Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

 

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ARTICOLI PER TEMA

 

 Di Antonio Giangrande

 

 

INDICE

 

Collaudopoli.

Morire di denti e la casta dei dentisti.

L'Insicurezza Pubblica.

Manifestare e devastare.

Ponte Morandi. Diamo a Cesare quel che è di Cesare…

Italia. Educazione civica e disservizi.

Disgusto sanità.

 

 

Collaudopoli.

In morte di un imprenditore ucciso dallo Stato. La storia di Carlo Massone da Alessandria
“Dopo tanti anni, come volevasi dimostrare, in Italia, pur con la ragione, non si riesce a cavare un ragno dal buco, anzi sì è cornuti e mazziati e ti dicono, in aggiunta, subisci e taci”.
«Siamo un paese di truffatori ed evasori fiscali, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Esemplare è la storia di Carlo Massone, un autotrasportatore di Alessandria che da anni combatte una battaglia impari. Comprò, a sua insaputa, un camion inidoneo alla funzione indicata, tratto in inganno dalla documentazione pubblica allegata e per questo, a sua volta, ingiustamente accusato di truffa. Mezzo inidoneo, ma dichiarato idoneo, e per gli effetti bloccato, inibendo l’attività imprenditoriale. Da anni si rivolge alle istituzioni competenti ed ai Parlamentari italiani ed europei con funzioni di vigilanza ed inchiesta. La prima volta che si rivolse a me, chiedendomi aiuto e non avendo potere di intervento, premonendo il futuro, gli dissi che con questa gente e le istituzioni che li coprono non avrebbe cavato un ragno dal buco: “sarai cornuto e mazziato”, gli dissi. A questo danno si è aggiunta la beffa: Equitalia chiede 175mila euro per quella sua stessa attività».
“Preg.mo Presidente Avv. Antonio Giangrande le mando l’interrogazione parlamentare aggiornata con la risposta evasiva del Ministero, in quanto il collaudo avvenuto a Cuneo non era solo scaduto, ma era falso. E ciò lo dico con documenti alla mano. Sia la motorizzazione, che la ASL, ARPA e il CTU del Tribunale di Alessandria  hanno dichiarato  la declaratoria di non usabilità del camion con gru e piattaforma. A riscontro della risposta mi chiedo come abbia fatto il camion a circolare prima di essere venduto al Carlo Massone con timbri “regolare” senza verifica e poi come si possa addebitare il tutto all’usura successiva del camion gru se ciò non può essere avvenuto in quanto si è imposto il fermo per due anni. Carlo Massone”. Ed ancora. “Preg.mo. Avv. Antonio Giangrande, cortesemente la Imploro. Le Chiedo di postare sul suo BLOG anche questa ennesima interrogazione parlamentare. Così la giro anche ad EQUITALIA,che entro oggi, il 28 febbraio 2014, pretende 175mila euro!! Non mi resta che ammazzarmi!! Grazie. Saluti. Massone Carlo”.
Ecco l’interrogazione alla Camera, Commissione Giustizia, del 26.02.2014, n. 5-02234 dell’On.le Emanuele Fiano (PD).
Interrogazione a risposta in Commissione: FIANO
Al Ministro della giustizia, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
nel 1989 l’autotrasportatore Carlo Massone residente in frazione Crebini 37 – Castelletto d’Orba (Alessandria) acquistò un camion usato tipo Fiat 170/35 B targato AL 359341, ribaltabile su tre lati con gru e piattaforma aerea a due posti, pagandolo oltre 100 milioni;
come da attestazione rilasciata dal concessionario Iveco Plura spa di Ovada (Alessandria), il mezzo in questione risultava regolarmente collaudato in tutte le sue parti, completo di attestazioni rilasciate dalla motorizzazione e dall’Ispesl (Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro) e pertanto pronto per essere utilizzato su strada;
il signor Carlo Massone, prima di utilizzare il mezzo in questione, richiese ed ottenne dalla motorizzazione e dalla USL di Alessandria una verifica preventiva straordinaria che, in seguito, diede esito negativo, e cioè si rivelò che il mezzo presentava una serie di anomalie tecniche e strumentali tali da renderlo inutilizzabile, in totale contrasto con le norme di prevenzione e di sicurezza sul lavoro;
a seguito di ciò, il signor Carlo Massone non solo fu costretto a rinunciare al camion appena acquistato, ma venne altresì indagato – gli fu attribuita la responsabilità di averlo manomesso e modificato – e successivamente assolto, avendo dimostrato di non aver mai impiegato il mezzo per alcun lavoro e di non averlo mai ritirato dalla concessionaria se non il giorno prefissato per la revisione straordinaria;
dai documenti in possesso del signor Massone risulterebbe che la data di emissione della fattura quietanzata rilasciata dalla ditta Iveco Plura spa – 7 settembre 1989 – è in netta e curiosa contraddizione con quella citata nella notifica rilasciata (a richiesta del signor Massone, proprietario del mezzo) dal compartimento della polizia stradale, sezione di Alessandria, secondo cui «Visti gli atti d’ufficio si dichiara che la carta di circolazione relativa all’autocarro targato AL 359341 è gravata dal decreto di sequestro n. 616/88/A emesso dalla Procura della Repubblica presso il tribunale di Bergamo il 14 marzo 1988 e che in ordine alla stessa sono in corso ricerche da parte di questo ufficio al fine di rintracciarla e sequestrarla» (Alessandria, 3 maggio 1990, n. 326, rep. 240 PG);
successivamente, il medesimo compartimento della polizia stradale, sezione di Alessandria, rispondeva alla procura della Repubblica presso la pretura circondariale di Alessandria – in ordine alla denuncia sporta dal signor Massone – «Fa seguito alla denuncia sporta da Massone Carlo, in atti generalizzato, trasmessa con nota prot. n. del 4 maggio 1990 in ordine alla quale si sciolgono parte delle riserve espresse. Si comunica che negli elenchi forniti dalla motorizzazione civile e dei trasporti in concessione di Cuneo, relativi ai collaudi effettuati negli anni 1989-1990 presso la ditta Delia, non c’è traccia di quello afferente al certificato di approvazione rilasciato per l’autocarro targato AL 359341» (Alessandria, 16 giugno 1990, n. 600, rep. 240 PG);
lo stesso Massone Carlo chiedeva e otteneva, successivamente, una relazione tecnica circa la causa Massone-Plura spa in merito all’udienza del 23 marzo 1995 con lo scopo di chiarire i punti elencati nelle «deduzioni istruttorie»; nella conclusioni della relazione si ravvisavano da un lato uno «stato di degrado tecnico» del mezzo e la sussistenza di «una serie di inadempienze contrattuali» definite «elementi sconcertanti»; e dall’altro, si rilevava l’assoluta estraneità del signor Massone all’utilizzo dell’automezzo in oggetto, come sentenziato anche dalla procura di Tortona il 16 settembre 1993;
quanto sopra esposto ha prodotto ripercussioni gravissime alle economie della ditta del signor Carlo Massone, al punto da indurlo – pur di non rimanere senza lavoro e con un mezzo sequestrato ed improduttivo – ad acquistarne altri, con il medesimo triste e scandaloso risultato;
ad oggi il signor Carlo Massone, pur avendo interpellato parlamentari e Ministri ed aver interessato anche la procura della Repubblica di Genova poiché nessuna risposta o indennizzo sono pervenuti dalle autorità di Alessandria e comunque da tutte quelle interessate nella vicenda, è ancora in attesa che si faccia chiarezza e che la sua pratica approdi a giusta conclusione;
da più di dieci anni lo stesso Carlo Massone sta combattendo una battaglia di sensibilizzazione volta a far emergere la verità sul suo personale caso e su fatti di analoga gravità che metterebbero in discussione l’intero apparato preposto alla certificazione di idoneità ad operare dei mezzi industriali coinvolgendo ingegneri e pubblici ufficiali funzionari dello Stato;
il 9 marzo 1999, nella XIII legislatura, il senatore Bornacin presentò in merito una specifica interpellanza parlamentare, la 2-00767, cui però non fu data risposta, e in data 7 marzo 2007 il senatore Martinat ha ripresentato l’interrogazione n. 4-01468 –:
se non si reputi opportuno e doveroso attivarsi con estrema urgenza per fare chiarezza su di una vicenda così delicata e di sconcertante gravità, sollecitando il riesame della pratica e verificando, secondo quanto denunciato, la regolarità delle attestazioni rilasciate dalle autorità competenti in ordine ai collaudi di omologazione dei veicoli industriali al fine di verificare responsabilità ed eventuali comportamenti omissivi da parte di pubblici funzionari;
che cosa intenda fare il Governo per garantire che, in materia di collaudi ed omologazioni di veicoli industriali, venga rispettato scrupolosamente il dettato legislativo e si eviti pertanto che pubblici funzionari rilascino certificati di omologazione e di collaudo su veicoli industriali sulla base di documenti di conformità rilasciati dagli allestitori senza effettuare verifiche tecniche rigorose sui mezzi, come prevede la normativa vigente;
come si spieghi che veicoli industriali certificati e collaudati al momento dell’acquisto risultino poi, ancor prima di essere utilizzati (come in questo caso e grazie soprattutto alla scrupolosità dell’acquirente), non in regola e che vengano avanzati sospetti solo sull’autotrasportatore, anziché considerare anche le responsabilità delle motorizzazioni civili, dell’Ispesl e dei concessionari;
se non si reputi doveroso promuovere una verifica per accertare che i funzionari pubblici deputati alla certificazione di collaudo e di omologazione dei veicoli industriali della motorizzazione civile ed Ispesl procedano attenendosi scrupolosamente a quanto previsto dalla legge in materia e non vengano adottati metodi del tutto estranei alla corretta condotta delle ispezioni. (5-02234)
Dello stesso tenore sono state le interrogazioni dello stesso Fiano al Ministro dei trasporti: Seduta n. 238 dell’8/11/2007 (4-05578).
Anche Aurelio Salvatore Misiti ha fatto la stessa cosa con le interrogazioni in Commissione:
Interrogazione a risposta in Commissione 5-00893 presentata mercoledì 28 gennaio 2009, seduta n. 122;
Interrogazione a risposta scritta 4-02736 presentata giovedì 2 aprile 2009, seduta n. 158
Interrogazione a risposta scritta 4-03144 presentata mercoledì 27 maggio 2009, seduta n.183.
La stessa cosa ha fatto il Gruppo Consiliare Alleanza Nazionale a Torino il 10 marzo 2008.
Ed ancora l’interrogazione scritta al Parlamento europeo dell’On. Mario Borghezio del 18/04/2007 – Emissione di certificati di omologazione falsi da parte delle Motorizzazioni Civili italiane.
Ed ancora l’interrogazione scritta alla Commissione Europea. Interrogazione con richiesta di risposta scritta P-001164/2012 alla Commissione, Articolo 117 del regolamento, dell’on. Oreste Rossi (EFD).
«Dopo tanti anni, come volevasi dimostrare, in Italia, pur con la ragione, non si riesce a cavare un ragno dal buco, anzi sì è cornuti e mazziati e ti dicono, in aggiunta, subisci e taci», chiosa in chiusura Antonio Giangrande.


