Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

 

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 Di Antonio Giangrande

 

 

INDICE

 

Quando le donne fanno lobby e la vittima è l’uomo: ossia stalking e mobbing sottaciuto ed impunito.

A proposito di rapimenti di Stato.

 

Quando le donne fanno lobby e la vittima è l’uomo: ossia stalking e mobbing sottaciuto ed impunito.

Il dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, stila un dossier, sull’onda delle segnalazioni e delle notizie di stampa, che riportano i casi di suicidi di padri separati. La prevedibile ed infondata accusa di maschilismo non può tacitare una tematica importante e delicata.

Nel mondo occidentale il riequilibrio dei ruoli (famiglia e lavoro) tra uomo e donna ha portato, non poche volte, ad eccessi di segno opposto rispetto al passato. Il caso forse più eclatante in Italia è quello dei padri separati.

Soltanto nel 2006 infatti è stata approvata la Legge 54 denominata "Affido Condiviso", che ha cominciato a cambiare le cose. Fino a quel momento in oltre il 90% dei casi i figli venivano affidati esclusivamente alla madre. Altre difficoltà, oltre quelle degli affetti, per un padre che si separa sono la casa (assegnata per oltre due volte su tre alla donna), e la questione assegni (nel 95% dei casi erogati dagli uomini).

Il disagio psicologico, morale e materiale a cui è sottoposto l'uomo nelle separazioni lo porta a lasciarsi andare molto più spesso di quanto si crede. Il 93% dei suicidi post-separazione sono di padri (fonte FENBI circa 100 l'anno) e la Caritas in un recente comunicato ha informato che decine di migliaia di padri separati si stanno rivolgendo a loro per un posto letto. I dati riferiti ai suicidi dei padri separati sono contraddittori. Secondo i dati diffusi dall'Armata dei padri, solo nel 2006, sono 2 mila i padri che si sono suicidati perché lontani dai figli.

Ma la maggior parte degli uomini abbandonati (il 74% delle separazioni sono chieste da donne), privati di figli, casa, lavoro, non riesce a reagire, il "sommerso" come si dice in questi casi è molto più vasto di chi invece riesce a reagire, magari entrando in una delle tante associazioni tematiche.

I dati, raccolti sui giornali dall'associazione "Ex", rivelano che negli ultimi 10 anni sono stati uccisi 158 minori (più di 15 ogni anno) per conflitto tra genitori in fase di separazione. Nello stesso periodo i fatti di sangue legati alla fine di una convivenza sono stati 691 con 976 morti. In oltre il 98% dei casi il delitto riguarda una coppia con figli, mentre solo nell'1,7% la coppia non ha figli. Il 34,5% dei fatti si è consumato al Nord, nel 37,7% al Centro e nel 27,8% al Sud e Isole. Nel 76,6% dei casi è un uomo che ha in media tra i 30 e i 40 anni a commettere il delitto, il 50% delle vittime è donna e il 16,1% è minore. Questi dati sono stati allegati a una mozione presentata alla Camera, in cui si è chiesto al Governo maggiore impegno a favore della bigenitorialità.

L'episodio dell'ennesimo padre separato che si è ucciso perchè non poteva vedere il figlio suscita «dolore e amarezza», ha affermato Maurizio Quilici, presidente dell'Isp, l'Istituto di studi sulla paternità, che rileva come esso sia «la punta di un drammatico iceberg che da molti anni galleggia nell'indifferenza di molti». «Non sono bastate - osserva Quilici in una nota - le battaglie dei movimenti dei padri, la trasformazione della figura paterna così vicina, oggi, ai figli e capaci di accudimento ed empatia; non è bastata una legge - la 54 del 2006 - che impone il condiviso come forma prioritaria di affidamento. I giudici continuano imperterriti a privilegiare le madri, le madri continuano a ostacolare il rapporto dell'ex compagno con i figli, i figli continuano ad essere strumento di battaglia per campioni di egoismo. I padri che si separano continuano a vivere con tremendo dolore la frequente perdita dei figli. E di dolore si può anche morire».

Quando le agenzie di stampa (nel dare la notizia del suicidio di un padre «disperato perché la madre non gli fa incontrare il figlio più di due giorni alla settimana») specificano «appena separato», altre scrivono «in sede di divorzio», altre ancora dicono «cui la moglie aveva chiesto la separazione», deve apparire chiaro a tutti che quei giornalisti non ci hanno informato bene sui fatti.

