Amsterdam. Abbandonata ogni illusione di una vita romantica, le due gemelle rifiutano di essere delle vittime e tengono sempre ben saldo in mano il timone della loro vita. Sono donne forti e, grazie a una notevole dose di ironia, riescono a vivere il mestiere più antico del mondo proprio così, come un mestiere come un altro. Dopo 355.000 clienti (stimati), oggi Martine e Louise, protagoniste anche del film- documentario “Meet the Fokkens”, non si prostituiscono più: colpa dell'artrite.

Come l’acqua sul fiore di loto di Hwang Sok-yong Einaudi, 2013 – (384 pagine). Lianhua, Fiore di Loto, è il nuovo nome di Shim Chong. A quindici anni, la giovane viene venduta dal padre a un ricco mercante cinese e inizia la sua carriera di concubina. Da cortigiana a geisha, da tenutaria di bordello, a moglie di un potente occidentale, la storia di un apprendistato erotico, e umano, in un paese ricco di contraddizioni.

Confessioni di una baby prostituta di Veronica Q Newton Compton, 2013 – (pagine). Veronica ha un passato scabroso. A soli quattordici anni, sconvolgendo all’improvviso la sua sobria esistenza, entra a far parte di un mondo estremo, fatto di sesso sfrenato, fiumi di alcol e montagne di droga. In brevissimo tempo, ribalta completamente tutte le regole che aveva seguito fino a quel momento. Quelle che dovrebbe rispettare ogni brava bambina cresciuta in una famiglia dell’alta borghesia romana. Ma Veronica è stanca di essere una brava bambina, e la sua famiglia, forse, non è poi così perfetta.

Trilocale di plastica di Petra Hůlová Baldini & Castoldi, 2013 – (192 pagine). Una prostituta trentenne esercita il suo mestiere con ferrea disciplina e finanche un pizzico d’orgoglio, lavorando alacremente alla propria crescita professionale per tenersi stretta la sua fetta di mercato. In questo ramo però si fa presto a invecchiare e allora diventa fondamentale «non puzzare e tenere d’occhio il peso». Teatro delle sue gesta è un trilocale in plastica – «quello che probabilmente qualcuno chiamerebbe bordello è per me un nido umano di calore pieno di angolini ricchi di sorprese nascoste» – e il catalogo è vario: triangoli, incontri a due o di gruppo o ancora numeri acrobatici che richiedono appositi attrezzi e travestimenti adeguati.

S. Valentino, l'esperimento sociale: rose alle prostitute. "C'è chi si ricorda dell'amore solo a San Valentino. E chi l'amore è costretto a farlo tutto l'anno, contro la sua volontà". Per questo Io Ti Maledico, specializzato in video virali, ha deciso di portare una rosa alle prostitute nel giorno della festa degli innamorati. Tra le ragazze in strada, stupite, spunta però un "protettore" che si scaglia contro il giovane protagonista del filmato (Maurizio Valente). L'uomo lo minaccia: "O fai sesso o te ne vai". E alla fine trascina via la prostituta.

Sono puttana e me ne vanto, scrive Laglasnost su “Al di Là del Buco”.

Mi hanno chiamata puttana. Perché gli ho sorriso quando mi diceva che avevo un bel culo, gli ho detto si senza aspettare troppo tempo, mi sono fatta toccare ovunque senza particolari impedimenti, gliel’ho preso in mano senza guanti sterilizzati da chirurgo e poi l’ho perfino messo in bocca e non ci eravamo ancora neppure presentati. Mi hanno chiamata troia perché mi è piaciuto, ed eravamo in un piccolo sgabuzzino ricavato dentro il pub, mi sono liberata di mutande, reggiseno, gli ho sbottonato il pantalone e mi sembrava gli piacesse, era felice, lui godeva e devo dire che godevo anch’io. Mi hanno chiamata sporca perché non ho tenuto a precisare i dettagli della mia intimità, gli ho solo detto “tiè, mettiti ‘sto preservativo” e poi ho sollevato l’anca e l’ho spinto dentro senza indugiare. E se ne avevo voglia non ho capito perché mai avrei dovuto rifiutare. L’unica cosa della quale avrei potuto lamentarmi era il fatto che è venuto troppo presto, era eccitato, c’era da capirlo, allora mi sono toccata e lui mi ha dato una mano, anzi la lingua, per fare arrivare pure me. Ma come, non lo fermi? Non gli dici niente? Non vuoi neppure avere un abbraccio, una parola dolce, qualcosa che possa dare l’illusione di un interesse differente? E dico no, non me ne frega niente. Mi è piaciuto. Dovessi mai incontrarlo un’altra volta può anche ricapitare. Se gli sta bene. Se mi sta bene. Ma al momento dirsi ciao e grazie dopo il sesso e continuare a trascorrere la serata come prima mi sembra la migliore cosa. Mi hanno chiamata troia perché secondo la mia amica mi sarei comportata come un maschio. E ho chiesto “un maschio gode quando scopa? e perché mai non posso farlo anch’io?“. Mi hanno chiamata puttana perché mi è piaciuto quello che non avrebbe mai dovuto piacermi. Anzi mi eccita, ancora, solo ripensarci. Perché sono fatta di carne e di libido e non c’è alcuna morale che possa convincermi del fatto che mi sono sbagliata. Mi hanno chiamata sporca perché avrei dovuto, come minimo, sperare che lui mi chiamasse il giorno dopo, a me che non gli ho neppure dato il numero di telefono, avrei dovuto sospirare, innamorarmi, immaginare di mettere su casa e fare mille figli con uno con il quale mi è solo piaciuto scopare. Mi hanno chiamata stronza quando è sembrato che per difendermi dalle accuse ho dato delle bacchettone e moraliste alle mie conoscenti, quelle che mi hanno vista entrare con quel tale dentro lo stanzino e poi mi hanno aspettata fuori. Una mi ha detto “ero preoccupata… pensavo ti stesse stuprando…“. Mi hanno chiamata troia perché avessi detto si trattava di uno stupro forse sarebbe stato meglio, avrei evitato di essere processata perché manco dell’aspirazione alla santità. E mi chiedevo se esiste regola che imponga alle donne di sentirsi violate se non rispettano le convenzioni sociali. Io mi ricordo ancora quelle mani strette, i colpi serrati, il caldo, l’odore, lo rifarei senza problemi, perché certe volte l’intesa scatta in un momento e di lui non so cosa mi ha colpito, forse la voce, forse. Ma se dopo il sesso non proclamo di essere una martire profondamente innamorata, se ben distinguo la chimica dal sentimento, allora sono un maschio, che per chi è un po’ specista diventa essere un “animale”, nel senso becero e deteriore di quel termine. Io troia, io puttana, io animale, io sporca. Perché in fondo c’è una mentalità che ci vuole un po’ così: stuprate, sofferenti e infelici o se felicemente scopanti dunque stigmatizzate. Al massimo sposate figlianti, senza eccessiva eccitazione per gli appuntamenti a letto. Ho fatto sesso consensuale con un tale che non me l’ha chiesta, io non gliel’ho chiesto, mi è piaciuto e poi non ci siamo mai più visti. Per la mia amica sono ancora quella che avrebbe avuto un trauma da piccola ché altrimenti sarei lì a fare la sentimentale con qualcuno. Mi ha triturato le ovaie con il mio presunto senso di solitudine, ché noi femmine saremmo diverse, che non è possibile che possa piacerci una cosa così, che per sentirsi realizzate per davvero le “donne”, e l’ha detta proprio così declamando teorie al plurale, avrebbero bisogno di sicurezza, stabilità, casa, famiglia, figli. Le ho detto “stai serena… a te forse non sarebbe piaciuto ma a me invece si“. Lo posso dire che se lei trombasse di più e avesse meno moralismi attaccati sulla pelle forse starebbe meglio e farebbe stare meglio pure me?

Perché vado a puttane, scrive Massimiliano Maccaus, per la rubrica Cattivi propositi in Facci un salto Contatti. Non è che accada solo per solitudine, e non è neanche roba da sfigati. Perché come in tutte le cose, anche nel sesso, entrano in gioco mille e mille variabili e generalizzare, o semplificare, mortifica ogni senso critico. Si va a puttane la prima volta per provare, per vedere come si fa, come riesca. Molti ragazzi s’iniziano così al rapporto sessuale, e non sono tutti brutti o sgorbi, o timidi, od obesi. Molti sono ragazzi normali, sì come te; sì, proprio come il tuo ragazzo. Proprio come tuo marito. Tuo padre. Tuo nonno, che fa incetta di pillole blu. Non chiederglielo, difficilmente te lo racconterà. Molti ragazzi s’iniziano così al rapporto sessuale, e non sono tutti brutti o sgorbi (…) Molti sono ragazzi normali, sì come te; sì, proprio come il tuo ragazzo. Proprio come tuo marito. Tuo padre. Tuo nonno. Perché il sesso è amore ma non solo, e dall’amore non è che possa separarsi, nella mente dell’uomo, ma è da esso distinto per propria natura. Un comparto stagno lo divide, e ad unirlo ai sentimenti non resta che l’immaginazione. La realtà è diversa. Perché nell’incontro con una prostituta mille cose possono essere eccitanti. Anche la stessa idea di piacergli, o di non piacergli affatto. Sì, perché non dimentichiamolo, il sesso è anche esercizio del potere, territorio consacrato ai muscoli e al sudore, alle prese animalesche, alle forzature, persino talvolta ai feticismi, alle perversioni, alla violenza. Che vale anche per le donne, a ruoli inversi, e spesso piace anche a chi la subisce. I marciapiedi delle metropoli ne son pieni, vedete? E che se ne vuol dedurre? E’ la domanda che genera l’offerta. Lezione zero di macroeconomia. Non si scappa. Se non avessero clienti, semplicemente ce ne sarebbero poche, e costerebbero di meno. E i padri i mariti e i fidanzati che bazzicano gli stessi marciapiedi, di giorno e di notte, tutti i giorni e tutte le notti, a caccia di mercanzia sono centinaia. Tra loro si conoscono pure, e si riconoscono a distanza. Impiegati comunali, politici, medici e vari professionisti. Carabinieri e vigili urbani. Senza distinzioni. Io tra quelli. Quanto vuoi? Di dove sei? Lo sai che sei carina? Cosa fai? E che volete che faccia. Si inizia sempre così, come fosse un’intervista. Poi si va. In auto, in hotel. Bocca e figa. Due botte e via. E la si pianti di dire che mettere in affitto il corpo mortifica la dignità delle donne. La prostituta esalta in sé l’esser donna, è la quintessenza della femmilità. Fa del piacere uno stile di vita, e sa donarsi come ogni donna dovrebbe saper fare. Il mestiere più antico del mondo è anche il più gratificante, e spesso pure il più remunerativo. Guadagnare e godere. Quale indegnità, quale umiliazione. Che poi non è vero che i papponi le trattano male. Sono datori di lavoro come gli altri, e devo ancora capire perché non è punibile chi sfrutta gli operai che costruiscono i palazzi a mani nude, e senza protezioni, mentre a mandar donne a farsi qualche sana scopata, con ogni precauzione del caso, si rischia la galera. Il mestiere più antico del mondo è anche il più gratificante, e pure il più remunerativo. Guadagnare e godere. A loro piace, ve lo dico io, e anche i gemiti spesso non son finti, che trovarsi un bell’uomo per mezz’ora fra le gambe spesso fa la differenza. Per questo vado a puttane quando posso, quando ne ho voglia, e quando le finanze lo consentono: io me la godo e a loro, sfruttate o meno, in fondo piace, perché sono donne, e alle donne piace l’uomo. Inoltre ho l’intima certezza, so, che in ogni contatto umano può esserci della magia, anche se è fatto nudo e crudo, anche e specie in questi casi, dove non c’è spazio per i misteri, dove la schiettezza e la sincerità sono padrone. Mentirai al tuo avvocato, ma non alla tua puttana. Perché l’intimità che può ricavarsi da un incontro tra sconosciuti va oltre e al di là d’ogni immaginazione. E poi vuoi mettere il piacere di provarne quante se ne vuole? Bionde, rosse, more, nordafricane, esteuropee, sudamericane. Un giro al luna park alla scoperta del pianeta donna, al prezzo d’un biglietto. Le prendi in affitto, e fai quello che vuoi, e dei suoi mal di testa non t’importerà un fico secco; come all’autonoleggio, solo che alla fine non devi rifare il pieno. Così la patonza gira. E poi ognuno per la sua strada. Questo è l’importante. Difatti non le pago perché vengano con me, ma per andarsene subito dopo. Perché non ti assillino di richieste, perché non ti telefonino, perché non abbiano altra pretesa che quei trenta, cinquanta o cento bigliettoni. Due botte e via, poi ognuno per la sua strada. A casa c’è mia moglie che m’aspetta, avrà già messo tavola.

Prostituzione senza moralismi bigotti (chi sono le sex workers), scrive “Stato Quotidiano”. A fine dello scorso gennaio 2012, la rivista telematica LucidaMente è andata on line con una decina di articoli aventi come tema centrale e comune denominatore l’“eros senza amore” e, in particolare, la prostituzione (ad esempio: Dal Brasile senza passione…; Quelle ragazze coi pupazzi di peluche; I fantasmi della strada; Escort, emblema del degrado sociale; La prostituzione? Va rifiutata dalle stesse donne; Le “Escort 25” cantate da Immanuel Casto; …Fino alla “cybersexual addiction”; Il “sexting” contagia anche gli italiani. Minorenni compresi). Le modalità della trattazione del tema. Intenzionale e ponderata era stata la scelta da un lato di non usare la parola “sesso” o “sessualità”, così come, d’altro canto, quella di non parlare di erotismo tout court, che sarebbe stato automaticamente collegato all’amore di coppia (miticamente inteso come “naturale” o “normale” dalla società attuale). Del resto, anche l’uso di termini come “trasgressivo” avrebbe fatto intendere che esistono regole “normali” e “trasgressioni” di tali “normalità”. Per un laico avrebbe significato porre dei paletti di intolleranza e di pregiudizio. Ancora, altra scelta “laica” è stata quella di lasciare ai redattori e ai collaboratori della rivista libertà di esprimere qualsiasi punto di vista, senza alcuna posizione precostituita. Insomma, tematica comune, opinioni libere. Le reazioni dei lettori. Innanzi tutto, diciamo che il numero speciale della rivista ha battuto ogni proprio precedente record di contatti e di articoli letti. Nella decina di giorni nei quali gli articoli sono stati on line si sono avute circa diecimila visualizzazioni da parte degli internauti. Molti i commenti, a favore e a sfavore dei contenuti degli articoli (ad esempio: Anche voi moralisti sul sesso?). Relativamente numerose anche le richieste di essere cancellati dalla mail list della newsletter (un 50% di utenti uomini e un 50% di utenti donne). Prima considerazione: la tematica affrontata interessa sempre molto. Seconda considerazione: ancora forte è la reazione irrazionale da parte di molti verso tali temi (la peste emozionale di cui parlava Wilhelm Reich?). Invece, l’unica modalità per trattare il tema della prostituzione è quella aperta, problematica, pragmatica. Insomma, laica. Chi sono le prostitute. Pertanto, partiamo dai dati ufficiali (relativi all’Italia). Secondo l’ultima indagine commissionata dalla Commissione Affari sociali della Camera, le prostitute – ma sarebbe meglio usare il termine anglosassone sex workers – operanti del nostro Paese sarebbero dalle 50.000 alle 70.000, di cui circa 25.000 immigrate. La massima concentrazione a Milano e Torino. Il 65% delle prostitute lavora in strada, il 29,1% in albergo, le rimanenti in casa. Il 94,2% delle prostitute sono donne, il 5% transessuali e lo 0,8% travestiti. Duemila sarebbero minorenni e più o meno lo stesso numero quelle ridotte in schiavitù e/o costrette a prostituirsi. Crolla, quindi, la leggenda volutamente divulgata da parte cattolica secondo la quale “quasi tutte le prostitute lo fanno perché costrette con violenza”. Secondo l’indagine citata, invece, sarebbero solo il 4-5% le prostitute che preferirebbero uscire da tale “mestiere”. Anche per le ricerche condotte da Parsec, Censis, Università di Trento, Fondazione Cesar, la percentuale di chi preferirebbe lavorare in altro ambito è molto bassa e si aggira intorno al 10%. Il perché è facile da intuire: è una professione molto redditizia, non più rischiosa di altre, meno umiliante e frustrante che fare la commessa o la badante o la operaia. Poi, in tempi di crisi economica e disoccupazione, non si può andare tanto per il sottile. Le tipologie delle sex workers. Impossibile tracciare un quadro univoco delle prostitute operanti in Italia. La molla: essenzialmente economica. Per nazionalità: italiane e rumene, ma anche brasiliane, cinesi, nigeriane, area ex Urss… Per età: giovani, ma anche quarantenni e oltre. Titolo di studio: dall’analfabetismo delle africane alle lauree delle russe. Prezzi: da poche decine di euro a migliaia di euro per una notte o un weekend, con una media di 50 euro a prestazione. Tipologie fisiche: bellissime e meno belle, alte e piccoline, vistose e insignificanti, raffinate e volgari. Tipologie psicologiche: sbrigative, brusche, frettolose, dolci, cordiali, umane, amichevoli, affettuose (e a volte si arriva al matrimonio col cliente). Servizi sessuali: dal coito in pochi secondi a cena e notte trascorse insieme, dall’erotismo spicciolo al sadomaso con dotazioni varie, dal rapporto genitale freddo a quello affettuoso e attento. Come viene vissuto il proprio mestiere: con vergogna, sensi di colpa, normalità, “professionalità”, ironia, giocosità, sfrontatezza. Nel complesso, un mondo variegato, sfaccettato, inclassificabile. Chi sono i clienti. E i clienti? Verrebbe da dire “tutti gli italiani” (anche se non troverete mai alcuno che lo ammetterà: in Italia nessuno “va a puttane”). Infatti, secondo uno studio commissionato nel 2007 dal Dipartimento Pari opportunità, risulta che i connazionali che hanno regolari frequentazioni con prostitute, sebbene con motivazioni, cadenze e modalità diversificate, sono 9 milioni! Se escludiamo donne, bambini, anziani, asessuati e qualche altra categoria, siamo quasi al 100% dei maschi italiani. Anche in questo caso, infinito lo sperpero delle tipologie. Per classe sociale, istruzione, cultura, gusti, età, tendenze, credi ideologici e religiosi. Ci sono quelli che vanno a prostitute perché “brutti”, perché hanno in testa fantasie “ridicole”, “sconvenienti”, inaccettabili da una donna “perbene”, perché vogliono stare con più donne contemporaneamente, perché vogliono “evadere” qualche volta al mese, perché sono anziani, perché la loro moglie non piace più, perché ne hanno abbastanza di donne oppressive e soffocanti, perché sono preti, perché non vogliono “perdere” tempo, perché è più “economico”, perché desiderano il corpo di una donna giovane e bella, perché si innamorano di una prostituta. Lo stereotipo “femminista” del maschio che vuole “umiliare” una donna non esiste, se non in rari casi psicopatologici. Davvero, di fronte alla “origine del mondo” (come chiamava la vagina nel suo dipinto Gustave Courbet), gli uomini son tutti uguali, fragili, in ginocchio. Considerazioni generali. Diamo per scontato che in un mondo migliore non dovrebbero esistere prostitute e clienti. Tuttavia, se guardiamo in faccia alla realtà, tale ipotetico “mondo migliore”, anche per questo ambito, parrebbe assomigliare più a Utopia che a una realtà possibile, in quanto dovrebbe esistere un pianeta di esseri tutti belli, tutti perfetti, tutti sessualmente “normali”, tutti che si innamorano del partner giusto, che ricambia a sua volta allo stesso modo… E, a questo punto, siamo arrivati più a una distopia nazistoide che a un’utopia… Più concretamente, crediamo che la prostituzione sia una fondamentale valvola di sfogo psicologica e sociale per quei clienti che avrebbero davvero grosse difficoltà a realizzare in qualche modo una propria vita sessuale (anziani, “brutti”, disabili, “fantasiosi”, “diversi”, ecc.). Se le prostitute non sono eroine, visto che sono in genere ben pagate, un qualche merito pur ce l’hanno. Permettono a molti una sessualità che, altrimenti, sarebbe loro negata. L’imbarazzo della politica italiana. Se la prostituzione è “quella piaga che la società ha reso tale”, l’adagio si attaglia perfettamente al Belpaese bigotto e intollerante e ai suoi politici vili e meschini. Nessuno dovrebbe passare la notte per strada, magari durante un gelido inverno. Ma la maggioranza dei nostri politici si gira dall’altra parte. Innanzi tutto, il centro cattolico, teocratico e filovaticano, per il quale la prostituzione è un “problema morale”. Per la destra, dopo il modello berlusconiano, tanto tutte le donne sono a pagamento. E la sinistra? Anche lì imbarazzo, prima di tutto per non perdere i voti di una popolazione che vorrebbe addirittura aumentare le pene per i reati connessi alla droga, come se non avessimo già le prigioni intasate di poveracci! E, poi, la realtà cozza con la visione puritana “progressista” e/o fanaticamente femminista, per non parlare del “politicamente corretto”: la nostra – si sa – è una sinistra perbenista e borghese, lontana dai problemi sociali. Così resta in vigore la legge Merlin che, nell’impianto e persino nel lessico (“meretricio”, “lenocinio”, “libertinaggio”!), resta legata un’Italia che non c’è più. Una legge che lascia ampi margini di discrezionalità, per non dire di arbitrio, a forze dell’ordine e magistrati. Ad esempio, il “reato” di “favoreggiamento della prostituzione” – che non esiste altrove –, a causa del quale, chiunque accompagni in auto una prostituta può essere sottoposto a un pesante procedimento penale. E, così, c’è scappato qualche suicidio di cliente “svergognato”. Pragmatismo e spirito laico. Eppure, se, una volta tanto, si guardasse all’esperienza degli altri Paesi, si potrebbero regolarizzare le sex workers operanti in Italia. Come per le droghe, se le prostitute fossero disciplinate dallo Stato, si darebbe un colpo mortale alle mafie e agli sfruttatori. E si potrebbero far pagare le tasse su un giro di miliardi all’anno, con grande beneficio per l’erario. La politica del pragmatismo, della razionalità, della “riduzione del danno”, piuttosto che la ricerca di un’utopia sociale – sia essa cattolica che “progressista – resta lontana, fuori dall’orizzonte politico. Meglio l’inferno in Terra. Tutti devono soffrire. In questo come negli altri casi: l’aborto va praticato dalle donne nella vergogna, gli uomini sono costretti a consumare squallidi rapporti sessuali in auto o in sporche camerette, gli omosessuali possono essere scherniti o peggio, gli immigrati sfruttati, i malati terminali, se non hanno la possibilità di recarsi all’estero, devono urlare di dolore. Un Paese ipocrita e vigliacco, che perseguita chi è debole. Una nazione insensibile, sotto la maschera del pietismo e della morale cattolicista.

Alba Parietti: "Per la sinistra sono sempre stata la puttana con cui girare la notte". La showgirl, in un'intervista per "Il Fatto Quotidiano", ha raccontato senza peli sulla lingua il suo rapporto con la politica e quando, nel 1992, rifiutò 9 miliardi offerti da Berlusconi, scrive “Today. E' un fiume in piena Alba Parietti quando racconta della sua vita, tra privato e carriera. 53 anni di aneddoti che la showgirl torinese ha ricordato in un'intervista per "Il Fatto Quotidiano". Da sempre simpatizzante di sinistra, la Parietti con gli anni ha avuto modo di guardare da vicino e toccare con mano la politica italiana: "Da un certo mondo sono stata sempre percepita e guardata come la puttana che porti in giro di notte e di giorno sei costretto a nascondere - ha spiegato - Negli anni ho capito quanto fossero snob e bigotti i presunti rappresentanti della sinistra italiana. Non è bastato neanche che rinunciassi ai nove miliardi che mi offriva Berlusconi. Non è cambiato niente. La verità è che non mi hanno perdonato di aver scaldato gli istinti più bassi degli intellettuali. Quelli perdevano la testa e i censori con la puzza sotto il naso insorgevano. Oggi Berlusconi e la sinistra governano insieme". E proprio su quei 9 miliardi rifiutati torna a parlare subito dopo con un po' di amaro in bocca: "Con Silvio Berlusconi fui molto antipatica. Un peccato. Lui, al contrario, da allora e negli anni a venire, con me fu simpaticissimo. Si prestò al tour della villa e nel castello incantato, al momento del dunque, fu generoso. A Mediaset però non andai. Dissi no, grazie. Adriano Galliani, presente all'incontro, era attonito. Non voleva credere che avessi dato un calcio alla fortuna". Oggi, forse, col senno di poi, Alba Parietti di quel "no" si è pentita, anche se la fortuna, lavorativamente parlando, in quel periodo è sempre stata dalla sua parte.

ALLARMI SIAM BIGOTTI! – C’ERA UNA VOLTA GIÒ STAJANO, “IL BORGHESE”, PINGITORE E NINO STRANO, OVVERO LA DESTRA LIBERTINA – INVECE ADESSO ABBIAMO GASPARRI CHE ATTACCA SUL “SESSO CONSENZIENTE” E LA RUSSA CHE INSULTA “UN CULATTONE”

I due episodi di Gasparri e La Russa, scrive Pietrangelo Buttafuoco su "Il Fatto Quotidiano", “confermano il contrappasso rispetto a ciò che fu la destra italiana, ricettacolo di libertini, dandy e maliarde (vulgo: puttane)”. Quando Almirante fece il baciamano al trans Stajano…Da je suis Charlie a je suis Ignazì il passo è breve. Se passa – come nella vignetta di Charlie Hebdo – l’idea di Padre, Figlio e Spirito Santo uniti in transustanziazione sodomitica, un omosessuale, oltretutto lanciato in un’intemerata all’incontro sulla famiglia, può mettere in conto di incontrare la santa teppa. Un filmato diffuso in rete mostra Ignazio La Russa al convegno sulla famiglia tradizionale organizzato dalla Regione Lombardia mentre, sull’onda di un chivalà, insulta il suddetto contestatore. Il dettaglio tutto sublime sta nel fatto che l’oltraggio, ripreso in video, viaggia sul labiale. Non si sente il roco ruggito. L’urto della maschia gioventù risulta cristallizzato nella moviola – cu lat to ne! – e l’incidente precipita nell’aita dell’ideologicamente corretto. Più che la blasfemia poté il sessismo, si dirà, ma la vicenda di La Russa suona dada rispetto allo sbrego di Maurizio Gasparri che, su twitter, incurante di ogni cautela istituzionale insulta le due rapite immaginandole consenzientI   – dunque, due puttane – nel sollazzare i propri rapitori. Il popolo della rete, al netto delle vampe contro Gasparri, ha reclamato una propria fetta di je suis Maurizì solo che gli estremi di un lapsus più che rivelatore, nei due episodi, confermano il contrappasso rispetto a ciò che fu la destra italiana, ricettacolo di libertini, dandy e maliarde (vulgo: puttane). In principio fu Giò Stajano, buonanima. Fu il primo travestito d’Italia, quindi il primo transessuale, deciso – negli anni della sua vecchiaia – a entrare in convento e così completare il quadretto di brava ragazza devota ai principi di Dio, Patria e Famiglia. Nipote di Achille Starace, segretario del partito fascista, Stajano si presentava alle prime all’Opera, a Roma, annunciata da un codazzo di paparazzi vogliosi di raggranellare scoop per poi far sbucare su Lo Specchio (il settimanale del gossip, diretto da Nelson Page) delle foto-notizie con didascalie tipo: “L’onorevole Andreotti in compagnia dell’invertito Giò”. Ebbene, una sera, a Caracalla, era il 1971, Giò tese un agguato a Giorgio Almirante. Il leader del Msi, galante, spiazzando tutti, la salutò con un perfetto baciamano. Per poi dirle: “Mi saluti la mamma”. In principio fu Stajano ma, nel frattempo, a destra, tutto quell’arroventarsi d’eros trovava il modo di esercitarsi anche nella sequenza sexy de Il Borghese – un settimanale che occupa un importante posto nella storia del giornalismo, fondato da Leo Longanesi – negli anni della direzione di Mario Tedeschi e Gianna Preda inserisce nella fascicolazione foto di nudi espliciti lasciando cadere, già negli anni ’50 del secolo scorso, le pecette della censura solitamente appiccicate su curve e seni procaci. Saranno i primi nudi a far capolino nei tinelli dell’Italia tutta Dio, Patria e Famiglia. Primi destinatari, i lettori della destra monarchica, missina e cattolica. Ninni Pingitore, futuro inventore del Bagaglino, il cabaret libertario della destra anarchica (una scena, quella, che il berlusconismo spegnerà per sempre), ancora una volta alzava il tiro esplorando i pruriti del costume italico da caporedattore del mensile Playmen. E fu al cinema, con Gualtiero Jacopetti, che la destra portò sul grande schermo più di un’inaudita crudezza e un’indiscussa novità di linguaggio. Con “Mondo Cane”, con “Africa Addio”, le pellicole di Jacopetti, attese dal pubblico sull’onda dello scandalo ma sempre eseguite – il regista non licenziava copione che non fosse letto da Indro Montanelli, il suo unico riferimento – con la maestria di chi il gusto se l’era formato alla scuola della disobbedienza. La stessa di Mario Castellacci, autore della canzone di rabbia e di popolo “Le donne non ci vogliono più bene (perché portiamo la camicia nera)”. Un contrappasso, dunque, e La Russa e Gasparri non dimenticano di sicuro la carovana degna di Pedro Almodovar, tutta di coloratissimi trans, al seguito di Nino Strano. Esteta, mecenate delle arti (educato all’arte da Franco Zeffirelli) già senatore di Catania – prima del Msi, poi An – Strano, spiritoso come nessuno, è stato sempre in prima fila a cavar diritti dall’eccentrica estetica del fascismo etneo. Libertino, libertario e dandy in ogni contesto. Perfino quando si avventurò in una scenataccia – i lettori la ricorderanno, quando inghiottì la mortadella in Senato, alla caduta del Governo Prodi – trovandosi poi nel gorgo di una chiassosa contestazione, Strano sentì qualcuno gridargli qualcosa. A Fabio Granata, che era vicino a lui, chiese: “Che cosa mi stanno dicendo, Pinocchio?”. Granata lo rassicurò: “No, Nino, no. Non dicono Pinocchio, ti stanno dicendo fi-noc-chi-o”. Perfetta, la risposta di Strano: “Pinocchio proprio, no. Bugiardo non lo sono mai stato!”. Più che Collodi poté l’ortofrutto. E fu tutto un coro: Je suis Ninò.

1. ALLA FACCIA DEI BIGOTTI, SEMPRE PIÙ ITALIANE VANNO A PROSTITUIRSI IN SVIZZERA - 2. TRA I CANTONI, LA PROSTITUZIONE È UN’ATTIVITÀ ECONOMICA TUTELATA DALLA COSTITUZIONE FEDERALE: CHI VUOLE “BATTERE” DEVE REGISTRARE ALLA POLIZIA LA SUA PRESENZA SUL TERRITORIO, DOPODICHÉ OTTIENE UN PERMESSO DI CINQUE ANNI - 3. IN TICINO SI CONTANO 600 PROSTITUTE E, NEGLI ULTIMI TRE ANNI, BOOM DI ITALIANE - 4. TRA LORO DIVERSE FRONTALIERE: OGNI GIORNO VANNO, FANNO VENIRE E VENGONO - 5. LA LEGA NORD, ARCHIVIATA LA PADANIA LIBERA VUOLE LA PATATA LIBERA: RACCOLTA FIRME PER UN REFERENDUM PER ABOLIRE LA LEGGE MERLIN E TORNARE ALLE CASE CHIUSE - 6. IL GESTORE DI UN “MOTEL PER ADULTI” IN SVIZZERA: “MOLTI DEI BEN PENSANTI CONTRO CUI MI SONO SCONTRATO IN PUBBLICO POI LI HO RITROVATI NEL MIO CLUB” -

1 - REGOLE, TASSE E SICUREZZA. IL POLITICO TICINESE: «COSÌ SI EVITA IL MERCATO NERO» di Gp.r. per il "Corriere della Sera". Abolizione (parziale) della legge Merlin e, di fatto, via libera alle case chiuse. È questo l'obiettivo della campagna referendaria promossa dalla Lega Nord. Al di là della scelta di lanciare il tema nel periodo elettorale, il percorso individuato non è soltanto quello dei banchetti per la raccolta delle firme dei cittadini, ma - soprattutto - quello istituzionale. La settimana scorsa, infatti, il Consiglio regionale della Lombardia ha approvato (con un solo voto di margine) la proposta di referendum presentata dal gruppo del Carroccio. Oltre alle storiche, aspre divergenze culturali sul tema della prostituzione, al Pirellone il dibattito politico è stato aspro e lacerante anche all'interno della stessa maggioranza di centrodestra. Gli alfaniani del Nuovo centrodestra, infatti, sono rimasti inamovibili nel dire no al referendum, e in aula il testo è passato per un soffio grazie al voto del Movimento 5 Stelle. Adesso, perché la richiesta di consultazione popolare sia valida, la Costituzione prevede che venga condivisa da almeno altri quattro Consigli regionali. E, puntuale, la Lega stessa ha già avviato lo stesso iter anche in Veneto, dove giovedì scorso la commissione Sanità ha dato il primo via libera.

2 - IN SVIZZERA, DOVE PROSTITUIRSI È LEGALE QUELLE ITALIANE FRONTALIERE DEL SESSO di Chiara Maffioletti per il "Corriere della Sera". Il parcheggio non è pieno. Sulle auto - tutte dignitose ma nessuna di grossa cilindrata - sistemate a lisca di pesce si riflette il sole di una calda mattina di primavera. Il silenzio anonimo di tutte le anonime zone industriali di provincia è rotto solamente dal rumore di una segheria che lavora, poco lontano. Un posto qualunque. Che però è in Svizzera. E così, da dietro il separé di plastica da stabilimento balneare a poco prezzo che nasconde i ballatoi della palazzina affacciata sul parcheggio, appare una ragazza. Dondola su tacchi altissimi e indossa un abitino blu che le sta un po' stretto. La testa è bassa: guarda il cellulare. Non può parlare, è di fretta: «Mi stanno aspettando in camera», si scusa. «Ma - aggiunge - al bar ci sono altre ragazze». Il bar è quello del Motel Castione e le ragazze sono tante, almeno trenta. Sono sedute al bancone o ai tavoli e quando si apre la porta, tutte si voltano a guardare. In Svizzera la prostituzione è legale e anche locali come il Motel Castione lo sono. Lo ribadisce il titolare che però preferisce restare anonimo visto che la legge non basta a cancellare «i pregiudizi. Prima c'erano 33 ritrovi simili in Ticino ma sono stati quasi tutti chiusi», spiega. Questo perché non si può più mascherare una casa d'appuntamenti con un bar: «È cambiata la norma: siamo diventati "luogo di incontro per adulti". Chi entra da noi paga l'ingresso e riceve in omaggio una consumazione». Dieci franchi, meno di dieci euro. Tra i clienti non notturni, soprattutto anziani. Parlano con le ragazze, sorridono. Ogni tanto qualcuno viene preso per mano da una di loro e si allontana lungo il corridoio che porta alle camere. Per il gestore il guadagno, oltre agli ingressi (in media 200 giornalieri), è l'affitto delle stanze alle prostitute: «Al giorno sono 120 franchi. E forniamo ogni volta biancheria fresca». Le camere sono sì pulite ma sembrano quelle di un hotel a due stelle. «Per renderla più calda ho attaccato sul lampadario un velo rosso», racconta Gina. Ha 29 anni, ha iniziato a prostituirsi quando ne aveva 23 e viene dalla Romania. «Da noi gli stipendi sono di 200 euro al mese. Ho una bambina e credo sia giusto se mi sacrifico io perché non lo faccia mai lei». Il peso più grande è non averla cresciuta: «Ma quando penso che va a scuola ed è vestita bene e apre il frigo e lo trova pieno, allora so che sto facendo la cosa giusta». Nella sua famiglia nessuno sa che lavoro faccia Gina. La sua idea, come di molte altre, è fare tanti soldi in pochi anni. In media una prostituta chiede 100 franchi per mezz'ora e ne guadagna attorno ai 5, 6 mila al mese. Gina si è comprata un appartamento. «Ci sono storie a lieto fine - racconta un cliente, 42 anni, svizzero che di professione fa il giornalista -. Questi posti vengono raccontati sempre sotto una cattiva luce ma qui ho conosciuto molte brave ragazze, che aiutano le famiglie. Mi spiace che così tanta gente le giudichi male». A Castione in effetti i clienti del bocciodromo (dopo il motel, il secondo locale più vivo di questo minuscolo centro) scuotono la testa: «Ma davvero c'è gente anche a quest'ora? Sono anziani? Ma anziani come noi?». Una coppia di marito e moglie classe 1929 ascolta attenta. Lei indignata. Lui sbuffa. Ma alla fine chiede sospettoso: «Ma anche della mia età? Io ho 85 anni eh». «La prostituzione in Svizzera è un'attività economica tutelata dalla Costituzione federale», scandisce Norman Gobbi, ministro ticinese con delega alla prostituzione. «L'obiettivo è evitare la prostituzione di strada e la clandestinità. Chi vuole prostituirsi deve registrare la sua presenza sul territorio alla polizia, dopodiché ottiene un permesso di cinque anni. In Ticino al momento si stimano 600 prostitute». Ma non proprio tutte pagano le tasse. La maggior parte fa la spola con il Paese d'origine: lavora in Svizzera per un paio di mesi poi torna a casa, per rientrare di nuovo a distanza di qualche tempo. Una strategia semplice per evadere. Ulisse Albertalli, titolare del Bar Oceano - 70 camere vista autostrada - si definisce «un pioniere del settore». È orgoglioso delle battaglie fatte per ottenere «la licenza di bordello ufficiale. Le ragazze sono libere. Io offro le camere, i servizi alberghieri e la sicurezza (che garantisce però anche una sezione specifica della polizia)». Tutto per 165 franchi al giorno e due giorni di preavviso prima di liberare la camera: «Le ragazze girano per tutta la Svizzera e si fermano poche settimane. I clienti preferiscono il ricambio: spesso una moglie l'hanno già a casa». Albertalli gestisce il locale con i figli «a testa alta. E molti dei ben pensanti contro cui mi sono scontrato in pubblico poi li ho ritrovati nel mio club». Vanessa ascolta seduta su un divanetto. Ha 30 anni, anche lei è romena e a Bucarest ha aperto un salone di bellezza con i soldi fatti qui. Da piccola voleva fare la sarta. È molto bella ma il trucco marcato la fa sembrare più grande. Eppure nella sua stanza ci sono decine di peluche tra cui un orsacchiotto gigante. «Ai miei ho detto che lavoro nella hall di un hotel», confessa. Perché non lo fa davvero? «Così guadagno molto di più e molto più velocemente». Una formula che vale per tante. Sempre più italiane conferma Marco, titolare del sito incontriticino.ch . Il suo è un portale di annunci per chi esercita puntando sull'altra faccia del «modello svizzero»: la prostituzione da appartamento. «La percentuale delle italiane che si iscrivono sta salendo moltissimo negli ultimi tre anni. Prima si contavano sulle dita di una mano. Ora ce ne sono almeno 25, diverse frontaliere. In Svizzera italiana è dove danno i permessi più facilmente e dove poi sono più bigotti. Al di là del Gottardo è l'opposto: ci sono quartieri a luci rosse ma non c'è il moralismo che esiste qui, dove chi lavora in casa spesso lo fa di nascosto per evitare guai con i condomini». Come fa anche una ragazza svizzera: «Nel mio appartamento faccio la massaggiatrice: decido io se proseguire con il rapporto o no». Non ama il suo lavoro, ma si sente tutelata. «Pago le tasse e sono in regola. Ma non lavorerei mai in un club: è vero che le ragazze possono scegliere con chi andare ma se devono pagare un fisso al giorno per me è comunque sfruttamento della prostituzione. Se non ci sono clienti sono costrette a svendersi». La crisi non aiuta: «Le ragazze fanno sempre di più per sempre meno. E molte sono italiane». Come la giovane donna seduta sugli sgabelli del Pompeii, locale a pochi passi dal confine, a Chiasso, che conferma il teorema secondo cui più ti avvicini all'Italia e più si fa spessa l'aria di omertà. La ragazza è di Palermo ma si è trasferita vicino alla dogana e ha un permesso come frontaliera. Sta aspettando i primi clienti ma non ha voglia di parlare. Una cosa però le sfugge, mentre si sistema distratta la scollatura: questo mestiere in Italia? No, non lo farebbe mai.

Basta con l’ipocrisia: prostituzione legale, scrive Francesco Maria del Vigo su “Il Giornale”. Prostitute, troie, puttane, mignotte, passeggiatrici, peripatetiche, meretrici, squillo, sgualdrine, battone chiamatele come vi pare, ma fatele lavorare. In pace. E nella legalità. Da alcuni giorni la Lega di Matteo Salvini (accompagnato dal trans Efe Bal) ha iniziato a raccogliere firme per abolire la legge Merlin, la legge del 1958 che abolì le case chiuse e di fatto rese illegale la prostituzione. Finalmente una battaglia di buon senso e di civiltà. Che in un Paese in cui tutto va a puttane i cittadini non possano farlo liberamente, sembra un paradosso. L’argomento da anni viene sfiorato da molte forze politiche. Riaprire i bordelli significa regolamentare, tassare e controllare la prostituzione, Ma significa anche fare i conti con un velo di ipocrisia che non vuole essere squarciato e con una realtà che molti fingono di non vedere. Eppure basterebbe soffermarsi sulla parola, sulla nostra lingua e sui modi di dire, mai casuali, che genera. Non servono approfondite conoscenze sociologiche o storiche: se si chiama “il mestiere più vecchio del mondo” un motivo ci sarà? Infatti le leggi restrittive e punitive non hanno avuto alcun risultato, se non quello di portare sulla strada migliaia di schiave del sesso e gettarle in mano alla criminalità. Il commercio di esseri umani che vive ai margini delle nostre città è uno spettacolo indegno di un Paese civile. Molto più civile riaprire le case chiuse e prendere atto di un’abitudine millenaria. Vogliamo dare un giudizio morale? Vogliamo crocifiggere il puttaniere? Ma per favore, smettiamola con questa ipocrisia. Anche perché, in alcune zone d’ombra della legalità, il commercio sessuale vive e prospera senza alcun controllo. Per esempio in molti di quei centri massaggi che come funghi sono sbucati ovunque nelle nostre città. Mentre tutti fanno finta di non vedere. Nel momento in cui, liberamente, una donna e o un uomo decidono di mettere in vendita il loro corpo, non c’è nulla di male. E lo Stato non può impedirglielo. Chi va a puttane non è un criminale, al massimo uno sfigato. Ma non merita di finire dietro le sbarre. Ancor meno chi, per scelta o necessità, mette in vendita il proprio corpo. C’è tutta una letteratura sull’esperienza “iniziatica” nei bordelli. Il Cioran adolescente si rifugiava nelle case chiuse per sfuggire all’angoscia della morte. Drieu La Rochelle si spinge più in là e teorizza che il bordello sia l’unico “posto dove l’umanità si zittisce e offre un commercio gentile”. Ma il legame tra gli artisti e il sesso a pagamento è un filo rosso che si srotola lungo gli anni: da Flaubert a Mario Soldati, passando per Kafka e Zola fino ad arrivare al recente appello dei 343 “intellettuali maiali” francesi che sono scesi sul marciapiede per salvare le lucciole. Sono solo l’escrescenza di un massa invisibile che continua a crescere: secondo le stime dell’Università di Bologna gli italiani che si rifugiano nel commercio del sesso sono 2,5 milioni. Ma parlarne è un tabù. Perché siamo rinsecchiti da un moralismo strabico e da un bacchettonismo a targhe alterne, come se ognuno di noi, almeno una volta nella vita, non si fosse prostituito moralmente, intellettualmente o anche professionalmente. Insomma, sradicare la prostituzione è impossibile, regolamentarla doveroso. Per non uscire dalla metafora: maiali e lucciole hanno diritto di “cittadinanza” anche da noi, brava Lega!

Puttane e trans: lontane dagli occhi, lontane dal cuore, scrive Daniela Minerva a il vaso di Pandora su “L’Espresso. Il sindaco di Roma vuole un quartiere a luci rosse. Non resta che sperare che non si sia accorto di quanto propongono i suoi assessori. Quoque tu... Ignazio Marino è un uomo perbene. È un medico straordinario. È un intellettuale di prim'ordine. Ha una tempra invidiabile, una rettitudine esemplare, una lucidità di pensiero rara. Ed è un uomo buono, sensibile, delicato. Mi chiedo come è possibile che sia caduto anche lui nella trappola del “quartiere a luci rosse”. Passi per qualche sgangherato assessore leghista immerso nelle nebbie (fisiche e mentali); passi per l'ineffabile Ombretta Colli, incaricata dalla destra di curare le pari opportunità a Milano; passi anche per i misogeni di mezz'Italia che vanno cercando le “pubbliche mogli” (dell'immortale De André) ma ci tengono a farlo al calduccio e invocano la revoca della legge Merlin. Ma Marino, no. Non doveva pugnalarci al cuore. Riassumo: la giunta capitolina, fregandosene del ruolo di Roma capitale dell'umanesimo cristiano, ha deciso di spostare tutte le mignotte e i femminielli della città (e sono tanti) all'EUR (1). Ha deciso poi che chi viene beccato a farseli fuori dalla cinta del geniale quartiere voluto da Giuseppe Bottai - che sarà anche periferico ma è una delle meraviglie del mondo - paga 500 euro di multa (2). Ha deciso di mettere per strada qualche camper con dei non ben specificati “operatori sociali”, e che Dio ci scampi da qualche altra storiaccia di gente che prende soldi per occuparsi dei disagiati e poi se li beve a champagne e mignotte, appunto (3).

1. Sul bisogno di “regolamentare” la prostituzione e seppellire la legge Merlin ne abbiamo sentite di tutti i colori. Sostanzialmente si tratta di levare dalle strade chi vende il proprio corpo, per non offendere il pubblico buon costume. Un intento di tal genere è pensabile solo se si crede alla fola che la prostituzione sia un mestiere come un altro. E credere questo è il più infame dei propositi. Donne e trans sono sulla strada perché non possono fare altro; perché oppressi dalla povertà, dallo stigma, dal dolore; perché trascinati in schiavitù da delinquenti che le forze dell'ordine non riescono (o non ci mettono molta energia) a cacciare in galera e buttare la chiave. Non c'è niente di più umiliante per una donna che pensare anche solo per un attimo che ci sia là fuori una ragazza costretta con la forza o dal bisogno a vendersi. Non posso immaginare la condizione di un trans, ma sento che non è molto diverso. Il cuore si spezza a immaginare le sequenze di quei milioni di stupri perpetrati all'ombra di questa bugia scandalosa: no, la prostituzione non è un mestiere. È un cancro del nostro mondo sessista e crudele. Che a Roma sia legale è un pensiero impensabile.

2. Marino e i suoi hanno scelto l'Eur. E nello specifico le stradone attorno al Palazzo della Civiltà del lavoro (che è bellissimo e tiene tra le sue volte la voglia di modernità di un secolo intero). A parte il simbolico sberleffo (civiltà e lavoro non sono termini che si applicano a quanto vi accadrebbe), resta che il principio ispiratore dell'intento è il raffinato “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Perché l'Eur è lontano dai Palazzi del potere politico, dal Vaticano e dalle residenze dei pregati e inutilmente pagati assessori capitolini. Ma sì, va: buttiamoci le nigeriane, le\i brasiliani, le rumene e i loro pulciosi clienti dal colletto bianco. Stuprino a go go, di sera in sera. Tanto la gente per bene non li vede. Io dall'Eur sono lontanissima, ma li vedo, minuto dopo minuto. E spero che i lettori de “l'Espresso” facciano altrettanto, e di minuto in minuto dichiarino la loro guerra morale a chi permette quella vergogna. Di solito, mi sento rispondere: ma comunque la prostituzione c'è. Non puoi evitarla, è embedded nel nostro modo di vivere. Tanto vale che le si dia una regolata. Rispondo: a. Il fatto che c'è è doloroso, come molti altri eventi del nostro mondo. E proprio per questo dobbiamo vedere. dobbiamo sapere, dobbiamo vergognarcene. Per alimentare la cultura del rifiuto, per educare i nostri figli e sperare in un mondo migliore. O no?

b. regolamentare non vol dire emarginare. La filosofia del “lontano dal...” fa schifo. Ripensiamo alla legge Merlin, se volete. Anche se io penso che sia stata un'ottima e opportuna legge. Ma è vero che il 1958 è lontano (molto: io nascevo in quell'anno); che le cose hanno preso una piega che la senatrice che costrinse De Gasperi a guardare nelle mutande dei democristiani non avrebbe mai potuto immaginare. Dobbiamo comunque tutelare la salute delle schiave.... È drammatico ma bisogna pensarci. Certo è che se cominciasse a toglierle dalla strada e a mette in galera gli schiavisti saremmo a buon punto.

3. Quei geni del Campidoglio pensano di stanziare qualche migliaia di euro al mese per mettere nelle strade dell'Eur (che diventeranno, si badi bene, a divieto di sosta!) dei camper con degli operatori sociali che vigilino sul benessere delle ragazze. È pazzesco. E non vale neanche la pena di commentarlo. In conclusione: forse ci penserà il Vaticano a far cambiare idea a Marino. Dove non può la ragione, può il potere. Ma questa idea pazzesca è un vulnus per me insanabile. È un punto di non ritorno. Roma, la città più bella del mondo, cuore della cristianità, dell'umanesimo, del calore magnifico di sole e intelligenza, non poteva sprofondare più in basso.

Torniamo sul brutto affare delle luci rosse all'EUR. Il Questore di Roma taglia corto: non si può fare. La Cei, nemmeno a parlarne. E il Sindaco? Annaspa, continua Daniela Minerva. Dell'idea balzana venuta a qualche balzano assessore capitolino di barricare le mignoitte in un lager di periferia abbiamo detto. Ora, il day after. Che si sinora su tre fatti essenziali:le parole di Marino a rai News 24: «bisogna proteggere la famiglia con i suoi valori, dare la possibilità alle persone di poter usufruire di un parco, di una strada senza trovarsi a dover dare spiegazioni ai propri figli» (1), un capolavoro di “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” che avrebbe dovuto convincere la Cei, la quale, però, non si è fatta convincere e ha detto: non se ne parla neanche (2). A chiudere la partita è il prefetto Giuseppe Pecoraro: «Tutta questa storia è una boutade, non ci sono riferimenti normativi. Anzi, una legge c'è: si chiama Merlin. Fare ciò che vorrebbe fare Marino senza un intervento del Governo o del Parlamento è un reato: è favoreggiamento della prostituzione». Cominciamo dalle parole di Marino che vuole proteggere i figli delle persone perbene. Mi metto nei suoi panni: lo spettacolo nelle strade di Roma è davvero osceno. Non farò la santarellina a far finta di non sapere che trans e povere ragazze se ne stanno seminudi, e nudi, per strada a offrire la loro tragica merce. E non farò finta di ignorare che questo stravolge la naturale entrata dei bambini e dei giovani nell'amore e nel sesso. E allora? Signor Sindaco, non sarebbe meglio evitare questo scempio con un migliore uso delle risorse e dei (discutibili) talenti che si sono prodigati in questa scemata? Non ci sono scorciatoie: l'unico modo per evitare gli spettacolini notturni e non che disturbano le famiglie per bene è recuperare le ragazze, dare loro un'accoglienza, un tetto, un permesso di soggiorno, un lavoro. Convincerle così a denunciare e mettere, conseguentemente in galera chi le opprime. Utopia? Forse, ma fare diversamente è barbarie. Chiunque (e molti mi hanno scritto sul blog e sulla mia mail privata) pensi che si deve “regolamentare” la prostituzione ha tutte le ragioni per cercare una soluzione, ma deve rendersi conto che questa soluzione non può, per nessuna comprensibile ragione, rendere moralmente accettabile che avvenga un commercio del corpo delle donne, che si accetti un orizzonte violato dei sentimenti che trasforma il sesso in violenza e sopraffazione. La Conferenza episcopale italiana, com'era ovvio, ha tuonato. Non che mi stanno simpatici i vescovi misogini e riottosi a qualunque modernizzazione del rapporto tra i generi ( persino all'idea di genere tout court), ma il loro pronunciamento è benvenuto. Perché Marino li starà ad ascoltare. Il prefetto dice, giustamente, che mettere le mignotte all'EUR e proteggerle significa violare la Merlin. Bravo Pecoraro. Ma a violare la Merlin oggi sono in molti. Mi piacerebbe che Pecoraro se ne occupasse. Infine: finirà tutto a tarallucci e vino. È inevitabile. Le ragazze continueranno a passeggiare seminude per le strade della capitale. I clienti continueranno a violentarle convinti che si tratti del più antico mestiere del mondo; e che l'uomo è incontenibile sessualmente quindi deve “sfogarsi”. I romani più giovani, come i coetanei di tutte le città italiane, vedranno sfilare quel commercio diventando sempre più insensibili a quanto esso rappresenta per il degrado delle nostre vite. Così è stato centinaia di volte: chiacchiere, chiacchiere e nulla accade. A Roma, come altrove, si è consumata una buffonata buona solo a portare qualche oscuro burocrate capitolino o di quartiere sui giornali e in Tv. E io spero tanto che il sindaco non ne sapesse niente e sia stato tratto in una trappola da qualche imbecille in giunta.

Il tema spacca, continua Daniela Minerva. Lo vediamo, nel nostro piccolo anche dalle reazioni dei lettori de L'Espresso. Chi continua a interrogarsi su una soluzione possibile e sostenibile al fatto ineluttabile che le prostitute ci sono, e continua a rimuovere la causa di questo dato di fatto chiedendo tutela e sicurezza per quelle ragazze che tutelate non sono a prescindere. E chi pone la questione di coscienza di uno sfruttamento tanto antico quanto infame. Ovvio che non c'é soluzione. Ma....Leggo troppo spesso quando si parla di prostituzione e revisione della legge Merlin la parola "ipocrisia". Come se chi non vuole saperne di accettarne l'ineluttabilità sia un povero struzzo anche un po' sciocco. Le puttane ci sono e i clienti pure: é il mercato, bellezza, e tu non ci puoi fare niente. Forse é così, ma solo se continuate a guardarvi l'ombelico. Perché è il nocciolo stesso della prostituzione che le persone di buona volontá devono provare a enucleare per un attimo: ci sono uomini che palpano, strusciano, penetrano e umiliano ragazze schifate, quando non rese schiave. Cosa c'é di ipocrita a non volere che accada? Esiste una assoluta coincidenza tra violenza sulle donne e consumo sessuale di strada (macchina, appartamento, bordello...). I ruoli sono gli stessi, i presupposti sono gli stessi (l'impulso maschile é irrefrenabile, la femmina é sempre ricettiva sessualmente, male non le fa anzi...). Leggiamo i racconti delle donne violate, delle bambine schiave dell'Isis, persino di quei galantuomini dei turchi che vogliono sposare le adolescenti così non imparano la dignitá di genere come fanno le loro sorelle maggiori. Leggiamo e ci indigniamo, si indignano anche quelli che, invece, parlano di ipocrisia se speriamo in un mondo senza servitù sessuale. Sono questi per lo più uomini, di buona volontá anche, ma privi della sensazione del corpo femminile che trema di fronte all'immagine di uno stupro, anche a pagamento. E sono donne, lontane dal corpo, private dello sguardo di genere. O forse solo gente per bene, ma distratta dal rincorrere la propria illuministica visione del mondo. Presi dal rimirarsi l'ombelico.

Il quartiere a luci rosse nasconde solo l'ipocrisia. Il sesso a pagamento in zone ad hoc emargina prostitute e clienti senza abolire il vizio. E costringe i poveri a pagare la doppiezza dei ricchi, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. L'argomento è scatologico, ma di moda. E, come tutte le mode, va e viene a seconda dei periodi: la prostituzione. Che ora è di attualità perché Ignazio Marino, il sindaco di Roma dalla bella Panda rossa, ha proposto col solito insuccesso l'inaugurazione di un quartiere a luci del colore identico a quello della sua famosa utilitaria. L'idea non è nuova eppure fa discutere quasi che fosse inedita. Quando un politico o un amministratore è in crisi di consensi, e desidera farsi notare, raschia il fondo del barile da cui estrae le conigliette. E avanti col dibattito. Delimitare una zona riservata ai commerci carnali serve solo a emarginare le puttane e i loro clienti, non certo ad abolire il triste fenomeno degli incontri a pagamento. Poiché siamo tutti abbastanza ipocriti da non voler ammettere che tale fenomeno sia inestirpabile, ci accontentiamo di non averlo sotto gli occhi o sotto casa. Senonché, se si toglie dal centro città l'ignobile attività del meretricio e la si trasferisce in periferia, si ottiene un risultato scarsamente democratico: non si disturba più la vista ai signori che abitano in condomini di lusso e si offende quella dei poveri cristi costretti ad alloggiare in edifici popolari o fuori mano. Spostando il problema da un luogo all'altro non lo si risolve. Questo lo capisce chiunque, tranne Marino. Al quale vorremmo ricordare che negli anni Cinquanta la senatrice Lina Merlin riuscì, dopo battaglie asperrime, ad abolire le case chiuse, altrimenti dette casini, dove le signorine esercitavano la loro arte (si fa per dire) in ambienti riservati, controllate dal punto di vista sanitario e disciplinate sotto quello tariffario. Gli avventori, chiamiamoli così, entravano, pagavano, facevano e nessuno si scandalizzava. L'iniziativa della parlamentare aveva due finalità: abolire lo sfruttamento di Stato delle mignotte ed evitare che queste fossero schedate e immesse in un elenco infame a disposizione delle questure. Intento condivisibile. Tuttavia non si può dire che lo sbaraccamento delle «ville del piacere» sia coinciso con l'annientamento della prostituzione che, in mancanza di un sito deputato, ha continuato a svolgersi per strada - incrementandosi - e in appartamenti. Da alcuni lustri a questa parte, il cosiddetto «mestiere» non è più esclusivamente femminile; anzi, i maschi che battono ormai sono più numerosi delle colleghe. È l'evoluzione della specie. Nell'Occidente sono stati esperiti vari tentativi per eliminare le puttane e i puttani, ma si è scoperta solamente l'acqua calda: anche in questo settore è la domanda che stimola l'offerta. Quindi, per azzerare la categoria di chi dà, sarebbe indispensabile azzerare contestualmente quella di chi chiede. Impossibile. Perché gli uomini hanno spesso le fregole e, non essendo selettivi o non potendo esserlo per motivi temperamentali o estetici, le placano ingaggiando lì per lì una professionista. I costumi mutano nel tempo, ma l'istinto animalesco di certuni (molti) resiste nei secoli dei secoli. Amen. È velleitario pensare anche solo di ridurre gli affari relativi al sesso mercenario. Bisogna rassegnarsi a convivere con puttane e puttanieri, che sono i foruncoli dell'umanità: ne curi tre o quattro e te ne spuntano altrettanti. Non esiste una terapia definitiva. Guarisci una pustola sul collo? Se ne forma una su un gluteo. Indignarsi è superfluo. Delocalizzare le trattative fra utilizzatori e utilizzate non comporta alcun vantaggio reale: significa scaricare un fastidio da un angolo all'altro, magari penalizzando la popolazione meno abbiente. Non sarebbe - non è - un'operazione degna di un progressista. Vero, sindaco Marino? Le conviene calmarsi. Invece che delle zoccole, si occupi dei ladri e dei mafiosi che infestano il Palazzo: non danno via la roba loro, ma prendono la nostra. È peggio.

"Solo un pasticcio. Serve il coraggio di aprire le "case". L'onorevole Daniela Santanchè critica il quartiere a luci rosse di Roma. Per lei è necessario un approccio più liberale volto a permettere la riapertura delle "case di tolleranza", scrive Manila Alfano su “Il Giornale”. E se fosse la solita trita e ritrita mezza misura all'italiana? È questo il dubbio di Daniela Santanchè, deputata di Forza Italia, sull'idea di dedicare una zona a luci rosse che partirà ad aprile a Roma nella zona dell'Eur.

«È La classica soluzione del voglio ma non posso. Ma perché? Possibile che in Italia non si riesca mai ad affrontare un problema in modo radicale?».

Quindi favorevole o contraria?

«Assolutamente contraria. Questo progetto - a parte che lo vedo ancora molto molto nebuloso - mi sembra piuttosto un bordello a cielo aperto. Che bella trovata. Ma così si crea una zona di serie B, cioè la via delle prostitute che stazionano lì a tutte le ore. Ma che senso ha?».

L'idea è quella di monitorarle.

«Ma no. Qui siamo davanti solo alla più classica delle scelte italiane: quelle senza coraggio. È evidente che i politici romani hanno capito che c'è un'emergenza, che è un problema da affrontare ma non hanno trovato niente di meglio che recintarle. Più che un progetto vedo un pasticcio, un paio di strade dove ci sarà una concentrazione di prostitute a tutte le ore».

Dicono che ci saranno controlli...

«Si, ma è solo un trasloco di vie che di certo non piacerà alla gente che abita in zona. Giorno e notte a subirsi uno spettacolo del genere, senza pensare al valore delle loro case che scenderà in picchiata».

E allora lei cosa propone?

«Da sempre io sono per l'apertura di case chiuse. Non è difficile. In Europa è così. In Germania, in Svizzera le case chiuse sono gestite in modo esemplare. Perché invece da noi il problema deve sempre essere rimandato? O peggio ancora raffazzonato?».

Forse perché c'è chi spera che prima o poi la prostituzione finisca...

«Ma per piacere! È il mestiere più antico del mondo e per di più oggi coinvolge ragazze sempre più giovani, finite nel racket, sfruttate, abusate. Questo non è certo sintomo di un Paese civile».

SIAMO TUTTI PUTTANE.

Pro porno e pro prostituzione: ecco il femminismo di Annalisa Chirico in "Siamo tutti puttane", scrive “Libero Quotidiano”. "Siamo tutti puttane". Un titolo spiazzante quello che Annalisa Chirico, giornalista e compagna di Chicco Testa, politico di sinistra e dirigente industriale italiano, ha deciso di dare al suo ultimo libro. Ma già se si legge il sotto titolo ci si potrebbe fare un idea del concetto che sta alla base della lettura: "Contro la dittatura del politicamente corretto". Un libro che ha come bersaglio i perbenisti di sinistra e le femministe alla "Se non ora quando". La Chirico rivendica il sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come ognuno può e vuole, e quindi, anche diventando una puttana. Un femminismo pro sesso, pro porno e pro prostituzione, sia per le donne sia per i maschi. Un dibattito a suo avviso che "ha diviso il Paese tra un popolo di sinistra moralmente irreprensibile e uno di destra, gaglioffo e sciocco". L'ispirazione dal processo Ruby - In un'intervista a Formiche.net del 7 maggio, la stessa giornalista alla domanda "È Berlusconi ad averla ispirata?", non risponde esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. "Ho seguito da cronista il processo Ruby - afferma Chirico - dove nel tribunale di Milano, non di Riad o della Kabul talebana, trentatré ragazze sono state vivisezionate nella loro vita privata in qualità di semplici testimoni, senza alcun capo di imputazione a loro carico. Quando una democrazia smette di distinguere tra peccato e reato, si getta al macero l'abc della civiltà giuridica". Dunque nulla di male.

Tutto per apparire - Le famose "Olgettine", da Via Olgettina, le ragazze indagate dalla Procura di Milano per il caso Ruby, non hanno, a suo parere, la colpa di aver "conosciuto Silvio Berlusconi, il tycoon d'Italia, il capo di un impero mediatico, il presidente del Consiglio italiano". Un'occasione ghiotta di farsi notare e farsi apprezzare, per entrare nel mondo dell'apparire, della tv e dell'estetica da vendere. "E' stato un pornoprocesso, un rito a elevato tasso moraleggiante, oltre che erotico".

La donna può decidere come utilizzare il proprio corpo - Poi dal porno si passa all'erotico e a quelle foto di Paola Bacchiddu, il capo comunicazione della lista L’Altra Europa con Tsipras, che qualche giorno fa ha pubblicato una foto in bikini suscitando clamore. "Mi è sembrata la trovata goliardica di una ragazza intraprendente. In Italia ne sono nate le solite polemiche perché va di moda l’idea boldriniana che il corpo vada nascosto in un sudario di pietra. Per cui i concorsi di bellezza che si fanno in tutto il mondo da noi andrebbero proibiti. La donna invece è un soggetto che decide come usare il proprio corpo, sono le pseudofemministe a rappresentarla come un oggetto". Poi attacca Barbara Spinelli, candida la paladina delle donne e della guerra contro la mercificazione del loro corpo per Tsipras. "E' un esemplare del livello di oscurantismo che caratterizza il femminismo nel nostro Paese. Sono le donne che strumentalizzano le altre donne. La campagna talebanfemminista 'Se non ora quando' aveva l’unico obiettivo politico di colpire l’allora presidente Berlusconi, ci ha fatto credere che il suo indomito fallo fosse il principale assillo delle donne italiane". Infine la frecciatina a Renzi incalzata dalla giornalista di Formiche.net che gli chiede se la convince "il femminismo alla Renzi": "Non esiste un femminismo alla Renzi - ha risposto la Chirico - ma una strategia comunicativa renziana. il premier ha capito che la sinistra del presunto primato morale era perdente. Perciò si è abilmente smarcato dalla linea dei suoi predecessori. E li ha rottamati".

"Siamo tutti puttane" di Annalisa Chirico è la risposta al fanatismo del "se non ora quando", scrive Dimitri Buffa su “Clandestino Web”. - “Siamo innanzitutto puttane, in senso figurato, perché cerchiamo tutti, ciascuno come può, di districarci nel complicato universo dell’esistente, vogliamo arrabattarci, sgomitiamo per conquistare il nostro posto nel mondo”. La “summa philosphica” dell’Annalisa Chirico pensiero, da brava giornalista, l’interessata la mette nel primissimo capitolo introduttivo del proprio libro “Siamo tutti puttane”, da poco uscito per i Grilli di Marsilio editore anche in e-book. E nelle prime parole articolate in concetto. Non si tratta quindi tanto di una semplice difesa d’ufficio o di fiducia del mestiere più antico del mondo, che la Chirico da buona radicale comunque svolge, quanto di una presa d’atto dell’impazzimento di un intero paese, quello italiano, dove, complice e alibi il contraccolpo di venti anni di berlusconismo nel bene e nel male, la sinistra ha dismesso i panni del progressismo sessuale e si è incartata in una sorta di talebanismo di ritorno. In perfetta malafede intellettuale e ideologica, peraltro. Il libro in questione, ben scritto e ancora meglio documentato, ricorda una per una tutte le conquiste degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, dal divorzio all’aborto passando per il travagliato brevetto della pillola anti concezionale, ed è l’ideale risposta all’isterico e ideologico (e disonesto intellettualmente) movimento coagulatosi intorno alla piazza di quelle mezze esaltate del “se non ora quando”. I riferimenti e le punzecchiature contro le vetero-femministe e le discepole vestali di oggi in seno ai vari movimenti tipo 5 stelle e dintorni, compresi i popoli viola et similaria, fatti da Annalisa Chirico (che cita Plutarco e Marcuse, Madonna e Cleopatra, Pasolini e tutti i mostri sacri dell’immaginario catto-comunista di ieri e di oggi con la stessa nonchalance e la stessa precisione) sono tutti alle conquiste del passato rinnegate nel presente. Secondo la logica del fine che giustifica i mezzi. Il fine era fare fuori mediaticamente e politicamente Berlusconi come adescatore di minorenni e sfruttatore seriale di prostituzione minorile, il mezzo era il neo moralismo para talebano di quelle che negli anni ’60 andavano in piazza a dire che “l’utero è mio e me lo gestisco io”. Ovviamente dietro un fenomeno politico, pensato dai maschi della sinistra estremista e forcaiola e fatto interpretare alle femmine del branco, c’è anche un completo “misunderstanding” dell’afflato libertario della cosiddetta rivoluzione sessuale. Giustamente la Chirico parla di una sorta di classismo verso le veline e le “olgettine” che vengono dipinte come “puttane” e come “dementi” solo perché la danno all’uomo ricco e non al dirigente Rai o al direttore di un grande quotidiano o al filosofo di grido. Entrambe le tipologie, la puttana oca e quella intellettuale o pseudo tale hanno invece pari dignità secondo il Chirico pensiero. Avendo il comune fine di valorizzare il proprio corpo per promuoversi socialmente, cosa che la Chirico ritiene non solo giusta ma anche necessaria. Però le prime non hanno diritto di cittadinanza nei salotti buoni della sinistra e della borghesia e le seconde invece sì. Per non parlare della prostituzione, anche al maschile, del proprio cervello che forse è ben più squallida di quella animale del sesso. Insomma non si sa se è peggio adulare un imbecille o andarci a letto. Il pamphlet di Annalisa Chirico farà sicuramente “incazzare” tante portavoce del nulla che hanno visto esaurire la loro carica propulsiva di utili idiote dopo la condanna di Berlusconi in primo grado per prostituzione minorile. Reato commesso, se mai è stato commesso, con una “ragazzina” che dimostrava molto più dei propri anni cui nessuno in un dato contesto avrebbe chiesto i documenti prima di scoparci. E “ictu oculi” non si poteva considerare una povera creatura corrotta da un orco cattivo. Sarebbe come venire arrestati per avere fatto a botte, prendendocele di santa ragione, allo stadio con un cristo alto uno e novanta, tatuato e violento, tipo Genny ‘a carogna, salvo venire a sapere che, dopo averti fatto a pezzi, ti denuncia per sovrappiù in quanto “minorenne”. Anche questa eccessiva iper protettività verso i minori senza giudicare caso per caso è purtroppo una delle trovate legislativo ideologiche del centro destra che per la legge del contrappasso sono state applicate nella maniera più plateale proprio contro chi si era battuto per trasformare in legge simili obbrobri. Da Cosimo Mele all’episodio che recentemente ha coinvolto il marito di Alessandra Mussolini la storia recente è tutta una grottesca antologia di questa aneddottica da contrappasso dantesco. Ma questo non significa che siano gli intellettuali, e le vetero femministe di cui sopra, autorizzati, oggi, a mettere in mostra la massima disonestà intellettuale possibile nel deprecare le abitudini sessuali e lo stile di vita di un ex cumenda della politica e della tv. Intendiamoci: nel libro della Chirico il caso di Berlusconi è citato al massimo un paio di volte. E sarebbe stato ipocrita da parte sua, giornalista di “Panorama”, se non lo avesse fatto. Ma la citazione, come quelle da Plutarco, da Shakespeare e da Francis Bacon, è finalizzata ad esorcizzare il candore che lei definisce “apollineo” di quelle che in tv si battono il petto contro la mercificazione del corpo femminile dopo essere state in gioventù convinte baldracche. Oltre alle Lidia Ravera e alla presidente della Camera Laura Boldrini, gli esempi negativi di donne di sinistra che trattano le cosiddette olgettine come dementi oltre che come prostitute, il discorso si allarga a quei maschi compagni di partito da considerare i mandanti di questo neo puritanesimo di sinistra. Coloro che adesso utilizzano il moralismo di ritorno, sospetto anche un po’ di acidità da menopausa, delle femministe di ieri per farne un’arma di battaglia politica. Sia come sia, il libro di Annalisa Chirico non va raccontato o recensito, ma semplicemente letto. Perché è esattamente il genere di libro che ognuno di noi avrebbe voluto scrivere e fare materializzare in pochi minuti nelle proprie mani oltre che nella propria mente ogni qual volta ha preso la parola ad “Annozero” negli ultimi quattro anni una come Giulia Innocenzi, cinica interprete e sobillatrice dell’invidia, anche “del pene”, di tante ragazze di sinistra che non sopportavano (o fingevano di non sopportare) la narrazione della vita sessuale dei potenti, specie se di centro destra. Nella fiera dell’ipocrisia che abbiamo dovuto sorbirci negli ultimi tre o quattro anni dal caso Noemi in poi, queste rare perle di saggezza e di analisi storico filosofica sono sempre le benvenute. Dopo avere dovuto sopportare il fatto che l’ex attrice di teatro Veronica Lario fosse eretta a monumento nazionale vivente, insieme alla sua mentore Maria Latella, del politically correct made in piazza Indipendenza (oggi in largo Fochetti) questa soddisfazione ci era proprio dovuta.

Siamo tutti puttane”, Chirico: nel mio libro smaschero un’Italia ostaggio del moralismo, scrive Monica Gasbarri su “Clandestino Web” – “Siamo tutti puttane”, edito da Marsilio, e nelle librerie dal 7 maggio, è un pamphlet che si scaglia contro l’ipocrisia e contro il perbenismo imperanti nel nostro paese e parte da un assunto che, in tempi di “politically correct”, farà storcere il naso a quanti ancora si aggrappano all’immagine edulcorata della natura umana: l’interesse personale è democratico. Titolo d’effetto, spirito caustico e provocatorio, il libro racchiude al suo interno un’anima politica e una più pop come racconta l’autrice a Data24News. “Non è certo il memoire di una prostituta a fine carriera” ci spiega Annalisa Chirico, giovanissima giornalista di Panorama, “è un libro sul sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come meglio si può, nei limiti del lecito ovviamente. Se non ci trovassimo in un paese perbenista come il nostro non ci sarebbe bisogno del mio libro per ribadire quello che dovrebbe suonare persino scontato: ognuno ha diritto di mettersi in gioco e di valorizzare le doti che ha. Ma l’Italia è afflitta da un moralismo asfissiante”.

Di chi è la colpa?

«Una grossa colpa va imputata, in questi ultimi venti anni, alla sinistra che ha spostato lo scontro dal terreno della politica a quello della morale. Di fronte alla “variabile imprevista”, Berlusconi, la sinistra si e’ illusa di potersi affermare non per quello che faceva ma per quello che pensava di essere: moralmente superiore».

Le responsabilità sono tutte a sinistra?

«La sinistra ci ha raccontato una storia che non si reggeva in piedi, in realtà il primato morale della sinistra non esiste. La destra non ha mai vantato un primato morale. Berlusconi ha anzi esibito e ostentato il suo essere un uomo come tutti gli uomini, entrando così in empatia con l’elettore. Berlusconi non si è mai proposto come Grande Pedagogo, la sinistra sì. Pensi a D’Alema che ci ha raccontato per anni che la sinistra rappresentava “la parte migliore del Paese”. Nel libro intitolo un capitolo al “bunga bunga di Pasolini”, con giovani persino “più minorenni” della minorenne anagrafica Ruby. Mi soffermo sulle sregolatezze sessuali di un’altra icona gauchiste come J F Kennedy. Il fronte cosiddetto progressista è passato dagli slogan sessantottini a favore della liberazione sessuale all’ipocrisia dei giorni nostri, ai bigottismi bindiani e ai diktat boldriniani. Per cui l’ardore e la sfrontatezza di alcune giovani ragazze (che cercano di farsi strada nella vita e che non commettono reati, ma hanno l’unica colpa di frequentare un uomo potente) diventano il perno di una campagna mediatica che è tutta politica. Le donne sono ridotte a strumento, pretesto, vittima sacrificale. Il bersaglio vero è Berlusconi».

Il suo è un saggio rigorosamente politico.

«Io incarno il mio libro che non può non essere politico. Esalto figure come Cleopatra e Madonna, donne fatali che non subiscono ma dominano il desiderio sessuale maschile. Per le femministe americane degli anni ’80 Madonna è una traditrice del genere femminile perché sbaraglia il femminismo mainstream che considera i maschi un nemico».

Ecco introdotto dunque un tema centrale, quello del femminismo. Quanto spazio ha nel suo testo?

«Io sono un’appassionata del genere, anche per motivi accademici. Sono cultrice di studi di genere alla Luiss. Nel libro metto a confronto femminismi diversi, italiani e stranieri. Dalle seguaci di Diotima alle libertarie americane meno conosciute in Italia».

In quale si riconosce di più?

«Nel femminismo della seconda ondata, quello delle grandi battaglie sui diritti civili, per questioni concreti, per guadagnare maggiori spazi di autonomia. Oggi, invece, il femminismo è corporativo, avviluppato su se stesso, tutto concentrato in una battaglia intellettualistica, quasi metafisica. E’ un femminismo antimodernista».

Non condivide, dunque, le idee delle italiane di “Se non ora quando”…

«Il movimento “Se non ora quando” ha delle basi filosofiche assolutamente fragili e ha strumentalizzato la battaglia delle donne per fini politici. Come se l’assillo principale delle donne italiane fosse l’ “indomito fallo del premier”. Invece le battaglie da portare avanti sono ben altre: i tetti di cristallo nel mondo del lavoro, la salute riproduttiva, la fecondazione assistita, l’accesso alla contraccezione, tematiche di cui si parla troppo poco in Italia».

Certo che, con un titolo del genere, il suo libro è destinato a generare polemiche…

«Ben vengano. La polemica è un esercizio retorico ed intellettuale finissimo. Non è da tutti. Nel libro rivendico il diritto di ciascuno a “darla” per interesse e convenienza, ma parlo anche di prostituzione in senso stretto. spiego per esempio come funziona in Austria e in Germania, dove il sesso a pagamento è regolato e i sex worker pagano le tasse come ogni altro lavoratore. In Italia invece le prostitute e i prostituti non possono perché non é riconosciuta loro alcuna dignità professionale».

Da giornalista quanto è difficile rompere questo tabù del politicamente corretto?

«L’Italia è afflitta dal moralismo e dal conformismo imperante. E’ difficile prendere posizioni contrarie a quello che è il pensiero dominante. in questo devo dire che hanno un grande ruolo i mezzi di comunicazione, ma anche la classe dirigente, non solo politica. C’è un completo appiattimento. Io non ho difficoltà a definirmi una puttana, tra le puttane e i puttani d’Italia. Cerco di coltivare le relazioni personali che possono essermi utili: l’interesse personale è democratico e muove il mondo».

Tornando all’attualità, cosa pensa della polemica delle ultime ore sulla Bacchiddu? Una questione che sembra calzare a pennello con i temi del suo libro…

«Si tratta delle solite polemiche italiane sul nulla. Quella della candidata di Tsipras è una trovata efficace sul piano della comunicazione. Il sesso e la seduzione del corpo femminile fanno parte della natura. Il corpo è parte di me non meno delle mie doti intellettuali, e questo vale per tutti. Quindi brava la Bacchiddu, della quale altrimenti non sapremmo nemmeno il nome. Giocare con il proprio corpo non è disdicevole. Evviva chi osa. Siamo in Italia, non a Riad. Teniamolo a mente».