Morire di denti e la casta dei dentisti.

A.D. 2014. MORIRE DI DENTI, MORIRE DI POVERTA’, MA I DENTISTI SI SCAGLIANO CONTRO ANTONIO GIANGRANDE.

«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell’ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l’ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.

In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l’8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.

Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.

LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio – basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.

Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:

a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);

b) situazioni di povertà:

c) situazioni di reddito medio – basso.

Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?

Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E’ però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all’altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!

Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?

Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.

«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?”  La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».

Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.

Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole – o non si può – ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all’altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell’800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure… Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c’era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all’ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all’ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l’infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L’ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L’agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l’autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l’impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un’ovvietà.

Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all’ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All’inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.

All’inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell’ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D’Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel ’93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L’inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, – afferma una nota della direzione del nosocomio – è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l’Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un’infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni – dicono all’ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c’è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L’11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».

“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.

Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa “per il bene di tutti”. Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui – a differenza del concetto di volontariato – rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.

 

L'Insicurezza Pubblica.

L’INSICUREZZA PUBBLICA E LA VIDEO SORVEGLIANZA PRIVATA.

Lo Stato non garantisce la sicurezza e inibisce chi ci pensa da solo con la burocrazia e con le reprimende e le speculazioni.

Inchiesta del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

I media da sempre ce la menano sul fatto che contro gli atti criminali, specie quelli bagatellari e comuni, bisogna denunciare. Poco si sa, invece, che la gente rinuncia a denunciare proprio quei reati più odiosi, per il fatto sottaciuto che, in un modo o in un altro, le notizie di reato non vanno avanti per insabbiamenti (denunce non registrate; archiviazioni artefatte, non comunicando la richiesta di archiviazione, quando preteso per presentare opposizione; indagini mai svolte o svolte male), o per il disincentivo (perchè è solo una perdita di tempo).

Allorquando qualcuno si incaponisce a credere che ci sia uno Stato di Diritto e questi ha bisogno di prove per perseguire i responsabili del reato e lo fa con la ripresa delle immagini. Ecco che allora lo Stato lo inibisce in tutti i modi.

Certo è che lo Stato, prima ti sbeffeggia. La Stabilità 2016 ha stanziato fondi (15 milioni di euro) per il Bonus Sicurezza, ovvero un credito d’imposta per quei privati che decidono di installare sistemi di videosorveglianza. I cittadini che si doteranno di impianti si vedranno riconoscere il 50 per cento della spesa sostenuta.

I fondi son limitati. Ergo: Chi prima arriva, prima alloggia…

Dopo lo sberleffo arriva l’inghippo. Tutti i modi per impedire la sicurezza fai da te.

1. Il tema della Privacy. Ce lo spiega Alessio Sgherza il 15 febbraio 2017 su “La Repubblica”. Il tema videocamere pone per i cittadini un problema di privacy: il problema di chi viene ripreso e deve mantenere il suo diritto alla riservatezza e ai suoi dati personali; e il problema di chi decide di installare i sistemi di videosorveglianza perché ha il diritto a difendere le proprie pertinenze. Due diritti che si contrastano sulla carta e tra i quali è necessario trovare un equilibrio. Ecco quindi che sul tema – già dal 2004 – è intervenuto il Garante della Privacy, che ha emesso un provvedimento sulla videosorveglianza datato 2010 e in corso di aggiornamento. Il testo è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale il 29 aprile 2010 e elenca tutte le misure che soggetti pubblici e privati devono mettere in pratica per installare questi sistemi. Per quanto riguarda i privati, è esplicitamente prevista la possibilità di installare telecamere “contro possibili aggressioni, furti, rapine, danneggiamenti, atti di vandalismo, prevenzione incendi” e in questi casi “si possono installare telecamere senza il consenso dei soggetti ripresi, ma sempre sulla base delle prescrizioni indicate dal Garante”. Ma quali sono le prescrizioni del Garante? Eccole, in quattro punti:

I cittadini che transitano nelle aree sorvegliate devono essere informati con cartelli della presenza delle telecamere.

I cartelli devono essere resi visibili anche quando il sistema di videosorveglianza è attivo in orario notturno.

Le immagini registrate possono essere conservate per periodo limitato e fino ad un massimo di 24 ore.

Nel caso in cui i sistemi di videosorveglianza installati da soggetti pubblici e privati (esercizi commerciali, banche, aziende etc.) siano collegati alle forze di polizia è necessario apporre uno specifico cartello, sulla base del modello elaborato dal Garante.

2. Il tema sindacale. L’autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro. Ce lo spiega “La Gazzetta di Reggio” il 26 ottobre 2016. Un ispettore del lavoro, dopo un sopralluogo, gli ha fatto togliere tre telecamere che aveva da poco messo nel locale, appioppandogli anche una multa di circa 500 euro. Ma appena spento l’occhio elettronico, un ladro è entrato nel negozio è ha portato via l’incasso, pari ad altri 500 euro. È l’odissea raccontata da Federico Ferretti, insieme a Fabrizio Salsi uno dei soci della gelateria Cupido in via Emilia San Pietro 71. Dopo un punto vendita a Carpi e Correggio, a maggio la gelateria ha aperto un locale anche in città. E alla fine di luglio, i due soci avevano deciso di installare nel locale tre telecamere di videosorveglianza, due nell’area vendita e una nel laboratorio. «Eravamo in attesa dell’autorizzazione, dal momento che in estate molti uffici erano chiusi – racconta Ferretti – quando il 12 agosto abbiamo ricevuto la visita di un ispettore del lavoro, che ci ha contestato il fatto che le telecamere riprendessero il bancone, dicendo che dovevano essere indirizzate solo all’ingresso. Sosteneva che usavamo le telecamere per controllare i nostri due dipendenti, che invece avevano firmato la liberatoria. Noi le avevamo collocate così solo per ragioni di sicurezza». Dal sopralluogo è scattato un verbale, recapitato ai soci a metà settembre, in cui si dava tempo trenta giorni per rimuovere la videosorveglianza. «Sabato – aggiunge Ferretti – abbiamo rimosso l’impianto. L’ispettore ci ha anche chiesto la certificazione dell’azienda che le ha tolte, con un eccesso di rigidezza». Ma, due giorni dopo la rimozione, nella gelateria è avvenuto un furto: «Lunedì sera, intorno alle 21, c’erano il mio socio e un dipendente. Il socio era nel laboratorio. E ha chiamato un secondo il dipendente per dargli del gelato pronto. Un secondo. Ma qualcuno è entrato nel negozio e velocissimo ha rubato incasso e fondo cassa, in totale quasi 500 euro. Abbiamo subito chiamato i carabinieri. La prima cosa che ci hanno chiesto: “Avete telecamere?”. Gli abbiamo dovuto spiegare che ce le avevano appena fatte togliere». Per i titolari, oltre al danno la beffa: «Abbiamo ripresentato domanda per una nuova installazione, ma dall’ispettorato ce l’hanno bocciata. Siamo reggiani, abbiamo deciso di investire qui, dove i furti sono all’ordine del giorno. Non è possibile trovarsi davanti a queste cose. Le telecamere sono presenti anche nelle grandi catene e nessuno dice niente».

3. Il tema Amministrativo-burocratico. Per le telecamere occorre la Scia, scrive Maurizio Caprino su “Il Sole 24ore” del 9 marzo 2017. Le telecamere di videosorveglianza sono sostanzialmente fuorilegge, se sono anche del Comune. In questo caso, vanno trattate come impianti privati e quindi necessitano di un’autorizzazione, che in molti casi manca. Lo stesso vale per altri impianti di trasmissione, tra cui quelli per le radio di servizio dei vigili urbani. Lo afferma chiaramente la Prefettura di Pordenone, nella nota n. 6104, emanata il 6 marzo dopo una segnalazione del ministero dello Sviluppo economico. E quella della provincia friulana è una realtà…tutta italiana.

4. Il tema fiscale-speculativo. Lo Stato stanga la sicurezza “fai da te”. Multati i Comuni che installano telecamere. Sanzioni dal prefetto per i sindaci che si dotano di sistemi di sorveglianza, scrive Pier Francesco Borgia, Venerdì 10/03/2017, su “Il Giornale”. Nell’Italia dei campanili, quella più alta è sempre la torre del paradosso. Solo da noi, infatti, possiamo assistere al poco comprensibile «spettacolo» di una prefettura che commina multe e sanzioni ai Comuni che per difendere la tranquillità dei propri cittadini decide di investire le scarse risorse a disposizione per installare sistemi di videosorveglianza. Con una nota del 16 febbraio scorso, infatti, il Ministero dello Sviluppo economico, tramite il suo Ispettorato territoriale di Pordenone, ha fatto sapere alla prefettura del capoluogo friulano «di aver rilevato presso le Amministrazioni comunali ripetute problematiche conseguenti la carenza dei necessari dati informativi relativi agli obblighi di legge previsti per l’installazione ed esercizio di reti e servizi di comunicazione elettronica». La citazione è presa da una circolare che gli uffici della prefettura di Pordenone hanno inviato il 6 marzo a tutte le amministrazioni comunali della provincia. Lo scopo è quello di chiarire che a disciplinare i sistemi di videosorveglianza ci pensa il Decreto legislativo 259 dell’agosto del 2003 (ovvero il cosiddetto Codice delle Comunicazioni elettroniche). Fatto questo che fa ricadere le stesse telecamere a circuito chiuso nei sistemi di informazione. E quindi chi li installa, che si tratti di un privato o di un’amministrazione locale poco importa, è tenuto a corrispondere un canone al Mise (il già citato Ministero per lo sviluppo economico). Da qui la facile deduzione che senza quel canone si rischia un’ammenda. D’altronde, spiega Stefano Manzelli direttore della rivista on line poliziamunicipale.it, «molti di quegli amministratori non immaginavano nemmeno che un sistema di telecamere a circuito chiuso fosse paragonato a un sistema aperto di trasmissioni radio». La violazione di queste norme, insomma, sarebbe avvenuta in buonafede. Resta però il fatto che senza quel canone scatta la sanzione e si rende più faticosa la gestione del territorio di competenza. E questo contraddice – fa notare lo stesso Manzelli – lo stesso spirito del decreto legge 14 del 2017 che aumenta lo spettro delle competenze in materia di sicurezza. «Ora i sindaci hanno ricevuto ulteriori poteri di ordinanza su questioni di ordine pubblico e sicurezza, per migliorare il controllo e la qualità della vita delle aree più a rischio. Eppure, se non pagano il canone di questi sistemi di videosorveglianza, rischiano le sanzioni». Un sistema per evitare il peggio sarebbe quello di affidare questi sistemi di videosorveglianza direttamente allo Stato, attraverso le forze dell’ordine. Gli unici soggetti, infatti, esentati dal pagare il canone. L’iter, però è lungo e farraginoso, spiega Manzelli, e non sempre le amministrazioni locali hanno la possibilità di ricorrere a questo escamotage. Resta il fatto che se un Comune si pone anche solo l’obiettivo di regolare l’accesso ad aree a traffico limitato per le auto, deve sottostare alle regole imposte dal Codice delle Comunicazioni Elettroniche con tanto di canoni da sborsare.

