Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
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Dr Antonio Giangrande
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ARTICOLI PER TEMA
Di Antonio Giangrande
INDICE
L’aspetto formale e l’aspetto sostanziale.
L'Onnipotenza dei Magistrati.
La Sindrome della Menzogna.
Le Compatibilità elettive
Toghe rosa
L’aspetto formale e l’aspetto sostanziale.
Perché il Presidente della Repubblica, Sergio
Mattarella, ha sbagliato. E perché chi lo difende è ignorante o in mala fede.
La lezione di chi, il dr Antonio Giangrande, non è titolato, se poi i titoli
(accademici) si danno per cooptazione e conformità ed omologazione.
L’articolo 90 della Costituzione dice infatti che «Il presidente della
Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue
funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione».
Spieghiamo perché è responsabile. Partiamo proprio dalla base della Costituzione
italiana.
PRINCIPI FONDAMENTALI. "Art. 1. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata
sul lavoro (non sulla libertà). La sovranità appartiene al popolo, che la
esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione".
Qui si enuncia il principio fondamentale che incarnano forma e sostanza. La
sostanza ci dice che in Italia c’è la democrazia parlamentare (indiretta) come
forma di governo e quindi ci dice che la maggioranza dei votanti (non dei
cittadini che non votano più, sfiduciati dalla vecchia politica) elegge i suoi
legislatori e, tramite loro, i suoi governanti (stranamente mancano i
magistrati). L’esercizio del potere popolare prende forma, non sostanza,
attraverso l’enunciazione di articoli costituzionali che mai possono violare il
principio fondamentale. E non a caso proprio il primo articolo prende in
considerazione l’aspetto democratico della vita dello Stato italiano.
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA "Art. 83. Il Presidente della Repubblica è eletto
dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri. All’elezione partecipano tre
delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia
assicurata la rappresentanza delle minoranze. La Valle d’Aosta ha un solo
delegato. L’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio
segreto a maggioranza di due terzi dell’assemblea. Dopo il terzo scrutinio è
sufficiente la maggioranza assoluta".
Qui si richiama forma e sostanza dell’art. 1. La sovranità popolare esprime,
attraverso i suoi rappresentanti, la scelta del Presidente della Repubblica.
"Art. 88. Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti,
sciogliere le Camere o anche una sola di esse". "Il Consiglio dei Ministri. Art.
92. Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei
Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente
della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta
di questo, i Ministri".
L’art. 88 e 92 sono articoli formali. Norme che delegano al Presidente della
Repubblica, con il ruolo di notaio, la verifica di una maggioranza parlamentare
democraticamente eletta per esercitare la sovranità popolare di cui all’articolo
1: Se c'è una maggioranza si forma un Governo sostenuto da essa; se non c'è una
maggioranza, non c'è Governo e quindi si va a votare per trovarne una nuova.
Si va contro l’articolo 1 (non a caso primo articolo dei principi generali) e
quindi contro la Costituzione se alla volontà popolare che esprime un Governo
che mira alla tutela degli interessi nazionali si impone la volontà di un
singolo (il Presidente della Repubblica) che antepone qualsiasi altra ragione
tra cui i principi dell’art. 10. "L’ordinamento giuridico italiano si conforma
alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute", e dell’art.
art. 11. "L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli
altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali;
consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di
sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra
le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale
scopo".
In conclusione si chiude il parere, affermando che si è concordi con
l’iniziativa della messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica,
anche se il procedimento è complicato e farraginoso, pensato proprio a non dare
esiti positivi, in ossequio ad uno Stato di impuniti. Si è concordi perché
l’Italia è una Repubblica Democratica Parlamentare; non è una Repubblica
Presidenziale.
L'Onnipotenza dei Magistrati.
Art. 104, comma 1, della Costituzione italiana
cattocomunista.
La magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro
potere. (.)
La magistratura
per la destra è un Ordine (come acclarato palesemente), per la sinistra è un
Potere (da loro dedotto dalla distinzione "da ogni altro potere").
Autonomia dei Magistrati: autogoverno con selezione e formazione per
l’omologazione, nomine per la conformità e controllo interno per l’impunità.
Affinchè, cane non mangi cane.
Indipendenza dei Magistrati: decisioni secondo equità e legalità, cioè secondo
scienza e coscienza. Ossia: si decide come cazzo pare, tanto il collega
conferma.
LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.
Il commento del Dr. Antonio Giangrande, esperto di Diritto e di Giustizia, in quanto sul tema ha scritto “Impunitopoli, Legulei ed Impunità” e “Malagiustiziopoli” con “Giustiziopoli”: disfunzioni del sistema che colpiscono la collettività o il singolo. Il quale ritiene i magistrati, unti dal delirio di onnipotenza, gli unici responsabili del degrado sociale, culturale ed economico del nostro paese.
Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa. Al Mef c’è chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza. Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. Eppure la corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C’è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato.
LITURGIA APPARISCENTE
Da Wikipedia si legge. L’Anno giudiziario, nell’ordinamento giudiziario italiano, è il periodo di tempo, corrispondente all’anno solare, nel quale è scandito lo svolgimento dell’attività giudiziaria, attraverso la fissazione del cosiddetto calendario giudiziario. Le modalità di svolgimento della cerimonia sono state modificate recentemente: fino al 2005, per ogni anno giudiziario, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione e il Ministro della giustizia pronunciavano davanti al Presidente della Repubblica e alle altre autorità presenti una relazione generale sull’amministrazione della giustizia. Similmente, i procuratori generali presso ciascuna Corte d’appello comunicavano al Consiglio Superiore della Magistratura e al Ministro della giustizia la relazione per il proprio distretto. Questo in conformità all’articolo 86 del regio decreto n. 12 del 1941, più volte modificato negli anni. Dal 2006, a seguito di una modifica normativa, il Ministro della giustizia rende direttamente comunicazioni al Parlamento, sull’amministrazione della giustizia nell’anno appena trascorso e sugli interventi per l’organizzazione e il funzionamento dei servizi che si intende attuare nell’anno che inizia. Successivamente si riuniscono in forma pubblica e solenne (cioè con la partecipazione di tutte le sezioni, i procuratori generali, i magistrati delle procure generali e i rappresentanti dell’Avvocatura dello Stato) prima la Corte suprema di cassazione e quindi le corti d’appello per ascoltare la relazione generale del Primo Presidente della Corte di cassazione e le relazioni per i singoli distretti dei Presidenti di corte d’appello; si passa quindi agli interventi (facoltativi) dei Procuratori generali e dei rappresentanti dell’Avvocatura dello Stato. L’inizio dell’Anno giudiziario è celebrato con apposite cerimonie solenni (nelle quali i magistrati indossano le toghe cerimoniali di colore rosso e bordate d’ermellino) presso la Corte suprema di cassazione e presso le corti d’appello dei distretti giudiziari italiani. Le cerimonie inaugurali sono occasione di prolusioni dei massimi esponenti dell’ordine giudiziario circa lo stato dell’amministrazione della giustizia nel territorio di competenza. In questo senso assume particolare rilevanza l’inaugurazione dell’Anno giudiziario presso la Corte suprema di cassazione, che precede di un giorno quelle presso i distretti giudiziari, e che si svolge alla presenza del Presidente della Repubblica. Anche i giudici speciali, come la magistratura amministrativa e quella contabile (il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti), ovvero la magistratura militare, hanno una propria cerimonia inaugurale dell’anno giudiziario, che si svolge secondo modalità e con contenuti analoghi a quelli degli organi della magistratura ordinaria.
In queste occasioni si coglie in estrema sintesi la genuflessione dei media all’ordine giudiziario osannandone le virtù artefatte e riportandone le deliranti espressioni. I magistrati, che non vengono da Marte, si sentono e sono essi stessi giudici e legislatori. Il potere in mano al popolo: sia mai.
LITURGIA AUTOREFERENZIALE
In queste manifestazioni pubbliche, spesso, mancano le componenti contraddittorie insite nei processi, ossia l’Ordine degli avvocati. Sovente di leggono delle note, ignorate dai media, come questa: Le Camere penali di Basilicata, di Matera e la Camera penale “Alfredo Marsico” di Lagonegro (Potenza) “hanno deciso di non partecipare alla cerimonia d’inaugurazione dell’anno giudiziario” in programma domani, 24 gennaio, a Potenza, “raccogliendo l’invito dell’Unione Camere penali italiane di disertare una cerimonia ancora autoritaria e appariscente che non consente un concreto dibattito sui problemi della giustizia”.
Il rito stantio delle toghe rossocerimonia, dell’anno giudiziario, è un rito destinato alla liturgica dei monologhi autoreferenziali e dell’elencazione dei problemi della Giustizia da addebitare agli altri.
Excusatio non petita, accusatio manifesta è una locuzione latina di origine medievale. La sua traduzione letterale è “Scusa non richiesta, accusa manifesta”, forma proverbiale in italiano insieme all’equivalente “Chi si scusa, si accusa”.
Il senso di questa locuzione è: se non hai niente di cui giustificarti, non scusarti. Affannarsi a giustificare il proprio operato senza che sia richiesto può infatti essere considerato un indizio del fatto che si abbia qualcosa da nascondere, anche se si è realmente innocenti. Liturgia inutile, i magistrati si autoassolvono.
E così, è andata anche quest’anno. L’Italia, pur sede del Vaticano – specialista in coreografie religiose dalle quali emerge comunque la presenza dello Spirito – si segnala per una particolare tenacia nella ripetizione ad oltranza di liturgie laiche (che è, si badi, una inutile ripetizione, poiché liturgia altro non significa se non “opera del popolo”) tanto ostinate quanto inutili, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”.