“Siamo tutti puttane”, Chirico: nel mio libro smaschero un’Italia ostaggio del moralismo.  ‘Siamo tutti puttane’ non è un coito interrotto. La Rai è l’alcova del puttanizio, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Se Michele Emiliano è in grado di spiegare il ‘Siamo tutti puttane’ alle femministe imbestialite, vuol dire che di questo libro c’era un gran bisogno. Dovevate vederlo lo scorso sabato a Lecce, il sindaco di Bari, quasi estasiato, spiegava e declinava il messaggio profondo del ‘Siamo tutti puttane’. Ne tesseva l’elogio e l’imponenza, ‘non sono stato abbastanza puttana’, ha ammesso senza celare un filo di rammarico. E va bene che gli economisti austriaci non vanno di moda in Italia, e va bene che il panegirico dello scambio e del compromesso non va di moda in tempi di guerra grillin-guerreggiata. E va bene il ‘negoziare mai’, e va bene che il titolo è un’efficace provocazione, e va bene che ‘puttane’ è una parola che non si confà alle educande ben insediate nel circolo elitario dell’intellighenzia all’amatriciana. Va bene tutto. Ma davvero qualcuno può pensare che il ‘Siamo tutti puttane’ equivalga ad un coito interrotto? In molte hanno replicato con altisonanti ed elaborati ‘Io non l’ho mai data a nessuno. Puttana sarai tu’ o ancora ‘Facci sapere a chi l’hai data ché gliela diamo pure noi’. Fantastico. Mi perdonerete se di costoro non mi occuperò, per il bene loro prima che per il mio. Non compilerò alcuna lista, anche perché sarebbe lunga assai e alle stesse eleganti signore potrebbe appalesarsi una bruciante verità: se nessuno te l’ha mai chiesta, un motivo c’è. Passiamo invece alle critiche da prendere sul serio, quelle che meritano. E’ vero, finora ‘Siamo tutti puttane’ è stato trattato con i guanti dalla stampa di centrodestra, da Panorama (la testata per cui lavoro) al Giornale a Libero, il Foglio ha dedicato un’intera pagina, Alessandra Di Pietro ne ha scritto su La Stampa Top News (come del libro che ‘onora le battaglie femministe negli ultimi due secoli’). Si sono moltiplicate le interviste sui siti d’informazione online, gli inviti a presentarlo di qua e di là (farò del mio meglio). Dagospia lo ha esaltato come solo Dago può. Seguiranno ulteriori recensioni, e mi auguro che le voci dissonanti afferrino la penna più acuminata per sfornare argomenti su argomenti contrari alle mie tesi. Del resto, quando abbiamo programmato il lancio de libro, ho richiesto per prima cosa alla casa editrice Marsilio che una copia venisse spedita a ciascuna delle talebanfemministe citate nel mio libro. Le Concite, le Spinelli, le Comencini, tutte. Per la prima presentazione del libro a Lecce ho invitato la presidente della Camera Laura Boldrini che dopo qualche giorno di meditazione ha declinato l’invito. Dunque l’autrice di ‘Siamo tutti puttane’ non si sottrae al confronto. Lo agogna. Sul blog di IoDonna ho letto il post di Marina Terragni. Lei non è citata nel mio libro. Le critiche sono mosse in via preventiva, ossia pregiudiziale, dacché la stessa ammette candidamente di non aver letto il saggio. Spero che almeno dopo la pubblicazione del post Terragni si sia decisa a leggerlo. Ad ogni modo a lei qualche risposta desidero darla. Io non dico che per riuscire nella vita devi darla a qualcuno. Anche perché sono così brava che per scrivere una simile minchiata mi sarei fatta bastare 3 pagine, non 286. E’ questa una banalizzazione che non fa onore a chi se la intesta. Io dico che, se nel gioco a dadi con la sorte tu scegli di scambiare qualcosa di te con l’altro, hai il sacrosanto diritto di farlo. Avviene ad ogni latitudine, è sempre accaduto e sempe accadrà. Si chiama libertà. E Terragni, che è donna di mondo, lo sa bene. A questo punto si possono muovere due obiezioni. La prima riguarda la prostituzione fisica, che ci infastidisce e ci indigna assai più di quella intellettuale, verso la quale siamo sorprendentemente benevolenti. La seconda, più insinuante, riguarda il merito. Qui la questione è semplice. In ambito privato, se uno assume un incapace, maschio o femmina, solo per meriti extraprofessionali, quel datore di lavoro se ne assume la responsabilità e il costo. Nel pubblico invece esistono meccanismi di selezione basati sul merito e sulla competizione tra le persone. Ma se il sistema scelto consente l’arbitrio della selezione, è inevitabile che si aprirà la gara a chi offre di più, chi con le cosce, chi con le mazzette, chi con la forza. Criminalizzare colui o colei che ‘c’ha provato’ significa guardare il dito e non la luna. Significa cercare il capro espiatorio per non cambiare nulla. Così hanno agito le talebanfemministe quando hanno puntato il dito contro le Minetti di turno, contro le vergini del Drago, contro le sfrontate che accettano inviti galanti, come se il problema fosse un batter di ciglia. Io difendo il batter di ciglia. Piuttosto, basta con questa idea che se sei un po’ gnocca devi essere per forza scema. La gradevolezza fisica si accompagna spesso alle rinomate doti intellettuali. Non esiste una secca alternativa, per fortuna. Pensate ai giornalisti televisivi, di solito non sono dei cessi. Qualche eccezione, a dire il vero, c’è, ma ai piani alti della Rai, che è il luogo del puttanizio per antonomasia. Quando sei in sella da un numero imprecisato di decenni e vai in video a dispetto di ogni legge di gravità, vuol dire che hai puttaneggiato ad arte prima, costruendo relazioni e simmetrie che ti hanno permesso di fare quel che fai. E sai farlo meravigliosamente, sia chiaro, perché anche il merito abbisogna di puttanizio.

LE DONNE IMMIGRATE PER I GIORNALISTI? MEGLIO SCHIAVE CHE PUTTANE.

Processo alla stampa. Un nuovo capitolo riempie il saggio “MEDIOPOLI. DISINFORMAZIONE. CENSURA ED OMERTA’”. Il libro di Antonio Giangrande.

La cronaca è fatta di paradossi. Noi avulsi dalla realtà, manipolati dalla tv e dai giornali, non ce ne accorgiamo. I paradossi sono la mia fonte di ispirazione e di questo voglio rendere conto.

In Italia dove tutto è meretricio, qualche ipocrita fa finta di scandalizzarsi sull’esercizio della professione più antica del mondo. L’unica dove non si ha bisogno di abilitazione con esame di Stato per render tutti uniformi. In quell’ambito la differenza paga.

Si parla di sfruttamento della prostituzione per chi, spesso, anziché favorire, aiuta le prostitute a dare quel che dagli albori del tempo le donne danno: amore. Si tace invece della riduzione in schiavitù delle badanti immigrate rinchiuse in molte case italiane. Case che, più che focolare domestico, sono un vero e proprio inferno ad uso e consumo di familiari indegni che abbandonano all’ingrato destino degli immigrati i loro cari incapaci di intendere, volere od agire.

Di questo come di tante altre manchevolezze dei media petulanti e permalosi si parla nel saggio “Mediopoli. Disinformazione. Censura ed omertà”. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it.

Un esempio. Una domenica mattina di luglio, dopo una gara podistica a Galatone in provincia di Lecce, nel ritorno in auto lungo la strada Avetrana-Nardò insieme a mio figlio ed un altro amico intravediamo sedute sotto il solleone su quelle sedie in plastica sul ciglio della strada due figure familiari: le nostre vicine di casa. Non ci abbiamo mai parlato, se non quando alla consuetudinaria passeggiata serale di uno dei miei cani una di loro disse: che bello è un chow chow! Ciò me li rese simpatiche, perché chi ama gli animali sono miei amici.

Poi poverette sono diventate oggetto di cronaca. I loro nomi non c’erano. Ma sapevo trattarsi di loro.

I carabinieri di Avetrana hanno denunciato un 31enne incensurato poiché sorpreso mentre prelevava due giovani rumene dal loro domicilio di Avetrana per condurle a bordo della sua autovettura, nella vicina località balneare di Torre Lapillo del comune di Porto Cesareo (Le), dove le donne esercitavano la prostituzione - scrivevano il 22 agosto 2014 “La Voce di Manduria” e “Manduria Oggi” - I militari, che da diversi giorni monitoravano gli spostamenti dell’uomo, ieri mattina, dopo aver pedinato a bordo di auto civetta, lungo tutto l’itinerario che dal comune di Avetrana conduce alla località balneare salentina, decidevano di intervenire bloccando l’autovettura con a bordo le due giovani ragazze ed il loro presunto protettore, proprio nel punto in cui le donne quotidianamente esercitavano il meretricio. Accompagnati in caserma, le rumene di 22 anni sono state solo identificare mentre l’uomo è stato denunciato in stato di libertà alla Procura della Repubblica di Taranto, con l’accusa di favoreggiamento della prostituzione. Lo stesso è stato inoltre destinatario del foglio di via obbligatorio dal comune di Avetrana per la durata di tre anni.”

Tutto a caratteri cubitali, come se fosse scoppiato il mondo. E’ normale che succeda questo in una Italia bigotta e ipocrita, se addirittura i tassisti sono condannati per aver accompagnato le lucciole sul loro posto di lavoro e ciò diventa notizia da pubblicare. Le stesse ragazze erano state oggetto di cronaca anche precedentemente con un altro accompagnatore.

“Ai domiciliari un 50enne di Gallipoli per favoreggiamento della prostituzione. Le prostitute, che vivono ad Avetrana, venivano accompagnati lungo la strada per Nardò,” scriveva ancora il 18 luglio 2014 “Manduria Oggi”.

“Accompagnava le prostitute sulla Nardò-Avetrana in cambio di denaro. Ai domiciliari 50enne gallipolino”, scriveva il 17 luglio 2014 il “Paese Nuovo”.

“I militari della Stazione di Nardò hanno oggi tratto in arresto, in flagranza di reato, MEGA Giuseppe, 50enne di Gallipoli, per il reato di favoreggiamento della prostituzione. Nell’ambito dei controlli alle ragazze che prestano attività di meretricio lungo la provinciale che collega Nardò ad Avetrana, i Carabinieri di Nardò, alcune settimane orsono, avevano notato degli strani movimenti di una Opel Corsa di colore grigio. Pensando potesse trattarsi non di un cliente ma di uno sfruttatore o comunque di un soggetto che favorisse la prostituzione, i militari hanno iniziato una serie di servizi di osservazione che hanno permesso di appurare che il MEGA, con la propria autovettura, accompagnava sul luogo del meretricio diverse ragazze, perlopiù di etnia bulgara e rumena. I servizi svolti dai militari di Nardò hanno permesso di appurare che quotidianamente il MEGA, partendo da Gallipoli, si recava in Avetrana, dove le prostitute vivevano e ne accompagnava alcune presso la provinciale Nardò – Avetrana, lasciandole lì a svolgere il loro “lavoro” non prima però di aver offerto loro la colazione in un bar situato lungo la strada. Per cui, avendo cristallizzato questa situazione di palese favoreggiamento dell’attività di prostituzione, nella mattinata odierna i militari di Nardò, dopo aver seguito il MEGA dalla sua abitazione e averlo visto prendere le due prostitute, lo hanno fermato nell’atto di lasciarle lungo la strada e lo hanno portato in caserma assieme alle due ragazze risultate essere di nazionalità rumena. Queste ultime hanno confermato di svolgere l’attività di prostituzione e di pagare il MEGA per i “passaggi” che offre loro. Viste le risultanze investigative, il MEGA è stato tratto in arresto per favoreggiamento della prostituzione e, su disposizione del P.M. di turno, dott. Massimiliano CARDUCCI, è stato posto ai domiciliari presso la sua abitazione”.

Come si evince dal tono e dalla esposizione dei fatti, trattasi palesemente di una velina dei carabinieri, riportata pari pari e ristampata dai giornali. Non ci meravigliamo del fatto che in Italia i giornalisti scodinzolino ai magistrati ed alle forze dell’ordine. E’ un do ut des, sennò come fanno i cronisti ad avere le veline o le notizie riservate e segrete.

Fatto sta che le povere ragazze appiedate, (senza auto e/o patente) proprio affianco al dr Antonio Giangrande dovevano abitare? Parafrasi prestata da “Zio Michele” in relazione al ritrovamento del telefonino: (proprio lo zio lo doveva trovare….). Antonio Giangrande personaggio noto ai naviganti web perché non si fa mai “i cazzi suoi”. E proprio a me medesimo chiedo con domanda retorica: perché in Italia i solerti informatori delegati non fanno menzione dei proprietari delle abitazioni affittate alle meretrici? Anche lì si trae vantaggio. I soldi dell’affitto non sono frutto delle marchette? Silenzio anche sui vegliardi, beati fruitori delle grazie delle fanciulle, così come il coinvolgimento degli autisti degli autobus di linea usati dalle ragazze quando i gentili accompagnatori non sono disponibili.

Un fatto è certo: le ragazze all’istante sono state sbattute fuori di casa dal padrone intimorito.

Che fossero prostitute non si poteva intuire, tenuto conto che il disinibito abbigliamento era identico a quello portato dalle loro italiche coetanee. Lo stesso disinibito uso del sesso è identico a quello delle loro italiche coetanee. Forse anche più riservato rispetto all’uso che molte italiane ne fanno. Le cronache spesso parlano di spudorate kermesse sessuali in spiaggia o nelle piazze o vie di paesi o città. Ma questo non fa scandalo. Come non fa scandalo il meretricio esercitato dalle nostre casalinghe in tempo di crisi. Si sa, lo fanno in casa loro e nessuno li può cacciare, nè si fanno accompagnare. Oltre tutto il loro mestiere era usato dalle ragazze rumene per mangiare, a differenza di altre angeliche creature che quel mestiere lo usano per far carriere nelle più disparate professioni. In modo innocente è la giustifica per gli ipocriti. Giusto per saltar la fila dei meritevoli, come si fa alla posta. E magari le furbe arrampicatrici sociali sono poi quelle che decidono chi è puttana e chi no!

Questa mia dissertazione non è l’apologia del reato della prostituzione, ma è l’intento di dimostrare sociologicamente come la stampa tratta alcuni atteggiamenti illegali in modo diseguale, ignorandoli, e di fatto facendoli passare per regolari.

Quando il diavolo ci mette la coda. Fatto sta che dirimpettai a casa non ne ho. C’è la scuola elementare. Ma dall’altro lato della mia abitazione c’è un vecchio che non ci sta più con la testa. Lo dimostrano le aggressioni gratuite a me ed alla mia famiglia ogni volta che metto fuori il naso dalla mia porta e le querele senza esito che ne sono conseguite. Però ad Avetrana il TSO è riservato solo per “Zio Michele Misseri”, sia mai che venga creduto sulla innocenza di Cosima e Sabrina. Dicevo. Queste aggressioni sono situazione che hanno generato una forte situazione di stalking che limita i nostri movimenti. Bene. Il signore in questione (dico quello, ma intendo la maggior parte dei nostri genitori ormai inutili alla bisogna tanto da non meritare più la nostra amorevole assistenza) ha da sempre delle badanti rumene, che bontà loro cercano quanto prima di scappare. Delle badanti immigrate nessuno mai ne parla, né tanto meno le forze dell’ordine hanno operato le opportune verifiche, nonostante siano intervenuti per le mie chiamate ed abbiano verificato che quel vecchietto le poverette le menava, così come spesso tentava degli approcci sessuali.

Rumene anche loro, come le meretrici. Ma poverette non sono puttane e di loro nessuno ne parla. In tutta Italia queste schiave del terzo millennio sono pagate 500 o 600 euro al mese a nero e per 24 ore continuative, tenuto conto del fatto che sono badanti di gente incapace di intendere, volere od agire. Sono 17 euro al giorno. 70 centesimi di euro all’ora.  Altro che caporalato. A queste condizioni non mi meraviglio nel vedere loro rovistare nei bidoni dell’immondizia. A dormire, poi, non se ne parla, in quanto il signore, di giorno dorme e di notte si lamenta ad alta voce, per mantenere sveglia la badante e tutto il vicinato. Il paradosso è che il signore e la sua famiglia sono comunisti sfegatati da sempre, pronti, a loro dire, nel difendere i diritti del proletariato ed ad espropriare la proprietà altrui. Inoltre non amano gli animali. Ed è tutto dire.

Le badanti, purtroppo non sono puttane, ma semplici schiave del terzo millennio, e quindi non meritevoli di attenzione mediatica.

Delle schiave nelle italiche case nessuno ne parla. Perché gli ipocriti italiani son fatti così. Invece dalle alle meretrici. Zoccole sì, ma persone libere e dispensatrici di benessere. Se poi puttane non lo sono affatto, le donne lo diventano con l’attacco mediatico e gossipparo.

LA PALUDE DEGLI SCRITTORI. LE VESTI STRACCIATE E LA LAVATA IN PUBBLICO DEI PANNI SPORCHI DEGLI (A LORO DIRE) INTELLETTUALI.

Mettete in scena una commedia inesistente in cui editori mafiosi manovrano addirittura centinaia di voti popolari, o autori con famiglie numerosissime e stuoli di schiavi o clientes……

Campiello, una cinquina contestata. Un esito che non è piaciuto per niente al figlio Vittorio, che in serata ha sparato ad alzo zero come suo solito: «Sono indignato - ha detto - ma non perché hanno escluso mio padre, ma perché hanno perso l’occasione di far parlare di un premio che di suo è morto, e di fare un omaggio a uno dei fondatori, Gian Antonio Cibotto: cosa c’era di meglio che premiare un esordiente ultranovantenne piuttosto che il solito trentenne (in realtà Valenti di anni ne ha 50, ndr)? E cosa di meglio che fare un omaggio a Cibotto, dando spazio a un suo amico, che parla come lui del Po e della vita che gli scorre intorno? Così rinnegano le loro origini, sono degli incapaci. E tutto per far passare due libri Einaudi, una prova della loro mafiosità».

Campiello, tutti contro Sgarbi per la polemica sul libro del padre, scrive “Il Gazzettino”. Il Campiello riparte il giorno dopo da Vittorio Sgarbi. Dalla sua nuova entrata a gamba tesa sulle scelte di una giuria che ha deciso di lasciare fuori dalla cinquina finale il libro del padre esordiente a 93 anni. Riassumendo il pensiero del critico: il Campiello è un premio morto, ci sono mafiosità, persone incapaci, giurati a cui piacciono cose schifose eccetera. Ovviamente promettendo un bombardamento di strali futuri, già iniziato in tv. I destinatari di tali, simpatiche attenzioni cercano di non scendere in battaglia, limitandosi molto signorilmente a rispedire al mittente le tante illazioni, ribadendo come il Campiello sia un premio vivo, libero e del tutto autonomo nelle scelte, da parte di una giuria, che come quasi tutte le giurie, non ha trovato accordo unanime, ma ha scelto in piena serenità. Insomma: non c’è assolutamente voglia di infuocare la polemica, lasciando il profilo della risposta nella più ordinata ed elegante spiegazione. Riccardo Calimani, componente della Giuria dei letterati, spiega subito le scelte sue e dei compagni d’avventura: «Il libro del papà di Sgarbi è un buon libro, che è stato apprezzato e ben discusso da tutti noi. Quindi le sue reazioni sono assolutamente fuori regola, logica e assolutamente sbagliate e del tutto inaccettabili. La violenza verbale, poi, è deprecabile. Dire poi che il Campiello è morto non ha senso. Il Campiello è un premio vivissimo, assolutamente libero e lo dimostra proprio perché la presidente Monica Guerritore si è dichiarata non contenta dell’esito finale, questo a dimostrazione che non eravamo tutti d’accordo, come capita spesso nelle giurie, ma il verdetto finale ci ha lasciati del tutto sereni». Anche Piero Luxardo, presidente del Comitato di gestione, non accetta la "morte" del Campiello: «Morto? Le polemiche semmai dimostrano esattamente il contrario. Le manifestazioni di Sgarbi sono nelle loro consuete tinte diciamo estroverse, che fanno parte del personaggio. Pazienza, non saprei che altro dire, se non che il Campiello è un premio libero, trasparente, non condizionabile. Essendo la seduta pubblica, durante la quale tutti sanno chi e come ha votato, è chiaro che è impossibile parlare di risultato predeterminato. Ma comunque non voglio commentare certe frasi vivaci, sopra le righe. Noi non abbiamo nessun manuale Cencelli da soddisfare. Anche sulle opere prime abbiamo dibattuto in modo articolato, e siccome il Campiello passa spesso per un premio a tematica industriale, diventa paradossale che la scelta sia caduta su un romanzo che parla di intossicazione per amianto di un operaio». Infine lo scrittore Mauro Corona, uno dei cinque finalisti, che conferma la richiesta di Sgarbi a cedere il posto al padre: «Vittorio mi ha telefonato per questo. Ma le giurie sono come le sentenze dei tribunali: non si discutono. Mi ha chiesto un gesto eclatante, ma al di là di dire di no, non credo sia nemmeno contemplato dal regolamento. E poi non credo che suo padre sarebbe orgoglioso di approdare in questo modo in finale. Posso solo dire che il libro del papà è proprio un gran bel libro. A me non interessa sapere se qualcuno crede che il premio Campiello sia morto. Io ringrazio solo la giuria che ha avuto lungimiranza e coraggio a mettermi nella cinquina».

Passano Mari, Corona, Fontana, la Garavini e Falco. Fuori Sgarbi senior. La Guerritore voleva «un’altra cordata». E la stroncatura di Cordelli su «la Lettura» si fa sentire, scrive Marisa Fumagalli su “Il Corriere della Sera”. Non s’era mai visto al Campiello un presidente di Giuria esprimere con tanta schiettezza la delusione per il risultato della Cinquina che «non è la mia». E neppure era mai accaduto che, nel corso della seduta pubblica per la selezione dei finalisti, lo stesso presidente leggesse nell’aula Magna del Bo un brano di un’opera in gara. Con dizione perfetta, certo. Ed anche con quella dose di teatralità che si addice a un attore. Anzi, a un’attrice. Parliamo di Monica Guerritore, presidente della 52° edizione del Premio fondato dagli industriali del Veneto, che occupa da tempo una solida posizione di prestigio nel panorama letterario italiano. «La nostra cordata non ce l’ha fatta», ha detto chiaro e tondo, la Guerritore, in chiusura di votazione, alludendo evidentemente ad alcuni colleghi della Giuria (composta da 10 membri lei compresa), allineati nelle valutazioni dei libri in concorso. Vero è che, rispetto all’anno passato, la gara per entrare nella rosa dei 5, in marcia verso la vittoria che sarà decisa dalla Giuria Popolare dei 300, è stata piuttosto movimentata. Sei giri di tavolo per trovare la quadra della Cinquina, così definita: Roderick Duddle di Michele Mari (Einaudi, 8 voti), La voce degli uomini freddi di Mauro Corona (Mondadori, 6), Morte di un uomo felice di Giorgio Fontana (Sellerio, 6), entrati nella rosa alla prima votazione. Le vite di monsù Desiderio di Fausta Garavini (Bompiani, 6), alla seconda; La gemella H di Giorgio Falco (Einaudi, 5), alla sesta. Quest’ultimo ha dovuto giocarsela fino all’ultimo con Giuseppe Sgarbi, ultranovantenne, «padre d’arte» di Vittorio ed Elisabetta. «Il riscatto di un uomo delicato, sensibile, elegante, nei confronti di due figli e una moglie ingombranti», chiosava con ironia il giurato Philippe Daverio. Ma Lungo l’argine del tempo (Skira) ha dovuto cedere il passo a La gemella H. Con i voti di Silvio Ramat, Luigi Matt, Nicoletta Maraschio, Paola Italia. Poi, si è aggiunto Riccardo Calimani. Mentre Ermanno Paccagnini, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo e Salvatore Silvano Nigro, agli ultimi giri, sono andati a zig zag. «La rosa ideale spesso comprende più di 5 libri — osserva Paccagnini —. In dirittura d’arrivo si deve stringere, e qualche voto viene dato più per contrastare che per favorire». Nella cinquina caldeggiata dal presidente, infine, avrebbe figurato soltanto uno dei favoriti: Michele Mari. (E neppure al primo posto, al terzo). Ma quanto è oggettivo il valore di un libro? Ad ogni edizione del Campiello, assieme alle tendenze di stagione, ai filoni letterari, affiora nel dibattito anche il tema dei criteri di valutazione delle opere. Quest’anno, si segnala una polemica divampata fuori dal Premio ma che in qualche misura lo riguarda da vicino. Al centro c’è lo scrittore entrato in cinquina Giorgio Falco, indicato tra gli esempi di mediocrità narrativa da Franco Cordelli, in un articolo pubblicato la scorsa domenica su «la Lettura», supplemento culturale del «Corriere della Sera». Il critico stronca l’autore de La gemella H, per poi lanciare un attacco alla «palude» letteraria dove si annidano gruppi che perseguono «la sopravvivenza editoriale». E altro ancora. La riflessione di Cordelli non è passata inosservata. Consensi e dissensi si rincorrono sul web e sulle pagine culturali dei quotidiani. In attesa della sfida finale al Gran Teatro La Fenice di Venezia (13 settembre), il Premio di Confindustria Veneto ha già un vincitore. Si tratta del Campiello Opera Prima 2014, attribuito dalla Giuria a La fabbrica del panico di Stefano Valenti (Feltrinelli). «Racconta una storia familiare che diventa corale di fronte alla malattia e alla morte per amianto», si legge nella motivazione. A narrarla, muovendosi tra i ricordi, è il figlio quarantenne che sente la necessità e il dovere di stringere un rapporto più ravvicinato col padre, sceso a Milano dalla Valtellina per morire in fabbrica. «Per questo riconoscimento, il competitor di Valenti era Giuseppe Sgarbi», rivela Monica Guerritore.

La palude degli scrittori. Che cosa ci lascia la produzione editoriale degli ultimi vent’anni?
Sguardo su autori o «tribù» che si sono formate, forse in modo inconsapevole, scrive Franco Cordelli su “Il Corriere della Sera”. Le «sagome sudate»... Quando sono arrivato a queste due parole ho avuto un moto di rabbia, di sicuro eccessivo. Ma si sa che per un sintagma si può perdere la testa — in un doppio senso. Le «sagome sudate», che per me non vuol dire niente, compare in un romanzo di Giorgio Falco: La gemella H. Compare nella prima pagina. Poi invitando me stesso alla calma ho messo da parte La gemella H e ho preso il libro precedente di Falco, L’ubicazione del bene, che avevo conservato ma non letto. Di questo sono arrivato fino in fondo. «L’aria accucciata».Ne cito due frasi: «Le pale del ventilatore girano lente, sembrano acchiapparsi a vicenda, al prossimo giro, spiate dall’aria accucciata». Sappiamo bene che si possono usare metafore in mille modi, che si possono avere visioni, che si può stravolgere fino a essere considerati veggenti. Ma se si può accettare che le pale sembrino acchiapparsi, chi ha mai visto l’aria accucciata? L’altra frase, ancora da L’ubicazione del bene, dice: «L’aria (sempre l’aria! ma è molte pagine avanti, in un altro racconto) arriva dal basso, noi siamo a disagio nel restare fermi, disabituati a quell’ariosità gratuita, così andiamo verso uno dei cannocchiali che, come molte altre cose, per avere senso ha bisogno dell’energia di una moneta». Come non pensare che per scrivere «l’energia di una moneta» di fantasia bisogna averne molta? Qualunque cosa sia, una simile espressione, metafora o che altro, non è un bello scrivere. Al più (ovvero al meno) è un modo di scrivere che ha il merito di mostrare l’intenzionalità, la volontà d’essere originali, il mettersi in posa. Sfiguramento proprio del conflitto bellico. Alla lettura di Falco ero arrivato sull’onda di una stampa a lui molto favorevole, nell’ambito di una circoscrizione che per comodità diremo d’«avanguardia». Ed ecco poi (dopo l’avvenuta lettura) proprio su La gemella H un articolo di Giorgio Vasta, il cui primo libro non avevo finito di leggere per motivi analoghi a quelli di Falco. Anche dell’articolo di Vasta do due esempi di prosa che a qualcuno è parsa letteratura pura e a me pura farneticazione. Prima frase: «Si ha la sensazione che Falco sia dominato da una duplice ossessione: da un lato dal bisogno di ricomporre per via letteraria una genesi del contemporaneo, vale a dire quella cosa che chiamiamo presente; dall’altro dal desiderio di rendere conto nella lingua (e dove, se no? né posso trattenermi dall’osservare che contemporaneo e presente sono la medesima cosa) — rendere conto nella lingua di ogni microfenomeno umanamente percepibile — gli infrasuoni, l’ultravioletto, le più minuscole increspature dell’esistente». La seconda frase di Vasta dice: «Il transito dalla guerra alla pace permette un’ulteriore consapevolezza: la messa in torsione dell’etica (questo, della frase che qui ripeto, è il picco), il suo sfiguramento proprio del conflitto bellico, non è qualcosa che termina con la fine della guerra ma prosegue in forme più attenuate e diluite, socialmente compatibili». A me sembra incredibile che questi due scrittori possano essere esaltati. Eppure così è. Riconoscimento di una tribù. Li ritroviamo in una tanto ricca quanto tendenziosa antologia di Andrea Cortellessa, La terra della prosa, dedicata agli scrittori che hanno esordito dopo il 1999. Ed è a questo punto che m’è sembrato di uscire da un lungo sonno, quello in cui, e io con essa, è caduta la letteratura italiana contemporanea: non più un campo di forze, una scacchiera su cui sia possibile — come era fino alla soglia degli anni Novanta — scorgere e valutare linee di tendenza, gesti peculiari, prese di posizione esplicitamente e implicitamente teoriche e soprattutto opere di qualità, impugnate con argomenti critici riconoscibili e validi, se non per tutti almeno per i più. Invero la letteratura italiana degli ultimi vent’anni (a cominciare dal declino della critica, impoverita ancor più di romanzo e poesia) non è che una palude, in cui il bello e il brutto sono detti e sostenuti secondo un percorso prestabilito: pubblicazione (ma pubblicano tutti), recensione, premio. Non c’è altro. Oppure c’è, a guardare bene, meno distrattamente, il riconoscimento di una tribù: una adesione prodiga di stilemi iperbolici. Sì, la faccenda è uguale per tutti, o quasi tutti; la plausibilità del valore è minima o nulla; la palude nasconde gruppi che non si riconoscono come tali, che neppure sanno di esserlo, e in cui ognuno per conto proprio persegue lo stesso fine — vale a dire (prima ancora del successo) la sopravvivenza editoriale, o presso l’editore per il quale si pubblica, o dello stesso editore, insidiato a sua volta da sempre nuovi editori — almeno quanto costoro sono insidiati da sempre nuovi scrittori. Non è questione di «buoni» o «cattivi». Questo grafico, il grafico che qui presento, è un tentativo di guardare dentro la palude — più o meno dove non si vede niente, o poco, o in modo confuso. Ovviamente ciò che vedo e trascrivo è frutto della mia percezione, del mio sguardo. Ma non è la mia opinione intorno al buono o al cattivo. Parlo solo di ciò che tra un anno potrebbe essere diversissimo ma che in questo preciso momento balza agli occhi, ossia di ciò che viene valutato criticamente ad un certo livello, di qualità, o appunto di intrinseca necessità perfino personale. Parlo non già d’una totalità, ma d’una parte — appunto la meglio visibile. Voglio chiarire: parlo di ciò che viene percepito (che credo venga percepito in questo momento come culturalmente significativo — almeno un poco); e di come chi viene percepito percepisce se stesso e gli altri, i lontani e i meno lontani, vale a dire gli appartenenti alla stessa tribù. Ne consegue che i cento scrittori non nominati non lo sono per la medesima ragione, perché poco o troppo percepiti. Essi appaiono culturalmente irrilevanti (almeno nell’immediato: la maggior parte dei poeti, che ha rinunciato a dire qualcosa in più, rispetto ai propri versi) o già acquisiti in una sfera di vera o presunta eccellenza o quanto meno dignità (culturale e, naturalmente, artistica). In quanto ai settanta nominati. Il numero è una mera casualità o, se si vuole, una mezza necessità. Le categorie, o caselle, o tribù, o famiglie. Sono qui ridotte allo schema parlamentare perché esso resta, benché a vanvera, eloquente. Eloquente, come? Non posso che semplificare, ridurre, stravolgere. A sinistra (novisti) troviamo un che di simile a una casta di incerta memoria politica, erede di una tradizione di stile e rigore e i cui esponenti, per quanto sempre in prima linea, faticano a ritrovare l’antico vigore; esterna a questa, una sparuta e ideologicamente incoerente raccolta di nomi di irriducibili guardiani dell’hic et nunc (dissidenti); a destra, quanti mostrano un’orgogliosa indifferenza per il tempo che passa e sono spesso riconosciuti in quanto sempre reattivi a ciò che viene di sinistra presunto (conservatori); l’estrema destra, di matrice dannunziano-pasoliniana, si caratterizza per un’aggressività verbale e una vistosa muscolarità (vitalisti); a fare da ago della bilancia, il centro-moderato, una forza ad alta vocazione istituzionale pronta ad assumere sulle proprie spalle il ruolo che la società culturale gli riconosce (moderati); ai margini il gruppo misto — simile al suo analogo parlamentare — composto da minoranze, transfughi e orfani; assisi nel distacco della loro indiscussa celebrità, i senatori a vita guardano con relativa attenzione a quanto gli accade intorno. Da questi settanta nomi ne estraggo due per diminuire i possibili equivoci. Walter Siti compare tra i novisti né in ragione della forma dei suoi romanzi né in ragione dei loro contenuti, ma perché pur essendo egli un uomo fondamentalmente di destra («resistere non serve a niente») fu oggetto di ammirazione presso lettori che si considerano di sinistra, o meglio cultori del nuovo, avanguardisti, sperimentali ecc. Giorgio Ficara — il cui Riviera è considerato un contributo innovativo, nella riconosciuta crisi e insopportazione del romanzo, a questo genere da lui stesso ritenuto obsoleto (ma per me Riviera, comunque eccellente, è un libro di viaggio) — Ficara compare tra i conservatori per ragioni che ritengo del tutto casuali, per avere egli quegli amici, quei sostenitori, le altre dieci persone nominate nel suo schema: che sono quelle a lui più vicine, o dal punto di vista del gusto o nella vita di tutti i giorni.

Cordelli, penna rossa ma distratta. La critica colpisce «giovani avanguardie» dotate di un pensiero solido, eppure assolve scrittori più famosi che usano una lingua desueta e lontana dal presente, replica  Gilda Policastro su “Il Corriere della Sera”. A leggere lo sfogo di Franco Cordelli uscito domenica su «la Lettura», che senza scandalo possiamo definire idiosincratico, vien da chiedergli immediatamente dov’era, negli ultimi (a dir poco) dieci-quindici anni, mentre anche da noi s’inveravano le profezie di Schiffrin e gli allarmi di un’editoria soccombente alla necessità di trarre profitto non solo o non più dal fatturato complessivo ma da ogni singolo titolo stampato, col sacrificio programmatico dell’opera costata al suo autore, diceva Leopardi, «anni di fatica e grandissimo lavoro» e destinata in partenza agli altrimenti famigerati venticinque lettori o ancor meno. Dov’era mentre gli editori diventavano imprenditori e gli editor venivano assunti di preferenza tra ragazzetti non laureati, che dei libri pretendevano innanzitutto una sinossi, aspettandosi (o esigendo) poi che lo stile si adeguasse per contratto alle trame seriali come sceneggiati da prima serata di Raiuno, e normalizzando qualunque violazione (l’iperbato, questo sconosciuto) linguistica, stilistica, strutturale. Dov’era quando l’aggettivo «rastremato» veniva da uno di codesti pischelli espunto da una copertina (di ciò ha esperienza diretta chi scrive) perché «non esiste in italiano», salvo inserirci di suo pugno un errore marchiano di concordatio (un’endiadi in una bandella vorrebbe il verbo al plurale: vaglielo a spiegare); e dov’era quando gli editori si ostinavano a selezionare gli autori e i libri dei rispettivi autori in base alle vendite del libro precedente, quando gli anticipi milionari si riservavano agli autori televisivi e agli altri non restava che elemosinare e ringraziare in ginocchio per il compenso corrisposto a rate e appena appena superiore alla pessimistica previsione di vendita dei librai. Tutto questo, secondo Franco Cordelli, è ininfluente, non riconfigura il perimetro del campo letterario, non lo determina, non lo condiziona, non gli cambia i connotati? Mentre negli ultimi dieci-quindici anni si è distratto per sua stessa ammissione, Cordelli oggidì non trova di meglio, per rientrare nel dibattito sul romanzo contemporaneo, che impugnare la penna rossa e emendare gli aggettivi impropri di Falco e Vasta, i due scrittori più apprezzati della generazione cosiddetta TQ. Quelli che riescono, malgrado la loro raffinatezza stilistica e complessità concettuale, a farsi pubblicare in sedi come Stile Libero (il cui editor sarà uno di quei ragazzetti di cui dicevamo: e infatti non edita, e giù errori, incongruenze, ridondanze) e Laterza, a scrivere su «Repubblica», a farsi recensire e premiare. Se con merito o senza, non lo deciderà l’epiteto «sudato» (leopardiano anch’esso, tra l’altro), con buona pace del Nostro, il quale non ha mai avuto simpatia per le avanguardie, e che oggi, come quelle al tempo, non ha simpatia per il romanzo egemone, specie se generazionale (con qualche sparuta eccezione: lo stilista Bajani, i cui romanzi scorrono piacevolmente e però dopo un giorno o due si dimenticano come una bella bevuta d’acqua fresca dopo una passeggiata in collina). Ma come si fa a liquidare l’opera di un autore stralciandone un sintagma? Si potrebbe ripetere lo stesso esercizio con tutti i libri, classici compresi e nessuno escluso. È come quando vai dal medico con le analisi fatte di fresco e gli sottolinei il valore per te ansiogeno del colesterolo o della glicemia improvvisamente aumentata. Non è serio se si allarma a sua volta, se diagnostica una malattia terminale. È serio se ti chiede di ripetere le analisi, perché è il trend a determinare la patologia, non il caso isolato. E il benessere del corpo non si misura dal singolo organo eventualmente in sofferenza, ma dall’insieme. Giorgio Falco e Giorgio Vasta, con buona pace di Cordelli, sono due tra i migliori scrittori emersi nei famigerati Anni Zero per consapevolezza del mondo (non solo letterario) e padronanza della scrittura, ma soprattutto perché la loro scrittura non è un orpello né un fumogeno bensì l’impalcatura di un pensiero solido (o, piuttosto, è il pensiero a costituire l’impalcatura di una facciata più o meno riuscita a seconda dello specifico libro e della singola pagina), portatore di significati. Appropriandoci del metodo Cordelli, prendiamo ad esempio Antonio Scurati (che nella tabellina annessa al pezzo – o viceversa? - si merita un posto d’onore chissà perché tra i vitalisti, accanto ai consentanei Genna e Di Consoli e ai diametralmente opposti Nove e Moresco): come esordisce sulla pagina la protagonista del suo ultimo romanzo (candidato a tutti i principali premi letterari, anche quelli che hanno nella giuria professoroni e cattedratici)? «Giulia ha erotto in un pianto convulso» (sic!). E poco più avanti scopriamo ammantate di un’«indubbiamente indubbia bellezza» le rivali della medesima Giulia. Ahi: dov’era l’editor quando questi specimina di vitalismo andavano in stampa? E Cordelli e la sua penna rossa, ubi erant. Ma la vera colpa di Scurati non è nemmeno quella sua lingua desueta e improbabile come il patetico rewind di una nonna che si ostini a parlare di Carosello al nipotino che gioca coi Pokemon, è piuttosto l’incapacità di rappresentare un mondo, il mondo come lo vede lui, persino, e di pretendere a ogni nuovo libro di sciorinarci ore rotundo le sue trite consapevolezze sociologiche, incastonate in una qualche letale tramina raffazzonata. Perché Cordelli non si accanisce piuttosto su Scurati? Trova che sia più opportuno che il romanzo contemporaneo si occupi di padri fedifraghi e morbosità cronachistiche assortite che di terrorismo e olocausto? Risponderebbe che non gl’importa di cosa, ma di come. Dunque avevano ragione i deprecati neoavanguardisti, ma anche Nanni Moretti: chi parla male pensa male, le parole sono importanti. E sono tanto più importanti le parole di un critico monumentale come Cordelli, soprattutto quando consacrano o escludono, più che mai in una tabellina che si preoccupa di mappare il contemporaneo seguendo i percorsi canonici dell’appartenenza all’antico o della propensione al nuovo. Giglioli, Mazzoni, Cortellessa, Laura Pugno e Valeria Parrella però qui vanno a braccetto, tutti insieme, scrittori e critici e certi scrittori con certi critici. Ubi sunt (tra i novisti cosiddetti), a dire solo di alcuni (e di alcune: esistono anche le donne-critico, Cordelli!) Cecilia Bello Minciacchi, Daniela Brogi, Clotilde Bertoni, che recensiscono con una competenza e profondità che non ha decisamente nulla da invidiare ai colleghi (maschi) laureati da Cordelli, poesia, romanzo, cinema contemporanei? Perché se nella palude ammette di non orientarsi, non fa allora come in Dante, dove «quei c’ha mala luce» può volgere lo sguardo solo verso ciò che è lontano rinunciando, per dichiarata «vanità d’intelletto», a ciò che «s’appressa?» Riviera. No, dico: Riviera. Ma chi potrebbe parlarne, tra i critici a me coetanei (e non solo: il problema non è di rottamazione ma di ampiezza di sguardo), in una disamina del romanzo contemporaneo da affossare aut salvare? E chi salverebbe, tra i critici del romanzo contemporaneo, i pur volenterosi Andrea Caterini e Stefano Gallerani a scapito di Paolo Giovannetti, Pierluigi Pellini e Gianluigi Simonetti (marchiati forse dall’aborrita provenienza accademica, ma certamente con maggiori e migliori titoli all’attivo dei nominati), chi potrebbe mai dire, avendo letto (e riletto: che il grande romanzo è quello che vuoi e puoi rileggere a distanza di anni) Scuola di nudo e Troppi paradisi, che Siti è un reazionario? Cos’è più reazionario, mirare alla pagina levigata (e nei fatti indolore) o alla sostanza marcia e brutta delle cose, ostentare un italiano da romanzo ottocentesco in traduzione o «sapere bene come scrivere male»? Cordelli, l’Armani di Ponte Milvio, si contamini con altri mondi e altre forme (altro che il vitalismo all’amatriciana tirato in ballo) come ha fatto Siti, e se non ne ha il coraggio (letterario, intendiamo), che almeno si lasci contaminare dalle parole, trascurando, nelle sue faziose, raffinate, elitiste pagelline, le sapienti tessere lessicali, la callida iunctura, l’agudeza. Per quello ci sono i classici di sempre, da Orazio a Marino a D’Annunzio a Landolfi, fino a Manganelli. Che poi l’italiano (letterario) è proprio come la salute: ognuno se ne allestisce una versione e visione conveniente e ci si adatta, anche coi peggiori guasti. Perché sono quelli, insegnano i foucaultiani, a rendere al corpo come meccanismo la sua unicità. A questo bisogna guardare, quando si emette la diagnosi: anche perché i sani sono nella vita normale (che Cordelli si picca di privilegiare stigmatizzando l’aggettivazione incongrua dei deprecati «due Giorgi») molto spesso dei noiosissimi ipocondriaci, non trovate?

In Italia, la vera «palude» risiede nello scarso sostegno alla cultura. Pochi fondi per gli scrittori, mancanza di una politica che vada a nutrire quella «società culturale» che potrebbe risollevare anche l’economia, replica Raffaella Silvestri su “Il Corriere della Sera”. «Che cosa ci lascia la produzione editoriale degli ultimi vent’anni?»: domenica scorsa, leggendo l’articolo di Franco Cordelli su «la Lettura», ho cercato di farmi la stessa domanda, pur partendo da presupposti diversi. Avevo provato per la prima volta a fare il punto della situazione editoriale italiana per un pubblico straniero, sul «New York Times»; così domenica ho cominciato, in un certo senso, una riflessione a ritroso: dal raccontare com’è casa mia a un estraneo, provo ora a osservarla come se la vedessi per la prima volta dall’interno (del resto, da pochissimo tempo la visito dall’interno e ancora non ne distinguo le stanze con chiarezza). Dov’è il sostegno agli esordienti? Mi sembra, intanto, che la produzione editoriale degli ultimi vent’anni sia fortemente e tristemente segnata da due elementi: in primo luogo una mancanza di fondi dedicati ai programmi culturali, agli scrittori esordienti soprattutto. Questo lascia interamente alle case editrici il compito di leggere, scoprire, «allevare» la nuova generazione di scrittori, quelli che segneranno la produzione editoriale dei prossimi vent’anni. In un’industria in contrazione, che perde il 7% di anno in anno, e che di conseguenza dispone risorse più limitate di un tempo, questo mi sembra un compito titanico, che meriterebbe il supporto di istituzioni equivalenti, ad esempio, al francese Centre National du Livre. Dall’altra parte, poi, c’è l’anomalia legata ai pochi riconoscimenti dati alle voci femminili italiane. Voci che esistono, producono narrativa di qualità, eppure vengono citate meno dei loro colleghi uomini, eppure raramente vincono premi veramente prestigiosi (l’ultimo Strega più di dieci anni fa: sintomo forse che, come nella società in generale, anche nella società letteraria la situazione di gender non vede miglioramenti). Se questi due punti poco hanno a che fare con le categorie della palude, molto hanno a che fare invece con la produzione che troviamo in libreria, molto c’entrano, anche, con il numero esiguo di scrittori chiamati, in modo secondo me condivisibile, «moderati»: scrittori di cui ci sarebbe invece un forte bisogno, proprio per la loro caratteristica di «assumere sulle proprie spalle il ruolo che la società culturale gli riconosce». La società culturale. La società culturale è la parte della società che ogni intellettuale dovrebbe provare a estendere, in un’Italia in cui il 57% della popolazione non ha toccato un libro nell’ultimo anno. La società culturale, per come la intendo io, è quella che legge i giornali, compra i libri, sa decifrare un testo complesso (il 70% degli italiani oggi, secondo l’OCSE, non è in grado di farlo). Storicamente, la società culturale italiana rappresenta una piccolissima parte della popolazione. Ci sono varie ragioni per cui questa è la verità oggi: la nascita tardiva di una classe media, la televisione che non ha contribuito a crearla (né, del resto, sarebbe stato suo compito farlo). Ragioni storiche che tendono tutte alla situazione odierna: una polarizzazione della cultura, più che una frammentazione precisa. Da una parte la letteratura cosiddetta alta, dall’altra parte quella cosiddetta di consumo, una distinzione più triste di quella della palude, eppure, forse, più vicina alla percezione del fruitore medio di cultura italiana. Si tratta di una percezione che ha bisogno di essere infranta, cambiata, sostituita con una diversa, più democratica. Perché se, come sosteneva Spinazzola, ogni libro risponde a un bisogno del pubblico, esiste una reale necessità di mediazione non giudicante e non prevenuta fra questo bisogno e l’offerta, così ampia, di letteratura contemporanea.

Giù le mani dalla critica di Cordelli. Il suo è un clamoroso atto di libertà. La polemica nata significa che molti scrittori di oggi hanno una straordinaria opinione di se stessi, e che null’altro si aspettano – dalla critica e dalla vita – che l’applauso, replica Andrea Di Consoli su “Il Corriere della Sera”. Si potrebbe dire — e non insisterò su questo, perché sarebbe una scorciatoia un po’ ribalda – che la debolezza dell’avanguardia letteraria italiana a partire dal Gruppo 63 sia stata la robustezza teorica e la fragilità delle opere letterarie corrispondenti. E non insisterò su quest’aspetto per tanti motivi, anzitutto perché ogni critico onesto dovrebbe sforzarsi di essere anche almeno un po’ uno storico, e perciò un intellettuale rispettoso e magari indulgente, soprattutto nei confronti della commovente fragilità di ciascun scrittore, comunque la pensi o la si pensi. Le accuse al «gruppo sperimentale». Eppure mi rendo conto che facile non è, questa massima tolleranza che mette a dura prova le certezze del nostro io, cioè del nostro gusto, perché forte è la tentazione di agire per impulsi umorali, oppure per settarismi, fanatismi. Dico questo perché molto mi hanno sorpreso le insofferenze, le stizze rancorose e gli anatemi rivolti a Franco Cordelli, reo di aver scritto un articolo su «la Lettura» dello scorso 25 maggio al quale era annesso uno schema di scrittori classificati secondo macro-categorie abbastanza generiche, com’è inevitabile per simili sistemazioni giornalistiche. Al di là degli insulti, figli di una società che molte ambizioni sollecita e troppe frustrazioni procura, il nodo critico rilevante, anche a livello di cronaca letteraria, è il divorzio di Cordelli con la letteratura e critica «novista». In sostanza, Cordelli ha sconfessato in un articolo – che evidentemente, vista l’impetuosità delle reazioni, covava da tempo – autori del «gruppo sperimentale» come Giorgio Falco, del quale Cordelli stigmatizza «la volontà di essere originali, il mettersi in posa». Può una teoria letteraria così reboante accontentarsi? Personalmente non ho letto Falco, e dunque nulla posso dire sulla sua opera, ma è evidente che la dura sortita di Cordelli è figlia di un ripensamento che ha il sapore di un’abiura o, più correttamente, di una ritrovata libertà; oppure, a un livello più malizioso, dell’eterno ritorno della questione che ponevo in apertura di articolo, ovvero se davvero una così reboante teoria letteraria possa poi accontentarsi di partorire opere che sembrerebbero non all’altezza delle premesse teoriche con le quali si presentano. Nulla, ripeto, posso dire su Falco; ma qualcosa posso dire intorno all’equivoco – sul quale pure intervenni in passato in polemica con Cordelli – che si è determinato in sede critica soprattutto a partire dalla pubblicazione del romanzo Il Duca di Mantova (ricordo per inciso che non solo questo romanzo, ma anche Il poeta postumo del 1978, furono opere di cosiddetta autofiction, e davvero non si capisce come altri più attardati si siano visti riconoscere il merito di aver inaugurato questo genere in Italia) che rappresentò dal mio punto di vista il vertice più alto dell’adesione da parte di Cordelli – mi si perdoni la semplificazione – alla «scrittura nova», spesso sollecitata e quasi modulata dal Andrea Cortellessa, notevole critico letterario afflitto, purtroppo, dal morbo del settarismo. Cordelli è stato qualcosa in meno e qualcosa in più di questa prospettiva. Parve, a quell’altezza, che tutta l’opera narrativa e critica di Cordelli fosse nata da una costola un po’ eretica del Gruppo 63. Io sapevo, al contrario, che le cose non stavano in questo modo, anche perché non potevo dimenticare opere romanzesche quali Guerre lontane e Un inchino a terra, che nulla avevano da spartire, pur ribadendo la natura non conciliata della sua idea di romanzo, con chi auspicava e auspica una letteratura resistenziale, sabotatrice, arma primaria per lottare alla radice (linguisticamente) «il sistema», che poi è semplicemente la vita, cioè la realtà. Cordelli è sempre stato qualcosa in meno e qualcosa in più di questa prospettiva. Non mi sfuggì per esempio in anni antecedenti a Il Duca di Mantova la sua adesione a scrittori quali Carlo Levi, Ennio Flaiano, Oreste del Buono, Giancarlo Fusco, Sandro De Feo; scrittori, cioè, di «terza strada», sintesi e dunque avanzamento del conflitto – spesso puramente estetico-retorico – tra Avanguardia e Tradizione. Nessuno quanto Cordelli ha criticato tutte le avanguardie del teatro. E voglio ripeterlo a beneficio di quanti non lo sanno o fingono di dimenticarlo: nessuno come e quanto Cordelli ha raccontato e criticato tutte le avanguardie possibili del teatro d’avanguardia italiano, almeno dalla fine degli anni ’60 in poi – e la stessa cosa, a ben pensarci, vale per la letteratura, non soltanto italiana. Dunque Cordelli è uno scrittore d’avanguardia? La risposta è no, e questo non significa affatto che egli sia scrittore della tradizione, oppure del romanzo conciliato, compiaciuto della propria meccanica armonia. Cordelli è, appunto, in una «terza strada», in un’oscillazione estremamente complessa, spiazzante, nutrita, sempre consapevole della dannosità di «valori» o nevrosi quali il settarismo, l’odio programmatico per la realtà, il sentimento di superiorità di chi pensa di poter dividere il mondo in dannati e salvati o, ancora peggio, in happy few soddisfatti di possedere i segreti della cabala stilistica, che poi spesso si risolve in un banale esibizionismo lessicale (ché il lessico, purtroppo, non è lo stile). Ora io non entrerò nella polemica sulle collocazioni degli scrittori in quella o in quell’altra macro-categoria. Io stesso, che sono stato collocato tra i «vitalisti di destra», avrei molto da ridire, ma non già in chiarezza, ma dal punto di vista del dubbio, perché, a ben pensarci, mi sarei trovato assai bene anche nel «gruppo misto», tra i «conservatori», oppure tra i «dissidenti». Guardiamo con ammirazione a un gesto dolorosamente giocoso. Ma me ne sto con ironia nel casellario dove Cordelli mi ha voluto mettere, e mai mi sognerei d’insultarlo – come ha fatto un giovanotto assai arrogante e presuntuoso, fermo al suo primo libretto – per il solo fatto di non avermi messo altrove (dove poi, tra i «novisti», i «senatori», i «moderati»?). Non scherziamo, per favore. Piuttosto guardiamo con ammirazione a un gesto dolorosamente giocoso che ha fatto arrabbiare tutti, e che ha azzerato in un colpo solo ogni tentativo di assimilare Cordelli a un «gruppo». Perché il suo, di fatto, è stato un clamoroso (e, se si vuole, spavaldo) atto di libertà. Libertà, per esempio, di poter dire che il libro di Alessio Torino è un bel romanzo senza affidargli ruoli palingenetici o resistenziali, visto che troppo subordinata alle logiche della politica peggiore appare il parlar bene di libri magari belli (come quello di Falco) usandoli come clave per liquidare il mondo intero, in maggioranza venduto al capitalismo, linguisticamente corrotto e stilisticamente miserabile. E mi chiedo: è possibile parlar bene di un libro senza usarlo per fini politici, ovvero di potere, di cordata? Giù le mani, perciò, da Cordelli, dalla sua complessità. È possibile evitare la costituzione di gruppi o gruppuscoli, spesso «usati» come scudi umani per portare avanti lotte che null’altro sono se non lotte politico-ideologiche, oppure, perché nasconderlo?, lotte di egemonia personale? Giù le mani, perciò, da Cordelli, dalla sua complessità, dalla sua sofferta sintesi tra Avanguardia e Tradizione, tra sguardo freddo e lirismo; e, soprattutto, rispetto per uno scrittore che è tra i pochi ad avere un posto sicuro nella nostra storia letteraria post-68. Aggiungo infine a beneficio di qualche livoroso in servizio permanente che questo non è un articolo in difesa di Cordelli (troppe volte ho polemizzato con lui per meritarmi questo sospetto). È, molto più semplicemente, un articolo che vorrebbe richiamare, me per primo, al dovere civile della tolleranza rispettosa, dell’autoironia e della leggerezza. Perché gettare fango su uno scrittore che ha deciso di prendere le distanze da un’assimilazione critica non riuscita e che ha voluto esprimere, avendone l’autorevolezza, una schematizzazione della letteratura odierna che gli sembra più viva e presente? E perché non concordare con lui che troppi tra coloro che gettano fango solo perché «esclusi» o «mal collocati» nulla hanno letto non soltanto dello stesso Cordelli ma anche – e faccio dei nomi a caso – di Vassalli, Celati, Montefoschi o La Capria? Perché conta soltanto l’egemonia del e nel presente, ovvero il successo, fosse anche l’anti-successo degli scrittori dell’Avanguardia di oggi – spessi «usati», ripeto, in funzione politico-ideologica? Una società letteraria matura e non frustrata avrebbe accolto l’articolo e lo schema di cui stiamo parlando discutendoli nel merito, oppure accettandoli con un sorriso o uno sfottò. È successo invece il finimondo, in pubblico e in privato. Probabilmente questo significa che molti scrittori di oggi hanno una straordinaria opinione di se stessi, e che null’altro si aspettano – dalla critica e dalla vita – che il monumento, l’applauso, il complimento assoluto, sperticato, superlativo.

La «palude» è letteraria e politica. Ma la cultura ha bisogno di conflitto. Le contrapposizioni estetiche di un tempo hanno lasciato il posto a una sorta di amicizia/inimicizia, una condizione di non belligeranza, in cui tutti puntano ad assicurarsi una dignitosa carriera di scriventi (pubblicazione-recensione-premio), replica Gabriele Pedullà su “Il Corriere della Sera”. Le metafore sono importanti. Lo ha ricordato Andrea Cortellessa, rimproverando a Franco Cordelli di aver associato l’immagine della palude al concetto di mappa: le paludi, proprio perché instabili, non possono essere cartografate. Cortellessa ha rivendicato invece il lavoro di quanti – a cominciare dalla sua antologia La terra della prosa – hanno cercato di mettere un po’ di ordine nelle patrie lettere con i soli strumenti adeguati per un simile compito improbo: leggendo, ragionando, assumendosi la responsabilità di scegliere. Proprio grazie a questo lavoro un primo atlante ora c’è. Come tutti i lettori dell’articolo di Cordelli anche io sono stato colpito da questa immagine, che a molti degli inclusi e degli esclusi è apparsa un insulto gratuito al proprio lavoro. A me l’immagine della palude non dispiace. La palude non allude solo alla instabilità dei confini (in questo caso del canone degli esordienti dal 1999 in poi), ma suggerisce inevitabilmente un luogo sgradevole e ben poco ospitale. Sono anzi sicuro che se Cordelli avesse formulato la medesima idea adoperando una similitudine più gentile, per esempio se avesse parlato di «brodo primordiale» della letteratura del XXI secolo (la soluzione di acqua e molecole carboniose da cui sono nate le prime molecole organiche), nessuno si sarebbe offeso. Salvo, ovviamente, gli assenti. A me invece l’immagine della palude non dispiace affatto. E non per le ragioni di Paolo Sortino, che ha rivendicato la formula di Cordelli per descrivere il corpo a corpo dello scrittore nella melma della lingua e si è paragonato a «una carpa gravida di batteri». Credo, semplicemente, che la metafora di Cordelli non sia geografica (come pensa Cortellessa), né biologica (come ritiene Sortino), ma più verosimilmente politica. Palude come massa informe, interessata a sopravvivere. La Palude, non necessariamente con la lettera maiuscola, è il soprannome che al tempo della Rivoluzione francese avevano ricevuto i membri della Convenzione nazionale non schierati né a sinistra, con la Montagna, né a destra, con i Girondini: i quattrocento parlamentari pronti a fornire indifferentemente il proprio sostegno agli uni e agli altri, appoggiando prima il Terrore giacobino e poi la controrivoluzione del Termidoro. Una massa informe, interessata soprattutto alla propria sopravvivenza politica e composta di cinici gregari, insuperabili nel fiutare il vento con il necessario anticipo per riposizionarsi. Anni fa, sfogliando per una vecchia rivista patinata degli anni Ottanta, mi capitò di imbattermi per caso in un durissimo attacco di Cordelli ai propri coetanei (Daniele Del Giudice, Andrea De Carlo, Antonio Tabucchi, Elisabetta Rasy…), accusati di essersi fatti complici di un grande Termidoro letterario. Evidentemente, a trent’anni di distanza, Cordelli non ha mutato atteggiamento verso il presente, né campo metaforico. Palude è l’Italia (letteraria e non solo) emersa dal tramonto degli ideali degli anni Settanta. «Partito dei flemmatici» era l’altro soprannome della Palude. E proprio perché l’intervento di Cordelli vuole essere eminentemente politico, è inutile rimproverargli – come da tanti è stato fatto in questi giorni – di non aver scritto un articolo di critica letteraria. Che cosa è dunque che Cordelli non ama nella letteratura, anzi nei letterati, d’oggi? Oltre alle similitudini di Falco e alla prosa di Vasta, esattamente la condizione liquida della cultura italiana, dove le contrapposizioni estetiche di un tempo hanno lasciato il posto a una sorta di amicizia/inimicizia, che non è nell’una né l’altra ma piuttosto una condizione di non belligeranza, in cui tutti puntano anzitutto ad assicurarsi una dignitosa carriera di scriventi (pubblicazione-recensione-premio) attenendosi al motto di «non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te». Per tradurre in termini sociologici la diagnosi di Cordelli, i gruppi in lotta per il controllo della società letteraria che hanno caratterizzato il Novecento avrebbero lasciato il campo a una incerta federazione di comunità, interessate a sostenere i propri campioni negoziando di volta in volta con le altre onori e riconoscimenti piuttosto che attraverso un conflitto aperto. «Partito dei flemmatici» era l’altro soprannome della Palude, e Cordelli avrebbe potuto usare anche questa formula. Per un uomo della sua generazione (venticinque anni nel 1968, non dimentichiamolo), il piccolo cabotaggio di oggi è il peccato capitale. Costringere gli scrittori a prendere posizione. E la classificazione affidata alle pagine de «la Lettura» è anche un modo per costringere i diretti interessati a prendere partito (una volta tanto) e a pronunciarsi. Anche se, sino a questo momento, si direbbe che il principale effetto ottenuto dall’articolo di Cordelli sia stato invece quello di compattare i giovani scrittori contro di lui, in un nuovo, paradossale, slancio unanimistico. Come volevasi dimostrare. Non tutto convince nelle famiglie di Cordelli, ma su un punto è impossibile dargli torto: la Palude, la vocazione alla Palude, è la grande tendenza del nostro tempo. Da membro onorario della tribù dei «novisti», i più politicamente battaglieri, non posso evidentemente che essere d’accordo con lui (chi sono i «novisti»? Ecco la descrizione feroce di Cordelli: «una casta di incerta memoria politica, erede di una tradizione di stile e rigore e i cui esponenti, per quanto sempre in prima linea, faticano a ritrovare l’antico vigore»). Invece, la cultura italiana avrebbe disperatamente bisogno di più conflitto – e non sulla base di banali risentimenti personali, ma perché capace di dividersi di nuovo su grandi opzioni letterarie, stilistiche, politiche. Il conflitto può far male. Ma il conflitto è anche l’unico strumento che abbiamo per dare un senso alla nostra attività intellettuale oltre il giustificabile ma assai limitato obiettivo di sbarcare il lunario. Se tutto va altrettanto bene, allora la letteratura nel suo complesso non ha più alcun valore. E se non siamo disposti ad accapigliarci (meglio, certo, se educatamente) per una rima o per una metafora, allora tanto meglio cercarci un altro lavoro. Personalmente, ritengo che la letteratura italiana più recente sia in uno stato di salute assai migliore di quello che suggerisce Cordelli, ma lui stesso, occorre riconoscere, nelle sue recensioni ha spesso dato prova di grande curiosità e apertura. Quello che soffre, e non da ora, è il sistema letterario nel suo complesso, dove tra l’inimicizia personale e l’acquiescenza interessata è scomparso lo spazio per il dissenso e la discussione critica. La smodata, irragionevole passione dei trenta-quarantenni per Pasolini e le sue intemperanze appare da questo punto di vista una sorta di compensazione simbolica per l’eccessiva prudenza degli stessi. Un anno e mezzo fa, con la richiesta di 50 mila euro da parte del senatore PD e giallista Gianrico Carofiglio al poeta Vincenzo Ostuni (che lo aveva definitivo «scribacchino»), un altro confine è stato superato: da questo momento, con un precedente tanto illustre, ogni italico scrivente potrà prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di citare in giudizio il critico o collega che non gli ha riservato gli elogi che riteneva di meritare. Non tutto è ancora compromesso. In quell’occasione, per fortuna, attorno a Ostuni si venne a condensare una ampia rete di solidarietà (Cordelli compreso): e non in nome di una sin troppo scontata e generica libertà di espressione, ma di una idea di cultura sottratta agli avvocati e in cui il conflitto possa farsi ancora lievito delle idee come è stato nel Novecento. Non tutto, dunque, è ancora compromesso. È dello stesso problema, credo, che parla Cordelli nel suo articolo. Perché oggi, al tempo della Grande Palude, il conflitto è visto male (e si paga) anche quando non viene sanzionato in un tribunale della Repubblica. Sarà sufficiente un unico esempio. Il «novista» Cortellessa, autore dell’antologia da cui è sorta la polemica, è il maggiore giovane critico italiano (in un paese nel quale si è giovani critici sino a cinquant’anni e giovani poeti fino a quando non si entra nei «Meridiani», per chi ci entra), non solo perché Cortellessa è un interprete formidabile e un lettore onnivoro; il «novista» Cortellessa è il maggiore giovane critico italiano perché ormai, volenti o nolenti, è alle sue scelte che tutti gli altri devono rifarsi: che sia per prendere posizione a favore o contro. Troppo conflittuale, troppo libero. Basta infatti sfogliare distrattamente Terra della prosa o gli interventi sulla poesia raccolti ne La fisica del senso per rendersi conto come nessuno, nella nostra generazione, abbia prodotto una ricognizione altrettanto approfondita e appassionata sulla letteratura contemporanea: una ricognizione che non può essere ignorata anche da quanti manifestano il proprio disaccordo. Sono in molti, ormai, a riconoscergli questo merito. Eppure che, io sappia, nessun quotidiano di questo paese ospita regolarmente le recensioni di Cortellessa: il quale dopo una deludente collaborazione con «La Stampa» è dovuto emigrare sul web, dove adesso scrive anzitutto su «doppiozero». Troppo conflittuale, troppo libero, in definitiva troppo innamorato della letteratura, questo Cortellessa. Perché Palude e Consenso sono rispettivamente il nome e il cognome della malattia che, emarginando alcune delle voci più libere e offrendo a tutti una bella lezione di conformismo, rischia di uccidere il nostro sistema delle lettere. Torniamo in Montagna? L’invito, con «antico vigore», non è rivolto solo ai «novisti».

Non prendetevela con Cordelli. Fa una proposta, non impone leggi. Lo schema cordelliano è un’istantanea, i cui valori possono quindi cambiare nel tempo. Un’occasione per giocare con l’immaginario delle poetiche. Senza rabbie inutili, replica Alessandro Beretta su “Il Corriere della Sera”. Mi sono piaciuti Giorgio Falco, Giorgio Vasta e, anche per la sua parzialità, l’antologia curata da Andrea Cortellessa – nella sua prima edizione per Ponte Sisto – dedicata ai narratori italiani degli anni Zero: ne ho scritto bene, in diverse sedi, di tutti e tre. Logica vorrebbe che non sia d’accordo con Franco Cordelli. Peccato si stia parlando di gusto e critica, materie ben diverse dalla rigidità di altre discipline. Sulla palude, poco da aggiungere: viviamo in un paese insano. Quindi, mi è piaciuto anche l’articolo di Cordelli, e l’ho letto e riletto fino a viverlo come un racconto da camera dedicato alla letteratura italiana contemporanea. Se non condivido i suoi giudizi sui tre nominati in apertura, ciò non toglie che trovo interessante l’immagine che finisce per dominarlo: un parlamento che sorge in mezzo a una palude. Sulla palude, c’è poco da aggiungere: viviamo in un paese insano– siamo arrivati allo 0,6 del Pil investito in cultura, siamo gli ultimi in Europa – ed è normale che il clima non sia dei più accoglienti, anche nei tentativi di modificarlo. Davanti al Parlamento di Cordelli, invece, la sindrome delle figurine è scattata immediata: chi c’è, chi non c’è, «celo, manca», quello è amico suo, quell’altro non poteva non metterlo… Così via. Lo schema cordelliano è una proposta. Tutti quelli che si occupano di libri ci sono cascati – e lo stesso procedimento, chiaramente, avviene anche con l’aggiornata antologia curata da Andrea Cortellessa La terra della prosa, uscito per i tipi de L’orma, che include 30 autori emersi dopo il 2000. Questo tipo di gioco, inevitabilmente, vale per ogni classificazione – antologica o schematica che sia – e in quasi ogni campo. Mi stupisco, allora, per la violenza di certe reazioni: quel sonno da cui si sveglia Cordelli nel suo articolo, ha generato un po’ di mostri con reazioni di ogni genere online e offline. Lo schema cordelliano è una proposta, non una legge, ed è un’istantanea, i cui valori possono quindi cambiare nel tempo. Lo prendo più come un’occasione per giocare con l’immaginario delle poetiche, che come una gabbia, e ciascuno può chiedersi dove gli piacerebbe sedere in Parlamento - ammesso che vi siano nuove elezioni – o domandarsi perché un autore sta vicino a un altro. Un’anarchia strategica, altro che un parlamento. Andrebbe forse allestita, di fianco, un’altra Camera dove far sedere anche editori, agenti, editor, una bella sauna per gli esordienti e un planetario per i poeti, anche se, chiaramente, costruire in palude non è poi così facile e bonificarla sarebbe un bene per tutti. Allora, guardo la mia libreria di autori italiani e mi chiedo: «Li devo spostare?». Devo ricollocare i libri secondo i settanta suggerimenti di Cordelli? No, li lascio come stanno, divisi un po’ per città – Milano versus Roma – e regioni, talvolta per generazioni, ogni tanto per tema o per collana, qua e là secondo un accenno d’ordine warburghiano. Un’anarchia strategica, altro che un parlamento, e preferisco lasciarla così, con una certa libertà di letture.

La silenziosa «casta» degli scrittori. Dove tutti sponsorizzano gli amici. L’articolo di Cordelli ha fatto venire allo scoperto le conventicole alla base della letteratura italiana di oggi. Ecco perché, nelle risposte, prevale la frustrazione, conclude  Paolo Di Paolo su “Il Corriere della Sera”. Se l’articolo di Franco Cordelli, da cui tutto è partito, era spiazzante e perciò anche divertente, la gran parte delle reazioni non lo sono state: lamentose, lugubri, contorte. O peggio ancora: opache. Viene il sospetto, a leggere certe repliche in rete e alcuni degli interventi ospitati da Corriere.it, che alle categorie istituite da Cordelli ne mancasse ancora una: quella degli «involuti». Nel senso che si ingarbugliano, fanno pasticci con le parole, usano l’italiano senza disinvoltura, forse perché non lo amano fino in fondo, e lui, l’italiano, gli si rivolta giustamente contro. E dove sono, tra i senatori, Arbasino, Maraini o Debenedetti? Partiamo dal presupposto che si tratta di una polemica per «addetti ai lavori», come si diceva un tempo: ebbene, se posso considerarmi tale, io non ho capito oltre metà dei ragionamenti opposti a quello di Cordelli. In fondo, molto in fondo magari, la sostanza era però quella più biliosa e indicibile: la frustrazione. La spinta istintiva e umanissima, da esclusi, a puntare i piedi. Tradotta più o meno in questi termini: «lasciando da parte che Cordelli non mi ha inserito, vorrei sapere perché non ha inserito nemmeno x e y, che peraltro sono amici miei stimatissimi». Ma così il gioco non finisce più. Io stesso avrei obiezioni: perché, al di là del suo valore, c’è Giordano, se Cordelli dice di aver escluso i «troppo percepiti»? E dove sono, tra i senatori, Arbasino, Maraini o Debenedetti? E Mazzucco, vitalista moderata? Celati non dovrebbe passare nel gruppo misto? E il dissidente Maggiani, autore di un pamphlet definivo e violentissimo sulla generazione dei cinquanta-sessantenni? Comunque. Solo un premiuzzo può tirarci un po’ su di morale. Un «ispettore del commercio librario» nella Parigi del 1750 aveva registrato in città, attivi, 359 scrittori, tra cui Diderot e Rousseau. Oggi, anno 2014, sulla sola piattaforma di self-publishing ilmiolibro.it gli scrittori attivi sono oltre 20mila. Il punto è questo: la macro-categoria che include tutte le altre proposte da Cordelli è quella che va sotto l’aggettivo «frustrati». Lo siamo, inclusi o no, praticamente tutti. Frustrati perché siamo troppi, perché il cosiddetto mercato non si allarga ma resta lo stesso o si contrae. Frustrati perché le recensioni non escono e comunque non servono, i libri passano in libreria per un mese e scompaiono. Frustrati perché – ci diciamo – l’editore non si impegna. Frustrati perché lo cambiamo e, nonostante questo, le cose non cambiano. Frustrati perché sentiamo che il nostro romanzetto non riesce a farsi largo, e che solo un premiuzzo può tirarci un po’ su di morale, o l’alleanza di qualche simpatico amico a cui ricambieremo il favore. Nessuno ammetterà che funziona così per tutti (salvo quei cinque o sei baciati dal vero successo commerciale), e proprio perché non lo ammetterà nessuno, è vero. Un autore su ilmiolibro.it sponsorizza un suo compagno. Navighiamo tutti a vista, sempre meno convinti, sempre meno «puri», sempre più affannati e stanchi e in alcuni casi cattivi, risentiti. E tutti, praticamente tutti, caro Cordelli, «poco percepiti». È la tribù a salvarci: qui Cordelli ha ragione. Fino a trent’anni fa c’era l’unica grande tribù della letteratura, riconosciuta da una élite, certo, ma più solida e dai contorni più definiti. E lì convivevano (si fa per dire) i diversi: Calvino e Moravia, Bassani e Morante. Si guardavano a vicenda, dialogavano, si tenevano d’occhio, ma erano soli. Maestosamente soli. Nella palude letteraria in cui siamo condannati a stagnare, ci si tiene d’occhio solo fra amici. Su Facebook se ne ha la triste certezza: ci si sponsorizza a vicenda, ma solo in una ristrettissima cerchia. Un autore pubblicato su ilmiolibro.it sponsorizza un suo compagno di strada pubblicato su ilmiolibro.it, Cortellessa mette nell’antologia i suoi amici, quell’altro posta la recensione appena pubblicata allo straordinario esordio del suo ex compagno di scuola. Siamo patetici, ma meglio far finta che non sia così. E così avanziamo, nell’illusione che il mondo sia quello che vorremmo che fosse, una ghenga composta di zie, di mamme, dei compagni di merende; ci facciamo forza così, salvo poi puntare il dito sulle cricche altrui. Le conventicole contro cui, in un film di Virzì, puntava il dito un Castellitto professore frustratissimo. Siamo patetici, ma meglio far finta che non sia così. Allora se Cordelli ha un merito è che lui – a differenza di tutti i suoi detrattori – prova a leggere quanto più può, a mappare, a capire, è curioso, anche crudelmente curioso come pochi altri, di tutto, di tutti, degli scrittori di Roma, d’Italia, del mondo, e ingaggia una sfida titanica contro il molteplice, l’universale, pur sapendo che è votata al fallimento. Così, ogni tanto, per fare ordine e per provocare anche sé stesso, sul tovagliolo in un bar o su una pagina della Lettura, prova a tirare giù una mappa. Gli altri, il 90%, continuano a leggersi solo tra vicini, tra complici, hanno già deciso da sempre chi leggere e chi no, hanno già deciso da sempre chi è bravo e chi no, e fanno tanta, tanta tenerezza perché sono come quel famoso cavaliere ariostesco. «Il cavalier del colpo non accorto / andava combattendo ed era morto». Esistono un po’ perché e finché hanno accanto la ghenga. Chi si guarda intorno, chi guarda oltre casa sua, magari non supera la frustrazione, magari si sente più solo, ma almeno resta vivo. Paolo Di Paolo.

EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.

Editoria e censura. Sarah Scazzi ed i casi di cronaca nera. Quello che non si deve dire. Quando gli autori scomodi sono censurati ed emarginati. Il caso che ha sconvolto l'Italia e ha cambiato per sempre la cronaca nera in due libri-dossier precisi e dettagliati che fanno la storia, non la cronaca, perché fanno parlare i testimoni del loro tempo.  “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese.” E “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. La Condanna e l’Appello”. Sono i libri che Antonio Giangrande ha scritto in riferimento al caso nazionale. In questi libri l’avetranese Giangrande ripercorre da testimone privilegiato in prima persona tutte le tappe del caso: gli interrogatori, lo studio degli incartamenti, le analisi delle tracce sul luogo del delitto, i ragionamenti per entrare nella dinamica del delitto. Da giurista e da sociologo storico inserisce la vicenda in un sistema giudiziario e mediatico che ha trattato vicende similari e che non lasciano spazio ad alcuna certezza. Di Sarah Scazzi si continuerà a parlare a lungo. La vicenda, tra le più controverse nella cronaca recente del nostro Paese, è stata costantemente seguita, commentata e interpretata, anche a sproposito. Antonio Giangrande in questi libri compie un viaggio meticoloso e preciso all'interno delle prove e delle contraddizioni sia del caso giuridico, che dei suoi controversi protagonisti. Antonio Giangrande è un punto di riferimento, è il destinatario della tua prima telefonata per capire cosa sia successo. Le sue analisi sono sempre schiette, appassionate, cristalline. Mai scontate o banali. Puoi anche non essere d'accordo, ma dal confronto ne esci più sapiente. Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia, per una scelta di libertà si pone al di fuori del circuito editoriale. Questo è un dazio che egli paga in termini di visibilità. Ogni kermesse, manifestazione, mostra o premio a carattere culturale è in mano agli editori. Premi e vincitori li scelgono loro, non il lettore. I giornali e le tv dipendono dagli editori e per forza di cose sono costretti a promuovere gli autori della casa. Il web è uno strumento per far conoscere gli autori sconosciuti. Antonio Giangrande usa proprio il web per raccontarsi. «Sono orgoglioso di essere diverso. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Faccio mia l’aforisma di Bertolt Brecht. “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.” Rappresentare con verità storica, anche scomoda, ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!» Continua Antonio Giangrande «E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. Faccio ancora mia un altro aforisma di Bertolt Brecht “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Si è mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per far sapere quello che non si sa? E questo al di là della convinzione di sapere già tutto dalle proprie fonti? – conclude Giangrande – Si provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Si scoprirà cosa succede veramente in un territorio o in riferimento ad una professione. Cose che nessuno dirà mai. Non si troveranno le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Si troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Si può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non si potrà più dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.» “L’Italia del Trucco, l’Italia che Siamo”. Collana editoriale di decine di saggi autoprodotta da Antonio Giangrande su Amazon, Create Space, Lulu, Google Libri ecc. Libri da leggere anche a costo zero. Se invece volete dargli una mano, regalate un libro di Antonio Giangrande. Scoprirete tutto quello che non si osa dire.

LA SOTTOCULTURA IDIOTA DELL'ANTIFASCISMO MILITANTE. L'OSTRACISMO ARTISTICO A DANNO DEI MUSSOLINI.

Quando ad un artista è vietato chiamarsi Mussolini, scrive Gabriele Lazzaro su “Il Giornale”. La gogna mediatica a cui è sottoposta in questi giorni Alessandra Mussolini rivela l’immagine di un paese in crisi culturale prima che economica. La tanto strombazzata crisi non è solo ciò che ci costringe a fare e rifare i conti durante il mese, è anche quel misto di pigrizia e di maramaldàggine nel prendersela con una donna per la famiglia a cui appartiene. Un’ostilità che la Mussolini ha sempre combattuto in maniera orgogliosa, come quando disse no alla proposta indecente di varcare le porte del Parlamento come “Alessandra Floriani”, e anche, in alcuni casi, con una certa autoironia, come quando si definì “portatrice sana di cognome”. Ma facciamo un passo indietro nella storia di Alessandra, una storia che l’ha vista ostacolata a priori in un’infinità di occasioni. Ha frequentato l’università in anni di antifascismo militante, ed è stata costretta dalle contestazioni a poter scegliere solo la facoltà di medicina. Le è stato detto: “E tu con quel cognome vorresti fare filosofia morale?” Si è presenta per sostenere un esame al cospetto di un professore che le chiese “Mussolini Mussolini?”. “Sì, Mussolini Mussolini”. E il libretto in un attimo gettato a terra con disprezzo. “Alzati, e va’ a raccoglierlo”. L’Italia che siamo, l’Italia che vogliamo è quella che fa dipendere la cultura solo da uno stato di famiglia? Gli Italiani che sostengono la decadenza e l’impoverimento ideale della Roma della “grande bellezza” sono gli stessi che twittano continuamente attacchi contro la Mussolini? Prima dell’ascesa politica la nipote del Duce ha rivelato un talento artistico confermato anche da Eduardo De Filippo. Ma la sua filmografia è breve, brevissima, ancora una volta per motivi dipendenti da quel cognome così tanto scomodo. Dino Risi la volle incontrare per proporle il ruolo della figlia di Sophia nel remake televisivo della “Ciociara”. Ma in realtà fu solo un’occasione per umiliarla, ancora una volta, proponendole di cambiare il nome in Alessandra Zero. Perché “prima di dimenticare questi occhi dovranno passare sette generazioni”. Gli attacchi di questi giorni rivelano che non si aspettava altro che un suo cedimento per fare rivivere lo stesso ostracismo di cui è stato vittima anche il padre Romano, grandissimo jazzista eppure così poco considerato. Così poco invitato nelle trasmissioni televisive. Per l’ovvio impedimento del cognome. Ma perché non essere apprezzati, stimati, semplicemente per quello che si è? Perché voler vedere in quel “Mussolini” posto dopo il nome la negazione di tutto? È vergognoso. Così come, di fronte alla vicenda matrimoniale di Alessandra, vergognosa è stata la reazione di Vladimir Luxuria. Una reazione non giustificata neppure da quel “meglio fascista che frocio”, sicuramente infelice ma smentito dalle tante occasioni in cui Alessandra ha dimostrato di battersi per i diritti individuali. Sfatando quel mito che la vuole a tutti i costi omofoba. Luxuria è solo l’ultima di una lunga fila di intellettuali e gente comune, la cui “passione civile” si sveglia solo in presenza di un capro espiatorio. Che responsabilità ha la Mussolini nelle vicende del marito? Ovviamente nessuna. Ovviamente è una delle parti lese. Ma ecco il paradosso: “quel” cognome l’ha resa semplicemente una donna sola, costretta a difendersi contro tutto e tutti.

SESSO E CIVILTA’. IL COMUNE SENSO DEL PUDORE: QUANTO E’ COMUNE E QUANTO E’ IMPOSTO?

Ci sono testimonianze di peni eretti bene auguranti nelle grotte paleolitiche di Lascaux, nei postriboli pompeiani fino a giungere ai graffiti che deturpano le città moderne. Un tempo si facevano persino delle processioni al dio Priapo chiamate falloforie (portatori di fallo). Gli artisti di Lascaux hanno creato un mondo sotterraneo e sconvolto Picasso, lasciandoci con i misteri della loro vita e del perché hanno questa “Cappella Sistina” della preistoria, scrive Raffaele Bonadies. Nel 1940, all’uscita da una grotta in Francia, Pablo Picasso, non noto per la modestia, si lasciò quasi cogliere dallo sconforto: «Non abbiamo inventato niente» disse. Aveva appena visto l’opera dei nostri antenati, Homo sapiens di 17.300 anni fa, che crearono a Lascaux quella che è stata definita la “Cappella Sistina della preistoria”, un capolavoro di pittura rupestre. Scoperto proprio nel 1940 da quattro ragazzi (col loro cane Robot) in Dordogna, in Francia, la grotta è un labirinto di circa 235 metri di lunghezza, in lieve pendenza. Suddivisa convenzionalmente in 7 sale, dalla Sala dei Tori alla Navata al Pozzo, contiene circa 2.000 figure che possono essere classificate in tre gruppi: animali, figure umane e segni astratti. Nei primi, la parte del leone la fanno i cavalli (364) e i cervi maschi (90), anche se i veri capolavori sono le figure degli uri, i buoi selvatici che popolavano le foreste europee. Come per altre grotte in Francia e Spagna, come Chauvet o Altamura, non sono chiare le ragioni che hanno spinto gli uomini a ritrarre gli animali sulle pareti della grotta. Secondo alcuni studiosi alla base di tutto c’è la religione, e le visioni degli sciamani, grazie alle quali erano in grado di ritrarre animali visti tempo prima. Erano allucinazioni indotte da danze che portavano in uno stato di trance o da sostanze psicotrope. Poiché le specie dipinte erano le più potenti e pericolose della fauna della zona (uri, cavalli e bisonti), forse i dipinti servivano a esorcizzare il pericolo che si correva cacciando questi animali, o addirittura a insegnare ai giovani le migliori tecniche di caccia a queste prede. Ci sono in compenso molti segni astratti, punti o figure geometriche, che alcuni studiosi ritengono rappresentino costellazioni visibili dalla zona, come il Toro, le Pleiadi, e il Triangolo estivo – tre stelle molto brillanti che da giugno a ottobre si vedono dopo il tramonto. Lo scrittore francese Georges Bataille considerava Lascaux il momento della nascita dell’arte, e di conseguenza dell’essere umano vero e proprio.