 

Manifestare e devastare.

Manifestare e Devastare in città? Un Reato ampiamente impunito!

Negozi, banche, auto in fiamme, vetrine infrante, gente e turisti in fuga terrorizzati, scontri con la polizia, alcuni agenti feriti. E’ sfociata in terrore e devastazione nel cuore della città la giornata inaugurale di Expo, l’evento universale inaugurato l’1 maggio 2015, a Milano. Al corteo del No Expo Mayday Parade organizzato nel pomeriggio. Come temuto ed ampiamente previsto, hanno preso il sopravvento i pochi black bloc e le fasce più violente e la manifestazione è presto degenerata.

La polizia nei giorni precedenti ha sfoggiato mediaticamente il suo impegno, mostrando alle telecamere qualche arnese atto ad offendere rinvenuto in una casa occupata dai “No Tav”, tacitando così le preoccupazioni dei milanesi. Una delle tante case di proprietà occupate abusivamente da tante sigle vicine alla sinistra.

Circa la violenza unilaterale dei manifestanti scoppiata a Milano ognuno dice la sua. A destra sono pronti a solidarizzare con le forze dell’ordine, a prescindere dal loro operato; a sinistra sono dediti a rimarcare e difendere il diritto a poter manifestare il proprio punto di vista, scambiando la locuzione con “ogni mezzo”, appunto, anche con l’uso della violenza, usata spesso contro i beni di quei lavoratori, che a parole dicono di rappresentare. Quella sinistra che si riempie la bocca del termine “Legalità”, fino ad ingozzarsi, fino a soffocarsi.

Chiediamo cosa ne pensa lo scrittore Antonio Giangrande, che, autore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, con decine di saggi pubblicati su Amazon, Google libri, Lulu e Create Space, dice la sua, invece, rispetto al diritto ed agli interessi dei cittadini danneggiati e trascurati.

«La libertà di manifestazione del pensiero è un diritto riconosciuto negli ordinamenti democratici. Questa libertà è riconosciuta da tutte le moderne costituzioni.

Ad essa sono inoltre dedicati due articoli della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948: Art. 19: “Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”.

La libertà di espressione è sancita anche dall’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ratificata dall’Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848: “1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. 2. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati.”

La Costituzione italiana del 1948 supera l’esigua visione fornita un secolo prima dallo Statuto Albertino, che all’art. 28 prevedeva che La Stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi. Durante il periodo fascista queste leggi dello Stato diventeranno delle censure, tipiche dei regimi totalitari. L’art. 21 della Costituzione stabilisce che:

“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.

Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili.

In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all’autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s’intende revocato e privo di ogni effetto.

La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica.

Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.”

Ebbene, in Italia, se scrivi in stato di disomologazione al sistema mediatico o in dissenso al sistema di potere, a cui la stampa è genuflessa, i giudici te la fanno pagare.

Ma con il paraculo del diritto di manifestare in piazza si genera la più grande sorta di illegalità impunita che il paese ricordi. E dire che queste manifestazioni si palesano proprio come protesta contro le illegalità. Ognuno di noi che volesse commettere reati a iosa, sicuri di farla franca, basterebbe partecipare ad una manifestazione organizzata, spesso, dalla sinistra e l’impunità è compiuta.

“Abbiamo spaccato un po’ di roba”, è giusto così. A parlare è un ragazzo intervistato dalla troupe di TgCom24. Nessuna paura di ammetterlo e nessuna giustificazione, anzi, per lui è solo “bordello”. “Siamo arrivati, c’era un bordello, abbiamo spaccato un po’ di roba”, ha ammesso. Il giornalista chiede il perché e la sua risposta è secca: “Perché è la protesta, e alle proteste si fa bordello. È giusto così, noi dobbiamo far sentire la nostra voce. Se non lo capiscono con le buone, lo capiranno in altro modo. È stata una bella esperienza. Ero solo in mezzo a una guerriglia e mi sono preso bene, ma non ho distrutto un cazzo di nulla”.

Eppure nelle manifestazioni di piazza ci sono talmente tante violazioni del codice penale che ne basterebbe una a far scattare l’arresto.

Dispositivo dell’art. 419 Codice Penale: “Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’articolo 285, commette fatti di devastazione o di saccheggio è punito con la reclusione da otto a quindici anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso su armi, munizioni o viveri esistenti in luogo di vendita o di deposito”. E poi quante violazioni penali cerchi, tante ne trovi. E comunque basta il sol travisamento a far scattare le manette.

Genova, sette studenti condannati per travisamento ad una manifestazione contro la Gelmini, scrive Genova Today. Una sciarpa che copre il volto per sfuggire all’occhio “invadente” delle telecamere Digos. Una mano sulla bocca per non respirare l’odore acre dei lacrimogeni. O un cappello “tenuto basso” per non essere del tutto riconoscibili: scene classiche da manifestazioni. Scene che da oggi potrebbero essere punite con il carcere. E’ questo, in soldoni, quello che prevede una condanna del tribunale della Procura di Genova che ha disposto pene variabili fra i nove e i quattordici mesi per sette persone accusate di resistenza e “travisamento”. Gli accusati, sette studenti liguri che parteciparono ad una manifestazione del 30 novembre 2010 contro l’allora ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, sono stati condannati per avere nascosto il proprio volto nelle fasi calde del corteo. Tradotto: la Procura non ha accertato che i sette ragazzi in questione abbiano partecipato a scontri o disordini, dato che nella sentenza non vi si fa riferimento, ma li ha condannati “semplicemente” perché si sono resi non riconoscibili. Nello specifico, le condanne fanno riferimento ai momenti successivi ad una carica della polizia. Azione che gli agenti non annunciarono, contrariamente a quanto previsto dagli articoli 22 e 23 del Tulps, Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, che prevede la “intimazione formale al discioglimento di un corteo”. Agli avvocati dei giovani, che avevano puntato su questa “mancanza” da parte delle forze dell’ordine, il pubblico ministero Biagio Mazzeo ha spiegato che “si tratta di un provvedimento desueto e comunque, con tutti i tagli che devono subire le forze dell’ordine probabilmente non avevano neppure la possibilità di portarsi dietro un megafono”. Insomma, condanna sia. Condanna, giunta pochi giorni fa, che rischia di inaugurare una giurisprudenza alquanto pericolosa. Appare troppo sottile, infatti, il confine fra la giusta necessità di punire i manifestanti facinorosi e l’eccesso di condannare chiunque si renda irriconoscibile durante una manifestazione. Ma non è tutto. Sotto la Lanterna, infatti, sono in corso almeno un’altra decina di indagini su cortei e proteste simili, riguardanti in particolare lo sciopero del 6 maggio 2011 e il corteo del 28 gennaio che vide in piazza studenti e operai al grido di “noi la crisi non la paghiamo”. Le indagini, a questo punto sembra scontato, si chiuderanno con un processo e con altre condanne. Ma anche qui, la procura ligure potrebbe stupire. Oltre alle “storiche” pene per travisamento, infatti, molti dei ragazzi indagati, fra “anarchici noti” e semplici studenti, rischiano una somma di condanne e quindi il carcere per la “reiterata partecipazione a cortei”. Insomma, i giovani che abbiano partecipato a più di una delle proteste finite nel mirino della procura rischiano le manette, perché colpevoli in più di un’occasione di “travisamento”, anche se i cortei nella realtà non si siano trasformati in guerriglia. Le condanne di questi giorni, comunque, non stanno stupendo più di tanto Genova, una città che, da due anni a questa parte, ha subito una “gestione giudiziaria della piazza”. Per l’esattezza da quando, un paio di anni fa, il procuratore aggiunto Vincenzo Scolastico elaborò una “griglia” nella quale incrociare date dei cortei, nomi dei partecipanti, denunce e qualsiasi manifestazione dove la Digos avesse ripreso delle immagini. A quanto pare, la “griglia” sta cominciando a dare i suoi effetti.

Invece a Milano la polizia che fa: niente!!!

E non è certo l’alibi della nuova legge sulla tortura che li sprona a rimanere inermi di fronte alla commissione di reati, né può essere colpa degli agenti che, oltretutto, sono i primi a prender botte da manifestanti, spesso, figli di papà o figli proprio di quelle istituzioni che dovrebbero reprimere e condannare i reati.

E non sono certo gli agenti a mancare. Questo passerà alla storia come il primo maggio più lungo di sempre. Complice l’inaugurazione di Expo 2015, 6.000 uomini delle forze dell’ordine italiane sono stati mobilitati per evitare che chi vuole rovinare la festa dei lavoratori sia fermato senza conseguenze. Avendo gli occhi del mondo puntati sull’area in cui si svolgerà l’esposizione universale, una falla nella sicurezza dell’evento non può essere permessa. Per questo il Viminale ha inviato 3796 uomini di rinforzo ai reparti già mobilitati su Milano, per l’intera durata della manifestazione. Queste forze aggiuntive andranno a sommarsi ai 2.000 addetti già disposti in città per i prossimi giorni, che si preannunciano da bollino rosso.

