Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

 

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ARTICOLI PER TEMA

 

 Di Antonio Giangrande

 

 

INDICE

 

A proposito di, Garanzie, Sfiducia e Debito Pubblico. Parliamo della Germania.

Razzismo e Disastri Ambientali.

Nord e Sud ed i ladri e razzisti dentro.

Un popolo di coglioni…

Il Turista fai da te. Il Salento e l’orda dei profughi.

Le Schiave Rumene

Antimafia Razzista e Censoria

Quando la tv criminalizza un territorio.

Chi dice Terrone è solo un coglione.

La balla della Perequazione

Il Nord Italia e la scuola: Quando l’invidia la fa da padrona.

La Bufala dei voti di "Manica Larga"

Radio Vergogna

Quelli che…o tutti o nessuno e poi vogliono la secessione!

Gli affari della Sanità privata padana a danno di quella del Sud, sotto tutela dello Stato.

 

 

A proposito di, Garanzie, Sfiducia e Debito Pubblico. Parliamo della Germania.

La Germania non ha fiducia nell’Italia nell’onorare i suoi debiti. L’Italia è reputata indebitata, inaffidabile e senza garanzie.

La Germania è forte dei suoi artifici contabili e dell’irriconoscenza. I suoi debiti non li ha mai pagati come dopo la Prima Guerra Mondiale, o se li è visti in gran parte condonare come dopo la Seconda Guerra Mondiale.

E gli sforamenti del 2003 del tetto del 3 % deficit/pil? Dimenticati?

 

Razzismo e Disastri Ambientali.

Disastri Ambientali e Dissesti idrogeologici: morte e distruzione.

Alluvioni, Allagamenti, Smottamenti, Frane.

Per i media prezzolati e razzisti.

Al Nord Italia: Eventi e danni naturali imprevedibili causati da Vortici di Bassa Pressione dovuti all'alta Pressione perenne del Sud Italia con i suoi 30 gradi anche ad ottobre.

Al Sud Italia: Disastri meritati dovuti a causa dell'abusivismo; degli incendi dolosi e del disboscamento; dell'incuria e dell'abbandono delle opere pubbliche di contenimento e prevenzione.

“Per fortuna il maltempo si è spostato al sud”: la gaffe del TG5. Da Redazione di Cefalù Web 13 novembre 2014. Elena Guarnieri, presentatrice del TG5 ieri sera si è resa protagonista di una brutta gaffe parlando di maltempo. La giornalista in diretta durante l’edizione serale del popolare tg della rete ammiraglia di Mediaset, parlando della perturbazione che imperversa su tutta la penisola ha affermato: “Il peggio sembra essere passato, la perturbazione si è spostata al Sud“. Forte lo sdegno dei telespettatori soprattutto del meridione che condannano con fermezza l’imperdonabile gaffe.

 

Nord e Sud ed i ladri e razzisti dentro.

"Sbagliato dare gli stessi stipendi a Milano e Reggio Calabria" dice il sinistro Beppe Sala, sindaco di Milano. Dovrebbe sapere, lui, se fosse solo ignorante e non in malafede, che a parità di stipendio il maggiore costo della vita elevato al Nord va a pareggiare i maggiori costi dei diritti negati al Sud, a causa del ladrocinio padano dei Fondi nazionali e comunitari destinati al meridione. Da buoni comunisti (Padani) per loro vale il detto: “quello che è mio è mio; quello che è tuo è pure mio”.

Quelli che…ed io pago le tasse per il Sud. E non è vero.

Le grandi aziende che lavorano nel Sud Italia hanno la sede legale al Nord e lì pagano le tasse.

Le grandi aziende del Nord Italia hanno la sede legale nei paradisi fiscali e lì pagano le tasse.

 

Un popolo di coglioni…

Parafrasi ed Assioma con intercalare. Non ho nulla più da chiedere a questa vita che essa avrebbe dovuto o potuto concedermi secondo i miei meriti. Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito, informato, curato, cresciuto ed educato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Chi ci ha rincoglionito? I media e la discultura in mano alle religioni; alle ideologie; all’economie. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora ho il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.

Hanno prima istituito le zone rosse contagiate dal Virus Padano con limiti invalicabili e poi hanno permesso agli infettati di quelle zone di varcare i limiti e di contagiare il Sud.

Hanno prima chiuso gli stadi del nord per timore del contagio del Virus Padano e poi hanno permesso la trasferta a Lecce degli infettati atalantini.

Oggi hanno unificato l’Italia. Se prima si erano dati al lassismo, oggi, nell’onda lunga giustizialista, hanno ristretto l’Italia ai domiciliari con misure draconiane.

Tutti contagiati. Ergo: niente vizi privati; niente servizi pubblici.

Tra queste misure si è previsto la chiusura delle scuole in tutta Italia. Come se le scuole fossero veicolo di contagio in territori dove il virus non c’è.

Come dire: gli ulivi del Salento sono infettati dalla Xylella? Tagliamo le piante in Liguria.

Vada per gli stadi ed ogni manifestazione sportiva, per non avvantaggiare nessuno. Ma cosa centrano le scuole.

Se uno Stato non riesce a garantire la sicurezza dalla violenza e dall’illegalità.

Se uno Stato non riesce a garantire la salubrità degli edifici pubblici da contaminazioni e contagi.

Se uno Stato non riesce a fare ciò: è uno Stato che non merita rispetto.

Vincenzo Magistà : Tgnorba 4 marzo 2020. «A tutto c’è rimedio, anche al Coronavirus. Ma, a quanto sembra, nulla, nulla può guarire dalla idiozia. L’idiozia sta facendo danni irreparabili. Hanno cominciato i social a diffondere il terrore. Stanno continuando gli idioti. Gli idioti sono quei soggetti che, sempre sui social, stanno prendendo di mira le persone risultate positive ai controlli. I contagiati, così come vengono definiti, con la stessa terminologia che si usava ai tempi della peste. E loro da appestati vengono trattati. Un esempio della più cieca ed assurda inciviltà. Queste persone andrebbero sostenute, difese, rispettate. E, invece, ricevono insulti, offese, emarginazione. Loro, i figli , le famiglie. C’è da vergognarsi. Anche in questi casi, però, c’è da indentificare i responsabili delle denigrazioni e denunciarli. Così come una denuncia la merita questo giornale che adesso vedrete. Che anziché Libero (Quotidiano, nda), è stupido e idiota. Una vera miscela esplosiva, fra l’altro. “Il Virus va alla conquista del Sud” leggete questo titolo. Così titola con entusiasmo questo giornale milanese e leghista: “trenta infetti in Campania, undici nel Lazio, cinque in Sicilia e sei in Puglia. Ora sì che siamo tutti fratelli”. Verrebbe da lanciargli qualcosa contro, se ne avessimo la possibilità. Potremmo rispondergli che, invece di fare gli stupidi, dovrebbero piangere per le loro sventure., perché poi gli untori sono proprio loro: i lombardi, che da soli contano 1500 infetti. Noi ne abbiamo in tutto il Sud, insieme, meno dei loro morti, che sono 55. Adesso si rallegrano per averci contagiato. Come se ci fosse da guadagnare qualcosa in questo. La supesanità lombarda è allo stremo: denuncia tutti i propri limiti. Gli ospedali, la Regione Lombardia chiedono aiuto a noi. E un giornale che “Libero” non è per niente si permette di ironizzare sull’Unità d’Italia realizzata attraverso il Coronavirus. Adesso siamo tutti uguali: Coronavirus al Nord; Coronavirus al Sud. No, no, no signori. L’Italia resta ancora divisa: spaccata in due. Da una parte il Nord: il Nord degli untori. Quello che infetta. Dall’altra, purtroppo, il Sud infettato. Però, una volta tanto, stiamo meglio noi».

 

Il Turista fai da te. Il Salento e l’orda dei profughi.

Arrivano in massa, senza soldi e con la litania lamentosa e diffamatoria: perché qua è diverso?

L’osservazione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

La meta del turista fai da te che arriva in Salento è il mare, il sole, il vento ma è stantio a metter mano nel portafogli e nell’intelletto. C’è tanta quantità, ma poca qualità.

Il turista fai da te che arriva nel Salento è come un profugo in cerca spasmodica di benessere gratuito. Crede nei luoghi comuni e nei pregiudizi, nelle false promesse e nelle rappresentazioni menzognere mediatiche.

E’ un emigrante con la seconda casa abusiva, oppure con prenotazione diretta last minute, al netto dell’agenzia, prende un appartamento con locazione al ribasso e con pretesa di accesso al mare. Si aggrega in gruppo per pagare ancora meno. Ma a lui sembra ancora tanto. Poi si meraviglia della sguaiatezza di ciò che ha trovato. Tutto l’anno fa la spesa nei centri commerciali e pretende di trovarli a ridosso del mare. Non vuol fare qualche kilometro per andare al centro commerciale più vicino, di cui i paesi limitrofi son pieni, e si lamenta dei prezzi del negozietto stagionale sotto casa. Durante l’anno non ha mai mangiato una pizza al tavolo e quando lo fa in vacanza se ne lamenta del costo. Vero è che il furbetto salentino lo trovi sempre, ma anche in Puglia c’è la legge del mercato: cambia pizzeria per il prezzo giusto.

Il turista fai da te tutto l’anno vive in palazzoni anonimi, arriva in Salento e si chiude nel tugurio che ha affittato con poco e poi si lamenta del fatto che in loco non c’è niente, nonostante sia arrivato nel Salento, dove ogni dì è festa di sagre e rappresentazioni storiche e di visite culturali, che lui non ha mai frequentato perché non si sposta da casa sua. Comunque una tintarella a piè di battigia del mare cristallino salentino è già una soddisfazione che non ha prezzo.

Il turista fai da te si lamenta del fatto che sta meglio a casa sua (dove si sta peggio per cognizione di causa) e che qui non vuol più tornare, ma, nonostante il piagnisteo, ogni anno te lo ritrovi nella spiaggia libera vicino al tuo ombrellone. Si lamenta della mancanza di infrastrutture. Accuse proferite in riferimento a zone ambientali protette dove è vietato urbanizzare e di cui egli ne gode la bellezza. A casa sua ha lasciato sporcizia e disservizi, ma si lamenta della sporcizia e della mancanza di servizi stagionali sulle spiagge. Intanto, però, tra una battuta e l’altra, butta cicche di sigaretta e cartacce sulla spiaggia e viola ogni norma giuridica e morale. La raccolta differenziata dei rifiuti, poi, non sa cosa sia. Ogni discorso aperto per socializzare si chiude con l’accusa ai meridionali di sperperare i soldi pagati da lui. Lui, ignorante, brutto e cafone, che risulta essere, anche, evasore fiscale.

Il turista fai da te lamentoso è come il profugo: viene in Salento e si aspetta osanna, vitto e alloggio gratis di Boldriniana fattura. Ma nel Salento accogliente, rispettoso e tollerante allora sì che trova un bel: Vaffanculo…

 

Le Schiave Rumene

LE SCHIAVE RUMENE, LA MAGISTRATURA ORBA, LA DEMAGOGIA DI SINISTRA ED IL SOLITO RAZZISMO DEL NORD PER UN PROBLEMA COMUNE. 

La verità raccontata da un’altra prospettiva contro i maestrini dell’informazione, spesso di sinistra ed ammanicati con i magistrati. Ed i leghisti ci sguazzano nella verità artefatta. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it,  Lulu.com, CreateSapce.com e Google Libri. Sul tema ho scritto “Uguaglianziopoli. L’Italia delle disuguaglianze”.

C’era una volta l’assistenzialismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Non solo i cittadini meridionali sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti. E con ciò accusati di essere evasori fiscali. Eppure la verità che non si racconta è un’altra. Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa). Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre 2014). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà.

E poi sul caporalato al sud è una vera bufala. Le schiave e la magistratura orba. Il caso delle schiave rumene è l’esempio eclatante di come la magistratura si muova solo dietro alle telecamere. Come mai le istituzioni nel palese nulla vedevano? Come mai le denunce presentate sono state insabbiate? A volte si pende dalle labbra di chi ha verità scontate, ma anche interessate. "Se tua moglie non sta con me non vi pago". Romene nel ragusano tra ricatti e soprusi. Dopo la nostra inchiesta sulle violenze sessuali nelle campagne ragusane, il territorio si mobilita. Padre Beniamino: “Mi accusano di rovinare il paese, ma non posso tacere”. Le aziende si difendono. Troppi sapevano e hanno taciuto. Ci sono denunce di donne che risalgono a quattro anni fa. Cadute nel vuoto, scrive Antonello Mangano su “L’Espresso”. Risale a quattro anni fa la denuncia di una coppia rumena al commissariato di Vittoria. «Finché tua moglie non fa un giorno d’amore con me, non vi pago gli arretrati». Il ricatto finisce nel verbale. Nulla di segreto, la testimonianza si trova anche nel video “Solidal”, prodotto dalla Cgil e reperibile in rete. Ma la denuncia cade nel vuoto, la coppia rimane senza lavoro e va a vivere in un tugurio in campagna. Anche la Chiesa non fa mancare il suo impegno. «Abbiamo accolto alcune donne rumene in stato di gravidanza in parrocchia», racconta Padre Beniamino Sacco, il primo a denunciare i “festini agricoli”. «Dicono che c’è il consenso della donna? In stato di disagio economico non hai diritto a dire no. Si tratta di violenza. La dignità di queste donne è offesa dall’atteggiamento di “padronanza”. C’è chi pensa di poter usufruire della vita degli altri come vuole e quando vuole».«Da 22 mesi aspettiamo un’ispezione in quell’azienda» conclude Bellassai. «Registriamo troppa lentezza nella burocrazia», dice a l’Espresso Emanuele Bellassai della cooperativa Proxima.

Tutti a stracciarsi le vesti per una risaputa verità di parte. Però analizziamo le frasi è tra queste rileviamo la verità oggettiva. Si evidenzia che, se fosse tutto vero, eventualmente tutti sapevano. Per la gente comune passi, ma è inaccettabile che le istituzioni non si muovano. Giustappunto sono pagate per effettuare le ispezioni e per indagare sulle denunce presentate. Di loro nessuno ne parla. Invece i media pronti a cavalcare l’ovvio. “Se vuoi i soldi dammi tua moglie”. Ricatti come questo sono all’ordine del giorno nel silenzio dei campi a Vittoria, in provincia di Ragusa, scrive “Blitz Quotidiano”. Schiave romene: La situazione è gravissima, adolescenti violentate e costrette ad abortire. Prosegue la nostra inchiesta nell'inferno delle campagne vicino a Ragusa. "Mia moglie ha subito continue molestie dal padrone" racconta un uomo alle nostre telecamere. Gli operatori delle Onlus sono stati minacciati. E le interruzioni di gravidanza sono in aumento: "In ospedale arrivano delle bambine, quindicenni che dopo il parto abbandonano i figli", scrive Duccio Giordano su “L’Espresso”.  Sicilia, sulle schiave romene si muove il Parlamento. Dopo l’inchiesta dell’Espresso, due interrogazioni parlamentari sul caso delle immigrate dalla Romania violentate e seviziate. Avviato in prefettura a Ragusa l’iter per un protocollo d’intesa che coinvolgerà anche gli agricoltori. E la stampa della Romania si interessa al caso, scrive Antonello Mangano su “L’Espresso”. I festini agricoli e gli aborti delle mille schiave romene, scrive  Dario Di Vico su “Il Corriere della Sera”. Nell’epoca di Facebook, del tutto-in-Rete e dei conflitti gridati, esistono ancora i drammi sordi. Quelli che si consumano nel silenzio, nello scorrere uguale di giorno/notte e trasformano gli scandali in abitudini. Dopo le accuse di don Beniamino Sacco e della Cgil sullo sfruttamento delle romene nelle campagne di Vittoria, capitale del pomodoro ciliegino e datterino, ci si comincia a chiedere cosa succeda veramente nella zona che va da Scoglitti ad Acate, su su fino a Ragusa. Braccianti e schiave sessuali a Ragusa. Il Parlamento indaga sui festini agricoli, scrive Luisa Pronzato su “Il Corriere della Sera”. Difficile farle denunciare. Le operaie agricole rumene che lavorano nella “fascia trasformata” del ragusano sono sfruttate, segregate, abusate. E ricattate dai loro padroni. Violenza economica e sessuale oscurate da omertà, impossibilità di scelta, isolamento, pregiudizio. Su questa falsa riga di rappresentare l’imprenditore agricolo del sud Italia come l’orco che schiavizza gli immigrati e non solo, Alessandro Leogrande, ormai famoso giornalista e scrittore impegnato, gira le scuole per parlare con gli studenti del suo ultimo libro, “Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud”, edito dalla Mondadori.

Eppure ad approfondire bene la materia si trova un’altra verità. Tutta l’Italia è paese e i caporali sono gli stessi immigrati. Sfruttamento nei campi: succede anche al nord, scrive Luigi Riccio su “Corriere Immigrazione” Franciacorta, Chianti, Castelnuovo Scrivia: anche qui migranti vessati e ricattati. Rosarno non è poi così lontana. Lavoro nero, caporalato e sfruttamento dei migranti rappresentano un elemento per così dire strutturale nell’agricoltura del mezzogiorno d’Italia. E’ un fatto risaputo e documentato nel tempo da molti articoli e da studi e ricerche. Una delle più recenti è quella coordinata da Enrico Pugliese (Diritti violati, coop Dedalus). Ciò che è decisamente meno noto è che anche al Nord, in regioni e contesti insospettabili, questo costume si è ormai radicato e migranti sottopagati, costretti a orari impossibili e sforzi abnormi fanno sempre più spesso da sfondo al paesaggio agricolo. Succede, per esempio, in Franciacorta, sulle colline tra Brescia e il lago d’Iseo, dove si concentrano aziende vitivinicole tra le più celebri d’Italia e si producono bollicine di elevata qualità, in grado di competere con quelle francesi. Caporalato e mafie: “700mila schiavi nell’agricoltura italiana”. Il Flai-Cgil presenta il primo rapporto su un fenomeno che non tocca solo le regioni del Sud. Dietro il cibo che arriva sulle nostre tavole ci sono stagionali stranieri pagati 4 euro l'ora in condizioni fuori da ogni regola. E spesso sotto il controllo mafioso, scrive Elena Ciccarello su “Il Fatto Quotidiano”. Diversamente da quel che si può credere però lo sfruttamento non riguarda solo il mezzogiorno, ma anche le zone più floride del nord, come Piemonte, Lombardia, provincia di Bolzano, Emilia-Romagna e Toscana (guarda la mappa completa). In tutti questi territori, come in Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia, i ricercatori della Flai Cgil hanno scovato datori di lavoro e imprenditori che truffano o ingannano i lavoratori stranieri, non corrispondendo loro i salari maturati, o facendoli lavorare in nero, accompagnando il trattamento con minacce più o meno velate e forme di violenza psico-fisica (manifeste o paventate). In Italia il mondo del caporalato si è evoluto, lo racconta nel rapporto Yvan Sagnet, portavoce dei braccianti che hanno organizzato lo sciopero di Nardò (Lecce) nell’estate del 2011 e oggi impegnato nella Flai-Cgil in Puglia: “Ci sono i caporali e ci sono i sotto-caporali. Perché i caporali non possono gestire tutto. Il caporale può avere quattro o cinque campi di raccolta e manda i suoi assistenti a gestire i lavoratori. Ha una squadra, ha gli autisti, degli assistenti, ha i cuochi. A Nardò c’era il capo de capi, era un tunisino.

Ma è inutile tergiversare su un problema irrisolvibile. Gira gira la colpa però è sempre del sistema. Dall’entrata in vigore della norma che istituisce il reato di caporalato le persone denunciate o arrestate sono solo 42. La metà degli arresti al centro-nord. “Parliamoci chiaramente, per gli imprenditori il costo del lavoro italiano è altissimo. Ciò non giustifica l’assunzione di personale in nero, ma è indubbio che questo fenomeno esiste proprio per sfuggire alle maglie di questo meccanismo, soprattutto in questa grave crisi”. Il Procuratore di Foggia, Vincenzo Russo, non usa mezzi termini. “È come l’evasione fiscale. Quanto più alta è la tassazione, tanto più i soggetti sono invogliati ad evadere. Questo è indubbio. Quindi, se il costo del lavoro diminuisse, probabilmente diminuirebbero anche questi fenomeni”.