Non sappiamo con certezza le cause che hanno favorito, soprattutto nell’Europa Occidentale, in Francia ed in Spagna, la realizzazione di opere che ci lasciano stupiti e che ci inducono a riflettere sulle capacità organizzative dei nostri avi, scrive Maria Antonia Ferrante. Le opere grandiose sono sempre il risultato di un’organizzazione collettiva dove ogni componente del gruppo svolge un ruolo. Capacità mentali progredite, affinamento del pensiero, maggiore ricchezza del linguaggio e della comunicazione, nuove fonti di approvvigionamento delle materie necessarie all’esecuzione dei dipinti e delle incisioni e presenza degli spazi favorevoli alla messa in opera, contribuiscono a dare spazio alla fantasia. Sono gli abitanti delle zone franco–cantabriche che in questo periodo hanno lasciato il segno indelebile del loro avanzamento nel processo evolutivo espresso nelle stupefacienti pitture parietali in grotta. La grotta di Lascaux, affrescata 18.000 anni fa, si trova in Dordogna, Francia. Si accede con facilità alla prima sala dell’antro, detta La Rotonda. Qui, si impongono alla vista dipinti di animali giganteschi; gli uri misurano 5 metri di lunghezza. Dopo la sequenza degli animali mastodontici: uri, cavalli e cervi, appare il cosiddetto unicorno con il corpo segnato da cerchi; animale fantastico non definibile. Nelle successive parti della grotta continua la sfilata delle immagini degli stessi animali: di cervi e stambecchi e di una grandissima quantità di incisioni che sembrerebbero messe a caso perché si mescolano con i profili delle figure degli animali precedenti, in un groviglio di difficile lettura. Su di una parete dello spazio detto il pozzo, appare il dipinto di una figura umana; un uomo disteso con il fallo in erezione; sembra ferito. Vicino gli sta l’immagine di un bisonte, anch’esso probabilmente ferito. Sembra una scena di caccia conclusasi male par l’uomo e per l’animale. Per la realizzazione di questo grande affresco della grotta, chiamata giustamente Cappella Sistina del Paleolitico, sicuramente è stata necessaria la collaborazione di parecchi individui. Immagino che Eva abbia dato una mano alla messa in opera dei dipinti di Lascaux. Eva, forse, ha preparato i colori: l’ocra, il carbone, il manganese, i grassi e le materie collanti. E’ stata anche lei nella grotta reggendo le torce, portando le assi di legno per preparare le impalcature e soprattutto per provvedere all’alimentazione degli artisti impegnati per ore ed ore in uno spazio ristretto, oscuro e poco ospitale. Il progetto dell’affresco, probabilmente, è il risultato di un lavoro collaborativo. Di questa opera il gruppo che l’ha eseguita ne ha parlato prima di metterla in opera, disegnandola mentalmente e riconoscendone le finalità. Quale? Archeologi, critici dell’arte, antropologi, etnologi e psicologi si sono cimentati per penetrare nell’intima struttura delle opere parietali paleolitiche. Leroi-Gourhan ha dedicato un interesse particolare ai dipinti di Lascaux. Di essi dice Le figure di Lascaux non si dispongono in pannelli di insieme, ma lungo un itinerario, legata l’una all’altra da un tema di cui ci sfugge il senso, ma il cui coinvolgimento si ripete un piano dopo l’altro fino alle figure di rinoceronti situate nel punto più profondo. Le figure possono prolungarsi per due e più chilometri con un’unica versione del tema; figura per figura, a intervalli di parecchie centinaia di metri. Si tratta di una vera e propria cosmografia? Il mito, qui, qualunque sia il substrato, si dispone in maniera lineare e ripetitiva” (Leroi-Gourhan, A., 1977).

La gogna del moralismo di Stato. Parliamo di Vilfredo Pareto e il suo "Il mito virtuista e la letteratura immorale". Mentre attendeva nell'"eremo" di Céligny alla sua opera più ponderosa e sistematica, il Trattato di sociologia generale, Pareto metteva mano al "trattatello" Le mythe vertuïste et la littérature immorale (Paris 1911), che fu tradotto con notevoli integrazioni e pubblicato in Italia nel 1914. Questa succosa e incalzante analisi condensa in modo esemplare l'anima profondamente liberale e libertaria di Pareto, e mette a nudo le tante ipocrisie che si nascondono dietro ogni moralismo proibizionista che, oggi come un secolo fa - in nome di una presunta igiene fisica e morale collettiva -, pretende di vietare irrinunciabili diritti personali dell'individuo. «Si può leggerlo in due modi, Il mito virtuista. Si può prenderlo come l'opera letteraria di un uomo singolare: logico e passionale, preciso e fantasioso, ironico e caustico, coltissimo di storia e attento alla cronaca. Senza curarsi troppo di dimostrazioni e tassonomie, gustarsi esempi e citazioni, senza voler cogliere l'architettura complessiva, seguirlo su per le scale ripide della sua indignazione e nei saloni sontuosi della sua cultura. È il suo procedimento [...] Oppure si può leggere il libro come l'applicazione ad un fatto particolare dei costrutti logici, "residui" e "derivazioni", su si basa il suo opus magnum, una sorta di intermezzo in quel ventennale impegno.»

Torna il libreria il trattatello liberale e libertario di Pareto, scrive “Il Piffero”. Un libro che nel mettere a nudo le ipocrisie dell’epoca, denuncia i rischi che si nascondono dietro ogni moralismo proibizionista che, oggi come un secolo fa, pretende di vietare irrinunciabili diritti personali dell'individuo. È una iattura il trionfo del conformismo moralista. Anzi, quando i moralisti assurgono a maître à penser di un’epoca la dittatura è dietro l’angolo, per quanto soft e mistificata da buonismo possa essere. E mentre si diffonde questa potente arma di distrazione di massa le classi dirigenti dimenticano i veri problemi del Paese. Ci hanno provato in tanti, soprattutto nella stagione del berlusconismo declinate, a dare una lettura assolutoria delle macerie contemporanee al libretto che Vilfredo Pareto scrisse nell’eremo di Célignymentre si accingeva a dare l’ultima versione alla sua opera più ponderosa e sistematica, il Trattato di sociologia generale. Ora di questo trattatello, pubblicato in Francia nel 1911 (Le mythe vertuïste et la littérature immorale) e tradotto con notevoli integrazioni in Italia nel 1914, è uscita una riedizione per iniziativa di Franco Debenedetti e dell’editore Liberilibri. Con il termine «virtuismo» Pareto intende sviluppare una critica verso i censori moderni, che si ergono a paladini della morale pubblica a detrimento delle più elementari espressioni della libertà individuale. Per alcuni può essere definito «libertario», un intellettuale consapevole della trasformazione dei valori morali, e della loro opinabilità alla stregua della religione e della politica. Un antiproibizionista ante litteram, in particolare contro le limitazioni legislative alla letteratura cosiddetta immorale di cui fu portavoce il presidente del Consiglio dell’epoca Luigi Luzzatti. Sulla scia di questo principio Pareto dà alle stampe il volume, che fu dettato dalla curiosità per i fatti contemporanei e dall’interesse che egli mostrava per la cronaca nera e giudiziaria. Anzi si può affermare che il libro nacque dall’attenzione che Pareto rivolse al romanzo Quelle signore (1904) e al processo che il suo autore Umberto Notari (1878-1950) subì per oltraggio al pudore nel 1906 e nel 1911. Le due sentenze si ritrovano nell’edizione del 1914 e sono riportate in quella del 1966, insieme alla Circolare Luzzatti sulle pubblicazioni pornografiche: «Qui riproduciamo la sentenza di uno di questi processi in cui si vedrà incriminata la riproduzione di ”due brani tolti una dalla Bibbia e uno dal Dialogo delle prostitute di Luciano”».

Il mito virtuista e la letteratura immorale. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Scritto polemico del sociologo Vilfredo Pareto sul fenomeno del virtuismo. Durante gli anni della stesura del Trattata di sociologia (1916) imperversavano in Europa rigidi atteggiamenti in difesa della virtù, della pulizia morale e del pudore e si moltiplicavano manifestazioni di intolleranza verso l'oscenità, o presunta tale. Questa ondata di moralismo venne promossa da alcuni associazioni che condannavano indistintamente il mondo pagano, le dottrine antisociali ed i concetti naturalistici, frammisti ad oscenità, della Grecia e di Roma antica. Pareto decise di intervenire sull'argomento ed invitando il governo Italiano a non perdere tempo "a pensare alle foglie di fico", quanto a preoccuparsi di denunciare i gravi problemi dell'Italia del tempo: miseria, corruzione, analfabetismo, il dominio della mafia e della camorra, le non sopite mire espansionistiche dell'Austria. Il termine "virtuista", un neologismo coniato da Pareto, sta ad indicare una persona ipocrita e bigotta, che ha dichiarato guerra alla letteratura immorale, criminale sessuale. Raccolti in associazioni, i virtuisti chiedono allo stato misure censorie sempre più restrittive, giustificandole con il pretesto dell'utilità sociale, della preservazione della pace sociale, della tutela dell'interesse dei fanciulli e con la motivazione dell'utilità della castità. Pareto rileva che il vero fine inseguito dai virtuisti è quello di imporre la loro dottrina e fa notare come l'aumento delle misure restrittive vada di pari passo con l'aumento di sentimenti anarchici e che "le leggi senza costumi non valgono niente". Inoltre, secondo Pareto, "non è un dovere dello stato quello di allontanare ogni tentazione dall'individuo". Di seguito, Pareto critica sia la famiglia "modern Style", incapace di dare una vera educazione ai propri figli ("l'educazione dei figli si fa coll'azione cumulativa di mille cose da nulla, e non con alcune proibizioni annunciate con gran fracasso") e di seguito delle Istituzioni scolastiche ("l'anarchia nell'educazione dei giovani è una causa dell'aumento della criminalità giovanile"). In conclusione, Pareto aggiunge che la forza che permette ad un popolo di elevarsi al di sopra degli altri non è dato dall'ascetismo, dalle rinunce e dalla mediocrità, ma nei sentimenti profondi e attivi che si manifestano con un ideale, una religione, un mito, una fede. "Nella vita dei popoli, niente è tanto più reale e pratico quanto l'ideale. [...] Il contenuto logico dell'ideale poco importa. Ciò che importa molto di più è lo stato psichico che rivela, di cui è sintomo".

La pubblica moralità? È questione di buon gusto, scrive Cesare Cavalleri su “Avvenire. Vilfredo Pareto (1848-1923), oltre che economista e sociologo, è anche un ottimo scrittore, il che non guasta. Appartiene alla schiera degli economisti "marginalisti" il cui capostipite è Léon Walras, al quale Pareto succedette nella cattedra di economia dell'Università di Losanna, nel 1894. Sia Pareto, sia Walras provenivano da studi d'ingegneria. Pareto fu nominato senatore da Mussolini, ma, morendo nel 1923, non fece in tempo a vedere la piega che il fascismo avrebbe preso. Nel 1910 Pareto pubblicò Il mito virtuista e la letteratura immorale, che Liberilibri (Macerata 2011, pp. 216, euro 18) oggi sottrae all'oblio, riproponendo con poche correzioni l'antica traduzione del "giovane" Nicola Trevisonno (a p. 49 è rimasto un "dai scultori"). Con neologismo paretiano, i "virtuisti" sono i bigotti intolleranti e spesso ipocriti che pretendono di imporre per legge la morale, soprattutto e quasi esclusivamente in materia di "oscenità". Non che Pareto sia favorevole all'oscenità e al libertinaggio, ma ha buon gioco nel dimostrare l'inafferrabilità di una definizione giuridica dell'ipotetico reato, e si diverte fin troppo ad antologizzare le "oscenità" di taluni passi della classicità greca e latina, che neppure l'Index post-tridentino aveva proscritto. L'invito di Pareto, oltre a proclamare la libertà di opinione a meno che non vengano violate le regole dell'ordine pubblico, è a non scambiare gli effetti con le cause. Se la famiglia e la scuola vengono meno ai loro compiti educativi, non è proibendo il commercio di cartoline licenziose che la moralità sarà salva: «È il buon gusto, la buona educazione che possono decidere in questa materia complicata, delicata e variabile, e non i Tribunali»; «La vera sicurezza voi l'avrete, anzitutto, se saprete ispirare a vostra figlia il disgusto dell'oscenità, poi se vi darete la pena di sorvegliarla». Insomma, contrariamente a quanto affermava la circolare del 16 gennaio 1910 emanata dal ministro dell'Interno Luzzatti, ripetutamente ridicolizzata nel libro, non è lo Stato «il più alto tutore della pubblica moralità». E sia lode agli antichi romani, che sapevano distinguere «tre cose molto differenti: il virtuismo, la temperanza, la dignità. I romani ignoravano la prima, tenevano in grande considerazione la seconda, ed in maggiore la terza». Le considerazioni paretiane non hanno solo un interesse storico o di curiosità: come ben scrive Franco Debenedetti nell'introduzione, oggigiorno il "virtuismo" si è metamorfizzato nel "politicamente corretto": «"Lotta continua" non guida più cortei, invece di università e fabbriche occupa le scrivanie dei direttori di giornali e Tv. Per quelli che non sprofondarono nel mondo coatto della lotta armata, è l'istituzionalizzazione delle "conquiste": le libertà diventano diritti, codificati in leggi, dettagliati in regolamenti, garantiti da magistrati, sorvegliati da autorità. E, se non basta, affermativamente imposti in "quote". Al potere, di cui si denunciava l'oppressione, ora si chiede di esercitare la protezione». E ancora: il "virtuismo" dell'epoca di Pareto «chiedeva al potere di dare la caccia all'immorale, per mantenerlo "fuori dalla scena" e impedire che si mostrasse in pubblico: il nuovo virtuismo va alla caccia dell'immorale all'interno del potere stesso, per renderlo visibile al pubblico. Così si compie l'evoluzione dall'esibizionismo al voyeurismo: quello sbraitava e gesticolava dal balcone del palazzo; questo sbircia e origlia nel corridoio del palazzo, nella stanza dell'albergo, nel salone della villa». L'allusione a fatti e persone dei giorni nostri è volutamente trasparente.

Troismo e nuovismo. Diagnosi sociale dedicata a Gustave Thibon, scrive Pietro Ferrari su “I Due Punti. Preferisco una società più sobria nella dimensione pubblica (meno tette e culi sui media), ma meno sessuofobica in quella privata (meno guardoni nelle camere da letto altrui), più libera dal sesso che tormentata dal testosterone. Preferisco una società in cui i giornalisti, prima di bandire purghe contro la mercificazione del sesso, controllassero se nei loro giornali non vi siano all’ultima pagina le “inserzioni pubblicitarie” di prosperose donne dell’est “pronte a tutto” per “inviti piccanti”. Ogni riferimento ad eventuali rilievi di favoreggiamento della prostituzione è puramente voluto. Questa è la società della Legge Merlin, intreccio folle tra libertinaggio sfrenato e puritanesimo ipocrita, in cui prostituirsi è lecito o addirittura legittimo, ma andare a prostitute è riprovevole, in cui la donna è libera di guadagnare col suo corpo ma è immorale chi la fa guadagnare. Prostituirsi sarebbe un lavoro come un altro ma essere fruitori di quel “lavoro” sarebbe ripugnante. Laicità bigotta. Moralisti amorali da una parte contro ipocriti immorali dall’altra, uniti nella condanna per lo Stato Etico e l’Autorità Morale della Chiesa, ma bisognosi di usare la morale contro l’avversario. La morale esiste davvero? Ed è valida per tutti e sempre? Vi è una Istituzione legittimata ad interpretare e a proporre questa morale? Come si concilia tutto ciò col pluralismo culturale e la libertà occidentale negli Stati “laici”? Oppure non esiste La morale ed ognuno si fa la propria? La Morale o è una cosa seria o semplicemente non è; o è una legge o è una balla; o discrimina i comportamenti o si riduce a farsa. Basta coi difensori della famiglia (soprattutto nella dimensione “allargata”: due mogli e quattordici concubine), permissivi per sé ed intolleranti con l’altro. Basta coi farisei arrabbiati col prete che non dà la comunione ai concubini, ma pronti a scagliarsi contro il concubinaggio se il concubino ti fotte alle elezioni. Bunga-bunga no, Gay-Pride sì; Nicòle Minetti no, Vladimir Luxuria sì; donne oggetto no, libertà sessuale sì; Mara Carfagna da “gnocca senza testa” a (dopo la polemica nel PdL) “libera, forte e di grande stile”; la morale non si fa agli altri, la si vive in proprio conformandosi ad essa. Il "filosofo contadino" Gustave Thibon preferiva le peggiori realtà ai falsi ideali, intuendo come il reale sia contrario non tanto allo ideale, quanto alla menzogna. I popoli resistono alle tirannìe senza perdere equilibrio, ma davanti alle demagogìe si corrompono profondamente e per questo le élites dovrebbero essere delle nuove e vere  aristocrazie (I "migliori" in quanto tali distinti, ma non separati dal popolo), che sappiano imporre a se stesse e indurre nel popolo un clima rigoroso, non la “vita facile” o le illusioni. Oggi non abbiamo niente di simile.  Le società si ammalano a partire dalla testa e quindi guariscono a cominciare dalla testa, se è vero quello che sosteneva San Tommaso D'Aquino (il Santo tra i Dottori e il Dottore tra i Santi) che il Sovrano deve diffondere la Virtù. L’austerità però non ha nulla a che vedere con l’ipocrita seriosità, ma è diretta a risollevare ogni lembo della società dalla dissoluzione; Essa è “amore severo”, non “asettica solidarietà”, Essa è prova di auctoritas, non più complice interessata. Essa non è mai “argomento” contro l’avversario se prima non è autenticamente vissuta e proposta come stile di vita e visione del mondo. Vita individuale e vita sociale seguono medesime regole di sviluppo. La vita non è mai novità, ma rinnovamento: quanta bolsa retorica dei politicanti sul “nuovo”, sul “futuro”, sui “giovani”, quando in realtà sono sempre gli stessi, loro, affatto nuovi o giovani, più capaci di conservare i cognomi sugli scranni che i nomi dei partiti, involucri artificiali. Questo proliferare di Fondazioni che si ispirano al Futuro ("FareFuturo", "ItaliaFutura") esprimono in realtà l'esigenza di non volersi cimentare con la penosità del presente da governare. Allora viva i rivoluzionari? Sì, ma i veri rivoluzionari sono coloro che fecondano come fa la tempesta dopo la folgore, coloro che irrigano con l’entusiasmo la vera tradizione spezzando rami secchi e idoli imbalsamati, non coloro che distruggono: “Le primavere sono tenere, fragili e disarmate. Tutto ciò che nasce è prodigiosamente vulnerabile: i germogli d’aprile, gli uccelli del cielo nel loro nido. Così è delle primavere della storia umana: più le cose che nascono tra le nazioni sono grandi e pure, più sono indifese …. è normale che tutta una categoria di spiriti confonda promessa e miraggio …. Costoro si dicono ‘realisti’ ma sono soffocatori della primavera. L’utopìa si insinua nelle anime imitando i dolci colori dell’aurora e i teneri gesti d’aprile, ma non si tratta qui di una vera primavera: le utopìe sono febbri derivate dalla decadenza e che affrettano la decadenza. Che Dio ci conceda la grazia di saper discernere, nella ressa delle idee, ciò che è primavera da ciò che è menzogna e di combattere le utopìe senza soffocare le rinascite”. Per attestare la giovinezza, non sempre è attendibile il certificato anagrafico.

Il femminicidio è un dramma troppo serio perché si apra una discussione moralistica sull'uso del corpo delle donne nelle pubblicità, scrive Aurelio Mancuso su "L'huffingtonpost.it". Il rischio, dietro l'angolo, è che ancora una volta si dividano le donne per bene e per male, un errore politico e culturale così praticato in questi anni da tante associazioni femminili e femministe che non ha stoppato alcun omicidio di odio nei confronti delle donne. Si dice che solo nel nostro Paese vi sia un uso così sfrontato e inqualificabile del corpo delle donne nelle pubblicità, e questo può esser vero, ma da qui bisogna partire? Il possesso machista che si risolve contro l'autodeterminazione delle donne, dilaga nel nostro Paese, per oggettive tare culturali che non possono esser affrontate solo da un lato, ovvero dalla censura, dalla moralizzazione dei costumi, dalla sottrazione dei corpi svestiti o lascivi per fini commerciali. Perché l'altro lato è proprio il moralismo ipocrita, la madonizzazione delle donne che persiste a causa di visioni ecclesiali cattoliche ed ecclesiali laiche, prima fra tutte quella della sinistra istituzionale. Quando non si avrà più paura del sesso, della sua veicolazione come elemento essenziale della vita, dell'identità delle persone, dei generi, degli orientamenti sessuali, allora un pezzo importante della sessuofobia che porta alla castrazione sociale, nei rapporti intimi, nella rappresentazione e gestione dei poteri, sarà spazzato via. E di pubblicità non dovremo più discutere, perché il "mercato" riterrà non remunerativo ostentare corpi femminili. Parliamo di educazione sessuale obbligatoria nei programmi scolastici (meglio l'educazione alla salute e alla consapevolezza di se), di narrazione pubblica che permetta la demitizzazione della sessualità, imprigionata ancora dall'immagine classica dell'impurità del corpo, di elemento esterno alla volontà razionale, di promozione scientifica delle differenze dei generi e degli orientamenti. Insomma, fare un discorso unilaterale, comodo e anche rassicurante, che tende a eliminare i conflitti, ci riporta indietro, non aiuta l'individuazione concreta anche di strumenti di prevenzione e di tutela. E in ultimo si continua a girare intorno alla questione centrale: la violenza contro le donne è un problema degli uomini, in quanto tali, così come sono oggi pervenuti dopo i millenari vaneggiamenti antropologici sulla superiorità intellettuale e fisica. Lo scatenamento della strage delle donne, ha dentro un elemento di vittoria evidente: i maschi sono finalmente entrati in crisi, l'autonomia delle donne li fa agire come i loro antenati, perché sono i ruoli che stanno crollando. È necessario punire i reati, attrezzare di strumenti veri i centri donna, la polizia, ma anche oltre, aprire una discussione sulla necessità di come rieducare gli uomini, perché il femminicidio è la manifestazione violenta di una patologia sociale e culturale diffusa: il machismo.

L'ipocrisia e la doppia morale sessuale. Sorelle, partiamo da quando da piccole ci viene insegnato che il sesso è un peccato, scrive Chiara di Notte - Città Invisibile. E’ un fatto culturale. Anche nelle situazioni di maggiore “apertura” mentale, ai bambini e alle bambine viene fatto capire, inizialmente dalla famiglia, poi dalla scuola e soprattutto per mezzo della religione, un concetto fondamentale: la separazione netta fra i due generi, ognuno dei quali ben distinto e con la propria sessualità, determinata secondo dei parametri ben definiti. Il maschio, che dovrà fare cose da “maschio”, viene perciò educato ad avere gusti e comportamenti secondo “canoni” maschili, mentre la femmina, essendo colei che poi dovrà adeguarsi a lui, viene educata ad avere comportamenti e gusti confacenti a quelli maschili. Il tutto secondo una logica per la quale ogni discrepanza fra il “modello” prestabilito e quella che sarà poi la personalità del bambino e della bambina in età adulta, verrà etichettata come “anomalia”, se non addirittura come perversione oppure patologia. Fin da bambini i maschi sono dunque abituati a giocare con giocattoli “da maschi”: soldatini, trenini, automobiline, armi giocattolo. Mentre alle femmine vengono riservate bambole con i loro vestitini, pentoline, stoviglie, casette da arredare e tutto l’armamentario necessario per essere in futuro ben inquadrate nel loro ruolo di brave madri e donnine di casa oltrechè di amanti devote e con una decisa tendenza eterosessuale. In questo tipo di educazione viene del tutto esclusa la possibilità che la persona, da adulta, possa poi avere gusti ed aspirazioni completamente opposti. Se oggi ricordo alcuni episodi di quando ero bambina, comprendo l’enorme “violenza” psicologica che talvolta i genitori possono operare ai danni dei loro figli, pur amandoli. Di questi episodi ne ricordo in particolare uno. Mia madre, che non voleva che giocassi con i soldatini che rappresentavano il mio divertimento preferito, ma che secondo lei non erano adatti ad una bambina, mi regalò un bambolotto. Era un bambolotto di plastica di quelli che, inclinandoli, parlavano. Per me, quel bambolotto è sempre stato un’angoscia. Forse per la fissità dello sguardo oppure per l’immobilità della bocca che, quando lo inclinavo, emetteva quella voce meccanica che mi terrorizzava, io quel bambolotto proprio non lo volevo. Preferivo i miei soldatini. Ma siccome Mamma me lo imponeva ogni momento, un giorno che ne abbi l’occasione lo infilai in una tinozza piena d’acqua e lo “affogai” fino a quando quel suo mugolio fastidioso e innaturale non divenne prima un gracchiare e poi si spense. Tutte voi sapete, presumo, quel che accadde dopo. Mamma ve lo avrà sicuramente raccontato. E’ uno dei suoi argomenti preferiti. Ricordo infatti come si arrabbiò per quel mio gesto e tuttora, nonostante i bambini io li ami più di me stessa, ancora non smette di ricordarmi quell’episodio facendomi quasi vergognare. Ma cosa significava tutto ciò in termini di personalità che poi avrei sviluppato da adulta? Preludeva forse a istinti infanticidi? Scarso senso materno? Latente omosessualità? O più semplicemente era il modo che avevo di ribellarmi ad un ruolo nel quale, fin da piccola, non mi sentivo felice in quanto costretta? Quel ruolo, appunto, di chi accetta passivamente la propria condizione di femmina imposta dall’alto e non invece come conseguenza di una libera scelta? Anche se allora non lo potevo ancora capire, oggi mi è evidente come dentro di me, già a quell’età, tutto lottasse per uscire fuori dal guscio nel quale mi si voleva rinchiusa. Comunque, questo è solo un esempio di cosa significhi indottrinamento ai ruoli e di conseguenza, insegnare ai bambini a considerare “buone” certe cose e “cattive” altre secondo il loro genere di appartenenza. Poi ci sono cose considerate cattive per entrambi i generi. Una di queste è il sesso. Il sesso è cattivo. Il sesso è male. Il sesso è vietato. Il sesso è immorale. E qualcuno, a causa dell’indottrinamento ricevuto, potrebbe anche aggiungere che il sesso è schifoso. Questo è il modo in cui la stragrande maggioranza dei bambini, ancora nel nostro cosiddetto ventunesimo secolo vengono educati. E so che, quando dico maggioranza, non sto rischiando di generalizzare. Ma non solo il sesso è un peccato, se poi si mette di mezzo anche la religione, diventa addirittura il “peccato originale”, quindi il più grande, il più cattivo di tutti, almeno per chi crede a ciò che è stato scritto nei libri sacri delle tre religioni monoteiste. Non ha importanza se il sesso è l’atto attraverso quale il genere umano ha potuto esistere. Non ha importanza se è col sesso che si accresce l’amore fra due persone. Non ha importanza se è quell’impulso primario che guida ogni essere umano verso il piacere e la felicità. La morale impone di considerarlo il fondamento di ogni vizio. Forse c’è chi ha ancora bisogno di credere che Dio avrebbe inventato un altro modo meno scandaloso per l'uomo e la donna di procreare e se non si fosse messa di mezzo quella maliziosa di Eva, con la sua curiosità, la sua inguaribile voglia di sapere, la sua incosciente aspirazione a vivere la vita provando ogni esperienza, forse quest’altro modo meno vergognoso esisterebbe. Ma le cose, come sappiamo, sono andate come sono andate. E chi è la principale responsabile di quel terribile errore divino? Chi è che rappresenta la fonte di ogni tentazione che conduce l’uomo alla perdizione? Chi? La donna, naturalmente! E l’uomo in tutto questo è solo una povera vittima. Vittima della vergogna legata al sesso. Vittima per il solo fatto di sentirne il desiderio. E se il sesso è cattivo, è male, è proibito, è immorale, è schifoso, lo è molto di più se a desiderarlo è la donna. Questo ci porta direttamente al tema: l'ipocrisia e la doppia morale sessuale. Inutile dire che in un breve discorso non si possono affrontare tutte le cause e i sintomi dell’ipocrisia e della doppia morale sessuale. Ma tenterò di definire almeno tre dei fenomeni principali che tutto ciò produce.

1 - Il primo fenomeno è il persistere della misoginia, nel considerare le donne come immature, irresponsabili, non in grado di fare scelte sessuali e di vita indipendenti. Viola ha commesso il “grande reato” di essere rimasta incinta quando è stata violentata da suo fratello, ed è stata scacciata di casa perchè ha rifiutato di abortire. E’ stata abbandonata e per sopravvivere ha dovuto prostituirsi anche durante il periodo di gestazione. Ora è madre di una bellissima bambina sana e intelligente, ma cosa ne è stato di suo fratello? Ha subito forse qualche castigo per ciò che ha fatto? No. L’unico castigo lo ha subito lei e se non avesse trovato aiuto, chissà dove sarebbero adesso lei e la sua bambina. E’ questo che accade: se una donna osa opporsi ad un sistema ipocrita e maschilista semplicemente rifiutando di interrompere una gravidanza, come ha fatto Viola, deve subirne le conseguenze. Ma se un uomo violenta la sorella ed è protetto dalla famiglia, non subisce alcun castigo. Il problema è forse limitato alle zone rurali della Moldavia dalle quali Viola proviene? Dovremmo augurarcelo, ma tutte noi sappiamo che non è così. Se si parla della storia recente dell’Est Europa e dei Balcani, la violenza sessuale contro le donne è un fatto ineludibile che si è manifestato a diversi livelli e in varie forme. Sono state le donne a vivere drammatici episodi di violenza durante i conflitti che hanno sconvolto i Balcani negli anni novanta. Oltre allo stupro, usato come vero e proprio strumento di offensiva interetnica, vi sono state innumerevoli situazioni di sopruso e di sopraffazione. I casi di stupro e di violenza sono stati decine di migliaia e raramente i colpevoli, tutti uomini, sono stati condannati. Come dimostra che a sedici anni dalla fine della guerra in Bosnia Erzegovina, i responsabili degli stupri continuano a sottrarsi alle indagini e alla giustizia. Alcuni occupano addirittura posizioni di potere e molti vivono nelle stesse comunità delle loro vittime. Sono pochi in definitiva i colpevoli che sono stati assicurati alla giustizia attraverso i tribunali internazionali e nazionali. Amnesty International stima che anche oggi, nella sola area dei Balcani, ben 15.000 donne o ragazze o bambine subiscano ogni anno abusi sessuali di vario genere, molti dei quali da membri maschi della propria famiglia. Abusi che poi restano impuniti. Ma dicendoli così, sono solo dati statistici, freddi numeri che non riescono a dare la misura di questo orribile fenomeno, e noi tutte sappiamo quanto non sia accurata questa cifra, come la stragrande maggioranza dei casi non vengano denunciati per vergogna, passando quindi sotto silenzio. Di quelle che subiscono violenza sessuale, infatti, non si parla e spesso le vittime sono circondate da un’aura di qualcosa che sa di sporco, intoccabile, che è meglio non provocare, non sentire, non udire.

2 – Il secondo fenomeno è la celebrazione della verginità femminile. Soprattutto laddove l’influsso religioso sta tornando ad essere molto forte, ci si attende che le donne si mantengano vergini fino a quando si sposano. Per me, che sono cresciuta sotto il comunismo e che ho vissuto gli anni della mia emancipazione in una grande città, in piena indipendenza e libertà, tutto ciò pare una barzelletta di cattivo gusto. Però, purtroppo, non lo è. Questa nuova ondata di “moralismo” e di “sottovalutazione della donna” sta prendendo di nuovo vigore da quando il sistema comunista è caduto e la religione si è di nuovo incuneata nella vita delle persone sostituendosi all’antica “dottrina” di partito, soprattutto in quei luoghi lontani dalle grandi città, nelle zone rurali e più povere. Allora, dove porterà tutto questo? Alla ricostruzione dell'imene? All'utilizzo dell’imene artificiale? Le donne accetteranno questa umiliazione prestandosi a questa immonda pratica talvolta costrette proprio dalle loro stesse madri al fine di rifabbricare la menzogna? Oppure come fece una bambina tanti anni fa con un bambolotto, affogheranno l’ipocrisia nella tinozza della propria dignità?

3 - Il terzo fenomeno, ma non il meno importante, è la discriminazione di quelle donne che sono capaci di gestire liberamente la loro sessualità e che vengono immancabilmente ostracizzate per il loro stile di vita definito, nella migliore delle ipotesi, come scandaloso o audace. La donna, perciò, tranne rare eccezioni, deve accontentarsi di essere la destinataria dei desideri del maschio. Soggetto dunque passivo e non attivo della sessualità perchè a lei non dato esprimere ma, piuttosto, di essere espressa. E’ per questo motivo che quelle che sono così coraggiose da ribellarsi andando contro alle regole, che trasgrediscono nello stesso identico modo che è concesso al maschio che per gli stessi comportamenti viene considerato normale, devono sapere che nella società dell’ipocrisia e della doppia morale sessuale saranno immancabilmente etichettate nel peggiore dei modi e che avranno sempre l’indice puntato contro.

Io credo che sia giunto il momento di non essere soddisfatte solo di lamentarci, ma che tutte quante per andare avanti dobbiamo fare qualcosa al riguardo: innanzitutto essere consapevoli di noi stesse e della grande forza che ci ha dato la Natura, e poi assumerci la nostra responsabilità. E qual è la responsabilità di noi donne in tutto questo? Qual è la nostra responsabilità nei confronti di questa ipocrisia sessuale che, fin da bambine, c’impedisce di fare delle libere scelte? Si tratta, almeno a mio avviso, di rifiutare il lavaggio del cervello che da secoli ci stanno facendo coloro che vogliono tenerci a bada, e che utilizzano il sesso come un elemento di controllo su di noi. E’ renderci conto che c’è qualcosa di sbagliato negli insegnamenti che ci sono stati inculcati. E’ credere che una vita sessuale sana, libera e non condizionata dai giudizi altrui è un nostro diritto. Una vita sessuale senza gli ostacoli posti dall’ignoranza, dall'educazione patriarcale, dal sessismo, dai tabù e dagli stupidi divieti. Si tratta dunque di educare le nostre figlie e i nostri figli in un modo diverso che porti le generazioni future ad un maggiore rispetto e comprensione del proprio corpo e della sessualità.

Per riassumere:

- il sesso non è  male. Il male è solo nella doppia morale misogina che penalizza le donne;

- il sesso non fa schifo. Quel che fa schifo sono gli inutili valori basati sul sessismo;

- il sesso non è immorale. Immorale è la spaventosa ipocrisia che dilaga ogni giorno di più.

Nudo artistico o pornografia? Si chiede Antonio Lo Torto. Anche se la fotografia non è antica come altre forme di espressione artistica, nondimeno molte sue forme vengono legittimamente considerate arte. Ciò non significa che tutte le “buone immagini” siano automaticamente artistiche (ma questo, a nostro avviso, vale anche per molti quadri e sculture…). Pertanto non tutte le fotografie si eleveranno alla dignità di seri nudi artistici soltanto perché mostrano donne o uomini privi di abiti. Basta consultare un qualsiasi vocabolario per rendersi conto che il termine “nudo” può essere infatti sia un aggettivo (che indica la condizione di chi non è coperto da vesti, cioè la nudità), sia un sostantivo (la rappresentazione artistica di un soggetto nudo). Il primo ha sicuramente una connotazione oggettiva, quasi “clinica”, mentre il secondo suggerisce un’interpretazione che attiene al campo dell’arte. Per un fotografo questa è una distinzione fondamentale, infatti possiamo affermare che l’immagine di un corpo nudo diventa un nudo, nel senso artistico, solo quando tale corpo viene messo in posa, illuminato, modellato e descritto non a fini documentativi, clinici o informativi che dir si voglia, bensì per scopi estetici ed interpretativi. Ma non basta. Esiste un sottile confine tra “bello e brutto”, tra “morale e immorale”. Soprattutto quando si parla di fotografia di nudo. Il fotografo e il pubblico delle sue immagini devono poter stabilire se una data fotografia sia definibile un’opera d’arte o una rappresentazione oscena. Il confine tra i due i campi è quasi impossibile da fissare, sia esteticamente, sia legalmente (Potter Steward, giudice della Suprema Corte di Giustizia USA, ha affermato: “Io non so esattamente cosa sia la pornografia, né so esattamente come descriverla; però quando la vedo, la riconosco!”). In linea di principio, ritengo che un’immagine sia da definirsi pornografica quando offenda il buon gusto di chi la osserva, non solo per la presenza dell’erotismo, ma soprattutto per quella sensazione di degrado della femminilità in generale e della donna ritratta in particolare che risulta inevitabile da una sua lettura. Quando un’immagine “sfrutti”, piuttosto che esaltare, le qualità erotiche e umane di un soggetto ci troviamo di fronte ad un lampante esempio di fotografia pornografica. Sebbene la pornografia sia spesso associata alla rappresentazione visiva della figura umana, una fotografia di nudo realizzata con onestà, sensibilità ed integrità è non soltanto una delle forme di espressione artistica più impegnative e difficili da creare, ma arriva a situarsi quasi agli antipodi del concetto di osceno. Un nudo magistrale può rappresentare uno dei massimi doni offerti al soggetto ritratto, un qualcosa che con la pornografia non ha assolutamente nulla a che fare…

ARTE O PORNOGRAFIA?

Arte o pornografia? Nel dubbio Facebook censura. Nuovo caso di nudo artistico bloccato dai software del social netowrk: «L'étud de nu» di Guillot online con i seni coperti, scrive Elmar Burchia su “Il Corriere della Sera”. Cos’è pornografia, cos’è arte? La domanda pare retorica, ai più. Non per Facebook. Ancora una volta il colosso di Zuckerberg non riesce a distinguere tra i due concetti. Un nudo femminile della celebre fotografa francese Laure Albin Guillot (1879-1962), pubblicato sul profilo del museo parigino Jeu de Paume per illustrare la mostra dedicata all'artista, è stato censurato e il profilo è stato temporaneamente bloccato. Certo va detto: per il museo parigino che ospita la mostra della pioniera dell'uso moderno della fotografia, Laure Albin Guillot, si tratta di un’enorme pubblicità. Ma a che prezzo? La pagina Facebook del Jeu de Paume è stata bloccata venerdì per 24 ore a causa del nudo femminile degli anni ‘40 postato sul profilo. I responsabili del museo, specializzato in fotografia contemporanea e video artistici, si sono affrettati a denunciare la vicenda parlando di «censura» da parte del colosso di Menlo Park: «Non distinguere tra un’opera d’arte e un’immagine pornografica è discutibile e soprattutto pericoloso». Laure Albin Guillot, che nel corso della sua vita si è dedicata a vari generi come il ritratto, il nudo, il paesaggio, la natura morta e il reportage, è stata anche una delle prime fotografe a lavorare in forma professionale per la stampa, l'edizione di libri, le illustrazioni e la pubblicità. Ciò nonostante, «L'étude du nu», questa l’opera finita nel mirino, infrange gli standard della comunità del social network. La foto in bianco e nero mostra una donna distesa e solo in parte nuda; le parti intime sono infatti coperte da un panno bianco. Nelle ultime ore il museo ha pubblicato la controversa foto su Facebook con una barra nera a coprire il seno e l’avviso che l'immagine è stata bloccata a causa di una violazione delle linee guida del social network (immagini di nudo non sono infatti ammesse su Facebook). Dopo i «numerosi messaggi di sostegno», la direttrice del museo, Marta Gili, ha annunciato che rifiuterà «ogni forma di censura». «La società non ha il diritto di fare una cosa simile con un’opera d’arte». Un portavoce di Facebook in Francia ha ammesso in una dichiarazione scritta che «a volte risulta difficile» riuscire a «distinguere tra arte e pornografia». Eppure non è la prima volta (e non sarà nemmeno l’ultima), che Facebook o meglio, i software automatici impiegati dal colosso californiano, censura alcuni dei profili a causa di fotografie ritenute lesive delle linee guida. L’estate scorsa, il social network rimosse l'immagine in cibachrome di Ema (nudo su una scala) del pittore tedesco Gerhard Richter dalla pagina del centro Pompidou di Parigi. Anche in quel caso, il motivo fu la nudità del soggetto. A seguito delle proteste, gli amministratori del sito si scusarono: avevano confuso il dipinto per una foto. Altro caso recente: a fine novembre scambiò un gomito - non proprio innocente, perché l'immagine venne creata apposta - per un seno femminile scoperto. Insomma, il social di Zuckerberg & Co. non va sul sottile, ma è fiero delle sue rigide politiche sulla pornografia. Con pene che vanno dalla semplice cancellazione, alla sospensione a tempo fino alla cancellazione del profilo per i recidivi.

Pinterest apre alle foto di nudo, gli artisti esultano, scrive “Il Messaggero”. Pinterest apre al nudo: la piattaforma digitale dedicata alla condivisione di fotografie, video ed immagini sta per dare ufficialmente luce verde alla pubblicazione di immagini senza veli proprio mentre Facebook e altri social network premono sul freno della diffusione di messaggi potenzialmente offensivi, violenti o sessisti. Una inversione a 'U' o quanto meno a 90 gradi decisa in seguito alle pressioni di artisti e fotografi. Finora l'etichetta di Pinterest per consentire l'affissione di foto sulla bacheca digitale era chiara: «Niente nudo, nudo parziale o pornografia». Ma «Pinterest è nata per consentire di esprimere le proprie passioni e la gente è appassionata dell'arte e l'arte include anche nudi», ha fatto sapere la società fondata nel 2010 da Ben Silbermann, Paul Sciarra e Evan Sharp al Financial Times rivelando l'intenzione di «far posto a queste richieste». Via libera dunque alla Venere di Milo e al Davide di Michelangelo mentre ieri Facebook si è impegnato a rivedere e migliorare la sua policy di moderazione online dopo che numerose aziende avevano ritirato la pubblicità per protestare contro il fatto che le loro inserzioni erano affisse accanto a messaggi violenti o misogini come quelli di gruppi che in apparenza avallavano femminicidi e stupri. Gli approcci divergenti - nota Il Financial Times - mostrano come i social network debbano fare un complicato gioco di equilibrio tra gli interessi dei loro utenti, la necessità di controllare e moderare quanto viene postato online e la pressione degli inserzionisti: Facebook guadagnerà 6,6 miliardi di dollari nel 2013, di cui 5,6 dalla pubblicità, secondo stime di eMarketer e la stessa Sheryl Sandberg, chief operating officer del colosso californiano, ha ammesso che «esiste tensione reale» tra quanto vogliono gli inserzionisti e la libera espressione. L'impegno di Facebook a far pulizia rendendo più severe le sue regole ha indotto alcune aziende, come la casa automobilistica giapponese Nissan, a tornare sul social network. Non così Nationwide, la maggiore società immobiliare del Regno Unito che ha annunciato di aver sospeso a tempo indeterminato gli spot fino a che non verranno definite «regole severe e chiare per impedire che il suo brand venga accostato a contenuti indecenti».

L'Onu e la guerra fredda del sesso. Si sorvola su regimi sanguinari e genocidi e ci si occupa del mancato riconoscimento delle coppie omosessuali, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Ma non vi pare di stare un po' esagerando con la questione omosessuale elevata a priorità planetaria? L'Onu, che meglio sarebbe ribattezzare Omu visto che non si occupa di nazioni ma di omosex, censura Stati e religioni sul mancato riconoscimento delle coppie omosessuali, sorvolando su banali incidenti come regimi dispotici e sanguinari, genocidi su base etnica o religiosa e pena di morte a gogo in grandi Paesi come la Cina. L'Omu arriva a censurare un'istituzione bimillenaria come la Chiesa sulla questione omo e sull'aborto, con la pretesa ideologica e invasiva di dettare pure alla fede i suoi canoni paranoically correct. La retorica organizzazione umanitaria, inefficace quando si tratta di risolvere le questioni legate ai diritti elementari della vita umana e della persona violata o di tutelare i cristiani massacrati nel mondo, getta benzina sul fuoco della Guerra fredda che si è riaperta tra Usa e Russia per le Olimpiadi invernali. Stavolta gli States hanno schierato non missili e testate nucleari ma lesbiche e omosessuali nel nome dell'omolatria violata. Lascio da parte il merito della questione, che peraltro riguarda, non dimentichiamolo, una piccola minoranza all'interno della minoranza omosessuale. Ma trovo assurdo che le questioni internazionali, i rapporti tra Stati, le sanzioni, le rotture diplomatiche e le censure, vengano regolati sempre e solo da questa ideologia trans e biofoba, onnipervasiva. Per far questo non c'è bisogno dell'Onu, Ban Ki-moon e Obama, bastano le Pussy Riot.

I Sex toys valgono 15 miliardi. All’Italia resta solo il porno, scrive Wall & Street, ossia Massimo Restelli e Gian Maria De Francesco, su “Il Giornale”. Di Lady Gaga vi abbiamo già parlato in merito alla sua popolarità su Facebook, inferiore a quella della Coca Cola (a proposito su Twitter è stata di recente stracciata da Katy Perry che ha sfondato il tetto dei 50 milioni di follower). Oggi ve la proponiamo in una «luce» diversa pubblicando la foto di un gadget a lei ispirato. Si tratta di una torcia che in inglese si dice flashlight. Ma poiché l’oggetto si chiama fleshlight e il riferimento è a flesh (carne), l’utilizzo che se ne può fare è diverso. Per non perderci nei giri di parole vi diremo che si tratta di un gadget per praticare l’autoerotismo, un sex toy. Come rivelato da un’indagine promossa da My Secret Case, una piattaforma Internet specializzata nel commercio di questo tipo di articoli, nei Paesi industrializzati il 95% degli uomini e l’89% delle donne ammette di praticare l’autoerotismo. È una percentuale molto elevata che induce anche a porsi un altro tipo di domande. Ma noi non ci occupiamo di sociologia. Sono le donne, però, a essere più intraprendenti. Negli Usa il 60% di esse fa uso di giocattoli erotici, il 49% in Inghilterra e il 45% in Germania. In Italia solo il 28% delle donne ha fatto un acquisto «speciale». È anche una questione di mentalità, evidentemente. Le stime che circolano in Rete indicano che i sex toys producono un giro d’affari pari a 15 miliardi di dollari, un business che cresce del 30% all’anno. si tratta, però, di un vantaggio, soprattutto, per la Cina che produce oltre l’80% dei dispositivi. Nel Paese asiatico – dove la pornografia è illegale – negli ultimi vent’anni sono spuntati come funghi oltre 200mila sexy shop. Secondo i dati del Guangzhou Sexpo del 2012, l’industria del sesso fattura oltre due miliardi di dollari all’anno. Alibaba, l’eBay cinese, sulla sua piattaforma dà spazio a oltre 2.500 aziende che vendono sex toys. Il Rapporto Coop «Consumi & distribuzione» ha rivelato che quest’anno il nostro Paese dovrebbe registrare uno sconfortante -6,1 per cento negli acquisti del comparto non food. Per il settore del sexual entertainment (che va dal Viagra ai sex toys), la crescita sarà straordinaria: +6,4 per cento. La classifica Loveville pubblicata da Durex su dati Nielsen vede Bologna come città con maggiore propensione all’acquisto: 546mila euro in due mesi di monitoraggio. Seguono Firenze e Verona.   Circostanza confermata anche dai dati di My Secret Case: il 45% degli acquirenti risiede infatti nel Nord Est. A seguire il Centro, mentre Nord Ovest e Sud spendono meno. L’importo medio degli ordini è di tutto rispetto: 90 euro. Per il sesso non si bada a spese. P.S.: Wall & Street sono cattolici. Dopo la pubblicazione di questo post correranno subito in Chiesa a confessarsi…

Sesso insegnato ai bimbi dell'asilo: polemica e referendum in Svizzera. In diverse scuole del Cantone di Basilea i bambini ricevono un'educazione sessuale che a molti appare troppo precoce. Tra poco sul tema si terrà un referendum, scrive Luisa De Montis su “Il Giornale”. Insegnare il piacere sessuale ai bambini di quattro anni non sarà un po' troppo presto? Eppure avviene dal 2011, in decine di scuole elementari del Cantone di Basilea, in Svizzera. Nelle "sex-box" distribuite ai bimbi dai 4 ai 6 anni c'è tutto il necessario per spiegare l'anatomia del corpo umano e, soprattutto, come nascono i bambini. Con tanto di video esplicativi, pupazzi, peni e vagine finte.  Crescendo, ma di poco (tra i 6 e i 10 anni) ai bimbi vengono spiegati temi come la masturbazione, l'orientamento sessuale, i preservativi, le mestruazioni e l'eiaculazione. Salendo fino ai 13 e i 15 anni si affrontano, invece, altre tematiche sessuali. Si tratta di un percorso sperimentale di educazione sessuale, che dovrebbe diventare obbligatorio dal prossimo anno scolastico estendersi alla Svizzera tedesca, a quella francofona e al Canton Ticino. Con questo scopo: "Fornire ai giovani le conoscenze essenziali, le capacità, le competenze e i valori di cui hanno bisogno per conoscere la loro sessualità, provando piacere fisico, psichico ed emozionale". L'iniziativa ha fatto arrabbiare alcuni genitori, che si sono mobilitati promuovendo un referendum (che si terrà nei prossimi mesi) contro l'insegnamento troppo precoce del sesso, a partire dagli asili. Il referendum (che in tre anni ha raccolto 100mila firme) chiede di abolire l’educazione sessuale nelle scuole a bambini fino ai 9 anni di età, di renderla opzionale fino a 12 anni e obbligatoria per i più grandi, ma a una condizione: che sia tenuta da  insegnanti di biologia che si concentrino sulla riproduzione senza andare a toccare gli "aspetti sociali della sessualità".

Sesso coi minori? Perché no, è "accettabile", scrive “Libero Quotidiano”. Almeno così la penserebbe oltre un italiano su tre, il 38% per la precisione. E' quanto emerge da un'indagine Ipsos per Save the Children. Il 28% degli adulti ha tra i propri contatti degli adolescenti che non conosce personalmente, mentre l'81% pensa che le interazioni sessuali tra adulti ed adolescenti siano diffuse e trovino terreno fertile su internet. Inoltre un italiano su dieci attribuisce la "colpa" dell'iniziativa di contatto proprio agli adolescenti. Le cifre - Secondo il 48% degli intervistati i ragazzi di oggi sono più disinvolti degli adulti nel loro approccio, nonché (per il 61%) sessualmente più precoci. Per il 36%, però, sono impreparati a gestire una relazione matura. C'è anche un 1% che sostiene che un rapporto sessuale con un adulto può essere formativo per il minore. Comunque per il 51% del campione gli adulti che fanno sesso con gli adolescenti sono o "irresponsabili" o "emotivamente immaturi". Il campione - L'indagine è stata effettuata a gennaio su un campione di 1.001 adulti tra i 25 e i 65 anni in occasione del Safer Internet Day 2014, la giornata dedicata dalla Commissione Europea alla sensibilizzazione dei più giovani a un corretto e consapevole uso della rete. Tra i dati interessanti, anche quello che rivela che tra gli over45, il 37% del campione usa la rete (soprattutto i social network)per colmare il vuoto affettivo e conoscere persone disponibili a fare amicizia o ad intrattenere un rapporto amoroso.

L'incontro sessuale tra un minore e un adulto è ritenuto "accettabile" da quasi un pugliese su due (47%), sempre (21%) o ad alcune condizioni, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. E’ quanto emerge da una ricerca nazionale Ipsos per Save the Children su "Le interazioni sessuali adulti-minori a partire da Internet", in occasione del Safer Internet Day 2014, la giornata dedicata dalla Commissione europea alla sensibilizzazione dei più giovani ad un uso corretto e consapevole della rete. Dalla ricerca emerge che più della metà dei pugliesi si affaccia alla rete per colmare un importante vuoto relazionale e affettivo della vita reale: il 58% dei pugliesi afferma di utilizzare il web – soprattutto i social network – per conoscere persone disponibili a fare amicizia o ad intrattenere un rapporto di affetto o amore. Il 29% degli adulti pugliesi ha tra i propri contatti adolescenti che non conosce personalmente. La stragrande maggioranza (90%) pensa che le interazioni sessuali tra adulti e adolescenti siano diffuse e trovino in Internet il principale strumento per iniziare e sviluppare la relazione, che può sfociare nell’incontro fisico, mentre uno su 10 attribuisce la responsabilità dell’iniziativa di contatto esclusivamente agli adolescenti. Il dato pugliese supera le percentuali nazionali - L'incontro sessuale tra un minore e un adulto è infatti ritenuto "accettabile" da oltre un italiano su tre (38%). Il 28% degli adulti italiani ha tra i propri contatti adolescenti che non conosce personalmente e l’81% pensa che le interazioni sessuali tra adulti e adolescenti siano diffuse e trovino il loro 'input' su Internet. Un italiano su dieci attribuisce la responsabilità dell’iniziativa di contatto agli adolescenti. Dalla ricerca emerge inoltre che il 58% degli intervistati, dato più alto a livello nazionale, attribuisce agli adulti la responsabilità dell’iniziativa di contatto nell’interazione con un adolescente, ma secondo il 38% anche gli adolescenti hanno una parte attiva nell’iniziativa del contatto (per il 28% condividono questa responsabilità con gli adulti, mentre per un pugliese su 10 sono i ragazzi i principali responsabili). Il 32% degli adulti pugliesi considera infatti i ragazzi più disinvolti nell’approccio con loro, e sessualmente più precoci (50%), ma comunque impreparati nel gestire una relazione sessuale con una persona matura (40%). Di contro, per due intervistati su 100 la relazione sessuale con un adulto potrebbe addirittura essere formativa per il minore. La consapevolezza e la parziale accettazione delle relazioni di natura sessuale tra adulti e minori, tuttavia, non esclude il giudizio sugli adulti che intraprendono relazioni di natura sessuale con adolescenti, ritenuti irresponsabili dal 60% degli intervistati o emotivamente immaturi (27%).

Il portale web delle fantasie pedofile, dove anonimi autori si scambiano racconti di stupri e violenze su bambini, scrive “Libero Quotidiano. Tutte opere di fantasia, assicurano i responsabili del sito, ma l'associazione per la lotta alla pedofilia Meter, che ha segnalato il web site alla Polizia Postale della Sicilia Orientale, non ce la vede giusta: troppo cruenti e verosimili i contenuti, come troppo duri sono i commenti. "Non chiediamo alla magistratura solo la chiusura del portale - si legge in una nota diramata dall'associazione -, ma anche di aprire un'indagine per istigazione alla pedofilia e alla sua pratica". Gli autori, anche italiani, "sono specializzati nelle storie in cui si insegna come stuprare i bambini  - si legge nel testo -. Del resto, per loro, raccontare è meglio che stuprarli realmente". Sul sito non vi sono immagini o video dal contenuto pedopornografico, ma solo testi della cui natura prettamente narrativa don Fortunato Di Noto, presidente di Meter, nutre dei dubbi: "Ma come si fa a dire che sono solo idee, immaginazione? - chiede -. Così fanno i negazionisti del razzismo, del nazismo, dei lager e dei campi di concentramento quando dicono che la soluzione finale era solo una idea. Pedofili scrittori che narrano stupri di bambini e le presentano come 'fantasie' che non fanno del male a nessuno - conclude -: ma i commenti sono tutto fuorché fantasie. Sono parole che mascherano una realtà drammatica e spesso taciuta, la realtà dell'abuso".

Che siano solo opinioni interessate da parte di un prete presidente di una associazione. Anche perchè è troppo facile parlare di pedofilia se poi....

Lui 60 anni e lei 11: per la Cassazione è amore. Annullata condanna a dipendente Comune Catanzaro. La decisione della Suprema Corte farà sicuramente discutere. I due erano stati sorpresi in flagranza in una villetta del catanzarese e l'uomo era stato condannato in processo a cinque anni per violenza sessuale su una minore. Ora la decisione di rivedere tutto riconoscendo l'attenuante della relazione sentimentale, scrive Stefania Papaleo  su “Il Quotidiano della Calabria. Lui 60 anni e lei 11 anni. Lui impiegato presso i Servizi sociali del Comune di Catanzaro, lei bimba di famiglia disagiata. La mamma l'aveva affidata alle sue cure. E lui l'aveva presa tra le sue braccia. Ma quando i poliziotti avevano fatto irruzione in quella villetta in riva al mare, le sue braccia la tenevano stretta sotto le lenzuola del lettone. Entrambi nudi. Ma anche innamorati, scrivono oggi i giudici della Corte di Cassazione, che, tra le righe di una sentenza che non mancherà di far discutere, individuano un'attenuante nell'accondiscendenza della vittima a consumare rapporti sessuali con l'imputato.  Così, annullata con rinvio la sentenza di condanna a 5 anni di reclusione per ben due volte inflitti a Pietro Lamberti, rispediscono gli atti alla Corte di appello di Catanzaro e ordinano un nuovo processo. Che ripartirà proprio da lì. Da quella villetta trasformata nell'alcova di un amore proibito. Fatto di telefonate quotidiane e incontri a tutte le ore. «Ma tu mi ami», le chiedeva romanticamente la minorenne. E lui, tentava invano di fermarla, per poi lasciarsi andare a commenti a sfondo erotico. Fino a quando il timore di una gravidanza lo avrebbe fatto desistere. E la paura si era sostituita al corteggiamento. Così come emerge da alcune delle centinaia di intercettazioni raccolte dai poliziotti. Lei gli faceva uno squillo quando si trovava da sola in casa e lui la richiamava dal cellulare, fatta eccezione per il week end. «Non chiamarmi sabato e domenica perché sono con la famiglia», la avvertiva. E lei ubbidiva. Così come avrebbe fatto quella mattina di sole del 22 giugno di tre anni fa, nel momento di indossare la gonna per poterlo “incontrare” in macchina, perché ritornare nella casa di Roccelletta sarebbe stato troppo rischioso, le avrebbe fatto notare il “suo uomo”, che da qualche tempo si sentiva addosso gli occhi della madre della undicenne, tanto da raccomandare continuamente a quest'ultima di non aprire bocca con nessuno e di non raccontare della casa di Roccelletta, «perché questo è un segreto che ci dobbiamo portare fino alla tomba». Ma il segreto alla fine fu scoperto. E Lamberto era caduto dritto nella rete dei poliziotti che, dopo avere intercettato l'incontro, lo avevano seguito e colto in flagranza.

Detto questo possono apparire bigotte puritane e moraliste certe prese di posizione.

Cassazione, assolto un 60enne: fece sesso con una bimba di 11 anni, scrive Simona Bertuzzi su “Libero Quotidiano”.La Cassazione salva l'uomo: "Era una vera storia d'amore". Lei era in affidamento. Ma se per un giudice della Cassazione un uomo di sessant’anni che si porta a letto una bambina di 11 è amore, solo amore, e una condanna a 5 anni per violenza va annullata e rimandata in Appello perché l’attenuante della relazione sentimentale non è stata presa in considerazione, a noi che resta? La notizia l’ha raccontata con dovizia di particolari  Il Quotidiano di Calabria. A Catanzaro una mamma in difficoltà affida la sua bimba di 11 anni ai servizi sociali del comune. Le dicono: siete una famiglia disagiata signora, lasci fare a noi. E lei, la mamma disagiata, decide di fidarsi. Prende la sua bimbetta adolescente, coi suoi 11 anni di giochi, codini e Winxs e  la porta negli uffici dei servizi sociali. «In fondo alla scala a destra, signora...» dove c’è quell’impiegato così gentile, con quell’aria da medicone di paese. Da quel giorno tra l’impiegato  per bene e la ragazzina in difficoltà comincia una storia allucinante, fatta di corteggiamenti, letterine, messaggi. Poi le gite al mare nella villa di famiglia che resta vuota durante l’inverno, e infine il sesso. Come una coppia di amanti qualunque, come il più banale e il più visto dei rapporti clandestini.  Il giorno dell’arresto il sessantenne viene trovato a letto nudo con la bimba, nella sua casa estiva. La piccola è svestita anche lei e lo abbraccia. La polizia che ha fatto irruzione nella casa non ha dubbi. Finisce come deve finire: l’arresto e poi la condanna a 5 anni di carcere per violenza sessuale. Fino a quando un solerte avvocato non fa notare che la ragazzina era consenziente quando faceva sesso con l’impiegato comunale e dunque non è stata considerata l’attenuante della relazione sentimentale. Di lì il ribaltamento della sentenza. Amore dicono i giudici. Non pedofilia come siamo abituati a considerare e giudicare qualunque rapporto con un  minore. E a sostegno della tesi si portano le centinaia di intercettazioni fatte dalla polizia. Dalle quali emerge che l’undicenne lo assillava quotidianamente con la domanda che fanno tutte le amanti: «Mi ami?. E lui all’inizio tentava di fermarla perché temeva un gravidanza indesiderata, ma poi sai com’è,  uno alla fine cede e si lascia andare. Sempre le intercettazioni dicono che lei lo chiamasse in continuazione quando era sola in casa, e lui le rispondesse dal cellulare, imbarazzato e durissimo: «Non cercarmi  il sabato e la domenica, lo sai che sono in famiglia». Anche quella mattina del 22 giugno di tre anni fa andò più o meno così. Lei indossava la gonnellina bella per «incontrarlo» in macchina, perché tornare nella casa di Roccelletta sarebbe stato rischioso. E lui fu più duro del solito: «Mi sento addosso gli occhi di tua madre, non devi aprire bocca con nessuno e non devi raccontare della casa di Roccelletta perché questo è un segreto che dobbiamo portarci nella tomba». Amore dicono i giudici. Anzi no scusate: una relazione sentimentale. No. Non è vero. Avvocati, giudici, fino all’ultimo praticante di tribunale avranno fatto ogni cosa a norma di legge in questa orribile vicenda. Ogni cavillo sarà stato considerato, ogni telefonata sarà stata risentita fino all’inverosimile, fino alla nausea. Ma noi no. Noi che siamo solo gli spettatori inermi dell’orrore, le mamme e i papà che tremano ogni volta che nostra figlia adolescente chatta su facebook o ha lo sguardo assente e un po’ smarrito a tavola, noi non possiamo leggere, girare il capo, e fare finta che sia tutto ok. Che non sia violenza. Che davvero sia possibile un rapporto d’amore tra un 60enne e una bimba di 11 anni.  Anche se lei scriveva sms. Anche sei lei diceva «mi ami»,  metteva il vestito «degli incontri in macchina» e aspettava che mamma uscisse  a comprare il pane per rifugiarsi nella sua cameretta e fare una telefonata al suo amore. Anche se lui, forse, pensava davvero di amare quella bimba. Qualcuno dirà che al giorno d’oggi le undicenni sembrano giovani donne fatte e finite, che vestono come le grandi e ammiccano come loro. Era dovere di quell’uomo  vedere l’orrore di quello che stava facendo. Sentire la puzza di violenza e perversione e fuggire lontano, preservando se stesso e la bambina dal più aberrante dei finali. E invece no: lui, che faceva l’impiegato per i servizi sociali e avrebbe dovuto strappare la ragazzina al disagio, sussurrava al telefono dalla sua poltroncina calda di marito e impiegato irreprensibile: «Non chiamarmi a casa...». E già te lo vedi il sabato fare la spesa, vedere gli amici e raccontare alla moglie indaffarata in cucina le ultime dal Comune come se nulla fosse. Diceva talvolta alla bimba: mi sento addosso gli occhi di tua mamma. Ma ve lo immaginate cosa deve aver provato quella mamma a sentirsi dire che l’uomo che doveva aiutare la sua bambina aveva abusato di lei? Che lei stessa aveva consegnato la figlia all’orco? Anzi, l’aveva  raccomandata?  Pensavano fosse amore i giudici. Invece era violenza e schifo e orrore.

GLI ORGASMI NELLA STORIA DEL CINEMA.

Billy Crystal, tutta la verità sull'orgasmo di Meg Ryan. Da Orson Wells alla celebre scena del finto amplesso in "Harry ti presento Sally": in un libro tutti e 65 gli anni dell'attore, scrive Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano”.. E’ il 1975. Un giovane comico di nome Billy Crystal è stato ingaggiato per apparire al Tonight Show di Johnny Carson. E’ la sua prima volta nel tempio della comicità americana. In un angolo, seduto su una sedia, c’è Orson Welles – ospite fisso del programma - che sta ripassando le sue battute. “All’Università di New York”, ricorda Crystal, “Scorsese ci aveva parlato molto di Welles e del suo straordinario lavoro di attore e regista (…) e ora che me lo ritrovavo davanti avevo una certa soggezione”. Billy, preso dall’entusiasmo, gli si avvicina. “Mi scusi, signor Welles. Sono Billy Crystal, lavoro anche io nello show e volevo dirle che ho studiato i suoi…”. Welles lo interrompe bruscamente: “…film, e lei è un innovatore e un grande regista e bla bla bla. Sto lavorando, va’ a farti fottere”. Questo episodio, assieme ad altri altrettanto divertenti, è contenuto nell’autobiografia che Crystal ha scritto appena compiuti i sessantacinque anni, appena pubblicata in Italia da Sperling (Dove sono stato, dove sto andando e dove diavolo ho lasciato le chiavi?, pp. 308, euro 18). Si tratta di un memoir esilarante, che al racconto della carriera del grande comico americano unisce le sue riflessioni sull’invecchiamento, sul sesso, sull’amore (è sposato con Janice dal 1970, caso più unico che raro a Hollywood) e su mille aspetti della vita. Un altro episodio divertente è il dietro le quinte di Harry ti presento Sally, il celebre film di Rob Reiner del 1989.  E’ la mattina in cui Meg Ryan si appresta a entrare nella storia del cinema registrando la scena dell’orgasmo al ristorante. “A un tavolo vicino era seduta Estelle, la magnifica madre di Rob. Era lei la signora che dice: ‘Quello che ha preso la signorina’. Cominciammo a provare, e Meg sembrava un po’ insicura. Il primo orgasmo fu così così; in quello successivo sembrava fossimo sposati da dieci anni. Forse era un po’ nervosa perché doveva condividere il suo orgasmo con tanta gente. Rob, un po’ spazientito, la invitò a fargli posto al tavolo perché potesse mostrarle cosa voleva da lei. Così mi ritrovai seduto di fronte quest’omone barbuto e sudaticcio pronto a eccitarsi. (…) Dopodiché Rob si esibì in un orgasmo da fare invidia a King Kong. ‘Sì, Sì, Sì’ urlava, sferrando certi pugni sul tavolo che i sottaceti volavano e l’insalata di cavolo fluttuava a mezz’aria. Una volta terminato, gli artisti di contorno applaudirono e Rob mi prese da parte. ‘Ho commesso un errore’, mi confidò. ‘Non avrei dovuto farlo’. ‘Meg non se la prenderà. Non credo tu l’abbia messa in imbarazzo’, lo rassicurai. ‘Ma no, cos’hai capito?’, replicò. ‘Ho appena avuto un orgasmo davanti a mia madre’”. Il meglio di sé, come prevedibile, Crystal lo offre nei monologhi da stand up comedian. Prendiamo i brani sul sesso. “Poi c’è quella pubblicità del Cialis dove dicono che se lo prendi vai avanti per trentasei ore. Puoi fare sesso in qualsiasi momento, nell’arco di quelle trentasei ore. Ma così è troppo stressante per me. Viviamo in una società frenetica: vogliamo tutto subito, abbiamo internet e messaggi istantanei, quindi vogliamo sesso istantaneo di certo non un Cialis che fa effetto per trentasei ore. Trentasei ore è più della durata totale della mia vita sessuale! E poi il Cialis non va bene per noi ebrei. ‘Irving, prendi questa pasticca, funziona per trentasei ore’. E Irving: ‘Trentasei ore in un anno, giusto? Posso riscattare quelle che non uso? Posso scambiarle con quel servizio di piatti?’”. O ancora: “Ho sempre pensato che il segreto per avere una vita sessuale soddisfacente fosse la varietà. E’ per questo che Dio mi ha dato due mani”. A un certo punto, Crystal immagina di origliare la conversazione di una coppia. Lui e Lei avevano venticinque anni nel 1973 e nel 2013 ne hanno compiuti sessantacinque. “1973. Lui: Guardati, sei bellissima. Lei: Oh, ma dai! 2013. Lui: Mai viste due tette così! Lei: Smettila di guadarti allo specchio e vieni a letto.” “1973. Lui: Perché tieni gli occhi aperti? Lei: Perché mi piace guardarti mentre facciamo l’amore. 2013. Lui: Cosa stai guardando? Lei: Le tende, non si intonano con la parete”. “1973. Lei: Cavolo, sarà almeno venti centimetri! Lui: Aspetta di vedermi eccitato! 2013. Lei: Accidenti, è così duro. Lui: Il dottore ha detto che è benigno”.  Infine, una piccola dichiarazione d’amore per la sua città. “A Los Angeles gli inseguimenti fanno più ascolti di CSI. Sono i reality originali. C’è quest’auto che va contromano in autostrada, poi a centoquaranta in un centro abitato, dove si schianta contro una recinzione. Al che il tizio al volante scende dalla macchina e si mette a correre attraverso i cortili delle case saltando le staccionate, mentre la troupe sull’elicottero lo inquadra dall’alto con un riflettore puntato su di lui. Personalmente, credo che sia una delle migliori performance di Lindsay Lohan”.

IL PORNO IN RETE.

Chi ha paura del porno in rete? Si chiede Emmanuele Jannini su “Panorama”. Il mantra ripetuto e rilanciato dai media è sempre lo stesso, acritico e pedissequo: attenzione alla pornografia e al cybersex! Internet pullula di pericoli per la salute sessuale e sociale di giovani e adulti. Ed ecco che arriva “l’esperto” dichiarante coram populo che il sesso on line genera mostri, perversioni (per gli addetti: parafilie) e subito dopo se ne alza un altro che cerca i riflettori ribattendo: no; produce invece astenia sessuale, desiderio sessuale ipoattivo, inibizione. Ma su una cosa sono entrambi d’accordo: l’inventarsi a tavolino due numeri spacciati per “ricerche” (che naturalmente non verranno mai pubblicate su un vero giornale scientifico) sulla pornoaddiction, giusto per guadagnarsi quei 15 minuti di celebrità mediatica che a nessuno si negano. Qualche mese fa il Journal of Sexual Medicine mi ha chiesto di valutare la letteratura scientifica su questo argomento. Mi è parso che ben pochi siano riusciti a sfuggire alla tentazione di un atteggiamento giudicante, più teso a cogliere i rischi che non i possibili benefici dell’espressione della sessualità on line. Così è stato per Robert Weiss, che si guadagna da vivere “curando” i sexual addicted nel suo Sexual Recovery Institute, denunciando che il 12% dei siti internet sono porno (avrei detto di più), il 25% delle parole googlate è correlato al sesso (68 milioni al giorno), il 35% dei download è porno, 40 milioni di americani sono pornofili, il 70% dei giovani visita un sito porno almeno una volta al mese (1/3 sarebbero donne) e il giorno preferito per il cybersex sarebbe la domenica e le feste comandate. Racconta questi numeri come rappresentazione dell’abisso di perdizione su cui ci sporgiamo ad ogni click, ma a Robert Weiss non viene in mente che il pianeta non è, si direbbe, popolato da zombi iper- o ipo-sessuali  contagiati dal morbo internettiano. Nonostante la diffusione di internet, la gente non si accoppia selvaggiamente sulla metropolitana e la pressione demografica anziché calare è in continuo, drammatico aumento (ho appena finito di leggere l’ultimo Dan Brown: ne è valsa la pena anche per riflettere su quest’ultimo – infernale – aspetto). La stessa orrenda piaga dei delitti sessuali si colloca molto più facilmente nell’aerea dell’ignoranza e della repressione sessuale che in quella della licenza, come il paradigma vittoriano di Jack-the-Ripper ha insegnato e la cronaca conferma di continuo. In effetti, quando si cerca una verifica empirica, galileiana, scientifica dei pericoli della pornografia e della rete, le paure artatamente evocate da chi è interessato a suscitarle sembrano venir meno. Il collega Gert Martin Hald dell’Università di Copenaghen ha scoperto che la pornografia è solo uno dei fattori, e non il più determinante, che si può correlare a comportamenti devianti o a rischio. Come sempre, non è il mezzo a creare il pericolo, come non è il chianti a creare l’alcolismo. Né i sempre esistiti terrorizzati dai tempora e dai mores riusciranno a conculcare la scopofilia (che non sta per, come sembrerebbe ai non grecisti, la passione per la copula, ma quella di chi ama guardare chi copula). Che il voyeurismo sia evidentemente innato nella nostra specie lo dimostra la lettura del godibilissimo The Prehistory of Sex: Four million years of human sexual culture di Timothy Taylor (Fourth Estate, Londra, 1996): appena l’uomo primitivo ha imparato a graffitare le sue caverne le ha riempite di immagini sessuali. D’altra parte il nostro cugino macaco è disposto a “pagare” con la sua riserva di frutta la visione (noi diremmo: pay per view) di fotografie dei genitali delle femmine top rank (noi diremmo: dive). L’ha elegantemente dimostrato Robert Deaner del Dipartimento di Neurobiologia della Duke University, North Carolina. Purtroppo sembra che nella nostra specie sia anche innato l’istinto censorio che si direbbe talvolta si alimenti di invidia. Censurando e lacerandosi le vesti, pochi si accorgono del vero pericolo della pornografia: il modello di accoppiamento è rudimentale, violento, maschilista, performante, ginnico, irreale, sostanzialmente costruito sulle grossolane proiezioni maschili. Tuttavia la stragrandissima maggioranza degli utilizzatori, anche abituali, ne trae piacere senza cercare di imitarne le imprese sintetiche e artefatte, esattamente come succede a uno spettatore delle olimpiadi che si diverte e partecipa, ma poi non si sente frustrato per non nuotare come le medaglia d’oro dei 100 metri rana né prende a cazzotti o passa a fil di spada il suo prossimo appena spento il monitor. Tutto rimane nell’ambito (sano) della fantasia. Ignoranti e ingenui possono invece pensare che non sia adeguato/a chi non abbia le dimensioni di Rocco Siffredi, chi non duri come la leggenda metropolitana disse di Sting e chi non sia una disponibilissima sacerdotessa del sesso come l’indimenticata Moana Pozzi. E poi ci sono i perversi, quelli veri: la pornografia spasmodicamente cercata non è la causa della loro malattia, che ha radici ben più remote; semmai ne è la conseguenza. Un sintomo, quindi. E un amplificatore del tratto psicopatologico che trova cure sia psicoterapeutiche sia farmacologiche. C’è un solo antidoto per questi, che sono i veri seppur rarissimi rischi del porno internettiano: la conoscenza (nam et ipsa scientia potestas est, diceva Bacone e ho suggerito queste parole quando si è trattato di trovare un motto per il mio Dipartimento universitario all’Università dell’Aquila) e l’aperta discussione. Come faccio con voi in questo blog che apre lo spazio – ovviamente internet – di  Sex Cathedra. Professore Emmanuele A. Jannini – Coordinatore del Corso di Laurea Indirizzo Psicologia della Devianza e Sessuologia – Università degli Studi dell’Aquila e di Sex Cathedra.

È fashion o porno? Scopriamo il trucco...scrive  Melissa Panarello su “L’Unità”.  “Fashion or Porn?” è il nome di un quiz che in questi giorni sta girando su Facebook. La ragazza nella foto è seminuda e bella, ci sono le parole porn e game che già di per sé costituiscono ottimi motivi per aprire la pagina e giocare a quello che si rivela essere il quiz d’intelligenza più difficile del decennio. Vengono proposti particolari di quaranta foto ed è da quei particolari che bisogna indovinare se si tratta di un’immagine pubblicitaria o di una scattata su un set porno. I creatori del test non hanno minimamente pensato di aiutare i fannulloni che decidono di giocare, così capire se si tratta di una foto porno o fashion risulta praticamente impossibile (a meno che, come me, non vi arrendete e giocate tutto il giorno così da conoscere ormai ogni foto). La discriminante, ovviamente, sono i genitali. Dove ci sono genitali ben esposti e “in azione”, si tratta di porno. Il resto è arte. Un’altra differenza la traccia lo sguardo: dove ci sono occhi languidi oppure divertiti, si tratta di porno. Se sono vuoti, senza espressione, sono occhi prestati alla moda. Anche le piante finte possono aiutare: nei set porno, per qualche misteriosa ragione, usano sempre ficus benjaminus di plastica. Quello che stupisce è quello che in realtà già sappiamo tutti, ovvero che il confine fra pornografia ed erotismo è sempre più sfocato, che l’erotismo è morto negli anni 80, quando lo spietato Patrick Bateman spiava gli hard bodies dal suo divanetto nel privé oppure quando in Italia Umberto Smaila sorrideva beato fra le ballerine di “Colpo Grosso”. Il mercato ha semplicemente capito che la pornografia frutta molti più utili dell’erotismo, dopotutto l’etimologia del nome è molto chiara: il verbo pernemi (da cui porne, meretrice) significa appunto vendere. Se vuoi vendere, dunque, devi usare lo stesso linguaggio della pornografia, ma con un’eccezione: salvare i genitali. Seguita quest’unica, semplice regola, puoi fare quel che vuoi: chiedere alla modella o all’attrice di mimare un orgasmo per vendere un pacchetto di fazzoletti, alludere a un ménage-à-trois per sponsorizzare una concessionaria di auto usate, far calpestare un uomo da un tacco 12 per mostrare l’ultima, strepitosa collezione primavera/estate. La pubblicità e il mercato devono tutto alla pornografia. La pornografia, al contrario, non ha debiti con nessuno. Lei è quel che è: sfrontata, volgare e sincera. Mentre tutti gli altri linguaggi strizzano l’occhio, la pornografia ha la capacità di guardarti con tutti gli occhi aperti, anche un po’ infantili. E’ questo che la rende irresistibile, tanto invidiata e imitata. Roman Polański dice che mentre l’erotismo usa solo una piuma, la pornografia usa il pollo intero. Le pubblicità proposte nel gioco, che sono le stesse che vediamo tutti i giorni, ovunque, usano un’ala o un petto di pollo. Questo significa che presto arriveremo tutti a mangiare il pollo intero? Che si abbandoneranno le allusioni e diventerà tutto pornografia? Non credo. Il mercato, oltre che di sesso, ha bisogno di nutrirsi di mistero. Se non alimenti il mistero anche i messaggi sessuali perdono potenza, non hanno più valore. La coscia di pollo, dunque, è il limbo cui siamo approdati e su cui rimarremo per molto, molto tempo. Sono fermamente convinta che associare il corpo al sesso non sia di per sé umiliante né tanto meno scandaloso. È anzi separandoli che si creano sempre più fratture, crisi identitarie, sessuofobia. Il corpo è anche sesso e il sesso, immagino/spero/credo, non è umiliante per nessuno. L’uso che il mercato fa del corpo e del sesso non toglie senso e bellezza ai corpi e ai desideri sessuali: se una società ha una coscienza sessuale definita, se non ha paura delle sessualità in tutte le sue forme, se non ha paura del corpo e delle infinite possibilità in esso racchiuse, come può un cartellone sull’A1 minacciare l’identità sessuale o denigrarla? Ogni cosa è spettacolo e lo spettacolo, per sua natura, si ciba di e vomita menzogna. Scoperto il trucco, siamo tutti liberi.