Eppure qualche centinaio di black bloc ha sopraffatto la forza dello Stato. Alla fine il bilancio dei numeri è di 11 feriti tra le forze dell’ordine e zero tra i violenti criminali manifestanti, oltre che 10 antagonisti accompagnati in questura. Cinque gli arresti in flagranza eseguiti dalle forze dell’ordine. Durante i disordini avvenuti a Milano al corteo No Expo sono stati lanciati 400 lacrimogeni. Il dato è stato fornito dalla Questura. Un risultato risicato a favore della polizia. Un po’ troppo poco per il costo subito dei danni subiti e il costo per mantenere tutta la struttura per proteggere la città.

E non credo che la colpa sia degli agenti, ma, forse, visti i risultati è colpa di chi li comanda? Non mancano le voci critiche, come quella di Matteo Salvini che si chiede “Renzi e Alfano, i danni ai cittadini li pagate voi?”. E così pensa la gente.

C’è la rabbia della gente, tra le reazioni allo scempio che i No Expo hanno fatto questo pomeriggio a Milano scrive Libero Quotidiano il primo maggio 2015. Auto incendiate, cassonetti rovesciati, negozi dati alle fiamme, vetrine sfondate. Danni per milioni di euro. E la polizia che resta a guardare gli antagonisti che sfasciano tutto, limitandosi a contenere l’avanzata dei vandali e impedendogli di accedere alla zona rossa del centro. Una strategia assai diversa da quella adottata quattordici anni fa a Genova in occasione del G8. E la rabbia della gente esplode, pensando alle tante sentenze dei giudici contro la polizia (l’ultima quella sulla scuola Diaz) e l’introduzione del reato di tortura. “Attendere! Potrebbe scattare il reato di tortura!!!” scrive Vittorio. “Sono manifestanti pacifici. Perché fermarli? Sarebbe tortura” aggiunge Vittorio. Karl: “Fa bene a non intervenire…dopo certe sentenze!!!”. La polizia ormai è stata disarmata da certe sentenze, dai buonisti, dagli ipergarantisti sinistronzi, da certa stampa e non sentendosi tutelata, resta a guardare in attesa di ordini da parte di organismi superiori anch’essi congelati da certe sentenze”. Angelo: “Perché tanta meraviglia? dopo la condanna come torturatori e un capo che invece di difenderli li sospende…dopo giudici che mandano sempre liberi i delinquenti che vengono catturati perché mai i poliziotti dovrebbero rischiare di essere condannati.. un piffero disse “non siamo a Beirut” beh siamo peggio….”. Maurizio: Quanti dei danneggiati di oggi hanno urlato contro la polizia cilena di Genova? Quanti hanno trattato il povero carabiniere Placanica come uno sfigato (loro, i ricconi radical-chic)? Quanti hanno votato per Heidi Giuliani, madre dell’eroe dei tempi moderni (emblema perfetto del gramo destino d’Italia)? Bene, spero che i danni riguardino solo loro. La polizia non faccia nulla, non meritano nulla”. Giovanni: “non possono intervenire se no i giudici li condannano”. Rul5646: Naturalmente grande scandalo se la polizia si permettesse di intervenire. Allora certa magistratura, certe esponentesse ed i buonisti in coro si indignerebbero infinitamente”. E ancora: “E cosa potrebbero fare di più quei poveracci? Quei bastardi delinquenti sono sacri ed intoccabili per taluni magistrati e per tanti esponenti della politica italiana. Questa è l’Italia comunista!”. Cheope: “La polizia aspetta……tanto sa che se anche li prendono , domani per ordine di qualche magistrato li mettono fuori. E intanto ci sono persone che hanno le auto incendiate, negozi sfasciati e tanta paura. E tutto questo con l’Expo non c’entra, è solo terrorismo”. Poi c’è chi se la prende con Alfano: A O Anna 17 scrive: “Ma quel cretino di Alfano dove sta? Ah si è dimesso? Che fortuna. No no non si è dimesso, ma che schifo e non si vergogna?”.

Appunto i No Expo sfasciano e incendiano, la polizia sta a guardare. Scene già viste tante volte, purtroppo: auto e negozi in fiamme, vetrine spaccate a martellate. Qualche anno fa era toccato a Buenos Aires, questa volta a via Carducci, una delle strade più eleganti e centrali di Milano. Dove i manifestanti No Global hanno bruciato due auto, sfasciato tutto lo sfasciabile e bruciato un paio di negozi con colonne di fumo nero alte decine di metri. Per mezz’ora la strada, lunga circa 500 metri tra corso Magenta e piazzale Cadorna, è rimasta in preda totale ai No Global. le forze dell’ordine sono state a guardare senza fare nulla, senza intervenire, senza impedire la devastazione. Solo dopo mezz’ora un mezzo antincendio è arrivato a spegnere le fiamme delle due auto. E solo a quel punto polizia e carabinieri hanno iniziato a intervenire con cariche e manganelli.

Una gestione “tattica” dell’ordine pubblico, non con l’obiettivo di impedire una quantità inevitabile di devastazione, ma di bloccare l’accesso al centro di Milano al blocco dei violenti senza coinvolgere negli scontri le migliaia di partecipanti pacifici alla May Day Parade contro l’Expo. Questa è stata la strategia messa in campo dalla questura di Milano – in accordo con le disposizioni del ministero degli Interni – per affrontare una giornata che fin dalla vigilia si annunciava assai critica. E che critica alla fine è stata, come vede ripercorrendo le strade del centro di Milano devastate dal passaggio dei Black bloc. Ma che ha portato al risultato che fin dall’inizio i vertici della polizia si erano dati: evitare che il giorno dell’inaugurazione di Expo si trasformasse in una specie di G8, con feriti da una parte e dall’altra. Lo scontro fisico è stato evitato. e poi…dalle 18 del primo maggio piazza della Scala è completamente blindata dalle forze dell’ordine da ogni accesso. Dopo la manifestazione con oltre 20 mila No Expo e trecento black bloc che hanno devastato Milano, la tensione è alta per l’inizio della Turandot, l’opera scelta dal teatro milanese per festeggiare l’inizio di Expo 2015.

Vuoi metter che gli “Scalisti” con i cittadini danneggiati dai black bloc? Tutta un’altra musica!

E poi ci siamo noi cittadini, perché lì, a manifestare in piazza, ci vanno anche i nostri figli. Ma le mamme italiane dove sono? Perché non scendono pure loro in strada a prendere a sberle i figli che spaccano le vetrine e devastano le città? Questo si chiede Mario Giordano su “Libero Quotidiano”. Nei giorni scorsi siamo rimasti tutti colpiti da quella signora di Baltimora, di giallo vestita e di sganassoni munita: appena si è accorta che il suo adorato pargolo si era vestito da black bloc per fare a botte con la polizia, non ci ha pensato neppure un attimo. È scesa in strada, l’ha preso per la collottola, l’ha riempito di sberle e l’ha ricondotto sulla via della ragione. Un mito, certo. Ma che cosa impedisce alle mamme italiane di fare altrettanto? Si badi bene: quel che vale per la politica, vale anche per le violenze nello sport e nel calcio in particolare.»

 

Ponte Morandi. Diamo a Cesare quel che è di Cesare…

Si dica: i morti per Genova e non i morti di Genova.

L’ipocrisia italica tende a mistificare una realtà che è sotto gli occhi di tutti. Una mistificazione che non può giustificare quel logorroico fiume di parole demagogiche spese in un periodo agostano privo di notizie.

Cosa nasconde tutta quest’enfasi del dolore?

Che voglia la brigata d’arlecchini, servi di un nuovo padrone, usare la disgrazia a fini speculativi per ripicca e per rivalsa con strumenti demagogici?

Che si voglia, con il faro mediatico acceso, riavere tutto e subito, a discapito di altri disgraziati?

Il parere del dr Antonio Giangrande, che su Genova ha scritto un libro. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, videomaker, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS.

Con le tragedie si perdono cose o persone. Quanto valgono le une di più rispetto alle altre?

L’omelia di Bagnasco: “Giustizia e orgoglio. Genova non si arrende”. "Il crollo del ponte Morandi sul torrente Polcevera ha provocato uno squarcio nel cuore di Genova. La ferita è profonda" ha detto il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, sabato 18 agosto 2018 nell'omelia dei funerali delle vittime. Bagnasco ha poi riferito della telefonata fatta da Papa Francesco: "Ieri sera, con una telefonata affettuosa" il pontefice "ha voluto manifestarci la sua prossimità". "Sappiamo che qualunque parola umana, seppure sincera, è poca cosa di fronte alla tragedia, così come ogni doverosa giustizia nulla può cancellare e restituire". "Alziamo lo sguardo", ha poi esortato Bagnasco rivolto alla folla. "La Madonna Assunta al cielo ci invita anche in questo momento guardare in alto, verso Dio, fonte della speranza e della fiducia. Guardando a Lui - ha concluso l'arcivescovo di Genova - eviteremo la disperazione e potremo tornare a guardare con coraggio il mondo, la vita, la nostra amata Città. Potremo costruire ponti nuovi e camminare insieme".

Non solo Milan-Genoa e Sampdoria-Fiorentina, a fermarsi sono anche Lega Pro e Serie D. In segno di rispetto e vicinanza verso tutti coloro che sono stati colpiti dalla tragedia il presidente della Lega Pro Gabriele Gravina, ha disposto il rinvio, a data da destinarsi, delle gare di Coppa Italia che erano in programma domenica 19 agosto. "La Lega Pro ed i suoi club - si legge nel comunicato - rinnovano la vicinanza alle famiglie delle vittime e a tutti gli abitanti di Genova".

Si arriva addirittura a dire…

Una città in lutto fatica a elaborare dolore e sgomento. Un gruppo di psicologi e counselor specializzati nelle emergenze si offre di dar loro una mano, scrive Marta Buonadonna il 19 agosto 2018 su "Panorama". Siamo ancora sotto choc, e chissà per quanto durerà questa senso di vuoto che proviamo noi genovesi, che sul ponte Morandi passavamo tutti i giorni. Anche se non abbiamo perso una persona cara il 14 agosto, anche se non ci siamo salvati per miracolo, come è capitato a tanti sopravvissuti di cui abbiamo letto i racconti in questi giorni, la sensazione che proviamo è che anche un pezzo di noi sia rimasto sotto quelle macerie. Qualcuno si propone di aiutare i genovesi a elaborare la tragedia.