Per i magistrati il malfunzionamento della Giustizia va ricondotto alla Prescrizione.
LITURGIA AUTORITARIA
C’è un passaggio della solenne cerimonia del 2015 che traccia un bilancio crudo, amaro. Giorgio Santacroce, primo presidente della Cassazione, parla a un certo punto di «parabola discendente». Si riferisce ai suoi colleghi magistrati, scrive Errico Novi su “Il Garantista”. E se pure parte dalla «campagna irresponsabile di discredito» condotta «per anni» contro le toghe, e dà così la colpa anche alla politica, poi fa una diagnosi assai brutale: siamo davanti a «una situazione di crescente disaffezione verso la magistratura, dopo l’alto consenso dei tempi di Mani pulite è iniziata», appunto, «una parabola discendente».soprattutto, «i magistrati appaiono, anche quando non lo sono, conservatori dell’esistente e portatori di interessi corporativi». Di più: devono superare i loro «arroccamenti », e il richiamo pronunciato «davanti al Csm dal presidente Giorgio Napolitano» deve costituire per loro «un monito perché non ostacolino il rinnovamento, ma anzi si rinnovino essi stessi».
Alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario le toghe finiscono dunque sul banco degli imputati, quanto meno al pari della politica. Le parole di Santacroce sono nette, ancora di più quando parla delle «tensioni» e delle «cadute di stile» che si registrano soprattutto fra i pm. Non è da meno il pg di Cassazione Gianfranco Ciani, che una mezz’ora più tardi interviene a sua volta nell’aula magna del Palazzaccio romano e si scaglia contro quei pm «troppo deboli alle lusinghe della politica». Due relazioni (di cui riportiamo ampi stralci nelle due pagine successive, ndr) che lasciano almeno intravedere una svolta. I riferimenti dei due più alti magistrati della Suprema Corte alle mancanze dei colleghi, ai limiti e alle storture del Csm, al vizio del correntismo in toga, sono numerosissimi.
Si sentono stretti nella morsa. E reagiscono, scrive “Il Garantista”. Dopo le scudisciate della cerimonia in Cassazione, i magistrati delle Corti d’Appello di tutta Italia tentano di replicare ai massimi vertici della Suprema Corte. Venerdì il primo presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani avevano parlato di toghe arroccate nel corporativismo, di pm cedevoli alle lusinghe dei media, di sacche d’inefficienza che il Csm spesso non riconosce. Insomma l’avevano fatta nera. E così nel day after, cioè nella giornata di ieri dominata dalle cerimonie inaugurali nei singoli distretti giudiziari, si è sentito di tutto. Non su Santacroce e Ciani, ma contro l’altro polo del potere: la politica. Si va dalla riforma di Renzi giudicata «ben misera cosa» a Milano al presidente di Reggio Calabria Macrì secondo cui «l’assenza di iniziative legislative di vasta portata» farà affondare «la giustizia nella palude». E poi si contano gli anatemi contro la corruzione che soffoca Roma da parte del presidente capitolino Antonio Marini, il quadro apocalittico delle collusioni tra camorra e e malapolitica di Antonio Buonajuto a Napoli, e insomma una batteria di denunce che stavolta si spostano dai vizi di giudici e pm a quelli delle altre, corrotte istituzioni.
Da Torino è partita la bordata più pesante, scrive “La Stampa”. Il procuratore generale Marcello Maddalena usa l’arma del sarcasmo per affrontare uno dei temi più controversi del piano del governo: «Il presidente del Consiglio non ha trovato niente di meglio che ispirarsi al personaggio di Napoleone della Fattoria degli animali di orwelliana memoria, che aveva scoperto il grande rimedio per tutti i problemi della vita: far lavorare gli altri fino a farli crepare dalla fatica, come il cavallo Gondrano».
Dottor Maddalena, perché questo affondo rivolto al presidente del Consiglio?
«Adottare un decreto di quel tipo, ammissibile solo in casi di necessità e urgenza, significa additare un’intera categoria di fronte all’opinione pubblica considerandola responsabile del cattivo funzionamento della Giustizia. Sono convinto che ciascuno possa dare di più, ma in questo caso i contenuti sono discutibili. E il modo offende».
Eppure aumentano i processi che cadono in prescrizione.
«Appunto. In un panorama segnato da migliaia di processi finiti in prescrizione sostenere che i problemi da affrontare sono le ferie dei magistrati e la responsabilità civile mi pare difficilmente tollerabile».
Durissimo affondo da Maurizio Carbone, segretario nazionale dell’Anm: “Respingiamo fortemente questa idea demagogica che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti”. La proposta di riforma dell’Anm è quella sulla prescrizione. “Non ci possiamo più permettere una prescrizione, soprattutto per i reati di corruzione, che parta dal momento in cui si commette il fatto per tutti e tre i gradi di giudizio. Questo significa non avere una risposta di giustizia. Noi chiediamo – ha concluso Carbone – che i termini di prescrizione vengano sospesi con l’inizio del processo di primo grado o almeno dopo la sentenza di primo grado”.
PER I MAGISTRATI IL CITTADINO DEVE ASPETTARE I LORO COMODI!!
Eppure, secondo lo studio fatto da Dimitri Buffa su “L’Opinione” i procedimenti prescritti sono dimezzati.
Prescrizioni penali rilevate in un decennio
2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013
219.146 189.588 159.703 164.115 154.671 158.335 141.851 128.891 113.057 123.078
Per Sabelli “il tema della responsabilità civile è sempre fondamentale ma – conclude – non può essere mortificato attraverso soluzioni che non tengono conto della giurisdizione e della compatibilità con il principio di indipendenza e autonomia dei magistrati”.
«Basta con lo strapotere delle correnti della magistratura – dice il Premier Matteo Renzi -Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il governo e mi dispiace molto perché penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo – e lo dico, senza giri di parole – che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia: “Il premier ci vuol far CREPARE di lavoro”. Noi vogliamo solo sentenze rapide, giuste. Vogliamo che i colpevoli di tangenti paghino davvero e finalmente con il carcere ma servono le sentenze, non le indiscrezioni sui giornali. L’Italia che è la patria del diritto prima che la patria delle ferie, merita un sistema migliore di giustizia. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi. A chi mi dice: ma sei matto a dire questa cose? Non hai paura delle vendette? Rispondo dicendo che in Italia nessun cittadino onesto deve avere paura dei magistrati».
Dopo il botta e risposta tra l’Associazione nazionale magistrati e il premier Matteo Renzi, una sferzata ai giudici e al loro protagonismo è arrivata anche da Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica, intervenuto al Consiglio superiore della magistratura, ha ribadito che politica e giustizia devono restare separati e che i giudici devo evitare comportamenti «impropriamente protagonistici».
«I Tribunali non sono proprietà dei giudici», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Vogliono rovinare la “festa”. Oggi sarebbe la giornata della giustizia, proclamata dall’Anm per protestare contro la riforma del ministro Orlando e in particolare contro il taglio delle ferie. I penalisti intervengono con una certa, brutale franchezza e mettono in discussione i dati che oggi i magistrati proporranno ai cittadini, per l’occasione liberi di entrare nei Palazzi di giustizia. Intanto, dice il presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci, l’iniziativa del sindacato delle toghe è «la dimostrazione, come se ce ne fosse bisogno, di una concezione proprietaria della giustizia e dei luoghi in cui essa si celebra, da parte dei magistrati». I cittadini, dice, «non hanno bisogno di alcun invito per accedere al Tribunale, luogo sacro in cui si svolgono i processi in nome del popolo italiano». Dopodiché «i numeri forniti dall’Associazione magistrati rischiano di offrire una visione autoreferenziale e alterata della situazione in cui versa la giustizia italiana, nella quale si enfatizza la loro efficienza a tutto discapito di una realtà che ci vede fra i primi paesi in Europa per numero di condanne dalla Corte di Strasburgo». I numeri sono altri, secondo il presidente dei penalisti, «a cominciare dalla sostanziale inattuazione del sistema di controllo sulla responsabilità dei magistrati, dalle frequentissime sentenze di riforma dei giudizi di primo grado, per passare al cospicuo importo dei risarcimenti che lo Stato è costretto ogni anno a pagare per indennizzare le vittime degli errori giudiziari, all’inevitabile ricorso, da parte della magistratura togata, all’ausilio di magistrati onorari, il cui apporto è determinante per il raggiungimento di quegli obiettivi di produttività che la Anm enfatizza». Su una delle “contro-statistiche” proposte da Migliucci interviene anche il cahier de doleance del viceministro della Giustizia Enrico Costa, che dà notizia del boom di risarcimenti per ingiusta detenzione ed errori giudiziari pagati dallo Stato nel 2014. «L’incremento rispetto all’anno precedente è del 41,3%: 995 domande liquidate per un totale di 35 milioni e 255mila euro». Dal 1992, osserva Costa, «l’ammontare delle riparazioni raggiunge così i 580 milioni: sono numeri che devono far riflettere, si tratta di persone che si sono viste private della libertà personale ingiustamente e per le quali lo Stato ha riconosciuto l’errore. Dietro c’è una storia personale, ci sono trepidazioni, ansie, che un assegno, anche di migliaia di euro, non può cancellare». Le contromisure di Parlamento e governo sono note: da una parte la legge sulla custodia cautelare, che naviga ancora in acque incerte, dall’altra quella sulla responsabilità civile dei giudici, prossima all’approvazione della Camera. Sui problemi più generali del processo penale è ora all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio l’atteso ddl del governo, che si accoda al testo base adottato proprio ieri dai deputati sulla prescrizione. «Sono soddisfatta, abbiamo avviato tutti e due i provvedimenti, coerenti tra loro», dice la presidente Donatella Ferranti. Su un altro capitolo della riforma, la soppressione di alcuni Tribunali, arriva dalla Consulta la bocciatura del referendum con cui alcune regioni avevano impugnato le chiusure. Tra queste, c’erano anche le sedi delle zone terremotate dell’Abruzzo.