 

Antimafia Razzista e Censoria

ANTIMAFIA RAZZISTA E CENSORIA. PERCHE’ CE L’HANNO CONTRO I MERIDIONALI?

Dici Calabria o Sicilia o Campania, pensi a tutto il Sud Italia.

Nei libri scritti da Antonio Giangrande, “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE”, “MEDIOPOLI. DISINFORMAZIONE, CENSURA ED OMERTA’” ed “ITALIA RAZZISTA”, un capitolo è dedicato all’Antimafia razzista e censoria.

Su questo tema Antonio Giangrande, il noto saggista e sociologo storico che ha pubblicato la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, ha svolto una sua inchiesta indipendente. Giangrande sui vari aspetti del razzismo palese o latente contro il popolo dell’Italia meridionale si è soffermato prendendo spunto dai fatti di attualità.

Quando i posti di chi ha ragione sono tutti occupati……..e gli occupanti parlano, anche il Papa si fa abbindolare………

Gli ‘ndranghetisti rinchiusi nel carcere di Larino non vogliono più partecipare alla messa della domenica, scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”. Dopo le parole pronunciate da Papa Francesco proprio in Calabria (“Coloro che nella loro vita hanno questa strada di male, i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati”), in tanti hanno protestato con il cappellano del penitenziario don Marco Colonna e annunciato che non parteciperanno più alle funzioni in cappella. E lo sciopero della messa è andato avanti per giorni. A rivelarlo è stato il vescovo di Termoli-Larini Gianfranco De Luca che ha varcato la soglia del carcere di Larino per incontrare i detenuti che protestano e officiare una messa speciale per loro. “Ma per favore non parlare di rivolta… – s’infuria don Marco rispondendo alle domande di Repubblica.it – qui nessuno è in rivolta. Oggi alla messa erano in tanti per fortuna. La verità è che in questi giorni tanti detenuti hanno manifestato dubbi e proteste dopo le parole del Papa. Parole che a quanto pare hanno colpito nel segno se tanti di loro sono venuti a parlarmi per chiedermi cosa dovevano fare. Se dovevano ritenersi scomunicati. Alcuni mi hanno detto: padre, ma se siamo scomunicati noi a messa che ci veniamo a fare? A questo punto non veniamo più… Io invece ho spiegato loro che il Papa non vuole cacciare nessuno. Ha indicato solo la retta via, ha chiesto la loro redenzione, non la loro espulsione”. Ed è stato il vescovo di Campobasso, Giancarlo Bregantini a confermare la vicenda: «la Sezione di alta sicurezza del carcere di Larino – ha spiegato durante un intervento alla radio Vaticana – si è messa in protesta con questa frase: “Se siamo scomunicati, a Messa non vale la pena andarci”. Ne hanno parlato con il cappellano; quest’ultimo questa mattina ha invitato il vescovo al carcere per parlare e spiegare il senso dell’intervento del Papa. Questo dimostra come non sia vero che dire certe cose, sia clericalismo; in realtà le parole del Papa, come quelle della Chiesa e di Gesù Cristo, hanno sempre una valenza etica che diventa poi sempre culturale ed economica, quindi con grandi riflessi politici». La direttrice del carcere Rosa Ginestra ha voluto comunque smentire la notizia della rivolta. «Ma chi ha usato il termine rivolta? Quale rivolta… E’ falso. Oggi in carcere è un giorno tranquillo come gli altri». E don Marco spera di aver fermato lo sciopero della messa. A Oppido Mamertina, nelle stesse ore, esplode il caso della Madonna portata in processione davanti alla casa di un boss ergastolano ai domiciliari. “Interverremo con provvedimenti energici”, assicura il vescovo.

Il razzismo è latente: dici Calabria, pensi al Sud Italia.

RAZZISTI. SE QUESTA E’ L’ANTIMAFIA. Questo è un pezzo scritto da Nando Dalla Chiesa. Esso va letto con gli occhi e con il senso che si può dare al di là delle parole. Si capisce fino in fondo quanto può essere cattivo l’animo umano di un settentrionale. Interi paesi del nord Italia contro l’infiltrazione della ‘ndrangheta? No. Contro l’inserimento dei calabresi nel loro territorio padano. “Mettiamola così: questo è un diario di bordo, una testimonianza doverosa di un militante dell’antimafia che in vita sua ne ha viste, studiate e sentite tante. E che una sera capita a Viadana, ricca provincia mantovana. Invitato da militanti locali del Pd che vogliono dare la sveglia all’ambiente. Strattonare gli ignavi, gridare che con la ‘ndrangheta non si può convivere. “Per favore, vieni a presentare il tuo Manifesto dell’Antimafia, ce n’è bisogno”. E’ la sera di martedì 1 luglio quando arrivo a Viadana dopo un passaggio alla biblioteca comunale di Mantova. Ho già scoperto dai toni tirati, preoccupati, usati nell’occasione dall’ex sindaco del capoluogo Fiorenza Brioni che deve esserci qualcosa di grave nell’aria. La classica cortina di ferro, già vista innumerevoli volte, da Palermo a Milano, tirata su, stavolta anche a sinistra, in difesa del solito argomento: l’inesistenza della mafia in provincia, la rimozione maledetta; magari pure la derisione o l’alzata di spalle verso che denuncia. Affetto da protagonismo, mosso da ragioni personali. E’ appena finita una bufera d’acqua. La presentazione, prevista in piazza, è stata spostata sotto i portici. Che sono già affollati all’ora dell’inizio, file di sedie bianche che gli organizzatori continuano ad allungare e allargare all’esterno dei portici. Al tavolo un membro del circolo anti-‘ndrangheta del Pd locale (commissariato come l’altro), un esponente dell’associazionismo e il corrispondente della “Gazzetta di Mantova”. Non ci vuole molto per capire che l’atmosfera è elettrica. Che i presenti (c’è anche qualcuno di Forza Italia) vogliono ribellarsi a qualcosa. Vengono subito in mente gli incontri fatti negli ultimi anni a Desio, Lonate Pozzolo, Bordighera, i comuni dove i clan calabresi avevano affermato il loro dominio contrastati da un pugno di persone senza ascolto nei partiti. Questa è zona di tradizioni democratiche. Eppure è successo qualcosa che ha sconvolto tutto. “Viadana è nostra” giurava gongolando nel 2006 un giovane esponente dei clan in una telefonata. Una millanteria? No, i segni ci sono tutti. Gli incendi, linguaggio inconfondibile e prova provata della presenza mafiosa. Le imprese edili calabresi infarcite di pregiudicati che crescono nel mezzo di una crisi che non risparmia nessuno. L’ingresso di tesserati sconosciuti nel maggior partito di governo (il Pd), provenienza Isola di Capo Rizzuto e zone confinanti. Gli avvertimenti che giungono sibillini a chi promuove in consiglio comunale un questionario da dare ai cittadini sulla percezione della presenza mafiosa, nulla di forte, per carità, ma loro capiscono e prendono cappello lo stesso. O l’assessore che porta un ferito da arma da fuoco in ospedale asserendo di averlo raccolto per strada come un buon samaritano: uno sconosciuto, dice; mentre l’interessato lo dichiara amico suo. Eccetera eccetera. Un oratore racconta che chi ha dato i volantini della serata è stato seguito e oggetto di attenzioni non amichevoli. Il giornalista aggiunge che quando ha indagato sull’accoglienza riservata al questionario, si è imbattuto nel vittimismo. Ce l’hanno con noi perché siamo calabresi, è un pregiudizio razzista. Obietto che i veri razzisti sono gli uomini dei clan, visto che in tutte le conversazioni intercettate identificano se stessi con “la Calabria”. Mi viene poi detto che i più tosti nell’innalzare la bandiera vittimista non ne vogliono però sapere di prendere le distanze dagli Arena, il clan che a Isola di Capo Rizzuto spadroneggia che è un piacere. “E’ accaduto tutto quello che dici nel libro. Le tre ‘C’, i complici, i codardi e i cretini. L’avessimo saputo prima… anche il gemellaggio che dici, pure quello abbiamo fatto, con la processione del loro santo. Ma ti rendi conto?”. Mi rendo conto. L’ho visto decine di volte. E’ così che conquistano i paesi, che si mette nelle loro mani un pezzo d’Italia dopo l’altro. Con le autorità che concedono le white list a imprese assai discusse, per non avere grane con il Tar. Con i partiti più preoccupati dei loro equilibri interni che dei drammi del paese e che proprio non ci riescono a pensare come se fossero lo Stato. Metti una cosa dietro l’altra e alla fine succede la cosa più logica: vincono loro. Soprattutto se chi si ribella viene commissariato”.

SINONIMI E CONTRARI: ‘NDRANGHETISTA E’ UGUALE A CALABRESE. QUEL FASTIDIOSO MARCHIO MESSO NERO SU BIANCO DA DALLA CHIESA. “Nei cantieri che sono di Expo abbiamo rilevato segni di presenza mafiosa così come abbiamo rilevato la capacità delle organizzazioni criminali di inserirsi in opere anche appaltate direttamente da Expo. C’è una situazione che deve essere controllata meglio”. È questo l’allarme lanciato dal presidente del Comitato antimafia del Comune di Milano, Nando Dalla Chiesa, nel corso della presentazione della V relazione stilata dall’organo da lui presieduto il 3 agosto 2014. Una relazione questa presentata “con una certa urgenza – ha chiarito Dalla Chiesa – e che riporta i segni di presenza mafiosa riscontrati dal Comitato”. Fin qui tutto nella norma potremmo dire, Ferdinando Dalla Chiesa presiede il Comitato antimafia del Comune di Milano che a sua volta stila una relazione nella quale segnala la presenza di forze mafiose nei cantiere dell’Expo. Nulla da dire se non fosse che nel documento in questione i calabresi tutti vengano bollati come affiliati alla ‘ndrangheta, ma andiamo con ordine, scrive Maria Chiara Coniglio su “Telemia”. Dalla Chiesa nel corso della conferenza stampa del Comitato antimafia ha detto senza troppi giri di parole che bisogna chiudere i varchi non agli ‘ndranghetisti ma ai calabresi. Una gaffe, può aver pensato qualcuno, e invece no, Dalla Chiesa a scanso di equivoci ha ampiamente ribadito il concetto all’interno del documento in cui per ben 13 volte il termine calabrese viene utilizzato come sinonimo di ‘ndranghetista. Nel testo si fa infatti riferimento alla presenza di “padroncini calabresi nello svolgimento di lavori che pur si realizzano a forte distanza dai comuni di loro residenza” o ancora a come l’impresa Perego avesse il compito di mantenere “150 famiglie calabresi”. Insomma basta con questo stupido buon senso e addio al non far di tutta l’erba un fascio, un capro espiatorio dovrà pur esser trovato e qual miglior posto della Calabria per dar frutto ad una simil ed ardua ricerca. Del resto in regione al fango si è purtroppo concesso che ci abituassero e poco è stato fatto per rimuovere il marchio dei brutti, sporchi e cattivi. Calabrese è uguale a ‘ndranghetista ed ora Dalla Chiesa lo ha messo nero su bianco in un documento ufficiale in barba ai calabresi, silenti vittime di un razzismo sempre più manifesto.

Il delegato di Confindustria Calabria per Expo 2015, Giuseppe Nucera, ha inviato una lettera al presidente del Consiglio regionale Francesco Talarico, stigmatizzando la mancata presa di posizione del mondo politico-istituzionale calabrese di fronte alle affermazioni rese nei giorni scorsi da Nando Della Chiesa durante la conferenza stampa di presentazione del rapporto del Comitato Antimafia del Comune di Milano, scrive “Stretto Web”. In quella sede, Dalla Chiesa, che presiede l’organismo, ha affermato che bisogna “chiudere ai calabresi” in quanto ‘ndranghetisti. Nella missiva, Nucera sollecita una presa di coscienza e una corale reazione da parte della società civile e dei corpi intermedi della comunità calabrese. “Alla gravità di quanto sostenuto da Dalla Chiesa – scrive Nucera a Talarico – non è seguita una ferma e forte presa di posizione da parte dei politici calabresi e/o degli organi istituzionali regionali . L’ufficio che lei presiede rappresenta tutti i calabresi residenti e non e, quindi, ci aspettavamo che la massima istituzione della Calabria scendesse in campo per difendere la dignità e l’onore dei suoi cittadini. Silenzio assoluto da destra e da sinistra. Allo sconcerto di quelle dichiarazioni oggi aggiungiamo l’indignazione nei confronti di chi esercita una funzione di rappresentanza dei calabresi”. “Solo Confindustria – aggiunge il delegato degli industriali calabresi per l’Expo – ha preso posizione e porterà in tribunale Nando Della Chiesa. Questo è il fatto. Da qui bisogna partire per iniziare un percorso diverso, una riflessione, una strategia che ci consenta di uscire dal ghetto in cui ci hanno portato. Abbiamo il dovere di reagire per i nostri figli, per i nostri nipoti che vivono, studiano, lavorano in Lombardia e in tutto il mondo” Ad avviso di Giuseppe Nucera, “bisogna reagire con un piano strategico di comunicazione su vasta scala, che metta in evidenza la vera identità del popolo calabrese. Un’identità sfregiata dai mafiosi e da coloro che se ne servono per i loro sporchi affari sia in loco che nel nord Italia. Saranno i giudici a stabilire le responsabilità penali ed a colpire il ghota mafioso e gli ambienti economici che ci sguazzano. Noi siamo positivi, siamo la vera Calabria e chiederemo ai calabresi di scienza, di cultura, di impresa, che hanno dato prova di ottima e sana amministrazione pubblica e privata, di scendere in campo, di testimoniare con la propria storia l’identità di un popolo. E’ un grande impegno a cui dobbiamo far fronte – conclude Nucera – altrimenti ci saranno altri Nando dalla Chiesa e qualcuno, quanto prima, chiederà la deportazione dei calabresi e l’apertura dei campi di sterminio. Adesso basta”.

Da diversi mesi sono troppe le notizie e le illazioni che leggiamo sui media locali e nazionali e sui diversi social network tese a delegittimare un intero sistema economico e sociale. I calabresi non sono tutti malavitosi. Basta con questi vili attacchi, scrive Angelo Marra, Presidente del Gruppo giovani imprenditori di Confindustria Reggio su “Zoom Sud”. Purtroppo l’ostilità mediatica degli ultimi giorni sta innescando un circuito pericoloso che avrà conseguenze molto negative. Credo che quanto stia accadendo non nasca in maniera accidentale, bensì sia il risultato di un’azione ben programmata al fine di delegittimare tutto e tutti, aziende e cittadini, per una volontà politica-commerciale precisa. Se si continua su questa scia, se i vari personaggi pubblici continueranno a descriverci come ‘pericolosi’ o ‘disonesti’, tutte le nostre imprese correranno grossi rischi, perderanno commesse o trattative. In un periodo storico di grandi difficoltà economiche, eliminare un competitor, considerando tra le altre cose, che gli spazi sono sempre più ristretti, è una strategia di mercato. Non sta a noi descriverci come aziende sane e rispettose delle regole, ma tutti gli sforzi fatti fin qui da migliaia di uomini e donne reggini e calabresi, rischiano di divenire vani se continuano ad etichettarci come qualcosa che non siamo. La Calabria è colma di imprenditori onesti e professionali, di giovani talentuosi e vogliosi di fare impresa e dare corpo alle proprie idee. Vogliamo competere ad armi pari con le imprese settentrionali e per farlo pretendiamo dalle istituzioni da un lato maggiori controlli, a garanzia di legalità e trasparenza, e dall’altro, con la stessa scrupolosità, maggiore impegno ad eliminare radicalmente il gap atavico del nostro geographical handicap ”.

QUANDO L’ANTIMAFIA DIVENNE RAZZISMO: CALABRESE= ‘NDRANGHETA. LETTERA APERTA A NANDO DALLA CHIESA. Carissimo dott. Dalla Chiesa (scrive Angelo Costantino Presidente “Giovani Per il Futuro”), curiosando sulla prima pagina de “Il Garantista”,non ho potuto fare altro se non acquistare il quotidiano e sfogliare frettolosamente sino a pag. 4. Il titolo era alquanto emblematico, ma volevo capirci meglio. Non potevo credere ai miei occhi. Le parole riportate nell’articolo, la relazione che Lei ha presentato al Comune di Milano nella veste di coordinatore del comitato antimafia sarebbero dovute essere state scritte da un neofita, ma non da Lei. Lei che ha visto i propri genitori morire sotto i colpi della mafia per le strade di Palermo, Lei che è docente di Sociologia della Criminalità organizzata presso l’Università degli Studi di Milano, Lei che ha ricordato nei suoi scritti Falcone e Borsellino, ma anche uno sconosciuto a molti come Rosario Livatino, Lei che è un esperto dell’argomento non poteva permettersi una simile caduta di stile. Chi Le parla è uno studente di Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano, REGGINO CALABRESE INCAZZATO. “Del resto chi è nato e cresciuto da quelle parti, qualcosa da nascondere ce l’ha sempre, al limite qualche parentela o amicizia sospetta.” Con queste parole Lei ha chiaramente voluto intendere che chi nasce in Calabria è marchiato a vita,che calabrese equivale a ‘ndranghetista. Che per noi non v’è alcuna speranza. Lei questa la chiama realtà, io razzismo. Le replico con durezza perché queste parole mi hanno fatto male,e so per certo che rappresento lo sgomento di milioni di calabresi. Lei con poche ma incisive parole ha mancato di rispetto ai milioni di cittadini onesti; ai numerosi ragazzi che militano nelle associazioni antimafia; agli imprenditori che resistono, denunciano, e non pagano il pizzo; ai politici che non si fanno piegare; ai magistrati che per speranza e passione non hanno più una vita normale; ai ragazzi che non si arrendono e sperano ogni giorno in un futuro migliore. Ha offeso suo padre, morto per combattere il sistema. Ha offeso tutti i morti “ammazzati”, i nostri veri eroi. La sua grande conoscenza dell’argomento l’ha portata ad una conclusione ignorante. Non si diventa simboli dell’antimafia sparando a zero o facendo di tutta l’erba un fascio, ma solo arrivando al cuore del problema, lottando e appoggiando la gente onesta e desiderosa di cambiamento, quella stessa gente che Lei ha offeso. La invito a scusarsi per alcune parole da Lei pronunciate e, mi auguro, interpretate in modo errato. Ma soprattutto La invito a venire qui da noi, ospite dei Calabresi onesti, per dimostrarLe che la nostra terra è più bella che maledetta, ma soprattutto ricca di speranza.

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima.

Fino a poco tempo fa nessuno aveva mai parlato di inchini. Poi i giornali, in riferimento alla Concordia, hanno parlato di “Inchini tollerati”. Lo sono stati fino a qualche ora prima della tragedia sulla Costa Concordia che ha provocato morti e feriti incagliandosi sulla scogliera davanti al porto dell’Isola del Giglio. Repubblica.it lo ha documentato: nei registri delle capitanerie di porto che dovrebbero controllare il traffico marittimo, emerge che la “Costa Concordia” – così come tutte le altre navi in zona e in navigazione nel Mediterraneo e nei mari di tutto il mondo – era “seguita” da Ais, un sistema internazionale di controllo della navigazione marittima che è stato attivato da alcuni anni e reso obbligatorio da accordi internazionali dopo gli attentati dell’11 settembre (in funzione anti-terrorismo) e dopo tante tragedie del mare avvenute in tutto il mondo. Si è scoperto così che quel passaggio così vicino all’isola del Giglio era un omaggio all’ex comandante della Costa Concordia Mario Palombo ed al maitre della nave che è dell’isola del Giglio. Si è scoperto anche che per ben 52 volte all’anno quella nave aveva fatto gli “inchini”. Inchini che fino al giorno prima, fino a prova contraria, erano stati tollerati: nessuno fino ad allora aveva mai chiesto conto e ragione ai comandanti di quelle navi. Nessuno aveva cercato di capire perché passassero così vicini alla costa dove per legge è anche vietato (se una piccola imbarcazione sosta a meno di 500 metri dalle coste, se beccata dalle forze dell’ordine, viene multata perché vietato). Figuriamoci se a un bestione come la Costa Concordia è consentito “passeggiare” in mezzo al mare a 150-200 metri dalla costa. Il comandante Schettino, come confermano le indagini e le conversazioni radio con la capitaneria di porto di Livorno, ha fatto errori su errori, ma nessuno prima gli ha vietato di avvicinarsi troppo all’isola del Giglio. Quando si è incagliata era troppo tardi.