Nymphomaniac di Lars Von Trier: "Un film ripugnante da amare". Il chiacchierato lungometraggio che promette sesso esplicito ha debuttato in Danimarca. E spuntano le prime recensioni. Controverse, scrive Simona Santoni  su “Panorama”. Il giorno di Natale Nymphomaniac, il nuovo lavoro di Lars Von Trier che promette sesso esplicito a profusione, ha debuttato in Danimarca. E intanto cominciano a comparire le prime recensioni. Il film racconta la storia erotica di una donna che si è autodiagnosticata ninfomane, interpretata da Charlotte Gainsbourg. Dopo un certo vuoto distributivo, il lungometraggio finalmente ha trovato distribuzione in Italia grazie all'audace Good Films di Ginevra Elkann. La pellicola è diventata oggetto di attenzione ancor prima dell'inizio delle riprese perché il controverso e innovativo cineasta ha annunciato che si tratta di un porno con scene di sesso vero interpretate da attori hollywoodiani come Gainsbourg, Uma Thurman, Shia LaBeouf, Willem Defoe e Christian Slater. Secondo alcune fonti in realtà Lars Von Trier non ha detto tutta la verità: per le scene più hot, infatti, professionisti dell'hard avrebbero "prestato" i loro organi genitali ai divi.  Panorama.it ha già pubblicato i teaser trailer scandalo  (uno è stato rimosso da YouTube per i suoi contenuti ritenuti inappropriati), il trailer ufficiale  e i character poster  che rappresentano l'orgasmo. In attesa di poter vedere l'ultima provocazione del controverso regista danese anche da noi, ci affidiamo alle parole dei colleghi stranieri.  "Nymphomaniac di Lars von Trier randella il corpo e intenerisce l'anima. È sconcertante, assurdo e assolutamente affascinante", scrive Xan Brooks sul Guardian.  "Un film sul sesso che è volutamente poco sexy e una lunga storia loquace (due volumi, quattro ore) che in gran parte parla a se stessa. Quelle figure nude in movimento sono solo una distrazione". E ancora: "Personalmente l'ho trovato un'esperienza livida e faticosa ma il film è rimasto con me. È così carico di calci piazzati, così screziato di idee ossessive e voli arditi della fantasia che raggiunge una sorta di trascendenza. Nymphomaniac mi infastidisce, mi ripugna e penso che potrei amarlo. Si tratta di un rapporto violento; ho bisogno di vederlo ancora". Secondo Peter Debruge di Variety l'enfant terrible del cinema internazionale - ormai non più enfant ma sempre terrible - "consegna un denso lavoro progettato per scioccare, provocare e infine illuminare un pubblico che considera fin troppo pudico". Tra tanti riferimenti all'arte, alla musica, alla religione e alla letteratura, "in questa versione di Nymphomaniac l'unica eccitazione nell'intenzione di Von Trier è di tipo intellettuale, rendendo questa immagine filosoficamente rigorosa più adatta ai cinefili che alla folla impermeabile".  Il film infatti è pensato per essere proiettato in due versioni; quella "corta" e soft è di quattro ore ed è quella attualmente uscita nelle sale danesi, divisa in due parti. La versione più lunga e hard è della durata di 5 ore e mezza e anche questa è divisa in due parti. Di questa versione, il volume 1 avrà la sua prima mondiale al Festival di Berlino. Todd McCarthy su Hollywood Reporter ci rivela che in fin dei conti Nynphomaniac è molto meno hard "di quanto molti potrebbero aver immaginato o sperato. Eppure non è mai noioso". Nymphomaniac è uno dei rari film di Von Trier a non aver debuttato al Festival di Cannes, da cui il regista venne cacciato nel 2011 per alcune dichiarazioni sconcertanti sul nazismo. In Italia arriverà a marzo nelle due versioni (sarà distribuito così anche negli Usa da Magnolia Picture). 

Von Trier sbarca a Berlino con «Nymphomaniac» e sdogana il sesso esplicito. Nelle sale aumento le pellicole osé. E tornano alla memoria Kubrick e Bertolucci, scrive Dina Disa su “Il Tempo”. Con l’avvento di Internet il mercato dei film porno è praticamente finito, distrutto dai video relity online e dall’amatoriale. Ora il sesso esplicito è territorio del cinema d’autore. Sono passati i tempi in cui Bertolucci faceva scandalo con «Ultimo tango a Parigi» o quando Malle raccontava i suoi adolescenti perversi e la Bellucci si prestava ad una scena di sodomizzazione per ben 9 minuti diretta da un talentuoso Gaspar Noè in «Irreversible». La tendenza sta diventando quasi un obbligo anche per le star più affermate che si esibiscono in scene lesbo o full frontal d’autore. Da «Shame» di Steve McQueen, con un glorioso Michael Fassbender, che ha suscitato entusiasmo presso critica e pubblico, anche per le immagini in cui appariva nudo in fullscreen al lesbo movie «La vie d’Adele». La fantasia di Kubrick in «Eyes Wide Shut» non si può certo paragonare al trasgressivo «Shortbus», esplicito sì, ma poco raffinato e ossessionato dal contorsionismo. Nonostante due precedenti eccellenti come la fellatio metafisica di «Batalla en el cielo» del messicano Reygadas e la fellatio americana di «The Brown Bunny», di Vincent Gallo (2003), la ribalta porno d’autore parte soprattutto Oltralpe. Ne sanno qualcosa gli amatori di «Baise-moi» di Coralie Trinh Thi, interpretato da veri attori hard core che con disinvoltura offrono le proprie performance alla cinepresa. Mentre il nostro pornoattore Rocco Siffredi è apparso in «Romance» di Catherine Breillat. A parte «Caligola» di Brass, l’erotismo di Bertolucci e l’altro grande cult, «Impero dei sensi» di Oshima, il film d’autore con scene hard in Francia ha tradizione più solida. Ora tocca al danese Lars Von Trier scandalizzare, e per giunta la platea raffinata di un festival intellettuale come la Berlinale (6-16 febbraio), con il suo «Nymphomaniac». Ad interpretarlo ancora lei, la sua musa di sempre, Charlotte Gainsbourg, nei panni di una ninfomane raccolta insaguinata per strada da un professsore (Stellan Skasgard) al quale racconterà le sue estreme esperienze sessuali. Nel cast anche Stacy Martin, Shia LaBeouf, Christian Slater, Jamie Bell, Uma Thurman, Willem Dafoe, Jens Albinus e Connie Nielsen. Tra genitali finti, sesso vero con attori porno usati come controfigure, membri maschili di ogni genere e colore che riempiono il grande schermo, la versione integrale (di oltre 5 ore) sarà proposta alla Berlinale mentre l’altra sarà distribuita a marzo in Italia da Good Films. Il film è di grande livello artistico: certo, può non piacere o irritare, ma è impossibile che non colpista lo spettatore, preso per mano verso i lidi più estremi della sessualità. Certe scene di masochismo, per la Gainsbourg, «sono state umilianti», soprattutto quando si è lasciata frustare a sangue legata su un divano. Mentre il cerebrale professore trovava paralleli avventati tra le avventure erotiche della sua eroina e le realtà culturali, come la successione numerica di Fibonacci (paragonata alle infinite posizioni assunte dalla Gainsbourg) o la differenza tra sessualità libera e quella sadomaso, rapportate alla Chiesa d’Oriente e a quella più punitiva d’Occidente. L’escalation della protagonista ripercorre i déjà vu di Anais Nin, Henry Miller e del Marchese de Sade. Diverse le presenze italiane alla Berlinale (compresa Valeria Golino in giuria), ma nessun film in concorso: nella sezione Generation «Matilde», cortometraggio di Vito Palmieri e «Il sud è niente» di Fabio Mollo; nella sezione Forum «Materia oscura» documentario di Parenti e D’Anolfi (girato nel poligono del Salto di Quirra in Sardegna dove gli eserciti hanno testato per anni le nuove armi con danno all’ambiente); nella Kulinarischen Kino saranno presenti «Couscous Island», documentario di Amato e Scarafia, oltre a «Green Porno Season Two» di Isabella Rossellini e Jody Shapiro, «Slow Food Story» di Stefano Sardo e «Cavalieri della laguna 1» di Bencini. Nella sezione panorama sono infine attesi «Felice chi è diverso» di Amelio, «In grazia di Dio» di Winspeare e «La migliore offerta» di Tornatore. Tra le anteprime internazionali, oltre a «Nymphomaniac», anche «Monuments Men» di George Clooney, «Grand Budapes Hotel» di Anderson e poi, Resnais, Linklater e Bouchared.

Tira più un video hot di un carro di libri!! Questa è l’opinione di Francesco Maria del Vigo su “Il Giornale”. Per fare il verso ad un antico detto: tira più un pelo di figa che un carro di buoi. Tira più un video hot di un carro di libri? Il celebre adagio si può tradurre in un’agile regoletta sull’informazione on line. Ma solo a un’occhiata frettolosa e quanto mai accigliata. Il dibattito sulla “leggerezza” dell’informazione on line è un tema di discussione caro non solo agli addetti ai lavori. E c’è sempre chi, bacchetta moralizzatrice alla mano, intona dolorosi lamenti per la depravazione dei lettori (ma sono gli stessi che amano aggiungere una E all’inizio della parola) italiani che si riversano sopra contenuti soft porn. Prefiche di una verginità mai avuta. Seni esibiti in un autoscatto, perizomi che fanno capolino da pantaloni adamitici, capezzoli che sbucano sornioni da vestiti troppo scollati. Il basso si mescola inevitabilmente con l’alto nel cocktail dell’informazione. Alle volte se ne ricava un beverone indigeribile, altre un cicerone dalle piacevoli allucinazioni. È internet, bellezza. Al bando gli snobismi, suvvia. Non c’è niente di male. Chi dice che dietro una natica non possa nascondersi un contenuto culturale? In quale sacro testo sta scritto che lo sguardo che scivola giù per una profonda scollatura non finisca poi a leggere una poesia, per dire? Facciamo un esempio casalingo. Su queste pagine è stata pubblicata una pirotecnica intervista a Tinto Brass. Maestro dell’eros e dell’approccio carnale alla vita. Uno che, per intenderci, è stato escluso dal Festival di Venezia fino all’anno scorso, perché mostrava troppi centimetri di ignuda epidermide. Al microfono di Sylos Labini ha raccontato che “il culo è lo specchio dell’anima” e ha ricordato – ai pochi che non conoscono la sua opera – che con i suoi film procura “emozioni e non soltanto erezioni e lubrificazioni”. Ci sono voluti trent’anni perché il Lido ospitasse una retrospettiva sul regista (e non poteva che essere una retrospettiva una rassegna antologica del regista veneziano). Dopo aver sventolato la censura e sfoderato il cipiglio del bacchettonismo arriva, trent’anni dopo, la celebrazione. Per non parlare della ormai mitologica – e citatissima – intervista a Rocco Siffredi. Estrema, esagerata e più siffrediana che mai. Un colloquio senza filtri che è rimbalzato sulle pagine di decine di quotidiani. Non nascondiamoci dietro a un seno: i contenuti leggeri fanno clic e spesso sono interessanti, si fanno leggere e portano lettori. Lettori che poi si guardano attorno, perché a pochi pixel dallo scontornato di una coscia può apparire la recensione di un libro o la critica acuminata di uno spettacolo teatrale. Ed è subito contaminazione. Niente di nuovo sotto il cielo grigio della cultura italiana, un cielo pesante come il piombo, claustrofobico. Spesso le idee più scomode e urticanti trovano spazio tra le cosce della provocazione. Non per caso su Playmen, negli anni sessanta, sbarcarono intellettuali del calibro di Gian Carlo Fusco e Luciano Bianciardi e trovò spazio, persino, il pensiero osè di Julius Evola. Ieri come oggi la cultura libera non ha paura di percorrere le autostrade della comunicazione per entrare nelle zone traffico limitato del pensiero. E alla fine il bacchettone non si rende conto che è più volgare chi mangia una banana nascondendosi dietro a una mano – nel nome di chissà quale pudore – di una fellatio.

LA PORNOGRAFIA.

Pornografia. Universo del Corpo (2000), scrive di Piero Benassi su “Treccani”.

Pornografia.
Il termine pornografia (che deriva, mediante il francese pornographie, dal greco πόρνη, "prostituta", e γραθία, "scritto") sta a indicare la trattazione oppure la rappresentazione, attraverso scritti, disegni, fotografie, film, spettacoli ecc., di soggetti o immagini osceni, effettuata allo scopo precipuo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore.  sommario: 1. Relatività del concetto . 2. Diffusione attuale. 3. Pornolalia. 4. Interpretazioni. 

1. Relatività del concetto. La pornografia può essere considerata un'esibizione di organi o di atti sessuali finalizzata a provocare eccitazione. Come ogni altra espressione umana, essa risente fortemente della cultura del luogo e dei tempi in cui viene realizzata. Nel Palazzo del Tè di Mantova, edificato per le relazioni proibite dei Gonzaga, o in alcuni degli affreschi di Pompei sono raffigurate scene erotiche che nessuno interpreta come pornografiche, così come nessuno è eccitato dalla coppia a letto rappresentata nel Palazzo del Podestà di San Gimignano o di fronte ai nudi di Tiziano. Infatti, occorre distinguere fra il nudo proprio dell'arte erotica e il corpo nudo della pornografia. Inoltre, dai tempi dei Gonzaga o di Tiziano, è mutata la cultura e con essa la sensibilità. Nel Giudizio Universale della Cappella Sistina Michelangelo ha dipinto molti corpi nudi, in quanto nel Rinascimento il nudo non era considerato pornografico, come invece lo fu all'epoca della Controriforma quando, infatti, si ritenne opportuno coprire le figure michelangiolesche. I libri cinesi d'ammaestramento pedagogico per istruire alla sessualità una buona moglie sono invece considerati pornografici per l'Occidente. In Africa i missionari hanno costretto a vestirsi gli indigeni, che, invece, consideravano il nudo del tutto privo di significati erotici. L'effetto che un seno scoperto aveva fino a qualche anno fa attualmente ha perso gran parte del suo significato, se non è accompagnato da messaggi o stimolazioni più incisive, in quanto sono cambiati gli stimoli all'erotismo e di conseguenza i significati ritenuti pornografici, anche perché le nuove tecnologie mediatiche hanno determinato un rivolgimento nei gusti e nelle aspettative dei fruitori di tali messaggi. Sono tutti esempi di come il fenomeno pornografico risulti condizionato da una serie di fattori ben individuabili e siano diverse le valutazioni interpretative circa quello che viene considerato pornografico o meno. Il binomio pornografia-tabu, sostenuto da correlazioni teoriche, concetti psicodinamici e dimostrazioni storiche, inquadra i limiti del lecito rispetto a quello che i tabu rifiutano. Tra le variazioni culturali della pornografia, si possono distinguere quella erotica, che stimola l'uso 'normale' della sessualità, da una pornografia che invece si riferisce a pratiche sadomasochistiche, omosessuali, incestuose che giungono fino al feticismo, al travestitismo e al transessualismo (Andreoli 1989).

2. Diffusione attuale. Negli ultimi anni del 20° secolo i dati sul consumo dei prodotti pornografici hanno segnalato un costante aumento. Rispetto ai tradizionali prodotti stampati, hanno avuto crescente successo le videocassette che permettono l'uso privato dei film e quindi una maggiore utilizzazione rispetto ai cinema 'a luci rosse'. Meno diffusi in Italia, ma molto altrove, sono i pornoshops, i quali offrono oggetti utilizzabili per un rapporto pornografico attivo che oltrepassa la semplice percezione visiva. Un'altra innovazione è rappresentata dall'erotismo telefonico che offre il godimento di una relazione variabile a seconda delle caratteristiche richieste, impiegando mezzi vocali e verbali fortemente evocativi. Nell'attuale società si è diffusa, inoltre, l'offerta multimediale di varia sessualità via Internet, che in questo campo si pone in alternativa all'esperienza dei rapporti umani diretti e pare rispondere al carattere 'intellettuale' della sessualità contemporanea, caratterizzata da una sofisticata elaborazione immaginativa. Per la sua perfezione tecnica, l'erotismo multimediale sembra consentire stimolazioni istintive finora racchiuse nell'immaginario privato, ma che oggi possono tradursi in corpose immagini ricche di sensorialità, sostitutive o anticipatorie degli eventi reali. Questo erotismo, che può facilmente sfociare nel pornografico, diventa sempre più un voyeurismo trasgressivo, a uso del singolo, ma anche di coppia e di gruppo; in alcuni casi utilizzato in luogo della pratica sessuale, è un fenomeno di parasessualità ascrivibile a difettoso sviluppo della personalità, oppure può rappresentare un sostituto di sessualità turbata dalla paura di contagio di malattie veneree, soprattutto dell'AIDS. In una dimensione tribale o comunitaria la raffigurazione di soggetti erotici o di atti sessuali assume prevalentemente un significato rituale e finalità estetiche; nella società di massa, contraddistinta da tendenze e aspettative anche molto differenziate, il realismo o il simbolismo erotico vengono contaminati dalla trivialità e dall'insistenza compiacente su perversioni sessuali, pratiche sadomasochistiche, voyeurismi ecc. Nelle librerie è in notevole aumento la manualistica erotica; superate le pubblicazioni dei rituali sessuali induisti-buddhisti, di moda fino a pochi anni fa, i testi attuali esplorano le frontiere di un erotismo più carnale, suggeriscono aspetti sempre più ludici, consigliano l'utilizzo di nuovi afrodisiaci e di farmaci contro l'impotenza o per potenziare le capacità sessuali e sollecitano un uso di nuove tecnologie al servizio del piacere sessuale. Nel cinema, il genere pornografico, presente sin dai primordi, è in pieno sviluppo; non mancano le pellicole dove la pornografia è usata come elemento drammatico, ma in genere gli spunti narrativi si perdono in mediocrità ripetitive, non ci sono veri drammi, ma nemmeno sogni o realistiche redenzioni: in questo mondo persiste un insistente squallore nel quale ogni mistero perde i propri connotati, in quanto ogni aspetto di affettività, emotività e potere oscilla in un ventaglio di espressioni sessuali dai confini sempre più incerti. Sono numerosi gli esempi di inserimenti pornografici nell'ambito della quotidianità, dal moderno design di oggetti di uso comune a tutte le riproduzioni, le illustrazioni e i richiami, anche di stile pubblicitario. In campo letterario, si devono distinguere le opere alle quali lo spunto o la partecipazione di un erotismo ragionevolmente introdotto ed equilibrato assicurano un interesse e uno stimolo alla lettura, dal pornografico letterario vero e proprio, in cui gli autori ricorrono alla ripetizione e all'esagerazione, a situazioni esasperate, con avventure erotiche in luoghi favolistici nel corso di viaggi immaginari ecc., e che ha un tono sempre teso e drammatico, descrive esperienze eccezionali, è privo di senso dell'humour, della contemplazione, del distacco e della logica, si sviluppa in situazioni di allarme o di angoscia nelle quali le valenze sadomasochistiche, distruttive e autopunitive sono reiterate per stimolare immaginazioni e pulsioni istintive inabituali. La letteratura, il cinema e i mass media abbinano spesso l'erotismo incontrollato con la violenza, l'aggressività, gli impulsi, cioè aggiungono ingredienti idonei ad amalgamare aspetti dell'istintività che cercano soddisfazione sia tramite l'eros sia attraverso manifestazioni distruttive. Si realizza, dunque, una specie di connubio fra i due estremi, erotismo e senso di morte, in cui affetti, sentimenti, emozioni, passioni possono esplodere in forme drammatiche. Questo amalgama di pulsionalità istintiva può essere catalizzato dalla droga e dal connubio fra sesso e violenza. L'effetto droga rispecchia la ricerca, presente nella letteratura a carattere erotico-osceno ma anche in alcuni aspetti della realtà quotidiana, di piaceri assoluti e immediati, di evasioni e di fantasie liberatorie, e mette in gioco l'erotismo, più fantasticato che reale, ma anche il rischio della vita, in un sempre possibile abbinamento con la pornografia, alla ricerca di potenziamenti reciproci. Tuttavia sia la pornografia sia la droga stimolano la realizzazione di soddisfazioni istintuali che smorzano le funzioni del razionale, della conoscenza della realtà e della morale, per cui la contemplazione, la fantasia, il piacere, gli istinti tendono a sostituire l'azione, l'attività lavorativa e creativa, il dinamismo operativo. L'associarsi di queste due esperienze può suscitare fenomeni di depersonalizzazione, sia del proprio corpo sia della realtà esterna, può sottrarre alla latenza tendenze oppure impulsi sessuali prima controllati o ignorati, può infine provocare sentimenti di diffidenza, di ostilità, di odio, con possibili reazioni auto ed eteroaggressive.

3. Pornolalia. La pornolalia è ormai utilizzata a tutte le età e da tutti i ceti sociali. Tale forma di linguaggio ha infatti enormemente dilatato i propri confini, contestualmente al graduale ridursi degli eufemismi, dei tabu terminologici, delle metafore. L'uso e l'abuso delle parole a contenuto erotico, sessuale e genitale, si possono prospettare come una vera e propria mentalizzazione dell'istinto che si realizza a livello verbale per dare un rinforzo e un potenziamento di significato nel rapporto comunicativo. Pornolalia si può definire come l'espressione di un'aggressività verbale, che in passato era essenzialmente maschile, ma che ora si è sviluppata molto anche nel linguaggio femminile, quasi come mezzo di autoaffermazione e rivendicazione della parità dei due sessi. Anche il bambino prova un gran piacere nel dire le parolacce: pur se ne ignora il significato, ne coglie al volo l'effetto dirompente e dissacratorio e le reazioni che provocano attorno a lui; l'impulso più immediato è, quindi, a ripeterle (Vegetti Finzi-Battistin 1994). Inoltre, il linguaggio osceno è molto vicino al corpo e alle sue funzioni, evoca impressioni tattili, olfattive, uditive, adatte a esprimere le pulsioni infantili, specie anali e genitali, ed è composto di parole che infrangono argomenti tabu, diversi tra loro, ma ugualmente intoccabili: il sacro, il sesso e gli escrementi. Nell'adolescenza, che riattualizza le trasgressioni e le dissacrazioni, specialmente se realizzate insieme al gruppo sociale, la pornolalia fa parte del linguaggio di gruppo, rappresenta forza, coesione e convalida l'identità verbale e comportamentale. Vanno poi considerati i fattori ambientali e sociali che ritardano lo sviluppo verso la maturità della personalità e che quindi mantengono a lungo comportamenti ed espressioni anche pornolaliche che si continuano mediante un condizionamento automatizzato.

4. Interpretazioni. La letteratura psicoanalitica sui principi costitutivi del perverso sessuale ha evidenziato, in particolare, che l'erotizzazione è una delle cure primitive della paura: quando una forma di angoscia infantile riprende vigore nella vita adulta, uno dei molti modi per fronteggiare questa crisi è il rafforzamento dei sistemi di erotizzazione primitiva, cioè di una sorgente originaria delle più svariate perversioni. Le angosce più profonde possono rappresentare il nucleo propulsore delle più varie patologie sessuali che, in fase di esasperazione, si abbinano spesso a fatti violenti, quali espressione concreta d'impulsi che esplodono e si scaricano tramite forme di aggressività; la criminalità a sfondo sessuale ha spesso questa patogenesi. Inoltre, nella nostra società si vanno palesando nuove tecniche erotiche in cui oscenità e violenza, insieme, sono più accentuate che nel passato. In questo scenario, la pornografia rappresenta un aspetto di dissoluzione della sessualità che si inserisce in una costellazione di crisi profonda dei valori, di negazione violenta e anche spietata del pudore, inteso come struttura portante della storia interiore dell'individuo. Il pudore del singolo non va confuso con il cosiddetto comune senso del pudore, che spesso è chiamato in causa proprio per circoscrivere il fenomeno pornografico. In ogni caso, il pudore può essere ricondotto alla delimitazione dei confini tra il lecito e il proibito, mentre alla pornografia vanno riconosciuti una componente ossessiva, in quanto comportamento ritualizzato fondato su un desiderio irrealizzato, e un suo affondare nei fantasmi più o meno perversi, universalmente presenti nell'inconscio individuale. Analizzando gli aspetti psicologici e antropofenomenologici del pudore, questo può essere inteso come barriera di protezione nei confronti dei valori affettivi che connotano la vita individuale nei suoi vari modi di manifestarsi (De Vincentiis-Callieri 1974); l'eros pubblicizzato dimostrerebbe che gli impulsi sessuali si sono scissi da quelli affettivi. Rispetto al pudore, l'analisi antropofenomenologica valuta una serie di condizioni necessarie al suo costituirsi: il corpo, l'altro o gli altri, il guardare e l'essere guardati. La genesi del pudore è relazionale, di spazialità, di distanza, di stimoli sensitivo-sensoriali, ed è espressione esistenziale ambigua perché può essere autentica o inautentica a seconda della sua fungibilità nel mondo dei rapporti interpersonali. L'incontro, il rapporto, la mondanità possono, dunque, oscillare in un'estensione ubiquitaria, dall'ossessionante pudicizia alla più sfrenata pornografia: in questo modo oggettuale (pudico od osceno) l'orizzonte esistenziale risulta povero o comunque costellato di oggetti anodini, senza rapporti dinamici, senza storia e quindi senza valori da offrire o da rappresentare. Oltre a ciò, sono noti gli aspetti psicopatologici nell'ambito sia del pudore sia dell'eros pornografico, con una serie di fenomeni che tendono in molti casi a unificarsi nella loro patologia (v. oltre). E. Borgna (1989), richiamando i fondamenti etici dell'esistenza umana, osserva che i valori hanno una costituzione eidetica autonoma e assoluta, che non può essere infranta senza rompere quell'ideale gerarchia in cui la dignità della persona ha un'importanza assoluta; il fenomeno della condotta pornografica s'inserisce nella costellazione della profonda crisi dei valori. La persona, con il suo corpo, viene reificata e parcellizzata dalle pulsioni della libido narcisistica che mantiene la cecità, il mutismo e l'anonimato di un oggetto strumentalizzato dalla cultura di massa. Anche dal punto di vista giuridico la pornografia si pone nel quadro dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, e in particolare contro il pudore (art. 529 c.p. riguardante la definizione legale dell'osceno, in riferimento agli atti e agli oggetti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore). Questa norma è formalmente esplicativa, in quanto individua il significato del termine osceno in riferimento all'effetto o al risultato sociale dei comportamenti e degli oggetti così qualificati, ammettendo anche la possibilità di un osceno non offensivo per il comune sentimento del pudore, di cui peraltro manca una specifica definizione, rinviata a un'interpretazione giurisprudenziale forzatamente aperta o elastica. In riferimento alla qualità dell'attuale vivere sociale, alla salute mentale e alle possibili manifestazioni di violenza collegabili a fenomeni pornografici, si può affermare che la pornografia riguarda una violenza suggestiva che permea tutta la società consumistica e cerca d'imporre al consumatore, soprattutto a quello poco in grado di difendersi dalla pressione dei mass media, beni di nessuna utilità materiale, ivi compresa una sessualità degradata. La pornografia può, quindi, nascere anche dalla frustrazione di non riuscire a ottenere i beni consumistici, come fenomeno sostitutivo e come risposta dell'individuo a un ambiente denso di stimoli egoistici. Gli pseudovalori della società consumistica costituiscono la premessa logica a un uso della pornografia come riferimento a modelli comportamentali molto attuali e sempre più valorizzati e pubblicizzati. Secondo alcuni, il comportamento sessuale illustrato dalla pornografia facilita reazioni che portano alla violenza, che può giungere fino alla criminalità sessuale (Ferracuti-Solivetti 1976). Sono tuttora numerosi i dati da verificare: in particolare se la criminalità sessuale possa essere collegata a un maggiore o a un più precoce consumo di pornografia, oppure se abbiano più importanza i fattori endogeni, riducendo quindi il ruolo della pornografia a fattore sociale capace di scatenare determinate reazioni solamente in individui diversi dagli altri per certi tratti di personalità. Questi dati non risultano ancora del tutto conosciuti, ma resta acquisito che i contenuti violenti dei materiali pornografici potenziano, nella loro combinazione, le valenze istintive pulsionali, e sono tali da contribuire al diffondersi di specifici comportamenti criminali. Altre indagini, come pure differenti orientamenti ideologici, sostengono che la pornografia, quale mezzo idoneo a liberare, a catalizzare oppure a metabolizzare tensioni o impulsi sessuali altrimenti irrisolvibili, possa produrre effetti catartici tali da contribuire alla risoluzione di problemi sessuali e da lenire problemi e angosce esistenziali con conseguente riduzione di forme di aggressività. Nel DSM-IV (Diagnostic and statistical manual of mental disorders), dell'American psychiatric association (1994), oltre alle più svariate disfunzioni sessuali, anche i disturbi d'identità in genere e in particolare tutte le perversioni sessuali (v. perversione) ‒ feticismo, 'frotteurismo', zoofilia, pedofilia, esibizionismo, voyeurismo, sadismo, masochismo, trasvestitismo ‒ sono elencati e descritti come casi clinici di disturbi psichici. È possibile che alcune di queste patologie trovino in qualche fenomeno di oscenità sessuale un compenso o un sollievo terapeuticamente valido. D'altra parte, è certo che le sollecitazioni provocate da perversioni pornografiche, eventualmente associate a violenza, a carico di soggetti già vulnerabili nei loro comportamenti sessuali, possono rappresentare fattori patogeni per la salute mentale, a maggior ragione se si tratta di soggetti con immaturità caratteriale, con difetti di sviluppo intellettivo o con disturbi o tratti abnormi della personalità.

La pornografia, o la logica culturale del nostro tempo, e scritto da Emiliano Morreale su “Le Parole e le cose”. Le immagini di sesso esplicito, per lungo tempo vendute e consumate in maniera più o meno sotterranea e illegale, nel corso del decennio hanno invaso gli schermi domestici. Dal 1988 al 2005 i titoli a luci rosse negli Usa sono passati da circa 1200 a più di 13.500 l’anno (la Hollywood “ufficiale” ne produce circa 400). Secondo i dati più attendibili, nel 2006 erano attivi almeno 4 milioni di siti porno: il 12% di tutta la distribuzione online (oggi saranno molti di più, visto che ne nascono circa 270 al giorno). Una parola su quattro inserita nei motori di ricerca, e un download su tre, sono di carattere pornografico. La vera mutazione però è qualitativa, e non riguarda i singoli prodotti, ma la struttura del sistema. Il cinema, la televisione, la moda hanno un “doppio” osceno sotterraneo e rimosso, che sempre più viene a galla al tempo di Internet. Questo mondo è interrogato dagli studiosi di rado, e con comprensibile imbarazzo. In America i cosiddetti porn studies sono nati all’inizio degli anni Novanta, da una costola della teoria femminista e dei cultural studies. Da qualche tempo, questo filone di studi è giunto anche in Italia, ad opera di una generazione di studiose e studiosi non a caso trenta-quarantenni, che in un mondo così sono cresciuti. Da un paio d’anni a Gorizia si tengono convegni internazionali sul tema (con titoli tipo “Economies, Politics, Discoursivities of Contemporary Pornographic Audiovisual”) ed è appena uscito un ponderoso volume intitolato Il porno espanso. Dal cinema ai nuovi media (a cura di Enrico Biasin, Giovanna Maina, Federico Zecca, Mimesis). Il libro offre i dati che abbiamo citato e ricapitola anche la vita clandestina della pornografia nel secolo scorso: dalla fase dei filmini mostrati nei bordelli o spediti per posta, all’ esplosione con titoli come Mona, the Virgin Nymph (1970) e Gola profonda (1972). Così il porno diventa un genere tra i generi, mutuando dal mainstream hollywoodiano un modo di fruizione (la sala), una forma narrativa (il lungometraggio di finzione) e uno standard tecnologico (il 35mm). Negli anni Ottanta, quando le sale (anche a luci rosse) cominceranno a chiudere, l’avvento del video moltiplicherà la produzione. Del resto, i contenuti per adulti guidano da sempre lo sviluppo dei media. Trent’ anni fa, il Vhs si affermò anche perché Sony, che sosteneva il formato Betamax, sosteneva una netta politica anti-porno. I dvd sono stati spinti dai “pornomani” perché rendevano più comodo trovare in modo rapido momenti specifici del film. E fondamentale è stato questo segmento di pubblico per avviare la tv via cavo, i servizi telefonici a pagamento o la banda larga. Oggi siamo davanti a un passo ulteriore, che non riguarda i singoli prodotti o mezzi di comunicazione. È quella che nel libro citato viene chiamata “pornificazione del mainstream“, una “invasione hardcore della cultura popolare”. La stessa che ha incuriosito scrittori come Martin Amis, David Foster Wallace, Chuck Palahniuk, che le hanno dedicato reportage e libri. Il porno espanso analizza il ruolo dell’ immaginario fetish nella creazione del divismo musicale, da Madonna a Lady GaGa; il porno “emerso” diventa glamour, alludendo fino a un certo punto a un universo osceno. L’ arrivo in Italia dei canali satellitari produce combinazioni di generi, nei quali anche l’ hard ha la sua parte: reality show, pseudo-inchieste, serie (ultima la francese Xanadu, una specie di Dallas sui magnati del porno), o inopinati talkshow (esiste una specie di versione inglese di Forum, con un giudice che dirime questioni sessuali tra partner). Potremmo dire che i due poli ideali dell’ “immaginazione pornografica” attuale sono la declinazione glamour e il suo opposto, la verosimiglianza bruta: il filmato domestico e amatoriale (il cosiddetto gonzo), autentico o più spesso finto, che presuppone, notano gli autori del libro, “una sorta di sovrapposizione semantica che assimila il concetto di reale a quello di privato”. Insomma il massimo del realismo, e la cosa più eccitante, è ciò che viola (o finge di violare) la privacy. Il consumo di pornografia domestico, immediato, prêt-à-voyeur potremmo dire, cambia. Si tratta forse della forma perfetta di consumismo: “Perseguire il piacere è uno dei principali modi di edificare la nostra soggettività in forme autorizzate”, sostiene il teorico inglese Mark Fisher. Il web 2.0 stimola nuove forme di voyeurismo, e anche di esibizionismo, e non solo in quelle forme che sono state definite IPorn (l’ esibizione erotica sul web). Ad esempio, di recente è sembrata rassicurante le notizia che il numero di utenti dei social network abbia superato quello dei consumatori di webpornografia: “Facebook batte il porno”. Ma tra i due consumi, nota uno degli autori di Il porno espanso, c’è una certa congruenza, dovuta alla natura vertiginosamente promiscua di queste piattaforme, che costituiscono “una innovativa forma di autoerotismo del sé”. La pornografia, insomma, non è oggi questione di contenuti: è quasi la logica culturale dei media; è il modo in cui funzionano le immagini, in cui noi spettatori/consumatori guardiamo e ci facciamo guardare.

Osceno e comune senso del pudore: Antropologia della pornografia di D. Stanzani e V. Stendardo su “Diritto”. La società attuale può essere considerata il luogo simbolico in cui avviene la continua esposizione delle merci; l'individuo si presenta ambiguo, ambivalente, contaminato, gioca con se stesso attraverso continue metamorfosi, sospeso tra marginalità e centralità, appartenenza e atomizzazione, produttività e parassitismo, consenso e conflitto, principi inappellabili del mondo tecnologico e labilissime e dolorose contingenze della vita quotidiana. Da qui, da questa identità fragile e polimorfa, le trasgressioni, le insubordinazioni, le perversioni, diventano mine per i codici simbolici esistenti e per la cultura dominante. Un aspetto inquietante di questa dimensione immaginaria dell'individuo che convive con le regole e le norme della società tutta è rappresentato da quanto di più  illusorio e mercificante possa esserci: la pornografia. Tentare di definire la pornografia non è semplice in quanto essa chiama in causa tutta una serie di elementi che sono riconducibili a coordinate psicologiche, sociologiche e culturali. Etimologicamente parlando, il termine deriva dal greco "pornè" (prostituta) e "graphos" (scrittura), starebbe quindi ad indicare tutto ciò che viene scritto intorno all'attività della prostituta. Tuttavia, questa definizione non è esaustiva del fenomeno che riguarda ben più ampi settori che sono andati modificandosi nel tempo, sia per la produzione che per i mezzi di comunicazioni. Secondo il vocabolario della lingua italiana Zingarelli, pornografia starebbe ad indicare la "descrizione e rappresentazione di cose oscene", ed il termine osceno si intende in relazione al concetto del comune senso del pudore. Nell'ambito del diritto, la pornografia è trattata in modi diversi e da diversi punti di vista, quello che noi abbiamo però voluto privilegiare riguarda due articoli del Codice Penale: l'art. 528 che individua chi crea la pornografia in colui che: "fabbrica, introduce sul territorio dello Stato, acquista, detiene, esporta, ovvero mette in circolazione scritti, disegni, immagini od altri oggetti osceni di qualsiasi specie allo scopo di farne commercio o distribuzione ovvero di esporli pubblicamente"; e l'art. 529 in cui si afferma che: "Agli effetti della legge penale si considerano osceni gli atti e gli oggetti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore (c.p. 725, 726). Non si considera oscena l'opera d'arte o l'opera di scienza, salvo che, per motivo diverso da quello di studio, sia offerto in vendita o comunque procurato a persona minore di anni diciotto'. Dunque osceno e comune senso del pudore sono elementi contrapposti, che esistono proprio in virtù della loro contrapposizione. Il pudore, sentimento di vergogna, di disagio, di repulsione è tipico dell'individuo quando questi, contro la sua volontà, si trovi di fronte a manifestazioni sessuali  di altri o quando sia egli stesso oggetto di sguardi durante gli approcci sessuali. Il pudore diventa senso comune nel momento in cui  la società umana di appartenenza condivide la stessa sensibilità nei confronti della sessualità. L'osceno sarebbe quindi l'offesa al pudore. Ma di osceno si parla già nell'articolo 527 del c.p. allorché si afferma: "Chiunque in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, compie atti osceni (c.p. 529) è punito con la reclusione da tre mesi  a tre anni (c.p. 726). Se il fatto avviene per colpa (c.p. 43) la pena è della multa da £ 60.000 a £ 600.000".  La grande difficoltà nel definire il comune senso del pudore risiede nel tracciare un limen tra offesa alla morale pubblica e libertà individuale. Gli articoli 528 e 529 del Codice Penale convivono e confliggono con l'articolo 21 della Costituzione Italiana che afferma: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". Questo era già implicito nell'articolo 2 della Costituzione Italiana che sancisce i diritti inalienabili di ogni singolo individuo: "La Repubblica sancisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale". Ma la difficile gestione giuridica dell'osceno e del comune senso del pudore in realtà è la risultante di una difficile gestione culturale di questi. Inoltre non possiamo non tenere conto dell'ampio capitolo riguardante la prostituzione minorile. E' importante sottolineare come sia il concetto di osceno che quello di comune  senso del pudore non solo si modificano nel corso del tempo all'interno di una data società, ma cambiano anche da società a società. La comprensione di questi concetti rimanda alla considerazione del corpo e della sessualità. "Il corpo è un universo simbolico immediatamente disponibile e sperimentabile da parte dell'individuo. La capacità del corpo di produrre significazione è legata al suo essere centro di ogni produzione immaginifica dell'uomo, centro del desiderio e delle pulsioni, più o meno controllate dall'educazione e dalla cultura" (M.Combi, 1998). Il corpo è quindi segnato, disegnato, gestito e mostrato dalla cultura di appartenenza. In molte società non occidentali il corpo non rappresenta la finitezza anatomica, altra rispetto al mondo contingente, ma "è il centro di quell'irradiazione simbolica per cui il mondo naturale e sociale si modella sulle possibilità del corpo, e il corpo si orienta nel mondo tramite quella rete di simboli con cui distribuisce lo spazio, il tempo e l'ordine del senso. Mai quindi il corpo nella sua isolata singolarità, ma sempre un corpo comunitario per non dire cosmico, dove avviene la circolazione dei simboli e dove ogni singolo corpo trova, non tanto la sua identità, quanto il suo luogo" (U. Galimberti, 1980). Il corpo naturale inserito in un fitto intreccio di simboli diventa corpo culturale, con delle norme di riferimento e le deviazioni da tali norme con le conseguenti  punizioni. La cultura di riferimento gestisce la vita dei corpi ed ogni loro aspetto e funzionalità, anche il discorso strettamente legato alla sessualità. Questa è stata definita da B. Malinowski un bisogno primario (bisogno di base): "Termine che indica il comportamento delle condizioni nell'organismo umano e nel sistema culturale in rapporto all'ambiente, necessarie alla sopravvivenza degli individui e del gruppo sociale" (U. Fabietti, 2001). I bisogni primari vengono soddisfatti attraverso risposte culturali per cui la sessualità è regolamentata, ad esempio, dall'insieme di norme che definiscono i sistemi di parentela e il matrimonio. Chiaramente questi cambiano a seconda delle culture. La sessualità è diversamente interpretata ed utilizzata. Presso i Basuto (popolazione africana che occupa l'area vicino il fiume Zambesi) è usanza che la nuova moglie abbia rapporti sessuali con il fratello più giovane del marito. Se poi il coniuge muore, il fratello del defunto si trasferisce nella capanna della cognata. I Basuto poi praticano l'ospitalità sessuale e permettono l'unione dei loro amici fraterni con la propria moglie. Per i Dagari dell'Alto Volta, invece, le donne sposate possono avere rapporti extraconiugali con molti amanti a patto però che questi si sottopongano ad una specie di lavoro forzato per il marito della donna infedele. Presso gli Agni in Costa d'Avorio durante la festa in onore degli spiriti, le donne dopo essersi purificate nelle acque del fiume si uniscono con gli uomini e dedicando il momento più bello dell'amplesso agli spiriti che proteggono la loro fecondità. Tutto il villaggio partecipa a questo rito in cui l'uomo diventa oggetto passivo, subisce il rapporto voluto in quell'occasione, soltanto dalle donne che lo dedicano appunto agli spiriti. Ancora in alcune culture la sessualità è utilizzata per definire le identità sociali e gli status all'interno della comunità, e per rafforzare legami, definire alleanze e rapporti sociali non è inusuale "prestare" le proprie mogli ad altri. Nella cultura occidentale il corpo e la sessualità sono vissuti in maniera completamente diversa. Il corpo, involucro finito dell'individuo è rappresentazione, specchio simbolico della perfezione divina. Per proteggerlo è necessario un rigido controllo sociale e culturale anche nelle sue funzioni più naturali come la sessualità. Questo perché il corpo materia definita dell'individuo non vada a contrapporsi all'aspetto spirituale di questo. E' necessario convivere e non contrapporsi, perché questo determinerebbe confusione e commistione tra il bene e il male. Le norme che regolamentano la gestione del corpo sono rigide, il corpo occidentale infatti è un corpo chiuso all'esterno, un corpo coperto totalmente, che non può essere mostrato. La nudità è associata al peccato, Adamo si rende conto di essere nudo solo dopo aver peccato e allora si copre. Dalla perfezione, dopo la caduta nel caos, si passa con dolore alla veste. Quindi l'indumento diventa simbolicamente norma culturale che gestisce i rapporti tra il bene e il male, che segna il confine tra natura e cultura. E' chiaro che da una tal rigida considerazione non può non derivare un'idea dell'osceno estremamente ampia. Ovviamente la sessualità ha risentito moltissimo di questa concezione per cui si  è sviluppata nel corso del tempo in special modo in Italia una duplice esperienza sessuale: quella legata alla vita familiare strettamente correlata alla procreazione e la vita nei luoghi di piacere. Il primo concetto rispecchiava la cultura religiosa, per cui il sesso al di fuori del matrimonio era condannato, associato al male e alla caducità dell'anima (è superfluo poi sottolineare come questa cultura condannasse i rapporti sessuali fra individui dello stesso sesso); l'altra esperienza era invece legata alle necessità della vita degli individui.  Se quindi parlare della sessualità è difficile, lo è ancora di più per quanto riguarda la pornografia considerata come l'industria della dominazione sessuale (R. Poulin).  La pornografia è un fenomeno moderno strettamente legato agli sviluppi della tecnologia, nello specifico della fotografia, del cinema e della videoregistrazione ed è solo in tempi recenti che si definisce il confine tra ciò che può essere considerato erotico e ciò che si può considerare pornografico. "L'erotismo, questo sì intrinseco ad ogni fatto amoroso, trova alimento all'interno della fantasia, dell'immaginazione, non è direttamente funzionale al fatto sessuale come tale, ma in qualche modo lo richiama per percorsi metaforici. E i segni dell'erotismo non sono tali perché veicolati da immagini sessuali, ma, anzi, proprio perché in apparenza lontani dal mondo del sesso e ad esso raccordabili solo, appunto, grazie alla fantasia ed all'immaginazione del singolo individuo" (A. Sobrero, 1992). Quindi l'erotismo è un fatto meramente individuale e nel momento in cui diviene collettivo per non tradire la sua nobile origine (infatti il termine erotismo deriva dal greco Eros, amore), deve essere riscattato da una interpretazione non mercificante. E' infatti il divenire merce che fa del sesso o dell'erotico pornografia. Le  pubblicazioni di innumerevoli riviste, le infinite offerte di homevideo, i tantissimi pornoshop, internet come ultima frontiera, per non parlare degli spettacoli itineranti e le fiere,  non hanno nulla a che vedere con la tradizione del romanzo, se vogliamo pornografico, della fine del Settecento o con le pubblicazioni più o meno clandestine del XIX secolo. La pornografia non coglie le sottili e conturbanti sfumature dell'erotismo e quindi per molti aspetti è la negazione di questo: mortifica l'aspetto immaginifico, proibisce il senso della scoperta, esaurisce la passione che c'è nell'unicità di ogni atto sessuale. "L'universo pornografico è utopico, privo di spazialità, di temporalità, di relazioni e di emozioni, pieno però all'infinito di gesti sessuali che non possono cessare perché, altrimenti, ristabilirebbero una scansione temporale. "Non vi è quindi reale azione, ma solo una rappresentazione asimbolica di desideri, di agiti, nei quali, di conseguenza, ogni personaggio resta lo stesso, prima e dopo l'evento , e, naturalmente, con essi, il fruitore cui fanno da specchio illusorio" (R. Dalle Luche). Oggi la pornografia crea sicuramente meno scandalo, i costumi del nostro paese sono cambiati, tanto che ad esempio, in televisione, anche in fasce orarie accessibili anche ai bambini, spesso sono ospiti di talk show, note pornodive. Si parla continuamente di sesso e lo si rappresenta in continuazione, in video le danze sono sempre più conturbanti ed esplicite (ovviamente opportunamente corredate di costumi inesistenti), si fanno programmi ad hoc per soddisfare quel senso di voyeurismo e pruderie propri dell'animo umano, le pubblicità sfruttano o tentano di farlo le nuove tendenze sessuali; note drag queen conducono programmi di costume; si cerca di creare ovunque ambiguità, doppi sensi, per non parlare di internet: ogni portale ha la sua piccola icona sessuale. Quindi a questo punto c'è da domandarsi: dove è l'osceno' E dov'è il comune senso del pudore' La pornografia paradossalmente è un fenomeno di massa (è l'enorme profitto economico lo sta a testimoniare. L'industria pornografica si è adeguata più velocemente al cambiamento di costume (esasperandolo per molti versi) di quanto non abbiamo fatto altre forme di comunicazione, determinato anche da una conquista e una riscoperta della sessualità da parte delle donne, che sono diventate esse stesse fruitrici di materiale pornografico. La pornografia veicola dei messaggi che sono distorti, ma non nel senso che parla (e agisce) di sesso ( e il sesso come tale è associato al peccato, al diabolico), ma per le forme che usa e gli strumenti che utilizza: nello specifico i corpi, corpi umani. Se ci si ferma per un istante ad osservare i corpi pornografici, vediamo che, come afferma R. Poulin : "Questi si trasformano per enfatizzare i propri attributi sessuali, i seni femminili ad esempio diventano enormi e duri, sono riempiti di silicone per occupare lo spazio. I corpi sono modificati al fine di soddisfare un'idea di ciò che i corpi dovrebbero essere, sono corpi definitivamente votati alla sessualità". La sessualità vissuta dalla pornografia è irreale, la sublimazione degli organi genitali, la promiscuità dello sguardo, l'ossessione per il dettaglio fisico vogliono rendere l'idea di una realtà che non esiste. L'immagine infatti non è una rappresentazione della sessualità ma una proiezione della fantasia che paradossalmente però è povera di contenuti. I film pornografici ad esempio hanno sempre la stessa struttura, ovviamente la trama è inesistente perché non serve, non c'è un'azione in crescendo che si sviluppa lungo l'arco di due ore, ma azioni immediate, piatte, meramente meccaniche che si ripetono all'infinito, per soddisfare all'infinito le fantasie (e le voglie) dello spettatore. "La pornografia è un lavoro di rappresentazione genitalizzata della sessualità" (R. Poulin, 1999). Più che un continuum di azioni, si tratta di una serie di scene che si chiudono con la consumazione dell'amplesso. Nei film classici ad esempio, ciò che conta è l'eccitazione e il soddisfacimento del maschio che si realizza, creando l'illusione che questa sia la verità riscontrabile nella vita reale, nella continua offerta consapevole da parte delle donne del loro corpo: un corpo quindi sempre pronto (anche quando è fintamente riluttante), sempre in pose suggestive ed estremamente provocanti. Banale sottolineare come il corpo femminile venga strumentalizzato e mercificato, ma paradossalmente la virilità maschile non può essere esercitata e provata se non attraverso questi corpi. La presunta superiorità maschile passa inevitabilmente per la presunta inferiorità femminile e quindi per la sottomissione della donna. La pornografia è una galassia in continua espansione, soddisfa tutti i generi "tutte le categorie,  come tutte le merci fabbricate per un mercato segmentato" (R. Poulin, 1999), per questo è difficile anche costruire un identikit del pornoconsumatore tipo. Nell'immaginario benpensante collettivo, il pornoconsumatore è un individuo ambiguo, lascivo, che vive ai margini della società e della realtà, un individuo di cui già l'aspetto esteriore tradisce la deviata moralità. Ma non è così. Moltissimi sono i fruitori, di tutte l'età, estrazione sociale, grado di cultura e status, e come abbiamo già sottolineato, molte sono anche le donne. Inoltre grazie al repentino sviluppo delle tecnologie, si sono aperti nuovi canali, il già citato internet, che è un mondo parallelo un cui è possibile eludere le sorveglianze e creare dei contatti con i fruitori della stessa merce. Se fino a qualche anno fa le pellicole hard venivano proiettate nei cinema di paese, progressivamente con l'avvento e la diffusione dei videoregistratori si è passati alla visione casalinga dei film. In molte videoteche erano e sono tuttora presenti spazi, magari un po' nascosti, appunto per non offendere il comune senso del pudore degli avventori, interamente dedicate alla pornografia. In tempi recentissimi abbiamo internet e la possibilità di cliccare e quindi ingrandire quel particolare anatomico che più sollecita. Oltre che la compravendita di qualsiasi tipo di merce. Anche qui la Legge cerca di intervenire, il delitto rientra infatti nell'art. 528 del c.p. e c'è anche la Decisione del Consiglio dell'Unione Europea del 29 maggio 2000, relativa alla lotta contro la pornografia infantile su Internet. A volte in ambienti medici si è anche parlato della possibilità della dipendenza dalla pornografia, ma il DSM IV, Diagnostic and Statical Manual of Mental Disorder, ossia il manuale diagnostico-statistico dei disturbi mentali, più accreditato nel settore psichiatrico, non annovera la pornografia tra le parafilie cioè tra i disturbi dell'eccitazione sessuale, come invece la pedofilia. Ma ben sappiamo quanta pedofilia ci sia nella pornografia. Di pedofilia infatti, si parla già quando in pornografia vengono utilizzate adolescenti o giovani poco più che bambine. In questo caso si ha oltre  lo sfruttamento anche la riduzione in schiavitù, e poi c'è tutta la produzione che riguarda i bambini. In Italia è stata varata la legge n.269 del 3 agosto 1998 che reca Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù. L'articolo n.3 di tale legge, 600 ter, afferma: " Chiunque sfrutta minori degli anni diciotto al fine di realizzare esibizioni pornografiche o di produrre materiale pornografico è punito con la reclusione dai sei ai dodici anni e con la multa da lire cinquanta milioni a cinquecento milioni". Come possiamo vedere quindi la pornografia è un fenomeno molto complesso e tentacolare. Ogni suo aspetto, anche quello più nascosto è quasi sempre la facciata di una realtà molto dolorosa e spesso crudele. Viaggiando in questa dimensione ci si rende conto come tutto sia un gioco di scatole cinesi, ogni cosa è strettamente correlata alle altre eppure ognuna di esse vive di vita propria. E' come un immenso organismo formato da tante particelle che assume forme sempre diverse e sempre uguali, perché una, fedele a se stessa è la sua natura: la dominazione. La pornografia è la dominazione del corpo sul corpo, dell'individuo sull'individuo, del potente sul debole. Vince la produzione industriale, la mercificazione delle illusioni dei consumatori che trovano piacere nell'osservare corpi smembrati e ricomposti per solleticare e appagare i loro desideri più reconditi, ma che si basano per la maggior parte delle volte sulle vite spezzate di tanti essere umani inermi.

Pornografia online, le censure Paese per Paese. Dalla Cina all'Iran, i blocchi dei governi contro l'hard 2.0. In Islanda è allo studio una nuova legge, scrive di Guido Mariani su “Lettera 43.”La pornografia online è nel mirino del governo islandese. Paese che vai porno che trovi. Il governo dell’Islanda sta lavorando a un disegno di legge che limiti l’accesso alla pornografia su internet. Non si tratta di una vera e propria censura, ma di un sistema, tutto da studiare, in grado di tutelare i minorenni dalla visione di immagini o video hard. L’iniziativa è partita dal ministro dell’interno Ogmundur Jonasson e, secondo le dichiarazioni ufficiali, non vuole essere una crociata anti-sesso, bensì contro la violenza. La legge, se approvata, renderebbe l’Islanda il primo Paese occidentale a varare una legislazione di questo tipo. Mentre in altri Stati come Cina e Corea del Sud, le misure repressive sono all'ordine del giorno. Il governo cinese dà una ricompensa ai cittadini che segnalano siti pornografici. In Cina, per esempio, il governo ha installato un sistema in grado di rilevare tutti i contenuti ritenuti non adeguati. E la pornografia viene trattata alla stregua del dissenso politico. Inoltre Pechino può contare su una serie di ostacoli tecnici che vanno dal blocco degli indirizzi Ip sino ai filtri legati a parole e immagini, che formano quella che è stata definita «la grande muraglia informatica cinese». Periodicamente, poi, le autorità diffondono notizie di arresti di persone che riescono ad aggirare i blocchi e a diffondere materiale proibito o di «cittadini esemplari» che fanno da delatori. Lo scorso marzo, 2 mila internauti hanno ricevuto un premio in denaro per aver segnalato alle autorità attività online legate alla pornografia. La repressione è altrettanto rigida nella democratica Corea del Sud dove, dal 2009, tutti i siti ritenuti osceni vengono bloccati. Nel settembre 2012, in seguito a una serie di reati a sfondo sessuale, è stata varata un’ulteriore stretta. La polizia ha denunciato più di 400 persone per possesso e distribuzione di materiale hard-core. A Seul si sta inoltre valutando l’obbligo di imporre ai gestori di servizi online l’installazione di software anti-porno. In molti però si interrogano sull’efficacia di questi provvedimenti: un’indagine ministeriale ha appurato che il 55% dei maschi che frequentano gli istituti medi e superiori visiona comunque materiale proibito sul computer o sul cellulare, e le percentuali sono in crescita. Sempre in Oriente, i Paesi a maggioranza islamica come Malaysia e Indonesia proibiscono per legge la pornografia, ma nonostante proclami e iniziative mediatiche, la Rete gode di sostanziale libertà. Il ministero della Cultura, dell’informazione e della comunicazione di Kuala Lumpur ha rinunciato nel 2009 a un piano che prevedeva l'inserimento di un filtro ai siti, ribadendo però il divieto alla diffusione di materiale osceno.
La situazione è simile in Indonesia, dove la legge mette al bando il porno, e dove nel 2012 è stata istituita dal presidente Susilo Bambang Yudhoyono una task-force contro la pornografia online. Ma dopo una retata che ha portato alla chiusura di decine di siti, l’iniziativa è stata accusata solo di essere solo «fumo negli occhi», visto che non ha, di fatto, ridotto il fenomeno. Molto più seria invece la situazione in Iran dove la censura è onnipresente e la moralità pubblica è vigilata dalle milizie volontarie dei bassidjis, i gendarmi dell’Ayatollah che fungono anche da guardiani del buoncostume. Il principale obiettivo della politica repressiva è il dissenso politico e religioso. Seguono i contenuti web a sfondo sessuale. Si sta valutando di creare una Rete internet halal (lecita) e il ministero dell’Informazione ha predisposto l’installazione di telecamere negli internet cafè. Restrizioni esistono tuttavia anche in Paesi democratici. In India, la patria del Kamasutra, l’Information Technology Act ha dichiarato illegale la pornografia online. Ma il fenomeno nei fatti è raramente represso. Nel 2009 il pubblico indiano ha sperimentato la prima vera infatuazione di massa per una pornodiva. Il suo nome era Savita Bhabhi e il suo sito era diventato un fenomeno, prima di attirare l’attenzione ed essere censurato dal governo. Savita Bhabhi, una sorta di casalinga disperata in salsa hindi, era però solo un fumetto. Un’eroina cartoon che sul web si lanciava in avventure così scabrose da scandalizzare i moralisti, ma in grado di ammaliare un pubblico ormai sempre più permissivo nei confronti delle rappresentazioni esplicite del sesso. Ora è la volta dell'Islanda che potrebbe aprire a un più stretto controllo sul materiale pornografico nel resto d'Europa. Proposte di legge simili, infatti, sono già state valutate in Gran Bretagna. Per gli islandesi si tratta di difendere le fasce più deboli della popolazione. «Dobbiamo avere il coraggio di discutere sulla pornografia più violenta», ha dichiarato il ministro degli interni Jonasson. «Siamo tutti d’accordo che abbia un effetto dannoso sulle persone giovani e può avere un chiaro effetto sull’incidenza dei crimini».

LE FOIBE E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.

Foibe: il giorno del ricordo. L’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del Giorno del Ricordo nel 2007, userà queste parole: «Va ricordato l’imperdonabile orrore contro l’umanità costituito dalle foibe e va ricordata la “congiura del silenzio”, la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell’oblio. Anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali».

Foibe, la verità dopo tanto silenzio, scrive Aldo Quadrani su “Viterbo Post”. Il Circolo Reale riportò alla luce la tragedia nel 1997. Gabbianelli la ricordò. Il 10 febbraio, l’Italia celebrerà il giorno del ricordo una ricorrenza civile nazionale istituita con legge del 30 marzo 2004 per non dimenticare le migliaia di Italiani trucidati dall’odio comunista, gettati nelle cavità carsiche, chiamate foibe. Nella nostra città, ma anche in gran parte d’Italia, di questo dramma non se ne ebbe notizia per tanti anni, grazie anche alla connivenza di una certa politica. Dobbiamo arrivare al 6 novembre 1997 quando il Circolo Reale della Tuscia in un pubblico convegno portò alla ribalta questo doloroso evento ed in quella occasione emerse la proposta di dedicare un pubblico sito a questi martiri. Ma si dovette attendere sino al 1999 e precisamente il 16 ottobre, giorno in cui venne intitolata la piazza esterna a Porta Faul ai “Martiri delle Foibe Istriane” grazie alla determinazione dell’allora sindaco Giancarlo Gabbianelli e dell’ allora assessore Antonio Fracassini. Chi era presente forse ancora ricorda la toccante e bellissima cerimonia con tante testimonianze di profughi e parenti di infoibati. Ma anche Viterbo dette il suo contributo di sangue come scoprì, a seguito di indagini, l’allora consigliere comunale Maurizio Federici: il ventenne Carlo Celestini conobbe la tremenda fine della sua vita in un Foiba e a lui fu dedicato il cippo che a tutt’oggi si erge nella piazza. Purtroppo i viterbesi, anche della provincia, che perirono in siffatte condizioni furono molti, come accertarono in seguito lo stesso Federici coadiuvato da Silvano Olmi. Con la nascita della festività nazionale c’è ora un Comitato denominato “10 febbraio” che magistralmente porta avanti annualmente il ricordo dei nostri martiri. Quest’anno la commemorazione avverrà con due giorni d’anticipo, domenica 8 febbraio alle ore 11,30 presso il Piazzale Martiri delle Foibe Istriane, per dar modo ai nostri Cittadini di poter partecipare e ricordare chi morì per la sola colpa di essere Italiano.

E allora le foibe? Si chiede Adriano Scianca su “Il Primato Nazionale”. È capitato una volta a chi scrive di telefonare, per ragioni professionali, a una delle tre maggiori università romane a ridosso della Giornata del Ricordo in onore delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata. Alla domanda su quali iniziative avesse preso l’ateneo per ottemperare agli obblighi di legge che prevedono pubbliche iniziative in occasione del 10 febbraio, il funzionario dell’università, sensibilmente imbarazzato, si affrettò a precisare: “Guardi, noi abbiamo anche un dipartimento di studi ebraici”. Al che fu chiaro che il passacarte di turno confondeva la Giornata del ricordo (10 febbraio) con il Giorno della Memoria (27 gennaio) e che evidentemente no, la sua università non aveva organizzato alcuna iniziativa per ricordare i connazionali trucidati nelle cavità carsiche. Volendo, l’aneddoto evidenzia anche una stortura nel rapportarsi alla stessa commemorazione del 27 gennaio (che c’entra il fatto di ricordare l’Olocausto con il fatto di avere un dipartimento di studi ebraici?), ma non infieriamo ulteriormente. A quanto pare, il ricordo è una cosa più complicata di quanto qualcuno immaginasse. Non basta istituire una giornata ad hoc per riattivare una memoria interrotta, se non si va a lavorare sulle ragioni di quella interruzione. Certo, magari la Rai domani sera trasmetterà “Il cuore nel pozzo”, la melensa fiction cerchiobottista in cui non si parla di comunisti e in cui gli esuli cantano “O sole mio”, tipico canto del confine orientale. Ma il ricordo vero è un’altra cosa e la classe intellettual-mediatica italiana si guarda bene dall’accostarvisi, in quanto erede spirituale di chi infoibò, torturò, stuprò, cacciò i nostri connazionali, di chi non li fece sbarcare nelle stazioni a cui approdavano dopo l’esodo, di chi gettava il latte destinato ai neonati affamati in terra, con gesto di scherno e sadismo, di chi ha imposto che per anni sulle foibe cadesse un velo di vergognoso silenzio. E dopo aver lasciato per anni il ricordo in mano a un pugno di patrioti solitari, che hanno tenuto viva la memoria per anni in mezzo all’indifferenza complice, oggi si denunciano quei pochi perché strumentalizzerebbero la storia. Non scordiamo, del resto, che poco tempo fa una mediocre personalità dello spettacolo, paracadutata per meriti familiari in prima serata, poteva lanciare il tormentone “E allora le foibe?” (cosa semplicemente inconcepibile in relazione a ogni altra grande tragedia del Novecento) come a sottolineare che chi ha a cuore il martirio delle terre del confine orientale è forse troppo invadente, insistente, petulante, dovrebbe darsi una calmata. Come se di foibe si parlasse in continuazione, come se l’argomento avesse ormai stancato, fosse un fatto assodato, come se non se ne potesse più. E forse, per alcuni, è così. Perché le foibe ricordano la loro eterna colpa e quindi quel nome è per loro insopportabile. Un motivo in più per continuare a pronunciarlo: e allora le foibe?

Il 10 febbraio, data della ratifica dei trattati di pace del 1947, si ricordano gli eccidi in Istria e Venezia-Giulia. 10 febbraio 2015. A 70 anni dai massacri del 1945, scrive Edoardo Frittoli su “Panorama”. La serie di eccidi noti come i massacri delle foibe possono essere divisi in due distinti periodi: gli "infoibamenti" del settembre-ottobre 1943 e le stragi del 1945, che in alcuni casi si protrassero fino al 1947. Non si conosce esattamente ad oggi il numero esatto delle vittime. La storiografia attuale comprende una forbice stimata tra i 5000 e i 12.000 morti. Al di là degli approcci ideologizzati dalla letteratura del dopoguerra e del silenzio sotto il quale passarono gli anni della Guerra Fredda e della Jugoslavia "non allineata" di Tito, sembrano essere all'origine dei massacri una serie di gravi concause, alcune risalenti a decenni antecedenti i fatti. Le popolazioni della Venezia-Giulia, dell'Istria e della Dalmazia a cavallo tra il secolo XIX e il XX  erano caratterizzate dalla dualità etnico-linguistica italiana e slava. Quest'ultima, originariamente rurale, si trovava in una posizione socio culturale più bassa rispetto agli italiani, che costituivano una sorta di borghesia urbanizzata. Tra la fine dell'800 e la Grande Guerra i movimenti nazionalisti slavi, specie in Dalmazia, furono apertamente sostenuti dall'Impero Asburgico in funzione anti-italiana. La vittoria del 1918 portò all'occupazione di tutta la Venezia Giulia, dell'Istria e dalla Dalmazia. Quest'ultima fu alla fine negata all'Italia dalla "Dottrina Wilson", e Roma ottenne solo Zara e alcune isole. Da questa situazione tra gli irredentisti italiani nacque il mito della "vittoria mutilata", ripresa totalmente dal fascismo che si affacciava al potere. Dopo il 1922 inizia il processo di "fascistizzazione" attraverso la proibizione dell'uso delle lingue slave, l'esclusione dalle cariche pubbliche dei cittadini di origine non-italiana e la conseguente attribuzione a soli cittadini italiani dell'istruzione pubblica. Con l'aggressione italo-tedesca del 1941 la geografia di Slovenia, Croazia e Dalmazia fu riscritta. L'Italia procedette all'annessione di Lubiana e gran parte dell'attuale Slovenia. La Croazia passò sotto il regime filofascista di Ante Pavelic. Gli eventi bellici fecero poi precipitare la situazione. Nel 1943 i partigiani jugoslavi erano impegnati nella lotta contro i tedeschi e gli italiani quando arrivò l'8 settembre e il conseguente sbandamento del Regio esercito. Proprio a seguito dell'armistizio si colloca la prima ondata di assassinii legati alle foibe. Nei mesi precedenti, la lotta antipartigiana condotta dagli italiani e dagli alleati tedeschi aveva portato ad alcuni gravi episodi di repressione, sfociati in veri e propri massacri tra la popolazione civile. In Croazia Ante Pavelic, alleato dell'Asse, perseguì violentemente i partigiani, gli ebrei e gli zingari. Parecchi prigionieri sloveni erano stati portati nel campo di concentramento di Gonars, in Friuli. Così come i partigiani jugoslavi furono internati da Pavelic nel campo di concentramento di Jasenovac. All'indomani del' 8 settembre parte del territorio istriano era caduto in mano ai partigiani jugoslavi, i quali compilarono liste di presunti collaborazionisti del regime fascista, che comprendevano frequentemente nomi estranei alle istituzioni nazifascisteo all'esercito. Spesso si trattava di civili italiani ritenuti "in vista" dalla popolazione slava. Gli arrestati, condotti a Pisino, furono fucilati e infoibati. Altri massacrati nelle miniere della zona. Si trattava di circa 600 persone, trascinate e gettate nelle foibe spesso ancora vive, legate tra loro da un filo di ferro collegato a pesanti massi. Nel dicembre 1943 i tedeschi riprendono l'Istria, nell'offensiva che porterà i territori della Venezia-Giulia, Istria e Dalmazia a costituire la cosiddetta zona d'Operazioni del Litorale Adriatico (OZAK) di fatto annessa al Terzo Reich. Qui cominciarono ad operare a fianco dei tedeschi i reparti italiani della RSI (Guardia Nazionale Repubblicana, il reggimento Alpini "Tagliamento", reparti delle Brigate Nere) che si macchiarono di ulteriori tragici episodi di repressione. Ad appesantire il bilancio contribuirono i bombardamenti alleati della zona costiera e l'avanzata dei titini che tra l'autunno del 1944 e la primavera del 1945 riconquistarono la Venezia-Giulia puntando rapidamente su Trieste. L'arrivo degli uomini di Tito segnò la fine anche per gli italiani che avevano fiancheggiato gli jugoslavi nella lotta contro fascisti e nazisti. La polizia segreta di Tito, l'OZNA, comprese negli elenchi dei nemici dello stato comunista di Jugoslavia anche molti elementi facenti parte del CLN. La furia vendicatrice degli uomini di Tito si riversò anche su elementi del clero locale che non si erano macchiati di collaborazionismo. Nella primavera del 1945 furono sterminati nelle foibe migliaia di persone, non solo italiane, non solo membri delle milizie fasciste del Litorale Adriatico. Anche gruppi di Sloveni che si opponevano alla futura Jugoslavia comunista, anche membri di formazioni politiche "non allineate" quali gli Autonomisti istriani, i cui vertici furono barbaramente assassinati. Neppure i membri della Resistenza italiani di ritorno dai campi di concentramento furono risparmiati. Alla tragedia si aggiunse tragedia in quanto i titini, vicini alla vittoria finale, parevano non limitarsi all'acquisizione territoriale della Venezia-Giulia. Essi ritenevano che la vittoria militare coincidesse con quella della rivoluzione sociale comunista. La classe borghese in quelle zone era tradizionalmente identificata con la popolazione italiana tout court , al di là delle appartenenze politiche. Nei mesi del caos che precedettero la fine della guerra molte furono anche le morti dovute a rappresaglie locali, vendette personali o questioni legate a beni e proprietà. Particolarmente cruenta fu la situazione di Trieste e Gorizia all'arrivo dei titini.  Oltre alla eliminazione fisica e all'occultamento nelle foibe del Carso, molti furono gli italiani e in genere gli oppositori di Tito ad essere internati nel terribile lager di Borovnica, nel quale i prigionieri furono massacrati dopo orribili torture fisiche. Sembrava in sostanza che la rappresaglia in quelle zone non si sarebbe arrestata con la fine della guerra, ma che sarebbe proseguita al fine di garantire il nuovo stato jugoslavo contro ogni tipo di opposizione. Cosa che in Italia non si verificò in quanto la Resistenza non si identificherà mai, come in Iugoslavia, con una nuova realtà nazionale (La Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia) in continuità con il movimento resistenziale. Il massacro di migliaia di vite umane nella profondità delle foibe fu messo a tacere praticamente subito. L'inizio della Guerra Fredda vide le mire del maresciallo Tito ridimensionate con la costituzione del TLT di Trieste (zona libera). Nel 1948 poi avviene lo strappo tra Belgrado e Mosca. Sia il PCI che il governo ritennero prudente non riaprire la questione delle foibe.  Il governo e le istituzioni per evitare di affrontare la questione dei crimini di guerra compiuti dagli italiani in un contesto internazionale molto teso. Così come ambiguo rimarrà l'atteggiamento dei comunisti italiani tra il 1945 e il 1948. Questi avevano avvallato l'ingresso dei titini nella Venezia Giulia, acconsentito a tutte le rivendicazioni territoriali jugoslave dal 1945 in avanti. Fino al 1948, anno della rottura tra Stalin e Tito e alla ratifica dei trattati di pace a Parigi il 10 febbraio 1947. Poi il grande silenzio internazionale ha coperto per decenni le imboccature delle depressioni carsiche e il loro contenuto di morte.

La tragedia delle Foibe: 60 anni di silenzio. Per 60 anni il dramma delle foibe è rimasto ignoto ai più, e secondo lo storico Gianni Oliva il silenzio è da ricondurre a tre motivi principali. Scopriamoli insieme, scrive Nicolamaria Coppola su “Quotidiano Giovani”. È stato un tabù per decenni: non una riga sui libri di scuola, nessuna pubblicazione storica nel grande circuito editoriale, niente commemorazioni ufficiali. Per 60 anni il dramma delle foibe è rimasto ignoto ai più, e secondo lo storico Gianni Oliva il silenzio è da ricondurre a tre motivi principali: innanzitutto la necessità, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, del blocco occidentale di stabilire rapporti meno tesi con la Jugoslavia in funzione antisovietica; cause politiche dal momento che il PCI non aveva interesse a evidenziare le proprie contraddizioni sulla vicenda e le proprie subordinazioni alla volontà del comunismo internazionale; un silenzio da parte dello Stato Italiano che voleva sorpassare tutto il capitolo della sconfitta nella guerra da poco conclusasi. Solo in quest'ultimo decennio il dramma delle foibe è tornato alla ribalta, e nonostante le polemiche ideologiche si è cominciato a fare luce sulla tragedia. Dal 2005 si commemorano, nella “Giornata del Ricordo” il 10 febbraio, le vittime dei massacri delle foibe, ma sono ancora pochi gli Italiani che sanno effettivamente di cosa si tratti e cosa abbiano rappresentato per la generazione del dopoguerra. Secondo un sondaggio commissionato dall'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, solo il 43% dei nostri connazionali sa cosa siano le foibe e ancora più bassa è la percezione sul significato dell'Esodo giuliano-dalmata (22%). Il 46% dei giovani ha una cognizione abbastanza chiara della tragedia, ma i dubbi e le incertezze sono ancora tanti. Le foibe sono delle cavità naturali con ingresso a strapiombo presenti sul Carso, la zona montuosa compresa tra Trieste, la Slovenia, l'Istria e la Dalmazia, usate per occultare i cadaveri di un numero non preciso di persone. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale i partigiani comunisti di Tito gettarono- infoibarono - in queste profonde voragini migliaia di persone, alcune dopo averle fucilate, altre ancora vive, colpevoli o di essere italiane o di essere contrarie al regime comunista. La prima ondata di violenza esplose subito dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943 tra l'Italia guidata dal Generale Badoglio e le truppe anglo-americane: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicarono contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Li consideravano “nemici del popolo”, accusandoli sia di non essere comunisti e, quindi, ostili a Tito, sia, soprattutto, di aver contribuito, allorquando il regime fascista impose in tutto il Venezia Giulia una violenta politica di snazionalizzazione, all'eliminazione delle minoranze serbe, croate e jugoslave in quella regione. Le vittime dei titini venivano condotte, dopo atroci sevizie, nei pressi della foiba: qui gli aguzzini, non paghi dei maltrattamenti già inflitti, bloccavano i polsi e i piedi tramite filo di ferro ad ogni singola persona con l’ausilio di pinze e, successivamente, legavano gli uni agli altri sempre tramite il di ferro. I massacratori si divertivano, nella maggior parte dei casi, a sparare al primo malcapitato del gruppo che ruzzolava rovinosamente nella foiba spingendo con sé gli altri. La violenza aumentò nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupò Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del Maresciallo Tito, al grido di «Epurare subito», «Punire con severità tutti i fomentatori dello sciovinismo e dell’odio nazionale», si scatenarono di nuovo contro gli italiani, e a cadere dentro le foibe furono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. L'ondata di violenza non risparmiò neppure le popolazioni slovene contrarie al progetto politico comunista jugoslavo, le quali, oltre che infoibate, vennero deportate nelle carceri e nei campi di prigionia, tra i quali va ricordato quello di Borovnica. Questa carneficina, che testimonia l’odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta da Tito per eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti, finì il 9 giugno 1945, quando Tito e il generale Alexander tracciarono la linea di demarcazione Morgan che prevedeva due zone di occupazione, la A e la B, dei territori goriziano e triestino, confermate dal “Memorandum di Londra” del 1954. È la linea che ancora oggi definisce il confine orientale dell’Italia. La persecuzione degli Italiani, però, durò almeno fino al 1947, soprattutto nella parte dell'Istria più vicina al confine e sottoposta all'amministrazione provvisoria jugoslava. Secondo lo storico Enzo Collotti, parlare delle foibe significa «chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell'arco di un ventennio con l'esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari e sociali concentratesi, in particolare, nei cinque anni della fase più acuta della Seconda Guerra mondiale. È qui che nascono le radici dell'odio, delle foibe, dell'esodo dall'Istria». Le foibe sono state il prodotto di odi diversi: etnico, nazionale e ideologico. «Furono la risoluzione brutale di un tentativo rivoluzionario di annessione territoriale», ha sintetizzato lo storico triestino Roberto Spazzali. «Chi non ci stava, veniva eliminato».

IL SILENZIO SULLE FOIBE: UN GENOCIDIO CELATO DA OMBRE, scrive Giuseppe Papalia su “Secolo Trentino”. Foibe. Probabilmente a molti questa parola direbbe ancora poco se l’argomento non fosse stato portato alla ribalta dell’opinione pubblica, istituendo una giornata della memoria, meritata quanto agognata e ancora oggi criticata e strumentalizzata dalle diverse fazioni politiche che ne recriminano l’accaduto. Il 10 febbraio di ogni anno, infatti, si ricorda questo terribile genocidio ancora impresso nella mente di molti, di quell’Italia del dopoguerra travolta dalla miseria e dalla fame. Di quel paese coinvolto in una crisi identitaria radicale, non solo politica ma quasi metafisica. In cui la guerra e la persecuzione erano solo i sintomi di una guerra ormai ultima, la prova, che negli anni a venire avrebbe gettato una luce cruda su quanto accaduto. Quella luce che in molti oggi sembrano non voler riesumare, nonostante i corpi riesumati in quelle fosse furono circa 11000, comprese le vittime recuperate e quelle stimate, più i morti nei campi di concentramento jugoslavi. Una riflessione scaturisce in merito a quella storia vissuta eppure dimenticata dai più, impressa tuttavia nelle menti delle generazioni che l’hanno vissuta sulla loro pelle l’8 settembre del 1943, quando i territori istriani, giuliani e dalmati, dapprima sotto l’influenza tedesca, venivano in seguito occupati dai partigiani comunisti di Tito. Titini che, comunemente ai partigiani comunisti italiani, non solo nutrivano il progetto di avanzare in un paese ormai stremato e inerme (segnato dalla caduta del fascismo) recriminandone la conquista territoriale, ma addirittura rivelarono ben presto quell’odio etnico che li animava. L’intenzione di “de-italianizzare” i territori occupati con metodi terribili fu presto svelata. Metodi che nulla avevano da invidiare a quelli nazisti adottati nei confronti di popoli innocenti e che nulla centravano con i fatti accaduti nell’Europa della grande guerra e dei crimini di guerra. Così, occorre oggi ricordare, che Italiani senza particolare distinzione di sesso, età o fazioni politiche, erano prelevati e poi eliminati con l’unica colpa forse, di non aver partecipato attivamente a piani espansionistici di Tito, che costrinse ben 350000 persone a  fuggire dalle loro terre e altre 11000, a essere uccise con modalità di una ferocia inaudita. Nella sola foiba di Basovizza, furono rinvenuti 2000 cadaveri. Nonostante in molti abbiano portato il tema alla considerazione dell’opinione pubblica, sorge spontanea una riflessione. Possibile che solo ora, dopo settantanni di macabra storia celata e quasi dimenticata, se non addirittura strumentalizzata a piacere dalle diverse fazioni politiche, possiamo ritenerci soddisfatti dell’istituzione di una giornata della memoria e (addirittura) dell’uscita di un film sull’avvenimento di tale fatto?  E pensare che la cinematografia e tutte le varie ricorrenze istituite ad hoc, non si sono fatte aspettare più di tanto per quel che concerne la Shoah. Per quale motivo? Che le foibe fossero meno importanti? O probabilmente perché nonostante tutto, ancora oggi, le foibe non sono ancora entrate nella cosiddetta “memoria condivisa” di un popolo (quello italiano) che ne fu vittima oltre che carnefice? Come scrisse il grande giornalista Indro Montanelli, “sicuramente il silenzio sulle foibe oggi si spiega facilmente, considerando che la storiografia italiana del dopoguerra era di sinistra, la quale apparteneva certamente al comunismo slavo e di cui era succube e ne curava gli interessi. Di questo quindi non si poteva parlare poiché della morte di tante persone ne risentiva la coscienza. Ammesso che ce ne fosse una, in nome di una resistenza che altro non era che una guerra civile tra italiani stessi.” Forse occorrerà domandarsi cosa, al cospetto dei quei tragici avvenimenti, viene oggi ricordato nell’immaginario collettivo comune. Di quel macabro periodo in cui tutto pareva che fosse quasi un nodo, che prima o poi sarebbe certo venuto al pettine.