Eppure c’è ancora un’altra verità che si tace nella liturgia laica giudiziaria.
Sono Procure o nidi di vipere? Si chiede Piero Sansonetti su “Il Garantista”. In un giorno solo tre casi che dovrebbero scuotere la credibilità della magistratura (ma in Italia è difficile scuoterla…). Il più clamoroso è l’atto di accusa dell’architetto Sarno, che è il testimone chiave del processo contro l’ex presidente della Provincia Filippo Penati (Pd). Sarno ha dichiarato: «Lo ho accusato, ingiustamente, perché la Procura mi ha fatto capire che se non lo accusavo non uscivo più di cella». Il secondo caso viene dalla Calabria: una Pm (la dottoressa Ronchi) accusata di abuso di ufficio e falso ideologico per avere provato a incastrare un collega (Alberto Cisterna, all’epoca numero due dell’antimafia nazionale). Il terzo caso è quello del sostituto Procuratore di Milano, Robledo, intercettato (abusivamente?) e affondato giornali se ne occupano poco di queste cose, cioè delle lotte di potere, violentissime, che scuotono la magistratura italiana e lasciano molte vittime sul terreno. Se ne occupano poco non perché le notizie non abbiano un buon interesse giornalistico, semplicemente perché il patto tra giornali e magistratura, che vige da molti anni, ha creato un sistema di assoluta omertà. Vediamo: un sindaco indagato per abuso di ufficio fa un bello scandalo, e sulla base delle leggi vigenti – se condannato in primo grado – porta pressoché automaticamente alla rimozione del sindaco stesso e a elezioni anticipate.
La Sindrome della Menzogna.
I MAGISTRATI E LA SINDROME DELLA MENZOGNA
Quando il Potere giudiziario si nutre di pregiudizi e genera ingiustizia. Così scrive il dr Antonio Giangrande, sociologo storico e scrittore che sul tema ha scritto dei saggi pubblicati.
Parliamo di menzogne nelle aule di giustizia. I magistrati di Taranto del processo sul delitto di Sarah Scazzi, requirenti con a capo il Pubblico Ministero Pietro Argentino e giudicanti con a capo Rina Trunfio, hanno fondato le richieste e le condanne sull’assunto che il delitto di Avetrana è una storia di bugie, pettegolezzi, chiacchiere, depistaggi. Menzogne e reticenze dei protagonisti e dei testimoni e se non questo non bastasse anche di tutta Avetrana.
Ed ecco il paradosso che non ti aspetti. È proprio l’alto magistrato pugliese Pietro Argentino a rischiare di dover fare i conti adesso con la giustizia, dopo che il Tribunale di Potenza, competente per i reati commessi dai magistrati di Taranto, ha disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero per indagare sul reato di falsa testimonianza proprio del procuratore aggiunto Argentino. Il pm dovrà inoltre valutare la posizione di altre 20 persone, tra le quali molti rappresentanti delle forze dell’ordine. La decisione della Corte è arrivata alla fine del processo che ha visto la condanna a 15 anni di reclusione per l’ex pm di Taranto Matteo Di Giorgio, condannato per concussione e corruzione semplice.
Eppure Pietro Argentino è anche il numero due della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati.
Ciò nonostante a me tocca difendere proprio i magistrati Tarantini che di me hanno fatto carne da macello, facendomi passare senza successo autore della loro stessa infamia, ossia di essere mitomane, bugiardo e calunniatore.
Come dire: son tutti bugiardi chi sta oltre lo scranno del giudizio. Ma è proprio così?
Silenzio in aula, prego. Articolo 497 comma 2 del Codice Penale, il testimone legga ad alta voce: «Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza». Il microfono fischia, la voce si impaccia, qualcuno tentenna sul significato della parola «consapevole». Poi iniziano a piovere menzogne. Il giudice di Aosta Eugenio Gramola – sì, quello del caso Cogne – ha lanciato l’allarme a Niccolò Canzan sul suo articolo su “La Stampa” : «Ci prendono per imbecilli. È incredibile come mentano con facilità davanti al giudice. Sfrontati, fantasiosi. Senza la minima cura per la plausibilità del racconto. Orari impossibili, contraddizioni lampanti, pasticci. L’incidenza dei falsi testimoni è molto superiore a una media fisiologica, si attesta tra il 70 e l’80 per cento». Sette su dieci mentono, in Valle d’Aosta. Sembra uno di quei casi in cui la geografia potrebbe significare qualcosa. L’Italia un Paese di bugiardi, quasi una tara nel codice genetico: «Chi mente al giudice è furbo – dice Gramola -. Essere bugiardo fa ridere, piace, non comporta disvalore sociale. Mentre indicare la menzogna come un grave atto contro la Giustizia è da biechi moralisti e puritani». Totò e Peppino erano all’avanguardia, è risaputo. «Caffè, panini, false testimonianze!», urlavano nel 1959 nel film «La Cambiale». Dall’alto della civilissima Valle d’Aosta, al cospetto di storie magari più piccole eppure significative, il giudice Gramola ha un guizzo d’orgoglio: «Certe volte, più che a testimoni ci troviamo di fronte ad amici delle parti in conflitto. E questi bugiardi sono poi magari gli stessi che si scagliano contro una giustizia che non funziona».
D’altro canto la procura di Milano ha rinviato a giudizio tutti i testimoni della difesa nel cosiddetto “processo Rubi”, che sono 42, più i due avvocati della difesa: in tutto 44. Ora, pensare che 42 testimoni fra i quali deputati, senatori, giornalisti, funzionari di polizia abbiano, tutti, giurato il falso, è una cosa a dir poco stravagante, scrive Luigi Barozzi. Il capo d’accusa non è ancora definito, ma andrà probabilmente dalla falsa testimonianza alla corruzione in atti giudiziari. In soprannumero, anche i legali verranno rinviati a giudizio, e al normale cittadino sorgono alcuni dubbi.
– E’ mai possibile che 42 persone, di varia provenienza sociale e professionale, siano tutti bugiardi-spergiuri o peggio?
– E’ mai possibile che lo siano pure i legali della difesa i quali, in un società civile, incarnano un principio quasi sacro: il diritto dell’imputato, anche se si tratta della persona peggiore del mondo, di essere difeso in giudizio?
– Non sarà, per caso, che la sentenza fosse già scritta e che il disturbo arrecato dai testi della difesa alla suddetta sentenza abbia irritato la Procura di Milano tanto da farle perdere la trebisonda?
Trattando il tema della menzogna ci si imbatte frequentemente in definizioni che fanno uso di molti sinonimi quali inganno, errore, finzione, burla, ecc…, le quali, anziché restringere i confini semantici del concetto di menzogna, tendono ad allargarli creando spesso confusione, scrive Il valore positivo della bugia – Dott.ssa Maria Concetta Cirrincione – psicologa. Un primo tentativo per circoscrivere tale area semantica consiste nel definire la differenza tra menzogna e inganno. La menzogna e il suo sinonimo bugia, usato prevalentemente in relazione all’infanzia, và considerata una modalità tra le altre di ingannare, perciò possiamo definirla come una sorta di “sottoclasse “ dell’inganno. La sua caratteristica distintiva consiste nel fatto di essere essenzialmente un atto comunicativo di tipo linguistico, ossia la rivelazione di un contenuto falso attraverso la comunicazione verbale o scritta. Questo impone la presenza di almeno un comunicatore, di un ricevente e di un messaggio verbale che non corrisponde a verità. L’inganno si esplica invece, non solo attraverso l’atto comunicativo della menzogna, ma anche attraverso comportamenti tesi ad incidere sulle conoscenze, motivazioni, aspettative dell’interlocutore. (De Cataldo Neuburgher L. , Gullotta G., 1996). Secondo questa prospettiva, l’omissione di informazioni non è tanto una menzogna, quanto un inganno. La comunicazione è una condizione sufficiente ma non necessaria perché si possa ingannare. A volte si inganna facendo in modo che:
– l’altro sappia qualcosa di non vero (es: A va sul tetto e fa cadere acqua dalla grondaia, B vede l’acqua e viene ad assumere che piove);
– l’altro creda qualcosa di non vero (es: B guardando l’acqua fuori dalla finestra, commenta: “piove”, e A non lo smentisce);
– l’altro non venga a conoscenza della verità (A chiude l’altra finestra dalla quale non si vede l’acqua cadere, in modo che B continui a credere il falso);
L’inganno, quindi, si esplica attraverso qualsiasi canale verbale e non verbale (mimica facciale, gestualità, tono di voce), mentre la menzogna utilizza specificatamente il canale verbale. Mentire è un comportamento diffuso, tipicamente umano, non è tipico dell’adolescenza, né necessariamente un indice di psicopatologia; di solito viene valutato infatti da un punto di vista etico più che psicopatologico. Non appena i bambini sono in grado di utilizzare il linguaggio con sufficiente competenza sperimentano la possibilità di affermare a parole una verità del desiderio e del sentimento diversa da quella oggettiva.