Da un inchino ad un altro. Dopo il 2 luglio 2014 l’anima italica, ipocrita antimafiosa, emerge dalle testate di tutti i giornali. I moralisti delle virtù altrui, per coprire meglio le magagne governative attinenti riforme gattopardesche. Si sa che parlar dei mondiali non attecchisce più per la male uscita dei pedanti italici. Pedanti come ostentori di piedi pallonari e non di sapienza. Lo dice uno che sul tema ha scritto un libro: “Mafiopoli. L’Italia delle mafie”.

Una protesta plateale. Se la Madonna fa l’inchino ai boss, i carabinieri se ne vanno. Se i fedeli e le autorità, civili e religiose, si fermano in segno di “rispetto”, davanti alla casa del mafioso, le forze dell’ordine si allontanano, in segno di protesta. E ne diventano eroi. Tanto in Italia basta poco per esserlo. È successo il 2 luglio 2014, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: durante trenta secondi di sosta per simboleggiare, secondo tutti i giornali, l’inchino al boss Giuseppe Mazzagatti, i militari che scortavano la processione religiosa si sono allontanati. Tutti ne parlano. Tutti si indignano. Tutti si scandalizzano. Eppure l’inchino nelle processioni è una tradizione centenaria in tantissime località del sud. Certo è che se partiamo con la convinzione nordista mediatica che il sud è terra mafiosa, allora non ci libereremo mai dei luoghi comuni degli ignoranti, che guardano la pagliuzza negli occhi altrui. Gli inchini delle processioni si fanno a chi merita rispetto: pubbliche istituzioni e privati cittadini. E’ un fatto peculiare locale. E non bisogna additare come mafiosi intere comunità (e dico intere comunità), se osannano i singoli individui e non lo Stato. Specie dove lo Stato non esiste. E se ha parvenza di stanziamento, esso dà un cattivo esempio. A volte i giudizi dei tribunali non combaciano con quelle delle comunità, specie se il reato è per definizione nocumento di un interesse pubblico. Che facciamo? Fuciliamo tutti coloro che partecipano alle processioni, che osannano chi a noi non è gradito? A noi pantofolai sdraiati a centinaia di km da quei posti? Siamo diventati, quindi, giudici e carnefici? Eliminiamo una tradizione centenaria per non palesare il fallimento dello Stato?

Dare credibilità agli amministratori locali? Sia mai da parte dei giornali. Il sindaco di Oppido Mamertina, Domenico Giannetta, ha rilasciato un lungo comunicato per spiegare l’accaduto «Noi siamo una giovane amministrazione che si è insediata da 40 giorni e non abbiamo nessuna riverenza verso un boss. Se i fatti e le motivazioni di quella fermata sono quelli ricostruiti finora noi siamo i primi a condannare e a prendere le distanze», spiega Domenico Giannetta, sindaco di Oppido Mamertina. «A quanto appreso finora – spiega ancora il sindaco – la ritualità di girare la madonna verso quella parte di paese risale a più di 30 anni, ma questa – chiarisce Giannetta – non deve essere una giustificazione. Se la motivazione è, invece, quella emersa condanniamo fermamente. Noi – sottolinea – siamo un’amministrazione che vuole perseguire la legalità. Ci sentiamo come Amministrazione Comunale indignati e colpiti nel nostro profilo personale e istituzionale. Era presente al corteo religioso tutta la Giunta Comunale, il Presidente del Consiglio Comunale, il Comandante della Polizia Municipale e il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Oppido. Giunti all’incrocio tra via Ugo Foscolo e Corso Aspromonte, nel seguire il Corteo religioso tutti i predetti camminando a piedi svoltavamo a sinistra, circa 30 metri dietro di noi vi erano i presbiteri e ancora dietro la vara di Maria SS. Delle Grazie. Mentre tutti procedevamo a passo d’uomo la vara si fermava all’intersezione predetta e veniva girata in direzione opposta al senso di marcia del Corteo, come da tradizione. Peraltro, nell’attimo in cui i portatori della vara hanno espletato tale rotazione, improvvisamente il Comandante della Stazione locale dei Carabinieri che si trovava alla destra del Sindaco si è distaccato dal Corteo, motivando che quella gestualità era riferibile ad un segno di riverenza verso la casa di Mazzagatti. Sentiamo dunque con sobrietà di condannare il gesto se l’obiettivo era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone che trasportano in processione l’effigie, venga dissacrata l’onnipotenza divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro nell’immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di buon senso e non abbiamo abbandonato il Corteo per non creare disagi a tutta la popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi paesi ed evitare il disordine pubblico».

Se non vanno bene, possiamo cambiare le regole. Bene ha fatto a centinaia di km in quel di Salerno il clero locale. Meno applausi e più preghiere, affinchè la processione di San Matteo ritorni ad essere «un corteo orante» e non un teatro o un momento «di interessi privatistici», scrive “La città di Salerno”. L’arcivescovo Luigi Moretti annuncia così le nuove “regole” che, in linea con la Cei, caratterizzeranno la tradizionale celebrazione dedicata al Santo Patrono, invitando tutti – fedeli, portatori, istituzioni – a recuperare il senso spirituale della manifestazione. Non sono previste fermate dinanzi alla caserma della Guardia di Finanza, nè dinanzi al Comune. Aboliti gli “inchini” delle statue che per nessuna ragione dovranno fermarsi sulla soglia di bar e ristoranti, visto che «sono i fedeli che si inchinano ai Santi e non il contrario». Nessuna “ruota” delle statue, fatta eccezione per tre momenti di sosta all’altezza di corso Vittorio Emanuele, corso Garibaldi e largo Campo. I militari che sfileranno dovranno essere rigorosamente non armati e le bande saranno ridotte ad un unica formazione. Le stesse statue saranno compattate «in un blocco unico per evitare dispersioni». Nei giorni che precedono la processione saranno organizzate iniziative nelle parrocchie della zona orientale, «che prima erano tagliate fuori dalla celebrazione». Il corteo sarà aperto da croci e candelabri, poi le associazioni, con l’apertura anche a quelle laiche, altra novità di quest’anno. A seguire la banda, le statue, il clero «su doppia fila», l’arcivescovo che precederà San Matteo e dietro i Finanzieri, il Gonfalone del Comune e le autorità con il popolo. Durante la sfilata «si pregherà e verranno letti dei brani del Vangelo». No ai buffet allestiti per ingraziarsi il politico di turno con brindisi e pizzette. «Quelle, se i fedeli vorranno, potranno recapitarle a casa dei portatori», ha ironizzato Moretti. «Ben venga chi vuole offrire un bicchiere d’acqua a chi è impegnato nel trasporto delle statue, ma il resto no, perchè c’è un momento per fare festa ed uno per pregare».

In conclusione sembra palese una cosa. Gli inchini nelle processioni non sono l’apologia della mafia, ma spesso sono atti senza analisi mediatica dietrologica. Molte volte ci sono per ingraziarsi, da parte dei potenti, fortune immeritate. Sovente sono un segno di protesta contro uno Stato opprimente che ha vergognosamente fallito.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima. Si inchina a tutti, per poi, un momento dopo, tradirlo. D’altronde ognuno di noi non si inchina a Dio ed ai Santi esclusivamente per richieste di tornaconto personale? Salute o soldi o carriera?

Ricordatevi che lo sport italico è solo glorificare gli appalti truccati ed i concorsi pubblici falsati. Eppure la demagogia e l’ipocrisia non si spegne.

La Madonna si inchina al covo del padrino, processione shock tra i vicoli di Ballarò. Il boss Alessandro D’Ambrogio è in carcere a Novara ma domenica, a Palermo, la sfilata del Carmine gli ha reso onore davanti al luogo simbolo di Cosa Nostra. La chiesa: “Ancora una sosta anomala”, scrivono Salvo Palazzolo e Giorgio Ruta su “La Repubblica”. L’ultimo padrino di Cosa Nostra è rinchiuso nella sezione “41 bis” del carcere di Novara, ma è come se fosse ancora tra i vicoli di Ballarò, qui dove due anni fa portava orgoglioso la vara della madonna del Carmine. Domenica scorsa il boss Alessandro D’Ambrogio non c’era. Ma la processione ha voluto comunque rendergli onore: si è fermata proprio davanti all’agenzia di pompe funebri della sua famiglia. Un uomo di mezza età, con la casacca della confraternita di Maria Santissima del Monte Carmelo, urla: «Fermatevi». E così la processione della madonna del Carmine si ferma, mentre la banda continua a suonare. La vara tutta dorata di Maria immacolata si ferma davanti all’agenzia di pompe funebri della famiglia del capomafia Alessandro D’Ambrogio, uno dei nuovi capi carismatici di Cosa nostra palermitana. Lui non c’è, rinchiuso dall’altra parte dell’Italia, nella sezione “41 bis” del carcere di Novara, ma è come se fosse ancora qui, tra i vicoli di Ballarò. Questo accadeva domenica, intorno alle 19: la processione ferma per quasi cinque minuti davanti all’agenzia di via Ponticello, tra la gente in festa per l’arrivo della statua della madonna. Fino a un anno e mezzo fa, in questi uffici arrivavano solo poche persone, scendevano da auto e moto di lusso e si infilavano velocemente dentro. Nell’agenzia di pompe funebri dove la processione si è fermata Alessandro D’Ambrogio organizzava i summit con i suoi fedelissimi, ripresi dalla telecamera che i carabinieri del nucleo investigativo avevano nascosto da qualche parte. Ecco perché questo luogo è un simbolo per i mafiosi di tutta Palermo, il simbolo della riorganizzazione di Cosa nostra, nonostante la raffica di arresti e di processi. Ecco perché il capomafia di Ballarò sembra ancora qui: la processione gli rende omaggio nella sua via Ponticello, a due passi dall’atrio della facoltà di Giurisprudenza dove sono in bella mostra le foto dei giudici Falcone e Borsellino il giorno della loro laurea. È questa l’ultima cartolina di Palermo. Ancora una volta, diventa sottilissimo il confine fra mafia e antimafia. Quasi non esiste più confine fra sacro e profano. Due anni fa, D’Ambrogio portava orgoglioso la vara di questa madonna con la casacca della confraternita. Adesso è accusato di aver riorganizzato la mafia di Palermo, aver diretto estorsioni a tappeto e traffici di droga milionari. Ma la processione continua a rendergli onore. I tre fratelli del padrino sono tutti lì, davanti all’agenzia di pompe funebri, per accogliere la festa più importante dell’anno. Franco, con amici e parenti. Iano e Gaetano un po’ in disparte. I fratelli D’Ambrogio non sono mai stati indagati per mafia, ma non è per loro che si ferma la processione. Sembra una sosta infinita, la più lunga di tutto il corteo. Anzi, soste ce ne sono ben poche lungo il percorso. Per i giochi d’artificio o per le offerte di alcuni fedeli. I D’Ambrogio non fanno né fuochi d’artificio, né offerte. Chiedono ai confrati di portare sin sulla statua due bambini della famiglia. Poi, Franco D’Ambrogio saluta con un sorriso. E la processione riprende. «È stata una fermata anomala», ammette fra’ Vincenzo, rettore della chiesa del Carmine Maggiore. «Anche quest’anno è accaduto», sussurra il giorno dopo la processione. «Io ero avanti, su via Maqueda, stavo recitando il santo rosario. A un certo punto mi sono ritrovato solo. Ho capito, sono tornato indietro di corsa, e ho visto la statua della madonna ferma. Qualcuno stava passando un bambino ai confrati, per fargli baciare la Vergine. Cosa dovevo fare? Era pur sempre un atto di devozione quello. Qualche attimo dopo, la campanella è suonata e la processione è andata avanti». Adesso, frate Vincenzo cerca con dolore le parole: «Avevo cercato di esprimere concetti chiari durante la preparazione del triduo della Madonna, richiamando tutti al senso di questa processione così importante. Ho detto certe cose nel modo più gentile possibile, per evitare reazioni, ma le ho dette. Ed è accaduto ancora. Cosa bisogna fare?». Il frate va verso l’altare. «Cosa bisogna fare?», ripete. Da quando l’anziano sacerdote si è ammalato lui è solo nella frontiera di Ballarò, che continua ad essere il regno dei D’Ambrogio, nonostante i blitz disposti dalla procura antimafia. «Da qualche tempo, la Curia si sta muovendo in modo deciso — il tono della voce di fra’ Vincenzo diventa più sollevato — sono stati chiesti gli elenchi dei componenti delle confraternite, e poi il cardinale ha inviato suoi rappresentanti alle processioni ». Anche domenica pomeriggio, a Ballarò, c’era un ispettore inviato dal cardinale Paolo Romeo. Perché Cosa nostra continua ad essere molto legata ad alcune processioni. Uno degli ultimi boss arrestati, Stefano Comandè, era addirittura l’autorevole superiore della Confraternita delle Anime Sante, che organizza una delle più importanti processioni del Venerdì Santo a Palermo. I carabinieri l’hanno fermato alla vigilia di Pasqua, poche ore dopo aver portato in giro per il quartiere della Zisa le statue di Cristo morto e di Maria Addolorata: le microspie hanno svelato che Comandè era fra i registi di una faida che stava per scoppiare. La Curia l’ha rimosso e ha sciolto la confraternita. Anche perché il boss devoto non si rassegnava e dal carcere faceva sapere tramite i familiari: «A giugno faremo un’altra grande processione. E alla confraternita nomineremo una brava persona». Ma questa volta l’intervento della Chiesa è stato severissimo: «Scioglimento della confraternita a tempo indeterminato per infiltrazioni mafiose». È la prima volta che accade in Sicilia.

Gli “inchini” della Chiesa ai boss? Cosa volete, sono le superstizioni dei poveri meridionali sottosviluppati. Su Repubblica il commento di Augias al video della processione palermitana con presunto omaggio mafioso diventa un affondo devastante sulla fede del Sud Italia, scrive “Tempi”. Nella rubrica delle lettere di Repubblica tale Plinio Garbujo chiede oggi a Corrado Augias un commento sul caso – sollevato un paio di giorni fa dalla stessa Repubblica – del «video shock» in cui si vede una scena che il lettore, sulla base della ricostruzione offerta dal quotidiano, sintetizzata così: «Durante la processione della Madonna del Carmine, la statua con il baldacchino si è fermata davanti all’agenzia funebre del boss D’Ambrogio, luogo simbolo di Cosa Nostra, per rendergli onore, mentre lui è in carcere a Novara». «Sembrerebbero notizie del lontano Medio Evo, anche se il fatto è accaduto domenica scorsa», osserva Garbujo, scandalizzato perfino dal fatto che «i genitori che partecipano a tale processione si affrettano a far salire i loro bambini sul baldacchino (…) per poter baciare la Madonna». Insomma, rimprovera il lettore di Repubblica, «siamo nel 2014 dopo Cristo. Di quanto tempo ha ancora bisogno il Sud per potersi liberare di queste tradizioni e di queste manifestazioni in cui chi comanda non è la parrocchia – e a quanto pare nemmeno il Papa – ma il boss locale?». Bene. A parte l’avventatezza del giudizio di Garbujo (è ancora tutta da verificare la tesi secondo la quale la tappa della processione filmata da Repubblica fosse in effetti un “inchino al boss”), quello che stupisce davvero – si fa per dire – è la risposta di Augias, il quale anziché restituire il giusto spazio al dubbio sulla vicenda, come ci si aspetterebbe da un intellettuale laico quale egli dice di essere, decide di approfittarne per buttare là valutazioni anche più spinte. «Gli abitanti di quelle città riusciranno mai a rendersi conto che siamo cittadini d’Europa dove si rispettano le regole, si pagano le tasse, si protegge il territorio e non ci si nasconde dietro all’omertà e al servilismo interessato per qualche favore clientelare?», domanda indignato il lettore in coda alla missiva. «Non lo so», replica Augias. «Temo che non lo sappia nessuno, del resto». Però c’è una cosa cha Augias ritiene di sapere con sorprendente certezza: «Avergli reso omaggio (al boss mafioso, ndr) facendo sostare la statua della Madonna davanti alla sua agenzia di pompe funebri è un insulto sia religioso sia civile» che «contraddice lo stesso indirizzo che la Chiesa cattolica si è data di recente grazie al papa Francesco». Ma l’intellettuale non si ferma all’aspetto “legale” della vicenda. Come gli capita spesso si sente in dovere di giudicare anche l’aspetto religioso della faccenda. In questo modo: «Le processioni – scrive – sono retaggio di una religiosità tipicamente mediterranea», infatti, all’epoca, quando «i nostri emigranti meridionali» tentarono di riprodurle in America secondo Augias «suscitarono la riprovazione degli irlandesi, cattolici anche loro ma di una fede meno idolatrica». Con la diffusione del cristianesimo, insiste il commentatore di Repubblica, «il culto dei santi e della Madonna sostituì i cortei dedicati alle varie divinità o a momenti dell’anno agricolo o al culto della fecondità con la famose “falloforie”. Si tratta di manifestazioni sconosciute all’ebraismo, alle confessioni protestanti e allo stesso cattolicesimo nordeuropeo. Sopravvivono nel Mezzogiorno dove una blanda fede si mescola ad antiche superstizioni, sfiducia, speranza, complicità, un semiconsapevole bisogno di assistenza celeste». La rubrica è finita, andate in pace. Anzi no: «Gli inchini ai capi criminali sono solo l’appendice di tutto questo. Non sarà facile venirne a capo». Amen.

“Inchino” a Palermo, parla il priore: «Escludo che ci siano stati omaggi alla mafia. Sono strumentalizzazioni per chiuderci dentro le chiese», scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Intervista a padre Leta, superiore dei carmelitani organizzatori della processione a Ballarò finita nel “video shock” di Repubblica: «Il diavolo si annida tra i mafiosi. Ma anche tra i giornalisti che inseguono lo scoop ad ogni costo». «Sono certo che il diavolo si annida dentro i mafiosi. Ma a volte anche tra i giornalisti che inseguono lo scoop ad ogni costo». Padre Pietro Leta è il priore dei frati carmelitani del Carmine maggiore di Palermo, gli organizzatori della processione della “vara” della Madonna che domenica 27 luglio ha attraversato il quartiere di Ballarò, intorno alla quale si sono scatenate violente polemiche mediatiche a causa di un video di Repubblica che documenterebbe il presunto omaggio della Vergine al boss Alessandro D’Ambrogio, provato – secondo il quotidiano – dalla fermata del corteo per il cosiddetto “inchino” davanti all’agenzia funebre di proprietà del mafioso.

«Escludiamo categoricamente che a Ballarò ci sia stato alcun omaggio, inchino o gesto di compiacenza alla mafia» scandisce invece padre Leta a tempi.it.

Padre, cos’è successo allora domenica scorsa? Nel mirino dei media è finita la confraternita di Maria Santissima del Monte Carmelo, che nel momento della fermata portava la statua della Madonna. Ma voi avete svolto indagini per vostro conto.

«Occorre inquadrare la festa nel suo insieme innanzitutto. La statua della Madonna è molto grande, la cosiddetta “vara”, su cui è poggiata la statua, ha una base mastodontica, tanto che dev’essere spinta da numerosi confrati, i quali si devono dare addirittura dei turni. Nel percorso la processione incontra sempre alcuni ostacoli, e deve tener conto di alcune tradizioni. Gli ostacoli sono ad esempio i cavi elettrici lungo le strade, che possono essere pericolosi, perciò la statua, e di conseguenza la processione, è costretta spesso a fermarsi per consentire un passaggio non rischioso. Una delle tradizioni di cui tenere conto, invece, è quella che vuole che durante la processione i genitori, come gesto di “dono” e domanda di benedizione alla Madonna, chiedono alla vara di fermarsi e porgono i loro bambini ai confrati perché li avvicinino alla statua. A questi due fatti, se ne aggiunge un terzo: attorno alla vara, oltre ai membri della confraternita che indossano un abito ufficiale, si affiancano diversi uomini che non hanno nulla a che fare con i confrati e che indossano uno scapolare fatto in casa, usato da diverse generazioni e passato di padre in figlio. Domenica, durante il percorso ufficiale della processione, sono state fatte almeno una quarantina di fermate della statua e del corteo, alcune per evitare il pericolo dei cavi elettrici, altre per potere avvicinare alla statua alcuni neonati».