Foibe: anche decine e decine di sacerdoti furono torturati e uccisi, scrive “Imola Oggi”. Cinquanta sacerdoti tra le vittime delle foibe. Il racconto di Piero Tarticchio, parente di un sacerdote martire di quel periodo. La storia delle foibe è legata al trattato di pace firmato a Parigi il 10 Febbraio 1947, che impose all’Italia la cessione alla Jugoslavia di Zara – in Dalmazia –, dell’Istria con Fiume e di gran parte della Venezia Giulia, con Trieste costituita territorio libero tornato poi all’Italia alla fine del 1954. Dal 1947 al 1954 le truppe jugoslave di Tito, in collaborazione con i comunisti italiani, commisero un’opera di vera e propria pulizia etnica mettendo in atto gesti di inaudita ferocia. Sono 350.000 gli Italiani che abbandonarono l’Istria, Fiume e la Dalmazia, e più di 20.000 le persone che, prima di essere gettate nelle foibe (cavità carsiche profonde fino a 200 metri), subirono ogni sorta di tortura. Intere famiglie italiane vennero massacrate, molti venivano legati con filo spinato a cadaveri e gettati nelle voragini vivi, decine e decine di sacerdoti furono torturati e uccisi. Nella sola foiba di Basovizza sono stati ritrovati quattrocento metri cubi di cadaveri. Per decenni questa barbarie è stata nascosta, tanto che l’agenzia di stampa “Astro 9 colonne”, nel fare un conteggio dei lanci di agenzia pubblicati dal dopoguerra ad oggi sul tema delle foibe, ha scoperto che fino al 1990 erano stati poco più di 30. Negli anni Novanta l’attenzione per il tema è aumentata: oltre 100 fino al 1995, l’anno successivo i lanci sono stati ben 155. Negli anni recenti ogni anno ce ne sono stati addirittura più di 200. Dopo anni di silenzio la vicenda è arrivata in Parlamento, e con la legge n. 92 del 30 marzo 2004 è stato istituito il ”Giorno del Ricordo”, per conservare la memoria della tragedia delle foibe. Calcolare esattamente il numero delle vittime è difficile, ma sono stati almeno 50 i sacerdoti uccisi dalle truppe comuniste di Tito. Interpellato da ZENIT, Piero Tarticchio, che all’epoca dei fatti aveva sette anni, ha ricordato la tanta gente che partecipò al funerale del suo parente don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovino e attivo nell’opera caritativa di assistenza ai poveri, ucciso il 19 settembre del 1943 e sepolto il 4 novembre. Il sacerdote venne preso di notte dai partigiani jugoslavi, insultato e incarcerato nel castello dei Montecuccoli a Pisino d’Istria. Dopo averlo torturato, lo trascinarono presso Baksoti (Lindaro), dove assieme a 43 prigionieri legati con filo spinato venne ucciso con una raffica di mitragliatrice e gettato in una cava di bauxite. Tarticchio ha raccontato a ZENIT che il 31 ottobre, quando venne riesumato il cadavere, si vide che in segno di scherno gli assassini avevano messo una corona di filo spinato in testa a don Angelo. Don Tarticchio viene oggi ricordato come il primo martire delle foibe. Un’altra delle vittime fu don Francesco Bonifacio, un sacerdote istriano che per la sua bontà e generosità veniva chiamato in seminario “el santin”. Cappellano a Volla Gardossi, presso Buie, don Bonifacio era noto per la sua opera di carità e zelo evangelico. La persecuzione contro la fede delle truppe comuniste era tale che non poté sfuggire al martirio. La sera dell’11 settembre 1946 venne preso da alcune “guardie popolari”, che lo portarono nel bosco. Da allora di Don Bonifacio non si è saputo più nulla; neanche i resti del suo cadavere sono mai stati trovati. Il fratello, che lo cercò immediatamente, venne incarcerato con l’accusa di raccontare storie false. Per anni la vicenda è rimasta sconosciuta, finché un regista teatrale è riuscito a contattare una delle “guardie popolari” che avevano preso don Bonifacio. Questi raccontò che il sacerdote era stato caricato su un’auto, picchiato, spogliato, colpito con un sasso sul viso e finito con due coltellate prima di essere gettato in una foiba. Per don Francesco Bonifacio il 26 maggio 1997 è stata introdotta la causa di beatificazione, per essere stato ucciso “in odium fidei”. In “odium fidei” fu ucciso il 24 agosto del 1947 anche don Miroslav Buselic, parroco di Mompaderno e vicedirettore del seminario di Pisino. A causa della guerra in molte parrocchie della sua zona non era stato possibile amministrare la cresima, così don Miroslav accompagnò monsignor Jacob Ukmar per amministrare le cresime in 24 chiese diverse. I comunisti, però, avevano proibito l’amministrazione. Alla chiesa parrocchiale di Antignana i comunisti impedirono l’ingresso a monsignor Ukmae e don Miroslav. Nella chiesa parrocchiale di Pinguente una massa di facinorosi impedì la cresima per 250 ragazzi, lanciando uova marce e pomodori, tra insulti e bestemmie. Il 24 agosto nella chiesa di Lanischie, che i comunisti chiamavano “il Vaticano” per la fedeltà alla chiesa dei parrocchiani, monsignor Ukmar e don Milo riuscirono a cresimare 237 ragazzi. Alla fine della liturgia i due sacerdoti si chiusero in canonica insieme al parroco, ma i comunisti fecero irruzione, sgozzarono don Miroslav e picchiarono credendolo morto monsignor Ukmar, mentre don Stjepan Cek, il parroco, riuscì a nascondersi. Alcuni testimoni hanno raccontato che prima di essere sgozzato don Miloslav avrebbe detto “Perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Al funerale i comunisti non permisero ai treni pieni di gente di fermarsi, nemmeno nelle stazioni vicine. Al processo i giudici accusarono monsignor Ukmar e il parroco di aver provocato gli incidenti, così il monsignore, dopo aver trascorso un mese in ospedale per le percosse ricevute, venne condannato ad un mese di prigione. Il parroco fu invece condannato a sei anni di lavori forzati. Su don Milo, il tribunale del popolo sostenne che non era provato che “fosse stato veramente ucciso”. Poteva essersi “suicidato a scopo intimidatorio”. Le prove erano però così evidenti che l’assassino venne condannato a cinque mesi di prigione per “troppo zelo nella contestazione”. Nel 1956, in pieno regime comunista la diocesi avviò segretamente il processo di beatificazione di don Miloslav Buselic, ed è diffusa ancora oggi la fama di santità di don Miro tra i cattolici d’Istria.

Crimini titini: cinquanta i sacerdoti infoibati, da Bonifacio a Bulesic, scrive Antonio Pannullo su “Il Secolo d’Italia”. È stato solo con la legge del 2004 che ha istituito il Giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, per iniziativa del deputato triestino Roberto Menia, che la maggioranza degli italiani ha saputo cosa successe alla frontiera nordorientale negli anni Quaranta. Ventimila gli italiani uccisi, infoibati, oltre 350mila le popolazioni che dovettero forzosamente abbandonare l’Istria e la Dalmazia spinti dalla furia dei partigiani comunisti di Tito. Fu un genocidio in piena regola, che ha rispettato tutti i canoni: prima lo sterminio indiscriminato delle popolazioni residenti in un determinato territorio, tanto da costringere i superstiti ad abbandonarlo, poi l’occupazione di quel territorio e la confisca – meglio: il ladrocinio – delle terre e delle case ai proprietari legittimi. Ferite queste, insieme con gli assassinii di massa, che non sono mai state rimarginate. Tra gli infoibati, ossia le persone gettate, spesso vive, nelle depressioni carsiche chiamate foibe, ci furono persino sacerdoti. E anche questo è stato appreso recentemente, poiché per decenni su quella vicenda calò una pesantissima cortina di silenzio con la complicità del debole governo democristiano che non voleva dispiacere alla Jugoslavia ma che soprattutto non voleva rinunciare all’apertura a sinistra, che poi realizzò. Sembra che i sacerdoti assassinati in questo modo siano stati non meno di cinquanta, alcuni dei quali a tutt’oggi sconosciuti e alcuni dei quali di cui non è mai stato trovato il corpo. Come accadde per don Francesco Bonifacio, torturato e assassinato dai titini, che è stato proclamato beato il 4 ottobre 2008 nella chiesa di San Giusto a Trieste da Benedetto XVI. 62 anni dopo i fatti. Francesco Bonifacio era nato nel 1912 a Pirano, oggi in Slovenia, e per la sua bontà era stato soprannominato el santin. Nel 1946 era cappellano a Villa Gardossi, un grosso comune agricolo nell’entroterra, e fu lì che fu sorpreso da quattro “guardie popolari”, nome dietro cui si nascondevano i feroci assassini titini, i quali lo derisero, poi picchiarono selvaggiamente,lo lapidarono, lo spogliarono e lo finirono a coltellate prima di gettarlo in una foiba, detta di Martines, che non lo ha mai più restituito. Il fratello, che lo cercò immediatamente avendo saputo che cosa fosse successo, venne incarcerato con l’accusa di raccontare storie. Molti anni dovettero passare prima che si facesse luce sulla vicenda. Vennero fuori i testimoni che raccontarono le atrocità di quelle ultime ore. Ma la cortina di silenzio era già scesa, di lui non si parlò più per anni. Nel 1957 il vescovo di Trieste, Santin, avviò la causa di beatificazione, ma la pratica restò ferma per 40 anni, a riprova del fatto che sulla foibe doveva calare il silenzio per sempre. Solo Benedetto XVI, recentemente, ha avuto il coraggio di dichiarare Bonifacio ucciso in odio alla Fede. A Bonifacio si è aggiunto, nel settembre del 2013, il nome di Miro Bulesic, assassinato dai partigiani rossi nell’agosto del 1947 nell’Istria settentrionale. Bulesic è stato beatificato nell’Arena di Pola nel corso di una commovente cerimonia, nel corso della quale si è appreso che nelle diocesi croate negli anni Quaranta furono trucidati ben 434 sacerdoti, tra secolari e regolari, più altri 24 morti per le torture e le sevizie in carcere. Quel 24 agosto 1947, nel corso delle cresime nella chiesa di Lanisce, esponenti comunisti irruppero nell’edificio di culto, distrussero tutto, misero a ferro e fuoco la chiesa stessa e bastonarono selvaggiamente don Miro, gettandolo contro il muro e alla fine sgozzandolo con un coltello. Il responsabile, individuato, fu poi assolto. Ma la mattanza dei religiosi era cominciata molto prima: nel settembre 1943 i partigiani jugoslavi di notte sequestrarono don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovino, e lo gettarono nelle carceri del castello di Montecuccoli a Pisino d’Istria. Dopo qualche giorno venne portato Lindaro insieme con altre 43 persone, legate insieme col filo spinato, e colpito da raffiche di mitra e gettato in una cava di bauxite. Quando don Angelo fu riesumato si vide che gli assassini gli avevano messo sulla testa una corona di spine fatta di filo spinato. Tra i sacerdoti uccisi e infoibati vanno ricordati anche don Alojzij Obit del Collio, che scomparve nel gennaio del 1944, don Lado Piscanc e don Ludvik Sluga di Circhina, assassinato insieme con altri 13 loro parrocchiano nel febbraio dello stesso anno, don Anton Pisk di Tolmino, scomparso e poi verosimilmente infoibati ad ottobre 1944, don Filip Tercelj di Aidussina, sequestrato dalla polizia segreta jugoslava nel gennaio 1946 e successivamente scomparso, don Izidor Zavadlav di Vertoiba, arrestato e fucilato il 15 settembre 1946, e molti altri rimasti ancora senza nome.

 “Rosso Istria”, a rischio il film sulle foibe?, scrive Marco Minnucci su “Il Giornale”. Rosso Istria, il dramma del confine orientale del dopo guerra è il titolo del lungometraggio del regista Antonello Belluco, presentato a fine gennaio a palazzo Moroni, Padova. Il film sarà prodotto da Venice Film ed Eriador Film, sostenuti dalla Regione Veneto, con il suo fondo del cinema e dell’audiovisivo, con la collaborazione del Comune di Padova, della Treviso Film Commission e dell’ANVG (Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia). Il capoluogo veneto sarà il teatro delle riprese che punteranno l’obiettivo sul 1943 anno in cui, per le popolazioni civili Istriane, Fiumane, Giuliane e Dalmate, si consuma la tragedia per mano dei partigiani di Tito spinti da una furia anti-italiana. Che il lungometraggio metta in risalto la figura di Norma Cossetto, giovane studentessa istriana, barbaramente violentata e uccisa nel 1943 dai partigiani titini, è già scritto nel titolo, infatti era proprio Istria Rossa (il rosso è relativo alla terra ricca di bauxite dell’Istria) il titolo della tesi di laurea che Norma Cossetto stava preparando nell’estate del 1943 con il suo relatore, il geografo Arrigo Lorenzi. La Cossetto girava in bicicletta per i paesi dell’Istria, visitando luoghi, biblioteche, chiese, alla ricerca di archivi che le consentissero di sviluppare la sua tesi di laurea, che purtroppo non vedrà mai la luce perchè la studentessa verrà massacrata per la sola colpa di essere italiana. Non è un tema nuovo per Belluco, figlio di esuli, che già a novembre dello scorso anno era uscito con il film Il segreto di Italia, sulla strage compiuta dai partigiani nel 1945 a Codevigo; un film che non aveva mancato di suscitare aspre polemiche, che videro in prima fila l’ANPI di Padova. Chissà se anche in questa “opera seconda” Belluco inciamperà in quelle operazioni di boicottaggio che hanno rallentato e impedito la distribuzione del film nelle sale cinematografiche? Questa volta Belluco non sarà solo, poiché a dargli manforte ci sarà la collaborazione del cantautore Simone Cristicchi, anche lui presente alla conferenza padovana; l’autore di “Magazzino 18” sarà il compositore delle musiche che accompagneranno “Rosso Istria”. Quella tra Belluco e Cristicchi è una solidarietà artistica che, prima di sfociare in questa collaborazione, era già stata esternata dal cantautore romano sulla sua pagina Facebook con un post in cui sottolineava le similitudini tra l’ostruzionismo che aveva colpito il suo “Magazzino 18” e il “Segreto di Italia” e concludeva con questo messaggio d’ incoraggiamento: “Per fortuna, esiste una forma di promozione che nessuno può censurare. Si chiama “passaparola”. E allora…in bocca al lupo Antonello, e coraggio!” Non resta che augurarci che questa volta si faccia silenzio in sala ma, soprattutto, che ci sia una sala.

Io, minacciato per il mio spettacolo sulle Foibe”, scrive in un a intervista a Simone Cristicchi  “Il Giornale”.

In questi ultimi anni stai raccogliendo il testimone di Giorgio Gaber, porti in tournée in tutta Italia i tuoi spettacoli di teatro-canzone. In questi giorni sei in scena con “Magazzino 18″, uno spettacolo sulla tragedia delle Foibe che è al centro di polemiche secondo me vergognose. Che cos’è il Magazzino 18 e che cosa ti ha spinto a raccontare questa pagina tragica della storia d’Italia?

«Magazzino 18 è un luogo realmente esistente che si trova nel Porto Vecchio di Trieste, un hangar dove venivano messe le merci delle navi in transito; in questo magazzino n. 18 si trovano invece le masserizie degli esuli istriani, fiumani e dalmati, che all’indomani della Seconda Guerra Mondiale furono costretti ad abbandonare le loro terre. Sono oggetti di vita quotidiana – letti, armadi, cassapanche, foto, ritratti – che ci raccontano una tragedia cancellata per tanti anni dalla storia e dalla memoria, io la chiamo “una pagina strappata dai libri di storia”. Ogni oggetto racconta la storia di una famiglia, di un vissuto, di un tessuto sociale strappato e mai più ricomposto. Con questo spettacolo ho cercato di ricomporre la loro storia dimenticata e di raccontarla a chi, come me fino a pochi anni fa, non ne era assolutamente a conoscenza».

È una pagina nascosta per 50 anni dai libri di storia, una cosa vergognosa. Come ti spieghi questo dividere ancora i morti in ‘morti di serie A’ e ‘morti di serie B? È vero che hai ricevuto delle minacce perché metti in scena uno spettacolo sulle Foibe?

«Lo spettacolo in realtà non è soltanto sulle Foibe, che sono un piccolo capitolo di una storia più complicata. Le persone che mi hanno criticato sono di estrema destra e di estrema sinistra, nessuno si è sottratto alla lapidazione di chi cerca di fare giustizia, di dare voce a chi non l’ha avuta per tanti anni; tutte queste critiche sono arrivate da persone che non hanno nemmeno avuto il buon gusto di vedere lo spettacolo, quindi mi scivolano addosso».

Non capisco perché ti attacchino sia da destra che da sinistra…

«Da sinistra perché è uno spettacolo “da fascisti”, da destra perché probabilmente avrei dovuto essere più incisivo in alcuni particolari di questa storia, quando invece il mio spettacolo vuole tendere a una pacificazione tra le parti e forse invece alcuni esponenti dell’estrema destra non cercano il dialogo. Ancora oggi, a distanza di tanti anni, non accettano alcune cose e cercano sempre lo scontro. Non ho scritto questo spettacolo con Ian Bernas per creare ulteriori scontri e offese a questa gente».

La tua è sempre stata una musica di denuncia, ho sempre i brividi quando ascolto “Ti regalerò una rosa”. Tornando a un tema che hai affrontato anche in un tuo spettacolo, chi sono oggi i veri pazzi della nostra società?

«Probabilmente i veri pazzi sono i sognatori, quelli che credono che oggi si possa rifare una nuova Italia e cambiare un po’ il mondo, con una partecipazione attiva alla vita politica e sociale. I veri pazzi sono quelli che continuano a sognare e che non si lasciano soffocare da tutto quello che sta accadendo in questo momento».

Che cosa pensi della protesta dei Forconi, che proprio in queste ore stanno paralizzando molte piazze per protestare contro la linea del Governo?

«Non ho seguito bene la questione perché in questo momento sono in tournée in Croazia, posso dire che a volte sono delle valvole di sfogo difficili da gestire, ma che ci si deve aspettare… quando le persone sono soffocate a un certo punto esplodono in qualche modo. La mia paura è che questo tipo di manifestazioni possano portare a delle violenze, e quando c’è la violenza si passa sempre dalla parte del torto».

Tu sei sempre rimasto OFF, anche dopo il successo hai sempre imposto una tua linea artistica e autorale precisa fregandotene del mercato ufficiale, sei perfettamente in linea con il nostro magazine. Che consiglio ti senti di dare ai giovani artisti che cominciano questa carriera e che ci leggono su ilgiornaleOFF?

«Il consiglio che posso dare è quello di coltivare una curiosità per il mondo senza avere delle ideologie preconcette, di affidarsi all’istinto perché molto spesso ci guida verso mete a cui non avremmo mai pensato, come è successo a me: sono passato dal fumetto alla canzone, poi dalla canzone al teatro e alla scrittura, il 4 febbraio uscirà anche il libro di “Magazzino 18″, con tutti i racconti che ho raccolto in questi anni. Bisogna mantenere le antenne puntate e presentarsi al grande pubblico con una maturità quasi già acquisita, non arrivare da debuttanti e sentirsi però debuttanti sempre, per tutto il proprio percorso».

Vite negate, massacri, falsità. Anche la verità fu infoibata. Oggi la "Giornata del ricordo" per celebrare gli italiani cacciati e uccisi da Tito dopo la guerra. Una tragedia che nella gerarchia del dolore sta sempre dietro le vittime delle dittature fasciste, scrive Stefano Zecchi su “Il Giornale”. Cos'era accaduto sulle coste orientali italiane dell'Adriatico dopo la guerra? Niente di rilevante, avrebbero voluto rispondere chi governava l'Italia e chi da sinistra faceva l'opposizione. Soltanto un nuovo confine segnato con un tratto di penna sulla carta geografica dell'Europa. Vite negate. Amori, amicizie, speranze sconvolte, sentimenti calpestati, che per pudore, in silenzio, lontano da occhi inquisitori, l'esule arrivato dall'Istria, dalla Dalmazia, da Fiume chiudeva nel dolore, forse sperando che questo dignitoso comportamento lo aiutasse ad essere accolto da chi non ne gradiva la presenza. Si chiudeva così il cerchio dell'oblio, e una pesante coltre di omertà si distendeva sopra le sconvenienti ragioni degli sconfitti. La Storia non apre le porte agli ospiti che non ha invitato. Sceglie i protagonisti e i comprimari, anche se gli esclusi si sono dati tanto da fare. Esuli, allora, con la nostalgia del ritorno, con il dolore dell'assenza. L'esule dei Paesi comunisti non è mai stato troppo gradito; le sue scelte giudicate con sospetto. Nella gerarchia morale della sofferenza, egli rientra stentatamente, sì e no, agli ultimi posti, molto indietro rispetto agli esiliati delle dittature fasciste e dei sanguinari regimi latino-americani. In una intervista a Panorama del 21 luglio 1991, Milovan Gilas dichiarava tra l'altro: «Nel 1946, io e Edward Kardelij andammo in Istria a organizzare la propaganda anti italiana ... bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto». Gilas era il braccio destro di Tito, l'intellettuale del partito comunista jugoslavo; Kardelij era il teorico della «via jugoslava al comunismo», punto di riferimento dell'organizzazione della propaganda anti italiana. Dunque, due protagonisti di primissimo piano del partito comunista jugoslavo impegnati a cacciare con «pressioni di ogni tipo» gli italiani dalle loro case, dal loro lavoro, dalle loro terre. Tra le pressioni di ogni tipo ci furono il terrore e il massacro: una pulizia etnica. A migliaia gli italiani, senza nessun processo, senza nessuna accusa, se non quella di essere italiani, venivano prelevati di notte, fatti salire sui camion e infoibati o annegati. Non si saprà mai quanti furono ammazzati. A decine di migliaia: una stima approssimativa è stata fatta sulla base del peso dei cadaveri che venivano recuperati dalle foibe; nulla si sa degli annegati. E poi gli esuli: oltre 350mila, che lasciarono tutto, pur di rimanere italiani e vivi. Accolti in Italia con disprezzo, perché solo dei ladri, assassini, malfattori fascisti potevano decidere di abbandonare il paradiso comunista jugoslavo. Ricordo bene quando a Venezia arrivavano le motonavi con i profughi: appena scesi sulla riva, erano accolti con insulti, sputi, minacce dai nostri comunisti, radunati per l'accoglienza. Il treno che doveva trasportare gli esuli giù verso le Marche e le Puglie, dai ferrovieri comunisti non fu lasciato sostare alla stazione di Bologna per fare rifornimento d'acqua e di latte da dare ai bambini. Alla gente che abitava l'oriente Adriatico, fu negato dal nostro governo il plebiscito che avrebbe dimostrato come in quelle terre la stragrande maggioranza della popolazione fosse italiana. Prudente, De Gasperi pensava che l'esito del plebiscito avrebbe turbato gli equilibri internazionali e interni col PCI. A quel tempo, Togliatti aveva fatto affiggere questo manifesto a sua firma: «Lavoratori di Trieste, il vostro dovere è accogliere le truppe di Tito come liberatrici e collaborare con esse nel modo più stretto». Per esempio, sostenendo, come voleva il Migliore, che il confine italiano fosse sull'Isonzo, lasciando a Tito Trieste e la Venezia Giulia. I liberatori comunisti non potevano essere degli assassini: e così, sotto lo sguardo ipocrita dell'Italia repubblicana, con la vergognosa collaborazione degli storici comunisti, disposti a scrivere nei loro libri il falso, quella tragedia sparisce, non è mai accaduta. Ma il cammino trionfale della Storia dei vincitori si distrae e la verità incomincia ad affiorare. Non si dice con ottimismo che il tempo è galantuomo? Stavolta sembra di sì. Il 10 febbraio (giorno della firma a Parigi nel 1947 del trattato di pace) viene istituita nel marzo 2004 la «Giornata del ricordo», per celebrare la memoria dei trucidati nelle foibe e di coloro che patirono l'esilio dalle terre istriane, dalmate, giuliane. Ci sono voluti sessant'anni per incominciare a restituire un po' di verità alla Storia: adesso sarebbe un bel gesto che il nuovo Presidente della Repubblica onorasse questa verità ritrovata, recandosi al mausoleo sulla foiba di Basovizza per chiedere scusa alle migliaia di italiani dimenticati, offesi, umiliati, massacrati soltanto perché volevano rimanere italiani.

I partigiani ora ammettono la vergogna di esodo e foibe. Il coordinatore dell'Anpi veneto riconosce che molti perseguitati italiani non erano fascisti ma oppositori del nuovo regime comunista e illiberale, scrive Fausto Biloslavo su “Il Giornale”. Si scusa con gli esuli in fuga dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia per l'accoglienza in patria con sputi e minacce dei comunisti italiani. Ammette gli errori della facile equazione profugo istriano uguale fascista e della simpatia per i partigiani jugoslavi che non fece vedere il vero volto dittatoriale di Tito. Riconosce all'esodo la dignità politica della ricerca di libertà. Maurizio Angelini, coordinatore dell'Associazione nazionale partigiani in Veneto, lo ha detto a chiare lettere venerdì a Padova, almeno per metà del suo intervento. Il resto riguarda le solite e note colpe del fascismo reo di aver provocato l'odio delle foibe. L'incontro pubblico è stato organizzato dall'Associazione Venezia Giulia e Dalmazia con l'Anpi, che solo da poco sta rompendo il ghiaccio nel mondo degli esuli. Molti, da una parte e dall'altra, bollano il dialogo come «vergognoso». Angelini ha esordito nella sala del comune di Padova, di fronte a un pubblico di esuli, ammettendo che da parte dei partigiani «vi è stata per lunghissimi anni una forte simpatia per il movimento partigiano jugoslavo». Tutto veniva giustificato dalla lotta antifascista, compresa «l'eliminazione violenta di alcune centinaia di persone in Istria - le cosiddette foibe istriane del settembre 1943; l'uccisione di parecchie migliaia di persone nella primavera del 1945 - alcune giustiziate sommariamente e precipitate nelle foibe, soprattutto nel Carso triestino, altre - la maggioranza - morte di stenti e/o di morte violenta in alcuni campi di concentramento jugoslavi soprattutto della Slovenia». Angelini ammette, parlando dei veri disegni di Tito, che «abbiamo colpevolmente ignorato la natura autoritaria e illiberale della società che si intendeva edificare; abbiamo colpevolmente accettato l'equazione anticomunismo = fascismo e ascritto solo alla categoria della resa dei conti contro il fascismo ogni forma di violenza perpetrata contro chiunque si opponeva all'annessione di Trieste, di Fiume e dell'Istria alla Jugoslavia». Parole forti, forse le prime così nette per un erede dei partigiani, poco propensi al mea culpa. «Noi antifascisti di sinistra - sottolinea Angelini - non abbiamo per anni riconosciuto che fra le motivazioni dell'esodo di massa delle popolazioni di lingua italiana nelle aree istriane e giuliane ci fosse anche il rifiuto fondato di un regime illiberale, autoritario, di controlli polizieschi sulle opinioni religiose e politiche spinti alle prevaricazioni e alle persecuzioni». Il rappresentante dei partigiani ammette gli errori e sostiene che va fatto di più: «Dobbiamo riconoscere dignità politica all'esodo per quella componente di ricerca di libertà che in esso è stata indubbiamente presente». Gli esuli hanno sempre denunciato, a lungo inascoltati, la vergognosa accoglienza in Italia da parte di comunisti e partigiani con sputi e minacce. Per il coordinatore veneto dell'Anpi «questi ricordi a noi di sinistra fanno male: ma gli episodi ci sono stati e, per quello che ci compete, dobbiamo chiedere scusa per quella viltà e per quella volgarità». Fra il pubblico c'è anche «una mula di Parenzo» di 102 anni, che non voleva mancare. Il titolo dell'incontro non lascia dubbi: «Ci chiamavano fascisti, ci chiamavano comunisti, siamo italiani e crediamo nella Costituzione». Italia Giacca, presidente locale dell'Anvgd, l'ha fortemente voluto e aggiunge: «Ci guardavamo in cagnesco, poi abbiamo parlato e adesso ci stringiamo la mano». Adriana Ivanov, esule da Zara quando aveva un anno, sottolinea che gli opposti nazionalismi sono stati aizzati prima del fascismo, ai tempi dell'impero asburgico. Mario Grassi, vicepresidente dell'Anvgd, ricorda le foibe, ma nessuno osa parlare di pulizia etnica. Sergio Basilisco, esule da Pola iscritto all'Anpi, sembra colto dalla sindrome di Stoccolma quando si dilunga su una citazione di Boris Pahor, scrittore ultra nazionalista sloveno poco amato dagli esuli e sulle vessazioni vere o presunte subite dagli slavi. Con un comunicato inviato al Giornale, Renzo de' Vidovich, storico esponente degli esuli dalmati, esprime «perplessità di fronte alle prove di dialogo con l'Anpi» che farebbero parte di «un tentativo del Pd di Piero Fassino di inserire i partigiani nel Giorno del ricordo dell'esodo». L'ex generale, Luciano Mania, esule fiumano, è il primo fra il pubblico di Padova a intervenire. E ricorda come «solo due anni fa a un convegno dell'Anpi sono stato insultato per un quarto d'ora perché avevo osato proporre l'intitolazione di una piazza a Norma Cossetto», una martire delle foibe. In sala tutti sembrano apprezzare «il disgelo» con i partigiani, ma la strada da percorrere è ancora lunga e insidiosa.

«QUEL SILENZIO ASSORDANTE SULLE FOIBE». Il comunismo e il terrore, l'intervento del Nuovo Psi di Qualiano su “Interenapoli”. Qual è il vero motivo di sessanta anni di silenzio sulle foibe? Chi ci ha guadagnato da questo silenzio? Quante carriere, politiche, universitarie, sono state costruite da questi assordanti silenzi? L’accesso agli archivi di Mosca, un tempo segreti, ha consentito la stesura di un bilancio delle vittime del comunismo spaventoso, addirittura quattro volte superiore a quello delle vittime del nazismo: il più colossale caso di carneficina politica della storia. A tutt’oggi c’è ancora chi ritiene improponibile un accostamento dei due regimi rifacendosi alla differente ispirazione iniziale: mentre il nazismo fu una dottrina dell’odio e i suoi crimini,pertanto prevedibili e legati alla sua stessa essenza, il comunismo è spesso considerato una dottrina di liberazione, di amore per l’umanità e i suoi delitti considerati a mo’ di errori, incidenti, deviazioni. Tale argomentazione è a dir poco artificiosa in quanto prevedeva in entrambi i casi lo sradicamento di una parte della società. L’utopia di una società senza classi e l’illusione di una razza pura esigevano l’eliminazione di individui che si riteneva,ostacolassero la realizzazione del progetto. Per questo il richiamo all’umanità del comunismo è servito spesso a dare una legittimazione superiore all’uso del “terrore”. Il principio umanitario della politica consiste nel non considerare nessun uomo superiore moralmente ad un altro. Il nazismo è considerato il regime più criminale del secolo, mentre il comunismo in virtù dell’alleanza dello stalinismo con le principali democrazie mondiali ne ha ricavato spesso un credito morale che non ha mai cessato di sfruttare: l’antifascismo. In virtù di questo valore i crimini comunisti sono diventati un indiscutibile strumento di legittimazione. Contrapporre la democrazia al fascismo permise al sistema comunista di presentarsi come “democratico” in quanto antifascista. In tale contesto si inserisce la complicità del comunismo italiano che in Italia ha peccato di gravi menzogne e di una palese incapacità di attuare un vero processo revisionistico. La volontà di palesare una superiorità morale del “comunista” rispetto agli altri non comunisti ha portato all’atteggiamento del PDS durante il periodo di tangentopoli che ha comportato la eliminazione di una intera classe dirigente nazionale. Il cinismo comunista fu accompagnato, insieme alla liquidazione a all’infoibamento di una intera classe dirigente ad un trasformismo mal celato complice un uso parziale della Giustizia che certamente non esaminò con eguale severità i finanziamenti illeciti di ogni partito, compresi i finanziamenti moscoviti all’ex partito comunista. La ragione del fallimento del tentativo degli “ex” comunisti di usurpare il socialismo liberale e la politica di Craxi risiede proprio nella incapacità di ripensare alla propria storia, ripudiando gli errori commessi e scavando fino infondo la tragedia e i crimini del comunismo. E’per questo che la riabilitazione della figura di Bettino Craxi non può venire da Fassino e dal DS. L’Europa dei totalitarismi e dell’uomo moralmente superiore all’altro uomo, perché politicamente diversi deve restare dietro di noi ma non può essere né dimenticata, ne sottaciuta perché non dobbiamo e non possiamo dimenticare. Il ricordo di ciò che copre di vergogna l’essere umano può impedire di ripercorrere la stessa strada dell’odio. La nostra gioventù è figlia di quei mali e deve diventare testimone dei valori della democrazia e della tolleranza. La tendenza al regime trova sviluppo dove c’è ignoranza e laddove non vengono insegnati i valori di una vita libera. Mafia, camorra e terrorismo dovrebbero essere sperati da anni, mentre a Scampia e in tutta la provincia di Napoli si muore e si uccide tutti i giorni e la corruzione riesce a trovare ampi spazi anche nelle istituzioni Il pluralismo culturale è stato il protagonista dello sviluppo politico, sociale ed economico del nostro paese e dell’intera Europa. “Le vittime della violenza non hanno colore politico”, è ciò che spesso si ascolta da chi forse cerca un alibi dimenticando che proprio l’odio politico ha provocato quelle vittime.

Non lasciatevi ingannare dal titolo, Il revisionista, in uscita da Rizzoli (pagine 474, 21), scrive Rino Messina su “Il Corriere della Sera”. Questo non è l'ennesimo libro di Giampaolo Pansa sulla guerra civile italiana. È l'autobiografia di un giornalista che, quando si svolgeva la mattanza raccontata nel Sangue dei vinti, aveva dieci anni. E che è cresciuto a Casale Monferrato, zona di Resistenza, in una famiglia operaia, assorbendo i racconti sulla guerra e l'amore per la cultura: «I miei sapevano che l'unica possibile emancipazione era studiare e non mi facevano mai mancare libri, penne, quaderni». In uno dei brani più commoventi il padre Ernesto confida a suo figlio, da poco entrato alla «Stampa» di Torino: «Ora che scrivi per i giornaloni anche i signori mi salutano». Come fa un libro che contiene queste storie private a non essere definito un'autobiografia? Eppure Giampaolo Pansa nella prefazione dice d'essersi limitato a tracciare il suo percorso di Revisionista. Successi, ma anche attacchi e insulti, a cominciare da quando nel 2002 pubblicò I figli dell'Aquila e soprattutto nel 2003 quando firmò Il sangue dei vinti, un saggio vicino al traguardo del milione di copie. «Il vero motivo per cui l'ho scritto - confida Pansa - è ringraziare le persone che mi hanno apprezzato perché avevo dato loro voce. L'Italia degli sconfitti che prima del Sangue dei vinti non avevano diritto di partecipare al discorso pubblico. A loro ho voluto raccontare il mio percorso di giornalista che ha avuto la fortuna di incontrare tanti maestri. Tra i giornalisti che non appartengono alla sua cerchia, io credo di essere quello che meglio capisce Silvio Berlusconi. E sa perché? Perché sono nato nel 1935, un anno prima di lui, e capisco le paure e le angosce di un settantenne, ma ne condivido anche l'entusiasmo e il percorso generazionale». Il revisionista non è un libro provocatorio, a tesi, né il racconto di una sola parte italiana. È la storia di un percorso e degli incontri che hanno segnato un uomo. La Gianna, la prima fidanzatina di Giampaolo, la prima con cui abbia fatto l'amore. Ricevendone una lezione straordinaria. Gianna era una di quelle ragazze che erano state rapate a zero dopo il 25 aprile: suo padre era un fascista ucciso per vendetta e a lei era toccata quell'umiliazione. Poi Luigi Firpo, il geniale professore alla facoltà di Scienze politiche, Alessandro Galante Garrone e Guido Quazza, i due storici che seguirono la tesi di laurea di Pansa, Guerra partigiana tra Genova e il Po, un malloppo di circa mille pagine che conteneva documenti e testimonianze di prima mano e che sarebbe uscito nel 1967 da Laterza. Guido Quazza usava tenere una scheda sui suoi laureandi. Sulla tesi di Pansa scrisse: «Importante lavoro per la vastità della ricerca... È sempre presente il principio dell'audiatur et altera pars». Siamo nel 1959 e questo è un riconoscimento straordinario: ascoltare sempre l'altra voce. La lezione di Gianna era un seme che cresceva. Quella tesi avrebbe vinto uno dei due premi Luigi Einaudi: sarebbe stato il salvacondotto per entrare subito nel mondo del giornalismo, alla «Stampa» diretta da Giulio De Benedetti. Da «ciuffettino», così era soprannominato il rigoroso direttore del quotidiano torinese, a «barbapapà» Eugenio Scalfari, Il revisionista di Pansa è anche una galleria di direttori e colleghi, ritratti impietosi e affettuosi, in cui la critica non fa mai velo alla gratitudine. Leggete per esempio questo omaggio a Giorgio Bocca, diventato in questi anni l'arcinemico di Pansa in difesa di una Resistenza che ha sentito tradita dal suo più giovane collega: «Giorgio era il primo dei miei maestri indiretti. I giornalisti che leggevo con la matita in mano per prendere appunti e imparare come si doveva scrivere un buon articolo. Avevo recensito con entusiasmo un libro che raccoglieva i suoi reportage italiani. Lui mi aveva ringraziato con un biglietto e io ero andato di corsa a Milano per conoscerlo». Nel 1964, auspice Bocca, era arrivata la chiamata al «Giorno» diretto da Italo Pietra, partigiano e uomo di fiducia di Enrico Mattei. Nella stanza delle riunioni ogni mattina il direttore entrava rivolgendo, tra l'ironico e il minaccioso, questa domanda ai colleghi: chi di voi ha bruciato la mia casa sul monte Penice nel rastrellamento dell'agosto 1944? Perché il gruppo dirigente del «Giorno» era formato per metà da giornalisti che avevano fatto la Resistenza e per metà da saloini che avevano combattuto dall'altra parte, chi nella X Mas, chi nelle Brigate Nere, chi nella Guardia repubblicana. Anche in questo episodio è evidente che «il revisionismo» è il filo conduttore del racconto, ma il genere letterario è quello dell'autobiografia, sull'esempio fortunato del Provinciale di Giorgio Bocca. Trovi lo stesso stupore, la stessa potenza narrativa, tratti simili di sensualità, entusiasmo, stupore della scoperta. A volte di delusione e di stizza. Sentimenti evidenti nel capitolo «Il libertino» dedicato a Eugenio Scalfari, di cui riconosce la tenacia geniale del fondatore di imprese, ma al quale non risparmia pagine amare e impietose. «Via via - scrive Pansa - diventò la statua di se stesso. Con la barba di un biancore marmoreo... Quando morì Rocca (che con Pansa era stato vicedirettore della "Repubblica") nella cerimonia al cimitero del Verano, andai a stringere la mano a Eugenio. Ma lui se ne restò seduto e sembrò non riconoscermi». Pansa ne rimase stupito e addolorato: attribuisce questo atteggiamento all'uscita dei suoi lavori revisionisti, non apprezzati dal fondatore di «Repubblica». Nel libro c'è anche spazio per ritratti di politici, da Giorgio Almirante a Enrico Berlinguer, e soprattutto un invito al revisionismo, a raccontare le verità scomode, anche sugli anni di piombo, la stagione sanguinosa degli anni Settanta che continua a esalare veleni, come dimostrano le scritte contro Luigi Calabresi comparse in questi giorni a Torino. Giampaolo Pansa, che oggi collabora al «Riformista» ma soprattutto scrive libri, a 73 anni è felice della sua vita e continua a dirsi fortunato. Tuttavia ha qualche rimorso: «Non aver fatto abbastanza per difendere Calabresi come avrei dovuto». E qualche delusione: «Non aver mai ricevuto l'invito da una scuola di giornalismo, dove insegnano perfetti sconosciuti. Ma forse le scuole sono in mano alla sinistra e non invitano uno come me bollato a destra. Ma io avrei qualcosa da dire ai giovani: per esempio che il mestiere di giornalista non si impara, ma si ruba, e che il talento serve a ben poco senza l'umiltà e lo spirito di sacrificio».

Giampaolo Pansa, il revisionista impenitente, scrive Gabriele Testi su “Storia in Rete”. Il revisionista che non si pente. Anzi. L’autore che più di ogni altro ha attaccato in Italia miti storiografici del Novecento e l’Accademia, sta per tornare con un libro destinato a rinverdire le polemiche scatenate da «Il Sangue dei Vinti». Le tesi di Pansa? «Il PCI di Togliatti voleva l’Italia satellite dell’Urss»; «la politica di oggi non è interessata a fare i conti con la Storia»; «I miei critici? Scappano…»; «Le celebrazioni? Non mi piacciono mai»; «Il miglior leader italiano? De Gasperi»; «Gli italiani? Non hanno futuro se continuano così…». Forse perché non vogliono avere un passato? C’è sempre una prima volta, anche per Giampaolo Pansa. Quella del giornalista piemontese al Festival Internazionale della Storia di Gorizia, dunque allo stesso tempo su un terreno e in un territorio particolarmente delicato per ogni forma di rivisitazione e di analisi storiografica, non è passata inosservata. Anzi. La dialettica con un pubblico tanto attento quanto sensibile alle vicende degli italiani vissuti (e morti) oltre il Muro, in particolare comunisti di fede stalinista fuggiti in Jugoslavia e diventati «nemici del popolo», e lo scontro verbale con il moderatore Marco Cimmino non saranno dimenticati facilmente dalle parti di Gorizia. L’occasione si è comunque rivelata perfetta per una chiacchierata con un autore che, in polemica con gli accademici italiani e i «gendarmi della memoria» non arretra di un metro sul piano del confronto scientifico su quei temi, il tutto alla vigilia del compleanno che il primo ottobre gli farà oltrepassare la soglia dei tre quarti di secolo e della pubblicazione di un ultimo lavoro che lo riporterà in autunno nei panni a lui del revisionista. È lui stesso a raccontarlo a «Storia in Rete» in un’intervista esclusiva in cui si mescolano Resistenza e Risorgimento, eredità del PCI, meriti e demeriti democristiani, una visione organica della nostra società e le differenze esistenti fra i giovani di oggi e quelli le cui scelte avvennero con la Guerra.

Considerato il soggetto dei suoi ultimi due libri, considera ormai chiusa la parentesi dedicata alla Guerra Civile italiana?

«No, tant’è vero che in novembre uscirà con la Rizzoli un mio nuovo libro sulla Guerra Civile. Il titolo è: “I vinti non dimenticano”. Non è soltanto il seguito del “Sangue dei vinti” e dei miei libri revisionisti successivi. Insieme a vicende che coprono territori assenti nelle mie ricerche precedenti, come la Toscana e la Venezia Giulia, c’è una riflessione più generale, e contro corrente, sul carattere della Resistenza italiana. Dominata dalla presenza di un unico partito organizzato, il PCI di Palmiro Togliatti, Luigi Longo e Pietro Secchia. Che aveva un traguardo preciso: conquistare il potere e fare dell’Italia un Paese satellite dell’URSS».

È rimasto fuori qualcosa – un’osservazione, una storia, un nome – che le piacerebbe aggiungere o correggere?

«Non ho niente da correggere per i miei lavori precedenti. E voglio dirvi che, a fronte di sette libri ricchi di date, di nomi, di vicende spesso ricostruite per la prima volta, non ho mai ricevuto una lettera di rettifica, dico una! E non sono mai stato citato in tribunale, con qualche causa penale o civile. Persino i miei detrattori più accaniti, tutti di sinistra, non sono mai riusciti a prendermi in castagna. Mi hanno lapidato con le parole per aver osato scrivere quello che loro non scrivevano. Però non sono stati in grado di fare altro».

E a proposito di «aggiungere»?

«Come voi sapete meglio di me, nella ricerca storica esistono sempre campi da esplorare e vicende da rievocare. In Italia questa regola vale ancora di più a proposito della Guerra Civile fra il 1943 e il 1948. Parlo del ’48 perché considero l’anno della vittoria democristiana nelle elezioni del 18 aprile la conclusione vera della nostra guerra interna. I campi da esplorare sono molti, anche perché della guerra tra fascisti della RSI e antifascisti non vuole più occuparsene nessuno. I cosiddetti “intellettuali di sinistra” hanno smesso di scriverne perché si sono resi conto che il loro modo di raccontare quella guerra non regge più, alla prova dei fatti e dei documenti. Nello stesso tempo, le tante sinistre italiane non hanno il coraggio di ammettere quella che ho chiamato nel titolo di un mio libro “La grande bugia”. Se lo facessero, perderebbe molti elettori, ossia quella parte di opinione pubblica educata a una vulgata propagandistica della Resistenza. Sul versante di destra constato la stessa reticenza. Un tempo esisteva il MSI, in grado di dar voce agli sconfitti. Oggi i reduci di quell’esperienza, parlo soprattutto del gruppo nato attorno a Gianfranco Fini, si guardano bene dal rievocare il tempo della Repubblica Sociale Italiana. Infine, il Popolo della Libertà ha ben altre gatte da pelare. E a Silvio Berlusconi della Guerra Civile non importa nulla. Di fatto, sono rimasto quasi solo sulla piazza. Questo mi rallegra come autore, però mi deprime come cittadino. Sono ancora uno di quelli che non dimenticano una verità vecchia quanto il mondo: il passato ha sempre qualcosa da insegnare al presente e anche al futuro».

Che cosa risponde a chi nega valore ai suoi libri perché «poco scientifici»? È davvero soltanto una questione di note a margine?

«Mi metto a ridere! Rido e me ne infischio, perché la considero un’accusa grottesca. Questa è l’ultima trincea dei pochi “giapponesi” che si ostinano a difendere una storiografia che fa acqua da tutte le parti. A proposito delle note a piè di pagina, ricordo che tutte le mie fonti sono sempre indicate all’interno del testo, per rispetto verso il lettore e per non disturbarlo nella lettura del racconto. Per quanto riguarda i cattedratici di storia contemporanea, il mio giudizio su di loro è quasi sempre negativo. Ci sono troppi docenti inzuppati, come biscotti secchi e cattivi da mangiare, nell’ideologia comunista. Il Comunismo è morto in gran parte del mondo, ma non all’interno delle nostre università. L’accademia che ho conosciuto nella seconda metà degli anni Cinquanta era molto diversa…».

Com’è un libro di storia «scientifico»? Perché non si toglie lo sfizio e glielo fa? Oppure bisogna necessariamente scriverlo da una cattedra universitaria?

«Se per libro scientifico si intende una ricerca storica fondata su fonti controllate e che racconta fatti veri o comunque il più possibile vicini alla verità, questo è ciò che ho sempre fatto. Anche il libro che uscirà a novembre, se vogliamo usare una parola pomposa che non mi appartiene, è a suo modo un’opera scientifica. Lo è perché l’ho pensato a lungo, ci ho lavorato molto e sono pronto ad affrontare ogni contraddittorio. Ormai la storiografia accademica “rossa” non vuole fare contraddittori con i cani sciolti come me perché ha paura di essere messa sotto. Si nascondono, fanno come le lumache. Mia nonna diceva: “lumaca, lumachina, torna nella tua casina”. Non si fa così: si tengano le loro cattedre sempre più inutili, cerchino di insegnare qualcosa a studenti altrettanto svogliati. Dopodiché quello che posso fare per loro è pagare le mie tasse fino all’ultima lira, come ho sempre fatto. In fondo, io sono tra i finanziatori della ricerca storica universitaria».

A proposito di revisionismo: come giudica quello sul Risorgimento (quello neo-borbonico, ma anche la nostalgia cripto-leghista che ha in mente il Regno Lombardo-Veneto austriaco)?

«Quando ero studente diedi anche un esame di storia del Risorgimento. Non mi ricordo più con chi. Mi appassionava, però confesso di non avere un interesse per quel periodo storico. Mi rendo conto, com’è accaduto per tutte le fasi cruciali, che bisognerebbe andare a vedere anche lì se la storia ci viene raccontata nel modo giusto. Io non santifico nessuno, non mi piace. Non l’ho mai fatto nel mio lavoro di giornalista politico, per cui mi è difficile trovare qualcuno che mi entusiasmi anche tra i leader partitici. E credo che anche sul Risorgimento ci sia molto da rivedere o revisionare. Ma se un partito come la Lega Nord si mette di mezzo e pretende di riscrivere la storia, io me ne ritraggo inorridito…».

Ci fu anche allora, indubbiamente, una guerra civile che prese il nome di «brigantaggio». Ha mai pensato di occuparsene?

«Sul brigantaggio ho letto parecchio, recentemente anche un romanzo bellissimo che racconta di un episodio in Calabria o Campania, adesso non ricordo, della lotta contro i piemontesi. Ritengo che questo fenomeno fosse una forma di resistenza delle classi dirigenti del Mezzogiorno nei confronti dei Savoia per quella che era un’occupazione militare. Lo Stato unitario è certamente nato sul sangue di entrambe le parti, perché non è che i piemontesi siano andati con la mano leggera al sud, e lo dico parlando da piemontese. Del resto, le guerre sono sempre state fatte in queste modo: le vincono non soltanto coloro che hanno la strategia più intelligente, ma anche chi non usa il guanto di velluto. Basti vedere come sono stati i bombardamenti alleati in Italia durante la Seconda guerra mondiale, un altro argomento che gli storici dell’antifascismo e della Resistenza non hanno granché affrontato e che io credo di avere chiarito bene nel prossimo libro, per di più alla mia maniera. Ormai ho imparato che i conflitti bellici sono mattatoi pazzeschi. Ricordo che da bambino vidi passare sulla mia testa, a Casale Monferrato, le “fortezze volanti” americane che andavano a bombardare la Germania. In un primo tempo a scaricare esplosivo sui tedeschi erano gli aerei inglesi del cosiddetto Bomber Command, guidati da questo Harris [sir Arthur Travers Harris, maresciallo dell’aria della RAF, 1892-1984, soprannominato “Bomber Harris” NdR] che anche dai suoi era stato battezzato “Il macellaio” [per la leggerezza con cui mandava a morire i suoi equipaggi NdR]. Anch’io avrei potuto essere un bambino bombardato in Italia, ma grazie a Dio non abitavo vicino ai due ponti sul Po che attraversavano la mia città. Queste sono le guerre. È chiaro che se poi, una volta che sono finite, ci si mettono di mezzo i faziosi che pretendono di raccontarle alla loro maniera, secondo gli interessi di una parte politica, allora non ci si capisce più nulla…».

Come si esce dalle divisioni del passato? Ancora oggi l’ANPI, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, tessera dei giovani: queste cose hanno senso per lei?

«No, e io sono stato uno dei primi a raccontarlo in qualche mio articolo e anche in un libro. Una sera mi trovavo a Modena, dove mi ero recato a presentare uno dei miei lavori revisionisti, e mi accorsi che sui quotidiani locali c’erano delle pagine pubblicitarie a colori, dunque costose, e delle locandine in cui si invitavano i ragazzi a iscriversi all’ANPI. Tutto questo non ha senso o, meglio, lo ha se si pensa che l’Associazione è oggi un partito politico, minuscolo e molto estremista. Secondo me tutto ciò non ha senso, però se vogliamo capire il fenomeno bisogna dire che l’ANPI è uno strumento nelle mani della Sinistra radicale o, diciamolo meglio, affinché non si offendano, una sua componente: è chiaro che se dovesse fare affidamento soltanto sugli ex partigiani, anche su quelli delle classi più giovani del ’25, ’26 e ’27, oggi i soci sarebbero tutti ultraottantenni. Hanno bisogno di forze fresche e hanno trasformato un’organizzazione di reduci, assolutamente legittima, in un club quasi di partito. Siamo in una situazione di sfacelo delle due grandi famiglie politiche, prima è toccato al centrosinistra e ora sta accadendo per una specie di nemesi al centrodestra, e possiamo immaginarci quanto poco conti l’ANPI in questo scenario. Quando l’Italia diventerà ingovernabile e nessuno sarà in grado di gestirla, ci renderemo conto di come certi leader politici non possano fare nulla».

Come spessore dei personaggi, chi vince tra la Prima e la Seconda Repubblica? E, fra i grandi statisti del passato, chi ci servirebbe oggi?

«È una bella domanda, che però richiede una risposta complicata. Come ho scritto nella prefazione de “I cari estinti”, tanto per citare un mio libro che sta avendo un grande successo, sono un nostalgico della Prima Repubblica. Non ricordo chi lo abbia detto, se Woody Allen o Enzo Biagi, personaggi agli antipodi fra di loro, ma “il passato ha sempre il culo più rosa”. Io sono fatalmente portato a ritenere che i capi partito della Prima Repubblica avessero uno spessore più profondo, diverso, migliore di quelli di oggi, anche se in quel periodo furono commessi degli errori pazzeschi. Prima che quella classe politica si inabissasse per sempre e la baracca finisse nel rogo di Tangentopoli – non tutta naturalmente, perché il PCI fu graziato dalla magistratura inquirente – negli ultimi quattro-cinque anni si accumulò un debito pubblico folle, che è la palla al piede che ci impedisce di correre e, soprattutto, diventa una lama d’acciaio affilata che incombe sulle nostre teste. Non ho mai votato la DC, anche perché sono sempre stato un ragazzo di sinistra, ma ho una certa nostalgia della “Balena Bianca”. Il grande merito della Democrazia Cristiana fu di vincere le elezioni del 18 aprile, perché se nel 1948 avesse prevalso il Fronte Popolare, non so che sorte avrebbe potuto avere questo Paese. Secondo me ci sarebbe stata un’altra guerra civile, se non altro per il possesso del nord Italia, anche se poi la storia non si fa con i “se”. Per fortuna, lì si impose Alcide De Gasperi in prima persona. Ero molto giovane, ma quello è un leader al quale ho visto fare grandi cose nei rapporti con gli elettori. Ma pure i leader dell’opposizione a vederli da vicino erano cosa altra da adesso. Anche di Enrico Berlinguer, che era una specie di “santo in terra”, mi resi subito conto di che pasta fosse da un punto di vista politico, più che umano. Quando lo intervistai per il “Corriere della Sera”, alla vigilia delle elezioni politiche del 1976, mi disse che si sentiva molto più al sicuro sotto l’ombrello della NATO che non “protetto” dal Patto di Varsavia. Queste risposte eterodosse sull’Alleanza Atlantica e il PCI non le pubblicò “l’Unità”, censurando di fatto il segretario del Partito, perché avevano suscitato i malumori dell’ambasciata dell’URSS a Roma. Però gli stessi concetti mi furono ribaditi dal leader comunista, senza battere ciglio, anche in televisione durante una tribuna elettorale. Evidentemente, tutto ciò non doveva finire su ”L’Unità”, che era letta come il Vangelo dai militanti comunisti, mentre in tivù si poteva dire qualsiasi cosa».

Secondo lei chi è stato il più grande? E perché?

«Io direi che oggi ci servirebbe un uomo molto pratico ed energico come Amintore Fanfani, che ha curato i nostri interessi sotto molti aspetti, oppure un temporizzatore tranquillizzante come Mariano Rumor. Con tutto il rispetto per la sua figura e la fine che ha fatto, non so invece se ci occorrerebbe un Aldo Moro. A sinistra ci vorrebbe un tipo come Craxi, diciamoci la verità: Bettino aveva un grande orgoglio di partito, ma non pendenze storiche che sarebbero state sconvenienti da mostrare come accadeva a molti leader del PCI. In conclusione, ci servirebbe un leader democratico e liberale in grado di imporsi con autorità e autorevolezza per mettere fine a questa guerra civile di parole di cui in Italia non ci rendiamo troppo conto e che diventa sempre più violenta. Il più grande di tutti resta comunque De Gasperi, un uomo affascinante, brillante e capace: se non sbaglio fece sette governi, si ritirò a metà dell’ottavo per il venir meno della fiducia e fu per undici mesi segretario della DC prima di morire nel 1954. È stato il politico che ha concesso a me e a voi, in un giorno d’estate del 2010, di procedere in quest’intervista senza paura di dire come la pensiamo».

Come giudica, anche da piemontese, il modo con cui l’Italia si appresta a «festeggiare» i primi centocinquant’anni di vita nel 2011 e le dimenticanze su Cavour in questo 2010?

«Vi dirò una cosa: io sono contrario alle celebrazioni, anche le più oneste. Non servono a nulla, se non a far girare un po’ di consulenze, a far lavorare qualche storico, vero o presunto che sia, gli architetti, qualche grafico e chi si occupa di opere pubbliche per tirar su mostre, ripristinare un museo e via dicendo. Non me ne importa nulla e non sono affatto d’accordo. Chi vuole approfondire la storia del Risorgimento, trova già tutto: basta che vada in una buona libreria e si faccia consigliare da qualche bravo insegnante, magari di liceo, che spesso è anche più competente di tanti docenti universitari…».

Che popolo sono gli italiani? È giusto dire che dimenticano tante cose belle e si accapigliano a distanza di secoli sempre sulle stesse cose?

«Io ho un’idea abbastanza precisa di come siamo: un popolo in declino, che non è all’altezza delle nazioni con le quali dovremmo confrontarci. L’Italia è un Paese di “serie B”, che presto scenderà in “serie C”, con una squadra di calcio che non combina più nulla da un sacco di anni. La gente è sfiduciata e non vuole più saperne della politica, anche per come è la politica oggi. I giovani sono in preda ai “fancazzismi” più esasperati e affollano le università per lauree assurde, vere e proprie anticamere della disoccupazione. A un sacco di ragazzi se chiedi che cosa vogliono fare da grandi, non sanno risponderti, perché non vogliono nulla. Questo è un Paese per vecchi che diventano sempre più vecchi e io mi metto in cima alla lista, perché a ottobre di anni ne avrò settantacinque. Quand’ero giovane l’Italia era un contesto più generoso e che osava, baciato da miracoli economici successivi, in cui il figlio di un operaio del telegrafo e di una piccola modista, allevato da una nonna analfabeta come Giampaolo Pansa, poteva andare all’università, laurearsi e fare il giornalista, che era la cosa che avrebbe sempre voluto fare. Adesso l’Italia è un deserto di speranze, ma anche i giovani non si accontentano mai. Oggi se ho bisogno di un idraulico, di un falegname o di un elettricista, o trovo dei signori ultracinquantenni, o mi affido a giovani molto bravi che quasi sempre sono extracomunitari. Vallo a spiegare ai ragazzi italiani che gli studi universitari non garantiscono più nulla…».

Da quanto detto non si può che arrivare al negazionismo sulle foibe.

Al Magazzino 18 sembrava di stare ad Auschwitz. Parla il coautore dello spettacolo teatrale. Bernas: "Revisionismo? Questo tema era stato occultato dalla storia ufficiale", scrive Gabriele Antonucci su “Il Tempo”. «La storia non deve essere di nessuno, ma la verità deve essere di tutti». Così il giornalista e scrittore Jan Bernas, esperto di geopolitica e di storia, ha spiegato l’urgenza artistica della genesi di «Magazzino 18», spettacolo scritto insieme a Simone Cristicchi. Un’idea accarezzata per vent’anni dal regista Antonio Calenda, che ha trovato finalmente compimento grazie ai fortunati incontri con Cristicchi e con Bernas, contattato dal cantante dopo aver letto il suo libro «Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani». Lo spettacolo, dopo il trionfale debutto a Trieste, ha ricevuto grandi consensi in tutta Italia per l’equilibrio del testo, la sensibilità di Cristicchi e la regia emozionante di Calenda. «Magazzino 18» diventerà un libro, che uscirà a febbraio per Mondadori, corredato dalle foto realizzate dall'autore all’interno del silos dove sono ancora accatastati i beni lasciati dagli esuli italiani in fuga. Per Bernas entrare al Magazzino 18 «è stata un’esperienza incredibile, mi ha ricordato l’atmosfera del campo di concentramento di Auschwitz. Prima di tutto è necessario un permesso speciale per entrare. Una volta dentro, sono rimasto colpito da un salone enorme, pieno di sedie accatastate una sopra l’altra. Dietro ognuna è riportato il nome e il cognome del proprietario. Una stanza è piena di giocattoli, un’altra di libri, registri e perfino di lettere d’amore. Fa venire i brividi». Quanto alle polemiche sullo spettacolo, l’autore se le aspettava, «ma non così forti, violente e preconcette. Le critiche più odiose sono quelle che sono arrivate prima che lo spettacolo andasse in scena o, dopo il debutto, da chi non l’aveva neanche visto. In "Magazzino 18" non diamo colpe, è semplicemente un atto di educazione alla memoria». Per Jan la parola foiba non è soltanto un tabù, ma «una semplificazione simbolica di una vicenda molto più complessa e articolata. Le foibe, in realtà, sono la punta dell’iceberg, visto che in quel periodo tanti italiani sono morti di crepacuore, chi a seguito dell’internamento, chi morto dentro, rimanendo a Pola o a Fiume». Sono state numerose le difficoltà nello scrivere un testo che affrontava una materia così delicata. «»È stato più duro che scrivere un libro. Quando devi raccontare sopra un palcoscenico avvenimenti così poco conosciuti non puoi dare nulla per scontato, né dal punto di vista storico né da quello drammaturgico. Devi condensare una vicenda complessa in meno di due ore». Sulle accuse di revisionismo, lo scrittore mostra di avere idee chiare: «Se per revisionismo intendiamo che per la prima volta in Italia viene rappresentato a teatro un argomento così occultato, allora lo è. Se con quel termine indichiamo una mistificazione storica a favore di una sola parte, non lo è certamente. È stato difficile realizzare uno spettacolo equilibrato: sarebbe stato molto più facile scrivere un testo di parte». Bernas si è accostato all’esodo degli italiani dalla Jugoslavia fin da giovanissimo. «Quando ero al liceo già mi interessavo di storia. Un giorno chiesi alla mia insegnante: "Come mai sono partiti tutti quegli italiani dall'Istria?" "Perché erano tutti fascisti". Non mi sono accontentato di quella secca risposta e ho iniziato una ricerca di molti anni che mi ha condotto a visitare quei luoghi, a conoscere e a intervistare decine di esuli». Grandi emozioni gli ha riservato la prima dello spettacolo a Trieste, dove era stata allarmata perfino la Digos per il rischio di scontri tra opposte fazioni politiche: «Quella sera c’era una tensione molto forte, ma l’applauso di un quarto d’ora con il pubblico in piedi, gli anziani esuli in lacrime che ci hanno abbracciato, l’inno nazionale cantato alla fine da tutta la sala sono stati i migliori regali che io, Cristicchi e Calenda potessimo ricevere».

Ma quanto tempo deve ancora passare perché il dramma dell’esilio giuliano-dalmata e la tragedia delle foibe diventino memoria per tutti? Si chiede Federico Guiglia su “Il Tempo”. Memoria è quel luogo del nostro animo dove il ricordo dell’orribile pagina di storia, che si è scritta sul confine nord-orientale italiano soprattutto dal ’43 al ’47, può ancora ferire gli anziani testimoni, commuovere i giovani che non conoscevano, far riflettere un’intera nazione chiamata a custodire per sempre un capitolo di sé per troppi anni rimosso. Ed è incredibile che a Simone Cristicchi, artista di valore di una generazione del tutto estranea alla vicenda, venga oggi scagliato l’anatema di «propaganda anti-partigiana» per lo spettacolo profondo e delicato, esattamente com’è lui, dedicato all’esodo di trecentocinquantamila connazionali. Come ormai si sa o si dovrebbe sapere, essi furono costretti ad abbandonare la terra in cui erano nati o cresciuti per evitare, nel migliore dei casi, di perdere la loro identità italiana. Anzi, italianissima, tipica della gente di confine, lontana da Roma e perciò amante di un amore travolgente verso la nazione italiana. Nel peggiore dei casi, gli esuli fuggivano per evitare la fine orrenda dei ventimila infoibati, uccisi o torturati dai partigiani comunisti di Tito con la sola «colpa» d’essere italiani. Senza dimenticare l’esproprio dei loro beni, che spesso erano il frutto di sacrifici che si tramandavano di padre in figlio, perché in Istria, Fiume e Dalmazia si parlava italiano dalla notte dei tempi. Dunque, è stata un’epopea triste. È stata una fuga per la vita di chi, da quel giorno, da quell’ultimo imbarco verso la madre-patria, avrebbe perduto tutto, fuorché la dignità. La dignità di raccontare quel che era successo, ma senza piangersi addosso. La dignità di ricominciare daccapo in Italia o all’estero, perché una parte notevole degli esiliati è partita due volte: la prima dalla propria terra verso la propria patria. La seconda dalla patria verso il mondo. L’Australia, il Canada, l’America, sempre portandosi nel cuore quel dramma silenzioso e quasi inconfessabile, tanto tremendo era stato. Portandoselo, il lutto collettivo, con straordinaria civiltà. È un esodo che non ha prodotto alcun atto di violenza per reazione o per vendetta, a differenza di altri esodi sradicati ed espulsi in tante parti dell’universo. Di più. Questi nostri fratelli mai hanno mostrato né fatto valere rancore nei confronti di chi li aveva cacciati da casa loro. Chiedevano e chiedono solo «giustizia». Le loro lacrime mai hanno riempito gli studi televisivi, a cui per anni i sopravvissuti e le loro famiglie si sono sottratti con discrezione. Anche nel dolore essi hanno dato prova di un’italianità esemplare: gente che non protestava, che non dava la colpa agli altri dei propri e terribili guai subìti, che non s’inventava partiti per lucrare voti sulla sofferenza. Solamente e nient’altro che un grande, infinito rispetto, dunque, possiamo noi oggi restituire ai vivi e ai morti, chiedendo scusa d’essere arrivati così tardi a «comprendere» e a «condividere» la vicenda. È quel che ha fatto Simone Cristicchi con lo spettacolo «Magazzino 18», andando a spulciare, per poi narrare, le cose senza nome e senza numeri, ma da oggi con nuova anima, abbandonate dagli esiliati in quel disperato magazzino di Trieste. Cristicchi ha dato voce e senso a una storia che è rimasta muta per decenni. L’artista, che non ha ancora trentasette anni, ha potuto e saputo più degli storici paludati, perfino, che poco o niente hanno voluto ricordare di quell’esodo alla frontiera, voltando per anni la testa e la penna dall’altra parte. Il giovane Cristicchi ha potuto e saputo più dei politici navigati, mondo al quale non appartiene. E si vede, e si sente: libero artista in libero Stato. Un mondo, quello politico, che ha scoperto l’esilio e le foibe solo in tarda Repubblica quando, con legge del 2004, fu proclamato «giorno del ricordo» il 10 febbraio, anniversario del Trattato di Pace che staccò dall’Italia quei territori italiani. Da allora l’esilio e le foibe sono tornati nella nostra storia nazionale. E ogni volta la cerimonia al Quirinale rende omaggio alla memoria dei vinti e innocenti troppo a lungo dimenticati. Il tesoro della memoria. Perciò la polemica che si è scatenata contro Cristicchi e riportata dal «Tempo», con chi sollecita la cacciata dell’artista dall’Anpi reo non si capisce di che cosa, non è né giusta né sbagliata: è semplicemente incomprensibile. La verità non può far male, neanche settant’anni dopo. Neanche quand’è raccontata con forza e dolcezza per non dimenticare.

Che le foibe siano state un tabù per decenni, lo sanno tutti. Non una riga sui libri scolastici, nessun volume storico diffuso nel grande circuito editoriale, zero commemorazioni ufficiali. Achille Occhetto, l'ex leader comunista, in un'intervista al Tempo, ammette candidamente di aver scoperto gli eccidi con cinquant'anni di ritardo. È vittima della sua stessa disinformazione? Scrive  Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Quei massacri di migliaia di italiani a fine guerra sui confini orientali sono stati nascosti e negati talmente a lungo da apparire quasi una leggenda. Forse per questo Achille Occhetto, ex segretario del Pci, che con il suo partito ha contribuito a far credere che non esistessero, afferma candidamente in un’intervista: “Io stesso ho appreso del dramma delle foibe solo dopo la svolta della Bolognina. Prima non ne ero mai venuto a conoscenza”. D’altronde è stato l’ultimo leader dei comunisti italiani, maestri nella propaganda e nel distorcere la verità. E perciò può essere rimasto vittima della sua stessa disinformazione se ha scoperto un pezzo di storia solo nel 1989. Oppure continua a mentire come hanno fatto i suoi compagni per quasi mezzo secolo, raccontando che gli esuli dell’Istria, Fiume e Dalmazia non erano semplici italiani in fuga dalle stragi comuniste ma fascisti che scappavano per i loro misfatti. Un messaggio che aveva già fatto presa nel 1947. C’è un episodio indimenticabile. Il 16 febbraio, un piroscafo parte da Pola con migliaia di connazionali che, dopo essere sbarcati ad Ancona, sono stipati come bestie su un treno merci diretto a La Spezia. Quel treno, il 18 febbraio, arriva alla stazione di Bologna, dove è prevista una sosta per distribuire pasti caldi agli esuli. Ma ad attendere i disperati c’è una folla con bandiere rosse (toh, i compagni di Occhetto?) che prende a sassate il convoglio, mentre dai microfoni è diramato l’avviso “se i profughi  si fermano, lo sciopero bloccherà la stazione”. Il treno è costretto a ripartire. Questo il clima. La propaganda comunista e la mistificazione della realtà, come sappiamo, hanno influenzato non poco la cultura italiana del secondo Novecento. Ma è stato impossibile seppellire la memoria: troppi profughi, troppi testimoni e quella destra che alimenta i ricordi. E poi c’è Trieste, che Occhetto conosce bene, città decorata con la medaglia d’oro al valore militare dal capo dello Stato, nella cui motivazione c’è scritto “…subiva con fierezza il martirio delle stragi e delle foibe, non rinunciando a manifestare attivamente il suo attaccamento alla Patria…”. Tutti sapevano delle foibe, anche se era scomodo e sconveniente parlarne. Per questo motivo facciamo fatica a credere che il prode Achille l’abbia saputo così tardi. Fosse stato per il Pci, probabilmente non se ne sarebbe mai parlato, ma per fortuna è stato sconfitto dalla storia. E al grande libro dei fatti è stata aggiunta quella pagina strappata.

Pianse Achille Occhetto il giorno in cui, con la “svolta della Bolognina”, seppellì il Partito comunista italiano dando vita al Pds, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Può sembrare incredibile, ma è lo stesso Occhetto quello che oggi si commuove per lo spettacolo teatrale “Magazzino 18” con il quale Simone Cristicchi ha messo in scena le foibe e l’esodo istriano, giuliano e dalmata. Quei drammi che proprio la sinistra italiana, per molti decenni, non ha voluto vedere per non dover fare i conti con sé stessa e perché ottenebrata dall’ideologia, adesso inteneriscono colui che pose la prima pietra per la costruzione della sinistra postcomunista.

Occhetto, come giudica lo spettacolo di Cristicchi?

«Davvero molto bello. Trasmette un grande pathos per via di vicende drammatiche nelle quali i torti e le ragioni non stanno tutti da una parte. Si è lontani da una visione manichea. Anche se da un punto di vista della vicenda storica, infatti, nel grande capitolo del ’900, tra fascismo e antifascismo le colpe stanno dalla parte del primo, occorre dire, e nello spettacolo di Cristicchi ne ho trovato traccia, che lo stalinismo ha “macchiato” le idealità dello stesso antifascismo».

Dunque Cristicchi, nel raccontarci che gli esuli non erano fascisti ma italiani che fuggivano da una dittatura, ha usato un metro di giudizio oggettivo?

«Non c’è dubbio. Cristicchi ci dice che, al di là delle affermazioni ideologiche con le quali si combattono delle battaglie politiche, ci furono anche molti antifascisti che si ingannarono, perché non capirono fino a che punto si stava vivendo il dramma di un popolo e non uno scontro fra nostalgici del fascismo e non, come invece una certa propaganda cerca di far vedere».

C’è chi a Cristicchi vorrebbe togliere la tessera onoraria dell’Anpi.

«Un’iniziativa totalmente sbagliata. Il pezzo teatrale di Cristicchi inquadra tutta la vicenda nel torto storico fondamentale del fascismo. L’autore ci dice, fin dall’inizio, che se non ci fosse stato quel tipo di guerra e soprattutto quel tipo di odio nazionalistico che aveva suscitato le reazione dell’altra parte, probabilmente non si sarebbe arrivati a quel punto. Poi, naturalmente, mette in evidenza come anche la sinistra allora non capì fino in fondo quel dramma umano. Non fummo messi nelle condizioni di vedere che cosa realmente accadeva, di capire il reale dramma che si nascondeva oltre i pretesti ideologici».

“Magazzino 18” ha provocato uno “strappo” fra quanti sostengono che il negazionismo è da respingere sia a “destra” che a “sinistra”, e quanti continuano a ritenere che il male del fascismo non è uguale a quello, spesso definito “presunto”, compiuto ai danni degli esuli. Foibe comprese.

«Non si può negare la drammatica realtà delle foibe. Forse ci furono degli antifascisti jugoslavi onesti che rimasero impigliati in quelle vicende, si possono fare delle analisi articolate quanto si vuole, ma il dato di fatto è indubbio».

Per decenni questo capitolo della nostra storia è rimasto sconosciuto.

«Io stesso ho appreso del dramma delle foibe solo dopo la “svolta della Bolognina”. Prima non ne ero mai venuto a conoscenza».

Com’è stato possibile?

«Di fronte a una storia del ‘900 segnata dai gradi delitti e dalla conculcazione delle libertà da parte del nazifascismo, probabilmente si è cercato di non vedere, e di non ricercare, qualche cosa che poteva addolorarci. Il fatto che quella ricerca venisse poi svolta dalla parte fascista, ha provocato una reazione di tipo ideologico dall’altra parte. Il merito dello spettacolo di Cristicchi, ecco perché mi stupisco di certe posizioni, è che ha portato una vicenda drammatica e umana lontano dal furore degli opposti ideologismi, per ricollocarla nella sua drammatica realtà storica».

Lei ha pianto il giorno in cui, con la “svolta della Bolognina”, sancì la fine del Pci, ora si commuove assistendo alla messa in scena dell’esodo istriano. Se lo sarebbe mai immaginato?

«Ogni fatto umano, raccontato nella sua tensione reale, è destinato a commuovere. Non penso sia una commozione che fuoriesca da quell’orizzonte morale e ideale per cui mi sono commosso leggendo il Diario di Anna Frank o le Lettere dei condannati a morte della Resistenza. Ho ritrovato, sotto un segno diverso, lo stesso dramma pagato da innocenti».

La «guerra civile culturale» in Italia non è mai finita, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Se intorno a un cantante che mette in scena la «verità storica» sull’esodo istriano, giuliano e dalmata che «condannò» migliaia di italiani alla fame, alla sete e alla morte, si produce ancora uno «squarcio storico», allora siamo ancora lontani da una «storia condivisa». Con «Magazzino 18» andato in scena a Trieste, Simone Cristicchi racconta la verità stabilita dai documenti storici. La verità di italiani, non di fascisti, in fuga dalle «speciali purghe» titine e in cerca dell’agognata libertà. Una verità che a quanto pare può essere raccontata solo dopo una preventiva revisione del «copione» da parte dei «depositari» della verità. E se da una parte la onlus Cnj ha annunciato di aver raccolto qualche centinaio di firme di aderenti all’Anpi per chiedere che a Cristicchi venga ritirata la tessera onoraria dell’associazione dei partigiani, dall’altra c’è chi, fra i rappresentanti dei partigiani, nello spettacolo storico-teatrale di Cristicchi vede una ventata di verità. È il caso di Elena Improta, vicepresidente Anpi Roma, a cui abbiamo chiesto un commento sulla vicenda.

La vicenda Cristicchi ha riaperto una ferita che in realtà non si era mai chiusa. Che posizione ha l’Anpi sulla polemica innescata da «Magazzino 18»?

«Le posizioni nell’associazione non sono univoche. Mi sono informata, ho letto tutto e poi ho parlato con persone che hanno visto lo spettacolo di Cristicchi. Si tratta di iscritti al Partito democratico, persone che hanno avuto parenti deportati ad Auschwitz. Gente, insomma, vicina alla Resistenza e alla lotta di Liberazione. Ebbene, tutti mi hanno riferito che in quello spettacolo non hanno trovato assolutamente nulla di sconvolgente e che si tratta di una polemica assolutamente ideologica. Cristicchi ha solo voluto evidenziare che vanno condannate tutte le forme di violenza che hanno segnato la nostra storia. Non ci possiamo più nascondere».

Qualcuno, come la onlus Cnj, vorrebbe addirittura togliere la tessera onoraria dell’Anpi al cantante per aver ricordato le foibe e il destino di quegli esuli.

«Quelle associazioni e quegli esponenti territoriali dell’Anpi che hanno sottoscritto l’appello contro Cristicchi per il ritiro della tessera perché nel suo spettacolo ha ricordato le foibe, mi sembrano fuori dal mondo. Non c’è nulla di sconvolgente in quelle dichiarazioni. Ricordare quello che furono le foibe non è uno scandalo e nulla toglie al valore della Resistenza e alla lotta partigiana. Se memoria dev’essere, si ricordi tutto. È arrivato il momento di riconoscere che chi scappava da Tito non era fascista, ma cercava la libertà come la cercavano i nostri partigiani. Mi chiedo se chi ha rilasciato certe dichiarazioni abbia realmente visto lo spettacolo di Cristicchi. Il "negazionismo" va condannato a 360 gradi, anche quello sulle foibe».

C’è chi nell’Anpi ha una posizione molto rigida e si accoda alla richiesta di Cnj.

«Le opinioni di chi persegue rigidamente i valori dell’Anpi sono univoche nel senso che ricordano solo la violenza fascista, riconoscono e condannano solo quella, non quella delle foibe. Sto parlando della parte "conservatrice" che fa riferimento o che è vicina ai Comunisti italiani e a Rifondazione comunista. Sbagliano e lo ripeto. Ricordare le foibe non vuol dire negare la Resistenza o la lotta partigiana».

Accanto a Elena Improta c’è Mario Bottazzi, ex combattente partigiano ora nel comitato provinciale dell’Anpi romana. Va oltre, Bottazzi, e si chiede perché non si debbano ammettere nell’Anpi anche persone legate alla destra più moderna e antifascista. Sul «caso Cristicchi» abbiamo sentito anche Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell’Anpi che si chiede: «Chi, come e quando ha deciso di dare la tessera ad honorem a Cristicchi? In ogni caso l’Anpi toglie le tessere solo in casi eccezionali, solo in presenza di gravissimi fatti di indegnità». Sottolinea, il presidente dell’Anpi, che «si occuperà della cosa, lo farà la sezione locale, per verificare di che spettacolo parliamo e di questa tessera ad honorem. Sarà una verifica seria e non improvvisata». E poi prosegue: «In genere sono per rispettare le manifestazioni d’arte, prenderle per quelle che sono e poi discutere. Certe cose non si affrontano a picconate, vanno rispettate. Se poi uno fa uno spettacolo per negare l’esistenza delle camere a gas, allora ci si arrabbia. Se invece affronta qualcosa che è ancora oggetto di discussione, è diverso». Infine Smuraglia ammette che su quegli esuli italiani in fuga da una dittatura perché in cerca della libertà e non in quanto fascisti, «è arrivato il momento di discutere seriamente, di affrontare l’argomento nelle sedi opportune».

Cristicchi: "Canterò e reciterò le foibe. E già mi insultano". Il cantautore porta a teatro il dramma giuliano-dalmata: "A 50 anni di distanza è ancora un argomento scomodo", scrive Francesco Cramer  su “Il Giornale”.

Perché questo tema?

«Per emozionare e illuminare delle storie rimaste al buio».

Di cui pure lei sapeva poco?

«Pochissimo. A scuola il dramma degli esuli istriani e dalmati non viene raccontato».

Eppure lei ha fatto studi umanistici.

«Liceo classico a Roma. Ma, come molti, da ragazzino davanti alla targa "Quartiere giuliano-dalmata" mi chiedevo chi fosse il signor Giuliano Dalmata».

Un capitolo di storia che dovuto studiare da solo?

«Sì. Ringrazio la mia curiosità e la mia sete di sapere».

Quando è nata l'idea dello spettacolo?

«Un anno fa, in una libreria di Bologna, mi ha colpito un libro di Jan Bernas: "Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani". L'ho divorato».

Poi?

«Ho contattato l'autore su facebook: "Dobbiamo parlarci...". Siamo diventati amici e abbiamo cominciato ad approfondire la cosa».

Da lì è partita l'idea di raccontare a teatro le storie narrate nel libro?

«Sì. Poi ho chiesto di poter visitare il Magazzino 18 di Trieste, inaccessibile al pubblico. Lì ho varcato la porta della tragedia».

Il Magazzino 18: l'immenso deposito di cose mai ritirate dagli esuli istriani.

«Impressionante la tristezza di quel luogo. C'è di tutto: quaderni di scuola, posate, bicchieri, armadi e sedie; montagne di sedie».

Da qui il titolo dello spettacolo: Magazzino 18. Cosa vedremo a teatro?

«Le vicende umane di una pagina nera e dimenticata, attraverso il personaggio principale: un archivista del ministero degli Interni inviato al magazzino a mettere ordine».

E attraverso gli oggetti emergeranno le storie vere?

«Sì, in sei o sette brani con altrettante canzoni. Tutti episodi drammatici e commoventi».

Ci anticipi qualcosa.

«Ci sarà la storia della tragedia dei comunisti di Monfalcone, partiti per la Jugoslavia per costruire il "Sol dell'avvenire". Solo che dopo il loro arrivo Tito ruppe con Stalin e venne accusato di deviazionismo. Per i comunisti di Monfalcone non ci fu scampo: furono considerati nemici e molti finirono nel gulalg di Goli Otok-Isola calva».

Una faida tra compagni.

«Certo. Un sopravvissuto racconta: "Sono stato utilizzato come utile idiota della storia e ho contribuito a far andar via i miei connazionali. Solo dopo ho capito"».

Lei sa che raccontare queste vicende è politicamente scorretto?

«Lo so bene. Su twitter e facebook sono arrivati i primi insulti. Qualcuno mi ha pure dato del traditore».

Traditore? E perché?

«Perché il mio spettacolo "Li romani in Russia", dove racconto il dramma dei soldati italiani inviati dal Duce sul fronte sovietico, mi ha affibbiato la patente di uomo di sinistra».

Invece?

«Invece a me interessa raccontare cose accadute. La verità è che siamo un Paese ancora intossicato dall'ideologia; che tanti danni ha fatto nel passato. Tra cui strappare alcune pagine di storia del nostro popolo».

Che lei vuole riattaccare.

«Certo. La mia vuole essere un'opera di educazione alla memoria. Per non dimenticare. Mai».