E’ noto che i bambini non hanno la stessa proprietà di linguaggio degli adulti, per cui spesso gli adulti chiamano bugia ciò che per il bambino è espressione di paure, di bisogno di rassicurazione o di percezione inesatta della realtà. Si può parlare di bugia quando si nota l’intenzione di “barare”, e comporta un certo livello di sviluppo. Nei bambini avviene come messa alla prova per misurare poi la reazione degli adulti al suo comportamento. Nel crescere assume anche altri significati poiché dipende da diverse variabili; può dipendere dalla situazione che si sta vivendo, dalla persona alla quale è rivolta o dallo scopo che si vuole raggiungere. E’ utile pertanto una classificazione che ci permetta di orientarci meglio al suo interno, sebbene tale classificazione può risultare artificiosa dal momento che i vari tipi di menzogna tendono spesso a sovrapporsi e a confondersi tra loro. Si possono distinguere (Lewis M., Saarni C. , 1993):
bugie caratteriali (bugie di timidezza, bugie di discolpa, bugie gratuite);
bugie di evitamento (evitare la punizione, difendere la privacy);
bugie di difesa (bugie per proteggere se stessi o gli altri);
bugie di acquisizione (bugie per acquistare prestigio, per ottenere un vantaggio);
bugie alle quali lo stesso autore crede (pseudologie);
BUGIE DI TIMIDEZZA: una motivazione che può spingere a raccontare bugie è la timidezza. Alla sua radice c’è una concezione negativa di se stessi; i timidi affrontano la vita con la sensazione di essere inferiori rispetto alla maggioranza degli altri esseri umani e questo modo di pensare condiziona le loro relazioni in molteplici modi. Uno di questi è la tendenza a raccontare menzogne per apparire migliori agli occhi degli altri, per nascondersi, per evitare situazioni sociali nelle quali si sentirebbero inadeguati e imbarazzati.
BUGIE DI DISCOLPA: ci sono menzogne che derivano dalla necessità di discolparsi da accuse più o meno fondate. E’ un atteggiamento diffuso nei bambini che può permanere in soggetti adulti insicuri nei quali spesso si riscontra un sentimento d’inferiorità e l’incapacità di affrontare le proprie responsabilità.
BUGIE GRATUITE: generalmente dietro alla maggior parte delle bugie si nasconde un bisogno, un desiderio, uno scopo che il soggetto vuole raggiungere. Spesso invece ci troviamo di fronte a menzogne che non lasciano intuire che cosa vuole raggiungere il soggetto, sono le bugie che vengono raccontare per puro divertimento, per allegria, per dare sfogo alla fantasia.
BUGIE PER EVITARE LA PUNIZIONE: evitare la punizione è un motivo molto comune delle bugie degli adulti, ma prevalentemente dei bambini. Questi ultimi imparano a mentire ben presto quando si rendono conto di aver commesso una trasgressione, già a 2-3 anni essi sono in grado di attuare degli inganni in contesti naturali come la famiglia.
BUGIE PER DIFENDERE LA PRIVACY: la salvaguardia della privacy è un motivo che spinge spesso i ragazzi adolescenti, ma anche gli adulti, a raccontare bugie. Nell’adolescenza emerge nei ragazzi il bisogno di crearsi uno spazio proprio, di decidere se raccontare o meno le loro esperienze e le loro emozioni. Se da un lato ciò deve essere rispettato dai genitori, dall’altro costituisce un problema a causa del loro bisogno di protezione nei confronti del figlio.
BUGIE PER PROTEGGERE SE STESSI O GLI ALTRI: nella vita di ogni giorno ci sono svariate situazioni che portano una persona a mentire per proteggere se stessa o i sentimenti di persone care. Se alla nostra festa di compleanno riceviamo un regalo che non ci piace o quanto meno lo consideriamo inutile, è molto improbabile che lo diremo chi ce l’ha donato; è probabile invece che, dissimulando la delusione, ci mostreremo entusiasti. Gli adulti mentono per cortesia e questa regola sociale viene ben presto assimilata anche dai bambini. Essi imparano a proteggere i sentimenti degli altri attraverso un’istruzione diretta data dai genitori, ma anche indirettamente osservandone il comportamento.
BUGIE PER ACQUISTARE PRESTIGIO: sono delle bugie compensatorie che traducono non tanto la ricerca di un beneficio concreto, ma la ricerca di un’immagine che il soggetto ritiene perduta o inaccessibile: si inventa una famigli più ricca, più nobile o più sapiente, si attribuisce dei successi scolastici o lavorativi. In realtà questa bugia è da considerarsi normale nell’infanzia e finchè occupa un posto ragionevole nell’immaginazione del bambino. Tale condotta viene considerata banale fino ai 6 anni, la sua persistenza oltre tale età segnala invece spesso delle alterazioni psicopatologiche.
PSEUDOLOGIE: sono delle bugie alle quali lo stesso autore crede. Più specificatamente viene definita “pseudologia fantastica” una situazione intenzionale e dimostrativa di esperienze impossibili e facilmente confutabili (Colombo, 1997). E’ un puro frutto di immaginazione presente in bugiardi patologici ed è una caratteristica tipica della Sindrome di Mùnchausen.
AUTOINGANNO: il mentire a se stessi è un particolare tipo di menzogna che ci lascia interdetti e confusi dal momento che il soggetto è contemporaneamente ingannatore e ingannato. L’autoinganno è l’inganno dell’Io operato dall’Io, a vantaggio o in rapporto all’Io (Rotry, 1991). In esso vengono messi in atto meccanismi di difesa come la razionalizzazione e la denegazione. Attraverso la razionalizzazione il soggetto inventa spiegazioni circa il comportamento proprio o altrui che sono rassicuranti o funzionali a se stesso, ma non corrette. Il soggetto da un lato può celare a se stesso la reale motivazione di alcuni comportamenti ed emozioni, e dall’altro riesce a nascondere ciò che sa inconsciamente e non vuole conoscere. Attraverso la denegazione, invece, il soggetto rifiuta di riconoscere qualche aspetto della realtà interna o esterna evidente per gli altri. Potremo fare l’esempio dell’alcolista che mente a se stesso dicendosi che non ha nessun problema o delle famiglie in cui si fa “finta di niente, finta di non capire”.
Intanto per i magistrati coloro che si presentano al loro cospetto son tutti bugiardi. Persino i loro colleghi che usano lo stesso sistema di giudizio per l’altrui valutazione.
Eppure Pietro Argentino è il numero 2 della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati, scrive Augusto Parboni su “Il Tempo”. È l’alto magistrato pugliese Pietro Argentino a rischiare di dover fare i conti adesso con la giustizia, dopo che il Tribunale di Potenza, competente per i reati commessi dai magistrati di Taranto, ha disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero per indagare sul reato di falsa testimonianza proprio del procuratore aggiunto Argentino. Il pm dovrà inoltre valutare la posizione di altre 20 persone, tra le quali molti rappresentanti delle forze dell’ordine. La decisione della Corte è arrivata alla fine del processo che ha visto la condanna a 15 anni di reclusione per l’ex pm di Taranto Matteo Di Giorgio, condannato tre giorni fa per concussione e corruzione semplice. Al termine del processo, ecco abbattersi sulla procura di Taranto la pensate tegola della trasmissione degli atti per indagare proprio su chi ricopre un ruolo di vertice nella procura pugliese. Argentino è a capo del pool che ha chiesto il rinvio a giudizio, tra l’altro, del presidente della Puglia, Nichi Vendola, nell’ambito delle indagini sulle emissioni inquinanti dello stabilimento Ilva. Vendola è accusato di concussione in concorso con i vertici dell’Ilva, per presunte pressioni sull’Arpa Puglia affinché «ammorbidisse» la pretesa di ridurre e rimodulare il ciclo produttivo dello stabilimento siderurgico. Attraverso quel – le presunte pressioni, Vendola – secondo la procura – avrebbe minacciato il direttore Arpa Giorgio Assennato, «inducendolo a più miti consigli», approfittando del fatto che Assennato fosse in scadenza di mandato e che rischiasse di non essere riconfermato. Accusa sempre respinta da Vendola.
Quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero, scrive “Il Quotidiano di Puglia”. È un terremoto che si abbatte sul palazzo di giustizia di Taranto la sentenza che il Tribunale di Potenza ha pronunciato nei confronti dell’ex pubblico ministero della procura di Taranto Matteo Di Giorgio. Un terremoto anche perché i giudici potentini – competenti per i procedimenti che vedono coinvolti magistrati tarantini – hanno disposto la trasmissione degli atti alla Procura perché valuti la sussistenza del reato di falsa testimonianza a carico del procuratore aggiunto di Taranto, Pietro Argentino, e l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci, di Gallipoli.