Infatti, se la madre aveva chiesto la separazione, ma ancora non vi era stata l'udienza presidenziale, e dunque nessuna decisione, seppur provvisoria, di un magistrato, si deve concludere che la madre, nell’abbastanza consueto delirio di onnipotenza materno, abbia deciso con intollerabile arbitrio «il figlio è mio e lo gestisco io»; impedendo così, disumanamente, a padre e figlio lo svolgersi della reciproca affettività. Se, diversamente, un giudice aveva deciso, nella prima udienza di separazione, che il provvisorio regolamento di visite dovesse essere così ristretto, forse la madre, strumentalmente o per tutelare davvero il figlio, aveva esposto tali negatività del padre, anche psichiche, da richiedere cautela nel calendario di visite. In entrambi i casi, però, il giudice avrebbe omesso di essere accurato nella protezione di una famiglia in crisi, non disponendo che almeno i servizi sociali si occupassero della gestione degli incontri. In questo esempio, il suicidio rivendicherebbe la mancanza di una giustizia minimamente dignitosa.

Se, ancora, invece, questa storia triste si inquadra in un giudizio di divorzio o di modifica delle condizioni in essere, c’è da pensare o a un diritto di visita del padre cambiato all’improvviso dal giudice per gravi fatti sopravvenuti, o a una regolamentazione che dura così da anni, cioè da prima dell’entrata in vigore (2006) della legge sull’affido condiviso. Nel primo caso dovremmo tornare all’esempio della madre tutelante o strumentalizzante. Nel secondo, dovremmo pensare a una madre sorda alle esigenze sia del padre sia del figlio e miope di fronte ai cambiamenti sociali e giuridici. Se così fosse, il suicidio sarebbe da interpretarsi come la convinzione del padre di voler attuare egli stesso ciò che la madre stava già facendo: togliere per sempre il padre a un figlio.

In tutti i casi però sarebbero i dettagli a dover fornire la giusta chiave di lettura. Senza poter dimenticare che le difficili storie giudiziarie che coinvolgono le famiglie, non possono essere trattate con pomposa burocrazia o frettolosa acriticità. Che l’espropriazione dei figli non deve essere consentita a nessun genitore a danno dell’altro. Quindi magistrati ed avvocati hanno la serissima responsabilità di non potersi occupare dei protagonisti solamente nei minuti o nelle ore che il ruolo impone di dedicare loro.

Il Cepic, Centro europeo di psicologia investigazione e criminologia, (associazione impegnata nella formazione, ricerca, sostegno e consulenza in ambito criminologico, investigativo e psicologico) ha organizzato un convegno nazionale sulla violenza di genere sul tema "Quando la vittima è lui. La violenza domestica verso l'uomo. Aspetti sociologici, criminologici e legali". Un evento innovativo nel suo genere, nel quale si sono affrontate tematiche spesso ignorate e sottaciute. Questo secondo convegno nazionale sulla violenza di genere, segue il primo, in cui è stata trattata la violenza domestica verso la donna.