Cristicchi: «Io e la mia compagnia siamo stati insultati». Il cantante parla dalla sua pagina Facebook e risponde a chi contesta il suo spettacolo «Magazzino 18», scrive Carlo Antini su “Il Tempo”. Simone Cristicchi prende la parola in prima persona. E lo fa dalla sua pagina Facebook. Il cantautore romano risponde a chi lo contesta. A chi contesta il suo spettacolo «Magazzino 18» (che dovrebbe andare in onda in seconda serata il 10 febbraio su Rai1) perché colpevole di essere antipartigiano. Cristicchi è un artista coraggioso e non si fa intimorire dalle minacce. Neppure da chi ha chiesto la sua espulsione dall’Associazione Nazionale Partigiani. «La tessera mi è stata donata dall’Anpi stessa nel 2010 come attestato di riconoscenza per lo spettacolo con il Coro dei Minatori di Santa Fiora - ha scritto Cristicchi sul suo Facebook - A quanto mi risulta, qualche mese fa la richiesta è già pervenuta all’Anpi, che ha risposto "No" al ritiro della tessera. Ora un’oceanica folla (un centinaio di firmatari) ci sta riprovando, con la benedizione del CNJ, che continua a violare leggi sulla privacy pubblicando mie corrispondenze private sul loro sito». Ma Cristicchi denuncia anche veri e propri episodi di violenza e intimidazione subìti negli ultimi mesi. «Senza pensare al fatto che io e la mia compagnia abbiamo subìto insulti e una sospetta ruota squarciata durante il tour in Istria - conferma il musicista - Bel modo di esporre le proprie idee! Complimentoni». Alla lunga prende il sopravvento la rabbia e la voglia di mettere in luce le contraddizioni del movimento. «Detto questo, se da una parte è deludente constatare cotanta presunzione, sono quasi contento che stiano uscendo allo scoperto questi atteggiamenti, le loro critiche campate in aria e la valanga di menzogne sul mio spettacolo. Così mostrano il loro vero volto, in fondo non così diverso dagli estremisti di destra che loro si vantano di "combattere". Si. Indossando le magliette "I love foiba". Da antifascista, sono schifato da tutto ciò. La tessera gliela rispedisco io! In posta prioritaria. Altrimenti, senza tante chiacchiere, si facciano loro uno spettacolo con la loro "sacrosanta" verità. In fondo, ma molto in fondo, siamo un paese democratico, no?»

Cristicchi racconta le foibe "Ora mi danno del fascista". Il cantautore porta in scena un musical sugli orrori dei comunisti titini e l'esodo degli italiani dalmati. "Sfido l'estrema sinistra: venite a vedermi", scrive di Simone Paliaga su “Libero Quotidiano”.

«"Chi è Giuliano Dalmata?" si chiede in una battuta del musical, confondendo due aggettivi per un nome e cognome, il funzionario inviato da Roma a catalogare il materiale dei profughi italiani provenienti dall’Istria e dalla Dalmazia. Probabilmente questi sono gli stessi pensieri che balzano alla mente quando a Roma ci si imbatte nel Villaggio giuliano dalmata», ci racconta Simone Cristicchi. In questi giorni che la parola negazionismo rimbalza ovunque il cantante si trova a Trieste per inaugurare il Salone del libro dell’Adriatico Orientale Bancarella (17-22 ottobre con oltre cento incontri) e per togliere il velo a una storia negata e dimenticata da anni. Si tratta di un altro negazionismo di cui pochi si ricordano: l’esodo di 300 mila italiani dalle terre italiane di Istria e Dalmazia alla fine della Seconda guerra mondiale a causa dell’occupazione jugoslava e con il beneplacito inglese. Per riportarlo al centro dell’attenzione al Politeama Rossetti di Trieste il 22 ottobre, con repliche fino al 27, verrà presentato in anteprima nazionale lo spettacolo di Simone Cristicchi e Jan Bernas Magazzino 18, per la regia di Antonio Calenda.

Cristicchi, prima che le venisse in mente di scrivere il musical sapeva di questo episodio storico?

«Vagamente. È un argomento che non si studia a scuola. L’ho conosciuto attraverso un libro che ho trovato a Bologna. Si tratta di “Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani” (Mursia) di Jan Bernas  che poi è diventato il coautore del musical. Tra quelle pagine ho trovato testimonianze di coloro che hanno vissuto l’esodo, il controesodo di molti monfalconesi poi andati in Jugoslavia e finiti a Goli Otok… Questi fatti nessuno li conosce».

Che cosa è il Magazzino 18?

«Mi trovavo a Trieste per fare delle ricerca sulla Seconda Guerra mondiale e ho sentito dell’esistenza di un deposito dove si trovano accatastate le masserizie degli esuli, il Magazzino 18. Dopo un po’ di traversie sono riuscito a visitarlo. E mi è sembrato di rivedere Ellis Island, l’isola dove gli emigrati italiani venivano tenuti in una sorta di quarantena prima di poter sbarcare negli Stati Uniti».

Perché ha pensato di ricavare uno spettacolo dalle vicende dell’esodo?

«Perché è una storia che merita di essere raccontata. Non è stato un lavoro di poco conto. Tra ricerche e scrittura mi ci è voluto un anno di fatiche. Prima ho cominciato a lavorare al testo e poi ne sono uscite anche le canzoni… Si tratta di un musical civile con una scenografia imponente, un coro, un’orchestra. Un lavoro che senza l’aiuto del teatro stabile non avrei potuto realizzare».

Cosa ha provato quando è entrato per la prima volta nel Magazzino 18?

«Avevo l’impressione di trovarmi in un luogo quasi sacro… era ricolmo degli oggetti degli italiani che erano stati costretti a lasciare le loro terre in Istria e Dalmazia. Mobili, poltrone, attaccapanni, tutto insieme. I numeri della tombola si trovavano a fianco di un cuscino. Su ogni sedia era appiccicato il nome del proprietario… era come se questi oggetti parlassero. Avevo l’impressione si essere immerso in una atmosfera fiabesca. In questo magazzino era finito il contenuto di un’intera città. È per questo che ho deciso di ambientare il musical dentro quelle pareti, dentro quel Magazzino».

La canzone che lo racconta ha scatenato una valanga di polemiche…

«Quando l’ho pubblicata sono rimasto colpito dalla quantità di critiche dell’estrema sinistra che mi sono piombate addosso. Se prima per i temi che toccavo mi consideravano di sinistra a un tratto sono diventato un fascista. Io invece sono un artista, voglio raccontare storie. Non mi interessano questi giochi politici. Mi sento libero di occuparmi delle storie che voglio. Più mi attaccano e più io mi incaponisco. Sfido queste persone che mi accusano. Spero vengano a teatro e si ricredano. Nel testo non c’è niente di revanscista. È equilibrato e intende raccontare un pezzo dimenticato della nostra storia di italiani».

Chi ha strumentalizzato questa vicenda penalizzandone la diffusione?

«La strumentalizzazione politica è stata fatta dall’estrema destra come dall’estrema sinistra. Negli anni Settanta gli uni lo hanno impiegato come mezzo di propaganda mentre a sinistra provavano a giustificarlo. Ma il giustificazionismo è pericoloso. Si può finire con avallare qualsiasi cosa».

Cosa ha provato la gente non ideologizzata… quella che non sta né da una parte né dall’altra?

«Una reazione di vergogna. Un po’ quella che ho provato io quando ne sono venuto a conoscenza per la prima volta. Ci si chiede come sia possibile che questa tragedia sia stata rimossa dalla nostra attenzione, che se ne trovino scarse tracce anche nei manuali scolastici…».

Ha intenzione di continuare in questo filone artistico?

«Certo. È un linguaggio ideale per raccontare la nostra storia. Il teatro civile attira un pubblico di intellettuali mentre la musica  è più coinvolgente. Dai bambini agli anziani, tutti possono godere dello spettacolo e imparare qualcosa sulla storia italiana. E se dovesse funzionare questo spettacolo potrei anche continuare, magari occupandomi del Risorgimento».

DI FRONTE A TUTTO QUESTO TROVIAMO UNA TV SPAZZATURA CHE CENSURA E DISINFORMA.

Quanto buonismo nelle nostre fiction. Alcune serie tv americane, così come i drammi storici inglesi di Shakespeare, celebrano il potere. Ma almeno sono fatte bene e vengono ricordate. Da noi, invece, si vedono acritiche agiografie di santi e padri della patria, scrive Roberto Saviano su “L’Espresso”. La propaganda filogovernativa è sempre esistita e ha sempre utilizzato i mezzi più popolari, quelli più seguiti dal pubblico, quelli che spesso la critica di settore per snobismo o per acritico entusiasmo non ha saputo interpretare, se non a distanza di anni, talvolta decenni, altre addirittura a distanza di secoli. Questa riflessione parte da un articolo molto interessante pubblicato su Jacobin (un magazine “of the American left”) tradotto in Italia da Internazionale. “La fiction al potere” è l’argomento della riflessione e davvero credo valga la pena provare a comprendere come tutto ciò che sia di massa diventi immediatamente strumento utile per i governi, soprattutto nei momenti di transizione, di momentanea crisi o quando c’è necessità di giustificare azioni che agli occhi degli elettori potrebbero risultare incomprensibili. L'articolo si concentra su due serie televisive statunitensi: “24” e “Homeland”. La prima è stata prodotta dal 2001 al 2010 e riflette “lo stile cowboy dell’amministrazione Bush”; la seconda, a partire dal 2010, - i creatori delle due serie sono gli stessi - è, invece, un prodotto dell’era Obama. Osservare queste due serie è utile perché mostra quanto sia determinante l’influenza delle agenzie governative statunitensi sui prodotti culturali, che dal 2001 in poi si concentrano sostanzialmente su questioni legate alla sicurezza nazionale. Ma come spesso accade l’osmosi è perfetta: se da un lato le piccole concessioni da parte degli autori portano alla possibilità di poter accedere a location altrimenti inaccessibili, dall’altro il riuscire a inventare nuovi scenari inediti per attentati e pericoli imminenti, mette in guardia gli apparati di sicurezza cui troppo spesso manca la fantasia per poter prevedere il futuro. Incredibile: le fiction che suggeriscono ai governi dove cercare il pericolo e come eventualmente neutralizzarlo. Ma la propaganda oggi ha il sapore del complotto, solo del complotto, e quando diventa palese, tutto il resto finisce per perdere spessore. Questo mio non è un invito ad apprezzare la capacità che i governi hanno di piegare i prodotti culturali ai loro scopi - vale la pena sottolinearlo -, ma piuttosto all’osservazione critica anche dei prodotti culturali che ci piacciono cercando di comprendere se attirano la nostra attenzione per loro qualità intrinseche o per la capacità che hanno di intercettare lo Zeitgeist o il consenso dei governi. Insomma, non tutto ciò che ci piace è “buono” o eticamente corretto. Non deve per questo smettere di piacerci, ma spingerci a riflettere e a trovare gli strumenti per godere di un prodotto sapendo che è legato al contesto in cui nasce. A questo punto cerchiamo di recuperare, nella nostra memoria, altri lavori che sono stati propaganda ma che il tempo ha trasformato, senza sbagliare, in opere d’arte, in capisaldi della cultura mondiale. I drammi storici di Shakespeare sono forse l’esempio massimo di come si sia potuto celebrare il potere dei Tudor senza blandirlo e senza servilismo. I suoi ritratti dei Plantageneti - re, regine e nobili che hanno governato e rovinato l’Inghilterra - sono talmente potenti che ormai è difficilissimo distinguere la realtà dal mito. E quando, a settembre 2012 sotto un parcheggio a Leicester, sono stati ritrovati i resti di Riccardo III, il più terribile tra i re d’Inghilterra, ci si domandava se lo studio delle ossa non avrebbe per caso rivelato le stesse spaventose sembianze che Shakespeare aveva descritto nell’omonimo dramma, ovvero quelle di un uomo deforme, quelle di “un ragno gobbo”. Che gli Shakespeare di oggi siano i creatori delle serie tv farà sorridere, ma se pensiamo alla diffusione e alla popolarità del teatro in epoca elisabettiana a Londra, il paragone, per quanto incredibile, potrebbe anche essere calzante. E non è detto che nella miriade di produzioni non ce ne sia qualcuna che verrà ricordata a distanza di secoli, magari riadattata, attualizzata. Mi sorge invece il dubbio che nulla resterà delle tante acritiche agiografie di santi e padri della patria diffuse in Italia a mezzo fiction negli ultimi anni. Ritratti buonisti, senza chiaroscuri e sfumature - che dovrebbero costituire il senso di ogni narrazione - immortalmente liquidati dalla geniale caricatura di “Padre Frediani” che gli amanti di Boris, ricorderanno. Con amaro piacere.

Dopo l'articolo di Roberto Saviano: " Quanto buonismo nelle nostre fiction ", l'attore Beppe Fiorello ha replicato inviando questo messaggio su Twitter. Pubblichiamo qui la sua opinione. Capisco la critica e le osservazioni sulla fiction italiana, ma come ho detto altre volte non accetto generalizzazioni. Personalmente ho raccontato storie importanti e talvolta scomode. Il manifesto allegato nel tweet precedente riguarda un tv Movie di circa sette anni fa. Raccontò la storia (insabbiata per vent'anni) di Graziella Campagna. Tutti sapevano nessuno parlava e proprio per questo la fiction venne censurata dall'allora Ministro della giustizia che disse: "Questa fiction turba la serenità dei magistrati". Assurdo.

Il tweet di Beppe Fiorello: Quella censura però non venne denunciata da nessuno. Soltanto io, il regista, la stessa Rai e De Cataldo (che non c'entrava nulla con il progetto) lottammo affinché quella scomoda verità andasse in onda. Furono oltre sette milioni i telespettatori che poterono constatare quanto accadde alle spalle di una famiglia che non c'entrava nulla con il sistema Mafia e perse atrocemente una figlia di diciassette anni. Come questa, ho anche raccontato L'Uomo Sbagliato, la vera storia di Daniele Baroni, dieci anni di carcere per un errore giudiziario. E senza risparmiare chi commise l'errore. Anche qui si sapeva ma non si parlava. Solo per dire che la Fiction italiana ha delle eccellenze, e mi piacerebbe però far notare che in America oltre alle due serie citate nell'articolo (24 e Homeland), ce ne sono (in maggioranza) di totale buonismo, violenza e inutilità sociale. Difendo il mio mestiere perché lo faccio con passione e verità, ma non nascondo che la nostra fiction ha realmente bisogno di trovare una strada nuova. Io ci sto lavorando.

Dal governo pioggia di milioni al cinema "rosso", scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Ce l’ha fatta Walter Veltroni, che al suo esordio da regista cinematografico ha strappato il prezioso riconoscimento di «opera di interesse culturale» per il docufilm Quando c’era Berlinguer prodotto dalla Palomar di Carlo Degli Esposti (la stessa del commissario Montalbano). Non ce l’ha fatta invece Sabina Guzzanti, con la sua Trattativa che purtroppo per lei non pizzica solo Silvio Berlusconi, ma pure Giorgio Napolitano. La sottocommissione del ministero dei Beni culturali guidato da Massimo Bray non le ha concesso il riconoscimento culturale, che Veltroni è riuscito a strappare per il rotto della cuffia (17° sui 18 ammessi). Meglio di Veltroni è riuscito un altro esordiente che fa riferimento alla medesima area politico-culturale: Ascanio Celestini, che ha ottenuto anche 150 mila euro per produrre il suo Viva la sposa. Poco prima di Natale il ministero dei Beni culturali ha sfornato una bella pioggia di contributi diretti e indiretti attraverso i riconoscimenti che faranno incassare abbondanti agevolazioni fiscali (l’interesse culturale a questo serve). Fra i fortunati che hanno conquistato anche la dichiarazione di eccellenza che il ministero rilascia ai film di essai c’è pure La mafia uccide d’estate di Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, la iena nota anche per essere il compagno di Giulia Innocenzi, da anni spalla televisiva di Michele Santoro. Il giudizio di eccellenza concesso all’opera prima di Pif consente infatti di ottenere vantaggi fiscali diretti e indiretti e anche un premio in denaro alle sale che lo trasmettono, calibrato sulla lunghezza del periodo in cui esso rimane in  programmazione. È un attestato che nell’ultimo anno e mezzo è stato concesso a grandissimi registi internazionali, come Roman Polanski (Venere in Pelliccia), Quentin Tarantino (Django), Ang Lee (Vita di P), Steven Spielberg (Lincoln), Martin Scorsese (Hugo Cabret) e fra gli italiani Paolo Sorrentino (La grande bellezza), Marco Bellocchio (Bella addormentata) e Giuseppe Tornatore (La migliore offerta). Nella doppia delibera di finanziamento della sottocommissione a dicembre ci sono per altro quasi tutti gli habituè della cassa del ministero. Ottiene un milione di euro Matteo Garrone per Il racconto dei racconti, trasposizione cinematografica de Lo conto de li cunti. Novecentomila euro a Ozpetek per il suo Allacciate le cinture, ottocentomila euro a testa per firme sicure del cinema italiano come Ermanno Olmi (Cumm’è bella ‘a muntagna stanotte) e i fratelli Paolo e Vittorio Taviani (Meraviglioso Boccaccio). Ha ottenuto 300 mila euro anche Carlo Verdone (solo per la distribuzione) per il suo Sotto una buona stella, e centomila di più ne ha strappati Michele Placido con La scelta. Non mancano Francesca Archibugi (Il nome del figlio), che ottiene 500 mila euro, né Marco Bellocchio (La Prigione di Bobbio) e Cristina Comencini (Latin lover) che hanno incassato 400 mila euro di contributi pubblici. Fra i nomi noti strappa 350 mila euro Abel Ferrara per un film su Pasolini, stessa somma ottenuta dal regista più amato dalla Lega, Renzo Martinelli con il suo The missing paper. Hanno invece chiesto e ottenuto al posto dei contributi il riconoscimento di film di interesse culturale sia Nanni Moretti per il suo prossimo Margherita che Carlo Vanzina per Sapore di te, appena uscito nelle sale e perfino Enrico Vanzina per Un matrimonio da favola. È proprio un bello scherzo fatto da Bray, quello di mettere appaiati sullo stesso altissimo piano il cinema di Moretti e quello dei Vanzina. Il riconoscimento di interesse culturale è stato ottenuto a dicembre anche da Giovanni Veronesi (Una donna per amico) e da Paolo Genovese (Tutta colpa di Freud). Bocciati perché è stato ritenuto assai scarso il valore del soggetto e della sceneggiatura sia la Guzzanti, che ha ottenuto 28 punti nella valutazione finale, ben al di sotto del minimo di 36 utili ad essere presi in considerazione per finanziamenti e riconoscimenti, e anche Asia Argento (figlia del maestro dell’horror Dario), che ha proposto il suo Incompresa. Non è stato appunto compreso dalla sottocommissione ministeriale di Bray, che comunque ha assegnato a soggetto e sceneggiatura il punteggio di 34, a un soffio dalla sufficienza, e ben superiore a quello ottenuto dall’altra silurata eccellente. Grazie a questa piccola rivoluzione nelle classifiche tradizionali dei beniamini del ministero, qualche maldipancia a sinistra verrà certamente vissuto. Può diventare un caso politico quella sliding door grazie a cui è entrato Veltroni ed è uscita di scena la comica più amata dall’ala militante. Può attutire il colpo l’occhio di riguardo mostrato per Pif, ma non toglierà il sospetto su una bocciatura che sembra avere una fisionomia più politica e istituzionale che stilistica.

La notizia è che Film commission della regione Toscana è riuscita a elargire decine di migliaia di euro per finanziare il filmino di due indagati in diverse inchieste giudiziarie, scrive Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. Il consigliere regionale di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli, quando apprende la vicenda, scuote la testa: «Pensi che la Regione Toscana per mettere a posto i conti ha chiesto ai suoi cittadini di pagare, oltre al ticket, una gabella di 10 euro, con la scusa della digitalizzazione, per tac, radiografie e altri esami diagnostici anche se i pazienti sono poveri o malati terminali». La nostra storia riguarda Paolo Oliverio, commercialista quarantasettenne con la passione per gli affari con i padri Camilliani e gli 007, arrestato a novembre per sequestro di persona nell’ambito di un’inchiesta per riciclaggio. Oliverio dal gennaio 2013 è socio della Poyel produzioni, con capitale sociale di 100 mila euro, azienda trasferita a Napoli a ottobre e infine messa in liquidazione nel dicembre 2013, un mese dopo l’arresto di Oliverio. Nonostante la breve esistenza, la Poyel ha fatto in tempo, si apprende da Internet, a produrre il film «Giallo toscano», un thriller girato a Buonconvento (Siena), realizzato insieme con l’Accademia dei risorti, società di produzione cinematografica con sede proprio nel piccolo comune senese. Grazie al trailer si scopre pure che il film è stato realizzato con il contributo della Regione toscana e della Toscana film commission. Che ha versato, secondo i produttori, 30 mila euro. La trama è semplice: una mattina di giugno due tartufai in cerca di tuberi trovano il cadavere di una giovane archeologa. Inizia a questo punto la caccia all’assassino. Al film ha contribuito con la propria partecipazione gran parte della popolazione del paese. L’idea è stata del presidente dell’accademia, Lorenzo Borgogni, per quasi vent’anni influente portavoce di Finmeccanica, originario di Siena e residente a Buonconvento. La figlia Benedetta ha fatto l’aiutoregista. Anche Borgogni, come Oliverio, ha avuto le sue traversie giudiziarie: indagato nel 2011 nell’inchiesta su Finmeccanica, ha patteggiato una pena di tre mesi di reclusione per finanziamento illecito ai partiti e resta sotto processo per altri reati; attualmente è coinvolto anche nell’indagine sulle presunte mazzette pagate per la fornitura degli autobus di Roma Capitale. Tutto questo non ha impedito alla Regione Toscana di finanziare il progetto. «Ma il film di Buonconvento con Oliverio non c’entra nulla» puntualizza Borgogni con Libero. «È stato realizzato nel 2012 e la Poyel è nata nel 2013». Eppure nei titoli c’è scritto che è stato prodotto dalla Poyel: «In realtà l’abbiamo inserito in quel catalogo per vedere se si poteva domandare qualche contributo con questa nuova società. I soldi dalla Toscana film commission li abbiamo ottenuti come Accademia dei risorti, di cui sono presidente: 25-30 mila euro in tutto». La toppa sembra peggiore del buco: il pluriindagato Borgogni ottiene denaro pubblico per un’opera sul suo paese e poi con una società affidata a Oliverio e che millanta di aver prodotto un film non suo prova a ottenere altri finanziamenti. Ma come approda il fiscalista alla Poyel? «L’abbiamo fondata io e il mio amico Alfonso Gallo: lui ci ha messo dentro suo fratello e io Oliverio» risponde Borgogni. In effetti alla camera di commercio si apprende che soci al 50 per cento della Poyel sono la General holding company spa dei Gallo e Reb venture srl, in cui sono soci Borgogni e Oliverio, che possiede il 5 per cento delle quote. I due sono insieme anche nella System plus srl. «Nei giorni scorsi, dopo aver letto le notizie sulle presunte attività illecite di Oliverio abbiamo fatto dei controlli e scoperto numerose operazioni sospette e non autorizzate da Borgogni sui conti delle due società» avverte l’avvocato Stefano Bortone, difensore dell’imprenditore. «Per questo abbiamo presentato denuncia contro Oliverio per appropriazione indebita». L’ennesimo colpo di scena nella vicenda giudiziaria del fiscalista romano. Eppure i due erano diventati amici, dopo essersi incontrati per la prima volta tre anni fa: «L’ho conosciuto nel settembre 2010 quando ero ancora in Finmeccanica e cercavo un commercialista. Me lo presentò come professionista dello studio Lupi, un compaesano, un ex giocatore della nazionale di calcio che lo conosceva dai tempi di Milano» ricorda Borgogni. Dopo poco i due si persero di vista. Per poi rincontrarsi qualche mese più tardi: «Quando uscii da Finmeccanica Oliverio mi propose di realizzare un’attività immobiliare perché era in contatto con questa fondazione dei Camilliani che aveva molti appartamenti da valorizzare. Per questo abbiamo fondato la Reb venture, io ci ho messo i soldi, lui faceva l’amministratore. Successivamente mi ha detto che erano stati fatti dei compromessi per delle vendite, ma io non so come sia andata a finire». I due condividevano anche un ufficio a Roma, in via Gregoriana: «Ma io ci sono entrato una sola volta, poco prima che arrestassero Oliverio» aggiunge l’ex portavoce di Finmeccanica. Borgogni frequentava pure la casa del commercialista in piazza di Spagna: «Uno splendido appartamento all’angolo con via del Babuino. Ricordo che una sera a cena c’era pure padre Renato Salvatore (superiore generale dei Camilliani, arrestato insieme con Oliverio per l’accusa di sequestro di persona ndr); il commercialista nove volte su dieci parlava dei Camilliani, delle loro proprietà a Casoria, Palermo, Messina, mi chiedeva se avessi dei manager. Gliene trovai uno che lui, però, non ricontattò mai, perché cambiava continuamente idea. Il personaggio era strano, io me ne accorsi dopo un po’: per esempio non si presentava agli appuntamenti, trovando le scuse più assurde». Come quando Borgogni gli fece acquistare una casa a Montalcino del valore di 700 mila euro: «Io gli fissavo gli appuntamenti con l’architetto, con l’ingegnere per la ristrutturazione  e lui a volte non si presentava nemmeno». Con i commensali, Oliverio parlava anche del suo amore per le auto: «Girava in Mini, in Range Rover, ma aveva una grande passione per i rally. Ultimamente aveva fatto una gara a San Marino, dove aveva rotto la macchina». Forse quella Lancia Delta che gli investigatori sguinzagliati alle sue costole nel 2012 hanno imbottito di microspie e che Oliverio aveva acquistato di seconda mano, pagandola 9.400 euro. Il commercialista non aveva rapporti solo con i preti, ma anche con diversi appartenenti alla Guardia di finanza e ai servizi segreti. «Lui mi parlava di Giorgio Piccirillo (dal 2008 al 2012 direttore dei servizi segreti interni, l’Aisi ndr) e citava pure Paolo Poletti (ex numero 2 dell’Aisi ndr)» ricorda Borgogni. Due nomi già emersi nelle indagini. Ma ci sarebbero molti altri personaggi influenti nell’agenda di Oliverio. Uno dei collaboratori del fiscalista, arrestato con lui a novembre, davanti al gip ha dichiarato: «Io mi fidavo di Oliverio perché quando gli squillava il telefono io vedevo nomi noti. Vantava amicizie con A. B., ma più semplicemente con personaggi di alto rango istituzionale, con il presidente di Finmeccanica, con Lorenzo Borgogni. (…) Mi faceva vedere le telefonate forse per aumentare il suo credito nei miei confronti, io ancora non so chi sia questa persona». Un dubbio che perplime pure gli inquirenti.

Chi taglia i fondi spesi male non è nemico della cultura. Repubblica invoca la protezione del cinema italiano come avviene in Francia: ma così sarebbero finanziate solo le pellicole della solita matrice ideologica, scrive Renato Brunetta su “Il Giornale”. Sono tornati con i loro costumi damascati, la parrucca incipriata, la lingua forbita. Invocano l'intangibilità di un privilegio sacro: il cinema non si tocca! Così sabato Francesco Merlo su Repubblica ha stabilito che esiste un tempio intangibile ai comuni cittadini che, poveretti, sono costretti a fare i conti con il mercato globale. Gli imprenditori del tessile, e gli artigiani del mobile si arrangino. Non pretendano di dar lezioni ai sacerdoti del Sancta Sanctorum, il quale va preservato da mani immonde e venali: è la cultura, figlioli! Essa va difesa dai barbari americani e asiatici, da Hollywood e da Bollywood. La cultura, certo, va difesa. Senza cultura non esiste neanche l'uomo come tale. Il fatto è che bisogna pur stabilire che cos'è la cultura, e chi tra i suoi protagonisti meriti una tutela eccezionale. Ciò che è insopportabile è l'ipse dixit. È insopportabile e niente affatto democratico che Francesco Merlo ed altri pretendano di trasferire in Italia la legislazione francese sul cinema, e vogliano sigillare questo privilegio nella legislazione europea. Diciamolo: è l'eterna pretesa del carrozzone dello spettacolo e dei suoi tenutari di erigersi da se stessi a sovrani del mondo. Lo conosciamo quel vagone di primissima classe. Era dipinto di nero sotto il fascismo, si ritinteggiò di rosso e si lamenta sempre perché vorrebbe più rifornimenti e più riverenze al passaggio. Cambiano i regimi, ma non la rendita di chi vi si è accomodato con il biglietto pagato dalla gente comune. Ragioniamo da persone civili. Non è in discussione se finanziare la cultura: si tratta di stabilire cosa e come. I principi sono fissati dall'articolo 9 della Costituzione, che recita: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». L'attribuzione del compito di tradurre questi principi in scelte operative, e la fissazione della forma e dei modi di svolgimento di questo compito, come è accaduto per diverse altre previsioni costituzionali, ha subìto varie mutazioni. Alcune felici, altre meno. Un po' di storia. Solo nel 1975 (governo Moro-La Malfa) fu istituito un ministero con compiti specifici, il ministero per i Beni culturali e ambientali, per volontà di Giovanni Spadolini, cui fu affidato. Nel 1998 nacque il ministero per i Beni e le attività culturali. Il passaggio della cura dello spettacolo da un ministero con finalità economico-industriali importanti (sport, turismo, spettacolo) a un ministero che doveva promuovere attività culturali non fu certamente casuale e costituì la premessa per le successive confusioni ideologiche. È bene ripartire dalla prima domanda: perché le arti e la cultura devono essere sussidiate? E ancora, assieme alle arti e alla cultura deve anche essere sussidiato lo spettacolo? Quando lo spettacolo - quello dal vivo e quello cinematografico - diventa cultura? L'arte e la cultura sono sussidiate in tutto il mondo. Per quanto riguarda lo spettacolo, in Italia gli aiuti statali sono anteriori all'istituzione, negli anni Ottanta, del Fus (Fondo unico per lo spettacolo). Per quanto riguarda il cinema, è utile oggi ricordare che nel 1963 fu introdotta una norma che subordinava l'erogazione del sussidio al divieto di realizzare opere in lingua inglese. La smentita venne da chi più se ne intendeva. Dino De Laurentiis ha più volte dichiarato che la decisione di trasferire la sua attività negli Stati Uniti fu causata da quella innovazione normativa. A questo punto s'impone un po' di sana teoria economica. Data la distribuzione esistente del reddito, i mercati competitivi soddisfano in modo ottimale, nella gran parte delle circostanze, le preferenze dei consumatori. In base a ciò ci sono due argomenti principali, e un terzo che li rafforza, per giustificare i sussidi pubblici. Il primo argomento ha a che fare con l'efficienza allocativa dei mercati. In presenza di certe imperfezioni che generano un'esternalità (negativa o positiva), una qualche forma di «fallimento di mercato» conduce a un'allocazione delle risorse non ottimale, che è l'oggetto dell'intervento pubblico correttivo. Un secondo tema ha a che fare con l'equità della distribuzione del reddito. La tesi può essere usata a sostegno di un intervento pubblico se si dimostra che la distribuzione ineguale del reddito rende l'arte e la cultura inaccessibili ai poveri. Il terzo argomento ha a che fare con il concetto di bene meritorio. I beni meritori sono quei beni che la società ha deciso, per qualche motivo, che sia desiderabile fornire in quantità maggiori di quelle che i consumatori acquisterebbero ai prezzi di mercato (senza sussidio). Per i beni artistici e culturali si può argomentare che l'ignoranza delle arti priva molte persone di esperienze da cui trarrebbero grande giovamento. In conclusione, il sussidio pubblico è giustificato essenzialmente dal fallimento del mercato nel produrre la quantità socialmente ottimale di arte e cultura. Ecco perché il finanziamento delle attività culturali pone non pochi problemi. Si può, infatti, decidere di sussidiare l'industria cinematografica semplicemente per proteggere gli occupati di quel settore giudicato per qualche motivo un settore sensibile, così come si può decidere di effettuare investimenti infrastrutturali utili al settore o sostenere scuole di formazione. Il cinema italiano sarà competitivo solo con produttori che rischiano in proprio, non con produttori che si limitano ad amministrare l'obolo pubblico. Il che vale in generale. Concludendo, aver mescolato «ministerialmente» la cultura e lo spettacolo ha complicato e confuso le cose. Ha prodotto una grande e ignobile mistificazione: ogni volta che si chiede di tagliare il denaro speso male (e cioè di fare più efficienza, produttività, mercato, trasparenza, qualità e merito) c'è subito qualcuno (interessato) che ti taccia d'essere un becero nemico della cultura. Oggi la protezione del cinema italiano, applicando la legge francese e «repubblichina» alla Francesco Merlo, porterebbe all'aumento dei biglietti dei cinema per le opere non europee. Con il risultato che chi non ha i gusti raffinati di Francesco Merlo, che si imbeve di Godard e squisitezze sublimi, si vedrebbe costretto per risparmiare a entrare nelle sale dove si cimenterebbe con qualche sicuramente interessante opera prima o seconda di allievi selezionati dai kapò del cinema italiano, tutti di una certa matrice ideologica... Vogliamo essere liberi di essere noi stessi, senza essere educati dai Merlo incipriati. Come diceva Pirandello, «gente volgare, noialtri...».

A proposito di stampa, sinistra e finanziamento pubblico, scrive Jacopo Venier, direttore di Libera.Tv. Solidarietà al Manifesto e a Liberazione ma...In questi giorni in tantissime redazioni di giornali politici e cooperativi si vivono ore drammatiche. Il quotidiano Terra è stato il primo a cadere, poi è venuto il turno di Liberazione ed ora è il Manifesto a dover piegarsi alla liquidazione coatta. Anche l’Unità è in pericolo mentre a Nuova Ecologia non si pagano gli stipendi. Decine di altre testate sono sull’orlo del baratro. E’ questa la conseguenza del taglio drastico dei finanziamenti all’editoria deciso dal Governo Berlusconi e confermato da Monti. Con la scusa di riordinare il settore, tagliando le “testate finte” che servono solo per ottenere il finanziamento pubblico, si sta producendo una moria di “testate vere” che fanno informazione spesso scomoda. Ovviamente la prima risposta necessaria è la piena solidarietà con queste testate, con i professionisti che le realizzano, con la loro battaglia per difendere, non solo il loro lavoro, ma un pezzo del pluralismo e quindi della democrazia. Ieri la direttrice del Manifesto, in un drammatico video-editoriale, si è appellata ancora una volta ai propri lettori perché comprino il giornale in edicola ed ha dichiarato che questa lotta per la sopravvivenza è lotta politica. Sono perfettamente d’accordo con lei MA vorrei aggiungere alcune considerazioni di fondo. Perché siamo arrivati a questo punto? La crisi dell’editoria di sinistra non è solo finanziaria ma, come in qualche modo ammette Norma Rangeri, prima di tutto politica. Esistono giornali come Il Fatto che sono nati proprio quando altri entravano definitivamente in crisi. Le testate, in un sistema funzionante, dovrebbero nascere e morire non perchè ricevono o meno finanziamenti ma se sono capaci di rispondere ad un bisogno dei lettori, degli ascoltatori, dei telespettatori, di coloro che si informano sul web. Invece nessuno affronta questa crisi politica delle testate della sinistra quasi che sia un eresia dire che come i partiti anche il giornalismo di sinistra ha perso nel tempo la sua “connessione sentimentale” con il proprio popolo. Se servono appelli drammatici per far partire sottoscrizioni, vendite ed abbonamenti il problema invece esiste ed è grave. Parliamone. Parliamo anche poi del fatto che esistono anche centinaia di esperienze editoriali, di redazioni formali ed informali, di luoghi e di professionalità dove si produce informazione di qualità senza alcun finanziamento pubblico. Questo è un punto delicato. Da anni infatti, giustamente, le testate che rientravano nel quadro del finanziamento pubblico ci chiedono di unirci a loro nel pretendere che lo Stato contribuisca al pluralismo finanziandole. E’ una battaglia giusta MA solo se vediamo che forse il finanziamento non è una soluzione ma parte del problema. Nell’immediato è evidente che è necessario rifinanziare queste testate per impedire che spariscano di colpo esperienze importantissime, storiche, di valore culturale oltre che politico. Però è possibile che i giornali e le testate della sinistra possano vivere solo con i soldi dello Stato? Vivere di finanziamento pubblico significa essere impiccati ai governi e, nel tempo, assumere comportamenti non sempre compatibili con la propria missione. Questo vale sia per i giornali che per i partiti. Dice la direttrice del Manifesto che ora come non mai i suoi lettori devono comprare il giornale. Ha ragione. Sono i lettori la forza di una testata e questa deve rapportarsi e misurarsi con il loro numero. Tutte le testate hanno bisogno del sostegno dei loro lettori. Ma quelle che non hanno un finanziamento pubblico, nè possono sperare di averlo, hanno bisogno dei loro lettori più delle altre. I lettori ed il loro numero non sono una variabile indipendente, un dettaglio. Se una testata parla a tremila persone questo è il suo peso. Lo dico perchè non sempre è chiaro se i giornali sono stati fatti per i lettori, per i giornalisti che li fanno, o per chi procurava o potrà eventualmente in futuro assicurare il finanziamento. Lo dico perchè al netto della storia, della influenza, della presenza nelle rassegne stampa e nelle mazzette non sempre la diffusione delle testate e dei loro contenuti è quella che la storia ci consegna soprattutto nell’epoca di internet. Le imprese editoriali, anche quelle di sinistra, devono avere anche una loro sostenibilità economica. Il direttore di Liberazione Dino Greco, in una intervista che gli ho fatto per Libera.tv, diceva che le vendite e le sottoscrizioni, pur generose, non riusciranno mai a sostenere il giornale. Beh questo è un problema, un problema serio che non trova risposta dal finanziamento pubblico. Se un giornale non può vivere di vita propria è sempre esposto al rischio di doversi piegare per sopravvivere. A Greco rispondo che in Italia esiste un mercato immenso per la stampa di sinistra. Ci sono oltre tre milioni di persone che si considerano di sinistra a cui vendere i nostri prodotti. Dobbiamo interrogarci su come farlo e soprattutto su quali prodotti queste persone possano essere interessate a comprare. Questo è molto, molto chiaro a chi deve far quadrare un bilancio senza contare che sulle proprie risorse. Noi (testate e giornalisti) dobbiamo cambiare e cambiare molto. Al contempo dobbiamo mandare al “nostro popolo” un messaggio chiaro. Se la sinistra vuole la sua stampa deve sapere che se la deve pagare. Un tempo questo era a tutti chiarissimo. Nessuno avrebbe pensato che De Gasperi finanziasse la stampa comunista. Ed allora si facevano le feste dell’Unità, gli abbonamenti, le distribuzioni e la raccolta pubblicitaria casa per casa, negoziante per negoziante. Reperire soldi per la stampa era il cuore della militanza politica. Non sarà che anche a causa del finanziamento pubblico questa pratica, che chiariva la natura intrensicamente partigiana della professione giornalistica, è andata perduta sostituita dalla passiva attesa dei soldi dello Stato o dalla ricerca del sostengo di “imprenditori democratici” che poi sempre imprenditori sono? Se non si impara da questa crisi non si imparerà mai. Per ricominciare serve un patto per l’informazione libera e critica dove tutti, piccoli e presunti grandi, possano stare sullo stesso piano. Bisogna che tutti partano dal presupposto che la morte dell’altro non è uno spazio che si apre ma una opportunità che si chiude. Bisogna che finiscano le gelosie di testata ed anche un modo burocratico e corporativo di sentirsi giornalisti anche durante le crisi aziendali. Per ricostruire l’informazione di sinistra serve innanzitutto un bagno di realismo e di umiltà che consenta di costruire progetti sostenibili anche economicamente, adeguati ad una comunicazione moderna dove, ad esempio, la carta, pur rimanendo importante, non è più il centro. Prima di tutto però serve una scelta politica chiara che dimostri nei fatti la natura “critica” di questa informazione, la sua impermeabilità agli interessi economici dominanti, la sua avversità ad ogni burocrazia politica o sindacale anche quando questa controlla “i cordoni della borsa”. Fare informazione è battaglia quotidiana. Si può fare. Lo spazio c’è ed il futuro anche. Basta vederlo e basta volerlo.

WIKIPEDIA DEI ROSSI E L’EGEMONIA CULTURALE DELLA SINISTRA.

Quel manipolo di "rossi" che soffoca Wikipedia. Chi propone voci storiche contrarie alla vulgata di sinistra è sbattuto fuori senza troppe cerimonie: alla faccia della conclamata neutralità, scrive Luca Gallesi su “Il Giornale”. Catalogare il mondo e metterlo a disposizione dell'umanità, ecco il sogno che Diderot e gli Illuministi volevano realizzare con l'Encyclopédie, un progetto che avrebbe messo in seria discussione il sapere e le autorità tradizionali. Quasi tre secoli dopo, sono le Enciclopedie a capitolare di fronte ad una nuova sfida, altrettanto ambiziosa e ancora più rivoluzionaria, che affida la catalogazione e la diffusione della conoscenza non più a una ristretta élite di dotti intellettuali, ma a una vasta massa di volonterosi dilettanti. Stiamo ovviamente parlando di Wikipedia, l'enciclopedia virtuale in cui si è imbattuto chiunque abbia un minimo di familiarità con Internet. Più simile alla Biblioteca di Babele immaginata da Borges che alla Enciclopedia Treccani elaborata da Gentile, Wikipedia è una delle poche realtà efficienti e gratuite che da oltre un decennio sono un saldo punto di riferimento nel caotico mare magnum della Rete, che ha inghiottito corazzate che sembravano inaffondabili come Second Life o Myspace e progetti simili come l'enciclopedia multimediale della Microsoft Encarta o quella lanciata da Google chiamata Knol e totalmente dimenticata. Concepita nel 2001 da Jimmy Wales, un utopista smanettone appassionato di Ayn Rand, e da uno scettico dottorando in filosofia all'Università dell'Ohio, Larry Sanger, Wikipedia prende il nome da un termine hawaiano, wiki, che significa veloce; sin dall'inizio si offre come piattaforma di contenuti prodotti e curati da chiunque ne avesse accettato le regole fondamentali, conosciute come i Cinque Pilastri: niente ricerche originali, punto di vista neutrale, verificabilità delle fonti, e due comandamenti che riecheggiano quelli di Steve Jobs: be bold, ovvero «sii audace», e «ignora tutte le regole». In questo caso, la differenza sta nel fine, che non è, come per Apple, il profitto mascherato da raffinatezza, ma la catalogazione e la diffusione di tutto lo scibile umano senza scopo di lucro. Il successo è immediato, e supera ogni rosea previsione: aperta a tutti e con la neutralità dell'informazione come requisito fondante, Wikipedia si diffonde a macchia d'olio, diventando la prima enciclopedia al mondo per mole di informazioni e lettori, mentre progetti di ben altre ambizioni e solidità innalzano bandiera bianca, come l'Encyclopedia Britannica, che nel 2012 ha rinunciato alla versione cartacea, o la nostra Treccani, che ha addirittura abdicato al suo ruolo guida, rimandando i suoi lettori online ad alcune voci di Wikipedia. Oggi, la libera enciclopedia del web è pubblicata in 285 lingue, comprese quelle morte come il latino, o artificiali come l'esperanto e il klingoniano, noto solo agli aficionados di Star Trek. La sola versione in lingua inglese, se stampata, oggi occuperebbe 2000 volumi come quelli di un'enciclopedia classica, con un indice superiore ai quattro milioni di voci, quasi tutte attendibili, grazie al lavoro costante dei collaboratori e degli amministratori, volontari eletti dalla comunità e preposti al controllo delle singole voci. Alla storia di questo progetto è dedicato un brillante saggio: Wikipedia, di Emanuele Mastrangelo ed Enrico Petrucci, edito da Bietti (pagg. 394, euro 16). Oltre a descrivere accuratamente la storia di Wikipedia, il libro getta qualche ombra sugli amministratori della versione in italiano, che, invece di essere gelosi custodi della neutralità del sapere, sono zelanti vestali del politicamente corretto. Come ha provato sulla propria pelle uno degli autori, chi non si conforma alla vulgata resistenziale, anche se è un ricercatore laborioso e affidabile, viene inesorabilmente espulso dalla comunità dei collaboratori italiani. Un piccolo ma agguerrito manipolo di amministratori fa catenaccio contro le forze oscure della reazione in agguato, vigilando contro la pubblicazione di versioni che possano anche lontanamente mettere in dubbio l'egemonia culturale della sinistra, vedi le voci sull'Attentato di via Rasella (derubricato a Fatti di via Rasella), per non parlare della Guerra civile in Italia 1943-45, realtà inconcepibile per chi conosce soltanto la gloriosa ribellione del popolo italiano contro la sanguinaria tirannide. I gendarmi della memoria agiscono come la psicopolizia descritta da Orwell in 1984, impegnata a riscrivere la storia; ma i nostalgici degli Anni Settanta, che, per fortuna, sopravvivono quasi solo su Internet, non sono gli unici colpevoli, dato che sarebbe facile impegnarsi a contrastarli con successo, come dimostrano i due autori. Purtroppo, anche in Rete, come sui grandi giornali e nelle televisioni nazionali, la cultura, se non è allineata, non interessa quasi a nessuno: è talmente noiosa.

Come taroccare una voce di Wikipedia. Uno degli amministratori italiani racconta come aggirare le regole dell’opera collettiva più influente del pianeta Minare la credibilità dei lemmi sgraditi e pilotare il voto democratico che decide i contenuti? Si può fare così...continua Alessandro Gnocchi su “Il Giornale”. Wikipedia è l’enciclopedia più utilizzata al mondo (60 milioni di accessi al giorno al sito). Multilingue, on line e gratuita è nata il 15 gennaio 2001. Si basa sul principio che il contenuto, libero, è generato sul web dagli utenti stessi. Jimmy Wales, uno dei fondatori, la descrive «come uno sforzo per creare e distribuire un’enciclopedia libera della più alta qualità possibile ad ogni singola persona sul pianeta nella sua propria lingua». Grazie a Internet. I colossi di carta, già in difficoltà, sono andati in tilt. Semplicemente non c’è competizione: qui non si spende un centesimo ed è tutto a portata di clic. La versione italiana accoglie oltre 670 mila voci, quella in lingua inglese raggiunge i 3 milioni. Le gerarchie sono ridotte al minimo, per non dire inesistenti. Chiunque può contribuire a creare o modificare una voce. La certezza che, nonostante tutto, ciò non arrechi danno all’accuratezza dell’insieme poggia su una doppia convinzione: il sapere collettivo è superiore a quello individuale; la quantità, superata una certa soglia di informazioni, si trasforma automaticamente in qualità. Molto si è discusso di questi e altri aspetti per così dire «ideologici». Meno noti invece sono i meccanismi che regolano il funzionamento di Wikipedia. Ancora meno note sono le persone che oliano l’ingranaggio e mantengono operativa la macchina. Qualche notizia preliminare. Come abbiamo detto, chiunque può scrivere una voce di Wikipedia. Il contributo deve rispettare alcune caratteristiche, che vanno dalla neutralità al corredo di una documentazione sufficiente ad attestarne la credibilità, se non la veridicità. Una voce ritenuta insufficiente per qualsivoglia motivo può essere proposta per la cancellazione. Se nessuno protesta, dopo sette giorni, la voce scompare. Altrimenti segue dibattito in rete, al termine del quale si vota. Il quorum è di almeno 10 partecipanti. Per procedere all’eliminazione, è necessario il parere favorevole di almeno due terzi dei partecipanti. Come vedremo, centrale è la figura dell’amministratore al quale tocca il compito di «sorvegliare» le voci, segnalare lacune, dirimere le questioni. Per diventare amministratore non è richiesto alcun requisito particolare. È necessario solo candidarsi ed essere votati dagli utenti (il quorum è variabile e dipende dal numero dei votanti alle precedenti elezioni, la maggioranza richiesta per farcela è di 4/5). Un amministratore può decadere in due casi: se latita troppo a lungo oppure se gli utenti lo ritengono inadattato alla funzione e lo «abbattono» con la solita votazione. La versione italiana dell’enciclopedia dispone di 102 amministratori. Solo sei sono donne. La maggioranza ha tra i 18 e i 35 anni circa, benché ci siano alcuni ultracinquantenni. (Amministratori a parte, il decano di Wikipedia.it ha 87 anni, si chiama Antonio Angelo Caria e ha raccontato la guerra nelle pagine dell’enciclopedia: wikipedia.org/wiki/utente:Caria Antonio Angelo/Racconti). Sembra il paradiso della democrazia ma è davvero così? L’enciclopedia è imparziale? È possibile taroccare una voce? Le votazioni sono trasparenti? Le «sentenze» di vita o di morte si possono influenzare? Ci dà una mano a rispondere uno degli amministratori italiani, dal quale siamo stati contattati e del quale rispettiamo la richiesta di rimanere anonimo. Lo chiameremo, per comodità, «Admin». Il primo punto, nonostante le apparenze, è forse il meno interessante. No, l’enciclopedia non è imparziale. Ma quale opera dell’ingegno (individuale o collettivo) è realmente imparziale? Forse nessuna. Per rendersene conto basta fare una rapidissima verifica su voci politicamente sensibili ma non troppo legate all’attualità e quindi non frequentatissime. Difficile «sbarellare» nella voce dedicata a Silvio Berlusconi, presumibilmente molto letta e quindi sottoposta a continua verifica. Facile invece «sbarellare» nelle voci riservate, ad esempio, al liberalismo, al libero mercato, al neoliberismo, a economisti come Milton Friedman e così via. Qui emerge subito, neanche troppo camuffata, l’avversione al capitalismo così radicata nel nostro Paese. Comunismo e dintorni godono di un altro trattamento. «Se si dà un’occhiata ai profili degli amministratori in carica - spiega Admin - si noterà una seria maggioranza di sinistra con molte punte di “laicità” che sfocia spesso e volentieri nell’anticlericalismo». E ancora: «Quando venne eletto un candidato dichiaratamente cattolico, ci fu una pioggia di osservazioni sulla sua fede. Non è l’unico esempio di candidato rifiutato perché cattolico». In un caso la motivazione del voto negativo era questa: «Dichiara (il candidato, ndr) nella pagina utente di adorare uno Stato straniero che io invece respingo come nemico e invasore». Lo Stato nemico, ovviamente, è il Vaticano. «Notare che l’autore di questo commento è una delle figure di punta dell’UAAR (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, ndr), attivo in Wikipedia nella propaganda dell’anticlericalismo. L’UAAR per lungo tempo ha avuto molti utenti naturalmente impegnati a estirpare voci cattoliche o a modificare in senso anticlericale voci storiche sulla Chiesa». Forse è troppo dire che l’enciclopedia è schierata a sinistra: «La maggior parte degli utenti registrati è di sinistra ma per fortuna la nascita di quella porcata nota come ita.anarchopedia.org ha tolto un sacco di gente di torno. Pochi sono gli utenti palesemente schierati con Berlusconi o con il centrodestra, e purtroppo spesso sono dei perfetti imbecilli, talvolta buttati fuori perché utilizzatori di tecniche degne del peggior “troll”». Per i non addetti ai lavori: il “troll” nelle comunità digitali è un tizio che interviene a sproposito e con insulti. Il suo scopo è fomentare l’inimicizia e alla lunga rendere infrequentabile un sito. Al di là di questo, dice Admin, «il problema è che per ottenere di inserire o togliere un pezzo controverso all’interno di una voce, serve il consenso. Ed essendo molti utenti di sinistra, domina una certa vulgata». Comunque l’argomento di maggior dibattito sembra essere un altro: «Essendo italiani, gran parte delle discussioni verte sul calcio. Alcuni utenti insistono a inserire i curricula di calciatori che hanno giocato anche solo cinque minuti di Serie A. In politica credo sia inutile fare un elenco. Ai tempi degli insulti della Guzzanti si è aperta la sagra dell’aggiungere/togliere i riferimenti a Mara Carfagna. Più di recente si è discusso molto del caso Marrazzo. La voce su Noemi Letizia è stata cancellata ma i dipietristi di wiki hanno ottenuto che le discussioni sul caso rimanessero registrate. La religione è un altro argomento scottante, anzi il cattolicesimo dal momento che delle altre religioni pochissimi si occupano. Sempre calda la voce su Pio XII e l’Olocausto». Nessuno come s’è detto ha un reale potere di veto o di censura. «Ufficialmente no, o almeno non è codificato da alcuna parte. In teoria funziona così: se uno trova una voce che non funziona può apporre delle stringhe di testo che spiegano la natura del problema. Ad esempio: non si capisce dove stia l’enciclopedicità; va aiutata, voce troppo smilza e quasi incomprensibile; va controllata, dati o altro non tornano; non ci sono fonti di supporto a quanto scritto. Poi c’è questa stringa: è di parte e quindi va riequilibrata. E qui iniziano i guai. Trovo molto divertente la stringa che introduce la voce “persecuzione dell’omosessualità in URSS”. Si legge: “La voce contiene una serie di informazioni sulla persecuzione degli omosessuali in URSS senza avere nemmeno una fonte a sostegno dei concetti espressi; inoltre i comunisti vengono mostrati come crudeli omofobi”. Poveri cari, questi comunisti. Ma se si va a vedere la pagina utente di chi ha messo la stringa che mina la credibilità della voce, si scopre che si dichiara ateo, anticlericale e... comunista». Già ma poi la democraticità della votazione ripara ogni torto e riporta l’equilibrio... «Le regole sono facilmente aggirabili. Non si può fare “campagna elettorale”, nessuno può andare a chiedere a un altro utente di aiutarlo a salvare o bocciare una voce. È espressamente vietato. Peccato esistano le mail, i blog, i forum, le chat. Di fatto alterare quorum e consenso è facilissimo. Compito dell’amministratore è cassare i voti ottenuti in questo modo. Il problema è chiaro: se i membri dell’UAAR, o viceversa i cattolici, si mobilitassero e facessero gruppo per eliminare le voci che non piacciono loro, addio equilibrio ed enciclopedicità. Qualche tempo fa si aprì la votazione per cancellare la voce No Berlusconi Day, sbilanciata e affetta da “recentismo”, cioè troppo schiacciata sull’attualità per essere enciclopedica. Grazie al tam tam via Facebook ci fu un’impennata di votanti, tutti sfavorevoli alla cancellazione. Alcuni tornavano su Wikipedia dopo mesi di assenza. Altri si registrarono appositamente (e i loro voti furono cassati)». Complessivamente, dal quadro disegnato da Admin appare chiaro che la verità storica non si può decidere per alzata di mano. Wikipedia non si divide per comunità nazionali ma linguistiche. «A Wikipedia.it collaborano anche vari utenti svizzeri del Canton Ticino. Uno dei problemi di Wikipedia.es, quella di lingua spagnola, è che gli utenti vivono su sponde diverse dell’Atlantico, si esprimono in modo diverso e hanno mentalità diverse. Nessuno gestisce ufficialmente i rapporti tra le varie comunità, che spesso seguono principi diversi: quella di lingua inglese è di manica larga e accetta voci di ogni tipo, per questo ne ha tre milioni, quella di lingua tedesca è rigorosa. Esistono però le varie Wikimedia, associazioni no profit che hanno il compito di promuovere la cultura libera e i progetti gestiti dalla Wikimedia Foundation. Progetti sui quali non hanno alcun controllo. Wikimedia è divisa su base nazionale. Comunque non esistono vertici né assoluti né relativi». L’ultima curiosità: qualcuno guadagna attraverso Wikimedia o Wikipedia? «Ufficialmente non è possibile. Ci sono pettegolezzi relativi alla organizzazione di alcuni eventi o convegni ma sono chiacchiere non documentate. Il bilancio delle varie Wikimedia comunque è pubblicato in rete. Nel caso della Wikipedia vera e propria, credo sia difficilissimo guadagnare qualcosa, e non ne ho mai avuto notizia».

L’egemonia culturale della Sinistra, scrive Luciano Atticciati. Il nostro Paese è vissuto per decenni sotto la cosiddetta egemonia culturale della Sinistra, una specie di lunghissimo dopoguerra che ha portato gli uomini di cultura ad assumere posizioni e atteggiamenti anomali e forzati per dimostrare la validità di certe questioni decisamente insostenibili. Per costoro il fascismo era stato molto peggiore del comunismo, nonostante che tutto facesse pensare che il regime totalitario creato da Mussolini non fosse così coercitivo come quello dell’Unione Sovietica o della Cina Popolare, i crimini contro l’umanità commessi dai regimi comunisti erano ben poca cosa rispetto a quelli commessi dai nazisti, le atrocità commesse dagli Jugoslavi verso il nostro popolo erano decisamente un argomento tabù, così come l’idea che gli uomini della Resistenza avessero commesso degli eccessi. Ovviamente per costoro la classe borghese costituiva qualcosa di spregevole, e aveva gestito il nostro Paese nel peggiore dei modi, il futuro apparteneva ad altre ideologie che avrebbero stabilito un mondo nuovo, decisamente superiore al presente o al recente passato ritenuto di scarso valore. L’egemonia culturale della Sinistra aveva naturalmente il sostegno degli intellettuali, ma trovava un altrettanto forte sostegno nelle istituzioni, che nei loro proclami ricordavano costantemente le nefandezze della Destra. Sebbene il partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana esercitasse il suo potere di governo, nel campo culturale brillava per la sua assenza, o peggio per il suo stato di sudditanza nei confronti dell’agguerrita opposizione comunista. A rileggere oggi certi discorsi c’è da rimanere inorriditi, ma a quei tempi tutto era permesso, e nessuno poteva opporsi ai profeti del mondo migliore. I dibattiti culturali sui mass-media avvenivano rigorosamente fra esponenti di Sinistra, le librerie ospitavano solo libri di Sinistra, le poche voci dissonanti venivano messe a tacere con giudizi pesanti. Due casi sono degni di nota, quello di Montanelli, isolato come un infetto di un terribile morbo, e Renzo De Felice, lo storico che aveva azzardato a parlare del fascismo come fenomeno dei ceti medi e teso alla mobilitazione delle masse. I suoi denigratori coniarono addirittura un termine estremamente infelice per indicare le sue posizioni, «revisionista». I revisionisti erano in precedenza definiti i comunisti non allineati, considerati eretici dai marxisti ortodossi. Gli attacchi contro uno dei maggiori storici italiani da parte di intellettuali e politici furono estremamente pesanti. L’antifascismo dominante non permetteva che si potesse esprimere il minimo giudizio anche vagamente non accusatorio nei confronti di quel regime. Il mondo comunista aveva soppresso qualsiasi forma di libertà e aveva sottratto ai ceti operai di cui si considerava formalmente protettore, gran parte dei loro diritti. Non ci voleva molto a comprendere che il blocco dei Paesi comunisti produceva una eccezionale quantità di armamenti ma teneva la popolazione ad un livello di vita da Terzo Mondo. Nonostante ciò giovani entusiasti ed intellettuali proclamavano che la gente sotto quei regimi disponeva di un benessere, forse diverso dal nostro, ma comunque di una situazione felice. Fino al 1956, cioè fino a quando Kruscev non rivelò i crimini commessi da Stalin, gran parte della cultura marxista proclamava che i gulag non esistevano (vedi anche il caso Kravcenko), che erano una semplice invenzione della propaganda capitalista. Nel periodo successivo si parlò allora di «contraddizioni del mondo comunista», come dire che il terrore di massa era un semplice accidente storico, un limitato e inevitabile male che non pregiudicava la grandezza di quei regimi. Tutto il mondo doveva comunque essere grato all’Unione Sovietica per aver sconfitto, a prezzo di enormi sacrifici, il nazismo, ovviamente si taceva sul «Patto Molotov-Ribbentrop», sulla duplice aggressione alla Polonia, e sull’eccidio di Katyn. Negli anni Cinquanta sorse infine un ambiguo movimento pacifista, i Partigiani della Pace, che nonostante tutte le guerre e le minacce che provenivano dall’Unione Sovietica riteneva il pacifismo coniugabile con il comunismo. Anche personaggi di spicco del mondo europeo ne fecero parte. Non molto tempo dopo si scoprirono i legami dei vertici dell’organizzazione con il blocco sovietico. Uno spazio particolare nella cultura degli anni Sessanta fu dato alla questione Vietnam, vittima non si sa su quali basi di un’aggressione americana. La principale battaglia combattuta in quell’infelice Paese, avvenne nel ’68 a Khe San fra unità regolari nord-vietnamite che erano penetrate nel territorio sud-vietnamita e avevano circondato una base americana, eppure la Sinistra continuava a ripetere che principali protagonisti di quel conflitto erano i Vietcong, cioè comunisti locali insofferenti al regime alleato dell’odiato Paese capitalista. Analogamente si taceva sul fatto che fosse stato Kennedy, uomo della Sinistra, ad iniziare l’impegno americano a difesa del governo sud-vietnamita. Quando dopo il 1975 si scoprì la durezza e la crudeltà del comportamento dei regimi comunisti di quell’area geografica, la questione venne messa presto a tacere. Nello stesso periodo molti vedevano nel comunismo cinese, una forma di autentico comunismo «popolare» contrapposto a quello «burocratico» sovietico. I milioni di morti che avevano accompagnato quella triste rivoluzione, ammesso che potesse avere senso parlare di rivoluzione parlando del regime cinese, costituivano un normale inconveniente tipico di qualsiasi fenomeno storico. Le due questioni si inquadravano all’interno della cosiddetta guerra fredda. Le origini della guerra fredda apparivano decisamente confuse, forse era stato il discorso sulla «cortina di ferro» di Churchill (1946) a scatenarla, o forse «l’accerchiamento capitalista», anche se il mondo comunista appariva un po’ troppo vasto per essere considerato accerchiato. L’umanità si trovava a vivere una guerra in cui era scivolata senza sapere nemmeno il motivo, e il muro di Berlino suo simbolo, era sorto a causa di «reciproche incomprensioni», non dall’attività deliberata di un regime totalitario. Coronamento di tali discorsi era naturalmente l’antiamericanismo, il governo degli Stati Uniti controllava non si sa come, né in che modo le nostre scelte politiche. Se le Sinistre non riuscivano a conquistare il potere nel nostro Paese, ciò era dovuto non al fatto che i ceti medi preferissero altre forme di governo, e che una parte della stessa Sinistra, socialdemocratici e repubblicani avessero scelto il sistema di valori occidentale, ma a invisibili condizionamenti operati nelle forme più incomprensibili. Forse non ci voleva molto a comprendere le assurdità e le palesi falsità di quella cultura, bastava leggere le opere di uno storico come Luigi Salvatorelli sul Novecento, o quelle di Gaetano Salvemini che aveva messo in luce come nell’affermarsi del fascismo avessero pesato le violenze scatenate nel ’19 dall’estrema Sinistra. Anche gli storici fecero la loro parte di confusioni, molti storici di area comunista limitavano lo studio della storia all’esposizione di enunciazioni programmatiche, senza mai arrivare ai comportamenti reali dei governi e delle forze politiche. Un testo ritenuto importante di Enzo Collotti sulla storia della Germania (1968) considerava irrilevante l’assorbimento forzato del partito socialista da parte di quello comunista nella DDR, i Tedeschi sostanzialmente avevano accolto liberamente quel tipo di regime. Lo storico comunista forse più autorevole, Gastone Manacorda, ammetteva esplicitamente le esigenze della politica nello studio storiografico. Sembrava che il mondo dovesse vivere a tempo indeterminato in quella forma di forzatura mentale, ma la storia («l’astuzia della ragione» avrebbe detto Hegel) alla fine operava. A metà degli anni Ottanta il comunismo implodeva non a causa di un attacco militare, o di un oscuro complotto, ma per l’azione di quei popoli che lo vivevano. Il mondo di bugie aveva una falla, e da qui al crollo il passo non era lontano. Alla fine anche gli uomini di cultura di Sinistra più avveduti (tra i quali Giampaolo Pansa) hanno dovuto ammetterlo, i teoremi non stavano in piedi, erano costruzioni fondate sul nulla. Oggi la storiografia marxista è quasi inesistente, solo irriducibili dogmatici ci vengono a proporre le loro tesi un po’ trite, uno di questi è Toni Negri, convinto che il nemico capitalista trami nell’oscurità, alla stessa maniera con cui i nazisti si convincevano dell’esistenza del complotto giudaico-massonico. Dietrologi e complottisti sparano ancora le loro ultime cartucce, e se i fatti storici smentiscono tesi gloriose, per costoro si può ricorrere sempre a fatti non dimostrati né dimostrabili. Se il mondo della cultura oggi ha messo da parte la cappa soffocante dell’egemonia culturale della Sinistra, tuttavia in quella parte della società più portata a credere acriticamente nei grandi illuminati che nelle proprie capacità di discernimento, ancora continua a resistere un modo di pensare decisamente impossibile da comprendere. Le persone che in un certo senso desiderano ingannarsi non sono assolutamente scomparse.

Non se ne può più dell’egemonia culturale della sinistra, ma Berlusconi in 20 anni cos’ha fatto?, Scrive Mattia Feltri su “Tempi”. La superiorità antropologica della sinistra, rappresentata dalla Repubblica delle Idee, ci ha stufato ma la destra non è riuscita ad offrire un’alternativa. Con una spettacolare doppietta, giorni fa il Foglio di Giuliano Ferrara ha introdotto la questione. Da principio Andrea Marcenaro, nella sua rubrica quotidiana, immaginando quella catasta d’intelligenza riunita a Firenze dalla Repubblica delle Idee – naturalmente con la “i” maiuscola – e diciamo Alessandro Baricco, Umberto Eco, Roberto Saviano, Gustavo Zagrebelsky eccetera, eccetera, col formidabile peso della cultura non meno che enciclopedica: tutti a convegno per dire “Berlusconi merda”. Due mattine dopo, nella pagina della posta, il direttore spendeva una trentina di righe nell’esprimere il fastidio e la noia mortale per la dottrina dell’ovvio, del bello e del buono, incontrovertibile come l’espressione “la mafia è cattiva”, un piccolo manicheismo calzante a tutte le taglie, un bell’alibi per dirsi l’Italia migliore, e però – concludeva Ferrara – questa è la Repubblica delle Idee «ma se cominciassimo a imparare qualcosa, da come si sta a tavola a come si legge un buon libro, quello no?». Qui ognuno deve fare i conti con la libreria che ha in casa e le macchie di sugo che ha sulla camicia, ma se si pensa a una colpa collettiva, quella ascrivibile alla destra italiana – a qualsiasi destra imposta dal bipolarismo, post-missina, socialista anticomunista, liberale, democristiana, puramente reduce del pentapartito o leghista – è una colpa totale e senza perdono. Si sono spesi vent’anni, quelli trascorsi dall’appoggio di Silvio Berlusconi alla candidatura di Gianfranco Fini per il Campidoglio (autunno 1993), a contrastare colpo su colpo la cultura progressista nei suoi numerosi ed eterogenei sacerdoti, da Alberto Asor Rosa a Roberto Benigni, da Paolo Flores d’Arcais a Corrado Guzzanti, da Barbara Spinelli a Nanni Moretti. L’Italia descritta dall’utopismo pop di Walter Veltroni o dal moralismo univoco di Michele Santoro, dal femminismo saccente di Natalia Aspesi o dal giustizialismo rancoroso di Marco Travaglio, è l’Italia che sulla pelle di destra faceva spuntare foruncoli. C’era e c’è un’allergia esibita per la superiorità antropologica che la sinistra si è autoattribuita e per la quale si concede un vitalizio di autoassoluzione. Bene, tutto questo è normale, è condivisibile. Orrore per il manicheismo, per l’antipolitica consolatoria, per la mitologia della società civile, per il pacifismo ipocrita, per l’antifascismo eterno e bolso che marchia di filofascimo chiunque non lo abbracci, per il totem della Costituzione, per il puritanesimo febbrile. Orrore per la classificazione sprezzante dell’avversario, che deve giusto scegliersi la casella: mafioso? Tangentaro? Stragista? Razzista? Servo? Ladro? Però. Qualcosa oltre l’antitesi? Però, oltre all’antitesi, la destra che cosa ha proposto? Oltre all’antitesi automatica, immediata, di istintivo riflesso, qual è l’Italia alternativa che si è immaginato e si è cercato di costruire? Berlusconi, i suoi ormai dispersi alleati, i suoi precari luogotenenti, le sue televisioni, le sue case editrici, quale tipo di paese hanno delineato in questi vent’anni? E, evitiamo equivoci, non si sta dicendo il progetto di Italia anche abbastanza preciso venuto fuori da settanta o ottantamila comizi. Quell’Italia lì, di cui Berlusconi parlò da Arcore con la calza sulla telecamera, quella della meritocrazia, della sana competizione, dello Stato leggero, antiburocratica, del riequilibrio dei poteri incrinato da Mani pulite, della riduzione fiscale, anticorporativa, federalista, ecco, quell’Italia è rimasta nelle promesse e nei sogni. Morì nel medesimo istante in cui, vinte le elezioni del 1994, al ministero dell’Economia andò Giulio Tremonti, prelevato dal Patto Segni, e non il liberale Antonio Martino parcheggiato agli Esteri. Traduzione: morì di parto. Si sta dicendo, in venti anni di cui la metà trascorsi al governo del paese, quale altra Italia è venuta fuori? In che cosa è cambiata? Nel conflitto permanente col centrosinistra, il centrodestra quale visione ha opposto, fuori dal recinto del palco? Quale è l’assetto istituzionale a cui si è lavorato per rendere il paese aggiornato alla Seconda repubblica, all’Europa, alla velocità d’esecuzione imposta ai governi? Come sono cambiati i rapporti di forza fra esecutivo e legislativo? E Berlusconi, affranto dalla macchinosità con cui si arriva all’approvazione delle leggi, infine annacquate, quali contromisure ha studiato per accelerare e affilare la pratica? Se la soluzione impercorribile è ottenere il 51 per cento nelle urne, quale disegno diverso ha tratteggiato? Come è stata rimodellata la Costituzione per esempio davanti alla mutata legge elettorale, col referendum per il maggioritario del 1993, e alla mutata prassi? È entrata nella Carta quella correzione minima secondo cui il premier, come è stato di fatto, viene eletto direttamente dal popolo e, caduto lui, si torna a votare? Quale struttura economica si è fatta avanti? Non certo la rivoluzione, ma il riformismo liberale come si è concretizzato? Come si sono combattute le corporazioni? Come si sono affrontati i privilegi di casta? Come si sono liberalizzate le professioni? Come si sono snellite le procedure ministeriali, quelle del credito, quelle della tassazione? Come si è allentata la pressione fiscale? In quale modo si è pensato, se non di contrastare ferocemente l’evasione fiscale, di riconquistare gli evasori alla causa della contribuzione? Come si è ripensata la pubblica amministrazione nel suo complesso, compresa la riduzione dello sterminato personale e l’aumento della produttività? Quali sono stati i provvedimenti strutturali di sostegno all’impresa tanta cara al leader dei conservatori? Come si è inciso sul cuneo fiscale? Come si è agevolato l’export? Che cosa si aveva in testa e come lo si è tradotto nei fatti? Potere politico e giudiziario. Come si è messo mano alla giustizia? Dopo la notte in cui la Costituzione venne modificata con la cancellazione dell’immunità parlamentare, che cosa si è fatto per irrobustire il potere politico indebolito davanti al potere giudiziario? È arrivata la separazione delle carriere? È stato equiparato il ruolo del magistrato dell’accusa e quello dell’avvocato della difesa? Dopo i problemi emersi con Mani pulite, la questione della carcerazione preventiva come è stata affrontata? E quella dell’affollamento delle carceri? L’inappellabilità per i pm? Qual è stato il sistema di giustizia a cui si è lavorato per offrire una proposta più appetibile di quella propagata da Antonio Di Pietro, Giancarlo Caselli, il Fatto quotidiano? Quali studiosi hanno delineato un sistema che andasse oltre le decine di leggi ad personam buttate lì ogni volta che un processo ad personam intentato al sire di Arcore necessitasse di una contromisura? Oggi, rispetto al 1993 e al 1994, su quali ipotesi stiamo ragionando? Qual è la Rai voluta dal centrodestra? Qual è la tv pubblica che Berlusconi intende offrirci? Deve avere ancora tre reti? Deve avere ancora reti di riferimento di un partito o di quell’altro, in base a chi sta al comando e chi all’opposizione? Deve continuare a essere lo specchio di Mediaset – e viceversa – con una rete finto paludata (Rai1 e Canale 5), una rete finto giovane (Rai2 e Italia1), una rete di vera militanza (Rai3 e Retequattro)? Come si è pensato di elevare il concetto di servizio pubblico? Che tipo di palinsesti si ritiene di promuovere per uscire dalla retorica tanto detestata? Che cosa dovrebbe raccontare la Rai per superare gli schemi così esecrati del talk show alla Giovanni Floris e dell’intrattenimento alla Dario Vergassola? Se davvero quello è l’orrore, la cultura dirimpettaia di centrodestra quali giornalisti o comici ha individuato? Chi si è incaricato di raccontare il mondo da un altro punto di vista, e non in forma belligerante, ma dialettica? Quale mondo della cultura è nato in vent’anni attorno all’esperienza politica di Berlusconi? Il Sanremo di Tony Renis? Le canzoni di Van de Sfroos? Le fiction di Renzo Martinelli? Come si sono aiutati i registi che intendevano emergere senza sposare una causa ideologica o di schieramento? E i giovani musicisti? Come si è pensato di liberare energie creative per evitare che restassero prigioniere dell’industria della propaganda di sinistra? Come si è adeguata la politica editoriale? Si sono organizzati festival o premi aperti alle voci non scontate? In sintesi, quali rimedi sono stati adottati all’egemonia culturale di sinistra, che non fosse una reiterata e sguaiata denuncia, o qualche vaga contrapposizione muscolare e dunque sterile? Il modello eccellente della sanità lombarda, come è stato portato nel resto d’Italia? Quale studio ha ricondotto il welfare fuori dall’assistenzialismo? Quale modello di città si è fatto avanti? Quale architettura? Quale urbanistica? Quale politica energetica? Quale tipo di scuola (a parte gli sforzi di Mariastella Gelmini)? Come sono stati introdotti inglese e informatica alle elementari? Come si è affrontato il baronaggio nelle università? E come l’università di destra si è messa alle calcagna dell’università anglosassone? Quale politologia si è sviluppata? Quale storiografia? Quale informazione? Insomma, l’Italia che usciva dal pantano finale della Prima repubblica, e che era l’Italia diversa da quella difesa dai postcomunisti e dai loro alleati, che Italia era? E che Italia è? Dov’è?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

SIAM TUTTI FIGLI DI FASCISTI. I VOLTAGABBANA E L’INTELLETTUALE COLLETTIVO.

Il mito sinistro dell'intellettuale collettivo. Da Gramsci passando per il Sessantotto ha prevalso sempre il pensiero organico. Che ha incantato il ceto medio, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Ma cos'è poi questa famigerata egemonia culturale? Quando è nata, come è cresciuta, come si manifesta oggi? Dopo la denuncia del filosofo cattolico Giovanni Reale sulla dittatura culturale marxista in Italia poi mutata in laicismo illuministico, e il «Cucù» che vi dedicai, ho ricevuto varie lettere che chiedono di precisare meglio il tema. In che consiste questa becera egemonia? Per cominciare, il modello ideologico dell'egemonia culturale viene tracciato da Gramsci con la sua idea del Partito come Intellettuale Collettivo che conquista la società tramite la conquista della cultura. Il modello pratico si nutre invece di due esperienze: quella sovietica, da Lenin a Trotzskj, da Zdanov a Lukács, vale a dire il ministro della cultura di Stalin e il filosofo ministro nell'Ungheria comunista. E quella fascista, con l'organizzazione della cultura e degli intellettuali di Gentile e di Bottai, che è l'unico precedente italiano, anzi occidentale di egemonia culturale (ma fu ricca di eresie, varietà e dissonanze). La storia dell'egemonia culturale marxista e laicista in Italia va divisa in due fasi. La prima risale a Togliatti che nell'immediato dopoguerra nel nome del gramscismo va alla conquista della cultura, avvalendosi degli intellettuali organici militanti e di case editrici vicine: da Alicata a Einaudi, per intenderci, per non parlare della stampa. È un'egemonia non ancora pervasiva, punta alla cultura medio-alta e regge sulla riconversione di molti «redenti» dal fascismo. Contro questa egemonia si abbatterà la definizione, altrettanto nefasta, di «culturame» da parte del ministro democristiano Scelba. La seconda egemonia nasce sull'onda del Sessantotto e il Pci diventa poi il principale referente ma anche in parte il bersaglio dell'estremismo rosso. Il distacco dall'Unione Sovietica viene motivato, pure all'interno del Pci, col tentativo d'intercettare quell'area radicale, giovanile e marxista che non contestava l'Urss nel nome della libertà, ma nel nome della Cina di Mao, di Che Guevara, di Ho Chi Minh, e altri miti esotici e rivoluzionari. Perfino Berlinguer, quando accenna a dissentire dal Patto di Varsavia, parte da lì. Dopo il '68 vanno in cattedra nugoli di giovani fino a ieri contestatori, poi assistenti e presto neobaroni. La saldatura tra le due sinistre avviene con la nascita, da una costola de l'Espresso, de La Repubblica che raccoglie le sinistre sparse e concorre alla «secolarizzazione» del Pci nel progetto di un partito radicale di massa. Con La Repubblica e i suoi affluenti ha un ruolo decisivo nella nuova egemonia la sinistra televisiva, cresciuta in Raitre. Sul piano culturale Gramsci viene fuso con Gobetti e Bobbio diventa il nuovo papa laico dell'egemonia. Negli anni di piombo convivono l'egemonia gramsciana con l'egemonia radical che ne prende il posto, a cui contribuiscono i reduci del '68, dal manifesto a Lotta Continua. Se prima era il Partito a guidare le danze, ora è l'Intellettuale Collettivo a dare la linea alla sinistra e a guidarla sul piano dell'egemonia culturale. L'egemonia, sia gramsciana che radical, ha due caratteristiche da sottolineare. Non tocca, se non di riflesso, gli apici della cultura italiana, ma si salda nei ceti medi della cultura, nel personale docente, fino a conquistare buona parte dell'Università e della scuola, dei premi letterari, della stampa e dell'editoria, oltre che del cinema e del teatro, dell'arte e della musica. Nulla di paragonabile, per intenderci, con l'egemonia nel segno di Gentile e d'Annunzio, Pirandello e Marinetti, Marconi e Piacentini, per restare agli italiani. In secondo luogo tocca di striscio la cultura di massa, che è più plasmata dai nuovi mezzi di ricreazione popolare, a partire dalla Rai democristiana, Bernabei e l'intrattenimento nazionalpopolare, lo sport e la musica leggera, e poi la tv commerciale e berlusconiana. Dunque un'egemonia dell'organizzazione culturale, dei poteri culturali, dei quadri intermedi, senza vertici d'eccellenza e senza adesione popolare. Ma i riflessi della sua influenza s'infiltrano a macchia d'olio su temi civili e di costume fino a creare un nuovo canone di remore e tabù. L'egemonia culturale fagocita la cultura affine, asserve quella opportunista e terzista, demonizza o delegittima le culture avverse, di tipo cattolico, conservatore, tradizionale o nazionale. Innalza cordoni sanitari per isolare i non allineati, squalifica le culture di destra, bollate ieri come aristocratiche e antidemocratiche, oggi come populiste e razziste-sessiste; da alcuni anni preferisce fingere che non esistano, decretando la morte civile dei suoi autori. Qui converrà distinguere nel trattamento tra gli imperdonabili e i tollerati. Sono imperdonabili coloro che sono considerati legati a principi tradizionali e a una visione spirituale della vita, chi nutre un giudizio diverso sul fascismo, sul comunismo o sul berlusconismo, sulla religione e sulla famiglia, o chi non condivide il nuovo catechismo fondato sull'omolatria e sul permissivismo intollerante con chi non si allinea. Sono invece tollerati i neognostici che coltivano spiritualismi esoterici, fuori dal mondo e dal tempo, tipo Adelphi; si può arrivare a Guénon ma non a Evola, a Quinzio ma non a Sciacca, a Zolla ma non a Del Noce. Poi i dandy, che lasciano figurare i loro estremismi come stravaganze individuali o pose letterarie o puro vintage, che non contestano i valori dominanti e gli stili di vita; o infine, i fautori della destra impossibile che detestano ogni destra vivente e reale nel nome di quella che non c'è (genere montanelliani dell'ultim'ora). Sopravvive all'egemonia chi intrattiene buone relazioni coi suoi funzionari o si affilia ai clan ammessi o sottomessi. Particolare è il trattamento per i fuorusciti dalla Casa Madre dell'egemonia, gli ex-compagni migrati sulle sponde avverse: sono prima trattati con particolare disprezzo come traditori, cinici e venduti, ma alla fine sono accettati come interlocutori per via del pédigrée, di antichi rapporti e comuni circuiti di provenienza o pulsioni sinistre talvolta riaffioranti in loro. L'egemonia culturale fa male alla cultura, è inutile dirlo, ne danneggia non solo la libertà ma anche la qualità, la dignità e la varietà. Ma alla cultura nuoce pure la noncuranza, il disprezzo, la sottovalutazione, assai diffusi nell'alveo sociale e politico cattolico, moderato, liberale o di destra. Alla fine chi non è allineato all'egemonia si trova tra due fuochi, anzi tra il fuoco degli intolleranti e il gelo degli indifferenti. E si destreggia per non finire bruciato o ibernato.