Il Tribunale di Potenza ha condannato a 15 anni di reclusione l’ex pubblico ministero di Taranto, Matteo Di Giorgio, accusato di concussione e corruzione in atti giudiziari, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Come pena accessoria è stata disposta anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. La pubblica accusa aveva chiesto la condanna alla pena di 12 anni e mezzo. Il Tribunale di Potenza (presidente Gubitosi), competente a trattare procedimenti in cui sono coinvolti magistrati in servizio presso la Corte d’appello di Lecce, ha inoltre inflitto la pena di tre anni di reclusione all’ex sindaco di Castellaneta (Taranto) Italo D’Alessandro e all’ex collaboratore di quest’ultimo, Agostino Pepe; 3 anni e 6 mesi a Giovanni Coccioli, 2 anni a Francesco Perrone, attuale comandante dei vigili urbani a Castellaneta, 2 anni ad Antonio Vitale e 8 mesi a un imputato accusato di diffamazione. L’ex pm Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Csm, fu arrestato e posto ai domiciliari nel novembre del 2010. Le contestazioni riguardano presunte minacce in ambito politico e ai danni di un imprenditore, altre per proteggere un parente, e azioni dirette a garantire l’attività di un bar ritenuto dall’accusa completamente abusivo. Il magistrato secondo l’accusa, ha anche minacciato di un “male ingiusto” un consigliere comunale di Castellaneta, costringendolo a dimettersi per provocare lo scioglimento del Consiglio comunale e assumere una funzione di guida politica di uno schieramento. L’ex sindaco di Castellaneta ed ex parlamentare dei Ds Rocco Loreto, che presentò un dossier a Potenza contro il magistrato, e un imprenditore, si sono costituiti parte civile ed erano assistiti dall’avv. Fausto Soggia. Il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono cui l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Complessivamente il Tribunale ha trasmesso alla procura gli atti relativi alle testimonianze di 21 persone, quasi tutti carabinieri e poliziotti. Tra questi l’ex vicequestore della polizia di Stato Michelangelo Giusti.
Le indagini dei militari del nucleo operativo e della sezione di polizia giudiziaria dei carabinieri di Potenza coordinati dal pm Laura Triassi erano partite nel 2007, scrive “Il Quotidiano Web”. Lo spunto era arrivato dall’esposto di un ex assessore di Castellaneta, Vito Pontassuglia, che ha raccontato di aver spinto alle dimissioni un consigliere comunale, nel 2001, paventandogli un possibile arresto del figlio e del fratello per droga da parte del pm Di Giorgio. Quelle dimissioni che avrebbero causato le elezioni anticipate spianando la strada agli amici del pm, e a lui per l’incarico di assessore della giunta comunale. Gli interessi del magistrato nelle vicende politiche del paese avrebbero incrociato, sempre nel 2007, le ambizioni dell’ex senatore Rocco Loreto, un tempo amico di Di Giorgio, ma in seguito arrestato per calunnia nei suoi confronti, che si era candidato come primo cittadino. Di Giorgio è stato condannato anche al risarcimento dei danni subiti da Loreto, da suo figlio e da Pontassuglia. Per lui la richiesta dell’accusa si era fermata a 12 anni e mezzo di reclusione. Le motivazioni della decisione verranno depositate entro 90 giorni, ma non mi sorprende il fatto che esse conterranno il riferimento alla dubbia credibilità di imputati e testimoni.
Le Compatibilità elettive
LE COMPATIBILITA’ ELETTIVE. IO SON IO E TU NON
SEI UN C…
QUANDO IL DNA GIUDICANTE E’ QUESTIONE DI FAMIGLIA.
Come la legislazione si conforma alla volontà ed agli interessi dei magistrati.
Un’inchiesta svolta in virtù del diritto di critica storica e tratta dai saggi
di Antonio Giangrande “Impunitopoli. Legulei ed impunità” e “Tutto su Messina.
Quello che non si osa dire”.
Marito giudice e moglie avvocato nello stesso tribunale: consentito o no? Si
chiede Massimiliano Annetta il 25 gennaio 2017 su “Il Dubbio”. Ha destato
notevole scalpore la strana vicenda che si sta consumando tra Firenze e Genova e
che vede protagonisti due medici, marito e moglie in via di separazione, e un
sostituto procuratore della Repubblica, il tutto sullo sfondo di un procedimento
penale per il reato di maltrattamenti in famiglia. Secondo il medico, il pm che
per due volte aveva chiesto per lui l’archiviazione, ma poi, improvvisamente,
aveva cambiato idea e chiesto addirittura gli arresti domiciliari – sia l’amante
della moglie. Il tutto sarebbe corredato da filmati degni di una spy story.
Ebbene, devo confessare che questa vicenda non mi interessa troppo. Innanzitutto
per una ragione etica, ché io sono garantista con tutti; i processi sui giornali
non mi piacciono e, fatto salvo il sacrosanto diritto del pubblico ministero di
difendersi, saranno i magistrati genovesi (competenti a giudicare i loro
colleghi toscani) e il Csm a valutare i fatti. Ma pure per una ragione estetica,
ché l’intera vicenda mi ricorda certe commediacce sexy degli anni settanta e, a
differenza di Quentin Tarantino, non sono un cultore di quel genere
cinematografico.
Ben più interessante, e foriero di sorprese, trovo, di contro, l’intero tema
della incompatibilità di sede dei magistrati per i loro rapporti di parentela o
affinità. La prima particolarità sta nel fatto che l’intera materia è regolata
dall’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, che la prevede solo per i
rapporti con esercenti la professione forense, insomma gli avvocati. Ne discende
che, per chi non veste la toga, di incompatibilità non ne sono previste, e
quindi può capitare, anzi capita, ad esempio, che il pm d’assalto e il cronista
sempre ben informato sulle sue inchieste intrattengano rapporti di cordialità
non solo professionale. Ma tant’è.
Senonché, pure per i rapporti fra avvocati e magistrati la normativa è
quantomeno lacunosa, poiché l’articolo 18 del regio decreto 30.1.1941 n. 12, che
regola la materia, nella sua formulazione originale prevedeva l’incompatibilità
di sede solo per “i magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e
dei tribunali […] nei quali i loro parenti fino al secondo grado o gli affini in
primo grado sono iscritti negli albi professionali di avvocato o di
procuratore”. Insomma, in origine, e per decenni, si riteneva ben più
condizionante un nipote di una moglie, e del resto non c’è da sorprendersi, la
norma ha settantasei anni e li dimostra tutti; infatti, all’epoca
dell’emanazione della disciplina dell’ordinamento giudiziario le donne non erano
ammesse al concorso in magistratura ed era molto limitato pure l’esercizio da
parte loro della professione forense.
Vabbe’, vien da dire, ci avrà pensato il Csm a valorizzare la positiva
evoluzione del ruolo della donna nella società, ed in particolare, per quanto
interessa, nel campo della magistratura e in quello dell’avvocatura. E qui
cominciano le soprese, perché il Cxm con la circolare 6750 del 1985 che pur
disciplinava ex novo la materia di cui all’articolo 18 dell’ordinamento
giudiziario, ribadiva che dovesse essere “escluso che il rapporto di coniugio
possa dar luogo a un’incompatibilità ai sensi dell’art. 18, atteso che la
disciplina di tale rapporto non può ricavarsi analogicamente da quella degli
affini”. Insomma, per l’organo di governo autonomo (e non di autogoverno come si
suol dire, il che fa tutta la differenza del mondo) della magistratura, un
cognato è un problema, una moglie no, nonostante nel 1985 di donne magistrato e
avvocato fortunatamente ce ne fossero eccome. Ma si sa, la cosiddetta
giurisprudenza creativa, magari in malam partem, va bene per i reati degli
altri, molto meno per le incompatibilità proprie.
Della questione però si avvede il legislatore, che, finalmente dopo ben
sessantacinque anni, con il decreto legislativo 109 del 2006, si accorge che la
situazione non è più quella del ‘41 e prevede tra le cause di incompatibilità
pure il coniuge e il convivente che esercitano la professione di avvocato.
Insomma, ora il divieto c’è, anzi no. Perché a leggere la circolare del Csm
12940 del 2007, successivamente modificata nel 2009, si prende atto della
modifica normativa, ma ci si guarda bene dal definire quello previsto dal
novellato articolo 18 come un divieto tout court, bensì lo si interpreta come
una incompatibilità da accertare in concreto, caso per caso, e solo laddove
sussista una lesione all’immagine di corretto e imparziale esercizio della
funzione giurisdizionale da parte del magistrato e, in generale, dell’ufficio di
appartenenza. In definitiva la norma c’è, ma la si sottopone, immancabilmente,
al giudizio dei propri pari. E se, ché i costumi sociali nel frattempo si sono
evoluti, non c’è “coniugio o convivenza”, ma ben nota frequentazione
sentimentale? Silenzio di tomba: come detto, l’addictio in malam partem la si
riserva agli altri. Del resto, che il Csm sia particolarmente indulgente con i
magistrati lo ha ricordato qualche giorno fa pure il primo presidente della
Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, dinanzi al Plenum di Palazzo dei
Marescialli, ha voluto evidenziare come “il 99% dei magistrati” abbia “una
valutazione positiva (in riferimento al sistema di valutazione delle toghe, ndr).
Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale
complessa”.
Insomma, può capitare, e capita, ad esempio, che l’imputato si ritrovi, a
patrocinare la parte civile nel suo processo, il fidanzato o la fidanzata del pm
requirente.
E ancora, sempre ad esempio, può capitare, e capita, che l’imputato che debba
affrontare un processo si imbatta nella bacheca malandrina di un qualche social
network che gli fa apprendere che il magistrato requirente che ne chiede la
condanna o quello giudicante che lo giudicherà intrattengano amichevoli
frequentazioni con l’avvocato Tizio o con l’avvocata Caia. Innovative forme di
pubblicità verrebbe da dire.
Quel che è certo, a giudicare dalle rivendicazioni del sindacato dei magistrati,
è che le sempre evocate “autonomia e indipendenza” vengono, evidentemente, messe
in pericolo dal tetto dell’età pensionabile fissato a settant’anni anziché a
settantacinque, ma non da una disciplina, che dovrebbe essere tesa preservare
l’immagine di corretto ed imparziale esercizio della funzione giurisdizionale,
che fa acqua da tutte le parti.