Ora è il momento di stabilire una verità. Se nessuno la dice, la dico io.

Parliamo di cose perse. Genova ha avuto per oltre 50 anni un ponte, che, forse, molti non l’hanno mai avuto. Oggi Genova lo ha perso in modo tragico e ne sono addolorato. Ma sicuramente chi, genovese, ha perso il ponte e la propria abitazioni, riavrà il tutto senza compromessi.

Ora parliamo di persone perse e che mai nessuno ce li ridarà.

Su 43 morti solo 7 sono di Genova. E di Genova, forse, nulla gli interessava.

Solo 7 erano di Genova: Roberto Robbiano (44), Ersilia Piccinino (41 anni) ed il piccolo Samuele (9). Bruno Casagrande (57) anni, Sandro Campora (53). Andrea Cerulli, (47). Funerale pubblico. Mirko Vicini (31). Funerale privato.

1 era di Busalla (Ge). Elisa Bozzo (33). Funerale privato.

1 era di Serra Riccò (Ge): Francesco Bello, (42). Funerale privato.

2 erano della provincia di Savona. Di Toirano Giorgio Donaggio (57). Funerale privato. Di Borghetto Santo Spirito Luigi Matti Altadonna (35) funerale pubblico.

9 erano Piemontesi: Cristian Cecala (42), Dawne Munroe e la piccola Crystal (9). La famiglia era di Oleggio in provincia di Novara. Andrea Vittone, 49 anni, sua moglie Claudia Possetti, 48 anni, e i figli della donna Manuele e Camilla Bellasio, di 16 e 12 anni. Erano di Pinerolo (No). Alessandro Robotti, 50 anni, e la moglie Giovanna Bottaro, 43 anni. Erano di Arquata Scrivia (Al). Tutti con funerali privati.

1 era lombarda. Angela Zerilli (58) di Corsico (Mi).

4 erano toscani: Jesus Erazo Trujillo (26) e Stella Boccia (24), la coppia di fidanzatini di Capolona (Ar). Funerali privati. Alberto Fanfani (32) e Marta Danisi (29) di Pisa

5 erano campani. Matteo Bertonati (26), Giovanni Battiloro (29), Gerardo Esposito (26) e Antonio Stanzione (29) di Torre del Greco (Na). Gennaro Sarnataro (43) di Casalnuovo di Napoli. Funerali privati.

1 era siciliano: Vincenzo Licata (58) Funerale privato.

7 erano francesi. Anatoli Malai (44), Marian Rosca (36). Origine moldava e rumena vivevano a Parigi. Diaz Enzo Henry (30). Nathan Gusman (20), Melissa Artus (21) William Pouza Doux (22), Axelle Nèmati Alizèe Plaze (21). Funerale di Stato.

3 cileni: Leyla Nora Rivera Castillo (48), Juan Carlos Pastena (64), Ruben Figuerosa Carrasco (68). Funerale di Stato.

2 albanesi e mussulmani: Marius Djerri, (28) e l’amico Edy Bokrina (22). Funerale pubblico.

Alla fine del conto pare chiaro che Genova abbia perso molto meno in termini di vite umane rispetto alle altre città, mai citate.

I ponti si rifanno, le persone no! Ed il rispetto per il dolore di una comunità deve essere pari per tutte.

E mai come questa volta, per il ponte Morandi di Genova, il dolore deve essere delocalizzato.

 

Italia. Educazione civica e disservizi.

Sosta selvaggia e raccolta differenziata dei rifiuti.

Lo scrittore e sociologo storico Antonio Giangrande, nel suo ultimo libro (L’Italia allo Specchio. Il DNA degli italiani. Anno 2019. Prima parte) parla dei parcheggi e della raccolta e smaltimento dei rifiuti.

Italia. Sosta selvaggia ed incompetenza.

I turisti, nel mettere piede in Italia, la prima cosa che notano è che sulla strada ognuno fa quel che gli pare. E’ abbastanza irregolare la circolazione, ma allucinante è il comportamento di chi si ferma con il suo veicolo. Un codice della strada fai da te, insomma.

Il fenomeno più appariscente è la sosta selvaggia.

Ma è possibile che in Italia ognuno parcheggia come gli pare, con il benestare dei vigili urbani e delle amministrazioni comunali?

La trasmissione televisiva di Mediaset, Striscia la Notizia, da sempre e stranamente si occupa solo dei parcheggi riservati ai disabili, occupati da chi non ne ha diritto.

Addirittura, chi si ritiene il più onesto del firmamento, cade nella tentazione della sosta selvaggia: “Multe per doppia fila al comizio della Raggi. I grillini: è un complotto – scrive il lunedì 23 maggio 2016 Carlo Marini su Secolo d’Italia.- Comizio di Virginia Raggi a Roma. A Piana del Sole, periferia romana, gli slogan sono i soliti: “Onestà, onestà”. Ma basta l’arrivo dei vigili urbani per mandare nel panico l’aspirante sindaco M5S e i suoi sostenitori. Una voce dalla platea lancia l’allarme: «Stanno a fa’ le multe». «Proprio adesso dovevano venì». I grillini, che vedono “microchip sotto la pelle” e “complotti” dappertutto, non hanno dubbi. Li palesa il deputato pentastellato al tavolo della Raggi, Stefano Vignaroli «Cioè a Piana del Sole non si vede un vigile nemmeno…». Virginia tace e sorride imbarazzata. Il rispetto delle regole dovrebbe valere per tutti. Anche per chi sa solo gridare “onestà, onestà”.

Eppure in Italia è consentito parcheggiare, ovunque, anche quando non ci sono le strisce che delimitano l’area di sosta, e comunque, come in doppia fila. Il tutto salvo che non ci sia un espresso divieto di legge od amministrativo e che ci sia qualcuno che lo faccia rispettare.

Quindi, lungo la carreggiata cittadina, anche a doppio senso di circolazione, ove l’area di sosta non è delimitata dalle strisce bianche o blu, auto, camper e roulotte, autocarri con rimorchio ed autoarticolati, autobus ed autosnodati possono parcheggiare come, quando e quanto vogliono, pur se intralciano il traffico?

Per il codice della strada e per la Corte di Cassazione: Sì. Basta che ci sia lo spazio di transito pari almeno a 3 metri.

E per quanto riguarda la sosta in seconda o terza fila?

Il parcheggio in doppia fila è una pratica piuttosto diffusa, soprattutto nelle grandi città dove la carenza cronica di parcheggi crea molti disagi soprattutto a chi ha bisogno di fare una sosta breve, “al volo”, per fare una veloce commissione. Il nostro “5 minuti e poi la sposto” può creare gravi problemi alle auto che risultano bloccate e che non possono muoversi. Oltre ad intralciare la circolazione. “La lascio qui due secondi e torno subito” pensiamo, non rendendoci conto che stiamo infrangendo non solo il Codice della Strada, ma anche il Codice Penale, commettendo un vero reato. Quante volte è capitato di vedere un’auto parcheggiata in doppia fila e di augurarsi che un vigile facesse un’improvvisa comparizione per punire il colpevole?

La sosta in doppia fila è esplicitamente vietata dal Codice della Strada, all’articolo 158, comma 2, lettera c, dove stabilisce, con la stessa occasione, anche la sanzione amministrativa pecuniaria, che oscillerà tra un minimo di 41€ e un massimo di 168€ per i mezzi a quattro ruote, e tra un minimo di 24€ e un massimo di 97€ per le due ruote a motore. L’articolo successivo (art. 159 C.P.) sancisce addirittura la possibilità per gli agenti di Polizia di provvedere ad ordinare la rimozione forzata, nel caso in cui la sosta vietata costituisca un pericolo o un grave intralcio alla circolazione degli altri veicoli. La situazione può però aggravarsi e diventare persino un reato (quindi un’infrazione del Codice Penale), almeno secondo l’interpretazione della Cassazione. I Giudici infatti hanno stabilito con le sentenze 24614/2005 e 32720/2014 che la sosta in doppia fila è idonea ad integrare il reato di violenza privata, proprio a causa dell’ostruzione dell’unica via d’uscita di un altro veicolo.

Quando la legge chiude un occhio. Attenzione però, perché esistono delle situazioni in cui il parcheggio in doppia fila è tollerato. Questo significa che, anche nel caso in cui all’automobilista venga notificata la violazione dell’articolo 158, comma 2, lett. c, del Codice della Strada, egli potrà presentare ricorso e ottenere l’annullamento della sanzione. Ma quali sono questi casi e come individuarli chiaramente? Come è facile immaginare, la legge non specifica i singoli casi in cui sia possibile adottare o meno un certo comportamento, ma si limita a definire i principi fondamentali. I quali, nello specifico, si ritrovano nell’articolo 54 del Codice Penale, che recita: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.

Il caso specifico delle eccezioni. Per passare dai principi generali all’applicazione della legge, quand’è che la sosta in doppia fila è consentita? Si tratta di tutti quei casi in cui si prefigurino:

Carattere d’urgenza e imminenza;

Situazione di pericolo non evitabile (non esistono soluzioni alternative);

Condizione di gravità della situazione che si vuole evitare.

Ci penserà l’italica genialità a trovare l’eccezione e la latina persuasione a porre rimedio.

Rifiuti. Affari, ma non per tutti.

Oggetto di raccolta sono i rifiuti domestici e quelli cosiddetti assimilati ovvero quelli derivanti da attività economiche, artigianali, industriali che possono essere assimilati (con decisione del comune tramite apposita delibera) per qualità a quelli domestici.

Natura della tassa sui rifiuti. Il presupposto della tassa è l’occupazione di uno o più spazi, adibiti a qualsiasi uso e giacenti sul territorio del comune dove il servizio di smaltimento rifiuti è reso in maniera continuativa. Quindi, il presupposto impositivo non è il servizio prestato dal comune, ma la potenziale attitudine a produrre rifiuti da parte dei soggetti detentori degli spazi. Infatti, fatta eccezione per i comuni con popolazione inferiore a 35.000 abitanti, l’importo da corrispondere per questa tassa non è commisurato ai rifiuti prodotti, ma alla quantità di spazi occupati. Tali presupposti danno a questa tassa natura di imposta anziché di tassa, il cui importo viene invece commisurato al servizio prestato. Un altro elemento che lascia propendere verso la natura di tributo è dato dal fatto che la Tassa non è soggetta a IVA, come lo sarebbe invece stato qualunque tipo di servizio.