Quegli intellettuali che, vicini al fascismo, si trasformarono subito in fiancheggiatori del PCI, il quale, su suggerimento togliattiano, cercava di applicare i princìpi dell'egemonismo gramsciano. Ma nei limiti dell'intelligenza comunista su descritta. Infatti, tale operazione si limitò ad intercettare prima gli intellettuali reduci dai littoriali, poi quelli reduci dalle trincee, infine i reduci dalla prigionia e dalle file socialrepubblicane. Tale reclutamento all'italiana portò ad un'egemonia di facciata, molto esteriore e falsa, che gli italiani percepivano facilmente, ed al primo stormir di vento, qual foglie precocemente ingiallite, tutti (scrittori, cineasti, artisti, consulenti, mediatori, critici) s'involarono nell'azzurro cielo del conformismo atlantico.

Già alla vigilia della Prima guerra mondiale la reputazione degli italiani non era delle migliori. Tutti erano convinti che nella Grande Guerra avremmo cambiato di nuovo bandiera, cosa poi puntualmente avvenuta. E questa nostra attitudine a "correre in soccorso dei vincitori", come disse Flaiano, si manifesta con desolante regolarità da oltre un secolo. Le migliaia di camicie nere indossate solo dopo il successo della marcia su Roma. I fascisti diventati antifascisti nell'arco di una notte (25 luglio 1943). Il brusco voltafaccia di Casa Savoia, prima alleata e poi nemica dei tedeschi nel corso dello stesso conflitto. I partigiani dell'ultima ora. Gli intellettuali passati, dopo il 25 aprile 1945, dalla corte di Bottai a quella di Togliatti. Il viavai tra le porte girevoli delle correnti democristiane. La corsa in massa alle sezioni del Pci nel momento del "sorpasso" sulla Dc (1976). Craxi che, divenuto segretario del Psi, fu idolatrato come una divinità egizia e alla fine mollato in un nanosecondo. Berlusconi che, trasformatosi da "ragazzo coccodè" a eminente statista (1994), fu corteggiatissimo da ex supponenti rivali. Dirigenti d'azienda e giornalisti Rai che, dopo l'affermazione elettorale di Alleanza nazionale (1996), scoprirono di essere di destra, salvo poi dire, quando il leader cadde in disgrazia: "Fini chi?". Fino a Renzi, snobbato da tutti dopo la sconfitta subita da Bersani alle primarie del 2012 e oggi inseguito da uno stuolo di zelanti e insospettabili ammiratori.

Ed ecco il naturale sbocco letterario con Bruno Vespa: "Italiani voltagabbana". Fino all'autunno del 2013 Matteo Renzi era solo, attaccato più all'interno che all'esterno del suo partito. Nel giro di pochi mesi, molti dei suoi avversari hanno voltato gabbana, sono diventati renziani, e alcuni fanno parte della squadra di governo. Dopo la clamorosa vittoria del Pd alle elezioni europee del maggio 2014, un folto gruppo della classe dirigente del paese si è messo a disposizione del giovane presidente del Consiglio, sperando di conquistare un ruolo di primo piano. «Ma visto che da noi non cambiava niente, l'ondata di renzismo è improvvisamente cessata» racconta il premier nel lungo colloquio accordato a Bruno Vespa per ...Fino all'autunno del 2013 Matteo Renzi era solo, attaccato più all'interno che all'esterno del suo partito, è scritto nella recensione del libro della Mondadori. Nel giro di pochi mesi, molti dei suoi avversari hanno voltato gabbana, sono diventati renziani, e alcuni fanno parte della squadra di governo. Dopo la clamorosa vittoria del Pd alle elezioni europee del maggio 2014, un folto gruppo della classe dirigente del paese si è messo a disposizione del giovane presidente del Consiglio, sperando di conquistare un ruolo di primo piano. «Ma visto che da noi non cambiava niente, l'ondata di renzismo è improvvisamente cessata» racconta il premier nel lungo colloquio accordato a Bruno Vespa per questo libro. I voltagabbana sono una costante della storia nazionale. Dal Risorgimento, quando venivamo accusati di vincere le guerre con i soldati degli altri, alla prima guerra mondiale, di cui ricorre il centenario, quando in nome del «sacro egoismo» a un certo punto ci trovammo a combattere a fianco delle due fazioni opposte, per scegliere infine quella vincente, rivolgendo le armi anche contro i tedeschi, nostri alleati da trent'anni. Mussolini, che voltò gabbana come interventista prima della Grande Guerra, si alleò con Hitler nella seconda anche perché gli era rimasto il complesso del «tradimento» del 1915. Alla caduta del fascismo, i voltagabbana furono milioni, e Vespa narra con divertito stupore la storia di prestigiosi intellettuali e artisti diventati all'improvviso antifascisti dopo aver orgogliosamente inneggiato al Duce fino al 25 luglio. E sulla pagina vergognosa dell'8 settembre 1943 è ancora aperto il dibattito se gli italiani abbiano tradito i tedeschi o – secondo una versione più recente – se siano stati i tedeschi a tradire gli italiani. Nella Prima Repubblica i politici cambiavano spesso corrente (specie nella Dc) piuttosto che partito, ma i tradimenti più clamorosi furono senza dubbio quelli di molti dirigenti socialisti nei confronti di Craxi. Tuttavia, il trionfo dei voltagabbana si è avuto nella Seconda Repubblica e all'alba della Terza, quella che stiamo vivendo con la riforma costituzionale. Centinaia di parlamentari hanno cambiato casacca con sconcertante disinvoltura e diversi governi sono nati e caduti con il contributo decisivo dei «senza vergogna». Berlusconi e Prodi ne sono stati le vittime principali. Dopo essere stato via via abbandonato da Bossi, Fini e Casini, in queste pagine il Cavaliere accusa severamente Alfano, che si difende dall'accusa di «parricidio» e parla, semmai, di «figlicidio». A sua volta, il Senatùr è stato abbandonato da chi lo adorava e Beppe Grillo ha già avuto le sue molte delusioni. Nel libro, naturalmente, ampio spazio viene dedicato a Matteo Renzi, ai retroscena della sua ascesa al potere e al governo, e ai tanti che lo detestavano e ora lo amano. E ampio spazio viene dedicato alle donne: quelle che Renzi ha portato al governo, o a incarichi di grande potere, e a Francesca Pascale, che per la prima volta racconta nei dettagli la sua storia d'amore con il Cavaliere. In Italiani voltagabbana, Bruno Vespa dipinge con il consueto stile incalzante un affresco del costume nazionale, rileggendo la storia e la cronaca sotto un'angolazione umanissima, anche se assai poco lusinghiera.

Bruno Vespa ha cominciato a 16 anni il lavoro di giornalista e a 24 si è classificato al primo posto nel concorso che lo ha portato alla Rai. Dal 1990 al 1993 ha diretto il Tg1. Dal 1996 la sua trasmissione «Porta a porta» è il programma di politica, attualità e costume più seguito. Per la prima volta nella storia, vi è intervenuto un papa, Giovanni Paolo II, con una telefonata in diretta. Tra i premi più prestigiosi, ha vinto il Bancarella (2004), per due volte il Saint-Vincent per la televisione (1979 e 2000) e nel 2011 quello alla carriera; nello stesso anno ha vinto l’Estense per il giornalismo. Fra i più recenti volumi pubblicati da Mondadori ricordiamo: Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi, Vincitori e vinti, L’Italia spezzata, L’amore e il potere, Viaggio in un’Italia diversa, Donne di cuori, Il cuore e la spada, Questo amore, Il Palazzo e la piazza e Sale, zucchero e caffè.

Opportunisti, paurosi, voltagabbana: italiani, non siete cambiati, scrive Fertilio Dario su “Il Corriere della Sera”. Dopo le rivelazioni dei colloqui telefonici tra il luglio e il settembre '43, gli storici si interrogano sull'oggi. Italiani, povera gente? Di certo opportunisti, paurosi, trasformisti. Persino patetici, nello sforzo di rimuovere la catastrofe del regime. Infantili, con l'illusione assurda di invitare a uno stesso tavolo nazisti e alleati. Gattopardeschi, e sicuri che dopo l'arresto di Mussolini tutto dovesse cambiare per poter restare come prima. Disinformati, al punto da immaginare che gli angloamericani (in accordo con la propaganda ufficiale) sarebbero stati "inchiodati sul bagnasciuga della Sicilia". Equilibristi, in omaggio alla celebre arte di arrangiarsi. Così almeno appare la nostra classe politica e intellettuale, stando alle intercettazioni telefoniche registrate dal Servizio d'informazione militare fra il 25 luglio e l'8 settembre del '43. Ieri le ha pubblicate il Corriere, con il commento di Renzo De Felice, e oggi l'interrogativo è al vaglio degli storici: possibile che in quegli anni gli italiani fossero proprio così? Che tutti, o quasi, si ostinassero a vivere in un mondo di favole littorie e slogan mascelluti quando già la situazione era precipitata? Possibile, certo, secondo Giorgio Spini. Anzi, addirittura scontato. "Già alla fine degli anni Quaranta, afferma, Federico Chabod mi chiese di analizzare autobiografie e memoriali dei generali italiani nei giorni della sconfitta. Ne venne fuori che nessuno aveva capito nulla, nè aveva avuto sentore del 25 aprile, eccetto il generale Cadorna per via dei suoi contatti con il Partito d'azione e La Malfa". Perciò le rivelazioni di oggi, secondo Spini, "sono soltanto la conferma del lavoro di allora: il deserto mentale e l'imbecillità della classe dirigente. Qui non c'entravano destra o sinistra. Il fatto era che la selezione dei gruppi dirigenti nell'Italia fascista, militari compresi, era stata realizzata alla rovescia, promuovendo i più stupidi. Le conversazioni telefoniche, le sciocchezze che venivano prese sul serio confermano come questi importanti generali e dirigenti di regime fossero veramente poveri diavoli". C'era allora una colpa collettiva? "Non la addosserei agli italiani: fra loro ce n'erano anche alcuni tutt' altro che scioccherelli, come De Gasperi. Il problema stava nella selezione negativa del regime, che dopo tutto era rimasto fedele alla ideologia del manganello". Un simile stato di minorità mentale, secondo il politologo Dino Cofrancesco, è testimoniato dall' atteggiamento collettivo nei confronti della guerra. "Proprio come i sudditi di due o tre secoli prima, i dirigenti concepivano il conflitto in corso come "limitato" e reversibile, parte di un destino che restava al di sopra di loro, e sul quale soltanto il capo supremo poteva intervenire. A differenza dei cittadini di uno Stato democratico, avevano accolto la conquista dell'Abissinia come un miracolo compiuto da un altro, ora si illudevano che un altro li avrebbe cavati d'impaccio. Come dire: abbiamo avuto una mano sfortunata alla roulette, dunque raccogliamo le fiches e torniamocene a casa. Il fascismo, che pure per molti aspetti aveva modernizzato il Paese, li aveva educati a dipendere da qualcun altro, ne aveva fatto soltanto dei sudditi. Oggi a nessuno sfugge che le democrazie, più restie delle dittature a intraprendere le guerre, sono poi inesorabili nel condurle a termine. Invece nessuno aveva detto agli italiani d'allora che le guerre contemporanee si combattono in un altro modo, sono conflitti totali nei quali tutti i cittadini vengono coinvolti più o meno allo stesso modo, sopportandone fino in fondo le conseguenze". Anche Paolo Alatri, di fronte alle rivelazioni sull'impreparazione psicologica degli italiani e alla disinformazione di cui erano vittime, è molto colpito. "Tutti si muovevano in una specie di gelatina - afferma - in cui trovavano accoglienza le possibilità e le ipotesi più inimmaginabili. C' era chi fantasticava su possibili alleanze con i russi, chi prevedeva un abbraccio con gli inglesi, chi avrebbe voluto volentieri gli uni e gli altri alla sua tavola. Incredibile, poi, la generale sottovalutazione del ruolo dei tedeschi, come se mettersi d'accordo con loro fosse stato facile quanto bere un bicchier d'acqua. E che dire poi degli americani? Nei discorsi collettivi parevano scomparsi, inghiottiti o rimossi dalla coscienza". Come si era potuto arrivare a simili autoinganni? "La radice del fenomeno va cercata nella politica di grande potenza: l'Italia si fingeva un Paese guerriero e attrezzato per tutte le evenienze, senza averne nemmeno le basi. Non c'è da stupirsi se fra i suoi esponenti o simpatizzanti più in vista non ne esistesse uno solo con una prospettiva realistica. Basti pensare al progetto di "Roma città aperta". Oppure a quel senatore Felici, nazionalista monarchico e per molti anni procuratore di D'Annunzio nei suoi rapporti col fascismo, convinto che la penetrazione degli Alleati in Italia non sarebbe mai potuta riuscire". Ma siamo poi tanto mutati, cinquant'anni dopo? Viene da dubitarne, se diamo retta ad Arturo Colombo, pronto a riscontrare nei discorsi dell'Italietta 1943 molte affinità con la cultura poi affermatasi nel dopoguerra. Ecco Spataro, destinato a diventare un leader della Dc, ragionare sulla necessità di creare un centro politico capace di "logorare" gli avversari. Ecco la costante paura del comunismo, un autentico spauracchio collettivo, che lascia in ombra qualsiasi volontà costruttiva di mettere in piedi un sistema politico liberaldemocratico. Ecco Missiroli, convinto che il vecchio non debba morire, e deciso a ritornare immediatamente a galla. Ed ecco infine il sacro slogan "Credere, obbedire, combattere" riadattato alle necessità del momento. Credere? A niente e nessuno. Obbedire? Ai vincitori. Combattere? Sì, ma per salvare la pelle.

Italiani, popolo di poeti, eroi e voltagabbana, scrive “L’Unità”. Che ne è oggi dell’impegno degli intellettuali italiani? E, prima ancora, esistono ancora veri intellettuali in Italia? Se ne è discusso all’Università di Bordeaux. Il più noto studioso di letterature comparate italiano, Remo Ceserani, ha svolto una relazione sulla figura, tutta italica, del voltagabbana. Una tipologia di personaggio oggi molto presente nel nostro Paese, tra i politici, ma anche tra gli uomini di cultura. Tra gli esempi riportati da Ceserani, a un uditorio francese piuttosto sconcertato, il «responsabile» Domenico Scilipoti (passato dalla sera alla mattina da Antonio Di Pietro a Silvio Berlusconi), l’ex presidente del Senato e tutt’ora senatore Pdl Marcello Pera (da giovane simpatizzante radicale, oggi vicino alle posizioni del cattolicesimo più reazionario), i giornalisti Paolo Guzzanti (prima socialista, poi berlusconiano, poi antiberlusconiano - fu lui a coniare il termine «mignottocrazia», che Ceserani ha faticato un po’ a tradurre in francese - prima di tornare nuovanente a sostenere il Cavaliere) e Giampaolo Pansa (prima a sinistra, ora artefice, da destra, di un acceso revisionismo storiografico sulla Resistenza), i politici Claudio Velardi (prima consulente di Massimo D’Alema, poi di Renata Polverini) e Daniele Capezzone (prima radicale ora portavoce del Pdl). E, ancora, Giuliano Ferrara, Vittorio Sgarbi, Daniela Santanché, Tiziana Maiolo. Insomma, cambiare casacca per opportunismo e tornaconto personale, anche se ammantandosi di nobili motivazioni, sembra essere diventata una moda radicata e diffusa a tutti i livelli.

Professor Ceserani, come mai ha deciso di partire da Scilipoti per questa sua carrellata di voltagabbana?

«Perché Scilipoti è la caricatura del voltagabbana, è un voltagabbana all’ennesima potenza, quindi diventa quasi la parodia di una maschera della commedia dell’arte italiana. Il suo caso è talmente estremo da apparire quasi surreale. Ma sono ancora più paradossali i tentativi di giustificare i propri comportamenti che offre a chi gliene chieda spiegazione: un’autentica arrampicata sugli specchi, senza alcun vero argomento».

Che cosa la colpisce maggiormente nella sua vicenda?

«L’assenza della benché minima motivazione ideologica o anche solo ideale. Scilipoti è passato dal populismo di sinistra (Di Pietro) al populismo di destra (Berlusconi) senza battere ciglio, anzi, senza forse neanche accorgersi del triplo salto carpiato che ha compiuto. Il voltagabbana classico dà una giustificazione al proprio mutamento di posizioni. Qui siamo nella commedia dell’assurdo. Scilipoti è un personaggio pirandelliano: uno, nessuno e centomila».

Perché secondo lei il «voltagabbanismo» è un vizio tipicamente italiano?

«La radice storica di questo malcostume sta nel trasformismo parlamentare che ha connotato, sin dall’inizio della vita unitaria della nazione, la prassi politica. Nei primi decenni della vita parlamentare tale pratica trovava giustificazione nell’assenza di differenze ideologiche sostanziali tra destra e sinistra. Poi questa tendenza si è protratta nel tempo fino ai nostri giorni, seppure in un contesto radicalmente mutato. Non a caso i voltagabbana sono frequenti oggi, quando sono venute meno le grandi ideologie del ’900. Si tratta, insomma, di un sintomo tutto postmoderno, tipico di una società liquida come la nostra. Ma, va ribadito, di un sintomo assolutamente negativo, del sintomo, cioè, di un’autentica patologia del tessuto civile prima ancora che di quello politico».

In diversi personaggi tra quelli che ha nominato (da Pera a Capezzone) c’è, all’inizio della loro carriera, una militanza o quanto meno una simpatia per il Partito radicale. Come spiega questa costante?

«Perché Marco Pannella è stato davvero una nave scuola, ha insegnato a tutti loro tecniche di lotta politica alternative a quelle dei partiti tradizionali. Ad esempio Capezzone ha portato le proprie conoscenze nel campo della comunicazione al servizio di tutt’altra causa. Così l’esperienza radicale è stata spesso la scuola contemporanea del trasformismo».

Ma non è lecito cambiare idea?

«Certo, e nella storia della cultura occidentale le grandi conversioni hanno dato origine a grandi narrazioni: da San Paolo a Sant’Agostino fino ad Alessandro Manzoni, nella conversione classica c’è sempre qualcosa di nobile, di ideale. Ma qui non compare nulla di tutto questo. Non c’è la dimensione alta, tragica, ma solo quella bassa, farsesca».

I politici che mutano bandiera, però, rivendicano la legittimità del loro comportamento richiamando l’articolo 67 della Costituzione: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato»...

«Sì, ed è sacrosanto che i padri costituenti abbiano voluto questa frase. Ma va chiarita una cosa: quell’articolo della nostra Carta fondamentale è stato scritto per garantire la libertà di coscienza dei parlamentari di fronte alle grandi problematiche etiche. Le giustificazioni di chi cambia schieramento parlamentare snaturano il senso della legge».

Ma prima ancora di Scilipoti, forse bisognerebbe parlare di Berlusconi…

«Ma no, perché in questo Berlusconi è un modello inarrivabile, è un fuori classe, non sono possibili paragoni. Baciare la mano a Gheddafi e poi sganciargli le bombe sulla testa, essere un giorno per l’Unità d’Italia e il giorno dopo per un federalismo spinto, essere per il libero mercato e insieme favorire precisi gruppi di interesse economico, sostenere le posizioni morali della Chiesa cattolica e insieme diffondere tramite le tv commerciali di famiglia una visione assolutamente materialistica ed edonistica della vita, per non parlare dei modelli di comportamento offerti dalla sua vita privata… In Berlusconi c’è tutto e il contrario di tutto, da sempre. Per questo non può essere un volta gabbana. Perché non ha ideali, ma solo istinti: gli istinti più bassi del capitalismo».

Già, la solita sinistra. Vede la pagliuzza negli occhi altrui e non la trave nei suoi occhi.

http://adv.ilsole24ore.it/RealMedia/ads/Creatives/default/empty.gifDa “Italiani Voltagabbana” di Bruno Vespa. Neri con riserva. Da Dario Fo ad Eugenio Scalfari: nel libro di Bruno Vespa, tutti gli intellettuali di sinistra che furono fascisti, scrive “Libero Quotidiano”. La storia del nostro Paese è ricca di retroscena e di aneddoti destinati a fare scalpore: tra queste storie, diverse vengono svelate o ricordate da Bruno Vespa nel suo nuovo libro, Italiani volta gabbana. Dalla prima guerra mondiale alla Terza Repubblica, sempre sul carro del vincitore, in uscita oggi, giovedì 6 novembre (edizione Mondadori). Nel terzo capitolo di questo volume, Vespa parla di diversi intellettuali che si dichiararono antifascisti alla caduta del regime di Benito Mussolini, ma che prima stavano dalla parte del Duce: tra di loro ci sono nomi altisonanti, come Giuseppe Ungaretti o Dario Fo, o altri comunque ben noti, come Indro Montanelli o Enzo Biagi. Tutto nasce dalla rivista Primato, diretta da Giuseppe Bottai: il politico fascista più illuminato sul piano culturale, ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali. La rivista nacque nel 1940 e chiuse il 25 luglio 1943, e furono tantissimi intellettuali a collaborare per questo giornale. "Fascista in eterno": si definì così Ungaretti durante il regime. Il poeta notò che "tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore", e firmava appelli per sostenere Mussolini, salvo poi rinnegarlo dopo il 25 luglio 1943, quando firmò documenti contrari ai precedenti, tanto da meritarsi una grande accoglienza a Mosca da parte di Nikita Kruscev. Stessa parabola per Norberto Bobbio, che da studente si era iscritto al Guf (l'organismo universitario fascista) e aveva mantenuto la tessera del partito, indispensabile per insegnare. Il filosofo e senatore a vita, cercò raccomandazioni per poter evitare problemi che gli derivavano da frequentazioni "non sempre ortodosse", e il padre Luigi fu costretto a rivolgersi allo stesso Mussolini. Bobbio ottenne la cattedra, mentre nel dopoguerra diventò un emblema della sinistra riformista: il 12 giugno 1999, a Pietrangelo Buttafuoco del quotidiano Il Foglio, il filosofo ammise: "Il fascismo l'abbiamo rimosso perché ce ne vergognavamo. Io che ho vissuto la gioventù fascista mi vergognavo di fronte a me stesso, a chi era stato in prigione e a chi non era sopravvissuto". Indro Montanelli non ha mai nascosto di essere stato fascista: "Non chiedo scusa a nessuno", ribadiva sul Corriere della Sera. Stesso discorso per Enzo Biagi, che nel dopoguerra ha sempre mantenuto gratitudine per Bottai. Eugenio Scalfari, dopo il 1945, parlò di "quaranta milioni di fascisti che scoprirono di essere antifascisti", senza celare mai le proprie ferme convinzioni giovanili: anche lui, fino alla sua caduta, sostenne il fascismo e la sua economia corporativa. Più difficile è stato negare la propria fede fascista, da parte di Dario Fo, che a 18 anni si arruolò nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica Sociale Italiana. Nel 1977 Il Nord, piccolo giornale di Borgomanero, raccontò quei trascorsi della vita di Fo: l'attore querelò subito Il Nord, e al processo disse che l'arruolamento era stato soltanto "un metodo di lotta partigiana". Le testimonianze, invece, lo inchiodarono: la sentenza del tribunale di Varese, datata 7 marzo 1980, stabilì che "è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani". Dario Fo non fece ricorso.

Il numero dei voltagabbana tra gli intellettuali alla caduta del regime fu clamoroso, scrive Bruno Vespa su "Il Giornale". Giuseppe Bottai era il politico più illuminato del fascismo sul piano culturale, ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali. Ebbene, la sua rivista «Primato» fu pubblicata dal 1940 (quando le leggi razziali avevano già consumato i peggiori misfatti) e chiuse solo con la caduta del regime il 25 luglio 1943. In quegli anni, Bottai poté contare sulla fervida collaborazione del meglio della cultura italiana: Giorgio Vecchietti (condirettore), Nicola Abbagnano, Mario Alicata, Corrado Alvaro, Cesare Angelini, Giulio Carlo Argan, Riccardo Bacchelli, Piero Bargellini, Arrigo Benedetti, Carlo Betocchi, Romano Bilenchi, Walter Binni, Alessandro Bonsanti, Vitaliano Brancati, Dino Buzzati, Enzo Carli, Emilio Cecchi, Luigi Chiarini, Giovanni Comisso, Gianfranco Contini, Galvano Della Volpe, Giuseppe Dessì, Enrico Emanuelli, Enrico Falqui, Francesco Flora, Carlo Emilio Gadda, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Bruno Migliorini, Paolo Monelli, Eugenio Montale, Carlo Muscetta, Piermaria Pasinetti, Cesare Pavese, Giaime Pintor, Vasco Pratolini, Salvatore Quasimodo, Vittorio G. Rossi, Luigi Russo, Luigi Salvatorelli, Sergio Solmi, Ugo Spirito, Bonaventura Tecchi, Giovanni Titta Rosa, Giuseppe Ungaretti, Nino Valeri, Manara Valgimigli, Giorgio Vigolo, Cesare Zavattini. Musicisti come Luigi Dallapiccola e Gianandrea Gavazzeni. Artisti come Amerigo Bartoli, Domenico Cantatore, Pericle Fazzini, Renato Guttuso, Mino Maccari, Mario Mafai, Camillo Pellizzi, Aligi Sassu, Orfeo Tamburi.

GIUSEPPE UNGARETTI. Una crisi di coscienza colse Giuseppe Ungaretti. Il poeta notò durante il regime che «tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore» e si definì «fascista in eterno», firmando documenti e appelli per sostenere il fascismo. Salvo firmarne di uguali e contrari alla fine della guerra come alfiere dell'antifascismo, tanto da meritare una grande accoglienza a Mosca da parte di Nikita Kruscev.

NORBERTO BOBBIO. Norberto Bobbio da studente si era iscritto al Guf, l'organismo universitario fascista, e poi aveva mantenuto la tessera del partito, indispensabile per insegnare. Colpito per frequentazioni non sempre ortodosse da una lieve sanzione che avrebbe potuto comprometterne la carriera, Bobbio cercò ovunque raccomandazioni per emendarsi. Suo padre Luigi si rivolse al Duce, lo zio al quadrumviro De Bono, lo stesso giovane docente a Bottai («con devota fascistica osservanza»). Fu interessato anche Giovanni Gentile, che intervenne con successo presso Mussolini. Alla fine, Norberto ebbe la cattedra tanto desiderata. Nel dopoguerra, Bobbio diventò un maître à penser della sinistra riformista italiana. Ma il tarlo del passato lo consumò fino a una clamorosa intervista liberatoria rilasciata il 12 novembre 1999 a Pietrangelo Buttafuoco per Il Foglio: «Noi il fascismo l'abbiamo rimosso perché ce ne ver-go-gna-va-mo. Ce ne ver-go-gna-va-mo. Io che ho vissuto la “gioventù fascista” tra gli antifascisti mi vergognavo prima di tutto di fronte al me stesso di dopo, e poi davanti a chi faceva otto anni di prigione, mi vergognavo di fronte a quelli che diversamente da me non se l'erano cavata».

INDRO MONTANELLI. Montanelli non ha fatto mai mistero di essere stato fascista. (Fu, anzi, un fascista entusiasta). «Sono stato fascista, come tutte le persone della mia generazione», ammise nella sua “Stanza” sul Corriere della Sera nel 1996. «Non perdo occasione per ricordarlo, ma neanche di ripetere che non chiedo scusa a nessuno». Anche nella più sfacciata adulazione del Duce, Montanelli scriveva pezzi di bravura come questo del 1936: «Quando Mussolini ti guarda, non puoi che essere nudo dinanzi a Lui. Ma anche Lui sta, nudo, dinanzi a noi. Il Suo volto e il Suo torso di bronzo sono ribelli ai panneggi e alle bardature. Ansiosi e sofferenti, noi stessi glieli strappiamo di dosso, mirando solo alla inimitabile essenzialità di questo Uomo, che è un vibrare e pulsare formidabilmente umani. Dobbiamo amarlo ma non desiderare di essere le favorite di un harem».

GIORGIO BOCCA. «Quando cominciò il nostro antifascismo? Difficile dirlo...». Dev'essere cominciato tardi, quello di Giorgio Bocca, se è vero quanto egli stesso scrive nel racconto «La sberla… e la bestia» pubblicato l'8 gennaio 1943 su La provincia granda, foglio d'ordini settimanale della federazione fascista di Cuneo. Il 5 gennaio Bocca aveva incontrato in treno sulla linea Cuneo-Torino l'industriale Paolo Berardi, il quale diceva ad alcuni reduci dalla Russia e dalla Francia che la guerra era ormai perduta. Bocca ascoltò, poi gli diede un ceffone e lo denunciò alla polizia per disfattismo. Due anni prima, sullo stesso settimanale, il giovane giornalista aveva scritto un lungo articolo su I protocolli dei Savi di Sion, che si sarebbero rivelati poi (ma lui, ovviamente, non lo sapeva) il falso più clamoroso della propaganda antisemita. Le prime righe dell'articolo recitano: «Sono i Protocolli dei Savi di Sion un documento dell'Internazionale ebraica contenente i piani attraverso cui il popolo Ebreo intende giungere al dominio del mondo...». E le ultime: «Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell'Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù».

DARIO FO. Dario Fo si arruolò a 18 anni come volontario prima nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica sociale italiana. Il 9 giugno 1977, quando Fo era ormai da anni celebre per il suo lavoro teatrale Mistero buffo, un piccolo giornale di Borgomanero (Novara), Il Nord, pubblicò una lettera di Angelo Fornara che ne raccontava i trascorsi repubblichini. Fo sporse querela con ampia facoltà di prova, ma il processo non ebbe l'esito da lui sperato. Secondo quanto riferì Il Giorno (8 febbraio 1978), l'attore disse in aula che il suo «arruolamento era una questione di metodi di lotta partigiana» per coprire l'azione antifascista della sua famiglia. Ma le testimonianze furono implacabili. Il suo istruttore tra i parà, Carlo Maria Milani, mise a verbale: «L'allievo paracadutista Dario Fo era con me durante un rastrellamento nella Val Cannobina per la conquista dell'Ossola, il suo compito era di armiere porta bombe». E l'ex comandante partigiano Giacinto Lazzarini lo inchiodò: «Se Dario Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo partigiano, perché non l'ha detto subito, all'indomani della Liberazione? Perché tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?». Una testimone, Ercolina Milanesi, lo ricorda «tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui. L'avremmo fatto, ma avevamo quindici anni...». L'11 marzo 1978, mentre il processo contro gli accusatori di Fo era in pieno svolgimento, Luciano Garibaldi pubblicò sul settimanale Gente una foto dell'attore in divisa della Repubblica sociale (altissimo, magrissimo come è sempre stato) e un suo disegno dove appaiono alcuni camerati con le anime dei partigiani uccisi che escono dalle canne dei mitra («Sono apocrife e aggiunte da altri», si difenderà). Il 7 marzo 1980 il tribunale di Varese stabilì che «è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani». Il futuro premio Nobel non ricorse in appello e la sentenza divenne definitiva.

VITTORIO GORRESIO. Vittorio Gorresio, una delle firme più brillanti della sinistra riformista del dopoguerra, scriveva cose impegnative sulla gioventù hitleriana: «Così pregano gli ariani piccoli, ora che, dissipato il fumo del rogo ove furon arsi i venticinquemila volumi infetti di semitismo, l'atmosfera tedesca è più limpida e chiara». E nel 1936 sulla Stampa, il giornale di cui sarebbe diventato negli anni Sessanta la prima firma politica, confessava: «Ringrazio Dio perché ci ha fatto nascere italiani ed è con gli occhi lucidi che si sente nell'animo la gratitudine del Duce».

EUGENIO SCALFARI. Nonostante la giovane età, Scalfari era riuscito a far pubblicare alcuni scritti di Calvino su Roma fascista, era diventato amico di Bottai, che chiamava «il mio Peppino», e fino alla caduta del fascismo sostenne con convinzione l'economia corporativa. Ma va ascritto a suo merito di aver sempre parlato nel dopoguerra di «quaranta milioni di fascisti che scoprirono di essere antifascisti», non nascondendo mai le sue ferme convinzioni giovanili.

ENZO BIAGI. Montanelli collaborò a Primato come Enzo Biagi, che nel dopoguerra non ha negato i suoi trascorsi (scrisse anche per la rivista fascista bolognese Architrave) e la gratitudine per Bottai. Ma i suoi avversari, spulciando negli archivi, hanno scovato altri episodi. Secondo il racconto di Nazario Sauro Onofri in I giornali bolognesi nel ventennio fascista, nel 1941 Biagi, allora ventunenne, recensì il film Süss l'ebreo, formidabile strumento della propaganda antisemita di Himmler, sul foglio della federazione fascista bolognese L'assalto, scrivendo che il pubblico «era trascinato verso l'entusiasmo» e «molta gente apprende che cosa è l'ebraismo e ne capisce i moventi della battaglia che lo combatte». (Biagi era in buona compagnia, perché sullo stesso giornale, fortemente antisemita, si scatenava anche il giovanissimo Giovanni Spadolini, mentre una lusinghiera recensione allo stesso film fu firmata dal regista Carlo Lizzani). Biagi restò al Resto del Carlino, controllato dai fascisti e ormai anche dai nazisti, fino alla tarda primavera del 1944, ricevendo - come tutta la redazione - generosi sussidi economici dal ministero della Cultura popolare (il Minculpop). Dieci mesi dopo entrava a Bologna con le truppe americane.

Pansa: ogni italiano è figlio di un fascista. Per oltre vent'anni nessuno si oppose al regime del Duce. Solo la conduttrice de "Le invasioni barbariche" sembra ignorarlo, scrive Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”. Mi ha fatto tenerezza la signora Daria Bignardi nel corpo a corpo con un deputato grillino, Alessandro Di Battista. Era in diretta su La7 per le sue Invasioni barbariche e tentava di mettere in difficoltà il grillino sul padre fascista. Deliziosa ingenuità quella di madamin Bignardi. Risultava chiaro che nessuno le aveva spiegato che per vent’anni, dal 1922 al 1943, tutti gli italiani sono stati fascisti, hanno adorato Benito Mussolini, gli hanno obbedito e si sono fatti accoppare per lui. Fino alla notte del 25 luglio, quando un gruppo di gerarchi, e non un’insurrezione popolare, mandò a gambe all’aria il Duce. Nel mio piccolo, sono stato anch’io un fascista, essendo venuto al mondo il 1° ottobre 1935, in pieno regime mussoliniano. Il giorno successivo alla mia nascita, la sera del 2 ottobre, dal balcone di palazzo Venezia il Duce annunciò all’Italia di aver dichiarato guerra all’Etiopia. Per volere di Benito, il discorso venne trasmesso in tutto il Paese, nelle piazze dove milioni di persone stavano in religiosa attesa del suo verbo. Tra i tantissimi raccolti nella piazza principale della nostra città, doveva esserci anche mio padre Ernesto, operaio delle Poste con la mansione di guardafili del telegrafo. E in quanto dipendente statale precettato per l’adunata in onore dell’attacco al maledetto Negus, al secolo Hailè Selassiè. Però mio padre in piazza del Cavallo non ci andò. Gli era appena nato un figlio, il primo, e questo evento gli sembrava un motivo più che valido per restare accanto alla moglie, mia madre Giovanna. Devo ricordare che in quel tempo le donne partorivano in casa con l’assistenza di una levatrice, ossia di un’ostetrica. Così aveva fatto Giovanna, urlando un paio d’ore poiché ero grosso e lungo. E non volevo saperne di uscire dalla sua pancia. Il giorno successivo, era il 3 ottobre, due della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale si presentarono in casa nostra e chiesero a Ernesto perché mai non fosse andato anche lui in piazza ad ascoltare il Duce. Mio padre spiegò che gli era appena nato un figlio. «Maschio o femmina? », domandarono i militi. «Maschio», rispose Ernesto. E i militi, una coppia di bonaccioni in divisa e camicia nera, si congratularono: «Ottimo! Anche lui diventerà un soldato della Patria fascista». Mio padre gli offrì un bicchiere di Barbera che bevvero alla salute di mia madre e dell’inconsapevole sottoscritto, addormentato nella culla. E l’ispezione finì lì. A vestire la divisa di soldato del Duce non feci in tempo perché il regime cadde molto prima. In compenso, il 1° ottobre 1941, giorno del mio sesto compleanno, divenni un Figlio della lupa. Era il gradino iniziale della scala inventata per la gioventù del regime. A sette anni, in seconda elementare, si restava sempre Figli della Lupa. A otto si diventava Balilla. Si chiamava Balilla anche il giornaletto che leggevo, una specie di concorrente del Corrierino dei piccoli. Lì avevo imparato chi erano i nemici dell’Italia. Re Giorgetto d’Inghilterra. Il ministro Ciurcillone. Rusveltaccio Trottapiano, presidente americano, che ubbidisce alla signora, la terribile Eleonora. Ma i più pericolosi erano i russi che si ammazzavano tra di loro. Il terribile Stalino, l’Orco rosso del Cremlino, dice urlando come un pazzo alle guardie del palazzo: i compagni qui segnati siano tutti fucilati! Nell’estate del 1943, conclusa la seconda elementare, i miei genitori decisero di mandarmi alla colonia montana delle Regie Poste di Alessandria. Era un luogo triste, nascosto fra alture basse vicine a Biella, dove pioveva sempre. Le giornate si aprivano con l’alza bandiera e le preghiera del Balilla, recitata a turno da uno dei ragazzini: «Signore, benedici il Duce nostro nella grande fatica che Egli compie. E poiché l’hai donato all’Italia, fallo vivere a lungo per la Patria e fa’ che tutti siano degni di lui...». Ogni mattina, dopo il caffelatte, cominciava l’ora di dottrina fascista. Ed era l’unica vera attrazione della giornata. Il merito andava all’insegnante: una ragazzona maestosa, un trionfo di capelli rossi e un seno stupefacente, figlia del capostazione della nostra città. Era una cliente della modisteria di mia madre e aveva fatto impazzire il panettiere del negozio accanto. Quando andavo a comprare il pane, il fornaio mi domandava: «Le hai viste quelle tette? Darei mille lire per poterle pastrugnare! ». Ma la maggiorata dai capelli rossi non badava alle occhiate dei maschi, tanto meno alle nostre di ragazzini troppo arditi. E per tenerci a bada, escogitava ogni giorno una preghiera per il Duce. A me ne toccò una che recitava: «Gioventù italiana di tutte le scuole, prega che la Patria non manchi al suo radioso avvenire. Chiedi a Iddio che il ventesimo secolo veda Roma centro della civiltà latina, dominatrice del Mediterraneo, faro di luce per le genti del mondo». Un mese dopo, era la fine del luglio 1943, tutto sembrò sparire con la caduta del Duce. In piazza si videro molte manifestazioni di giubilo, ma la maggior parte della gente se ne restò a casa. La guerra iniziata nel 1940, e i tanti ragazzi morti su troppi fronti, stavano allontanando dal fascismo un numero sempre più grande di italiani. Ma nessuno aveva il coraggio di riconoscere di essere stato un fascista senza pentimento. E di aver sostenuto con entusiasmo un regime che adesso ci aveva portato al disastro. Il nostro fascismo esistenziale lo si constatò sino in fondo in due momenti terribili che confermarono la natura crudele della dittatura di Mussolini. Il primo, nel 1938, fu il varo delle leggi razziali contro gli ebrei. Il secondo l’inizio delle deportazioni nei campi di sterminio nazisti di migliaia di israeliti, quando l’Italia del centro e del nord stava sotto la Repubblica sociale, un regime sostenuto dai tedeschi. Mi rammento bene quel che accadde in quei momenti. Per il motivo che non accadde nulla. Nella mia piccola città, gli ebrei perseguitati e poi uccisi nelle camere a gas li conoscevamo tutti. Erano nostri vicini di casa, insegnanti nelle nostre scuole, medici che ci avevano curato, clienti della modisteria di mia madre. Ma nessuno aprì bocca. Pochi li compatirono. Pochissimi gli offrirono un aiuto. Quando ci ripenso oggi, mi rendo conto di una verità terribile. Pure in casa mia, dove ogni sera si discuteva di tutto, della guerra, del fascismo, di Mussolini e dei suoi gerarchi, della Repubblica sociale e dei tedeschi, nessuno disse anche una sola parola sulla fine di persone identiche a noi. E mi domando se, insieme al nostro fascismo mentale, dentro il cuore di ciascuno non si celasse il mostro dell’indifferenza disumana, della cattiveria, della ferocia. Per tutto questo mi sembra grottesco che nell’Italia del 2014 qualcuno chieda a qualcun altro: tuo padre era fascista, tuo nonno portava la camicia nera? La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo. Oggi la mia speranza è che lo sfacelo della nostra classe politica non metta in pista qualche nuovo signore autoritario che ci obblighi a innalzare la bandiera voluta da lui. Il colore non importa. Però mi domando quanti accetterebbero di sventolarla. E temo che anche stavolta non sarebbero pochi.

Prima di “Bella ciao” la canzone più nota era “Eia eia alalà”. La cantavano gli italiani sbarcati in Albania per spezzare le reni alla Grecia. Poi i Figli della Lupa e i piccoli Balilla. “La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo” scrive Giampaolo Pansa che quell’Italia l’ha vissuta e poi l’ha raccontata per demolire soprattutto la mitizzazione arbitraria della guerra civile. Perché l’Italia è stata una nazione in grandissima parte attratta dal Fascismo, tutti gli italiani sono stati fascisti, hanno adorato Mussolini e gli hanno obbedito, almeno fino alla notte del 25 luglio 1943 quando un gruppo di gerarchi, e non un’insurrezione popolare, mandò a gambe all’aria il Duce. Nell'Italia del Duemila può presentarsi l'avventura autoritaria di un nuovo Benito Mussolini? Anche oggi siamo un paese strozzato da una crisi pesante, con una casta di partiti imbelli e un possibile conflitto tra ceti diversi. Sono queste assonanze con gli anni Venti del Novecento che hanno spinto Giampaolo Pansa a scrivere "Eia eia alalà", un antico grido di vittoria riesumato dallo squadrismo fascista. Il racconto inizia con la lotta di classe esplosa tra il 1919 e il 1922, guidata dai socialisti e sconfitta dall'inevitabile reazione della borghesia. Il nero nacque dal rosso: l'estremismo violento delle sinistre non poteva che sfociare nella marcia su Roma di Mussolini, il primo passo di una dittatura ventennale. La ricostruzione di Pansa ruota attorno a un personaggio esemplare anche se immaginario: Edoardo Magni, un agrario padrone di una tenuta tra il Monferrato e la Lomellina. Coraggioso ufficiale nella Prima guerra mondiale, finanziatore delle squadre in camicia nera, all'inizio convinto della necessità di una rivoluzione fascista ma via via sempre più disincantato. Sino a diventare un sostenitore del leader squadrista dissidente Cesare Forni, ritenuto da Mussolini un nemico da sopprimere. Magni è il protagonista di un dramma a metà tra il romanzo e la rievocazione storica, gremito delle tante figure che attorniano il Duce, una nomenclatura potente descritta con realismo. In Eia eia alalà Pansa accompagna il protagonista nello scorrere degli anni e nella sfiducia crescente verso il regime. Abbiamo di fronte un ricco signore alle prese con tante incertezze e molti amori: Marietta, Rosa, Anna, Elvira e infine Marianna. Sarà questa giovane donna ebrea incontrata nel ghetto di Casale a fargli scoprire lo sterminio degli israeliti della città, con un viaggio tormentato che alla fine la condurrà a una decisione inaspettata. Grazie alle ricerche di Marianna, Magni conosce una dopo l’altra le storie degli ebrei uccisi ad Auschwitz. Nell’indifferenza gelida dei tanti che si voltavano dall’altra parte e fingevano di non vedere. Eia eia alalà è anche l’affresco di un’Italia che assomiglia non poco a quella di oggi: distratta, egoista e forse pronta ad accettare nuove tragedie.

.. Pansa: "Vi racconto l'Italia in cui tutti, o quasi, gridavano Eia Eia Alalà". Nel suo nuovo libro Giampaolo Pansa autore del «Sangue dei vinti» ricostruisce l'ascesa del fascismo e il consenso di massa al regime. Che molti dimenticano..., scrive Matteo Sacchi su “Il Giornale”. Si chiama Eia Eia Alalà ed è in libreria da oggi. Se non bastasse il titolo (a caratteri cubitali rossi in stile molto littorio), ci pensa il sottotitolo a spiegare che cosa si può trovare in questo volume (Rizzoli, pagg. 378, euro 19,90) a firma Giampaolo Pansa: Controstoria del fascismo. Pansa infatti, usando l'artificio del romanzo - «a me il lettore piace acchiapparlo per la coda, non annoiarlo a colpi di saggio» - mette i puntini sulle «i» della storia italiana della prima metà del '900 per spiegare che cosa sia stato e come sia nato il Ventennio mussoliniano. Il suo espediente narrativo è partire dalla sua terra e raccontare attraverso le vicissitudini del possidente terriero Edoardo Magni (personaggio di fantasia, ma nel libro ce ne sono molti realmente esistiti) come l'Italia sia diventata, convintamente, fascista. E lo sia rimasta a lungo. Non c'è bisogno di dire, viste le scomode verità venute a galla con i suoi precedenti libri (a partire da Il sangue dei vinti ) e il tema, che la polemica è garantita. E che qualche gendarme della memoria, per usare un'espressione dello stesso Pansa, avrà qualcosa da dire.

Dunque, Eia Eia Alalà. L'urlo di una generazione?

«Non sai quante volte l'ho sentito gridare quando ero bambino ed ero un Figlio della Lupa. Ho anche una foto in cui, piccolissimo, facevo il saluto romano, davanti al monumento ai Caduti. Non ho fatto in tempo a diventare balilla, però. Il regime è caduto prima. E per quanto in casa dei gerarchi sentissi dire peste e corna. Il sottofondo della vita degli italiani era quello lì».

Per questo l'hai scelto come titolo?

«In parte, volevo anche un titolo che cantasse. Che rendesse l'idea di quello che a lungo il regime è stato per gli italiani. L'avventura del fascismo è stata legata all'idea di vincere, di migliorare il Paese. Rende l'idea di quella giovanile goliardia che affascinò molti. Un fascino che iniziò a incrinarsi solo con le orribili leggi razziali e crollò definitivamente solo con gli orrori della guerra».

Non molti hanno voglia di ricordare che il fascismo ebbe davvero una presa collettiva. Tu invece questo lo racconti nel dettaglio...

«Ho voluto fare un racconto senza il coltello tra i denti. Che cosa rimprovero io a storici, anche molto più bravi di me che di solito scrivono su Mussolini? Ma di avere una partecipazione troppo calda, schierata. Io, anche grazie all'invenzione di un personaggio come Magni, invece ho cercato di fare un racconto neutrale. Per chi c'era è un'ovvietà che il fascismo ebbe un consenso di massa. Tutti erano fascisti tranne una minoranza infima. Gli antifascisti erano una scheggia microscopica rispetto a milioni di italiani. Gli italiani ieri come oggi volevano solo un po' di ordine... E Mussolini glielo diede. Ai più bastò».

Tu attribuisci molte responsabilità ai socialisti che favorirono involontariamente il successo del fascismo, regalandogli il potere... A qualcuno verrà un colpo!

«La guerra perpetua tra rossi e neri creava sgomento. Gli scioperi nelle città, ma soprattutto nelle campagne crearono il caos... Si minacciò la rivoluzione senza essere capaci di farla davvero. Si diede l'avvio alle violenze senza calcolare quali sarebbero state le reazioni. E per di più, esattamente come la sinistra attuale, i socialisti erano perpetuamente divisi. Pochi capirono quanto fosse grave la situazione. Tra questi Pietro Nenni, il quale a proposito della scissione comunista del 1921 scrisse: "A Livorno è cominciata la tragedia del proletariato italiano"».

Però qualche responsabilità la ebbe anche la borghesia italiana, o no?

«Noi non avevamo la tradizione liberale di altri Paesi. Ed eravamo in una situazione economica terribile che a tratti mi ricorda quella di oggi. C'erano dei partiti-casta in cui la gente non si riconosceva e lo scontro tra ceti (o classi) era alle porte... Il nero è nato dal rosso, la paura ha fatto allineare gli italiani come vagoni ferroviari dietro a Mussolini. Non per obbligo, nonostante le violenze degli squadristi. Sono stati conquistati dalla grande calma dopo la marcia su Roma. L'italiano dei piccoli centri, delle professioni borghesi, voleva soltanto vivere tranquillo. Avuta la garanzia di una vita normale e dello stipendio a fine mese, di chi fosse a palazzo Chigi o a palazzo Venezia gli importava poco».

Qualunquismo?

«L'Italia continuava a essere soprattutto un Paese agricolo. Lo sciopero agrario del 1920 rischiò di paralizzare la campagna. Le leghe rosse impedendo la mungitura, nel libro lo racconto, minacciarono di far morire le mucche... Da lì nacque un fascismo virulento e tutto particolare che poi si prese la rivincita. Il fascismo è stato il ritratto di gruppo degli italiani. C'era dentro di tutto. C'erano molte forze vitali e diverse. Poi il criterio dell'obbedienza cieca, pronta e assoluta che tanto propagandava Starace fece sì che nel cerchio di persone più vicine al Duce si andasse verso una triste selezione al ribasso».

In Eia Eia Alalà descrivi la parabola triste di molti fascisti «diversi».

«La scollatura tra italiani e regime iniziò con le leggi razziali, non prima. Lì inizio il male assoluto, la vergogna. Una delle figure più tragiche del libro è Aldo Finzi. Di origine ebraica, aviatore, fascista della prima ora, poi messo ai margini e fucilato alle Fosse Ardeatine. Poi è arrivata la guerra e la rimozione di massa».

Ma davvero vedi così tante assonanze tra l'oggi e l'avvento del fascismo?

«È possibile non vederle? L'unica variante è il terrorismo internazionale. Ed è una variante peggiorativa».

“All’epoca dell’Italia che gridava eia eia alalà, Giampaolo Pansa era un bambino” scrive Federico Guiglia del Messaggero.

«Ma quel grido lo sentivo di continuo», ricorda il giornalista e scrittore. Ha appena pubblicato un libro che proprio quelle parole riporta in copertina: Eia eia alalà, controstoria del fascismo, Rizzoli editore. Un racconto sul passato per dire del presente: guardate che cos’è successo, e può ancora succedere, lui dice. «Quando il fascismo è caduto, io avevo sette anni e mezzo ed ero figlio della Lupa a Casale Monferrato», riprende il filo del discorso. «Ho pure una foto scattata da mio padre davanti al monumento ai Caduti della prima guerra mondiale, in cui apparivo vestito in quel modo un po’ ridicolo con fasce bianche e camicia nera e facevo il saluto romano. Insieme con la canzone «Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza», eia eia alalà era un po’ il “jingle” del fascismo». «Il nero nacque dal rosso» è la riflessione-chiave dei personaggi del libro (dall’immaginario possidente terriero Edoardo Magni al vero edicolante di Pansa citato in prefazione).

Ma socialisti e fascisti erano nemici irriducibili: come fa a imputare ai primi la nascita dei secondi?

«Guardiamo le date. Nel 1915 per noi comincia la prima guerra mondiale, che finisce nel novembre del 1918. I soldati tornano a casa e la grande maggioranza di loro erano poveracci e contadini. S’assiste all’espansione politica e sindacale della sinistra di allora. C’era il Partito socialista. C’erano le leghe operaie e contadine che nell’Italia della pianura padana si svilupparono molto. Dopo la prima vittoria elettorale del Partito socialista, comincia quello che Pietro Nenni chiamò il biennio rosso. Non soltanto una serie di scissioni a sinistra, ma soprattutto questi matti delle leghe che annunciavano l’arrivo del bolscevismo e della rivoluzione. Dicevano che l’Italia doveva fare come Lenin. Violenze dappertutto, in particolare nelle campagne. Basta ricordare il grande sciopero agrario del 1920, quando le leghe rosse, per piegare i proprietari agricoli, ordinarono ai braccianti e ai mungitori di lasciar morire le vacche per non essere munte».

Sta dicendo che, per paura del rosso, gli italiani diventano neri?

«A ogni azione corrisponde una reazione. È quello che non hanno capito le sinistre, la frazione che nel 1921 fondò a Livorno il Partito comunista, i massimalisti. L’hanno capito un po’ i socialisti riformisti e l’hanno scritto sul loro giornale, La Giustizia. Non è che il fascismo è un mostro che nasce per caso. È un mostro che viene creato dai suoi avversari, che fanno di tutto per spaventare la borghesia».

La sindrome per l’uomo solo al comando ha colpito una volta sola o può colpire ancora il sentimento, le paure, il conformismo di tanti italiani?

«La sindrome la vediamo anche oggi. Quando un presidente del Consiglio invece di rivolgersi al Parlamento si rivolge alla gente e vuole essere solo a decidere, il rischio c’è sempre. È proprio uno dei motivi per cui ho scritto il libro. Com’era l’Italia del 1920/21? Stremata dal punto di vista economico dopo una guerra mondiale pazzesca. Aveva una classe politica, oggi diremmo una casta, screditata, ritenuta imbelle e corrotta. E poi c’erano i conflitti sociali. Ci sono affinità con l’Italia di oggi? Temo di sì. E poi gli italiani sono gente che ama essere comandata da un signore solo. Questo non è il Paese dalla tradizione democratica inglese o americana».

Fin dai tempi della storia narrata nei libri di Montanelli, gli storici non amano i giornalisti che si cimentano sul loro terreno. Avendo lei mescolato romanzo e storia non teme di avallare il loro pregiudizio?

«Non me ne frega nulla del pregiudizio. Bisogna avere una patente speciale per scrivere di storia come per guidare la Ferrari? Io ho profonda disistima per la classe accademica degli storici italiani, che è egemonizzata dai postcomunisti. Quando nel 2003 ho pubblicato Il Sangue dei vinti, che ha venduto più di un milione di copie, sono stato bombardato da tutte le parti. Ma io li conosco. Sono stato uno studente diligente, facendo una tesi di laurea – poi pubblicata da Laterza – sulla guerra partigiana. Arrivato a settantanove anni, Pansa ha soltanto uno di cui preoccuparsi: il Padreterno. Non ho ancora capito quanto tempo mi lascerà per scrivere e rompere le scatole al prossimo. Ma non ce l’ho con tutti i professori. Ho un grandissimo rispetto per Renzo De Felice, di cui sono stato allievo indiretto avendo letto tutti i suoi libri. E non solo lui».

De Felice fu il primo a parlare di “anni del consenso” per il fascismo, almeno fino alle vergognose leggi razziali del 1938.

«Il consenso c’era, non l’ha inventato De Felice. Non è vero che Mussolini è arrivato e ha ammanettato milioni di italiani. Gli italiani sono stati quasi tutti fascisti. Tranne una minoranza infima di comunisti, cattolici, socialisti repubblicani, anarchici che stavano in galera o costretti a espatriare. Poi c’era chi si iscriveva al fascio perché obbligato, perché gli conveniva, per quieto vivere. Se oggi spuntasse un altro Mussolini, avremmo un po’ di manifestazioni in piazza, ma la maggioranza degli italiani gli andrebbe dietro. L’attualità del mio libro è proprio questa: guardate un po’ che cosa è successo, come la storia drammatica degli ebrei deportati nella primavera del ’44 che racconto. E la gelida indifferenza di tanti che si giravano dall’altra parte».

"A 10 anni dal "Sangue dei vinti" lotto ancora con le bugie rosse". Il giornalista che per primo ha raccontato gli orrori della guerra civile ha scritto una nuova prefazione al suo "classico". E ci racconta perché, scrive Matteo Sacchi su “Il Giornale”. Dieci anni fa un grosso sasso, quasi un meteorite, precipitò da grande altezza nel piccolo stagno della storiografia italiana. Uno stagno dove a gracidare erano, chi meglio chi peggio, più o meno sempre gli stessi, e da un bel po'. A lanciarlo un «non professionista», in senso accademico, della Storia: il giornalista Giampaolo Pansa. Con il suo Il sangue dei vinti (Sperling&Kupfer) riproponeva il tema delle uccisioni sommarie praticate dai partigiani durante la guerra civile, dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. E non solo. Metteva per la prima volta in luce i virulenti strascichi di quello scontro. Le numerosissime esecuzioni sommarie proseguite sino al 1948. Soprattutto in quello che era conosciuto come il «Triangolo della morte» che aveva per vertici Castelfranco Emilia, Piumazzo e Mazzolino. E spesso a morire non erano solo i fascisti, ma chiunque venisse visto come d'ostacolo a una futura rivoluzione comunista.
Il libro, come è noto, fu subito aggredito dai "guardiani della memoria" partigiana. Spesso senza nemmeno una lettura sommaria, a prescindere. Oggi a dieci anni di distanza, seppure molto a fatica, la percezione sul tema è cambiata. Ecco perché a questa nuova edizione (Sperling&Kupfer, pagg. 382 euro 11,90) Giampaolo Pansa ha aggiunto una nuova prefazione in cui si leva qualche sassolino dalla scarpa: «"Arrendetevi siete circondati!". Urla così Beppe Grillo... Il suo grido di battaglia mi sembra adatto a descrivere una situazione molto diversa. Anche gli avversari dei miei libri sulla guerra civile sono nei guai. Hanno scelto di farsi circondare da se stessi, rifiutando qualsiasi revisionismo sull'Italia tra in 1943 e il 1945. E dovrebbero arrendersi alla sconfitta». Ne abbiamo parlato con lui.

Ma a dieci anni dal Sangue dei vinti che sensazione ha provato a tornare su quelle pagine?

«Io ho scritto moltissimi libri e di norma non li rileggo mai dopo che ho licenziato le seconde bozze... Ho fatto così anche col Sangue dei vinti: l'ho tenuto lì come fosse il libro di un altro. Rileggendolo ora, quando l'editore mi ha chiesto di ripubblicarlo mi sono reso conto davvero di quanto sia gonfio di sangue, di esseri umani citati per nome e per cognome, di morti terribili. È per questo che ho accettato la ripubblicazione, penso possa avere un senso per i giovani, per chi aveva dieci anni quando è uscito la prima volta e ora ne ha venti... Credo possa raccontare molto anche a questa Italia di oggi cosa sia stato quel conflitto civile che è durato sino al '48. Perché io sono convinto che la guerra intestina sia finita con il 18 aprile del 1948 quando De Gasperi, vincendo le elezioni, mise il Paese su un binario di tranquillità».

All'uscita il libro provocò il finimondo. Se lo aspettava?

«No, si fece molto più "rumore" di quanto all'epoca potessi prevedere. Forse in un certo senso perché il mio libro dimostrava che era errato il principio secondo cui la Storia la fanno soltanto i vincitori. Quella dei vincitori è una storia bugiarda. Solo che questo era inaccettabile per molti, e in parte è inaccettabile ancora oggi. C'era e c'è chi pensa che i fascisti avessero un solo dovere: quello di stare zitti, senza nemmeno poter ricordare i propri morti. Ma soprattutto non scrivere. Ma io non volevo una storia di parte, a me interessavano i fatti, raccontare che l'Italia rischiò di diventare l'Ungheria del Mediterraneo».

E Lei arrivava da sinistra...

«Sì, io non mi chiamavo Giorgio Pisanò. Io di Pisanò ho sempre avuto grandissima stima: è stato un pioniere in questi studi. Ma Giorgio veniva delegittimato perché veniva dal mondo del fascismo... era chiaramente un intellettuale di destra».

Alla fine Il sangue dei vinti è diventato un ciclo. Lei è rimasto a lungo in questo filone.

«Il ciclo è iniziato per essere precisi col libro precedente, I figli dell'Aquila, e poi è proseguito con altri titoli come Sconosciuto 1945, La grande bugia, I gendarmi della memoria. E se io sarò ricordato per qualcosa credo che lo sarò proprio per il ciclo del Sangue dei vinti. Me ne accorgo perché le persone mi fermano per ringraziarmi... Certo se vado in una zona dove dominano i centri sociali è l'opposto. Io dovuto smettere di andare a parlare in pubblico. Per fortuna i libri buoni si fanno strada da soli...».

Ecco, allora partendo dal tuo titolo parliamo anche dei "gendarmi della memoria". Nell'introduzione cita Sergio Luzzatto, che con Lei era stato molto duro, e ora a causa del suo Partigia è finito sotto il tiro incrociato di altri gendarmi...

«Già quando presentai I figli dell'Aquila a Genova Luzzatto mi sottopose a un assalto verbale non indifferente... Ora lui ha scritto Partigia. Io l'ho letto e per me non racconta una storia diversa da molte altre... Certo per uno come lui significa rimangiarsi un atteggiamento che prima non ha mai voluto cambiare. Mi ha dato anche atto di aver scritto i miei libri con rispetto della verità... Ovviamente, però, appena si è messo fuori dal giro dei "gendarmi della memoria", non gliel'hanno perdonata. Infatti cosa è accaduto? Sebbene in modo più soft di come fecero con me, gli sono andati tutti addosso. Ho letto le cose velenose scritte da Gad Lerner, che credo non abbia neppure aperto il saggio. Lo ha demolito senza pietà. Anche con Il sangue dei vinti iniziarono il fuoco di sbarramento sette-otto giorni prima di avere il libro a disposizione. Ne cito due per tutti: Giorgio Bocca e Sandro Curzi... Ma non è elegante far polemica con chi non c'è più. Qualcuno arrivò a dire che avevo scritto Il sangue dei vinti per compiacere Berlusconi che mi avrebbe poi ricompensato con la direzione del Corriere della Sera... Cose deliranti. Provocate da code di paglia chilometriche. Eppure i gendarmi sanno bene che queste cose sono accadute. Io ho ricevuto in dieci anni 20mila lettere che provano quei fatti».

Faccio l'avvocato del diavolo. Non hai mai pensato che le sue inchieste siano state sfruttate, a destra, anche politicamente?

«C'è una destra fatta di persone che hanno subìto per decenni il silenzio. Sono contentissimo di averli aiutati. Ma la destra politica non aveva molti mezzi culturali per sostenere queste battaglie. Già nella Prima Repubblica si diceva che la Dc pensava agli affari, mentre il Pci ai mezzi di propaganda culturale. Le cose non sono cambiate di molto. Io non sono mai stato invitato da Fabio Fazio, e sappiamo quanto questo possa contare per un libro. Ma in fondo questo è niente. Contiamo quante cattedre di Storia contemporanea sono affidate a docenti di sinistra... Ed è una materia fondamentale».

Quanti anni ci vorranno per arrivare a un giudizio equanime su questo periodo?

«Prima o poi succederà. La Storia è una talpa che scava, prima o poi esce fuori. La verità emergerà, ammesso che si abbia ancora interesse a cercarla».

La nostra storia. Illusi e disillusi dal fascismo nel nuovo libro di Giampaolo Pansa, scrive Dino Messina su “Il Corriere della Sera”. Fascismo «autobiografia della nazione», come sostenne Piero Gobetti, oppure parentesi della storia italiana, come scrisse Benedetto Croce? Dopo aver letto il nuovo libro di Giampaolo Pansa “Eia eia alalà”, edito da Rizzoli (pagine 376, euro 19,90), abbiamo rafforzato la convinzione che avesse ragione Gobetti. Attraverso il punto di vista di un personaggio di invenzione, Edoardo Magni, proprietario terriero tra il Monferrato e la Lomellina, Pansa racconta in forma di romanzo, in pagine ricche di fatti reali, di colpi di scena (e anche di sensualità), il dramma di un popolo all’indomani del primo conflitto mondiale. Un Paese, soprattutto al Nord, dilaniato dallo scontro tra le potenti organizzazioni sindacali, un Partito socialista massimalista, e una classe borghese timorosa che l’Italia potesse fare la fine della Russia bolscevica. In questa vicenda, come sa chi ha nozioni di storia (l’autore cita i classici di Renzo De Felice e di Emilio Gentile), ebbero un ruolo fondamentale i reduci della Grande guerra, gli ufficiali che avevano combattuto per più di tre anni e che si trovarono spaesati nella nuova Italia. Reduce è il protagonista immaginario del romanzo, così come lo erano tanti personaggi storici realmente vissuti. A cominciare da Cesare Forni, tenente d’artiglieria tra i primi ad aderire ai Fasci di combattimento, protagonista della reazione agraria, a capo dei manipoli che misero a ferro e fuoco Milano con gli assalti alla sede dell’«Avanti!» e a Palazzo Marino. Un ras locale che presto si mise in contrasto con il regime, al punto da subire un’aggressione davanti alla stazione di Milano dagli stessi sgherri di Mussolini (Amerigo Dumini, in primis) che sequestrarono e uccisero Giacomo Matteotti nel giugno 1924. Due terzi del libro di Pansa sono dedicati agli albori e all’avvento del fascismo, prima che diventasse regime. È la storia di un’illusione e di una rapida disillusione, almeno per i protagonisti messi a fuoco da un grande giornalista che si è saputo reinventare come scrittore, sia di libri importanti di storia (checché ne abbia scritto qualche accademico con la puzza al naso) come “Il sangue dei vinti”, in cui ha messo in luce il lato oscuro della Resistenza, sia di romanzi come questo. La forza di “Eia eia alalà” sta anche in una narrazione della storia del fascismo, o meglio della sua «controstoria», come recita il sottotitolo, da un punto di vista locale, quello delle terre attorno a Casale Monferrato dove Pansa è nato nel 1935 e a cui ha dedicato pagine importanti. Scontri sociali e intrighi politici sono raccontati in maniera del tutto originale: voce narrante, si diceva, è il latifondista Magni, finanziatore di Forni e sempre impegnato in avventure amorose. Le sue emancipate e spregiudicate amanti hanno il ruolo di fargli aprire gli occhi sulla reale natura del regime. Attorno al protagonista si muovono figure realmente vissute come il quadrumviro Cesare Maria Vecchi o i conti Cesare e Giulia Carminati. Uno dei quadretti più spassosi è l’incontro galante fra l’avvenente contessa Giulia e un Mussolini assetato di sesso. Il Duce viene ritratto nei momenti privati, ma anche nelle stanze del potere, circondato da carrieristi e affaristi di cui ha bisogno e che non lo contrastano quasi mai, anche nelle scelte più sciagurate. L’atto conclusivo dell’affresco disegnato da Pansa riguarda le leggi razziali. Davanti alla persecuzione degli ebrei, all’indifferenza degli italiani per la sorte di quei ragazzi che non potevano più frequentare le scuole, dei professori che non potevano più insegnare, dei professionisti cacciati dai loro studi, la disillusione del protagonista diventa totale. Edoardo, un fascista in buona fede, un pavido che non ha mai saputo reagire alle nefandezze del regime, assomiglia ai milioni di italiani che, anche per quieto vivere, applaudirono il Duce e che dopo vent’anni si accorsero del disastro.

Pansa: «Partiti in crisi, sembra l’Italia prima del fascismo», scrive Antonella Filippi su “Il Giornale di Sicilia”. Non serve neppure scavare troppo: le analogie tra l'Italia di oggi e quella del primo dopoguerra, tra il 1919 e il 1922, vengono a galla con facilità. Estrema. Crisi economica, partiti inaffidabili come la casta di governanti litigiosi e inconcludenti, conflitti sociali. Deve essere un paese infrangibile il nostro, capace di resistere a tutto, se ancora, dopo quasi cent'anni, annaspa ma resiste. Nel suo ultimo libro Giampaolo Pansa, racconta quell'Italia cercando questa, contraddice teoremi, avanza ipotesi, ci consegna certezze. Sarà per questo che il suo “Eia Eia Alalà” (ed. Rizzoli), antico grido di vittoria adottato dallo squadrismo fascista, è già un best-seller. Una “controstoria del fascismo” nascosta in un romanzo. Pansa: «A un mese dall'uscita, delle 70 mila copie stampate è già stato venduto il 30%. Per aggirare la noia del saggio, ho usato l'escamotage del romanzo e ho cercato di rendere attraente la storia: Edoardo Magni è un personaggio di fantasia, un possidente terriero, prima sostenitore della rivoluzione fascista ma a poco a poco sempre più disincantato, fino a supportare il dissidente squadrista Cesare Forni che, invece, è realmente esistito. Tante incertezze quelle di Magni, accanto a una sfilza di amor che si chiamano Marietta, Rosa, Anna, Elvira. E Marianna: è lei ad aprirgli gli occhi sulle deportazioni degli ebrei ad Auschwitz». Questo paese e i suoi abitanti resistono a tutto, impermeabili a governi e crisi… «L'Italia è stata in grandissima parte attratta dal fascismo: tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo. Tutti hanno adorato Mussolini e gli hanno obbedito, almeno fino alla notte del 25 luglio 1943. Dopo la marcia su Roma, Mussolini aveva un potere assoluto: il 99% degli italiani era fascista, sbaglia chi sostiene che l'Italia non voleva la dittatura. Il Duce ha commesso errori imperdonabili, avallando le leggi razziali, alleandosi con Hitler ed entrando in guerra: se non lo avesse fatto sarebbe morto nel suo letto, e non a gambe per aria, accanto alla Petacci. Come il generale Franco che tenne la Spagna fuori dalla guerra».

Lei viene accusato di revisionismo…

«E ne sono felice, anzi vorrei esserlo ancora di più. L'accusa viene da vecchi accademici di sinistra, a fronte di un dato incontestabile: in una guerra civile ci sono due antagonisti, uno nero e uno rosso, e i caduti si trovano da entrambe le parti, non solo da quella rossa. Il mio libro “Il sangue dei vinti” ha venduto un milione di copie, e ancora la gente mi fa i complimenti per quello sguardo differente sulla guerra e i suoi morti. Essere un revisionista per me è un vanto: la storia non si può tenere sottovetro, vengono fuori nuovi archivi, si chiariscono dei misteri, emergono personaggi ritenuti secondari».

Cosa ha in comune l'Italia odierna con quella che preparò la dittatura?

«Il nostro era un paese povero, fatto di un'economia agraria. L'Italia di allora, come quella di oggi, era stremata da una crisi economica forte, scoppiata subito dopo la fine di una guerra durata tre anni, che aveva fatto un gran numero di vittime e che aveva cambiato profondamente la società italiana. Allora, come oggi, il sistema dei partiti era screditato. Ed era esploso quello che ora è latente, cioè il conflitto tra ceti. Queste simmetrie mi hanno colpito».

Quella sua convinzione che «il nero nasce dal rosso» è la risposta alla domanda: chi, dopo il mattatoio delle trincee, ha fatto nascere il fascismo?

«Dimostro che il padre del fascismo è il sinistrismo parolaio, quello degli slogan, quello violento che non poteva non sfociare nella marcia su Roma di Mussolini, primo atto verso una dittatura lunga vent'anni. Lo sciopero agrario del 1920 paralizzò le campagne. Esercitando uno strapotere dispotico, le leghe rosse arrivarono a impedire la mungitura, a timbrare le mani dei bovari, minacciando di far morire le mucche. Esplose l'odio di classe: concime che farà spuntare la pianta dello squadrismo. La sinistra si è uccisa da sola, non potevano non aspettarsi una reazione della borghesia agraria».

La nostra è una democrazia debole.

«Si sta costruendo una situazione istituzionale anomala, con un partito unico, senza opposizione: così la democrazia va in tilt. La democrazia, come la giustizia, si regge se i due piatti della bilancia sono in equilibrio o si alternano. Renzi egemonizza, procede a colpi di annunci, promesse mai realizzate, spese per cui non ci sono i fondi. L'Italia è ammalata, è come una persona che rischia una grave crisi, anche se non è esattamente in coma».

Potrebbe allora ri-presentarsi l'avventura autoritaria di un nuovo Benito Mussolini?

«Il rischio non è immediato ma c'è: con gli errori che sta commettendo, la sinistra potrebbe rendersi complice della nascita di una nuova dittatura».

L'innamoramento di Berlusconi per Renzi cosa nasconde?

«Servirebbe uno psicanalista per capirci qualcosa. Berlusconi ha la sua veneranda età: io ho solo un anno più di lui ma non ho la pretesa di dirigere un partito, preferisco stare a casa, scrivere, leggere, guardare il calcio in tv. Berlusconi ha un partito che mia nonna Caterina definirebbe “ai piedi di Cristo”, cioè spappolato, in grande difficoltà: se pensa che Renzi possa essere il suo figlioccio, sbaglia di grosso. Lui ha 78 anni, il premier 39, c'è un abisso di energie, forze. E Renzi se ne frega, cerca di utilizzare Berlusconi come stampella. L'unico punto misterioso è il rapporto di entrambi con Denis Verdini, da dove derivi a Verdini tutto questo potere, non è mai stato scandagliato, raccontato. Per capire se si muove per Berlusconi, come credo possibile, o per Renzi, come qualcuno sospetta».

Vivere è anche conservare i propri ricordi: lei ne mette tanti nel libro

«Io sono stato un orgoglioso figlio della Lupa e, solo per pochi mesi, non sono riuscito a diventare un balilla, come succedeva in terza elementare. In questo libro c'è molto della zona in cui ho vissuto, quella padana, tra Piemonte e Lombardia, ci sono i racconti delle donne che avevo accanto. Mia madre aveva un negozio, una modisteria, sulla via principale di Casale, guadagnava più di mio padre che era un capo operaio delle Poste. Io facevo i compiti in negozio e ascoltavo le chiacchiere con le clienti pettegole: quei discorsi mi tornano sempre alla memoria quando scrivo un libro. Ricordo i ponti bombardati di Casale e la mamma che, per alleggerire la tensione, diceva: “Oggi non si può morire perché dobbiamo mangiare le frittelle”. I bombardamenti sono stati a lungo tra i miei incubi».

Tasselli di verità: piccoli spiragli di luce sugli ultimi giorni di Mussolini. Da Pisanò a Pansa, i tentativi di raccontare la storia senza pregiudizi: ma la nebbia è ancora fitta, scrive Emma Moriconi su “Il Giornale d’Italia”. Ci sono vicende della storia che restano, seppure dopo molto tempo, avvolte dal mistero. Una nebbia fitta che sembra non si possa riuscire a dipanare in nessun modo. Poi, qualche volta, affiora qua e là qualche momento di luce: ma si tratta di piccoli varchi nell’oscurità. La verità, la luce piena, forse non arriverà mai. Nel corso di questi lunghi mesi abbiamo tentato di eviscerare molti aspetti delle vicende patrie che non hanno, nel tempo, trovato la giusta collocazione o che, quando sono stati chiariti ed è riuscita ad emergere la verità, si è cercato di inscatolare a dovere affinché non avessero la giusta risonanza. L’editoria, sia scolastica che non, viaggia a compartimenti stagni: è quasi impossibile reperire certi testi, per esempio. Ce ne accorgiamo quando andiamo alla loro ricerca e ci rendiamo conto che spesso si deve sapere con una certa sicurezza cosa si sta cercando, e nemmeno così è facile trovarli. In compenso, gli scaffali sono pieni di altra roba, quella si che è facile da reperire …Per sollevare un po’ di polverone sui temi scottanti della nostra storia è dovuto arrivare Giampaolo Pansa: il suo egregio lavoro di ricomposizione delle sorti di questo popolo è diventato in breve un varco nel muro del silenzio e della menzogna. Lo ha potuto fare, lui, che nasce di sinistra. Si, perché prima di lui c’è stato un altro giornalista-scrittore che ne ha dette e ne ha scritte di ogni sorta, ma i suoi volumi sono un po’ più difficili da trovare e da diffondere: si chiamava Giorgio Pisanò, ma era un fascista. E, siccome quando a scrivere è un fascista, si può serenamente far finta di nulla, quasi come se non esistesse, se a scrivere è invece uno che nasce e cresce a sinistra e ad un certo punto della sua vita decide di aprire la sua mente e di guardare oltre gli steccati imposti da decenni di demagogia, quello diventa il “nemico” da colpire, il bersaglio perfetto. Pansa non se ne cura, naturalmente, e continua nel suo lavoro di analisi di un’epoca la cui immagine storica esce distorta rispetto alla realtà: il suo recente “Eja Eja Alalà” sarà presto oggetto di un approfondimento su queste pagine. Raccontare la storia, insomma, “da fascista” è difficile, perché c’è questa tendenza diffusa ad ignorare questo tipo di voce, anche quando vengono raccontate verità eclatanti. Quando invece a parlare di “verità nascoste” sono personaggi appartenenti alla “sinistra”, essi vengono attaccati, additati, apostrofati in ogni modo, ma di certo sulle loro parole non cala il silenzio: di questi si deve per forza parlare, e meno male. La scorsa estate il quotidiano Il Giornale ha pubblicato una serie di articoli a firma di Roberto Festorazzi che fanno il punto su alcune novità emerse da documenti e testimonianze recenti: il tema è, ancora una volta, gli ultimi giorni di Mussolini e la sorte delle carte che il Duce portava con sé. Anche su questo spicchio di storia aleggia un alone di mistero, e la ragione è del tutto evidente: tutto ciò che poteva chiarire certi aspetti, e che poteva in qualche modo “riabilitare” la figura di Mussolini e del Fascismo andava fatto sparire. Abbiamo parlato a lungo (e ancora non abbastanza, però) della morte del Duce, delle ore che precedettero quell’evento, di chi orbitava intorno a lui in quei giorni e dei tanti stravolgimenti operati contro la verità di quelle ore. Un argomento sul quale torneremo a tempo debito, facendo un passo alla volta nel tentativo di ricostruire quegli strani meccanismi che andarono ad incastrarsi in quei giorni di primavera del 1945. Eppure le due vicende – la morte di Mussolini e le borse scomparse – sono indissolubilmente legate. Questa premessa è necessaria per il lavoro che ci attende nei prossimi giorni, durante i quali riepilogheremo ai nostri lettori le informazioni di cui Festorazzi è venuto in possesso. Incontreremo, nel piccolo speciale che seguirà, una serie di personaggi che, a vario titolo, sono stati attori di quel dramma: parleremo del famoso carteggio Mussolini – Churchill, dei documenti relativi alla famiglia Savoia, di misteriosi “viaggi” e di carte scomparse. Si tratta di un piccolo tassello che va a comporre l’intricato puzzle di quei giorni, un mosaico che, però, probabilmente resterà incompiuto.

CIAK. SI TRUFFA E SI FLOPPA. IL CINEMA IN ITALIA.

Alla faccia della cultura. Come ti finanzio gli amici per purghe televisive.

I FINANZIAMENTI AL CINEMA: PRIVILEGI E SPRECHI.

Tempo fa, recensendo il film di Marco Risi "L’ultimo capodanno", ho scoperto che era stato sovvenzionato dallo stato per € 1.354.666 e che al botteghino aveva incassato € 96.567, scrive Capannelle su Davinotti. Ohibò, mi sono detto, come facciamo a dare così tanti soldi ad un regista peraltro noto per fare un flop simile? Ero convinto si trattasse di un caso isolato ma ero solo alla punta dell’ iceberg!

I NUMERI PARLANO DA SOLI

Basta guardare le cifre complessive per rendersi conto degli sprechi che nel corso degli anni hanno caratterizzato l’utilizzo dei finanziamenti pubblici. Negli anni dal 1994 al 2006, lo stato ha speso 817 milioni € destinati a 544 film, per  un importo medio di 1.524.000 € a film.

- Dei 544 film finanziati, ben 155 (il 28%) non sono mai usciti in sala.
- Di quelli usciti l’incasso medio è stato 378.000 €, gli spettatori medi circa 70.000
- Soltanto 25 film dei 544 finanziati sono riusciti a recuperare in toto i soldi ricevuti
- Hanno ricevuto fondi 61 case di produzione e 390 registi

Considerando il primo dato si può dire che almeno una volta ogni quattro (e anche l’annata 2007 lo conferma) viene finanziato un lavoro che nessuno vedrà. Spesso vengono costituite delle imprese già destinate al fallimento con l’unico scopo di far lavorare un gruppo di persone e di fornitori amici e magari trovare posto per un paio di ragazzotte amiche dell’onorevole. Tutto fattibile a cuor leggero tanto buona parte delle perdite se le accolla lo stato. E intanto mi sono costruito una solida rete di persone che mi devono un favore.

I beneficiari sono registi sconosciuti e bisognosi di affermarsi? Noooo. Tra i beneficiari troviamo anche:

- Michelangelo Antonioni, € 3.160.716 nel 1997 per un film mai uscito
- Bellocchio, finanziato 4 volte tra 1995 e 2003, con risultati al botteghino non disprezzabili
- I fratelli Taviani con 3 sovvenzioni
- La Wertmuller 4 volte, di cui una senza uscire e un’altra con un ritorno di € 6.625 a fronte degli 3.718.500 ottenuti per Peperoni ripieni e pesci in faccia.
- Pupi Avati beneficiario 5 volte con risultati altalenanti: dal 162% de Il testimone dello sposo al misero 13% di Festival; ma il tragico è che ottenne ben 3 finanziamenti in soli due anni (1996-97) e che riusci a far accedere ai finanziamenti anche la figlia Mariantonia per l’indimenticabile Per non dimenticarti (finanziato € 1.588.000, incasso 21.808)
- Barbareschi con 2 bei flop che hanno incassato il 3 e 4% del finanziamento: Ardena e Il trasformista.

UN CONTESTO DIFFICILE PER CHI "NON HA GLI AGGANCI".