Al fin della licenza, resto persuaso che quel tale che diceva che i magistrati
sono “geneticamente modificati” dicesse una inesattezza. No, non sono
geneticamente modificati, semmai sono “corporativamente modificati”, secondo
l’acuta definizione del mio amico Valerio Spigarelli. E questo è un peccato
perché in magistratura c’è un sacco di gente che non solo è stimabile, ma è
anche piena di senso civico, di coraggio e di serietà e che è la prima ad essere
lesa da certe vicende più o meno boccaccesche. Ma c’è una seconda parte lesa,
alla quale noi avvocati – ma, a ben vedere, noi cittadini – teniamo ancora di
più, che è la credibilità della giurisdizione, che deve essere limpida,
altrimenti sovviene la sgradevole sensazione di nuotare in uno stagno.
Saltando di palo in frasca, come si suo dire, mi imbatto in questa notizia.
Evidentemente quello che vale per gli avvocati non vale per gli stessi
magistrati.
Uccise il figlio, condanna ridotta a 18 anni di reclusione per un 66enne
barcellonese, scrive il 22 febbraio 2017 “24live.it”. Condanna ridotta a 18 anni
per il 66enne muratore barcellonese Cosimo Crisafulli che nel maggio del 2015
uccise con un colpo di fucile il figlio Roberto, al termine di una lite
verificatisi nella loro abitazione di via Statale Oreto. Nel giugno 2016 per
l’uomo, nel giudizio del rito abbreviato davanti al Gup del tribunale di
Barcellona Pozzo di Gotto, Salvatore Pugliese, era arrivata la condanna a 30
anni di reclusione. La Corte d’Assise d’Appello di Messina, che si è pronunciata
ieri, presieduta dal giudice Maria Pina Lazzara, ha invece ridotto di 12 anni la
condanna, sebbene il sostituto procuratore generale, Salvatore Scaramuzza,
avesse richiesto la conferma della condanna emessa in primo grado. Decisiva per
il 66enne la concessione delle attenuanti generiche ritenute equivalenti alle
aggravanti, richieste già in primo grado dall’avvocato Fabio Catania, legale del
66enne Cosimo Crisafulli.
Cosa c’è di strano direte voi.
E già. Se prima si è parlato di incompatibilità tra magistrati e parenti
avvocati, cosa si potrebbe dire di fronte ad un paradosso?
Leggo dal post pubblicato il 2 febbraio 2018 sul profilo facebook di Filippo
Pansera, gestore di Messina Magazine, Tele time, Tv Spazio e Magazine Sicilia.
“Nel 2016, la dottoressa Maria Pina Lazzara presidente della Corte d’Assise
d’Appello di Messina, nonchè al vertice della locale Sezione di secondo grado
minorile emetteva questa Sentenza riformando il giudizio di primo grado statuito
dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto. L’accusa era rappresentata in
seconde cure, dall’ex sostituto procuratore generale Salvatore Scaramuzza (oggi
in pensione). La dottoressa Lazzara ed il dottor Scaramuzza… sono marito e
moglie dunque per la presidente della Corte vi era una incompatibilità ex
articolo 19 dell’Ordinamento Giudiziario. Invece come al solito, estese
ugualmente il provvedimento giudiziario… che è dunque da intendersi nullo.
Inoltre, malgrado il dottor Salvatore Scaramuzza sia andato in pensione, la
dottoressa Lazzara è comunque incompatibile anche al giorno d’oggi nel 2018.
Salvatore Scaramuzza e Maria Pina Lazzara infatti, hanno una figlia… Viviana…
anch’essa magistrato che opera presso Barcellona Pozzo di Gotto in tabella 4 dal
2017. Sempre ex articolo 19 dell’Ordinamento Giudiziario, madre e figlia non
possono esercitare nello stesso Distretto Giudiziario… come invece succede ora
ed in costanza di violazione di Legge. A Voi…, il giudizio.”
Si rettifica un errore di persona. Maria Pina Lazzara non è moglie del dr
Scaramuzza e Viviana Scaramuzza non è sua figlia. Nel saggio si è riportato un
post di un direttore di un portale d’informazione. Un giornalista a cui spetta
la verifica delle fonti.
Sarebbe interessante, però, sapere di quanti paradossi sono costellata i
distretti giudiziari italiani.
Art. 19 dell’Ordinamento Giudiziario. (Incompatibilità di sede per rapporti di
parentela o affinità con magistrati o ufficiali o agenti di polizia giudiziaria
della stessa sede).
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al
secondo grado, di coniugio o di convivenza, non possono far parte della stessa
Corte o dello stesso Tribunale o dello stesso ufficio giudiziario.
La ricorrenza in concreto dell’incompatibilità di sede è verificata sulla base
dei criteri di cui all’articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al terzo
grado, di coniugio o di convivenza, non possono mai fare parte dello stesso
Tribunale o della stessa Corte organizzati in un’unica sezione ovvero di un
Tribunale o di una Corte organizzati in un’unica sezione e delle rispettive
Procure della Repubblica, salvo che uno dei due magistrati operi esclusivamente
in sezione distaccata e l’altro in sede centrale.
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità fino al
quarto grado incluso, ovvero di coniugio o di convivenza, non possono mai far
parte dello stesso collegio giudicante nelle corti e nei tribunali.
I magistrati preposti alla direzione di uffici giudicanti o requirenti della
stessa sede sono sempre in situazione di incompatibilità, salvo valutazione caso
per caso per i Tribunali o le Corti organizzati con una pluralità di sezioni per
ciascun settore di attività civile e penale. Sussiste, altresì, situazione di
incompatibilità, da valutare sulla base dei criteri di cui all’articolo 18,
secondo comma, in quanto compatibili, se il magistrato dirigente dell’ufficio è
in rapporto di parentela o affinità entro il terzo grado, o di coniugio o
convivenza, con magistrato addetto al medesimo ufficio, tra il presidente del
Tribunale del capoluogo di distretto ed i giudici addetti al locale Tribunale
per i minorenni, tra il Presidente della Corte di appello o il Procuratore
generale presso la Corte medesima ed un magistrato addetto, rispettivamente, ad
un Tribunale o ad una Procura della Repubblica del distretto, ivi compresa la
Procura presso il Tribunale per i minorenni.
I magistrati non possono appartenere ad uno stesso ufficio giudiziario ove i
loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, svolgono
attività di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. La ricorrenza in concreto
dell’incompatibilità è verificata sulla base dei criteri di cui all’articolo 18,
secondo comma, per quanto compatibili.
Si sa che chi comanda detta legge e non vale la forza della legge, ma la legge
del più forte.
I magistrati son marziani. A chi può venire in mente che al loro tavolo, a cena,
lor signori, genitori e figli, disquisiscano dei fatti di causa approntati nel
distretto giudiziario comune, o addirittura a decidere su requisitorie o giudizi
appellati parentali?
A me non interessa solo l’aspetto dell’incompatibilità. A me interessa la
propensione del DNA, di alcune persone rispetto ad altre, a giudicare o ad
accusare, avendo scritto io anche: Concorsopoli.
«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all’unanimità presidente
della Corte d’Appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello,
rettore dell’Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao».
Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d’appello di
Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e
dirigente dell’Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di
Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di
euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola
intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come
quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio
figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte
d’appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi
dall’ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano
è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria
Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della
facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di
diritto privato. Senza nessun problema perché non c’erano altri candidati, anche
perché molti aspiranti, come ha accertato l’indagine, vengono minacciati perché
non si presentino. Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di
Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un’inchiesta sulle
raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da fare con
il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri
guai dunque per l’ateneo che, come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi,
è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore,
Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo
prossimo insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario
titolo imputati di concussione, abuso d’ ufficio in concorso, falso, tentata
truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le
pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E
in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta
Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di
«mazzette», una società che si era aggiudicata l’appalto, per quasi due milioni
di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa
appena 300 mila euro. L’inchiesta sull’ateneo messinese dunque è tutt’altro che
conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti
dell’inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far
svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del
rettore. Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della
Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di
fare sparire dall’ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd
al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini
«se intende costituirsi parte civile a tutela dell’immagine degli atenei e
inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina».
(Repubblica — 20 novembre 2008 pagina 20, sezione: cronaca).
Eppure è risaputo come si svolgono i concorsi in magistratura.