Nell’occhio del ciclone è finita però una particolare fermata. Perché proprio lì?

«La fermata vicino all’agenzia di D’Ambrogio in realtà non ha nulla – ripeto: nulla – a che vedere con l’inchino ai boss. Abbiamo approfondito e posso assicurare che la fermata c’è stata per i pochi minuti necessari a consentire a una giovane coppia di avvicinare il proprio bambino alla statua. Una cosa naturale, tanto è vero che poco dopo la statua è ripartita e si è fermata nuovamente a pochi metri di distanza, perché una signora africana che aveva assistito alla scena precedente ci ha chiesto a sua volta di poter issare la sua neonata vicino alla statua. Dunque tutto quello che si è ipotizzato sui giornali è autentica strumentalizzazione. Il cronista di Repubblica ha “zoomato” la sua attenzione e il suo video esclusivamente sulla fermata davanti all’agenzia, tagliando tutti gli elementi che avrebbero fatto capire cosa aveva portato a farla. La strumentalizzazione è consistita nel collegare quella fermata a un fatto che risale a due anni fa: all’epoca un mafioso aveva preso parte al gruppo dei portatori. Poi il mafioso è stato arrestato. Ma attenzione: noi escludiamo categoricamente che quel boss facesse parte della confraternita del Monte Carmelo. Lo escludo nel modo più assoluto».

Perché secondo lei c’è stata questa strumentalizzazione?

«La strumentalizzazione del giornalista Palazzolo si è giocata nel collegamento tra la fermata e il vocabolo “inchino”, che è rimasto cristallizzato nella mente dell’opinione pubblica a causa della processione di Oppido Mamertina e per le parole di giusta condanna del Papa nei confronti dei mafiosi. Solo che qui a Ballarò invece non c’è stato alcun inchino, né nessun altro gesto di compiacenza verso la mafia. Lei mi insegna che il cronista vuole fare lo scoop, ed è questo quello che persegue. Palazzolo ci è riuscito creando questo collegamento, e in effetti tutti i lettori sono stati portati a pensare che “ancora una volta succede quello che è accaduto in Calabria”. Questo non è giornalismo, bensì spregiudicatezza nell’uso dell’opinione pubblica. Il diavolo certo si annida tra i mafiosi, ma anche tra i giornalisti che vogliono fare scoop. La chiave di quello che è accaduto è che un cronista ha ottenuto quello che voleva. La sua notizia si è guadagnata la prima pagina e poi è stata ripresa dai principali media, cavalcando l’onda dell’indignazione provocata dai fatti calabresi (che tra l’altro personalmente condivido) attraverso tre parole evocative: inchino, processione e Madonna. Ma nel modo più categorico io dico: la Madonna non si inchina ai mafiosi, sono i mafiosi al contrario che si devono piegare e inginocchiare davanti a Lei. Le anticipo inoltre una notizia: la confraternita ha presentato un esposto al procuratore della Repubblica contro il giornalista per diffamazione».

Sempre su Repubblica Corrado Augias ha scritto che le processioni sopravvivono ormai solo nel Mezzogiorno «dove una blanda fede si mescola ad antiche superstizioni». Lei che ne dice?

«Augias fa il suo lavoro, e pure lui come il collega unisce le parole processione e superstizione. In realtà dal Concilio Vaticano II c’è stato nella Chiesa un lungo cammino di purificazione della tradizione popolare nelle celebrazioni religiose. È chiaro che c’è un retaggio antico nelle tradizioni, ma la richiesta di fede si esprime anche attraverso le tradizioni. Bisogna chiedersi quali grandi ruoli hanno esercitato le confraternite religiose, non solo al Sud, ma anche al Nord. Le “Misericordie”, ad esempio, che hanno svolto a partire dalla Toscana un lavoro di assistenza e carità».

Nelle feste religiose a cui partecipano migliaia di persone diventa difficile separare i mafiosi dal resto dei fedeli. Cosa è possibile fare allora secondo lei?

«Non si può separare i “buoni” dai “cattivi”, né possiamo esigere per ogni bambino che viene presentato alla Madonna i nomi del padre e della madre, o la loro fedina penale. È chiaro che una persona conosciuta da tutti come mafiosa la allontaniamo. Ma è anche vero che Gesù ha chiesto la conversione del peccatore e ha inveito contro il peccato: nella parabola della zizzania ha detto di lasciare crescere il grano con la zizzania, perché c’è il rischio che togliendo la zizzania si distrugga anche il grano buono. Questo significa che anche al mafioso, come a ogni peccatore, è data la possibilità di convertirsi: noi possiamo solo continuare a lavorare per isolare la mafia».

Ma papa Francesco ha scomunicato i mafiosi.

«E chi non è d’accordo con il Papa su questo? Noi lo siamo pienamente. In Sicilia, tanto più a Palermo, viviamo queste cose sulla pelle. Noi vogliamo testimoniare la nostra fede insieme a padre Pino Puglisi che è stato martire della mafia».

Secondo lei andrebbero eliminate queste processioni a rischio “infiltrazione”?

«Va chiarita una cosa. Non si arriva a una processione come quella del 27 luglio da un giorno all’altro, ma dopo un cammino di un anno. La confraternita è seguita nel suo cammino di formazione spirituale con incontri mensili, il programma della festa viene predisposto da confraternita e religiosi molti mesi prima, sin da marzo, e tutta la comunità, religiosi e laici, si prepara alla processione con un itinerario spirituale ben articolato. A chi partecipa alla processione “dall’esterno”, infine, possiamo solo dare una testimonianza della nostra fede, pregando e cantando. Ci sono alcuni gesti poi che non si possono sradicare: non si può fare una processione dentro la chiesa, ma nel territorio. E non vogliamo smettere di farla lì, perché il territorio è uno spazio importante, mentre i falsi benpensanti, con le polemiche di questi giorni, mirano proprio a tagliare il nostro legame con il territorio, chiudendo la fede dentro le chiese. Non a caso con queste polemiche chiedono indirettamente anche di eliminare le confraternite, che sono segno invece di una lunga tradizione di rapporto tra la Chiesa e la comunità locale. Le confraternite vanno continuamente educate alla fede, questo sì. Ma eliminate no».

In tutta questa ipocrisia stona la retorica del sud assistito.

IL SUD TARTASSATO.

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

Lo scandalo del giorno, un inchino inventato, scrive Giovanni Alvaro. Eccoli di nuovo all’attacco. Schierati come un sol uomo, sorretti da un unico obiettivo, determinati, senza alcuna soluzione di continuità e pronti a massacrare senza possibilità di appello. Dalle Alpi alle Piramidi si ode, quindi, un solo grido: giustiziamo sulla pubblica piazza il sacerdote della chiesa di Oppido Mamertina, responsabile della processione e del cerimoniale che ne consegue. Uniti in una santa alleanza si ritrovano, quindi, mass media nazionali, scritti e parlati (salvo qualche eccezione), a cui non sembra vero poter denigrare un pezzo di Calabria, una sua provincia e la stessa intera regione presentati come perduti nelle spire ‘ndranghitiste; professionisti dell’antimafia pronti a cavalcare il conseguente giustizialismo che è la loro stessa ragion d’essere, ma che stanno con l’occhio attento ai propri interessi economici e politici. Oltre a pubblici ministeri votati a missioni salvifiche, interessati a non perdere la centralità mediatica conquistata (trampolino di lancio per futuri incarichi). E poi, con loro, alleati occasionali: gli stessi carabinieri che si accorgono dopo trent’anni di ipotetici inchini. Dulcis in fundo, politici di mezza tacca pronti a dire la propria. Nessuno di costoro si è chiesto se fosse vero o meno quanto rimbalzato sulle agenzie di stampa. Anzi, per la verità, molti di costoro non si son posti alcuna domanda, dato che per loro è essenziale essere presenti al debutto di un avvenimento, infischiandosene di come potrebbe andare a finire. E allora, avanti con la mazurka. Alfano: “Deplorevoli e ributtanti rituali cerimoniosi”; Rosy Bindi: “Quanto è avvenuto nel corso della processione sconcerta”; Enzo Ciconte: “Il gesto dell’inchino è stato un atto di sfida, di forza e tracotanza”; Cafiero de Raho: “Fermare un corteo religioso per ossequiare il vertice della cosca locale è sovvertire le regole sociali, religiose e di legalità”; Nicola Gratteri: “Ora la ‘ndrangheta ha sfidato ufficialmente il Papa”. È solo un assaggio delle dichiarazioni demenziali sentite in questi giorni. Demenziali perché costruite su un falso, un vero e proprio falso, se è vero come è vero che la processione a Oppido prevede, da molti decenni, cinque fermate a incroci prestabiliti per far girare l’immagine della Madonna verso quella parte di paese dove non è previsto il passaggio della processione stessa. Vuole il caso che in una di queste traverse (non dinanzi all’abitazione dove da dieci anni il mafioso sconta per motivi di salute, gli arresti domiciliari, ma nella traversa incrociata) abiti l’82enne ergastolano. inchino al boss, in vergognosa sottomissione al malavitoso? Chi ha spinto per montare il casus belli che ha riacceso la polemica della procura reggina contro la Chiesa? Chi ha tirato le fila riattizzando il razzismo ormai non più latente, del Nord nei confronti del Mezzogiorno? Dalle risposte a queste domande si potrà capire quanto strumentale possa essere l’antimafia da convegno e come essa venga usata per fini diversi dalla lotta al crimine. “Non riescono a battere la mafia e se la prendono con la Chiesa” ha dichiarato l’Arcivescovo di Reggio in un’intervista a “Il Garantista” di Piero Sansonetti e ha continuato: “Chissà se un giorno si decideranno ad affrontare le cause vere del fenomeno ‘ndranghetista”. Di sicuro il non riuscire a battere la mafia nasce anche dalle “distrazioni” che i ruoli dell’antimafia offrono per sentirsi pienamente appagati. E la grancassa continua con l’applauso della ‘ndrangheta.

Guai però a schierarti contro il conformismo.

Cafiero De Raho contro i giornalisti del Garantista. Il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Cafiero De Raho: «esistono giornalisti coraggiosi i quali denunciano episodi del genere, e altri che invece coprono la verità e che bisogna decidere da che parte stare.»

Così muore la democrazia. «Cafiero de Raho (procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, ndr) è convinto di essere alla testa di un esercito di magistrati, politici, giornalisti, preti, professionisti e popolo, il cui compito è la lotta militare e poliziesca all’illegalità e alle cosche. Non è così. I magistrati devono indagare, i poliziotti arrestare, i preti predicare, i politici riformare la società, i giornalisti raccontare e anche esprimere pareri. Il giorno in cui i giornalisti dovessero diventare – e in gran parte, purtroppo, già lo sono diventati – soldati della Procura, in Italia sarebbe finita la democrazia. Forse la lotta alla mafia avrebbe dei buoni risultati – li ebbe anche durante il fascismo – ma noi perderemmo la libertà. Mi dispiace, signor procuratore, ma il prezzo è troppo alto. Preferiamo non arruolarci». Piero Sansonetti, Il Garantista, 17 luglio 2014.

«Caro procuratore De Raho, ho letto la sua dichiarazione. Faccio uno sforzo per capire le sue ragioni ma voglio anche porle alcuni problemi che lei non può ignorare. So qual è la sua bussola e il suo obiettivo: fare delle indagini, farle bene, ottenere dei risultati. Giusto. Però non è questa l’unica garanzia del funzionamento di una società moderna e democratica. Talvolta gli interessi degli inquirenti possono entrare in conflitto con altre spinte che sono essenziali a garantire un regime di libertà. Per esempio i diritti degli imputati, o delle persone sospette, o i diritti dei testimoni, oppure – questo oggi mi interessa, soprattutto – i diritti dell’informazione e della stampa. Quando il buon funzionamento dell’attività giudiziaria confligge con il diritto all’informazione, come si stabilisce il confine da non oltrepassare? E’ un buon tema di discussione, mi sembra, e mi piacerebbe affrontarlo con lei e con altri settori della magistratura. Non è stata mai fatta questa discussione, nel nostro Paese, perché la lotta senza quartiere tra magistratura, giornalismo e politica si è svolta solo sulla base delle convenienze di gruppi, lobby, partiti, schieramenti, e mai sui grandi principi e sulle idealità. Voglio essere ancora più chiaro, rivolgendole questa domanda: secondo lei, le esigenze degli inquirenti possono “sospendere” quel comma dell’articolo 21 della Costituzione che dice: “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”? Caro Procuratore, secondo me voi, con i sequestri e le perquisizioni compiuti l’altra sera nella nostra redazione di Reggio, e con l’avviso di garanzia consegnato al nostro cronista giudiziario Consolato Minniti, avete violato quel comma della Costituzione. Sono convinto del fatto che non volevate compiere una azione di intimidazione. E tuttavia, caro Procuratore, oggettivamente l’intimidazione c’è stata, noi l’abbiamo vissuta come tale e per noi, da oggi, sarà più difficile lavorare a Reggio. E’ un problema o no? E’ un vantaggio o no per la città? E anche per la magistratura reggina, questa “dimostrazione di potere”, questa prova di forza, giova? O invece danneggia la vostra immagine? Caro Procuratore, a me sembra enorme ipotizzare che la pubblicazione di notizie relative all’azione della DNA possa essere un atto di aiuto alla mafia. Ma scusi, come dobbiamo intendere la lotta alla mafia, come un atto militare, nel quale anche i giornalisti – sul modello della guerra in Iraq – devono essere embedded? Non credo che sia la sua opinione, ammetterà però che l’attacco dell’altra sera al nostro giornale abbia dato questa impressione. Lei dice: «Ma era un obbligo quell’azione, perché c’era stato il reato». Sarà anche vero, ma io so che lo stesso reato è stato commesso negli ultimi anni centinaia di volte da altri giornali. Perché non si è mai intervenuti? Ci sono quotidiani che, se non violassero il segreto istruttorio, sarebbero costretti ad uscire massimo un giorno alla settimana! Lei questo lo sa. E allora: siamo uguali tutti, davanti alla legge, o forse no? E lei capirà benissimo come il dubbio che il segreto si possa violare se si è testata molto amica dei giudici, e invece non si possa violare se – come nel nostro caso – si è spesso critici verso la magistratura, sia un sospetto del tutto legittimo.

Mi piacerebbe poterla incontrare, per spiegarle meglio queste mie idee. Se vorrà, sono a disposizione. Per il resto, le assicuro, il nostro giornale continuerà a fare il suo lavoro con tenacia, a criticare i giudici e i politici quando gli sembrerà giusto, a combattere la mafia, ad essere totalmente indipendente e un po’ corsaro. E forse, anche, qualche volta, a violare di nuovo il segreto d’ufficio… Con Stima. Piero Sansonetti».

Ed ancora……Gratteri contro i giornalisti del Garantista: «Bisogna stanarli, vi fanno ammazzare». Ma questo giornale non cambia linea, scrive Piero Sansonetti. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria – che è stato anche candidato a fare il ministro della Giustizia – l’altro giorno, partecipando a una pubblica manifestazione, ha lanciato un attacco furibondo contro i giornali calabresi che criticano la magistratura. Gratteri non ha fatto nomi, però noi siamo sicuri che ce l’avesse con “Il Garantista”, perché non esistono in Calabria molti giornali critici con la magistratura, e non ne esiste nessuno – tranne “Il Garantista”- critico con Gratteri. (La certezza che ce l’avesse con noi è venuta dopo una telefonata con lo stesso Gratteri che vi raccontiamo tra qualche riga). La frase pronunciata da Gratteri è agghiacciante, perché, nella sostanza, accusa i giornalisti critici verso la magistratura di essere assassini, o almeno istigatori all’assassinio. Per questo chiediamo l’intervento delle autorità, in particolare del ministero della Giustizia (oltre che della federazione della stampa e della stessa Procura di Reggio) a difesa dei giornalisti calabresi critici verso la magistratura e in particolare a difesa del nostro giornale. Ci domandiamo se si ritiene normale, in un regime di democrazia, che un procuratore aggiunto si scagli contro giornalisti e giornali e li accusi di istigazione all’omicidio, e se questo non possa essere considerato un atto illegale di attacco alla libertà di stampa e ai diritti costituzionali, oltreché una offesa e una diffamazione. Per essere più chiari, vi trascrivo qui il testo delle dichiarazioni rilasciate da Gratteri e poi vi riferisco della telefonata che ho avuto con lui ieri pomeriggio. Ha detto Gratteri, rivolto ai vertici della federazione della stampa: «Bisogna stanare certo giornalismo calabrese che sguazza negli interstizi che lasciate. Dovete essere severi, feroci. In Calabria vi sono giornali e giornalisti che, per partito preso, per motivi ideologici, sono sempre contro qualcuno, scrivono cose non vere, fanno disinformazione». Poi Gratteri si è riferito a coloro che attaccano la magistratura e ha detto: «Non li denuncio perché darei loro pubblicità. Ma il punto di partenza per tutelare i giornalisti come Albanese è stanare chi non ha a che fare col giornalismo. Vi sovrespongono, vi fanno ammazzare». Vi confesso che quando ho letto queste frasi ho pensato a un equivoco. E ho fatto la cosa più semplice, per verificare: ho preso il telefono e ho telefonato a Gratteri. Mi ha risposto. Quando ha sentito il mio nome è diventato gelido. Gli ho chiesto se ce l’aveva con noi. Mi ha risposto, sempre più gelido: «Stia tranquillo, io non ce l’ho con lei, io non ce l’ho con nessuno». Ho insistito, gli ho detto se allora per favore mi diceva con quali giornali ce l’aveva, visto che in Calabria non ci sono moltissimi giornali. Mi ha risposto: «Io con lei non parlo, dovrei denunciarla, querelarla, per le cose che lei ha scritto su di me. Non lo faccio per non farle pubblicità. Lei deve imparare che non si possono lanciare accuse senza avere le prove». Io gli ho fatto notare che non lo avevo mai accusato di niente, tranne che di essere poco esperto di diritto. Ma questa è una mia opinione e non bisogna avere le prove. Dopodichè, siccome era impossibile proseguire il dialogo, lo ho salutato e ho messo giù il telefono. Però la frase che mi ha detto è uguale a quella che ha pronunciato la sera prima in pubblico (dovrei denunciarla ma non le farò pubblicità…). Dunque, indirettamente – ma non tanto – Gratteri ha confermato che ce l’aveva con me e con noi del “Garantista”. E dunque anche il seguito della frase pronunciata in pubblico (fino al: «Vi fanno ammazzare!») era riferita a noi. Posso garantire ai lettori del “Garantista” che nonostante una intimidazione così pesante e smaccata da parte di una delle più alte autorità giudiziarie, il nostro giornale non cambierà linea rispetto alla magistratura. Continuerà a criticarla e anche – come sapete – a darle la parola, perché ci piace discutere e non ci piace dare dell’assassino a chi non è d’accordo con noi. Vorremmo sapere dal ministro Orlando se possiamo contare su qualche protezione da parte dello Stato democratico, o se dobbiamo pensare che questa battaglia per la democrazia ci tocca combatterla in assoluta solitudine.