Ma come mai più si differenzia, più si paga?

Più si conferiva il tal quale indifferenziato, meno si pagava. Che strano ambientalismo!

Prima c’erano i cassonetti dell’indifferenziata. Poche spese e pochi operatori ecologici. In alcune zone scatta l’emergenza dei rifiuti, più per complotti politici e speculazioni economiche per la gestione delle discariche.

Poi ai tradizionali cassonetti si sono aggiunti i contenitori per carta, plastica, vetro, formando le isole ecologiche. Più spese e più operatori ecologici, ma anche più guadagni per la vendita del differenziato. In alcune zone aumenta l’emergenza dei rifiuti, più per complotti politici, ma crescono le speculazioni economiche: per la gestione delle discariche e per gli affari sul differenziato.

La politica si inventa l’ecotassa. Tributo speciale per il deposito dei rifiuti solidi in discarica.

Poi siamo arrivati all’oggi. Raccolta porta a porta dei rifiuti. Distribuzione dei contenitori per il conferimento dei vari rifiuti, divisi per specie. In alcuni paesi cinque, ad altri solo due. I colori sono differenti da paese a paese.

Ogni bidone (utenze non domestiche) o bidoncino (utenze domestiche) avrà il suo giorno stabilito per essere svuotato.

L’utente ha bisogno di una laurea. Finisce come la parodia di Ficarra e Picone nel film: l’Ora legale. Ficarra si mangia la buccia del melone, non sapendo dove buttarla e chiede: “Voi a Milano i tovaglioli sporchi di sugo dove li buttate?”

OGNI BIDONE UN COLORE, OGNI COLORE UN TIPO DI SPAZZATURA, TU LI SAI?

Cerchiamo di capire quali sono i colori più utilizzati per i bidoni della spazzatura nella raccolta differenziata dei rifiuti, non esiste ancora uno standard, ma in linea di massima queste sono le colorazioni più usate.

Pur non essendo ancora ufficialmente uno standard, si può dire che per la raccolta differenziata i vari colori dei bidoni seguono questo schema:

Bianco: Carta, cartone (riviste, giornali e materiali cellulosici in generale)

Verde: Vetro (bottiglie, barattoli, specchi, etc.)

Rosso o marroncino: Organico (umido)

Giallo: Plastica riciclabile (bottiglie di bevande, detersivi, prodotti per l’igiene, etc.)

Blu: Alluminio (lattine, imballaggi, bombolette spray, etc.)

Va comunque detto che essendo i comuni gli assegnatari dei vari colori in alcune zone potrebbero esserci delle variazioni, infatti ci sono zone in cui i bidoni blu sono destinati a carta e cartone, quelli verdi a vetro e lattine, quelli gialli alla plastica, quelli marroni o rossi ai rifiuti non riciclabili, quelli arancioni all’indifferenziata e quelli neri ai rifiuti organici. Ma non è finita qui, ad ogni sacco un colore, ad ogni colore un tipo di spazzatura, secondo voi vale la stessa regola e lo stesso abbinamento di colori che abbiamo appena visto per i bidoni?

Sempre che i bidoni rimangano in nostro possesso in comodato d’uso, perché un nuovo sport prende piede: il furto di bidoni e bidoncini. Le denunce presentate posso riempire centinaia di questi bidoni. E la burocrazia anche in questi casi punisce in modo grave. Dopo la denuncia seguono giorni di attesa e di adempimenti per la sostituzione di un bidoncino di pochi euro di valore.

Poi bisogna combattere anche con l’arroganza degli operatori che ti riprendono per ogni errore: smaltire un certo tipo di rifiuti in giorni sbagliati o in orari sbagliati.

Se poi gli operatori minacciano di sanzione in caso di errore, allora l’ansia cresce.

Intanto le utenze domestiche diventano bombe ecologiche, con tanti contenitori sparsi per casa che non trovano posto.

E che dire delle città e dei paesi che sono delle vere bidonville maleodoranti, ossia strade invase da bidoni perenni posti sui marciapiedi (da 2 a 5 per utenza non domestica, come negozi, ristoranti, attività artigianali e professionali, ecc.).

Dove ci sono loro (i bidoni) è impedito il transito ai pedoni.

Intanto i pseudo ambientalisti osteggiano i termovalorizzatori per meri intenti speculativi.

Rifiuti organici, in Italia un giro d’affari da 1,8 miliardi di euro. Aumenta la raccolta nel 2017, a livello nazionale passa da 107 a 108 kg la raccolta annuale procapite. Lombardia in testa per produzione, scrive La Repubblica il 16 Febbraio 2019.

Sulle tariffe rifiuti, l’Italia non è unita (e i virtuosi sono pochi). I dati sulle tariffe rifiuti fotografano un Paese iperframmentato: i virtuosi pagano meno e solo al top per raccolta differenziata e tariffazione puntuale, scrive Rosy Battaglia il 14.12.2018 su valori.it. Se il giro d’affari dell’industria del riciclo è stimato in 88 miliardi di fatturato, con ben 22 miliardi di valore aggiunto, ovvero l’1,5% di quello nazionale, come riporta lo studio di Ambiente Italia (promosso da Conai e da Cial, Comieco, Corepla e Ricrea) quanto costano, invece, i rifiuti alle famiglie italiane?

I miliardi nel cassonetto: chi vince e chi perde nel grande business dei rifiuti. Un giro d’affari di 11 miliardi: i profitti tutti al Nord e all’estero, dove arrivano centinaia di treni e camion dalle regioni del Centrosud rimaste gravemente indietro, che non possono fare altro che imporre tasse più alte, scrive Daniele Autieri su La Repubblica il 22 maggio 2017.

Raccolta differenziata, tra conflitti di interesse e dati segreti: “Costi a carico delle casse pubbliche”. Tra opacità e critiche dell’Antitrust, il sistema Conai non garantisce la copertura dei costi di raccolta a carico dei Comuni con i prezzi di fatto definiti dai produttori di imballaggi. Una situazione capovolta rispetto a quella di altri Paesi europei, scrive Luigi Franco l’8 Ottobre 2016 su Il Fatto Quotidiano. Domanda numero uno: quanta plastica, carta o vetro da riciclare ha raccolto il tal comune? Domanda numero due: lo stesso comune quanti contributi che gli spettano per legge ha incassato a fronte dei costi sostenuti per la raccolta differenziata degli imballaggi? Due domande le cui risposte sono contenute nella banca dati Anci–Conai prevista dagli accordi tra l’Associazione nazionale dei comuni italiani e il Conai, ovvero il consorzio privato che è al centro del sistema della raccolta differenziata degli imballaggi. Numeri non diffusi ai cittadini, che possono contare solo su un report annuale con dati aggregati. Ma i dati aggregati non sempre vanno d’accordo con la trasparenza. E soprattutto non rendono conto delle incongruenze di una situazione su cui l’Antitrust di recente ha espresso le sue critiche, mettendo nero su bianco che “il finanziamento da parte dei produttori di imballaggi dei costi della raccolta differenziata non supera il 20% del totale, laddove invece, dovrebbe essere per intero a loro carico”. Con la conseguenza che a rimetterci sono le casse pubbliche, visto che tocca ai comuni coprire gran parte di quei costi.

Inceneritori in Italia, dove sono e qual è la differenza coi termovalorizzatori. Diversamente dai primi, i termoutilizzatori producono elettricità e non inquinano. Ma c’è il problema CO2. Da Nord a Sud, la mappa completa, scrive Paco Misale il 19 novembre 2018 su Quotidiano.net. Inceneritori e termovalorizzatori. In molti li identificano come la stessa cosa. In realtà, non è così. I primi sono impianti che bruciano i rifiuti e basta, mentre i secondi sono impianti che bruciano i rifiuti per generare energia. Gli inceneritori sono impianti vecchi, che oggi non si costruiscono più: si preferiscono i termovalorizzatori, che permettono non solo di distruggere i rifiuti, ma anche di produrre elettricità.

Termovalorizzatori e inceneritori, ecco verità e bufale, scrive Nino Galloni su Starmag il 19 novembre 2018. Perché si confondono termovalorizzatori e inceneritori? Ha ragione Matteo Salvini, per due ordini di motivi:

1) né le discariche né la differenziata rappresentano la soluzione del problema;

2) il patto o contratto di governo è fondamentale (come rispettare il sabato) ma se ti cade l’asino nel pozzo lo vai a tirar fuori anche se è sabato.

Tuttavia, sia Salvini, sia la stampa e la televisione hanno parlato di termovalorizzatori e di inceneritori. Bene, quarant’anni fa c’erano gli inceneritori e una discreta mafia se ne interessò, ma la loro capacità di inquinare e rilasciare diossina quando gli impianti si raffreddavano era massima. Vent’anni fa arrivarono i termovalorizzatori – dotati di filtri – riducevano l’inquinamento del bruciare, ma non abbastanza, in cambio fornivano energia elettrica da combustione (legno, rifiuti, gasolio, tutto può bruciare). Oggi esistono gli Apparati di Pirolisi; due brevetti italiani, Italgas e Ansaldo. Oggi, dunque, esistono Pirolizzatori di cui un tipo che emette gas combustibile, inerti ed anidride carbonica; ed un altro che non emette l’anidride carbonica perché svolge al chiuso i processi. Perché non si parla di dotare l’Italia di questi apparati attuali? Perché si confondono termovalorizzatori e inceneritori? Perché la mafia non solo non si è interessata ai Pirolizzatori, ma anzi, li ha osteggiati in tutti i modi entrando nella politica e nell’economia per impedirne la diffusione? Perché a Roma Virginia Raggi ed il suo staff non hanno voluto prendere in considerazione tale proposta? Ci sono anche altre tecniche non aerobiche – in cui, sempre al chiuso, intervengono i batteri – e che consentono di trasformare la risorsa “rifiuti” in concimi, fertilizzanti e gas naturali, combustibili, a impatto ambientale negativo (cioè risolvono più problemi dell’abbandonare i rifiuti – come tali – a sé stessi o cercare di riciclarli in modo non efficiente). Intendiamoci, la differenziata e l’economia circolare sono buonissime idee; ma perché vetro, metalli, plastica eccetera vengano recuperati occorre dotare le città di industrie adeguate, non mandare tali risorse in Svezia o in Germania (che, invece, al pari di alcuni lodevolissimi comuni italiani – ma l’eccezione conferma la regola- sanno approfittare di tali opportunità. Credo che dell’ambiente – e non solo – si debba ragionare in modo non propagandistico, valutando bene, di ogni cosa, l’impatto economico, finanziario e sociale. (Estratto di un articolo tratto da Scenari economici)