Roma, bigliettini negli slip al concorso magistrati. Bufera sulle perquisizioni
intime. Nel mirino della polizia oltre 40 persone sospettate di aver occultato
le tracce: cinque candidate espulse, scrive Roberto Damiani il 2 febbraio 2018
su “Quotidiano.net. Il concorso in magistratura iniziato il 20 gennaio a Roma
per 320 posti (sono state presentate 13.968 domande) rischia di diventare una
questione da intimissimi. Nel senso di slip. Perché attraverso le mutandine sono
state espulse diverse candidate. Stando a ciò che trapela, i commissari d’esame
hanno mandato a casa cinque candidate e c’era incertezza su una sesta. Tutte
hanno avuto una perquisizione totale, cioè la polizia penitenziaria femminile ha
fatto spogliare completamente le candidate perché sospettate di nascondere
qualcosa. E su circa 40 controlli corporali totali, cinque o forse sei ragazze
avevano foglietti con dei temi (non gli stessi poi usciti per la prova) negli
slip. E per queste candidate, non c’è stata giustificazione che potesse tenere:
sono state espulse immediatamente. La polemica delle perquisizioni fino a
doversi abbassare le mutande è divampata per un post della candidata Cristiana
Sani che denunciava l’offesa di doversi denudare: «Ero in fila per il bagno
delle donne – ha scritto su Facebook la candidata – arrivano due poliziotte, le
quali si avvicinano alla nostra fila e iniziano a perquisire una ad una le
ragazze in fila. Me compresa. Io lì per lì non ho capito quello che stesse
succedendo, non me lo aspettavo, visto che durante le due giornate precedenti
non avevo avuto esperienze simili». «Capisco – continua Cristiana – che c’è un
problema nel momento in cui una ragazza esce dal bagno piangendo. Tocca a me e
loro mi dicono di mettermi nell’angolo (non del bagno, ma del corridoio, con
loro due davanti che mi fanno da paravento) per la perquisizione. Non mi mettono
le mani addosso, sono sincera. Mi fanno tirare su maglia e canotta, davanti e
dietro. Mi fanno slacciare il reggiseno. Poi giù i pantaloni. Ma la cosa
scioccante è stata quando mi hanno chiesto di tirare giù le mutande. Io mi stavo
vergognando come la peggiore delle criminali e le ho tirate giù di mezzo
millimetro. A quel punto mi hanno detto: ‘Dottoressa, avanti! Si cali le
mutande. Ancora più giù, faccia quasi per togliersele e si giri. Cos’è? Ha il
ciclo, che non se le vuole tirare giù?!’. Mi sono rifiutata, rivestita e tornata
al mio posto ma ero allibita. Questa si chiama violenza». Nel forum del
concorso, i candidati si scambiano opinioni, tutte abbastanza negative
sull’esperienza in atto e contestano le perquisizioni ritenendole illegali. Ma
nessuno sembra aver letto il regio decreto del 15/10/1925, n. 1860, all’art. 7
che regola i concorsi pubblici e tuttora in vigore: «… i concorrenti devono
essere collocati ciascuno a un tavolo separato (…) È vietato ai concorrenti di
portare seco appunti manoscritti o libri. Essi possono essere sottoposti a
perquisizione personale prima del loro ingresso nella sala degli esami e durante
gli esami». Sembra che le perquisizioni siano scattate solo nei confronti di chi
frequentava troppo il bagno. Eppure quegli aspiranti magistrati espulsi
avrebbero dovuto conoscere la regola d’oro: l’«assassino» torna sempre due volte
sul luogo del delitto.
Ma non è lercio solo quel che appare. E’ da scuola l’esempio della correzione
dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri,
dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma
dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per
anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel
maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di
metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura
della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai
esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il
Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria
mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per
gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri,
proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente
del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici
e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre
un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni
zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati
bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno
presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del
pubblico ufficio. Risultato: un buco nell’acqua. Questi magistrati, nel
frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell’avvocato Giovanni
Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei
alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si
sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il
più possibile, non c’è altro da fare. Concorsi Pubblici ed abilitazioni
Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
Ma come ci si può difendere da decisioni scellerate?
Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando
“Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi
sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il
suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo
se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione
dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero
essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per
legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Ci si tenta con la
ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non
viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia
inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe
della Cassazione.
A Taranto per due magistrati su tre, dunque, Sebai non è credibile. Il tunisino
è stato etichettato dalla pubblica accusa come un «mitomane» che vuole
scagionare detenuti che ha conosciuto in carcere. Solo l’omicidio Lapiscopia,
per il quale è stata chiesta la condanna, era ancora insoluto, quindi senza
alcun condannato a scontare la pena. Il gup Valeria Ingenito nel corso
dell’udienza ha respinto la richiesta di sospensione del processo e l’eccezione
di legittimità costituzionale dell’art. 52 del Codice di procedura penale nella
parte in cui prevede la facoltà e non obbligo di astensione del pubblico
ministero. L’eccezione era stata sollevata dal legale di Sebai, Luciano Faraon.
Secondo il difensore, i pm Montanaro e Petrocelli, che hanno chiesto
l’assoluzione del tunisino per tre dei quattro omicidi confessati dall’imputato,
“avrebbero dovuto astenersi per gravi ragioni di convenienza per evidenti
situazioni di incompatibilità, esistente un grave conflitto d’interesse, visto
che hanno sostenuto l’accusa di persone, ottenendone poi la condanna, che alla
luce delle confessioni di Sebai risultano invece essere innocenti e quindi
forieri di responsabilità per errore giudiziario”. Non solo i pm erano
incompatibili, ma incompatibile era anche il foro del giudizio, in quanto da
quei procedimenti addivenivano responsabilità delle parti giudiziarie, che per
competenza erano di fatto delegate al foro di Potenza. Nessuno ha presentato la
ricusazione per tutti i magistrati, sia requirenti, sia giudicanti.
Comunque il presidente del Tribunale di Taranto Antonio Morelli, come è normale
per quel Foro, ha respinto l’astensione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia
Misserini, rispettivamente presidente e giudice a latere della Corte d’Assise
chiamata a giudicare gli imputati al processo per l’omicidio di Sarah Scazzi. I
due magistrati si erano astenuti, rimettendo la decisione nelle mani del
presidente del Tribunale dopo la diffusione di un video in cui erano
“intercettate” mentre si interrogavano sulle strategie difensive che di lì a
poco gli avvocati avrebbero adottato al processo. Secondo il presidente del
Tribunale però dai dialoghi captati non si evince alcun pregiudizio da parte dei
magistrati, non c’è espressione di opinione che incrini la capacità e serenità
del giudizio e quindi non sussistono le condizioni che obbligano i due giudici
togati ad astenersi dal trattare il processo. Il presidente del Tribunale di
Taranto ha respinto l’astensione dei giudici dopo che era stata sollecitata
dalle difese per un video fuori onda con frasi imbarazzanti dei giudici sulle
strategie difensive delle imputate. E adesso si va avanti con il processo. Tocca
all’arringa di Franco Coppi. Posti in piedi in aula. Tutti gli avvocati del
circondario si sono dati appuntamento per sentire il principe del Foro. Coppi
inizia spiegando il perché della loro richiesta di astensione: «L’avvocato De
Jaco ed io abbiamo sollecitato l’astensione in relazione alle frasi note.
29 agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le
lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti
non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l’assassino,
ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti
di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa
ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto
lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie
Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle
accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che
ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della
figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza
accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni
fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri –
che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale
sufficiente per affrontare un dibattimento?». «La sera c’è qualcuno che si
diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I
familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c’è gente che
li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa
di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui
siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento
della Corte di Cassazione». «E’ bene – ha aggiunto l’avvocato Coppi –
allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere
un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a
nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è
che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa
riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o
per l’altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa
iniziativa». A volte però non c’è molto spazio per l’interpretazione. Il
sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di
indicatori consentono di individuare un’emotività ambientale tale da contribuire
all’alterazione delle attività di acquisizione della prova». Mazzotta parla
davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la
richiesta di rimessione del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi: i difensori
di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto
a Potenza perché il clima che si respira sull’asse Avetrana-Taranto «pregiudica
la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a
sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni
della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per
legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c’è la tranquillità necessaria
per giudicare le indagate.
12 ottobre 2011. Il rigetto dell’istanza di rimessione. La prima sezione penale
della Cassazione ha infatti respinto la richiesta di rimessione del processo per
incompatibilità ambientale, con conseguente trasferimento di sede a Potenza,
avanzata il 29 agosto 2011 dai difensori di Sabrina Misseri, gli avvocati Franco
Coppi e Nicola Marseglia.
Eppure la stessa Corte ha reso illegittime tutte le ordinanze cautelari in
carcere emesse dal Tribunale di Taranto.
Per quanto riguarda la Rimessione, la Cassazione penale, sez. I, 10 marzo 1997,
n. 1952 (in Cass. pen., 1998, p. 2421), caso Pomicino: “l’istituto della
rimessione del processo, come disciplinato dall’art. 45 c.p.p., può trovare
applicazione soltanto quando si sia effettivamente determinata in un certo luogo
una situazione obiettiva di tale rilevanza da coinvolgere l’ordine processuale –
inteso come complesso di persone e mezzi apprestato dallo Stato per l’esercizio
della giurisdizione -, sicché tale situazione, non potendo essere eliminata con
il ricorso agli altri strumenti previsti dalla legge per i casi di alterazione
del corso normale del processo – quali l’astensione o la ricusazione del giudice
-, richiede necessariamente il trasferimento del processo ad altra sede
giudiziaria … Consegue che non hanno rilevanza ai fini dell’applicazione
dell’istituto vicende riguardanti singoli magistrati che hanno svolto funzioni
giurisdizionali nel procedimento, non coinvolgenti l’organo giudiziario nel suo
complesso”.
Per quanto riguarda la Ricusazione: «Evidenziato che non può costituire motivo
di ricusazione per incompatibilità la previa presentazione, da parte del
ricusante, di una denuncia penale o la instaurazione di una causa civile nei
confronti del giudice, in quanto entrambe le iniziative sono “fatto” riferibile
solo alla parte e non al magistrato e non può ammettersi che sia rimessa alla
iniziativa della parte la scelta di chi lo deve giudicare. (Cass. pen. Sez. V
10/01/2007, n. 8429).
In questo modo la pronuncia della Corte di Cassazione discrimina l’iniziativa
della parte, degradandola rispetto alla presa di posizione del magistrato: la
denuncia del cittadino non vale per la ricusazione, nonostante possa conseguire
calunnia; la denuncia del magistrato vale astensione. Per la Cassazione per
avere la ricusazione del singolo magistrato non astenuto si ha bisogno della
denuncia del medesimo magistrato e non della parte. Analogicamente, la
Cassazione afferma in modo implicito che per ottenere la rimessione dei processi
per legittimo sospetto è indispensabile che ci sia una denuncia presentata da
tutti i magistrati del Foro contro una sola parte. In questo caso, però, non si
parlerebbe più di rimessione, ma di ricusazione generale. Seguendo questa logica
nessuna istanza di rimessione sarà mai accolta.