Non è facile fare cinema al di fuori dello star-system americano, è risaputo. In Italia, la concorrenza della televisione, i gusti troppo esterofili e poco sofisticati del pubblico, la stagionalità del consumo non aiutano al botteghino. La crisi delle sale è compensata in parte da pay-tv e home video ma c’è anche tanta pirateria (ehm... meglio soprassedere). Che il quadro generale, a prescindere dal discorso sovvenzioni, sia poco allegro lo dicono anche i numeri: ogni anno escono in media 400 nuovi film, di cui circa 100 sono italiani; di questi 100 solo 20 sono redditizi: metà sono i classici “cinepanettoni”, metà sono opere di vario genere. Attenzione però a non enfatizzare questi aspetti (comuni del resto a tutti i paesi europei) per costruirsi un comodo alibi e non vedere che in fondo esiste anche un grosso deficit professionale a molti livelli del sistema cinema e un deficit di trasparenza. Esiste infatti in Italia una cerchia chiusa che comprende sia i personaggi più illustri (registi, sceneggiatori, attori) che quelle maestranze che lavorano dietro le quinte: elettricisti, falegnami, disegnatori, tecnici del suono etc. che, pur avendo un bagaglio professionale di primo ordine, ormai non lo utilizzano più in modo completo proprio perché non viene loro richiesto. Fanno parte di questa casta anche coloro che dovrebbero valutarla tramite recensioni e pareri: molti critici sono particolarmente benevoli verso i registi loro affini come background culturale e verso certi attori che all’estero faticherebbero a varcare la soglia di uno studio. Il cortocircuito è particolarmente dannoso - e limitante verso i nuovi autori - nella gestione dei finanziamenti statali, considerati alla stessa stregua di tanti altri fondi pubblici: non secondo fattori di meritocrazia culturale e professionale ma in base a conoscenze e amicizie.

IL SISTEMA DI SOVVENZIONI STATALI.

La maggior parte dei film italiani vengono finanziati, in misura variabile, da enti pubblici. Ogni anno vengono erogati circa 80 milioni di euro del FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo, istituito nel 1985). Si tratta di soldi del contribuente utilizzati per dare sostegno a opere, cineasti, scuole di cinema, centri sperimentali, sale cinematografiche. Una somma non alta né bassa, certamente non paragonabile alla Francia che ha deciso di considerare il cinema una risorsa strategica per la propria identità culturale e mette a disposizione fondi 8 volte superiori ai nostri grazie a tasse su biglietti del cinema (10%), tv commerciali (5,5% del fatturato) e dvd (2%). Sanno spenderli meglio di noi? Non lo so, ma se li danno a film come Asterix e Obelix o se magari finanziano anche un documentario su Cesare Battisti, stiamo freschi. Fino al 2004 i finanziamenti venivano erogati con criteri abbastanza discrezionali (un merito artistico che potevi attribuire in base a mille considerazioni) ma finivano comunque nelle tasche dei “soliti noti” e soprattutto senza alcun vincolo sul ritorno dell’operazione: se il film per cui avevi chiesto un contributo non era uscito nelle sale o aveva ottenuto scarsi risultati questo non importava a nessuno, potevi comunque continuare a chiedere e utilizzare i soldi pubblici come se nulla fosse. A fine 2004 la legge Urbani ha riformato il sistema ma ha corretto ben poco. Ha introdotto criteri di selezione più rigidi e basati su un punteggio ma ha così favorito i “soliti noti” che vantano le dimensioni e il curriculum per rimanere in prima fila nel magna magna generale. Ha ridotto il contributo dall’80% al 50% del costo totale dell’opera (eh sì, prima potevi farti finanziare quasi tutto senza dovere nulla in cambio, bell’esempio di responsabilizzazione!) ma da bravi italiani abbiamo semplicemente gonfiato i costi per ricevere più soldi. Ha introdotto la norma del “Product placement” (pubblicità palese e non occulta dei marchi) per permettere di raccogliere qualche elemosina supplementare. Almeno è stata eliminata una ricorrente ipocrisia già presente in molti programmi e fiction tv (vogliamo parlare delle vetture Mazda che Totti riforniva di carburante in un programma tv e che compaiono in pianta stabile nella serie Distretto di polizia?). Per finanziare le opere prime sono rimasti pochi soldi e la vita di chi si affaccia su questo mondo senza le dovute conoscenze è rimasta ardua. Qualche coraggioso si è esposto (ad esempio tale Mascagni col suo manifesto Davide contro Golia) per chiedere che fossero posti dei limiti all’ingordigia della casta. Ad esempio:

- minor peso attribuito al curriculum per consentire maggior ricambio  
- introdurre un tetto massimo al numero di concessioni di soldi pubblici
- non si può chiedere un nuovo finanziamento prima di 2 anni dall’uscita del film precedentemente finanziato: per evitare che ci siano autori che ottengono soldi ogni anno.
- commissioni dove siedano rappresentanti di diverse tendenze e fascie d’età; dove non possano trovar posto persone legate da conflitti d’interesse
Non mi risulta che il suo appello sia stato ascoltato.

A completamento del discorso, aggiungo che la legge prevede anche premi commisurati ai risultati di botteghino: cinepanettoni vari che hanno sbancato nelle sale ricevono pure una percentuale, variabile secondo scaglioni, su quanto hanno venduto. Ad esempio, il pieraccioniano Ti amo in tutte le lingue del mondo si è beccato un bel premio di € 1.485.600. Il totale dei premi erogati nel 2007 è stato di 19.638.887euro. Mica pochi, su un totale di 79.434.180 di sovvenzioni!

Ciak! paga lo Stato. Il programma racconta  e documenta con taglio giornalistico gli aspetti meno noti dell’industria cinematografica. L’inchiesta di Sky Cinema prova a rispondere a queste e ad altre domande attraverso contributi e interviste inedite.  Come vengono utilizzati i soldi che lo Stato dà al cinema? Ci sono ancora i finanziamenti a film che nemmeno escono? O c’è un più oculato sistema per dare incentivi? E a chi? Fuori dai red carpet, dalle anteprime, dalle interviste in batteria, un mondo di addetti ai lavori, istituzioni, aziende, enti, ruota intorno al business del cinema, tra investimenti privati e finanziamenti pubblici che spesso generano polemiche e controversie.

Film soft core, catastrofiche pellicole horror  e soprattutto pellicole che nessuno ha mai visto, perché non sono mai nemmeno uscite in sala, scrive Barbara Tarricone. Sono i risultati dell’uso scellerato della prima legge di finanziamento pubblico al cinema, quella del 1965. Meglio conosciuta per avere prodotto gioielli come “Mutande Pazze”, di Roberto D’Agostino. Errori del passato, rimediati dalla nuova legge cinema del 2004? Sono riposti meglio i sempre più esigui fondi che lo stato destina alla cultura (e al cinema)? Negli ultimi anni sono stati finanziati grandi registi e autori: da Marco Bellocchio, 900.000 euro per "Bella Addormentata” a  Paolo Sorrentino  che ha portato a Cannes “La Grande Bellezza” con una produzione aiutata da 1.100.000 euro dello stato, a Paolo Virzi sul set in questi giorni con "Il Capitale Umano" che dal Ministero ha preso 700.000 euro. Tra le liste dei film che per lo stato sono di interesse culturale e che quindi meritano di essere aiutati e pagati dai nostri soldi abbiamo trovato anche mega commedie e blockbuster. Qualche nome? “Genitori e  Figli”  di Giovanni Veronesi con 1.100.000 euro, la saga goliardica “Amici  miei come tutto ebbe inizio” di Neri Parenti, con 400.000 euro, 650.000 euro a “Posti in Piedi in paradiso” di Carlo Verdone. E addirittura 1.000.000 euro a “Ex” di Fausto Brizzi. Ma lo Stato non doveva “aiutare a produrre e a diffondere opere difficili e di qualità”? Così non sembra, se guardiamo i film che, anche senza ricevere finanziamento, hanno richiesto e ottenuto il bollino di interesse culturale dal ministero. Un bollino che non è solo un’onorificenza ma garantisce un maggiore premio statale sugli incassi, sgravi fiscali per il distributore e premi agli esercenti. Cioè altri soldi pubblici. Tra i film che per lo stato sono a interesse culturale ci sono “Benvenuti al Sud” e il sequel  “Benvenuti al Nord”  “Immaturi”,  “Femmine contro maschi”, “Baciato dalla fortuna”, i mega comici   Aldo Giovanni e Giacomo con “La Banda dei Babbi Natale”,  Ficarra e Picone con “La Matassa”, il  fenomeno televisivo Giovanni Vernia con “Ti stimo fratello!”. E persino i Vanzina con il loro road trip “Mai Stati Uniti”!

Per scoprire perché Sky Cine News parla con registi, produttori, addetti ai lavori e si è avventurato all’interno della sezione Cinema del Ministero dei Beni delle Attività Culturali. Appuntamento su Sky Cinema 1 il 18 giugno 2013 alle ore 22.50

Ciak, si floppa. Tanto paga lo Stato. I fondi pubblici finanziano soprattutto commediole e registi noti. Come rivela un documentario di Sky, scrive Matteo Sacchi su “Il Giornale”. Si parla tanto di fondi alla cultura, e in particolare al cinema. Il dibattito assume subito toni alti ed ispirati. Si discute della necessità di preservare una «diversità» italiana, quella che ad esempio Francesco Merlo su Repubblica loda come «eccezione culturale». Il tema è tutt'altro che semplice e l'impegno a tutela della cultura è sancito dalla Carta costituzionale. Tuttavia al di là delle disquisizioni dotte e filosofiche sul tema - o anche della complessità del mercato degli audiovisivi - si potrebbe anche fare qualche riflessione più terra terra su dove sono andati a finire i finanziamenti erogati sin qui. In questo senso aiuta anche una trasmissioncina breve breve che andrà in onda il 18 giugno 2013 stasera su Sky Cinema 1HD e intitolata Ciak!Paga lo stato! (alle 22,50 sul canale 301 della piattaforma Sky). Ecco qualche numero e qualche titolo di quelli che verranno presi in considerazione. Il ministero ha erogato fondi per titoli di cui è difficile mettere in dubbio il valore culturale. Un esempio tra i tanti Bella addormentata di Marco Bellocchio (900mila euro) o La grande bellezza di Paolo Sorrentino (1 milione e 100mila euro). Diventa meno facile spiegarsi come mai si possa trovare culturalmente imprescindibile un finanziamento di un 1 milione di euro a Ex di Fausto Brizzi del 2009. O forse ad aver preso un abbaglio nel giudicare la commedia è stato il noto critico cinematografico Morandini nel suo dizionario del cinema: assegna al film una stelletta su 5, a causa della «banalità trionfante», la «volgarità a tutti i livelli» e l'«esterofilia turistica modaiola». E la lista è lunga. Genitori e figli di Giovanni Veronesi (1 milione e centomila euro); Amici miei come tutto ebbe inizio di Neri Parenti (400mila euro per un film che è stato un tremendo flop e secondo alcuni una vera e propria offesa agli originali di Monicelli)... Quando non si tratta di finanziamenti diretti il ministero sembra aver elargito con particolare generosità anche il «bollino» di interesse culturale. Non si tratta infatti semplicemente di una onorificenza: comporta sgravi fiscali per il distributore, un maggior premio statale sugli incassi e premi agli esercenti che proiettano la pellicola. Nell'elenco ci sono: Benvenuti al sud e Benvenuti al nord, Immaturi, Femmine contro maschi, Baciato dalla fortuna, La banda dei babbi natali di Aldo Giovanni e Giacomo, La matassa di Ficarra e Picone e anche il road movie all'americana dei fratelli Vanzina Mai Stati Uniti!. Questo, va detto, è il risultato della nuova legge del 2004 che ha tentato di emendare gli sperperi addirittura incredibili causati dalla precedente legge del 4 novembre 1965, quella che aveva consentito di finanziare film come Mutande pazze o La bella dalla pelle nera. Dal 2004 non solo si è tentato di dare una stretta ai cordoni della borsa ma persino di introdurre dei criteri oggettivi di valutazione. Oltre alle commissioni del ministero (che contano ancora per il 70% sulla decisione) ora a fare la differenza è il curriculum del regista e del cast. Ben vengano i criteri oggettivi ma, secondo alcuni, il risultato è che si vedono sempre le stesse facce, quelle di quegli attori che portano punti. Non proprio un modo di favorire le novità (culturali). Come spiega in Ciak!Paga lo stato! lo sceneggiatore Michele Pellegrini: «Non si può dare un punteggio elevato, con tutto il rispetto, a Valerio Mastandrea, perché Valerio fa già un sacco di film...». Ecco spiegato anche come il Mibac possa stanziare 400mila euro per un pornochic massacrato da pubblico e critica come E la chiamavano estate. Basta la presenza di Isabella Ferrari. Vi sembra una situazione surreale? Non abbiamo ancora parlato di quei film che prendono i finanziamenti e poi nelle sale non escono. Una volta il fenomeno era endemico e mandava in fumo cifre enormi. Dal 2004 si è cercato di mettere una pezza. Eppure dei 28 lungometraggi dei registi considerati «esperti» dalle commissioni del Mibac finanziati nel 2011 solo 16 sino a ora sono arrivati nelle sale. Resta da capire come andrà a finire per i 23 milioni di euro erogati nel 2012 a 79 pellicole. Speriamo meglio... Ah, ovviamente anche se un film va in sala e fa flop lo Stato va in perdita secca. Per fare un esempio: La scoperta dell'alba di Susanna Nicchiarelli è stato finanziato con 550mila euro, ne ha incassati 50mila. E se un film va bene? C'è un complicato sistema premiale per cui lo Stato spesso non rientra lo stesso.

Cultura, Informazione e Società. A proposito di Wikipedia, l’enciclopedia censoria.

Wikipedia, secondo la presentazione contenuta sulla sua home page web, è un'enciclopedia online, collaborativa e gratuita. Disponibile in 280 lingue, Wikipedia affronta sia gli argomenti tipici delle enciclopedie tradizionali sia quelli presenti in almanacchi, dizionari geografici e pubblicazioni specialistiche. Wikipedia, a suo dire, è liberamente modificabile: chiunque può contribuire alle voci esistenti o crearne di nuove. Ogni contenuto è pubblicato sotto licenza Creative Commons CC BY-SA e può pertanto essere copiato e riutilizzato adottando la medesima licenza. La comunità di Wikipedia in lingua italiana è composta da 771.190 utenti registrati, dei quali 8.511 hanno contribuito con almeno una modifica nell'ultimo mese e 105 hanno un ruolo di servizio. Gli utenti costituiscono una comunità collaborativa, in cui tutti i membri, grazie anche ai progetti tematici e ai rispettivi luoghi di discussione, coordinano i propri sforzi nella redazione delle voci. Quello che non si dice di Wikipedia, però, è che, pur lagnandosi essa stessa del pericolo della censura, i suoi utenti con ruolo di servizio svolgono proprio un’attività censoria. Non tutti i contenuti inseriti, nuovi o di rettifica, sono pubblicati sulla cosiddetta enciclopedia libera. Wikipedia ha una serie di regole e di linee guida per la pubblicazione, ma poi ti accorgi che sono puri accorgimenti per censurare contenuti e personaggi non aggradi all’utente di turno con mansioni di servizio. Censura dovuta ad ignoranza o mala fede. Un esempio: provate a cercare Antonio Giangrande, o i suoi 40 libri, o Associazione Contro Tutte le Mafie. Non troverete nessuna pagina a loro dedicata, e si potrebbe capire non reputandoli degni di attenzione, ma non troverete anche alcun riferimento a contenuti attinenti ed esistenti ed inclusi in altre pagine. Per esempio, alla voce mafia tra le associazioni antimafia non vi è l’Associazione Contro Tutte le Mafie. Addirittura hanno tolto il riferimento bibliografico al libro con il titolo “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese”, scritto da Antonio Giangrande ed inserito alla pagina “Il Delitto di Avetrana”. Ognuno, comunque, può verificare da sé con i propri contenuti. Alla fine ti accorgi che, mancando alcune opere, fatti, personaggi o contenuti nuovi o di rettifica, proprio perché vi è impedimento al loro inserimento, Wikipedia proprio un’enciclopedia libera non è.

Ma tutto ciò è avvalorato da quanto scrive su “Il Giornale” Alessandro Gnocchi.

Wikipedia come Mao: fa censura per cercare di riscrivere la storia. La popolare enciclopedia on line cancella gli interventi degli utenti che non si attengono alla "linea politica". «L’egemonia culturale è un concetto che descrive il dominio culturale di un gruppo o di una classe che “sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo”». La definizione, con ampia citazione di Gramsci, è prelevata da Wikipedia, l’enciclopedia on line ormai egemone nel fornire informazioni a navigatori, studenti, giornalisti e perfino studiosi. Nel mondo di Wikipedia le gerarchie sono quasi inesistenti. Chiunque può contribuire a creare o modificare una voce. La garanzia dell’accuratezza poggia su una doppia convinzione: il sapere collettivo è superiore a quello individuale; la quantità, superata una certa soglia di informazioni, si trasforma in qualità. Molto discutibile, e non solo in linea di principio. Infatti in Wikipedia esiste un problema di manipolazione del consenso, in altre parole è attivo un «sistema di controllo» simil-gramsciano (in sedicesimo, si intende). Le posizioni faziose passano quindi per neutrali, e il collaboratore che obietta può andare incontro a sanzioni che vanno dalla sospensione alla radiazione. Di recente, ad esempio, è stato espulso Emanuele Mastrangelo, caporedattore di Storiainrete.com, sito specialistico, e autore di alcuni studi sul fascismo. La pena «all’utente problematico» è stata comminata, dopo processo non troppo regolare, per un «reato» d’opinione gravissimo: aver affermato che in Italia la fine della Seconda guerra mondiale assunse anche il carattere di una «guerra civile». Opinione, quest’ultima, largamente maggioritaria tra gli storici di ogni orientamento, salvo forse quelli che hanno ancora il mitragliatore del nonno sepolto in giardino. «Guerra civile», per Wikipedia.it, non merita neppure una voce a sé: l’espressione è citata di passaggio all’interno di «Resistenza». Stesso trattamento è riservato alle forze armate che rifiutarono di aderire alla Rsi, facendosi deportare dai tedeschi: un accenno e via. Quanto alle «esecuzioni post conflitto» operate dai partigiani, si sfiora il giustificazionismo. Il paragrafo è preceduto da una imparzialissima (si fa per dire) dichiarazione di Ermanno Gorrieri, sociologo attivo nella Resistenza: «I fascisti non hanno titolo per fare le vittime». E accompagnato da una precisazione imparzialissima (si fa per dire) di Luciano Lama: «Nessuno vuole giustificare i delitti del dopoguerra. Prima di giudicare però si deve sapere cosa accadde davvero. Una guerra qualunque può forse finire con il “cessate il fuoco”. Quella no». Ecco, questo si può dire, è super partes al contrario di «guerra civile», definizione «non enciclopedica» solo per caso usata da una tonnellata o due di studiosi e scrittori di sinistra da Pavone a Pansa. Di conseguenza, dopo qualche giorno di discussione on line, arriva la sentenza: «A un utente che è stato bloccato sei mesi e non ha ancora compreso che la comunità non tollera atteggiamenti di questo tipo, è il momento di dire basta. Con tanto dispiacere, ci mancherebbe, né ho “corda e sapone pronta da lunga pezza”». In effetti l’impiccagione sarebbe stato troppo anche per un revisionista come Mastrangelo. «Pertanto - prosegue il giudice - procedo a bloccare per un periodo infinito l’utente». Al di là di questo caso personale, sono parecchie le voci contestate per una certa parzialità. Da quella sulla malga di Porzûs (dove nel febbraio 1945 i partigiani comunisti massacrarono quelli cattolici dell’Osoppo) a quella sull’attentato di via Rasella, che i wikipediani preferiscono chiamare «attacco», piena di lacune, a esempio sulle polemiche scatenate dall’azione gappista anche all’interno del Pci e degli altri partiti del Comitato di Liberazione a Roma. Oggetto di accese discussioni anche Cefalonia, Pio XII, l’Olocausto, la religione cattolica in generale. Anche in voci meno calde come quelle inerenti il liberalismo, il libero mercato, il neoliberismo emerge nettamente una visione assai orientata contro il capitalismo. Nella voce dedicata all’economista Milton Friedman si legge addirittura un giudizio morale: «Pur ricordando che né Milton Friedman né José Piñera sono stati coinvolti con le torture ed i crimini commessi dal governo Pinochet, la loro correità morale non viene per questo diminuita di fronte alla gravità dei crimini commessi contro l’umanità». Non si direbbe una valutazione «enciclopedica». Il sapere «democratico» di Wikipedia sembra un aggiornamento digitale del maoismo.

SOCIETA' ITALIANA AUTORI ED EDITORI. Tutto in famiglia. Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera” ha titolato così il suo pezzo: La grande famiglia dei dipendenti SIAE, 4 su 10 legati da parentela. Per far sentire i propri dipendenti come in famiglia la Siae non ha rivali: pensa anche al bucato. Chi va in missione può far lavare e stirare camicie e mutande a spese dell'azienda. Dieci euro e 91 centesimi vale la speciale «indennità lavanderia» quotidiana che scatta in busta paga dopo il quarto giorno passato fuori sede. Quanti lo ritengono un privilegio anacronistico non sanno che la Società degli autori ed editori è anche tecnicamente un gruppo familiare. Al 42 per cento. Nel senso che ben 527 dei 1.257 assunti a tempo indeterminato (il 42 per cento del totale, appunto) vantano legami di famiglia o di conoscenza. Ci sono figli, nipoti, mariti e mogli di dipendenti ed ex dipendenti. Ma anche congiunti di mandatari (cioè gli esattori dei diritti) di sindacalisti e perfino di soci. E poi rampolli di compositori e parolieri, perfino delle guardie incaricate della vigilanza nella sede centrale. La lista è sterminata, con intrecci che attraversano ogni categoria. Dei 559 entrati alla Siae durante gli anni per chiamata diretta, ben 268 sono parenti. Idem 57 dei 128 reclutati tramite il collocamento obbligatorio. E 55 dei 154 che hanno superato le selezioni speciali. Ma perfino 147 dei 416 assunti per concorso hanno rapporti di parentela. I nomi dicono poco o nulla. Ciò che importa è che in questo clan familiare gigantesco finora tutto sia filato liscio, senza bisogno di mettere nulla per iscritto. Ecco spiegato perché alla Siae non esiste nemmeno un contratto di lavoro vero e proprio. I rapporti fra l'azienda e i dipendenti, come hanno toccato con mano il commissario Gian Luigi Rondi, i suoi due vice Mario Stella Richter e Domenico Luca Scordino, nonché i loro collaboratori, sono regolati da micro accordi che hanno determinato condizioni senza alcun paragone in realtà aziendali di questo Paese. Cominciando dallo stipendio: 64 mila euro in media per i dipendenti e 158 mila per i dirigenti. Con un sistema di automatismi che fa lievitare le buste paga a ritmi biennali fra il 7,5 e l'8,5 per cento. Per non parlare della giungla dei benefit che prevede, oltre alla già citata indennità per il bucato, quella che in Siae viene chiamata in modo stravagante «indennità di penna». Altro non è che una somma mensile, da un minimo di 53 a un massimo di 159 euro, riconosciuta a tutto il personale per il passaggio dalla «penna» al computer. C'è poi il «premio di operosità», la gratifica per l'Epifania, tre giorni di franchigia per malattia senza obbligo di certificato medico, 36 giorni di ferie... Le conseguenze? Sono nelle cifre delle perdite operative accusate dalla Siae negli ultimi anni: 21,4 milioni nel 2006, 34,6 nel 2007, 20,1 nel 2008, 20,9 nel 2009, 27,2 nel 2010. Cifre cui dà il suo piccolo contributo anche il costo del contenzioso. Perché si litiga anche nelle migliori famiglie. Nonostante condizioni di favore che non hanno eguali nel panorama degli enti pubblici o parapubblici, negli ultimi cinque anni i dipendenti della Siae hanno attivato 189 cause di lavoro. Con un costo medio per l'azienda di un milione 469 mila euro l'anno. Insomma, un bagno di sangue. Del quale ancora non si vede la fine. I commissari hanno tagliato 2,8 milioni di spese generali e un milione e mezzo di costi della dirigenza, sperando poi di risparmiarne altri 3 rivedendo gli accordi con i mandatari: un groviglio di 605 agenzie disseminate irrazionalmente sul territorio con dimensioni medie ridicole, se si pensa che il ricavo medio di ciascuna è di 128 mila euro l'anno. Ma il vero problema è quello del personale, perché finora tutti tentativi di normalizzare la situazione applicando un qualsiasi contratto di lavoro sono miseramente naufragati nella melma di uno stato d'agitazione proclamato dai sindacati interni. La questione fa il paio con la vicenda del Fondo pensioni, istituito nel 1951, che deve provvedere al pagamento degli assegni di quiescenza del personale ed è una delle cause principali del dissesto che ha portato un anno fa al commissariamento. Ha un patrimonio interamente investito in immobili, con un valore di mercato di 205 milioni. Ma che non rende praticamente nulla. Tanto che finora, per riuscire a pagare le pensioni, la Siae ha dovuto mettere costantemente mano al portafoglio, aggravando non poco il proprio conto economico. Basta dire che il Fondo ha assorbito 130 milioni di contributi aziendali, con la previsione di ingoiarne altri 60 nei prossimi dieci anni. Nel tentativo di rimetterlo in sesto, e anche in conseguenza delle nuove regole sugli investimenti degli enti previdenziali, sono stati istituiti due fondi immobiliari. Il che ha scombinato i piani di vendita di alcuni stabili di proprietà della Siae a condizioni favorevolissime: minimo anticipo e dilazioni di pagamento quarantennali. Parliamo degli immobili a destinazione residenziale occupati fra l'altro dai dipendenti della Società degli autori ed editori. Che hanno una caratteristica comune: su 37 affittuari, 34 sono sindacalisti. Fra di loro figura anche il contabile dello stesso Fondo pensioni. Si tratta di Roberto Belli, responsabile della Slc-Cgil nonché fratello di una dipendente attualmente in servizio e di una ex dipendente Siae (rispettivamente Antonella e Patrizia Belli), destinatario di una recentissima e sorprendente contestazione disciplinare. Il 13 giugno la direzione generale gli ha spedito una lettera dove si dice che una verifica condotta dalla Ria&partners, la società di revisione del bilancio del Fondo, ha fatto saltare fuori alcuni bonifici per un totale di 30 mila euro che insieme ad alcuni assegni e versamenti, c'è scritto, «non risultano autorizzati e non trovano riscontro nelle registrazioni contabili». Denaro, dicono i documenti bancari, trasferito dal conto Bancoposta del Fondo stesso ai conti correnti bancari personali di Belli e della sua compagna. Inevitabile, adesso, la richiesta di spiegazioni convincenti.

Un sito web di promozione turistica dell’Italia.

Serve un sito internet all’altezza dell’Italia, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Antonio Giangrande: il sito web c’è www.telewebitalia.eu , oltretutto senza oneri per lo Stato, ma tutti lo ignorano.

Secondo il giornalista del Corriere cinque mesi abbondanti non sono bastati alla squadra del ministro del Turismo, Piero Gnudi, per rimuovere certe macerie del sito «italia.it», il portale da tempo immemorabile messo in cantiere prima dal governo Berlusconi, poi dal governo Prodi (memorabile lo spot in english-romanesco di Francesco Rutelli di invito agli stranieri: «Pliz, vizit Italy»), poi ancora dal nuovo governo Berlusconi e da Michela Vittoria Brambilla. La quale, dopo avere cambiato il logo scelto dal predecessore perché le pareva un errore la forma della «t» di Italia (titolo del Giornale : «La Brambilla cancella il "cetriolo" di Rutelli») aveva portato a compimento il faticosissimo cammino del sito web, costato ai vari governi nel complesso l'enormità di 35.451.355 euro, con alcune scelte contestate. Basti ricordare la home page della versione cinese dove spiccavano le foto prese col copia-incolla dal sito cinese dell'Emilia Romagna con il risultato che pareva che non solo la capitale fosse Bologna (con tanto di mappa con le freccette e di panoramica della città) ma che l'intero nostro Paese fosse riassumibile così: parmigiano, prosciutto, Ferrari e Ducati. Una «svista» che, dopo le pubbliche denunce, è stata rimossa. «Per favore - dice Stella - vista l'importanza di Internet per il turismo (il solo sito TripAdvisor ha 35 milioni di recensioni e 29 milioni di visitatori al mese ) potremmo una buona volta metterci una pezza?»

«Basterebbe – risponde Antonio Giangrande, autore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” con 40 libri all’attivo, e presidente di Tele Web Italia – non essere altamente autoreferenziali e prestare maggiore attenzione a ciò che vi è sul web e che non sia a se stessi o al sistema di potere riconducibile. Essere slegati dal sistema editoriale od istituzionale, con oneri per lo Stato, non vuol dire non produrre prodotti di alta qualità. Il nostro portale turistico ha ampi consensi e visite da tutto il mondo. In Italia per essere credibile e pubblicizzato devi per forza allattare dalle mammelle statali».

PARLIAMO DI PRODOTTI EDITORIALI E LORO DISTRIBUZIONE.

Lo facciamo attraverso un’inchiesta di Bernardo Iovene, in collaborazione con Antonella Cignarale pubblicata su “Il Corriere della Sera”. Internet, freepress e sempre meno tempo da dedicare alla lettura sono sicuramente fattori che stanno da tempo mettendo in crisi la filiera editoriale, in primo luogo le edicole. Secondo il Sinagi, Sindacato Nazionale Giornalai, negli ultimi 5 anni hanno chiuso circa 10mila edicole. Il problema più grosso è legato ai meccanismi di diffusione e tentata vendita dei prodotti editoriali. In media ogni settimana si muovono tonnellate di pubblicazioni, dai quotidiani ai mensili, dalle riviste di settore ai fumetti che dall'editore vengono inviati ai distributori e da questi smistati e consegnati alle edicole ogni notte. Un movimento che produce un'ingente quantità di denaro, gran parte sotto forma di anticipazione: l'editore riceve un anticipo sulla probabile vendita del distributore che, a sua volta, consegna e chiede il pagamento agli edicolanti entro una settimana. L'edicola riceve e paga anticipatamente la merce, se vende, recupera i soldi subito, altrimenti li vedrà solo dopo un mese, al momento della resa della pubblicazione. Questo meccanismo vale per i quotidiani, i settimanali e i mensili. Il resto delle pubblicazioni, come i bimestrali o i supplementi vanno in conto deposito, nessuna anticipazione, ma pagamento solo del reale venduto. Il meccanismo non sempre funziona, anzi rischia di collassare su sé stesso. Il distributore locale ha di fatto il monopolio della fornitura alle edicole della provincia e può fare il bello o il cattivo tempo. Il segretario nazionale del Sinagi, Giuseppe Marchica, dichiara che molti distributori chiedono il pagamento anticipato di pubblicazioni che, secondo l'accordo nazionale, devono essere pagati solo se realmente venduti. Inoltre gli edicolanti denunciano l'eccedenza di prodotti spesso invendibili: a fronte di un venduto pari ad 8 copie ne vengono consegnate 20, tutte con pagamento anticipato. Altri lamentano di essere l'unica categoria commerciale che finanzia le campagne pubblicitarie agli editori, infatti le riviste in offerta a metà prezzo costituiscono per gli edicolanti una perdita del 50% del guadagno, mentre gli editori recuperano con la pubblicità. «Ma la sofferenza della categoria degli edicolanti dipende anche dal rapporto di lavoro con il rispettivo distributore locale» afferma il segretario nazionale del Sinagi. «In diverse zone d'Italia molti distributori chiedono arbitrariamente ai rivenditori una percentuale per coprire le spese di trasporto e consegna merce. Un ricatto rivolto ai piccoli punti vendita, localizzati per lo più nelle frazioni e che svolgono un servizio di utilità sociale, spesso con un basso livello di guadagno». Secondo l'accordo nazionale i distributori devono assicurare il servizio di consegna franco punto vendita e i costi richiesti per il trasporto sono illegittimi. Nel 1994 si è cercato un equilibrio per risolvere questi casi all'interno della filiera, gli edicolanti hanno rinunciato al 1% del proprio agio per coprire il costo del trasporto su tutto il territorio nazionale. Una sentenza del tribunale di Tivoli ha rafforzato la validità di tale accordo, chiedendo il risarcimento danni a favore di un rivenditore che per 5 anni aveva pagato una quota al proprio distributore locale per la consegna delle pubblicazioni. Secondo l'art. 39 sulle liberalizzazioni gli edicolanti possono effettuare la resa immediata dei prodotti editoriali in eccesso, ma la diatriba tra i diversi soggetti della filiera non si ferma. Se per i punti vendita l'anticipazione finanziaria della merce costituisce un esborso settimanale eccessivo, per gli editori rappresenta la base per pubblicare. Oggi il meccanismo “tu anticipi, io stampo e diffondo” rischia di saltare. Tra il 50 e il 60% dei prodotti editoriali pagati anticipatamente rimangono invenduti e rimandati al mittente, una parte va al macero, un’altra viene riciclata, un’altra viene ristampata con copertine ex novo. Una perdita di soldi che pesa anche sul distributore che, oltre al lavoro di trasporto e consegna, si occupa anche della resa dell'invenduto delle edicole e della spedizione al mittente. E così le tonnellate che arrivano ogni notte nelle edicole ripassano per il distributore per ritornare indietro all'editore. Le edicole devono garantire gli anticipi con fidejussioni bancarie che devono coprire 4 settimane di fornitura; un esborso che per molte edicole è più alto del guadagno e infatti stanno chiudendo bottega. Secondo Stefano Micheli, direttore di Ndm (Network Diffusione Media), con l’art.39 del decreto sulle liberalizzazioni, che dà la possibilità di resa immediata da parte delle edicole: «I distributori vengono messi in ginocchio e la piccola editoria rischia di sparire dal mercato». L'accordo nazionale è ormai sorpassato, la liberalizzazione è attuata e la licenza di edicola ha già perso valore commerciale. L'attuale sistema ha dimostrato, secondo tutti i soggetti, il suo fallimento.

La Casta degli editori: la censura occulta.

“L’editoria è la casta più importante. Gli editori sono i veri censori e i manipolatori della coscienza civile. Il sistema prima riconosce la libertà di manifestare il proprio pensiero e poi ne impedisce  l’esercizio” Questo dice il dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

La libertà di manifestazione del pensiero è una delle principali libertà e diritto fondamentale dell’era moderna. Tanto più se è mirata allo sviluppo socio-economico-culturale della comunità. Questa libertà è riconosciuta da tutte le moderne costituzioni. Ad essa è dedicato l’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, come l'art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dall'Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848. L'art. 21 della Costituzione italiana stabilisce che: Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

Tale libertà è, tra le altre, considerata come corollario dell'articolo 13 della stessa Costituzione della Repubblica italiana, che prevede l'inviolabilità della libertà personale, tanto fisica quanto psichica.

L'interpretazione dell'art. 21 dà vita a dei principi: Il diritto di critica e di cronaca, oltre alla libertà di informare e la libertà di essere informati.

Il pensiero per essere manifestato ha bisogno di formarsi come merce accessibile a tutti, quindi essere pubblicato e distribuito.

Ciò avviene in proprio o con l’editore.

La produzione in proprio con distribuzione porta a porta, è un’ipotesi fallimentare. L’opera non essendo sostenuta dalle istituzioni e non pubblicizzata dai media, non è acquistata da una moltitudine di utenti finali.

La produzione tramite un editore può avvenire, in modo improprio con la compartecipazione alle spese, ovvero senza oneri per l’autore. Naturalmente l’editore vaglia, corregge e censura le bozze dell’opera, oltre che valutarne la commerciabilità. Spesso non è importante l’opera, ma che l’autore sia un personaggio noto alle cronache, o che sia seguito dal pubblico, per usufruire dei benefici di visibilità. Spesso si privilegiano argomenti fatui e non di approfondimento e di denuncia, perché la società contemporanea sente l’esigenza di estraniarsi dalla realtà quotidiana.

L’editore, acquisendo i diritti dell’opera, la distribuisce e la vende, riconoscendo una minima parte dei proventi all’autore, per di più dopo molto tempo.

Paradosso: l’impedimento alla libertà di manifestare il pensiero è posto proprio dal sistema che ne prevede l’esistenza.

L’autore autoprodotto non ha benefici, né sovvenzionamenti, né visibilità.

L’editoria, quindi un’attività economica privata, ha finanziamenti pubblici e pubblicitari, benefici postali, regime speciale IVA, sostegno dei media e delle istituzioni.

A questo punto, per manifestare liberamente il proprio pensiero, si è costretti a rivolgersi ad apparati: che conformano l’opera alle proprie aspettative; che sono omologati, in quanto foraggiati dalla politica e dall’economia ed intimoriti dalla magistratura; che hanno distribuzione esclusiva e rapporti promozionali poco trasparenti. A riguardo è impossibile essere invitati o premiati a manifestazioni culturali, se non si è tutorati da qualche editore, pur avendo scritto un capolavoro. Spesso gli editori sono proprietari di testate d’informazione o di emittenti radiotelevisive, quindi si parla dell’opera o dell’autore solo se si fa parte dell’enturage.

Inoltre per poter pubblicare un articolo d’informazione si è costretti a far parte di un’altra casta: quella dei giornalisti.

C’è da dire che non tutti gli editori sono parigrado. C’è prevaricazione dei più forti a danno dei più deboli. Alcuni di loro, operanti nel campo radiotelevisivo, sono vittime di tentativi di acquisizione illegale delle frequenze assegnatele, con mancanza di tutela reale.

Quale è il trucco ?!

Ogni emittente ha una frequenza su cui è autorizzata a trasmettere con un'antenna di una certa potenza, per non disturbare le trasmissioni delle emittenti viciniori. Alcune di loro, tra cui alcuni grandi network nazionali, pensano bene di centuplicare illegalmente la loro potenza, irradiando il loro segnale di molto oltre a quello per cui sono autorizzati. In questo modo disturbano o oscurano le trasmissioni altrui, impedendo a questi l'acquisizione del mercato pubblicitario, fonte di sostentamento, che leso, porta al fallimento dell'impresa.

Il Ministero, informato dalla parte interessata, comunica la data dell'ispezione alla controparte, che ha il tempo di ripristinare la legalità, per poi ripetere l'abuso ad ispezione finita. Tempi e costi dell'operazione tecnica sono ammortizzabili da chi si avvantaggia illegalmente dell'acquisizione pubblicitaria indebita. Mal che vada, comunque, la parte colta in fragrante, deve sorbire solo una piccola multa.

Esemplare è il caso di Radio Padania. Il ministero dello Sviluppo economico zittisce la voce di Radio Padania Libera nel Salento. In una nota del 24 gennaio 2011 fatta pervenire in copia al Comune di Alessano, i competenti organi ministeriali scrivono che l’impianto dell’emittente leghista «non si intende autorizzato». Radio Padania dal 17 dicembre 2010 ha trasmesso nel Capo di Leuca da una postazione situata proprio ad Alessano e dotata di un sistema radiante collegato a un impianto da due kilowatt di potenza. Il segnale viaggia sui 105.600 MHZ in modulazione di frequenza e disturba quello dell’emittente salentina Radio Nice del gruppo leccese Mixer Media dell’editore Paolo Pagliaro, che trasmette su identico canale da Parabita. La radio lumbard ha i contenuti dei palinsesti carichi di risentimenti contro i meridionali espressi a chiara voce dai radioascoltatori padani, cui si lascia microfono libero. Ma la nota del ministero dello Sviluppo economico che sospende le trasmissioni di Radio Padania non risolve l’anomalia di mercato delle frequenze. Infatti il vero problema consiste nel fatto che Radio Padania gode del triplice privilegio di acquisire le frequenze in deroga, di avere un contributo annuale da parte del governo, di diventare proprietaria della frequenza trascorsi novanta giorni. La vera anomalia è proprio questa: in un momento in cui il mercato delle frequenze è bloccato, Radio Padania può, trascorsi novanta giorni, permutare le proprie frequenze ottenute in deroga con altre frequenze di radio commerciali. Occorre modificare questo privilegio concesso dalla finanziaria Bossi-Berlusconi del 2001. L’emittente della Lega Nord, in quanto comunitaria dovrebbe rendere un servizio, ma l’unica cosa che fa è quella di riempire di insulti i meridionali, senza che mai nessuno abbia denunciato il suo direttore per diffamazione a mezzo stampa.

Qualcuno spera che le opportunità tecnologiche, social network o blog,  superino la censura mediatica. Poveri illusi. Non basta una piattaforma d’elite, chiusa ed autoreferenziale, con tecnologie non accessibili alla massa, oltretutto soggetta a sequestro ed ad oscuramento giudiziario.

Nulla, oggi, per arrivare a tutti, può soppiantare un buon articolo, un buon libro, una buona canzone, un buon film, o una buona trasmissione radiotelevisiva.

In conclusione. Con questo sistema si può ben dire che il libero pensiero, pur lecito e meritevole di attenzione, è tale solo quando è chiuso in una mente destinata all’oblio, altrimenti deve essere per forza conformato al sistema: quindi non più libero.

PARLIAMO DI SCRITTORI E PREMI LETTERARI.

Scrittopoli e premiopoli. Inchiesta di Stefania Parmeggiani su "La Repubblica".

Ogni anno in Italia si celebrano circa milleottocento concorsi letterari. Li alimentano circa quattro milioni di aspiranti romanzieri, poeti, saggisti. Ma dietro gli Strega, i Campiello, I Bagutta, e dietro il centinaio di piccoli premi promossi da enti locali e associazioni culturali, prospera una selva di gare improbabili e costose per i concorrenti. Cinque premi al giorno
per un affare da 10 milioni di euro. Spuntano come funghi da Nord a Sud. Ogni anno nascono 90 concorsi letterari, tanto che oggi se ne contano almeno 1800. Ecco le cifre dei concorsi in grado di di spostare milioni di euro.

I PREMI

1800 premi letterari ogni anno

5 al giorno

90 nuovi ogni anno

500 quelli dedicati alla poesia

100 quelli giudicati interessati da una indagine dell'Istituto per il libro.

IL BUSINNESS

1 milione di euro, il giro di affari delle spese di segreteria e delle tasse d'iscrizione tra 5 e 50 euro la quota richiesta a ogni partecipante

10 milioni di euro, i contributi pubblici

DATI EDITORIA E LETTORI

3,4 miliardi di euro, il fatturato complessivo delle oltre settemila case editrici italiane

25 milioni, i lettori di almeno un libro in un anno in Italia

60 mila i titoli che ogni anno vengono pubblicati in Italia.

L'Italia è il Paese che ha più premi letterari. Una stima affidabile parla di milleottocento concorsi. Ma se quelli celebri si contano sulle dita delle mani, e se quelli "piccoli ma dignitosi" sono un centinaio, gli altri prosperano sull'esercito di aspiranti scrittori disposti a finanziarli con spese di segreteria, tasse di lettura, autopubblicazioni.

Ecco come. Oggi è una giornata importante per l’editoria italiana: si assegnano cinque premi letterari. Uno per la poesia e un altro per i racconti brevi. Poi c’è quello per i romanzi inediti, quello per i saggi, e il prestigioso Viareggio, ottantadue anni sulle spalle e un futuro minato dalle polemiche. Anche domani è una giornata importante: in cartellone ci sono altri cinque premi, tra cui il Capalbio. E così dopodomani e dopodomani ancora. Perché ogni anno in Italia si svolgono ben 1800 concorsi letterari, un numero arrotondato per difetto che sembrerebbe rendere giustizia a un popolo di poeti, scrittori e romanzieri. Eppure, ascoltando chi ha passato anni a inviare opere a misteriose giurie, si scopre una realtà diversa, tutt’altro che limpida. Lontano dai riflettori dei premi che contano, dallo Strega al Campiello, dal Bagutta al Calvino, lontano dai concorsi poco qualificati, ma tutto sommato innocui, emerge una girandola di gare improbabili, sfornate in serie da professionisti e minuscole case editrici, un mondo dove i sogni di carta si pagano a caro prezzo e dove, tra tasse d’iscrizione, spese di segreteria e contributi pubblici, il giro d’affari supera i dieci milioni di euro.

Chi sono i protagonisti di questa premiopoli tutta italiana? Qual è il vantaggio per gli scrittori e quale quello per gli organizzatori? Perché gli esordienti, riuniti in gruppi di guerriglia editoriale, puntano il dito contro il mercato? E perché a volte, a dispetto della logica, si collezionano riconoscimenti che sono carta straccia?

L’industria dei premi letterari. L’Italia è il paese al mondo con più premi letterari. Lo era già nel ‘99 quando Giuliano Vigini, esperto del mercato del libro, decise di farli censire. "Ne catalogammo 1200, scoprendo che crescevano al ritmo di una novantina l’anno. Anche tenendo conto di quelli che muoiono nel giro di poche edizioni oggi saranno 1800, forse duemila". Nella lista troviamo concorsi illustri come lo Strega, vinto 24 volte dalla Mondadori, 12 dalla Rizzoli e 11 dall’Einaudi. Prestigiosi come il Campiello, il Bancarella, il Bagutta e il Viareggio, che dopo avere attraversato il Novecento con alterne fortune e avere incassato il rifiuto di Moravia nel ’50 e quello di Calvino nel ’68 ("Non mi sento di continuare ad avallare con il mio consenso istituzioni ormai svuotate di significato"), rischia lo sdoppiamento per una lite tra gli storici organizzatori e il Comune. Fino a qualche anno fa c’era anche il Grinzane, oggi rinato grazie alla fondazione Bottari Lattes, ma al tempo trascinato nella polvere dal suo fondatore, il professore universitario Giuliano Soria. Sotto processo, è accusato di avere trasferito denaro dalle casse del premio alle sue personali, distraendo fondi per oltre un milione e mezzo di euro e di avere trasformato uno degli appuntamenti letterari più attesi dell’anno in una mangiatoia a beneficio di molti, lui in testa. "Poi ci sono concorsi nati per emulazione — continua Vigini — e i premi organizzati per animare la vita culturale di una provincia, per ricordare un autore del posto o per invitare alla lettura". Ognuno ha una propria dignità e una ragione di esistere, ma anche sommandoli tutti non arriviamo a quota 1800. L’Istituto per il libro, in una indagine promossa qualche anno fa, ne selezionava un centinaio come prestigiosi e interessanti. E gli altri 1700? L'industria letteraria fattura quasi tre miliardi e mezzo di euro l'anno, le case editrici sono più di settemila. Aspiranti scrittori e poeti bussano a queste porte inutilmente, poi cercano la scorciatoia dei premi a pagamento.

Mimetizzato nel sottobosco dei micro premi si nasconde il mondo dello "scrivi, paga e vinci" in cui si aggirano ogni anno gli aspiranti scrittori, i protagonisti di quella che Umberto Eco quarant’anni fa chiamava "la quarta dimensione". Professionisti in cerca di un riscatto, giovani con ambizioni letterarie, insospettabili vicini di casa disposti a pagare pur di pubblicare libri destinati all’invisibilità. Sono un esercito sommerso che fa a pugni con i dati sulla lettura: solo il 46,8% della popolazione sopra i sei anni nel 2010 ha letto un libro. Nonostante la percentuale sia in leggera crescita, appena il 15,1% si può definire un lettore abituale con un romanzo al mese sul comodino. Non sembra molto diffuso l’amore per la letteratura, eppure chi scrive non conosce crisi. In prima linea i poeti (circa 500 i concorsi a loro dedicati), subito dopo gli autori per ragazzi, poi i romanzieri e i saggisti. Si aggirano nervosi ai margini di una industria che fattura quasi tre miliardi e mezzo di euro l’anno. Bussano alle porte delle oltre settemila case editrici con un unico chiodo fisso: come mostrare al mondo di avere talento. Da qui ai concorsi letterari il passo è breve e alla portata di tutti, bastano pochi euro. Paola Campanile, poetessa il cui talento è stato riconosciuto dopo lunghi anni di gavetta da un intellettuale come Antonio Porta e da un editore come Marsilio, ha vissuto nel sottobosco dei premi letterari per circa un decennio. Scriveva, pagava le spese di segreteria o la tassa di lettura, vinceva. E ricominciava da capo: "Ho accumulato un baule di pergamene, targhe, medaglie, statuine. Che piacere è stato buttare tutto, liberarmi di quell’inutile testimonianza". Inutile ed esasperante visto che dopo le sue prime partecipazioni, ha iniziato a essere contattata per concorsi di cui ignorava l’esistenza. "Ho avuto l’impressione che esistesse una specie di indirizzario, che alcuni organizzatori si scambiassero i nomi dei partecipanti".

La tassa di iscrizione. Se i nominativi degli esordienti valgono tanto da essere schedati in un computer, qual è il guadagno? Miriam Bendìa, autrice di un libro che qualche anno fa fece clamore — "Editori a perdere" (Stampa Alternativa) — individua due livelli: "Il primo è quello rappresentato dalle tasse di lettura o dalle spese di segreteria. Le cifre richieste non sono altissime, variano da 5 a 50 euro e l’incasso dipende dal numero di concorrenti". Spulciando i siti specializzati nella promozione dei concorsi si nota come più del 70% dei micro premi preveda un contributo economico. Calcolando una media di 10 euro e ipotizzando 100 partecipanti a concorso (ma non mancano le eccezioni con migliaia di iscritti) si può stimare un volume di affari superiore al milione di euro. Cifra ragguardevole, ma insufficiente a descrivere il vero businness. "Che è legato all’editoria a pagamento. Chi partecipa a un concorso - continua Bendìa - spesso riceve una lettera, in cui gli si comunica che la sua opera, pur non essendo stata premiata, merita di essere pubblicata, ovviamente a pagamento". Tra le testimonianze raccolte nel forum di “Libri Puliti”, campagna lanciata da Stampa Alternativa dopo la pubblicazione di "Editori a perdere", diverse segnalazioni hanno acceso i riflettori sul premio “L’autore”, indetto da Firenze libri. Alcuni dei contratti proposti ai partecipanti prevedevano un contributo per gli autori fino a cinquemila euro. Qualcosa di simile succede con il principale editore a pagamento d’Italia, Albatros-Il filo, anche se in questo caso non si parla di concorso, ma di selezione. Tutto legale, ovviamente. E, infatti, sul loro sito Internet scrivono: "I contratti da noi proposti possono prevedere sia un anticipo sui diritti a vantaggio dell’autore, sia l’obbligo di acquisto di un quantitativo minimo di copie da parte dell’autore". Gli aspiranti scrittori riuniti nel sito "Writer’s Dream" hanno fatto la prova del nove: un fritto misto di cento pagine, un copia e incolla volutamente sconclusionato di Wikipedia, blog, articoli di giornale... Risultato? Una lettera in cui li si elogiava per l’interessante opera e si proponeva loro la pubblicazione, a pagamento ovviamente. I sognatori si sono presi una rivincita: nel 2010 al salone del libro di Torino hanno sventolato contratto e manoscritto sotto il naso della direttrice editoriale. Immancabilmente il tutto è finito su You Tube. E non era neanche la prima volta, visto che un esperimento simile era stato già raccontato dalla giornalista Silvia Ognibene nel suo "Esordienti da spennare" (Terre di Mezzo), libro-inchiesta sull’editoria corsara.

Vanity press e vanity prize. Il motore di questo mercato sommerso è l'ambizione degli autori di veder pubblicato il proprio nome su una rivista o sulla copertina di un libro. I più avvertiti si sono organizzati e frequentano siti di auto-difesa come "Il rifugio degli esordienti". Moltissimi i concorsi patrocinati da comuni, province e regioni, organizzati dalle pro loco come il premio della montagna Valle Spluga in Lombardia, o da istituti religiosi come nel caso del premio Madonna dell’Arco organizzato da una parrocchia di Castellamare di Stabia. Ci sono poi i derby poetici, le competizioni in estemporanea e decine di altre fantasiose varianti come quelle organizzate dall’Accademia Francesco Petrarca di Capranica (Vt). («I 10 euro di iscrizione sono devoluti alla Croce Rossa Italiana e che non vi è alcuna speculazione da parte mia e dell’Accademia». In questo caso la dr.ssa Pasqualina Genovese D’Orazio, direttore e fondatore dell’Accademia Francesco Petrarca, lo tiene a precisare al dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it, e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato “CULTUROPOLI" e "IGNORANTOPOLI".  Libri facenti parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare). Un mondo in continua moltiplicazione che spesso si avvale di sostegni pubblici: si va da poche centinaia di euro alle centinaia di migliaia. Ad esempio prima che scoppiasse il caso Grinzane, il premio incassava dalla Regione Piemonte, dalle fondazioni bancarie e da altri enti, quasi 5 milioni di euro. Se calcoliamo una media di 5.500 euro di contributi a premio e li moltiplichiamo per il numero di concorsi sfioriamo i dieci milioni di euro di soldi pubblici. Ma sono veramente gli aspiranti poeti o scrittori a beneficiare di un simile flusso di denaro? Leggendo “Il rifugio degli esordienti”, un sito che da quattordici anni raccoglie le testimonianze degli autori, la risposta è un secco no. Aperto da un ingegnere con la passione per la scrittura, Maurizio J. Bruno, autore del thriller "Ralf" e del romanzo di fantascienza "Eden", è diventato un punto di riferimento per i 17mila aspiranti scrittori che ogni mese lo frequentano. "Visto che sempre più spesso incontravamo autori finiti nelle reti dell’editoria a pagamento, con un passato infarcito di premi e un garage pieno di libri invenduti, io e gli altri autori del rifugio abbiamo dato vita a "Danae", un’associazione che si occupa di promozione, distribuzione e vendita di opere realizzate da altri". Peccato che la metà dei libri candidati a questa forma di autopromozione non superi la selezione del comitato di lettura, "sia per colpa dell’editore, sia per demerito dell’autore". Infatti, tra gli aspiranti poeti e narratori non manca chi animato dalla passione per la scrittura, dimentica quella per la lettura. Gli americani la chiamano vanity press, la vanità dell’autore che si ritiene appagato nel vedere il suo nome stampato su una rivista o sulla copertina di un libro. In Italia si accompagna alla vanity prize e l’effetto combinato delle due debolezze umane rappresenta un mercato inesauribile. Accade così che sempre più spesso facciano la loro comparsa associazioni culturali e accademie attivissime nel sottobosco dei micro premi. C’è la salernitana “Gli occhi di Argo” che organizza diversi concorsi, tra cui “L’almanacco dei cicli celesti” (50 euro per la pubblicazione) e un calendario delle pin-up da comporre grazie a inedite poesie sul nudo femminile (chi viene selezionato s’impegna all’acquisto di 10 copie versando 80 euro per il collettivo o 150 per il monografico). Decisamente prolifica la "Hermes Academy" di Taranto. Il direttore creativo e fondatore dell’accademia chiede ai partecipanti di pagare 10 euro di spese di segreteria per svariati premi: “Anima di Latta”, “Funambolo del cielo”, “Rette parallele”, “La freccia di Cupido”, “la vigilia della vita”, “(In) fine il mondo” e “La mensa dei sogni”. Altre associazioni legano la poesia al turismo: è il caso degli "Amici dell’Umbria" che ne organizzano una dozzina "nell’intento — si legge sul sito — di riproporre il messaggio d’amore e di pace degli uomini più illustri della nostra terra". E non serve neanche vincere, basta cercare uno dei tanti concorsi in cui l’importante è partecipare. Ad esempio in Ciociaria il bando della quinta edizione del premio di poesia “Giorgio Belli” riserva premi in denaro ai primi classificati, ma pubblica in una antologia tutte le liriche inviate. A parziale copertura delle spese gli organizzatori chiedono un contributo di dieci euro. Stesso discorso in Toscana con il premio il “Forte 2011” dedicato a poesie e racconti. Il bando de “La nuova rosa editrice” spiega: "Di tutti i lavori partecipanti ad ogni sezione, verrà scelta una poesia-sintesi di ogni autore che sarà pubblicata su un’antologia". Il contributo spese è di 25 euro, ma nel caso si voglia acquistare l’opera servono altri quindici euro.

Mercato in cortocircuito. Il desiderio di scrivere, di ottenere successo letterario è tale da autoalimentare il business. E' così che trova spazio il gioco sporco di premiopoli. Va ricordata la battuta di Montale quando vinse il Nobel: "Nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anche io?" "L’editoria a pagamento non è editoria, così come i premi che garantiscono la pubblicazione a spese dell’autore non sono veri premi letterari". E’ lapidario Marco Polillo, presidente dell’Associazione italiana editori. E le sue parole la dicono lunga sul peso che le case editrici assegnano ai curricula infarciti di riconoscimenti degli esordienti: solo carta straccia. L’opinione è condivisa anche da piccoli editori che cercano di fare il loro lavoro seriamente, anche se stretti in un imbuto: da una parte i giganti dell’editoria che si dividono il 93% del fatturato, dall’altra chi si è ricavato un mercato sulla pelle (e sulle aspirazioni) degli esordienti. Aldo Moscatelli della casa editrice “I sognatori” ha dedicato al meccanismo dei concorsi un capitolo del pamphlet “Le invio un manoscritto, attendo contratto”, pubblicato su Internet e in un anno scaricato già 1800 volte. "I premi lasciano quasi sempre l’amaro in bocca. Quelli più prestigiosi non sono accessibili ai piccoli editori, gli altri, nel migliore dei casi, tendono a premiare gli autori già famosi per via del ritorno d’immagine. Spesso, l’inappellabile giudizio della giuria, risulta del tutto incomprensibile". Il desiderio di scrivere è tale da autoalimentare il mercato. E così si crea un corto circuito tra domanda e offerta. Ed è questo il rischio vero che corre chi ha sogni di carta, il gioco sporco di premiopoli. "Gli esordienti devono interrompere la catena, rifiutarsi di partecipare a questo tipo di concorsi, evitare di pubblicare a pagamento", dice Mirian Bendìa. "Non devono preoccuparsi di vincere un premio o di trovare un editore, ma cercare una persona che li sappia indirizzare, correggere e stimolare", conclude la poetessa Paola Campanile. O forse, per non dare eccessiva importanza ai riconoscimenti letterari ed evitare le trappole di premiopoli, basterebbe ricordare come Montale reagì quando per telefono gli comunicarono che aveva vinto il Nobel. Lo scrisse Giulio Nascimbeni, che insieme a Gaspare Barbiellini Amidei, quel giorno era presente. "Dovrei dire cose solenni immagino. Mi viene invece un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anche io?".

Strega, Campiello & Co. gli storici e gli emergenti. Il più antico è il premio Bagutta, nato nel 1926. I nuovi e i 'micro' ne contano almeno cinque. Tra tasse di partecipazione, coppe e diplomi, ecco come funzionano:

GLI STORICI

Bagutta. E' il più antico premio italiano, nato a Milano nella trattoria della famiglia Pepori l'11 novembre 1926. Sono ammessi i libri, senza distinzione di generi, segnalati da almeno due membri di una giuria composta da sedici persone. Premio: 12.500 euro.

Bancarella. Promosso dall'Unione librai pontremolesi fin dal '52 per libri di narrativa e saggistica. Giuria: 200 librai. Premio: distribuzione gratuita dei volumi, opera di divulgazione e la statuetta del "San Giovanni di Dio".

Calvino. Nato a Torino poco dopo la morte di Italo Calvino, è il più importante concorso per esordienti. Ai partecipanti è richiesta una tassa d'iscrizione di 60 euro. Premio: 1500 euro per l'opera vincitrice. Spesso i finalisti trovano un editore.

Campiello. Istituito nel '62 dagli industriali del Veneto, è assegnato a opere di narrativa italiana segnalate da una giuria di letterati. Le cinque opere finaliste ricevono un premio di 10mila euro. Una giuria di trecento lettori assegna il premio finale di 10mila euro.

Strega. Nato nel '47, è organizzato dalla Fondazione Bellonci. I 400 "Amici della domenica" scelgono i finalisti del Premio, scegliendo fra i libri di narrativa ammessi (ognuno deve avere l'appoggio di 2 giurati) e successivamente il vincitore. Premio: 5mila euro.

I NUOVI

Bottari Lattes Grinzane. E' nato nel 2010 dalle ceneri del Grinzane Cavour. Coinvolge sette giurie scolastiche che scelgono i vincitori, italiani o stranieri, nella rosa selezionata da un comitato tecnico. Premi da 2.500 a 10mila euro.

Città di Tropea. Nato nel 2007 per promuovere la lettura in Calabria, è organizzato dall'Accademia degli Affaticati di Tropea. Ha una giuria di 450 persone tra cui i 409 sindaci della regione. Premio: 5mila euro ai tre finalisti, più 5mila euro al vincitore.

Mario Luzi. Nato a Roma nel 2005 in memoria del poeta e senatore toscano, è dedicato alla poesia edita ed inedita. Si è dotato del manifesto "premio etico" per garantire la trasparenza. Sei sezioni, per iscriversi tassa da 16 euro. Montepremi: 25mila euro.

Pieve. L'Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Santo Stefano, in provincia di Arezzo, organizza dal 1985 un concorso riservato ai diari dei nonni, alle lettere d'emigrazione, ai taccuini dalle trincee di guerra. Premio:1000 euro e pubblicazione.

Racconti dal carcere. Nato nel 2010 è un premio dedicato alla scrittrice Goliarda Sapienza, patrocinato dalla Siae e dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. I racconti finalisti vengono pubblicati insieme alle interviste ai loro autori. Rivolto a tutti i detenuti.

I MICROPREMI

Almanacco dei cicli celesti. Organizzato dall'associazione "Gli Occhi di Argo" ad Agropoli, nel Cilento. Dedicato a poesie, novelle, festività, curiosità, ricette, notizie mediche, astrologia... Premio: otto copie dell'almanacco che il vincitore deve acquistare al prezzo di 50 euro.

Biancospino Organizzato dall'associazione Amici dell'Umbria a Gualdo Tadino. Per l'iscrizione tassa di 15 euro per una poesia, 25 per due, 30 per tre componimenti, per libro edito, racconto, saggio e silloge. Premi: coppe, medaglie e prodotti tipici.

Estemporanea in Viterbo. Organizzato dall'Accademia Francesco Petrarca di Capranica è dedicato alla declamazione a voce alta delle poesie. Per iscriversi tassa di 10 euro. E' previsto un pranzo sociale al prezzo di 15 euro per i concorrenti, 20 per gli accompagnatori.

Funambolo del cielo. Organizzato a Taranto dall'Hermes Academy, riservato a poesie, racconti e drammaturgie, brani musicali, fotografie e cortometraggi. Soggetto, il funambolismo. Per iscriversi tassa di10 euro. Premi: targhe e diplomi.

Il Forte. Organizzato dalla Nuova Rosa Editrice a Forte dei Marmi, si rivolge a poeti e autori di racconti. Per iscriversi tassa di 25 euro. Un'opera per ogni autore viene pubblicata in un'antologia, che può essere prenotata al momento dell'iscrizione pagando altri 15 euro. 

UN RISCOSSORE MUSICALE ALLA PORTA

Il Balzello dei Balzelli, specie se doppio, anzi triplo o addirittura quadruplo. Oppressi, pur non guardando “le purghe di Stato”. Si dice TV di Stato, quindi TV pubblica al servizio del cittadino, invece è un baraccone mangia soldi in mano ai partiti politici ed alla loro claque. Foriera di censura ed omertà non offre qualità, ma straguadagni a giornalisti e dirigenti politicizzati ed immeritata visibilità a personaggi senza arte ne parte. Come tutte le cose italiane l’abbonamento RAI è regolato ancora dalla normativa del tanto bistrattato periodo fascista. Alla sinistra in Tv questo non gli fa schifo.

Gli Abbonamenti Ordinari riguardano la detenzione nell’ambito familiare (abitazione privata) di uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radio televisive. (art. 1 e 2 R.D.L. 21-2-1938 n. 246 e modificazioni successive).

Gli Abbonamenti Speciali riguardano la detenzione di uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radio televisive fuori dall'ambito familiare nell'esercizio di un'attività commerciale e a scopo di lucro diretto o indiretto: per esempio Alberghi, Bar, Ristoranti, Uffici etc..

In effetti la normativa, che si rifà a un Regio decreto del 1938 prevede che ‘apparati atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radiotelevisive’ debbano pagare il canone che, per le aziende, è appunto speciale.

L'obbligo è stato istituito di fatto con l'articolo 1 del regio decreto-legge 21 febbraio 1938, n. 246, con la seguente disposizione: "Chiunque detenga uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento, giusta le norme di cui al presente decreto. La presenza di un impianto aereo atto alla captazione o trasmissione di onde elettriche o di un dispositivo idoneo a sostituire l'impianto aereo, ovvero di linee interne per il funzionamento di apparecchi radiotelegrafici, fa presumere la detenzione o l'utenza di un apparecchio radio-ricevente"; il canone "speciale" di abbonamento alle radiodiffusioni è stato di fatto introdotto dall'articolo 2 del decreto legislativo luogotenenziale 21 dicembre 1944, n. 458, sostituendo il secondo comma dell'articolo 10 del regio decreto legge 23 ottobre 1925, n. 1917 con questa disposizione: "Qualora le radioaudizioni siano effettuate in esercizi pubblici o in locali aperti al pubblico o comunque al di fuori dell'ambito familiare, o gli apparecchi radioriceventi siano impiegati a scopo di lucro diretto o indiretto, l'utente dovrà stipulare uno speciale contratto di abbonamento con la società concessionaria". Tale norma introduce in modo più chiaro ed esteso il criterio di distinzione per l'applicazione del canone speciale e del canone ordinario. Corrisponde al vero che esiste l'obbligo di pagamento se si detiene in ufficio, studio o negozio un apparecchio televisivo (adatto alla ricezione delle trasmissioni). Tuttavia è importante evidenziare che il tutto non si applica nel caso di monitor non dotati di sintetizzatore di frequenza. Anche se in apparenza le pagine della Rai paiono dare la sensazione che si tratti di una disposizione riferita solo agli alberghi, bar, ed esercizi simili. Sottolineamo che l'obbligo c'è ANCHE PER UFFICI, NEGOZI, STUDI, indipendentemente dall'uso che ne viene fatto. Bisogna evidenziare che l'obbligo vale esclusivamente nel caso si tratti di un televisore dotato di sintonizzatore (o con un videoregistratore dotato di sintetizzatore), perché si tratta di apparecchi atti alla ricezione. Non esiste obbligo per i monitor "puri" che non sono in grado di decodificare il segnale trasmesso via etere, e per i lettori di cassette o CD (non videoregistratori) che si limitano a leggere il segnale del nastro. Del pari è giusto sottolineare il fatto che se non c'è apparecchio televisivo (ricordiamo che la RAI semplicemente "ci prova"), ovviamente non si deve pagare, e non si può essere obbligati a compiere alcuna azione in merito. Vale a dire non opererebbe il principio della presuntività; tuttavia potrebbe esserci una verifica di ispettori della Rai, che comunque per legge non possono procedere ad ispezioni personali, né reali né sulle persone, nè sui luoghi di lavoro in quanto la legge non prevede in capo ai medesimi un siffatto potere di agire che andrebbe, se posto in essere, denunciato immediatamente all'autorità giudiziaria perché integranti fattispecie di reati ben precisi. La Rai ha inviato un’ingiunzione di pagamento a 5 milioni di imprese chiedendo il pagamento del canone su qualsiasi apparecchio in grado di ricevere il segnale televisivo: personal computer, videofonini, videoregistratori, iPad e sistemi di videosorveglianza.

Finora, la giurisprudenza non sembra lasciare molte vie d’uscita. Nel 2007, con sentenza del 20 novembre, la Corte di Cassazione ha stabilito che «il canone di abbonamento radiotelevisivo non trova la sua ragione nell’esistenza di uno specifico rapporto contrattuale che leghi il contribuente, da un lato, e l’ente Rai, che gestisce il servizio pubblico radiotelevisivo, dall’altro, ma costituisce una prestazione tributaria, fondata sulla legge, non commisurata alla possibilità effettiva di usufruire del servizio de quo». Ancora più stringente la posizione della Corte costituzionale del 1988: «Se in un primo tempo sembrava prevalere la configurazione del canone come tassa, collegata alla fruizione del servizio, in seguito lo si è piuttosto riconosciuto come imposta, facendo leva sulla previsione legislativa dell’articolo. 15, secondo comma, della legge n. 103 del 1975, secondo cui il canone è dovuto anche per la detenzione di apparecchi atti alla ricezione di programmi via cavo o provenienti dall’estero (sentenza n. 535 del 1988)».

Per l’ADUC il computer è soggetto al pagamento del canone Rai? L’annosa questione è stata oggetto di suoi quesiti alla Rai, interpelli all’Agenzia delle Entrate e di interrogazioni parlamentari al ministero delle Comunicazioni (ora Sviluppo economico), ma mai è stata fornita una risposta in tal senso. La Rai ha infatti risposto di non sapere se il pc era soggetto al canone e che si avrebbe dovuto chiederlo all’Agenzia delle Entrate. Quest’ultima, deputata alla riscossione di questa tassa, ha risposto di non saper rispondere e di aver girato il quesito al Ministero delle Comunicazioni. Ad oggi non risulta che il Ministero abbia preso decisioni in merito. Nonostante ciò, la Rai sta comunque sollecitando le aziende e i professionisti a pagare il canone anche per i “computer collegati in rete (digital signage e similari)”.

E poi pagare per cosa?

Nel caos della prima serata del "Festival di Sanremo 2012" qualcuno della Rai, tra l'incredibile blocco del sistema di voto e il sermone di Adriano Celentano si è dimenticato di far trasmettere pubblicità per 650 mila euro. Chi è questo qualcuno? Forse riuscirà a scoprirlo, dopo "accurate e prolungate indagini", il "commissario" Marano "inviato prontamente sul posto" per "riportare l'ordine" al "Teatro Ariston". Nell'attesa, comunque, una cortese richiesta: poiché la Rai continua a buttare via in mille modi i suoi soldi, smetta almeno di assillare gli "abbonati per forza", cento volte al giorno, con la sua richiesta di versare il rinnovo del canone. I boiardi di Stato stanno bene attenti a costringere gli utenti a mantenerli con balzelli odiosi nella non curanza dei pseudo rappresentanti dei cittadini sganasciati in Parlamento.

Non dimentichiamoci una cosa e per chi non lo sapesse la diciamo ora. Di non solo Rai è vittima “rapinata” il povero imprenditore che ha una tv o una radio. Già. Per questo c’è un altro balzello: la SIAE. Società italiana Autori ed Editori. Be’, sì un tributo a chi crea arte e la pubblica e la distribuisce bisogna riconoscerlo. Si ma non è finita. A questi si aggiunge un altro mungitore alla vacca collettiva. Ecco a voi UN RISCOSSORE MUSICALE ALLA PORTA.

Il dr. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ed autore del libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo”, denuncia l’ennesima anomalia italiana. “Non tutti sanno – dice il presidente – che, in tema di intrattenimento musicale, le direttive dell’Unione Europea e la legge sul diritto d’autore (vedi gli articoli 72, 73 e 73 bis, Legge n. 633/1941) riconoscono e tutelano sia i diritti degli autori, che compongono i brani (gestiti dalla Società Italiana Autori ed Editori), sia i diritti dei discografici, che realizzano le registrazioni musicali (gestiti in maggior parte dalla Società Consortile Fonografici). Il consorzio SCF è oggi composto da case discografiche major e indipendenti ed attualmente  tutela i diritti discografici di oltre 280 imprese, rappresentative di larga parte del repertorio discografico nazionale e internazionale pubblicato in Italia. Ciò significa, che per sentire un brano musicale registrato, in qualunque modo e forma, è necessario riconoscere anche un compenso al SCF, diritto autonomo rispetto a quanto dovuto alla SIAE. 

Ciò, per entrambi, avviene comunemente nei seguenti contesti:

*      trasmissioni radiofoniche e televisive;

*      trasmissioni via satellite;

*      attività che utilizzano musica a scopo di lucro (es. discoteche, sfilate di moda, corsi di fitness);

*      attività per le quali la musica in diffusione di sottofondo costituisce un elemento di valore aggiunto al business (es. bar, ristoranti, alberghi, esercizi commerciali, studi od esercizi professionali, oratori parrocchiali, circoli privati, feste patronali, ecc).

Il compenso è dovuto anche nel caso in cui la diffusione dell’opera avvenga senza fine di lucro (in auto o in casa). Ai sensi della legge sul diritto d’autore, non pagare i diritti alla SIAE o alla SCF comporta l’applicazione della sanzione penale, oltre che amministrativa. Per la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 00626/2007 resa l'8 giugno 2007 dalla terza sezione penale, la diffusione di musica registrata senza aver versato i diritti connessi alle imprese discografiche per la riproduzione dei brani musicali, in questo caso rappresentate da SCF, Società Consortile Fonografici, viola la legge sul diritto d’autore e assume rilevanza penale. Solo che il Conna, ente rappresentativo degli interessi di molte emittenti radiotelevisive, disconosce tale sentenza rilevando che l'articolo 180 della legge 633 del 22 aprile del 1941 dice che l'attività di intermediario è riservata in via esclusiva alla Siae e al punto 3 aggiunge che essa curerà la "ripartizione dei proventi medesimi fra gli aventi diritto". Un brutto colpo per i cittadini italiani, che dell’intrattenimento musicale fanno il loro stile di vita, salvo far finta di niente, fino a quando non si presenta qualcuno alla porta, che ce lo ricordi.”

SIAE: LA STORIA.

Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”  racconta di denunce, contro-denunce, avvocati, veleni, dossier... Alla Siae, da mesi, è in corso una guerra termonucleare. Di qua i nuovi vertici «mandati a mettere ordine» appoggiati da un pezzo del mondo politico. Di là i sindacati interni e un altro pezzo della politica. In palio, una società ridotta a un carrozzone sgangherato e traballante sotto i debiti.

In quali condizioni la Società italiana autori editori sia entrata nel terzo millennio lo dice l'Istituto Bruno Leoni: «Il monopolio legale risulta anacronistico, oltre che lesivo della concorrenza». «La conservazione del regime di esclusiva impedisce la creazione di soluzioni più efficienti di tutela e gestione dei diritti d'autore». Le omologhe società inglesi pur chiedendo percentuali minori, «riescono a distribuire agli iscritti una quota più elevata». Insomma, la Siae è una macchina che per anni ha alimentato soprattutto se stessa.

Per colpa di chi? Della società, denunciano i sindacati citando gestioni scellerate, stipendi da favola, piccoli e grandi lussi auto-concessi dai vertici. Della società e dei suoi vecchi vertici senz'altro, concorda la nuova dirigenza commissariale, ma anche dei sindacati che avrebbero profittato per spartirsi la torta. Ed ecco che di qua l'anziano commissario Gian Luigi Rondi, i suoi vice Domenico Luca Scordino e Mario Stella Richter e il direttore generale Gaetano Blandini (bollati come «le badanti del novantunenne, mai visto») sono accusati di avere «svenduto» il 28 dicembre scorso una serie di immobili di Siae e del Fondo Pensioni per un prezzo nettamente inferiore alla valutazione (260 milioni invece di 463 milioni) a due società, la Aida e la Norma. Di là quelli che rispondono di avere fatto «confluire gli immobili nei due fondi» proprio per «custodire il patrimonio» e sottrarlo agli abusi del passato dato che «Aida e Norma sono al 100% del Fondo Pensioni e di Siae». Quindi resta tutto in casa. Di qua la direzione viene denunciata da Cgil e Cisl, le quali chiedono ai giudici la revoca «della disdetta indiscriminata di tutti gli accordi sindacali» e la condanna «ad astenersi dall'attuare controlli e/o ingerenze sull'utilizzo dei permessi sindacali». Di là i vertici sventolano il verdetto che dà ragione alla società sancendo «l'infondatezza della doglianza in esame» e condannando Cgil e Cisl a pagare le spese processuali. E accusano a loro volta i sindacati di voler difendere un sistema indifendibile. Dove i dipendenti costano mediamente 64.200 euro (no, dice la controparte negando tutto: 41.700) cioè il doppio rispetto a quello (36.425) della pubblica amministrazione. Costo che contando anche la paga media dei dirigenti (157.700) schizzerebbe addirittura a 69.200. Per salire nel 2014, coi contratti vigenti, a 82.300. Troppi, accusa Blandini, che si è tagliato lo stipendio di 130 mila euro, per un'azienda in agonia che nel 2010 ha speso 127 euro ogni 100 incassati e quest'anno prevede comunque di andare sotto del 16%. Ma Fabio Scurpa, Cgil, contesta anche questo: «A parte il fatto che i soldi per i dirigenti li hanno trovati, la Siae è sana: dicono che è in rosso per massacrare chi ci lavora».

Non basta. Mentre i sindacati dicono di non fidarsi «di un amico della Cricca», dato che l'allora direttore ai Beni culturali del settore «Cinema» finanziò in quella veste un film con Lorenzo Balducci, (intercettazione imbarazzante: «Senti oggi abbiamo approvato... Sono stati bravi, si sono spicciati...»), escono tabelline fitte di nomi di dipendenti con accanto il marchietto: «figlia di», «nipote di», «fratello di», «cognata di», «genero di»... Assunti («Scurpa compreso») per chiamata diretta. Magari con la benedizione del babbo o della mamma sindacalista. Per non dire del patrimonio immobiliare affittato a canoni assai convenienti a volte neppure pagati per mesi. Al punto che la Siae, nella denuncia penale contro l'ex direttore del Fondo Pensioni, Eugenio Truffa Giachet e altri 12 dirigenti, scrive che il ricco portafoglio di immobili (il quale violando il tetto del 20% fissato per legge costituiva il 98% del «tesoro») non solo non rendeva, ma danneggiava le casse: 2.368.768 di affitti incassati, 3.325.175 di manutenzione. Tesi respinta ancora dalla Cgil: «Vanno presi i bilanci pluriennali e lì i conti sono diversi. Giocano sui numeri per comportarsi come Torquemada». La stessa svendita di case offerte ai dipendenti (tra i primi proprio il direttore Truffa Giachet e sua figlia) in cambio di un anticipo talora di 500 euro e rate modeste da pagarsi in 40 comodi anni al 2% d'interessi era secondo Fabio Scurpa una buona idea: «Non è che i tassi, in quel momento, fossero molto più alti». Dunque sbaglia la Siae a contestare tutto? «Non è vero che non aveva garanzie d'essere pagata per 40 anni da un ottantenne: c'era l'ipoteca, se nessuno avesse poi pagato, tornava in possesso dell'immobile».

Non mancano nello scontro frontale alcuni episodi, diciamo così, curiosi. Come la denuncia di due sindacalisti, marito e moglie, che stando a una lettera del direttore generale da molti anni risultavano «sistematicamente in permesso dalle ore 7.45 alle ore 10.00 /10.30». Sveglia mattutina: riunione sindacale. Caffè: riunione sindacale. Cornetto: riunione sindacale. Mai che Angelo D. e sua moglie Anna Rita avessero un solo giorno di normalità casalinga per lavarsi i denti, farsi una doccia, preparare un cappuccino alla figlia... Subito riunioni su riunioni. Tutti i giorni. Dalle sette e mezzo di mattina. O almeno così risultava in ufficio, dove si affacciavano a metà mattinata: «Scusate, eravamo in riunione».

Agli atti, ovviamente contestati, c'è la lettera della UilPa, che commissaria il sindacato interno contestando ai due «di avere danneggiato il prestigio dell'organizzazione attraverso l'utilizzo dei permessi sindacali in contrasto con gli indirizzi stabiliti...» A quel punto ecco le provvidenziali testimonianze di alcuni colleghi: quei permessi usati poco dopo l'alba «venivano notoriamente fruiti dagli stessi per lo svolgimento del mandato sindacale presso la propria privata abitazione». Nuova richiesta di chiarimenti e nuova risposta UilPa: «Non è nostro uso autorizzare la fruizione di permessi sindacali presso abitazioni private». E via così...

Il destino personale dei coniugi, ovvio, non ci interessa. I giudici diranno chi ha ragione. La storia, però, la dice lunga sui rapporti a lungo dominanti nell'ente. Dove si sono via via sedimentati dettagli contrattuali a volte «eccentrici». Tipo la cosiddetta «indennità di penna», concessa a quanti, deposti penna d'oca, calamaio e tampone assorbente, accettarono d'entrare nel XX secolo usando il computer. Per non dire del contributo di solidarietà nato per soccorrere artisti in difficoltà ma diventato, al di là della legge, una specie di pensioncina distribuita a pioggia. Perfino a chi incassa ogni anno diritti d'autore milionari e su questi paga peraltro una quota astronomica rispetto alla «pensioncina» che riceveva.

Nelle audizioni e nella relazione al Parlamento c'è di tutto. La facoltà di mettersi in malattia senza certificato medico fino al terzo giorno («Che c'entra? Siamo disponibilissimi a cambiarlo, ma senza criteri punitivi», dice la Cgil) col risultato che qualcuno, come abbiamo raccontato, è arrivato a marcare visita «in franchigia» 87 giorni in un anno. Le trasferte degli «accertatori musicali» che se sforano la mezzanotte sono formalmente contate su due giorni... Il turno «serale» che comincia alle 13.45...

Insomma, un pasticciaccio. Sul quale è bene che, al di là delle ragioni e dei torti che animano il micidiale scontro attuale, venga fatta in fretta chiarezza. E pulizia. Un paese poeti, santi, navigatori e artisti merita qualcosa di meglio.