Gli strali della stampa ossequiosa e conformista, nonostante, o forse proprio per l’oscuramento del loro sito web, non si sono fatto attendere. Di tutti se ne riporta uno. La posizione del direttore Luciano Regolo de “L’Ora della Calabria”. L’attacco di Sansonetti a Cafiero De Raho: opportunismo garantito? Angela Napoli: “Così si rischia di isolare i magistrati”. «Debbo confessare che non leggo e non ho mai aperto dalla sua fondazione il nuovo quotidiano di Sansonetti. Oggi, però, sollecitato dai colleghi e amici di Cosenza che stanno collaborando con me al progetto del nostro giornale, ho visto, inviatomi per e-mail, l’editoriale odierno del direttore de “Il Garantista”: un attacco duro al procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Cafiero De Raho. Che cosa avrebbe fatto il magistrato per meritarsi l’invettiva (copiosa) di Sansonetti? Ha semplicemente dichiarato, riguardo alla vicenda della processione con l’inchino al boss di Oppido Mamertina, che esistono giornalisti coraggiosi i quali denunciano episodi del genere, e altri che invece coprono la verità e che bisogna decidere da che parte stare. Tanto basta al direttore romano, andato via dalla Calabria scrivendo di esserne rimasto profondamente deluso, per poi tornare a stringervi intese editoriali dopo pochi mesi, per dedurne che Cafiero De Raho avesse voluto attaccare lui o il suo giornale. Troppo astuto lo scrivente perché si pensi a un’excusatio non petita (visto che il magistrato non nomina alcuna testata). Molto più verosimile l’ipotesi che Sansonetti cerchi di fare pubblicità al suo prodotto giocando il ruolo della voce controcorrente, l’intellettuale fuori le riga “de noantri”, come si direbbe nel suo (a)dorato e salottiero contesto capitolino. Ognuno, sia chiaro, può fare il “gioco” che vuole e soprattutto professare ogni opinione. Ma la libertà di pensiero non può esimere dal rispetto verso chi effettivamente conduce, con rischi pesanti e impegno costante, una durissima lotta contro la criminalità organizzata e le sue oscure aderenze nei poteri costituiti della Calabria. Screditare, Cafiero De Raho, ipotizzare che voglia una stampa prona a lui, come avviene in regimi dittatoriali, oltre che grottesco è a mio avviso estremamente pericoloso. Io ho visto soltanto una volta il procuratore, lo incontrai per pochi minuti nel tribunale di Reggio, quando fui ascoltato dalla Commissione Antimafia dopo l’oscuramento del sito e la sospensione delle pubblicazioni dell’Ora della Calabria. Ma ho imparato ad apprezzarne il rigore e il piglio, quando, poco dopo il mio arrivo, in un intervento sul nostro giornale a proposito del commissariamento dei Comuni sciolti per mafia spiegò che sarebbe necessario prolungarlo non soltanto durante le elezioni ma anche per un certo periodo successivo all’insediamento della nuova amministrazione perché solo così si potrebbe veramente spezzare l’influenza delle cosche. Poi ne ho ascoltato la relazione in occasione della “Gerbera Gialla” in cui illustrò in termini molto chiari in quanti e quali modi si estendano i tentacoli della ‘ndrangheta sul territorio calabrese, spesso favoriti da lobby oscure e infedeli di Stato. Non mi sembra affatto uno che fa crociate, che vuole schieramenti o che cerca ribalta mediatica, come lascia intendere Sansonetti. Il direttore de “Il Garantista” aggiunge che Cafiero De Raho sarebbe contro la Chiesa ma è un assurdo, perché le esternazioni di papa Francesco e del presidente della Conferenza episcopale calabrese (oggi riunita per parlare proprio di quello che l’Osservatore Romano dopo il caso di Oppido Mamertina ha definito “pervertimento religioso”), monsignor Salvatore Nunnari, vanno nella medesima direzione del magistrato. Bergoglio ha detto con estrema chiarezza a Scalfari che ci sono tanti sacerdoti che sottovalutano l’influenza della mafia e non si levano abbastanza e tutti lo abbiamo letto e sentito. Ma la superficialità è diffusa, a volte è ingenua, altre no. Può nascere da interessi precisi o dalla semplice vanagloria, oppure essere conseguenza della paura delle ritorsioni. Io credo che correttamente Cafiero De Raho abbia voluto semplicemente richiamare l’intera comunità calabrese, giornalisti e non, a non sottovalutare i mezzi (come le incursioni in pratiche religiose di lunga tradizione) con cui la ‘ndrangheta tende a legittimare la propria supremazia territoriale. Sottovalutare questo aspetto come ha scritto il procuratore significa sul serio favorirne l’azione, consapevolmente o meno. Io l’ho sostenuto più volte, ma non sono nella squadra dei magistrati come sostiene, non senza alterigia, Sansonetti. Né credo lo siano Pollichieni, Musolino, Inserra, tanti altri giornalisti calabresi che sono intervenuti sulla questione di Oppido Mamertina stigmatizzando quell’inaccettabile inchino. Fra questi anche il vicesegretario nazionale e segretario regionale della Federazione nazionale della Stampa, Carlo Parisi, che ha di recente, dopo i sospetti insorti anche sulla processione di San Procopio, ricordato con veemenza quanto siano assurdi gli attacchi ai colleghi che rivelano queste realtà scomode, miranti a farli passare come dei denigratori della Calabria o degli smaniosi di protagonismo. Anche il sindacato dei giornalisti, secondo Sansonetti, scrive sotto… dittatura della magistratura? Perché il direttore è convinto che solo lui sia immune da questa influenza, così com’era convinto quando lasciò l’Ora della Calabria di essere diventato immune dall’influenze delle famiglie potenti della nostra regione e lo annunciò nell’editoriale di congedo, sparando accuse contro il suo ex editore e amico conviviale, Piero Citrigno, che poi invece è andato a salutare prima di lanciare la sua nuova creatura “Il Garantista”. L’essere concentrati troppo su stessi, sulle proprie idee o sui propri business, a volte distrae da problemi molto seri in una regione come la Calabria. Mentre spiegavo alla Commissione Antimafia dei rapporti insoliti, non rientranti nelle consuete dinamiche delle aziende editoriali, tra Citrigno e De Rose, il nostro stampatore protagonista della telefonata del cinghiale, l’onorevole Dorina Bianchi mi domandò come mai il mio predecessore (Sansonetti, ndr) in tre anni di direzione non avesse ravvisato nulla d’insolito. Risposi che dovevano domandarlo a lui, perché non lo sapevo. Non so se gliel’abbiano mai domandato. Ma so che l’onorevole Bruno Bossio, grande estimatrice di Sansonetti, presentatasi all’audizione nonostante i duri attacchi che mi aveva rivolto (su Facebook e in una lettera inviatami al giornale, in cui cercava di farmi passare come uno che voleva ottenere da lei documenti giudiziari secretati), cercava per tutto il tempo di minimizzare la vicenda che riguarda noi dell’Ora, sostenendo che la sospensione delle pubblicazione fosse unicamente dovuta all’indisponibilità finanziaria dell’editore e non aveva alcuna relazione con il caso Gentile-De Rose. Questo nonostante ci fosse stato oscurato anche il sito, proprio il giorno in cui in un editoriale denunciavo la manovra di far finire la proprietà del giornale nelle mani di De Rose. Per la cronaca il legale di Bilotta, il nostro liquidatore, è quello stesso avvocato Celestino, che difese Adamo, il marito della Bruno Bossio nell’inchiesta “Why not”, e assiste anche i Citrigno: io lo conobbi nel suo studio, accompagnato lì da Alfredo Citrigno, pochi giorni dopo l’Oragate, quando lo stampatore che non aveva mai sollecitato i suoi pagamenti non riscossi, improvvisamente con una lettera che noi pubblicammo chiedeva tutto subito o avrebbe fatto fallire l’azienda. Forse la drammaticità di quanto i colleghi dell’Ora e io abbiamo vissuto e stiamo vivendo, potrebbe rendermi troppo emotivamente coinvolto. Per questo, riguardo all’attacco sferrato da Sansonetti contro De Raho, ho pensato di chiedere un parere ad Angela Napoli, ex presidente della Commissione Antimafia e tuttora impegnata in prima linea contro le influenze delle ‘ndrine. Ecco la sua valutazione: «Alcuni giorni fa evidenziavo sulla mia pagina Facebook lo stato di preoccupazione che sto vivendo alla luce sia di alcune sentenze giudiziarie sia di alcune cronache giornalistiche, a mio parere, eccessivamente garantiste e, sempre a mio parere, non utili a debellare il fenomeno mafioso ed i suoi collaterali. Oggi sono più che mai convinta che la preoccupazione ha ragione di permanere, ritenendo che sia in atto una “strategia” tendente ad isolare quei pezzi della Magistratura, delle Forze dell’Ordine, delle Istituzioni e della politica che realmente lavorano con coraggio non solo per reprimere la ‘ndrangheta ma anche per aiutare a sradicare quella sub-cultura mafiosa che per anni ha invaso alcuni cittadini calabresi. Ho parlato di “strategia” di isolamento: l’attacco al dottor Gratteri, apparso la scorsa settimana su “Il Garantista” e quello odierno al Procuratore Cafiero De Raho, sempre sullo stesso quotidiano, e che recano la firma del suo direttore responsabile, non possono che apparire, almeno ai miei occhi, ma sicuramente anche a quelli del comune lettore, proprio come tendenti a raggiungere l’obiettivo dell’isolamento. Sono convinta che tale obiettivo non verrà conseguito perché con piacere incomincio a registrare una voglia di riscatto nel cittadino calabrese. Questa voglia non potrà che portare alla rivolta nei confronti di tutti coloro che, dopo aver affossato, in supporto alla ‘ndrangheta, la nostra Calabria, oggi tentano ancora di mantenere a galla il “sistema malato” che sovrasta questa Regione. Ormai la stragrande maggioranza dei cittadini calabresi e’ in grado ed ha la volontà di saper distinguere il “bene” dal “male” e di saper anche quale “autobus” prendere per percorrere la strada della piena legalità».»

Piero Sansonetti: “l’Ora, fallimento di un’esperienza”. Lascio la direzione di questo giornale, per via di alcuni dissensi con la proprietà. Mi era stato chiesto di preparare un piano di ristrutturazione che prevedesse un fortissimo taglio del personale e io mi sono rifiutato. Ho messo a punto un piano alternativo, che consentiva risparmi molto forti senza sacrificare il personale. Il mio piano è stato approvato all’unanimità dall’assemblea ma all’editore non è piaciuto. Non lo ha considerato sufficiente. E così, dopo travagliate discussioni e tentativi di trovare vie d’uscita, l’altra sera siamo arrivati alla decisione dell’editore di respingere il mio piano, procedere al mio licenziamento e nominare un nuovo direttore. Il motivo per il quale mi sono opposto ai tagli del personale non credo di doverlo spiegare a voi. Se in questi tre anni avete letto qualche mio articolo conoscete la mia posizione si questi problemi. La lotta contro i licenziamenti, contro il dilagare del lavoro precario, contro lo sfruttamento, è stata sempre una mia idea fissa. Tra qualche riga proverò a dirlo meglio, ma già lo ho scritto spesso: considero l’assenza di “Diritto nel lavoro” il problema principale di questa regione. Penso che è lì che avvengono le sopraffazioni maggiori. E addirittura penso che l’assenza del diritto sia un male più grande ancora della ’ndrangheta e della criminalità organizzata. Me ne vado da qui, e torno a Roma, con una grande amarezza e con la convinzione di avere fallito. Sia chiaro: non do la colpa a nessuno. E’ una vecchia abitudine, quando si va a sbattere contro un muro e ci si fa male, quella di strepitare: “è colpa sua, è colpa sua”. E’ semplice: se sono andato a sbattere vuol dire che guidavo male. Volevo fare un giornale che desse una scossa vera all’intellettualità e alla classe dirigente calabrese. E che fosse un giornale davvero popolare, cioè vicino al popolo, ai suoi bisogni, capace di difenderlo senza assecondare le pulsioni populiste e qualunquiste. So benissimo di non esserci riuscito. E di avere dato poco a questa regione della quale – questo ve lo giuro – in questi anni mi sono perdutamente innamorato. Per questo sento l’angoscia di essere cacciato dalla Calabria. Quando si prende atto di un fallimento – netto, chiaro, indiscutibile, come è stato il mio – bisognerebbe avere la lucidità per capirne le cause, e dirle. Purtroppo non ho questa lucidità, o ancora non la ho. So di avere accettato troppi compromessi, perché pensavo di essere così forte e bravo da potere guidare io i compromessi, e di poterli utilizzare, e di sapere ricondurre tutto al mio disegno. Che sciocchezza! Non ci sono riuscito mai. E quando ho deciso di non fare più compromessi, ed ero ancora convinto di essere così forte da poter sconfiggere qualsiasi nemico, mi hanno stritolato in un tempo brevissimo. Ma siccome la presunzione è una malattia inguaribile, resto presuntuoso, e prima di andarmene voglio dirvi cosa credo di avere capito di questa regione. Di solito, se si parla della Calabria, si dice che il suo problema è l’illegalità. Io non ho mai creduto al valore della legalità, anzi, disprezzo la legalità. Credo a un principio molto diverso: quello del Diritto e dei Diritti. La legalità può essere ingiusta, può essere oppressiva, può essere conformista, bigotta, vetusta, persecutoria, conservatrice – anzi: è sempre conservatrice – e non è affatto detto che sia garanzia dei diritti. La legalità è il contrario della ribellione. Non mi è mai piaciuta. Il Diritto è un’altra cosa: il diritto – e i diritti – sono quei grandi valori della civiltà, in continua evoluzione, che si oppongono alla sopraffazione, al dominio, e tendono ad affermare l’uguaglianza delle donne e degli uomini e la primazia della loro dignità rispetto agli interessi dell’economia e del potere. Il Diritto tende all’uguaglianza. Ed è il contrario del Potere. Quando si dice che il problema della Calabria è la legalità si cerca di irrobustire quel vecchio pregiudizio del Nord, secondo il quale la questione meridionale è una questione criminale. E così è facile trovare la soluzione: più polizia, più giudici, più manette, un po’ di esercito e un po’ di razzismo sano e moderno, alimentato dalla buona stampa nazionale. Io invece penso che il problema all’ordine del giorno sia il Diritto, soprattutto il Diritto della Calabria nei confronti del Nord. E’ il Nord che da decenni viola i diritti fondamentali della Calabria. Prima di tutto il diritto del popolo calabrese ad essere popolo calabrese. Quello che solitamente viene chiamato il fenomeno dell’emigrazione – ma che io preferisco chiamare “la deportazione” – e cioè il trasferimento al Nord di milioni di calabresi, sottomessi e spinti a lavorare per il miracolo economico lombardo, o piemontese, o ligure o romano – è uno dei più grandi atti di sopraffazione di massa compiuti sotto l’occhio benevolo della Repubblica italiana. E’ un delitto. E non ha trovato opposizione. Neppure la sinistra, nel dopoguerra, si è mai fatta carico di questa gigantesca ingiustizia. Perché? Perché purtroppo, in Italia, anche la sinistra è settentrionale. La Calabria – nonostante grandi personaggi politici isolati, come Sullo, o Mancini, o Misasi – non ha mai avuto una sinistra. Così come tutto il Mezzogiorno d’Italia. Nasce da qui, esattamente da qui, la consuetudine di cancellare il Diritto della Calabria, e in particolare il Diritto del lavoro. Mi piacerebbe raccontare qualcosa di scandaloso ai miei amici e compagni di Roma e del Nord, compresa Susanna Camusso, il capo del sindacato che recentemente è scesa qui da noi e ha anche detto cose sagge, perché sicuramente è una persona seria. Cara Camusso, lo sai quanto paga la ’ndrangheta un picciotto? Mille euro al mese. E sai quanto guadagna un coetaneo del picciotto che lavora legalmente a tempo pieno in un call center, o in campagna, o anche in ufficio e persino in un giornale, come giornalista? E’ facile che guadagni meno della metà. Qui ho imparato che un trentenne con uno stipendio di sette o ottocento euro si considera fortunato. Camusso, pensi che in queste condizioni ci sia da stupirsi se la ’ndrangheta prospera? E pensi che aumentando il numero dei poliziotti e dei giudici – ottime e spesso eroiche persone – le cose possano migliorare? Mi piacerebbe davvero, Camusso, conoscere la tua risposta, perché non sono domande retoriche, né polemiche, però sento che sono domande drammatiche e penso che sia giusto porle. Quando sono sceso a Cosenza, da Roma, e ho preso la direzione di Calabria Ora, ho scritto un editoriale nel quale dicevo essenzialmente una cosa: qui manca la classe dirigente. La Calabria ha bisogno di una classe dirigente che sappia rappresentare il popolo, sbattere i pugni sul tavolo a Roma e assumersi finalmente la responsabilità dell’affermazione dei diritti. Dopo tre anni confermo quelle cose, con l’angoscia di chi sa di non essere riuscito a smuovere nemmeno uno stecchetto di paglia per cambiarle. Vedete, io penso che la Calabria soffra dell’assenza delle classi sociali che hanno costruito l’Italia: la borghesia e la classe operaia. Qui non c’è borghesia: c’è il padronato. E non c’è classe operaia: c’è un popolo sconfitto, sfregiato, deportato, oppresso, e che non riesce ad uscire dalla rassegnazione. Sì: il “padronato”, proprio con quell’accezione assolutamente negativa della parola che usavamo noi ragazzi degli anni settanta. Un padronato che considera il proprio borsellino come un Dio, e tratta gli esseri umani come cose, accidenti, strumenti, “rifiuti”. Già lo ha detto il papa, ha usato, indignato questa parola: “rifiuti”. Per una volta fatelo scrivere anche a me, ateo e anticlericale: viva il papa. Prima di tornarmene a Roma devo dire qualcosa sui giudici. Perché in questi anni sono stati un mio bersaglio fisso. In realtà ho grande stima per quasi tutti gli investigatori calabresi, credo però che il compito di un giornale sia quello di mettere sempre sotto controllo e sotto accusa il potere. E io sono persuaso che oggi in Italia – ma soprattutto in Calabria – il potere dei magistrati sia – insieme al potere economico e padronale – di gran lunga il potere più forte. Per questo io considero il garantismo un valore assoluto, da difendere coi denti, come caposaldo della civiltà. Oggi il garantismo è pesantemente messo in discussione – anzi sconfitto – dal dilagare, nell’opinione pubblica, di un feroce giustizialismo. Talvolta ispirato dai più tradizionali principi reazionari, talvolta da forti spinte etiche. Recentemente ne ho discusso, in un dibattito a Gerace, in Aspromonte, col Procuratore di Reggio, Federico Cafiero De Raho. Lui, a un certo punto della discussione, ha sostenuto che la giustizia serve ai deboli, perché i forti non ne hanno bisogno. Io gli ho risposto che apprezzo la sua spinta etica, ma che giustizia ed etica non devono mai coincidere, perché il male dei mali è lo Stato etico, che può essere solo autoritario e fondamentalista. Come fu lo stato fascista, come furono gli stati comunisti. Devo dire, onestamente, che lui – Cafiero – poi ha precisato meglio il suo parere, e che io ho apprezzato moltissimo la sua capacità di discutere – e ci siamo detti che avremmo proseguito la discussione in altra sede, e invece, con dispiacere, dovrò disdire l’appuntamento – ma in me resta questo grande timore: per i giudici – capaci, onesti – che pensano di svolgere una missione. Non è così, fare il magistrato è un mestiere, non una missione assegnata da Dio! E il prevalere di una concezione giudiziaria della vita pubblica non può che nuocere alla Calabria, ne sono convintissimo.

 

Quando la tv criminalizza un territorio.

7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l’anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”

In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un “normale” accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane – scrive Antonio sul sito di Foggia Today – Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: “Il popolo è ignorante”.» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».

Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.

In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.

Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.

Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:

L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;

L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.   

Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L’ITALIA DELL’INDISPONENZA, DELL’INDIFFERENZA, DELL’INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”.

Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?

 

Chi dice Terrone è solo un coglione.

La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero.

L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.

Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.

Così è sempre, così è stato a Pontida il 22 aprile 2017. Sono più di 1500 e molti di loro vestono la t-shirt “terroni a Pontida” o anche “terroni del Nord”. Sono accorsi a Pontida, in provincia di Bergamo, da tutta Italia, ma soprattutto da quella Napoli che l’11 marzo 2017 aveva ospitato Matteo Salvini, leader della Lega Nord che proprio qui a Pontida ha la sua roccaforte. «Abbiamo espugnato Pontida, questa terra considerata della Lega Nord. Siamo qui per raccontare che per noi non esistono i feudi della Lega Nord e del razzismo, vogliamo costruire ponti e lo facciamo con questa festa, che richiama l’orgoglio antirazzista e terrone», ha spiegato Raniero Madonna di Insurgencia a “La Stampa”. E mentre il sindaco di Napoli Luigi De Magistris invita sui social i “terroni” a unirsi da Lampedusa a Pontida si pensa al bis. Il clou del concertone è la canzone “Gente d’ò Nord”, brano che i 99 Posse hanno firmato con una serie di altri artisti che insieme hanno inciso un doppio cd con il nome di “Terroni uniti”. “C’è tantissima gente. E’ un bel posto – ha concluso Luca O’Zulú dei 99 Posse – perché non farlo diventare da simbolo della Lega a sede del Concerto Nazionale Antirazzista Migrante e Terrone?”.