Qui non si vuole criminalizzare una intera categoria. Basta, però, indicare a
qualcuno che si ostina a difendere l’indifendibile che qualcosa bisogna fare.
Anzi, prima di tutto, bisogna dire, specialmente sulla Rimessione dei processi.
Questa norma a vantaggio del cittadino è da sempre assolutamente disapplicata e
non solo per Silvio Berlusconi. Prendiamo per esempio la norma sulla rimessione
del processo prevista dall’art. 45 del codice di procedura penale. L’articolo 45
c.p.p. prevede che “in ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi
situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti
eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano
al processo ovvero la sicurezza o l’incolumità pubblica, o determinano motivi di
legittimo sospetto, la Corte di Cassazione, su richiesta motivata del
procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso
il giudice che procede o dell’imputato, rimette il processo ad altro giudice,
designato a norma dell’articolo 11”.
Tale istituto si pone a garanzia del corretto svolgimento del processo,
dell’imparzialità del giudice e della libera attività difensiva delle parti. Si
differenzia dalla ricusazione disciplinata dall’art. 37 c.p.p. in quanto
derogando al principio costituzionale del giudice naturale (quello del locus
commissi delicti) e quindi assumendo il connotato dell’eccezionalità, necessita
per poter essere eccepito o rilevato di gravi situazioni esterne al processo
nelle sole ipotesi in cui queste non siano altrimenti eliminabili. Inoltre
mentre per la domanda di ricusazione è competente il giudice superiore, per
decidere sull’ammissibilità della rimessione lo è solo la Corte di Cassazione.
«L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede
giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso
principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) – spiega Edmondo
Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. – E
pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di
un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme
sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. La lettura delle
riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una
serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate
situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa
dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di
accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si
può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il
periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di
rimessione accolte sono state due.»
I magistrati criticano chiunque tranne se stessi, scrive Pietro Senaldi su
Libero Quotidiano il 28 gennaio 2018. I procuratori generali hanno inaugurato
l’anno giudiziario con discorsi pieni di banalità e senza fare nessun mea culpa.
“Abbiamo una giustizia che neppure in Burkina Faso”. “La Banca Mondiale mette
l’Italia alla casella numero 108 nella classifica sull’efficienza dei tribunali
in rapporto ai bisogni dell’economia”. “Se per far fallire un’azienda che non
paga ci vogliono sette anni, è naturale che gli stranieri siano restii a
investire nel nostro Paese”. “Ultimamente abbiamo ridotto i tempi ma non si può
dire che tre anni di media per arrivare a una sentenza in un processo civile sia
un periodo congruo”. “È imbarazzante che restino impuniti per il loro male
operato e non subiscano rallentamenti di carriera magistrati che hanno messo
sotto processo innocenti, costringendoli a rinunciare a incarichi importanti e
danneggiando le aziende pubbliche che questi dirigevano, con grave nocumento per
l’economia nazionale”. “Non se ne può più di assistere allo spettacolo di
pubblici ministeri che aprono inchieste a carico di politici sul nulla,
rovinandone la carriera, e poi magari si candidano sfruttando la notorietà che
l’indagine ha procurato loro”. “La giustizia viene ancora strumentalizzata a
fini politici”. “In Italia esistono due pesi e due misure a seconda di chi è
indagato o processato”. “L’economia italiana è frenata da un numero spropositato
di ricorsi accolti senza ragione”. “Le vittime delle truffe bancarie non hanno
avuto giustizia e i responsabili dei crack non sono stati adeguatamente
perseguiti”. “A questo giro elettorale qualcosa non torna, se Berlusconi non è
candidabile in virtù di una legge entrata in vigore dopo il reato per cui è
stato condannato”.
Una pioggia di denunce contro i magistrati Ma sono sempre assolti. Più di mille
esposti l’anno dai cittadini. E le toghe si auto-graziano: archiviati 9 casi su
10, scrive Lodovica Bulian, Lunedì 29/01/2018, su “Il Giornale”. Tra i motivi ci
sono la lunghezza dei processi, i ritardi nel deposito dei provvedimenti, ma
anche «errori» nelle sentenze. In generale, però, è il rapporto di fiducia tra i
cittadini e chi è chiamato a decidere delle loro vite a essersi «deteriorato».
Uno strappo che è all’origine, secondo il procuratore generale della Corte di
Cassazione, Riccardo Fuzio, «dell’aumento degli esposti» contro i magistrati
soprattutto da parte dei privati. Il fenomeno è la spia di «una reattività che
rischia di minare alla base la legittimazione della giurisdizione», spiega il Pg
nella sua relazione sul 2017 che apre il nuovo anno giudiziario con un grido
d’allarme: «Una giustizia che non ha credibilità non è in grado di assicurare la
democrazia». Nell’ultimo anno sono pervenute alla Procura generale, che è
titolare dell’azione disciplinare, 1.340 esposti contenenti possibili
irregolarità nell’attività delle toghe, tra pm e giudicanti. Numeri in linea con
l’anno precedente (1.363) e con l’ultimo quinquennio (la media è di 1.335
all’anno). A fronte della mole di segnalazioni, però, per la categoria che si
autogoverna, che si auto esamina, che auto punisce e che, molto più spesso, si
auto assolve, scatta quasi sempre l’archiviazione per il magistrato accusato:
nel 2017 è successo per l’89,7% dei procedimenti definiti dalla Procura
generale, era il 92% nel 2016. Di fatto solo il 7,3% si è concluso con la
promozione di azioni disciplinari poi portate avanti dal Consiglio superiore
della magistratura. Solo in due casi su mille e duecento archiviati, il
ministero della Giustizia ha richiesto di esaminare gli atti per ulteriori
verifiche. Insomma, nessun colpevole. Anzi, la colpa semmai, secondo Fuzio, è
della politica, delle campagne denigratorie, dell’eccessivo carico di lavoro cui
sono esposti i magistrati: «Questo incremento notevole di esposti di privati
cittadini evidenzia una sfiducia che in parte, può essere la conseguenza dei
difficili rapporti tra politica e giustizia, in parte, può essere l’effetto
delle soventi delegittimazioni provenienti da parti o imputati eccellenti. Ma –
ammette – può essere anche il sintomo che a fronte di una quantità abnorme di
processi non sempre vi è una risposta qualitativamente adeguata». Il risultato è
che nel 2017 sono state esercitate in totale 149 azioni disciplinari (erano 156
nel 2016), di cui 58 per iniziativa del ministro della Giustizia (in diminuzione
del 22,7%) e 91 del Procuratore generale (in aumento quindi del 13,8%). Tra i
procedimenti disciplinari definiti, il 65% si è concluso con la richiesta di
giudizio che, una volta finita sul tavolo del Csm, si è trasformata in
assoluzione nel 28% dei casi e nel 68% è sfociata nella censura, una delle
sanzioni più lievi. Questo non significa, mette in guardia il procuratore, che
tutte le condotte che non vengono punite allora siano opportune o consone per un
magistrato, dall’utilizzo allegro di Facebook alla violazione del riserbo. E
forse il Csm, sottolinea Fuzio, dovrebbe essere messo a conoscenza anche dei
procedimenti archiviati, e tenerne conto quando si occupa delle «valutazioni di
professionalità» dei togati. Che, guarda caso, nel 2017 sono state positive nel
99,5% dei casi.
Toghe rosa
TOGHE ROSA
“TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore.
Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi. La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D’Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l’eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l’imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier.
Dici donna e dici danno, anzi, “condanno”.
Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni?
Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1. Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l’ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell’ambito di uno stralcio dell’inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi. Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l’ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia. Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall’accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi e trasmesso gli atti per far condannare i suoi testimoni??
A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D’Elia che già lo aveva processato per la Sme. Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna.
A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall’ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell’apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all’ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per il “fotografo dei vip” Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l’ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l’arresto di cinque persone coinvolte nell’inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula.
La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti.
Carmen D’Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata – per lui ci fu un procedimento autonomo – insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.
Donna è anche Ida Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: “Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine”. «E’ una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo – ha proseguito la Boccassini – ha accomunato la minore “con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate – afferma il pm – si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.
Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva. Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Ma anche Giusi Fasano per “Corriere della Sera” ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell’esercito «avversario» finora non l’ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati…» è la sua filosofia.
Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po’ vedere, no, come imposteranno…potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d’assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l’udienza». Il presidente della corte, tra l’altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l’uno addosso all’altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».
Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l’accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l’assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l’amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.
Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. La procura di Lecce ha aperto un’inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l’ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. L’indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l’ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. “Si è aperta in maniera ufficiale un’azione da parte della magistratura barese – aveva detto Fitto – che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c’era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino – aveva attaccato Fitto – perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi – aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all’anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana”. Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi, proprio perché toccava imputati di sinistra.
Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l’avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.
E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».
Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?
Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.
L’ammissione delle donne all’esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l’art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all’esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall’esercizio della giurisdizione. L’art. 8 dell’ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.”. Pochi anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento – peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche – approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l’ accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Dall’entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% – 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa, tracciando un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.
Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?
Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.
Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per “Sette – Corriere della Sera”.
Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell’idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?
«Mi fa un po’ sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l’utilità dell’Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un’associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame…».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi un po’ tu. L’ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».
Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.
«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos’era il Coreco. Scena muta».
Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio…
«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».
Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.
«C’era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina… Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».
Mai più rifatto?
«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l’Abruzzo e io lavorando il tempo non l’avevo».
Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?
«Non so se c’è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».