Rifiuti. Cosa fanno a Parigi. Scrive il Consorzio Recuperi Energetici. Un termovalorizzatore in parte interrato che tratta 460 mila tonnellate di rifiuti l’anno sull’argine della Senna. Vi sembra una fantasia? No è la realtà dell’impianto di Syctom Isseane, a Issy -les- Moulineeaux, un Comune della cintura di Parigi. Il progetto raggruppa 48 Comuni che hanno aderito ad un medesimo piano e si sono messi insieme per smaltire i rifiuti, realizzando quest’impianto. Dal 2007 il centro tratta i rifiuti prodotti di circa un milione di abitanti…Un’apposita carta della qualità ambientale è stata sottoscritta con il comune di Issy che garantisce le condizioni di qualità, di sicurezza e di protezione dell’ambiente. L’impatto sulla salubrità dell’ambiente è regolato da limiti rigorosissimi. Un impianto simile e forse anche più avanzato è quello di Firenze almeno sul ciclo dei rifiuti. Qui si raggiunge il 54% della raccolta differenziata ed entro il 2020 è previsto il 70%. Il termovalorizzatore di Case Passerini eviterà che i rifiuti residui, ossia quelli non riciclabili, siano inviati altrove producendo energia elettrica equivalente al fabbisogno annuo di 40 mila persone, climatizzando l’intero aeroporto ed eliminando lo smog causato dai camion che trasportano rifiuti nelle discariche.

Copenaghen, l’inceneritore con pista da sci sul tetto. Di Maio: “Ce la vedo ad Acerra…” Tutto pronto per il nuovo termovalorizzatore costato 670 milioni di dollari. Produrrà energia a impatto zero. Attorno un parco con piste ciclabili e impianti sportivi. Sul lato più alto della struttura la parete artificiale d’arrampicata più alta del mondo, scrive Paco Misale il 19 novembre 2018 su Quotidiano.net

  

Disgusto sanità.

DISGUSTO SANITA’. IL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE: FONTE DI TUTTE LE MAFIE

Ennesimo atto di denuncia contro il malaffare da parte del dr Antonio Giangrande, ignorato e perseguitato presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ed autore del libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo”.

“Non ci posso credere !!!!”, direbbe ognuno di noi, se avesse un minimo di coscienza, parafrasando la celebre frase di Aldo, del celebre Trio comico Aldo Giovanni e Giacomo, leggendo il dossier e vedendo i video pubblicati sul sito www.controtuttelemafie.it .

“Non vorrei che la lotta alla mafia diventasse l’alibi per non denunciare il più grave problema della Calabria, che non è la “ndrangheta, ma il malaffare che governa la Regione”, dice Alberto Cisterna, sostituto procuratore nazionale antimafia. Si dice Calabria, ma si intenda Italia.

Baronie e nepotismo sanitario sono le ultime nostre preoccupazioni.

Le competenze sono un refrain della cronaca sanitaria. Il più delle volte le spiegazioni sono ineccepibili, i regolamenti inflessibili, non ci sono comportamenti contrari alle gabbie dei protocolli. E’ uno stillicidio. Ci sono mancati o ritardati interventi per incompetenza funzionale. Ci sono le opere pubbliche incomplete per competenze frantumate.

L'elenco delle negligenze è impressionante. I laboratori restano più volte incustoditi con i frigo e gli armadi aperti nonostante la presenza di sostanze radioattive. I depositi di colture batteriche e virali di malattie infettive e tropicali non hanno serratura: senza sorveglianza, il congelatore con le provette a rischio contagio è sempre accessibile a chiunque. Per giorni nessuno pulisce. Infermieri e portantini spesso fumano anche quando spingono gli infermi su lettighe e carrozzelle. Ogni volta che salgono o scendono dalla rianimazione o dal pronto soccorso o dalle sale operatorie, i ricoverati, anche quelli più gravi, nudi sotto le lenzuola, intubati o con l'ossigeno, seguono lo stesso percorso dell'immondizia. Finiscono così in mezzo ai sacchi neri e agli scatoloni gialli ammassati nei sotterranei, o in coda ai carrelli della rimozione. E quando gli addetti lavano con getti d'acqua i depositi dei rifiuti, le ruote dei lettini si inzuppano di liquami e trascinano tutto lo sporco in reparto. Verrebbe da sorridere se si pensa che, per legge, perfino le mozzarelle di una pizzeria vanno tenute sempre lontane dalla spazzatura.

La competenza di professori e direttori si ferma al proprio reparto. La maggior parte di loro non ha nemmeno il tempo di guardar fuori. Impegnati come sono a dividere le giornate tra ospedale pubblico e cliniche private. Perché mai dovrebbero battersi per il datore di lavoro che dà loro sì prestigio, ma con il quale guadagnano meno? Dopo tutto, proprio queste condizioni favoriscono l'esodo dei pazienti verso la sanità privata, o no? Fino a concepire l’obiezione di coscienza all’aborto nelle sedi pubbliche, ma ad accettarlo di farlo in quelle private.

Ogni anno in Italia la mancanza di igiene in corsia provoca un'ecatombe: tra i 4.500 e i 7 mila morti per infezioni prese durante il ricovero. Per altri 21 mila decessi le infezioni ospedaliere sono una concausa. I pazienti italiani che si ammalano in ospedale oscillano tra i 450 mila e i 700 mila all'anno. E nel 30 per cento dei casi si tratta di contagi sicuramente evitabili. Sono stime molto variabili di anno in anno, raccolte dall'Istituto superiore di sanità.

Ma a svelare la «malasanità» Regione per Regione è il dossier dei carabinieri del Nas al termine dell’indagine ispettiva. Si scopre così che su 854 nosocomi visitati ben 417 sono stati sanzionati. Disastrosa è la situazione del Sud con la Calabria (36 irregolari su 39) e la Sicilia (67 su 81). Più che di ospedali, in queste zone si potrebbe parlare di vere e proprie fogne a cielo aperto dove i rifiuti si accatastano nei corridoi, dove c’è muffa e ruggine nelle stanze e nei corridoi, dove gli impianti non sono a norma, le apparecchiature non funzionano, i medici troppo spesso non vanno al lavoro.

A tutto questo si aggiunge una doppia denuncia su due fronti diversi, che rivela ancora una volta lo stato preoccupante delle nostre strutture sanitarie: malnutrizione e cartelle pazze.

Sei pazienti italiani su dieci vengono dimessi dall'ospedale in uno stato di malnutrizione. Di questi, tre erano già così al momento dell'accettazione e gli altri erano a rischio. Eppure basterebbero 15 minuti di attenzione in più entro 24 ore dal ricovero: il tempo necessario per uno screening nutrizionale.

Ma non basta. Perché gli ospedali sono diventati anche una miniera di troppi errori nelle cartelle cliniche dei pazienti italiani. Sbagli di trascrizione e scrittura illeggibile, anche solo semplici sviste possono portare a gravi conseguenze.

Provocano più vittime degli incidenti stradali, dell'infarto e di molti tumori. In Italia le cifre degli errori commessi dai medici o causati dalla cattiva organizzazione dei servizi sanitari sono da bollettino di guerra: tra 14 mila (secondo l'Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri) e i 50 mila decessi all'anno, secondo Assinform. Il che significa circa 80-90 morti al giorno (il 50% dei quali evitabile), 320 mila le persone danneggiate. E con costi pari all'1% del pil: 10 miliardi di euro l'anno.

La sanità italiana spende ogni anno più di 500 milioni di euro solo per assicurarsi contro il rischio di ferire o uccidere i pazienti. È una spesa fuori controllo che ha l'effetto di una tassa occulta sulla salute dei cittadini: almeno mille miliardi di vecchie lire che, a ogni scadenza di bilancio, si trasformano in costi ospedalieri finanziati dallo Stato, finendo così per gravare su tutti i contribuenti. A differenza dell'Irpef o dell'Ici, questa imposta segreta sulla malasanità continua a salire a ritmi vertiginosi - nell'ultimo decennio l'aumento medio è di oltre il 20 per cento ogni 12 mesi - seguendo dinamiche inarrestabili: l'esborso finale è sempre variabile e imprevedibile, perché corrisponde all'insieme dei risarcimenti liquidati in migliaia di vertenze individuali. Oggi si contano circa 30 mila denunce all'anno per vere o presunte colpe professionali di medici e infermieri o per disservizi delle strutture sanitarie.

Roberto T. era un bambino di sei anni, sano e molto intelligente, quando è diventato vittima di un orrore ospedaliero che ha convinto i giudici di Milano a infliggere il più elevato risarcimento individuale documentabile negli ultimi vent'anni. Ricoverato all'ospedale Buzzi per una semplice operazione alle tonsille, il bimbo entra in coma e dopo tre giorni ne esce cieco, paralizzato e con un deficit mentale del 90 per cento. La causa civile intentata dai suoi disperati genitori ha fatto scuola, perché ha segnato uno spartiacque nella valutazione delle prove scientifiche in un caso che sembra riassumere tutto quello che non dovrebbe succedere in un paese civile. Per cominciare, i tempi. L'intervento chirurgico (tonsillectomia) risale al 16 marzo 1989, la sentenza di primo grado è del 21 febbraio 1997, quella d'appello del 6 novembre 2001, per cui le condanne diventano definitive nel 2002: giustizia è fatta, ma dopo 13 anni. Secondo problema. Come in tutti i processi sanitari, di fatto a decidere sono le perizie. Firmate da altri medici, cioè da colleghi degli imputati. Nelle motivazioni si legge che il primo collegio di periti aveva escluso qualsiasi responsabilità dei medici del Buzzi. Se nonché il giudice istruttore scopre gravi lacune nel referto, s'infuria e nomina un secondo collegio, che invece accerta "colpe evidenti" del primario e di altri tre dottori. In appello, l'inevitabile terza perizia riconferma l'accusa ai quattro medici di non essersi accorti neppure che il bambino sotto i ferri aveva "una vistosa emorragia interna con perdita di mezzo litro di sangue", che gli ha bloccato la respirazione. Tutti i periti sono d'accordo solo nel condannare il Buzzi, l'ospedale dei neonati di Milano, che all'epoca "non aveva nemmeno una rianimazione". Nel frattempo ai baroni innocentisti, benché smentiti dalle altre due squadre di periti, non succede nulla: continuano a lavorare anche per i tribunali, perché la medicina non è una scienza matematica.