Un contro-concertone del Primo Maggio gratuito e dal sapore terrone con 10 ore di musica, interventi e colori degli artisti del Sud, scrive “La Repubblica” il 26 aprile 2017. In scena in piazza Dante, dalle 14 a mezzanotte, il festival dell’orgoglio antirazzista e meridionale che ha iniziato il suo tour a Pontida lo scorso 22 aprile. E in programma c’è una già terza tappa: Lampedusa. L’annuncio è arrivato dalla voce del sindaco de Magistris, durante una conferenza stampa che dal Comune si è spostata in piazza Municipio. “E’ un progetto talmente bello – ha detto il sindaco – che lo riteniamo un progetto della città: ogni primo maggio si dovrà tenere nella capitale del Mezzogiorno un concerto che abbia come obiettivo i sud del mondo, i diritti, la solidarietà, l’antirazzismo, il lavoro e la lotta per la liberazione dei nostri popoli”. Un Primo Maggio “terrone” perché “i terroni difendono il proprio territorio dai rifiuti, dalla malavita, dallo sfruttamento, dalla finanza predatoria”. Ed è proprio sul palco del Primo Maggio che i Terroni Uniti continueranno il loro tour dopo Pontida, perché “a Napoli la festa dei lavoratori diventa la festa ribelle dei lavoratori a nero, dei lavoratori sfruttati, della manodopera dell’informale, delle vittime clandestine del caporalato”.

Interverranno anche gli scrittori “Terroni uniti” come Maurizio de Giovanni e Antonello Cilento. Una maratona di musica e impegno sociale che avrà come tema il lavoro, la difesa dei diritti dei lavoratori, dei disoccupati e delle vittime del caporalato, e l’orgoglio meridionale.

Che figure di merda…più che terroni si è coglioni. Se già da sé ci si chiama terroni, cosa faranno chi li vuol denigrare?

«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l’intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un’ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a ‘sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»…., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.

«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”.

Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.

Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un’espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.

Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

Il Terrone visto dai Polentoni, scrive Gianluca Veneziani. Dopo Vieni via con me è la volta di Sciamanninn, la versione terrona del programma di successo condotto da Fazio e Saviano. Anche in questo programma ci saranno degli elenchi. Ma non riguarderanno né i valori di destra, né quelli di sinistra, e tantomeno i 27 modi di essere gay. Avranno a che fare, piuttosto, con le caratteristiche tipiche di un meridionale. A stilare la tassonomia ci penserà un padano. Ecco allora il dodecalogo del terrone visto da un uomo del Nord. Terrone è:

Barbuto. Pregiudizio in voga soprattutto nei confronti delle donne. Si perpetua l’idea che le donne meridionali abbiano i baffi. Il pelo nell’ovulo riecheggia lo stato selvaggio e ferino del nostro Meridione.

Barbaro. Il terrone è considerato un ostrogoto. Per due ragioni: è rozzo, incurante di ciò che tocca e vede. E, quando apre bocca, non lo capisce nessuno. Credono che parli ostrogoto.

Barbone. Il meridionale è pensato come un mendicante, uno che questua soldi e vive a scrocco altrui. Magari un finto invalido che si mette agli angoli delle strade durante il giorno e la sera va a ballare con i soldi ricavati dall’elemosina.

Borbone. Pregiudizio storico. Il sudista è ancora assimilato alla vecchia dinastia pre-unitaria. Contribuiscono al cliché i cosiddetti neo-borbonici che, con grande tempismo, si fanno sentire adesso che l’Italia deve spegnere 150 candeline.

Lo sfaticato, che non vuole lavorare. Terrone non indica più la provenienza geografica, ma un’attitudine lavorativa. È terrone non chi viene dal Sud, ma chi sgobba poco. Il fannullone, il perdigiorno, chi lavora con lentezza. Fatto curioso, se si pensa che i terroni vanno al Nord, appunto, per lavorare. Ma il pregiudizio resta. Terùn, va a lavurà!

Il cafone, il tamarro, il che cozzalone. Fare una “terronata” significa fare una pacchianata, qualcosa di kitsch e di trash. Anche se chi la fa è un brianzolo, il nome “terrone” gli si appicca addosso.

Chi a colazione chiede cornetto ed espressino. Il barista lo guarda perplesso, senza capirlo. In Padania si dice brioche e marocchino. Occorre adeguarsi. Altrimenti vieni scambiato per un terrone o, peggio, per un marocchino.

Chi, il venerdì sera, fa il pendolare Nord-Sud e torna a casa in cuccetta, mentre i lumbard escono per fare l’happy hour Il terrone fugge dal Nord nel fine settimana: il sabato e la domenica va a consacrare le feste altrove.

Chi il lunedì mattina torna con lo stesso treno a Nord. Con un bagaglio però, pesante il doppio, perché la mamma lo ha caricato di tutte le sue delizie fatte in casa. Quella che si chiama “roba genuina”.

Chi al rientro in ufficio, offe ai colleghi specialità tipiche del suo Paese (magari le stesse che la mamma gli ha sbattuto in valigia). Una mia collega di Cava de’ Tirreni ci ha offerto mozzarelle di bufala campane. È stata festa grande, quel giorno.

Chi è legato alla terra, come dice il nome. Ama la terra, nel senso dei campi da coltivare: ama la terra, nel senso della propria terra; e ama la Terra, con la t maiuscola, perché il terrone è soprattutto un terrestre. Anche se qualcuno lo considera un extraterrestre.

Chi è legato al cielo. Il terrone è umile, cioè vicino all’humus, alla terra. Ma degli umili è il regno dei cieli.

Da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 19 novembre 2010.

C’è sempre, però, chi è più terrone di un altro.

L’infelice battuta di Mandorlini. Il suo Verona giocò e vinse quella finale playoff contro la Salernitana, conquistando la serie B. Nel dopo partita si lasciò andare a frasi poco carine (Ti amo terrone…), che scatenarono una disgustosa rissa in sala stampa. E quando Agroppi, opinionista Rai, lo bacchettò in televisione invitandolo a chiedere scusa per aver offeso il Sud, replicò in modo beffardo: «Tu sei fuori dal mondo». Mandorlini, ravennate di nascita, ha giocato in sei squadre, Ascoli quella più a Sud. E allenato dodici club, più giù di Bologna non è mai sceso. Spesso comportamenti e dichiarazioni sono state tipiche del leghista, il suo capolavoro resta la festa promozione in B, ottenuta contro la Salernitana. Saltellava e ballava con i tifosi gialloblù cantando «Ti amo terrone»: festival del razzismo puro. Travolto da critiche e polemiche, fece spallucce. Qualche mese più tardi ci pensò un napoletano, Aniello Cutolo, a rispondergli per le rime a nome di tutti i terroni: giocava con il Padova, derby veneto a Verona, gol pazzesco del partenopeo da venticinque metri e di corsa ad esultare in faccia a Mandorlini: «Ti amo coglione».

“Ti amo terrone, ti amo terrone, ti amo”. Ve lo ricordate quel coro di Mandorlini? Beh di certo in pochi lo avranno dimenticato. Per questo ieri ne abbiamo scritto. E’ il simbolo di questo Paese dove in uno stadio si canta la Marsigliese per ricordare le vittime degli attentati di Parigi, poi un minuto dopo in quello stesso stadio si consente a quegli stessi tifosi di inneggiare il solito coretto “Vesuvio lavali col fuoco”. Certo, se poi un allenatore del Verona, che lavora in una città ad alto tasso di razzismo, soffia sul fuoco anziché cercare di educare la propria tifoseria, allora la battaglia è proprio persa. “Ti amo terrone”, “Lavali col fuoco”, “Napoli colera”. Per quanto tempo ancora vogliamo andare avanti in questo modo? Fatecelo sapere. Lo capiremo quando anche stavolta, l’ennesima, non arriverà nessuna sanzione realmente incisiva verso chi canta queste schifezze insopportabili.

Giovani padani: “Siamo invasi dai terroni” , scrive Daniele Sensi su “L’Unità”. «Non è giusto, siamo invasi! Ovunque ti giri sei sommerso da ‘sti qui che vogliono comandare loro, mi fanno venire la nausea», sbotta una novarese. «Troppi, ce ne sono troppi, meglio con contarli», ribatte un utente di Mondovì. «Ce ne sono tanti, ma molti dei loro figli crescono innamorati del territorio in cui sono nati e cresciuti», replica un magnanimo iscritto ligure. Ennesimo dibattito su immigrazione e presunte invasioni islamiche? No. Il sito è quello dei Giovani Padani, e l’oggetto della discussione è quanti siano i meridionali residenti nel nord Italia. Non si tratta solo di un divertito passatempo: lamentando la mancanza di dati ufficiali («Purtroppo nessuno ha mai pensato di fare un censimento etnico in Padania, poiché siamo tutti “fratelli italiani”»), sul forum del movimento giovanile leghista con cura e dovizia vengono incrociate fonti diverse per tentare di fornire una risposta all’inquietudine che pare togliere il sonno ad alcuni simpatizzanti. Così, ricorrendo ad una terminologia allarmante e servendosi del censimento del 2001, delle analisi di alcuni studiosi dialettali e di quelle relative alle migrazioni interne del dopoguerra (con una certa approssimazione dovuta all’impossibilità di conteggiare con precisione i «meridionali nati al nord da genitori immigrati o da matrimoni misti padano-meridionali») alla fine, tenendo comunque conto «del tasso di fecondità dei centro-meridionali in base al quale è possibile stimare 3 milioni di discendenti meridionali nati in Padania, compresi i bambini nati da coppie miste», il verdetto è di «9 milioni di individui, tra centro-meridionali etnici e loro discendenti puri o misti». Una stima al ribasso secondo un utente milanese che arriva a denunciare, nelle statistiche, «la mancanza dei clandestini, cioè di quelli che sono qui di fatto ma non hanno domicilio o residenza padane». Dati eccessivamente gonfiati, al contrario, per un altro giovane lombardo, perché «credo proprio che il meridionale al nord, specie se sposato con una padana, figli meno rispetto al meridionale che sta al sud». Una ragazza di Reggio Emilia, invece, pare poco interessata a parametri e variabili: «Non so quanti siano, non mi interessa il numero, so solo che sono troppi e che stanno rovinando una zona che era un’isola felice. Girando per strada difficilmente si incontra un reggiano! Purtroppo stiamo diventando una minoranza e i meridionali la fanno da padrone».

La Lega, si sa, ha oramai ampliato il proprio bacino elettorale, pertanto pure un simpatizzante salernitano si inserisce nella conversazione, e, quasi invocando clemenza («Io sono meridionale ma amo la Lega e odio i terroni che vengono qui al nord per spadroneggiare e per rompere i coglioni»), finisce col cedere allo stesso meccanismo di autodifesa visto attivarsi durante la recente campagna mediatica e politica anti-rom, quando, per riflesso, non pochi cittadini rumeni quasi si sono messi rivendicare distinzioni etniche dai loro connazionali residenti nei campi nomadi, poiché nel gioco all’esclusione c’è sempre chi sta un po’ peggio: «Certi meridionali non possono essere espulsi perché italiani, ma, se si potesse fare una bella barca, sopra ci metterei i meridionali che non lavorano e gli extracomunitari, che sono più bastardi dei meridionali». Qualche nordico animatore del forum non indugia nel mostrare comprensione e solidarietà al fratello salernitano, e si affretta a precisare come sia possibile ravvisare differenza tra “meridionali” e “terroni”, spiegando che «terrone è colui che arriva e pensa di essere nel suo luogo di origine, e si comporta di conseguenza, tanto che nemmeno si offende se lo chiami terrone». Per taluni, addirittura, il luogo di origine non c’entra proprio nulla, perché «non è la provenienza che fa l’individuo, e nemmeno il sangue o il colore della pelle, ma unicamente l’atteggiamento». L’insistenza dei più ostinati («Se ne dicono tante sui cinesi ma sicuramente li rispetto più di certi meridionali o marocchini o slavi perché almeno lavorano e si fanno i fatti loro») incontra obiezioni dalle quali emergono ulteriori sfumature d’opinione tra i giovani padani, quelli più “cosmopoliti”, coinvolti nella surreale disamina, tanto che tra essi diviene possibile distinguere tra filantropi («Di meridionali ne conosco tanti e tanti miei amici sono meridionali, per me un meridionale è colui che è venuto e lavora onestamente»), progressisti («Esempi di integrazione con il passare degli anni si fanno più frequenti, sono esempi da non snobbare ma anzi da far diventare casi di scuola: piano piano li integreremo»), e possibilisti («Un meridionale che lavora e interagisce con gli altri vale quanto un settentrionale»). Su tutti, però, inesorabile cade il richiamo ad un maggior pragmatismo da parte dei realisti: «Siete in ritardo di 40 anni, c’è bel altra gente che invade le nostre città, purtroppo!». Trascorso qualche giorno, sul forum viene avviata una nuova discussione: «Un test per capire a quale sottogruppo della razza caucasica apparteniamo». Un test scientifico, affidabile, perché «per una volta non ci si basa sul colore della pelle, dei capelli e degli occhi, ma sulla forma del cranio».

Non siamo noi razzisti, sono loro che sono napoletani, scrive Francesco Romano su “Onda del Sud”. Trento: “Terrone di merda”. Operaio reagisce all’insulto con un pugno: licenziato. Al centro della discussione fra l’uomo e il caporeparto un ritardo dopo una pausa. Il giudice ha dato ragione all’azienda. “Il Gazzettino.it” di Trento ha riportato la seguente notizia: – Il caporeparto dell’azienda trentina per la quale lavorava lo ha appellato “terrone di merda” e lui, un operaio di origini meridionali, ha reagito all’insulto con un pugno. Per questo è stato licenziato. Al centro della discussione c’era il presunto ritardo dell’operaio dopo una pausa. Al termine dell’accesa discussione, il caporeparto avrebbe mandato via l’operaio dicendo “terrone di merda”. L’operaio avrebbe così reagito sferrando un cazzotto contro il collega, raggiungendolo di striscio. Dopo dieci giorni è arrivato il licenziamento in tronco. Da qui la causa intentata dall’operaio. La sentenza di primo grado del giudice del lavoro di Trento ha dato ragione al caporeparto in quanto «non è possibile affermare anche nei rapporti di lavoro la violenza fisica come strumento di affermazione di sé, anche quando si tratti della mal compresa affermazione del proprio onore». Un concetto ribadito dalla sentenza d’appello che ribadisce come «la violenza fisica non può mai essere giustificata da una provocazione rimasta sul piano verbale». Questo è quello che accade nel profondo Nord. Se non è mobbing questo, che cos’è. “Non siamo noi razzisti, sono loro che sono napoletani” era una vecchissima battuta comica di Francesco Paolantoni. La violenza certamente non ci appartiene ma forse è arrivato il momento di rivoluzionare il significato delle parole. Passare da negativo ad uno positivo. Questa è la cultura leghista che si è affermata al Nord. Dobbiamo subire la discriminazione dell’emigrazione e ci è impedita l’integrazione in questa nazione proprio quando ci apprestiamo a festeggiare i 150 anni dell’unità d’Italia.

Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.

I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive “L’Inkiesta” il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l’aggettivo spregiativo “terrone” non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io – nordico e fieramente antileghista da molto tempo – che le storie di roma ladrona, dell’uccello duro, del barbarossa, dell’ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po’ di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla “family”, come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di “famigghia” era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono – culturalmente, esteticamente e antropologicamente – terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell’ignoranza perchè questo è “popolare”. Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire “parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.

Da che pulpito vien il sermone!”, dico: “Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.

Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell’Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell’Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l’alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po’ lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all’appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.

Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell’Italia meridionale per indicare gli abitanti dell’Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell’Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l’alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell’Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all’appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.

La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d’Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un’accozzaglia di popoli oltre ai Celti.

Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell’Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell’Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine “terrone” (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l’erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II – 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l’informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant’anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell’Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell’Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare “servo della gleba” e “bracciante agricolo” ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da “terra” con un suffisso con valore d’agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come “mangiatore di terra” parallelamente a polentone, “mangiapolenta”, cioè l’italiano del nord; come “persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra” o anche come “originario di terre soggette a terremoti” (“terre matte”, “terre ballerine”). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d’Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione “terrone del nord”, generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti “boari”), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d’arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un’accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l’aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di “persona rozza” ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.

In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.

 

La balla della Perequazione

LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.

Il commento del dr. Antonio Giangrande, che sul tema ha scritto dei saggi: “Legopoli. La Lega da Legare”; “Italia Razzista”; “L’Invasione Barbarica Sabauda del Mezzogiorno d’Italia”.

In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews – Milano 06 settembre 2017). “La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un’immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d’Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi”. Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.

RESIDUO FISCALE – “Con il termine residuo fiscale – spiega la Nota – s’intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c’è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l’Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari”.

I DATI PER REGIONE – “Dopo la Lombardia – appunta il teso – si colloca l’Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d’Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)”.

IL DATO PRO CAPITE – Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d’Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d’Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)”, spiega la Nota pubblicata.

Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.

Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.

Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).

Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.

E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.

Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.

Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l’assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare…

Quindi, viva il referendum…

 

Il Nord Italia e la scuola: Quando l’invidia la fa da padrona.
Prove Invalsi – Ocse ed Esame di Maturità con lode: c’è chi fa, volutamente, confusione per instillare, ancora una volta, malsane stille di razzismo. Si fa confondere l’oggettivo con il soggettivo.
Quando il nord vuol sempre primeggiare e quando i dati vengono analizzati dalle opinioni risibili e partigiane degli opinionisti settentrionali.
Inchiesta del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, alla luce dei risultati scolastici degli studenti italiani diffusi l’11 agosto 2016 dal ministero dell'Istruzione, solleva il problema delle modalità di valutazione degli studenti nelle scuole italiane, scrive “L’Ansa" il 12 agosto 2016. «E' evidente che c'è qualcosa che non funziona nella scuola italiana e nei suoi sistemi di valutazione - accusa - se i ragazzi del Nordest, in testa alle classifiche Ocse e Invalsi per preparazione, poi risultano all'ottavo posto nelle statistiche dei "cento e lode" alla maturità». Da qui l'appello al ministro: «convochi al più presto una commissione ministeriale di esperti, riattivi sistemi di verifica su campioni omogenei di scuole e di studenti». E' un leghista e per tale va trattato.
L'invidia è un moto dell’anima tanto velenoso quanto inconfessabile: è la stretta che si prova quando si esce perdenti da un confronto sociale. L’invidia è un meccanismo che mettiamo in atto quando ci sentiamo sminuiti dal confronto con qualcuno, con quanto ha, con quanto è riuscito a fare. Diciamo che è un tentativo alquanto maldestro di recuperare la fiducia, la stima in noi stessi svalutando l’altro. Si tratta quindi di un processo: c’è il confronto, l’impressione devastante di impoverimento, di impotenza e poi la reazione aggressiva.
Essere un’eccellenza appaga mente, cuore e portafoglio. Ma senza esagerare, scrive TGCom 24. Perché se da un lato sono tante le università che, per esempio, prevedono alcune agevolazioni per chi si diploma con 100 e lode, dall’altro nel corso degli anni il premio previsto per gli stessi dal Ministero dell’Istruzione ha subito sforbiciate evidenti. Troppe lodi? Dati alla mano non si direbbe, anche se la polemica sulla generosità delle commissioni al Sud si ripete costantemente.
Il Corriere anche quest'anno rilancia la polemica sui "diplomifici", sostenendo che le scuole del sud Italia sgancino più facilmente votoni agli studenti, con la conseguenza che i maturandi meridionali ad aver preso 100 sono stati il doppio di quelli del Nord. Verità o bugia?
Gli opinionisti “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto equivalente a “Terrone” da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla solita tiritera: ogni qualvolta che il meridione d'Italia eccelle, lì c'è la truffa.
"Il Sud trabocca di 100 e lode ma i dati internazionali dipingono un panorama del tutto diverso: che i prof meridionali siano di manica più larga?", asserisce Gian Antonio Stella, opinionista del nordico “Il Corriere della Sera”. Lui, il buon veneto Gian Antonio Stella, spiega che: «Allora, come la mettiamo? Come possono i monitoraggi nazionali e internazionali sui ragazzi fino a quindici anni segnalare nel Mezzogiorno una scuola in grave affanno e i voti alla maturità una scuola ricca di spropositate eccellenze? Assurdo. Un caso per tutti: la Calabria, ultima nei test Invalsi, prima per fuoriclasse. Sinceramente: è possibile un ribaltamento del genere? O è più probabile la tesi che i professori del Sud, per una sorta di solidarietà meridionale basata sul comune sentimento di emarginazione e di abbandono, abbiano verso gli studenti la manica un po’ più larga? Un punto, comunque, appare fuori discussione. Non solo esistono due Italie e due scuole italiane, due universi di studenti e due di professori. Ma il divario, anziché ridursi, si va sempre più allargando. E ciò meriterebbe da parte di tutti, non solo del governo, un po’ di allarmata attenzione in più.»
Come si fa da un dato (i monitoraggi nazionali ed internazionali sui ragazzi fino a quindici anni) estrapolare l’assunto del broglio riguardanti i voti della maturità data ai ragazzi di tre o quattro anni più vecchi? E cosa ancora più grave, in considerazione della stima che si ha per un bravo giornalista, come si può mettere sullo stesso piano il dato oggettivo dei monitoraggi nazionali ed internazionali riguardanti il totale del corpo studenti di una data zona rispetto al voto soggettivo di eccellenza profuso in capo al singolo studente meritevole? E se fossero stati premiati apposta per il fatto che si siano elevati rispetto alla massa di mediocrità?
«I più danneggiati da questa fiera diplomistica sono i bravi studenti di quelle regioni troppo generose messi alla pari di loro compagni, bravini forse, ma promossi generali sul campo con rito sommario - rincara Mario Margiocco nato a Genova nel 1945, giornalista dal ’71.- Un preside di Brindisi sembra non rendersene conto e, come altri in passato, taglia corto: “I nostri studenti sono davvero bravi”. Anzi bravissimi, eccezionali. Tutti 100 e lode strameritati? Troppa grazia.». Chiosa in chiusura con evidente sarcasmo il ligure.
Cari signori dal giudizio (razzista) facile. Vi rammento una cosa.
Io, Antonio Giangrande, uno che si è laureato a 36 anni, sì, ma come?
A 31 anni avevo ancora la terza media. Capita a chi non ha la fortuna di nascere nella famiglia giusta.
A 32 anni mi diplomo ragioniere e perito commerciale presso una scuola pubblica, 5 anni in uno (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), presentandomi da deriso privatista alla maturità statale (non privata) assieme ai giovincelli.
A Milano mi iscrivo all’Università Statale alla Facoltà di Giurisprudenza. Da quelle parti son convinti che al Sud Italia i diplomi si comprano. E nel mio caso appariva a loro ancora più evidente. Bene!
A Milano presso l’Università Statale, lavorando di notte perché padre di due bimbi, affronto tutti gli esami in meno di 2 anni (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), laureandomi in Giurisprudenza, dopo sosta forzata per attendere il termine legale previsto per gli studenti ordinari.
Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ho fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.
Mio figlio Mirko a 25 anni ha due lauree ed è l’avvocato più giovane d’Italia (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità).
Primina a 5 anni; maturità commerciale pubblica al 4° anno e non al 5°, perché aveva in tutte le materie 10; 2 lauree nei termini; praticantato; abilitazione al primo anno di esame forense con compiti corretti in altra sede. Così come volle il leghista Roberto Castelli. Perché anche lui convinto degli esami farsa al sud.
Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ha fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università, o dalle sedi di esame di abilitazione o nei concorsi pubblici ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare. Una cultura socio mafiosa agevolata anche da quel tipo di stampa omologata e partigiana che guarda sempre la pagliuzza e mai la trave. Che guarda il dito che indica la luna e non guarda mai la luna.
Alla fine si è sfigati comunque e sempre, a prescindere se hai talento o dote, se sei predisposto o con intelligenza superiore alla media. Essere del nord o del sud di questa Italia. Sfigati sempre, perché basta essere italiani nati in famiglie sbagliate, e forse, anche perché in Italia nessuno può dirsi immacolato. Per una volta, però, cari giornalisti abilitati (ergo: omologati) guardiamo la luna e non sto cazzo di dito.

 

La Bufala dei voti di "Manica Larga"
LA BUFALA DEI VOTI AL SUD DATI CON MANICA LARGA. PARLIAMO DEL BONUS MATURITA’: UN MODO PER FOTTERE GLI STUDENTI MERIDIONALI.

«Da sempre dal nord arrivano accuse denigratorie di tutti i tipi ai cittadini meridionali. Sembra che sia come quella novella: “la volpe quando non arriva all’uva, dice che è acerba”. Prendiamo in esame le accuse rivolte agli studenti del Sud Italia. Dagli e dai ai barbari padani qualcuno crede ed ecco nascere il “Bonus Maturità», spiega Antonio Giangrande.

Lo scrittore Antonio Giangrande sul tema “Scuola ed Università” ha scritto un libro: “SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI, LAUREATI ED ANALFABETI”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media.

Da sempre sbraitano i leghisti ed i giornali faziosi.

“Diciamo basta all’assistenzialismo e alle raccomandazioni del sud. Vista la disparità di trattamento fra gli studenti del nord e quelli del meridione, è ridicolo e immorale continuare a considerare il voto di maturità un parametro valido per le graduatorie d’ingresso alle università e per l’assegnazione delle borse di studio”. Lo ha detto il deputato della Lega Nord, Davide Cavallotto. Una sfida tra “cervelloni” del Nord e del Sud. La proposta arriva dai giovani deputati della Lega Nord Paolo Grimoldi e Davide Cavallotto, alla luce di indiscrezioni sui risultati dell’ultima Maturità dai quali emerge che al Sud e 100 e lode continuano a essere il doppio che al Nord. “Leggere ancora oggi – spiegano Grimoldi e Cavallotto – che nelle scuole superiori al Sud si registrano il doppio dei 100 e lode del Nord è vergognoso e imbarazzante. Ma qualcuno crede davvero che in Campania, Sicilia, Calabria, Puglia, Lazio siano tutti geni, mentre dal Centro al Nord tutti somari? Facciamola veramente questa sfida comparativa tra i 100 e lode sudati in Padania e quelli spesso regalati nel Sud: avremmo la conferma – sostengono i due giovani leghisti – dell’assurdità del valore legale del titolo di studio, di cui la Lega chiede da tempo l’abolizione. Abbiamo moltissimi giovani padani diplomati con 100 e lode, ma anche con molto meno che si confronterebbero senza problemi con i cervelloni del Sud, soprattutto con quelli usciti a grappolo da una stessa scuola superiore”.

 “E’ inaccettabile che gli studenti del Nord siano sfavoriti nelle selezioni di Medicina e di altri corsi di laurea a numero chiuso a causa del bonus maturità che premia le Regioni del Sud”. Così il capogruppo della Lega Nord in Consiglio regionale veneto Federico Caner, che fa seguito alla denuncia lanciata dal leghista Mario Pittoni in merito alla questione dei punti sul voto di maturità, che inciderà sull’accesso ai corsi universitari a numero chiuso. “E’ arcinota la disomogeneità di valutazione tra Nord e Sud – ha detto Caner – e proprio grazie a questa anomalia e al vantaggio di poter contare su voti di maturità più alti nel Meridione, gli studenti del Sud saranno favoriti nell’accesso ai corsi universitari a numero chiuso come Medicina”.

 “Abbiamo chiesto al ministro Carrozza di sospendere il bonus maturità perché riteniamo penalizzi fortemente gli studenti del nord che, a causa degli standard più elevati degli istituti che frequentano, ottengono risultati più bassi rispetto agli studenti del sud. Le risposte che ci ha fornito il ministro Carrozza, contrariamente a quanto promesso dal premier Letta nel suo discorso d’insediamento, sono state assolutamente insoddisfacenti. Anche in tema scolastico riscontriamo un imbarazzante doppiopesismo ai danni del settentrione. Lo stesso voto finale dell’esame di maturità potrebbe essere inattendibile poiché, non tenendo conto del livello qualitativo medio degli studenti dei singoli istituti, penalizza di fatto i nostri studenti. Siamo in un momento di forte crisi, non togliamo ai giovani la speranza di veder realizzato il sogno di costruirsi il futuro che giudicano più affine alle loro attitudini”. Lo ha dichiarato Cristian Invernizzi, deputato della Lega Nord.

Ed ecco allora per accontentare i detrattori degli studenti meridionali interviene il ministro Carrozza.

MERITOCRAZIA?

Bonus maturità: un 86 al professionale vale di più di un 92 al classico, scrive Pietro De Nicolao. Finalmente il MIUR ha pubblicato tutti i dati necessari al calcolo del “bonus maturità” per il numero chiuso, che confermano le critiche mosse al sistema del bonus. Gli studenti dei licei classici e scientifici i più penalizzati. Il bonus può essere migliorato? No: meglio abolirlo.

Il 30 agosto 2013 il MIUR ha pubblicato sul sito Universitaly i dati dell’80° percentile per tutte le commissioni di maturità del 2013, che serviranno per il calcolo del bonus maturità.

Cos’è il bonus maturità? Il DM 449 del 12 giugno 2013, che sostituisce la precedente disciplina ideata da Francesco Profumo, stabilisce che per l’ingresso ai corsi di laurea a numero chiuso i candidati debbano essere disposti in graduatoria ed accedere ai posti disponibili in ordine di merito. Ad ogni candidato viene assegnato un punteggio in centesimi. Di questi, 90 punti dipendono dal test di ammissione vero e proprio, e 10 punti dipendono invece dalla carriera scolastica precedente: in particolare, dal voto di maturità.

Il problema è che il bonus non dipende in modo diretto e assoluto dal voto di maturità. Per aver diritto al bonus si devono verificare contemporaneamente due condizioni:

ottenere almeno 80/100 alla maturità;

essere nel “top 20%” della propria commissione d’esame: è il famoso 80° percentile.

Se queste condizioni sono soddisfatte, il bonus si calcola direttamente in funzione del voto di maturità secondo la tabella contenuta nel decreto.

Il bonus maturità è stato recentemente riformato: al contrario di quanto si potrebbe credere, esso non fu ideato dal Ministro Maria Chiara Carrozza, né da Francesco Profumo, ma risale al 2008, quando al Ministero dell’Istruzione c’era Giuseppe Fioroni. Si potrebbe dibattere a lungo sull’opportunità stessa di considerare il voto di maturità nell’ambito dell’ammissione ai corsi di laurea universitari. Oltre a pensare che ciò sia inopportuno, noi riteniamo che ciò comporti delle difficoltà tecnicamente insormontabili.

Eppure c’è chi lo difende. Le polemiche, attese, non sono mancate. Le curiosità nemmeno. Così come le conferme, stavolta supportate da migliaia di informazioni. La prima, su tutte: al Sud è molto più «facile» diplomarsi con un voto alto. Altissimo, in certi casi. E se non ci fosse stato quel vincolo dell’«ottantesimo percentile» – aggiunto dal ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza – forse ora avremmo migliaia di studenti del Mezzogiorno con in tasca già 8, 9, 10 punti di bonus ancora prima di effettuare il test d’ammissione all’università, scrive Leonard Berberi sul milanese  “Il Corriere della Sera”. Staccando così i colleghi del Nord che da tempo accusano di essere penalizzati dal punteggio finale perché al Settentrione «le commissioni danno voti più bassi». La preoccupazione è legittima. Due o tre punti in più alla prova d’ingresso nelle facoltà a numero chiuso potrebbero far avanzare nella graduatoria finale anche di mille o duemila posti.

Dello stesso tenore è l’articolo di “La Repubblica”. L’Italia è spezzata in due: nord vs sud, non è una novità. E al centro del mirino, questa volta, ci sono i voti di maturità. Il bonus, ottenuto in base al punteggio del diploma e utile per i test di ammissione all’università, svela le differenze tra meridione e settentrione: 10-12 punti tra Milano e Catanzaro, per fare un esempio. La situazione non è nuova, ma questa volta arrivano le informazioni concrete. Come riporta Il Corriere della Sera nell’edizione di oggi, sabato 31 agosto, al sud gli studenti ottengono mediamente voti più alti. E se non ci fosse stato quel vincolo “dell’ottantesimo percentile” – voluto dal ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza – troveremmo migliaia di studenti del mezzogiorno, che, finito il liceo, avrebbero in tasca 8, 9 o addirittura 10 punti di bonus maturità in più ancora prima di presentarsi ai test di ammissione all’università.

I detrattori sono sempre all’opera e sempre seguiti dagli italioti allo sbaraglio.

Di tutt’altro tenore è, invece, l’editoriale di Enzo Magistà, direttore della redazione giornalistica di Tele Norba, la più grande tv locale commerciale del sud Italia. Pubblicato in data 09/set/2013.

“Oggi si continua con i test per entrare nelle facoltà di medicina di tutt’Italia. E’ un pedaggio che i nostri figli devono pagare perché, purtroppo, tutti sognano di fare il medico e la professione è ormai al collasso. Serviva un freno, una selezione ed è stato messo. Ci sarebbe già da discutere su questo disumano criterio di spezzare i sogni dei ragazzi. Ma restiamo senza parole di fronte all’altra, ancor più grave ingiustizia, che è stata perpetrata ai danni dei ragazzi più bravi ed in particolare di quelli meridionali. Il ministro ha dettato regole nazionali e si è imposto di riequilibrare i meriti scolastici. E così, ritenendo che nel sud i ragazzi ottengano facilmente buoni voti, li ha penalizzati. Sono stati introdotti dei premi che ciascuna scuola distribuisce a discrezione. E così un ragazzo di Treviso diplomato con 80 su 100 può ottenere 6.7 punti di vantaggio nei test sul suo collega di Reggio Calabria diplomatosi con 100. Un furto, anzi, una rapina a mano armata è quella di coloro che in questi anni hanno fomentato la rivolta contro le scuole del sud, nelle quali, si è detto e scritto, che i professori sono di manica larga. Il sud subisce una nuova ingiustizia, perché le accuse sono totalmente false. I ragazzi meridionali sono semplicemente più bravi. In fondo, a pensarci, eè lo stesso ministro che lo riconosce, visto che è costretto a dare l’aiutino agli altri per farli partecipare alla partita. Solo che qui, in ballo, c’è il futuro e col futuro non si scherza, altrimenti resteremo, come succede da secoli, bravi, ma sfortunati.

Guarda caso è stato approvato nella tarda mattinata dello stesso 9 settembre 2013  il decreto sulla scuola del ministro Maria Chiara Carrozza. Nella conferenza stampa che si è tenuta subito dopo il Consiglio dei ministri che ha dato il via libera al testo, la Carrozza, il premier Enrico Letta e gli altri ministri interessati dal decreto hanno illustrato il contenuto del provvedimento. La parte più attesa e importante del decreto è l’abolizione del cosiddetto “bonus maturità”, vale a dire il sistema di assegnazione di punti extra attribuiti agli studenti che si sono diplomati con un voto superiore agli 80/100 e non inferiore all’80esimo percentile della distribuzione dei voti della propria commissione d’esame nell’anno scolastico 2012/13. Questo significa che già dalla sessione di test di ingresso attualmente in corso non si deve più tenere conto del punteggio di diploma per valutare l’esito delle prove.  Letta: ”Via subito bonus maturità”. “Abbiamo deciso di accelerare l’eliminazione del bonus maturità, perché così creava delle disparità che non potevano funzionare”, annuncia il premier Enrico Letta in conferenza stampa, al termine del Consiglio dei ministri”.

Oramai è chiaro a tutti: tabelle dei percentili alla mano, il bonus maturità non premiava i più bravi ma castigava gli studenti meridionali.

NON SI RIESCE A COMPRENDERE CHE NON E’ IL VOTO CHE CONTA, MA LE PRASSI PER IL SUPERAMENTO DI ESAMI DI STATO E CONCORSI PUBBLICI. PRASSI CHE LI TRUCCANO.

MERITOCRAZIA. IN UN ALTRO MONDO, FORSE. UNIVERSITA’. COSI’ SI ACCEDE AL NUMERO CHIUSO. L’APOTEOSI DELL’INETTITUDINE E DELL’INCAPACITA’.

I saggi ministeriali inventori del sistema del “Bonus Maturità” di cui si parla sarebbero poi coloro che elargiscono dati differenziali tra Nord e Sud e sono quelli che stabiliscono i quiz per l’ingresso a numero chiuso nelle facoltà universitarie.

Università. Così si accede al numero chiuso. Gli oltre 84mila aspiranti medici che il 9 settembre 2013 hanno affrontato il test d’ingresso sono entrati in aula quando la prova era caratterizzata dal «bonus maturità», e ne sono usciti quando le regole erano già cambiate. E’ stato un vero assalto. Sono arrivati in oltre 84mila a affrontare i test per l’ammissione alla facoltà di medicina e odontoiatria nelle università statali. Gli iscritti ammontano a 84.165 (ma i paganti a 74.312) per 10.771 posti disponibili. Circa uno su sette. Un numero decisamente in crescita rispetto all’anno 2012, quando i partecipanti furono 68.426 per 10.714 posti. Ma tutti, giusto per dimostrare la loro preparazione in materia, si sono scontrati con domande bizzarre al test di medicina. Chi ha scritto «El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha»? «Coltivare piante non autoctone per abbellire i propri giardini è diventata una pratica piuttosto comune. Molte di queste specie sono costose, richiedono trattamenti speciali e sono spesso soggette a parassiti e malattie. Esistono molte piante selvatiche autoctone che sono perfettamente adatte alla crescita in vaso o nei giardini delle case, non richiedono trattamenti speciali e spesso sono altrettanto belle rispetto alle piante provenienti dall’estero. Si dovrebbe quindi cercare di coltivare un numero maggiore di piante autoctone selvatiche nei propri giardini. Se considerata vera, quale delle seguenti affermazioni rende più forte l’affermazione precedente?». Quasi più intricato del «problema della massaia» che deve scegliere quante confezioni di prosciutto comprare, solo dopo aver valutato attentamente quanti grammi ne mangiano i figli al giorno e dopo quanti giorni il prosciutto sarà scaduto. Altre nefandezze: Qual è il percorso più veloce per andare in ufficio, quello breve con molti semafori o quello lungo con pochi semafori? E se c’è da accoppiare una città con un museo, l’Ermitage si attribuisce a Parigi, come il test suggeriva ingannevolmente, o a S. Pietroburgo, com’è nella realtà? Se crescendo il benessere si è più infelici, allora il denaro rende felici oppure no? E, dopo la logica, spazio all’immunologia («il tetano resiste agli antibiotici?»), alla neurologia («Quali sono le funzionalità dei nodi di Ranvier»), alla chimica («Quali sono le componenti del glicogeno?») passando per la fisica, con la «forza di Lorentz», che non è quella di un ragazzo muscoloso, ma la forza che si sviluppa tra un campo elettromagnetico e un oggetto elettricamente carico. Tra l’applicazione di un teorema di Pitagora e le probabilità di vincere giocando a dadi, passando per una funzione da ricavare in delta, i candidati si sono trovati persino di fronte ad una domanda che sosteneva che, secondo uno studio americano, «le domande a scelta multipla non danno agli studenti la possibilità né di pensare in maniera logica indipendente né di presentare le loro argomentazioni coerentemente in maniera scritta».

Giusto per dire: da questo marasma usciranno i futuri medici. Alla faccia della meritocrazia e del voto di manica larga, a detta delle volpi padane, dato agli studenti meridionali.

Il numero aperto e dare sfogo alle capacità degli studenti, proprio no!!  Proprio perché nel mondo i medici sono la figura professionale necessaria. Invece no. Meglio accontentare le lobby, così come si fa con gli avvocati che il numero chiuso lo applicano tacitamente. Vuoi mica che i figli loro rimangano senza lavoro e privilegi?

 

Radio Vergogna

RADIO PADANIA, RADIO VERGOGNA.

Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. In attesa del giusto premio, ecco una gallery delle ultime dieci perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali. Dopo il tentativo di “invadere” Alessano, in provincia di Lecce, Radio Padania ci riprova con Brindisi, dove sembra che l’emittente radiofonica della Lega abbia “occupato” le frequenze di Idea Radio. L’allarme è lanciato proprio dal legale rappresentante di Idea Radio, Tommaso D’Angeli. «Radio Padania sbarca e colonizza quella che ancora risulta essere la provincia di Brindisi, occupando e fortemente disturbando le trasmissioni di Idea Radio nel comune di Brindisi sulla frequenza dei 97.800 Mhz. Per l’ennesima volta Radio Padania attiva un impianto nel Salento per le proprie trasmissioni». D’Angeli spiega che «questa volta l’emissione parte dal comune di Villa Castelli, noto per la grande concentrazione di impianti radiotelevisivi e di telefonia». L’emittente della Lega Nord, osservano ancora da Idea Radio, «trasmette in qualità di radio comunitaria nazionale, che le permette, in virtù di un decreto legge creato dal governo Berlusconi, di attivare impianti su tutto il territorio nazionale senza acquistarli, ma semplicemente comunicandone l’attivazione al competente ministero dello Sviluppo Economico». Unica prerogativa, spiegano, è di non interferire con altre emittenti. Una prerogativa che sembra sia stata però disattesa.

La protesta dell’emittente brindisina è partita, indirizzata sia al sindaco di Villa Castelli che al direttore dei Servizi territoriali di Arpa Puglia. In attesa di sviluppi, i brindisini potranno ascoltare Radio Padania tranquillamente seduti in poltrona. Così facendo disturba le frequenze di Idea Radio, che prende posizione pubblicamente attraverso questo comunicato del legale rappresentante di Idea Radio, Tommaso D’Angeli. «Mentre si discute sul riordino delle province, se appartenere a Lecce, Taranto o Bari, mentre si discute se realizzare un’unica macro provincia o la Regione Salento, il partito di Bossi, dalla Padania per mezzo della sua espressione più diretta “RADIO PADANIA” sbarca e colonizza quella che ancora risulta essere la provincia di Brindisi, occupando e fortemente disturbando le trasmissioni di Idea Radio nel comune di Brindisi sulla frequenza dei 97.800 Mhz. Per l’ennesima volta Radio Padania attiva un impianto nel Salento per le proprie trasmissioni.

Questa volta l’emissione parte dal Comune di Villa Castelli, noto per la grande concentrazione di impianti radiotelevisivi, di telefonia e di altri soggetti, anche militari, già in passato oggetto di proteste da parte della città per la difesa ambientale e della popolazione soggetta alle emissioni elettromagnetiche. Radio Padania trasmette in qualità di Radio Comunitaria Nazionale che le permette in virtù di un Decreto Legge creato dal governo Berlusconi di attivare impianti su tutto il territorio nazionale senza acquistarli, ma semplicemente comunicandone l’attivazione al competente Ministero dello Sviluppo Economico-Comunicazioni. Unica prerogativa concessa è quella di non interferire con altri legittimi utilizzatori dello spettro radioelettrico. E così sorgono i problemi per le emittenti interferite, le quali dovranno, con notevole aggravio di spese, documentare con campagne di misure radioelettriche e perizie, le interferenze subite nell’ascolto delle proprie trasmissioni. Idea radio si è già attivata presso il competente Ministero dello Sviluppo Economico-Comunicazioni per tutelare le proprie trasmissioni. Al contempo con la presente si invitano il Sindaco di Villa Castelli e l’Arpa Puglia sezione di Brindisi a voler verificare se Radio Padania abbia mai inoltrato istanza ai sensi di quanto disposto dal D.L. n.259/03, L.R. 05/92 e dal R.R. 14/06, per l’installazione delle antenne e dell’impianto nel comune di Villa Castelli, diversamente si prega di intervenire con urgenza secondo la propria autorità per la rimozione dell’impianto».

“Radio Padania, colonizzatori per interesse”. E’ questo quello che i brindisini potranno ascoltare… e sì, perchè Radio Padania ci riprova a colonizzare il Salento, questa volta attraverso l’installazione di un’antenna a Villa Castelli, un po’ più a nord. Ci avevano già provato, ricorderete, partendo da Alessano. Ed anche in quell’occasione si scatenarono le proteste contro l’occupazione abusiva delle frequenze e, soprattutto, contro gli insulti ai meridionali nei quali potrebbero imbattersi i brindisini che si troveranno ad ascoltare l’emittente radiofonica che fa capo al partito politico fondato dal Senatùr Umberto Bossi. La scoperta è avvenuta quando una radio locale, Radio Idea, ha notato delle interferenze sulle frequenze, da lì all’infelice scoperta il passo è stato breve. Ed, ovviamente, Radio Idea si è già attivata per tutelare i propri spazi seguendo l’iter indicato dalla legge, ma ora l’appello è al territorio ed alle sue istituzioni anche perchè, molto probabilmente, e su questo in molti si troveranno d’accordo, il discorso è più economico che politico. Immediatamente si è scagliato contro quest’ennesimo tentativo di colonizzare il Salento, il Presidente del Movimento Regione Salento Paolo Pagliaro “Basta con questo sopruso! Radio Padania spenga l’impianto e rispetti questa terra!”. La sua opinione trasmessa e pubblicata sulla sua emittente “Tele Rama” e su youtube. «Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo. Violenti, perché hanno ottenuto grazie alla gestione del potere con una legge ‘ad personam’ del Governo Berlusconi a trazione leghista, l’opportunità di un sopruso-abuso: accendono la frequenza che desiderano e questa diventa di loro proprietà se ‘non disturba’ e se entro 90 giorno non vi sono reclami. Voraci ed arraffoni, perché intendono invadere un mercato scavalcandone le regole. Illiberali, perché i contenuti di questa Radio Padania sono volgarmente e qualunquisticamente anti-meridionali, perdendo così l’occasione del confronto positivo e costruttivo. Sono furbacchioni perché, in qualche caso, pare che abbiano acquisito gratuitamente le frequenze (con le complicità romane) per poi rivenderle ai privati.

Solidarietà a Idea Radio, basta con questi soprusi!».

 

Quelli che…o tutti o nessuno e poi vogliono la secessione!
Lo sproloquio del saggista e sociologo storico Antonio Giangrande. Da far riflettere…
2 e 3 giugno: Si festeggiano il giorno della Repubblica ed il giorno della libera circolazione tra regioni.
Il tutto sotto diktat della Padania.
I Padani hanno voluto l’Unità d’Italia per depauperare l’Italia meridionale.
I Padani comunisti hanno voluto la Repubblica per continuare a saccheggiare l’Italia Meridionale.
I Padani con le sedi legali delle loro aziende nei paradisi fiscali vogliono continuare a dettar legge con la scusa della secessione.
L’Italia divisa in due.
MAGGIO 1860, IL RUOLO DELLA GRAN BRETAGNA NELL’ATTACCO ALLA SICILIA E AL REGNO DELLE DUE SICILIE. Michele Eugenio Di Carlo, Giovedì, 28 Maggio 2020 su retegargano.it. Uno dei più dettagliati resoconti della spedizione garibaldina - tanti ne hanno tratto informazioni senza citare la fonte - resta quello di Giacinto de’ Sivo. Con precisione assoluta lo scrittore di Maddaloni descrive l’apparato di sicurezza che il Governo aveva disposto per proteggere la Sicilia dall’invasione ritenuta certa: quattro fregate a vapore, due a vela, nove piroscafi da guerra, che navigavano incessantemente lungo le coste siciliane. Considerate anche le forze di Polizia e le Guardie Urbane, supporre che Giuseppe Garibaldi, nel caso fosse riuscito a sbarcare, potesse andare oltre Marsala non era proprio possibile. Per de’ Sivo era del tutto chiaro: la forza di Garibaldi era stata costruita a tavolino, in particolare dalla potentissima macchina della propaganda inglese. E quanto Cavour, convintosi a favorire la spedizione, cercò di metterne a capo Nino Bixio, «allora dolentissimo il Nizzardo, scordò la venduta patria, e scrisse umilissime lettere al La Farina, scongiurandolo d’aiutarlo… ». Sicuramente era stata proprio l’azione di mediazione di Giuseppe La Farina a spingere Garibaldi ad incontrare Camillo Cavour e Vittorio Emanuele II a Bologna il 2 maggio, al fine di addivenire ad un accordo, come già supposto dallo storico Pietro Pastorelli. Ed è così che «quel marinaio già dalla stampa mazziniana magnificato, quasi promesso da’ fati, per patti segreti tra reggitori di popoli potenti, con l’oro del Piemonte indebitato a posta, doveva lanciarsi a portar guerra civile nelle Sicilie».
Dopo l’unificazione artefatta e truffaldina dell’Unità d’Italia venne la nascita della Repubblica, altrettanto artefatta e truffaldina voluta sempre dalla gente del nord.
L’Italia divisa in due.
REGIONE NORD SEZIONI REPUBBLICA MONARCHIA
Piemonte 3529 1.250.070 938.945
Liguria 1470 633.130 284.692
Lombardia 5241 2.270.335 1.275.183
Venezia Tridentina
(Escluso Bolzano e Trieste) 465 191.450 33.728
Veneto 3636 1.403.441 954.372
Emilia Romagna 2928 1.526.838 454.589
Toscana 2781 1.280.815 506.167
Marche 1126 498.607 213.621
Umbria 631 301.209 117.755
TOTALE 21.807 9.355.895 4.779.052

REGIONE SUD SEZIONI REPUBBLICA MONARCHIA
Lazio 2212 753.978 795.501
Abruzzo e Molise 1264 347.578 459.478
Campania 2770 435.844 1.427.038
Puglie 1950 465.620 954.754
Lucania 394 107.653 158.210
Calabria 1337 337.244 514.633
Sicilia 2827 708.109 1.301.200
Sardegna 859 206.098 319.557
TOTALE 13613 3.362.124 5. 930.371
Con la Repubblica inizia il declino dell’Italia Meridionale e la differenza tra le due Italie si perpetua.
Lo scippo della Spesa Storica che toglie al Mezzogiorno e regala al Nord è l’origine del declino italiano. E tutti i Governatori del Sud tacciono. Come sempre. Roberto Napoletano il 30 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Tutti tacciono. Come hanno fatto negli ultimi venti anni. Hanno sempre qualche emergenza di cui occuparsi. Spicciano pratiche. Hanno una conference call dietro l’altra (prima incontravano gente). Zitti e muti. I soldi loro vanno da un’altra parte, ma loro non se ne accorgono. Se glielo spieghi, ti guardano strano. Preferiscono il silenzio. Dopo diranno che non hanno capito. Si spartiranno le briciole – se ci sono – che i ricchi lasceranno cadere dai tavoli imbanditi con le pietanze rubate ai poveri. Che sono loro. Quelli che stanno zitti quando dovrebbero urlare e strepitano o piagnucolano quando non serve a nulla. Facciamo presente che se avere chiuso un occhio con 60 e passa miliardi di spesa pubblica dovuti al Sud e regalati al Nord ogni anno negli ultimi dieci anni è stato grave. Lo scippo della Spesa Storica che toglie al Sud e regala al Nord – è l’origine del declino italiano – lo si vuole replicare approfittando della Pandemia, nonostante il disastro della superforaggiata Lombardia. Mi raccomando – lo dico provocatoriamente ma vale per tutti e per chiunque abbia un po’ di sale in zucca della classe dirigente meridionale – non disturbiamo il manovratore e occupiamoci di distanze in casa e al bar.
Quando il Governo Letta penalizzò le Università del Sud per favorire quelle del Nord. Michele Eugenio Di Carlo su I Nuovi Vespri il 6 maggio 2020. La sottrazione di risorse alle Università povere (quelle del Sud) per favorire le università ricche (quelle del Nord, che non sono affatto le migliori) ha determinato la migrazione di studenti (e di risorse finanziarie) dal Sud al Nord. Una vergogna infinita e uno scandalo ignorato. Sentire che tanti nostri studenti universitari, e i propri familiari, in questi giorni si lamentano di dover pagare affitti mentre le università sono praticamente chiuse, mi fa proprio male e mi costringe a riferire quello di cui pochi sono a conoscenza. Fu un provvedimento del governo di Enrico Letta e della ministra dell’Istruzione di allora, Maria Grazia Carrozza, a penalizzare fortemente le università del Sud con una sorta di decreto ammazza università meridionali che ha dato soldi alle università ricche e li ha sottratti a quelle povere. Badate bene, non a quelle migliori, a quelle più ricche. Lo scrive peraltro l’amico Pino Aprile nel suo ultimo testo “L’Italia è finita”, come sempre una miniera di informazioni. Tanto che l’economista barese Gianfranco Viesti – ricordo che è anche cittadino onorario della città di Vieste – ne scrisse un libro di denuncia: “La laurea negata”, arrivando a dire che tanto valeva farle chiudere. Un decreto che andò a peggiorare le già antimeridionali norme dei precedenti ministri Profumo e Gelmini. Ora uno studente meridionale su due (8 su 10 in Basilicata) sceglie un università del Nord e questo comporta l’ennesimo esborso di miliardi che passano da Sud a Nord, quasi non bastasse la tristissima e abominevole emigrazione sanitaria.
Michele Emiliano a Stasera Italia su Rete4 (Rete Lega) del 3 maggio 2020. «Innanzitutto noi abbiamo aumentato di millecinquecento posti i posti letto autorizzati da Roma. E abbiamo subito approfittato di questa cosa. Devo essere sincero: il sistema sanitario pugliese è un sistema sanitario regolare. Noi non abbiamo mai avuto problemi sulle terapie intensive. Quindi però, Pomicino evidentemente è intuitivo, capisce che questo è il momento per cui le sanità del Sud…siccome i nostri non possono più andare al Nord per curarsi perché è troppo pericoloso, devono essere rinforzate per limitare la cosiddetta mobilità passiva. Quindi io l’ho detto chiaro: io non terrò più conto dei limiti, posti letto, assunzioni, di tutta questa roba, perché non siamo in emergenza. Farò tutte le assunzioni necessarie, assumerò tutte le star della medicina che riuscirò a procurarmi, cercherò di rinforzare i reparti. Manterrò i posti letto in aumento. Anche di più se possibile. Chiederò ai grandi gruppi privati della Lombardia per i quali c’è una norma che li tutelava in modo blindato. Immaginate: io potevo pagare senza limite i pugliesi che andavano in Lombardia presso queste strutture, se queste strutture erano in Puglia c’era un tetto massimo di spesa fatto apposta…Siccome questo tetto deve saltare, io sto proponendo a questi grandi gruppi di venire e spostarsi al Sud per evitare il rischi Covid, ma soprattutto per evitare il rischio aziendale per loro. Perché è giusto che questa mobilità passiva: 320 milioni di euro di prestazioni sanitarie che la Puglia paga alla Lombardia in prevalenza, solo perché quel sistema è stato supertutelato. Adesso tutti dovremmo trovare il nostro equilibrio e la nostra armonia».
Tgnorba Il Fatto del 29-05-2020. Editoriale a cura del direttore Enzo Magistà di venerdì 29 maggio. Nel presentare il “decreto rilancio” e le riaperture del 18 maggio il presidente Conte annunciò che il 3 giugno, cioè da mercoledì prossimo, sarebbe stato possibile prevedere la ripresa anche della libera circolazione tra le regioni italiane. Però precisò: tutto sarebbe stato collegato alle condizioni della pandemia territorio per territorio, regione per regione. Tanto che si creò una specie di misuratore che indicava il rischio: alto, medio, oppure, assente. Le regioni a rischio alto, disse Conte, sarebbero rimaste chiuse; quelle senza rischio sarebbero state riaperte. Avrebbero potuto collegarsi fra loro. In pochi giorni, però, le cose sono cambiate. Ieri le regioni hanno fatto sapere al Governo di non essere d’accordo sulle riaperture differenziate. O tutti o nessuno. Il Governo si è un po’ spazientito, però, sembra essere disponibile. Però non tutte le regioni italiane sono a rischio controllato, è molto probabile che la libera circolazione sull’intero territorio nazionale possa slittare di una settimana: non più il tre, ma il 10 giugno. Non ci cambia la vita, però ci fa rabbia lo stesso. Perché ancora una volta ci si inchina al volere, per non dire al diktat, delle regioni del nord: Lombardia e Veneto in particolare. Sono le regioni italiane più a rischio. E quindi Fontana e Zaia sono stati loro a cavalcare la tesi del “tutti o nessuno”, perché, altrimenti, sarebbero rimaste chiuse. A loro, stavolta, fa comodo, sposare questa tesi, “tutti o nessuno”. Ma in altre occasioni non è stato così. Anzi, in tantissime altre occasioni non hanno fatto altro che rivendicare il contrario, fino a chiedere una autonomia esagerata. Vogliono l’autonomia su tutto: sulle tasse, sulla salute, la scuola, ecc.. Però quando si deve riaprire, siccome loro non possono riaprire: no! O tutti o nessuno. Sarebbero le sole a restare chiuse: allora no! O tutti o nessuno. Purtroppo, però, questo è il dramma: vincono sempre loro.

 

Gli affari della Sanità privata padana a danno di quella del Sud, sotto tutela dello Stato.

Con il principio della spesa storica (riferimento a quanto percepito negli anni precedenti), il Nord Italia si “fotte” più di quanto dovuto, a spese del Sud Italia.

In virtù, anche, di quel dipiù la Sanità padana spende di più perché è foraggiata dallo Stato a danno della Sanità meridionale, che spende di meno perchè vincolata a dei parametri contabili prestabiliti.

Poi c’è un altro fenomeno sottaciuto:

Nelle strutture private del Nord, costo pieno di rimborso;

Nelle strutture private del Sud, costo calmierato di rimborso.

Con questa situazione si crea una contabilità sbilanciata e un potere di spesa diversificato.

In questo modo i migliori chirurghi del meridione sono assoldati dalle strutture settentrionali e pagati di più. Questi, spostandosi, con armi, bagagli e pazienti meridionali affezionati, creano il turismo sanitario.

Con una finanza rinforzata la Sanità padana è pubblicizzata dalle tv commerciali e propagandata dalla tv di Stato.

Ergo: loro diventano più ricchi e reclamizzati. Noi diventiamo sempre più poveri e dileggiati.

Poi arriva il Coronavirus e ristabilisce la verità:

la presunta efficienza crea morte nei loro territori;

la presunta arretratezza contiene la pandemia, nonostante, artatamente, dal Nord per salvare la loro sanità, siano stati fatti scappare i buoi infetti con destinazione Sud.

Michele Emiliano a Stasera Italia su Rete4 (Rete Lega) del 3 maggio 2020. «Innanzitutto noi abbiamo aumentato di millecinquecento posti i posti letto autorizzati da Roma. E abbiamo subito approfittato di questa cosa. Devo essere sincero: il sistema sanitario pugliese è un sistema sanitario regolare. Noi non abbiamo mai avuto problemi sulle terapie intensive. Quindi però, Pomicino evidentemente è intuitivo, capisce che questo è il momento per cui le sanità del Sud…siccome i nostri non possono più andare al Nord per curarsi perché è troppo pericoloso, devono essere rinforzate per limitare la cosiddetta mobilità passiva. Quindi io l’ho detto chiaro: io non terrò più conto dei limiti, posti letto, assunzioni, di tutta questa roba, perché non siamo in emergenza. Farò tutte le assunzioni necessarie, assumerò tutte le star della medicina che riuscirò a procurarmi, cercherò di rinforzare i reparti. Manterrò i posti letto in aumento. Anche di più se possibile. Chiederò ai grandi gruppi privati della Lombardia per i quali c’è una norma che li tutelava in modo blindato. Immaginate: io potevo pagare senza limite i pugliesi che andavano in Lombardia presso queste strutture, se queste strutture erano in Puglia c’era un tetto massimo di spesa fatto apposta…Siccome questo tetto deve saltare, io sto proponendo a questi grandi gruppi di venire e spostarsi al Sud per evitare il rischi Covid, ma soprattutto per evitare il rischio aziendale per loro. Perché è giusto che questa mobilità passiva: 320 milioni di euro di prestazioni sanitarie che la Puglia paga alla Lombardia in prevalenza, solo perché quel sistema è stato supertutelato. Adesso tutti dovremmo trovare il nostro equilibrio e la nostra armonia».