Al di là delle deviazioni illegali, la malasanità è sicuramente diventata un business per gli avvocati, fino a prova contraria lecito. Questo vale sia per i risarcimenti del danno, sia per le ingiunzioni di pagamento alle ASL per le fatture non pagate ai fornitori.

A tutto questo si aggiunge l'impedimento all'accesso alle cure: lunghe liste d'attesa e insufficienti reparti di terapia intensiva. Le liste di attesa sono da anni in preoccupante aumento e sono diventate ormai un muro fra i cittadini e l'accesso alle cure per la salute. A fronte di questa situazione si rende necessario (se non obbligatorio) dover ricorrere al privato e all'intramoenia, dove i tempi si fanno notevolmente più brevi per l'erogazione della prestazione rispetto al canale istituzionale. Questo fenomeno, che sa tanto di estorsione, viene alimentato dalle prestazioni degli stessi medici, che da privati le erogano, ma che da dipendenti pubblici, le impediscono.

Per sopravvivere nell'Italia che sta sotto Roma bisogna sempre sperare che qualcun altro muoia. E prendere rapidamente il suo posto, prima che sia troppo tardi. Altrimenti in ospedale non vi fanno entrare più: c'è il "tutto esaurito" nei reparti di terapia intensiva sparsi per il nostro Sud.

È la Sanità pubblica corrotta ed inefficiente che ha "chiuso" anche per le emergenze, pazienti trasportati come pacchi da città in città o posteggiati da qualche parte in attesa di migliore sistemazione, ore e giorni di calvario inseguendo la sorte tra riforme e tagli e quelli che gli esperti della materia chiamano misteriosamente "riordini". Sempre molto incerta è la linea tra la vita e la morte nella casba ospedaliera che è oggi l'altra Italia, specie nel Meridione.

Liste di attesa dolorosissime, risse e denunce per accaparrarsi un respiratore artificiale, i soliti carabinieri che accompagnano i malati più gravi per piazzarli "in nome della legge" in qualche ospedale. Ma non c'è più possibilità di finire "normalmente" in rianimazione.

A tutto ciò si aggiunge una ricerca truccata. La ricerca non la si fa, spesso la si impedisce.

E’ opinione diffusa che dal cancro, qualunque terapia si adotti, difficilmente si guarisce; gli scarsi risultati ottenuti dalla terapia ufficiale sulle neoplasie, specialmente quelle diagnosticate già in fase avanzata, confortano questa opinione e, purtroppo, la maggior parte delle diagnosi risulta tardiva. Molti pazienti non se la sentono di  affrontare  gli effetti devastanti sulla “qualità della vita” indotti dei trattamenti chemio e radioterapici  più praticati, i cui risultati finali spesso non sono entusiasmanti ed anche questa è una realtà difficile da  negare. Come pure sono innegabili  i traumi psicologici e le scomodità che derivano dall’essere costretti a praticare gli ambulatori e gli ospedali. Oggetto di contestazioni violentissime da parte della lobby dei medici, “La Cura Di Bella” fu sperimentata sotto il ministro Rosi Bindi in modo approssimativo e scorretto, fino a decretarne ingiustamente l'inefficacia. "Ingiustamente" perchè laddove la terapia fu praticata con particolare attenzione alle prescrizioni del suo proponente - il fisiologo Antonio Di Bella - spesso portò a risultati positivi, che vennero volutamente e sistematicamente sottovalutati o peggio taciuti. In moltissimi casi, invece, la cura Di Bella venne sperimentata scorrettamente, senza alcuna attenzione al protocollo e alle più elementari garanzie farmacologiche. Certo è che la terapia è stata osteggiata dalla lobby medica e farmaceutica per motivi facilmente individuabili, mentre sarebbe opportuno che venisse sperimentata e analizzata con rigore e senza pregiudizi.

Se ciò non bastasse ci si mette il racket dei decessi e delle ambulanze, oltre alle solite truffe.

Truffe al Sistema sanitario nazionale sono state scoperte da nord a sud dell’Italia. Si sono accertati migliaia di casi di pazienti morti che erano ancora iscritti al Servizio Sanitario che quindi continuava a erogare compensi mensili ai medici. Si trattava di persone morte da circa vent'anni in giù. Cinque euro al mese. Questa la tariffa mensile che i medici di base ricevono per ogni iscritto al Servizio sanitario nazionale.

I carabinieri del Nas di Cosenza hanno arrestato 70 falsi infermieri, impiegati presso strutture pubbliche e private della Regione Calabria. Secondo quanto accertato dagli investigatori, avrebbero acquistato da un'organizzazione criminale falsi diplomi di "infermiere professionale" riuscendo così ad inserirsi nel mondo del lavoro ospedaliero nonostante fossero del tutto privi di conoscenze mediche. I finti infermieri erano spesso coinvolti anche in sala operatoria e in altre delicate mansioni. Altri ancora avevano anche fatto carriera diventando caposala.

Quarantanove infermieri in servizio nelle strutture ospedaliere della Asl 5 della Spezia sono stati denunciati dai carabinieri del Nas di Genova per mancanza di iscrizione all’albo.

Non da meno sono gravi i casi scoperti in cui si i cittadini, fruitori di visite ed esami clinici specialistici, hanno dichiarato il falso sulle autocertificazioni, per essere esonerati al pagamento del ticket.

Anche quando non era Natale c'erano dei bei regali, viaggi, libri, computer, impianti stereo, per quei medici che prescrivevano ai loro pazienti i farmaci di quella nota casa farmaceutica invece di quelli delle aziende concorrenti. Troppi regali, troppe ricette con quel marchio, hanno insospettito gli inquirenti, che hanno incominciato ad indagare per "corruzione e comparaggio" quasi tremila persone in molte regioni: oltre a medici ed informatori, farmacisti, operatori sanitari, dirigenti di aziende, istituti ed enti ospedalieri.

La domanda che il cittadino si fa è questa: quanto ci costa tutta questa inefficienza?

Cento miliardi l'anno. È il costo della salute in Italia. Una torta da spartire per la politica. Tra nomine, appalti e rimborsi a privati. Un business che sempre più spesso finisce nel mirino della magistratura.

La cronaca ci parla di Puglia, Abruzzo, Lombardia, Piemonte, Lazio, Calabria, Campania, ecc.: da almeno 15 anni, decine di indagini giudiziarie documentano migliaia di truffe, sprechi, clientelismi, favoritismi, disservizi, frodi criminali, corruzioni e infiltrazioni mafiose. La salute degli italiani muove un giro d'affari di oltre 100 miliardi di euro. Che molti vedono come una torta da spartire. E i pm di Milano che indagano sulla Santa Rita e le altre "cliniche degli orrori", in un'audizione segreta al Senato, finiscono col descrivere la sanità come «un sistema che fa diventare i reati una prassi». In un vortice di mazzette e appalti, quello che sembra importare meno a molti dirigenti è il fatto che stanno amministrando la salute pubblica. E che ogni euro in mazzette e servizi scadenti è un euro tolto ai malati. Ma la questione morale in sanità non esiste, se i presunti corrotti finiscono in Parlamento e nessuno sembra pagare mai il conto.

E che dire della donazione di organi e sangue ?!?!

Dopo ben 41 anni di trapianti effettuati attraverso organi prelevati da ammalati a cuore battente, la comunità scientifica internazionale scopre oggi che la dichiarazione di “morte cerebrale” non era poi così infallibile e occorre un profondo ripensamento dei criteri. L'annuncio arriva da uno dei padri della trapiantistica, Ignazio Marino.

Contrordine: dopo decenni di espianti a cuore battente, spacciati per “prelievo da cadavere” fin dalle ingannevoli parole della legge, la comunità scientifica italiana, costretta ad allinearsi a buona parte di quella internazionale, oggi fa marcia indietro: la morte cerebrale è una finzione, una convenzione buona per far prosperare carriere e primariati, holding statali dei trapianti ma, soprattutto, le multinazionali del farmaco, che proprio sui trattamenti antirigetto accumulano ogni anno fatturati da milioni e milioni di euro.

Vaglielo a raccontare alle centinaia di migliaia di pazienti espiantati negli ultimi 41 anni in mezzo mondo perchè certificati in stato di “morte cerebrale”.

E per finire la ciliegina sulla torta. Fa notizia la nascita a Udine della prima ed unica associazione italiana di camici bianchi che si sono finalmente decisi a donare almeno il sangue. «Molti donatori - spiegano alcuni studenti di medicina, promotori dell'iniziativa - si chiedono se i medici, che conoscono l'utilità del sangue, siano anche donatori a loro volta... Ora ci auguriamo che la realtà di Udine possa essere presa d'esempio da altri Ordini». Pare insomma che il motto, per i camici bianchi, sia sempre stato: “fate che a donare siano gli altri”. Ed effettivamente, scorrendo statistiche e cronache, i casi di medici diventati donatori di organi sono gocce in un oceano.

Da ultimo non dimentichiamoci delle associazioni di volontariato para sanitarie. Fanno il bene, ma non sempre fanno bene. Bussano alle nostre tasche, proponendo mille cause nobili: la lotta senza quartiere ad una malattia inguaribile, l’aiuto ai bambini malati, una crociata contro le infinite piaghe della nostra società. Non sempre, però, i soldi che finiscono nelle mani di enti e organizzazioni vengono spesi con i migliori criteri. Sprechi, inefficienze, il peso soffocante della burocrazia che uccide anche i migliori sentimenti, quando non ammanchi, ruberie, truffe delle più odiose. Il mondo della carità, o della solidarietà, è una foresta dove si trova di tutto. Straordinari esempi di altruismo e storie di furbizia e di cinismo che fanno a pugni con la nostra coscienza.