«Ho scelto di organizzare un secondo convegno incentrato sull'uomo - dichiara Chiara Camerani, Psicologa, criminologa, Direttora Cepic - perché ritengo che il concetto di violenza di genere sia spesso inteso come indissolubilmente legato alla figura femminile, ma non può e non deve essere così. I cambiamenti sociali, i traguardi sul versante della parità hanno creato nuove categorie deboli e nuove forme di violenza. A fronte della violenza cieca, diretta dell'uomo, abbiamo una violenza subdola, vendicativa, tipica della donna, che spinge a distruggere non solo il coniuge, ma il suo ruolo genitoriale, la sua posizione sociale, il suo equilibrio psicologico. Pur coscienti che la donna detiene il triste primato di vittima nell'ambito della violenza coniugale, non possiamo dimenticare gli uomini che subiscono forme di violenza, diverse forse, ma altrettanto gravi. Ne sono dimostrazione i numeri allarmanti dei suicidi attuati in Italia da padri separati. Il numero si suicidi commesso da padri separati è aumentato negli ultimi anni, in particolare nel centro e nel nord d'Italia. Secondo i dati della federazione nazionale bigenitorialità, L'uomo commette più frequentemente suicidio a causa di un disagio generato dalle separazioni e dai figli contesi, più di quanto non accada alle donne; con 102 casi su un totale di 110 (93%). Alla luce di questo, riteniamo utile una rivalutazione del concetto di soggetto debole, usualmente applicato al genere femminile, in un'ottica che valuti la persona e non il genere o lo status. A tal proposito ed alla luce dei dati emersi, l'uomo risulta essere il soggetto maggiormente sconfitto, nella coppia che si separa. Il decremento di reddito, l'allontanamento dai figli, che spesso diventa affido esclusivo, arma di ricatto e soppressione della figura paterna, mina gravemente la persona spingendo a comportamenti autodistruttivi, dipendenze, atti disperati. Per questo abbiamo scelto di parlare di violenza di genere, nella convinzione che sia necessario ridefinire o quantomeno rendere maggiormente flessibile il concetto di soggetto debole. Perché se è vero che la donna è più frequentemente vittima tra le mura domestiche, in contesti di coppia normale in crisi e in fase di separazione, è l'uomo a detenere il primato di vittima. Lo stesso accade in considerazione dei diversi standard di valutazione della violenza; quando l'aggressore è uomo ci si preoccupa della vittima femminile, quando è la donna ad essere violenta se ne cercano le cause, o si attribuisce a patologia. Questo è un dato che osserviamo frequentemente, in qualità di centro che si occupa di consulenza psicologica e criminologica. Per quanto sorprendente, esistono uomini maltrattati fisicamente dalle mogli, il numero oscuro a questo riguardo è molto alto, a causa del forte imbarazzo a denunciare. Interessante anche notare che la violenza verso il partner avviene anche tra coppie lesbiche. Il pregiudizio sociale porta ad ignorare la figura maschile nel ruolo di vittima, porta ad identificare l'uomo con il cattivo, con l'aggressore. Le Conseguenze sull'uomo comportano depressione, abbuffate compulsive, dipendenze, uso di alcol, violenza, suicidio, suicidio allargato (omicidio/suicidio)».

«Giudici punitivi, sempre dalla parte delle madri. E padri disperati: troppe le storie quotidiane di sofferenza atroce». E’ agguerrito Alessandro Poniz di Martellago (Ve), coordinatore Veneto dell’associazione Papà Separati. Esprime la rabbia e la frustrazione che ogni giorno tanti genitori «vessati dall’ex coniuge» riversano su di lui. «Ci si scontra continuamente con madri 'tigri' tutelate dalla legge - accusa Poniz - . Sì, sono convinto che per la disperazione si possa arrivare a togliersi la vita. Sapete quanti padri si presentano puntuali a prendere i figli, secondo le sentenze stabilite dai tribunali, suonano il campanello e vengono mandati via dalla madre con la scusa che il bimbo è ammalato? Escamotage simili vanno avanti per anni... E quanti scontano l’odio e il rancore di figli 'plagiati' dalle madri?»

«Il sistema non è mai pronto a intervenire tempestivamente», sostiene Alessandro Sartori, presidente Veneto dell’associazione italiana avvocati per la famiglia e per i minori (Aiaf). «Ci vorrebbe una formazione specifica sia per i giudici che per i servizi sociali. A volte sono chiamati a pronunciarsi su questa materia delicatissima giudici che fino al giorno prima si occupavano di diritto condominiale...».

 

A proposito di rapimenti di Stato.

NON SOLO FIGLI CONTESI, SPESSO ANCHE I PADRI SONO VITTIME DI ORDINARIA INGIUSTIZIA.

Caso Navone: dubbi e domande lecite sul perché sia ancora detenuto. Riflessioni “a voce alta” da parte della redazione di “Lazio Opinioni” rivolte al dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” http://www.controtuttelemafie.it, e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato “ABUSOPOLI”. Libro facente parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.

Continua la Via Crucis di Navone Luigi Mauro, che dopo aver scontato l’anno scorso (in misura alternativa, come previsto da legge) 6 mesi di affidamento in prova al servizio sociale e pagato le spese pecuniarie previste per il reato commesso, dal 2 agosto, per una sentenza emessa dal Tribunale di Roma il 19 luglio scorso, si ritrova “a sorpresa” (poiché nessun preavviso è giunto al soggetto, né al suo difensore) prelevato dal suo domicilio e condotto al carcere di Mammagialla. Ricordiamo che il Navone (direttore del periodico “Lazio Opinioni”, fondatore ed ex Presidente della Università della Terza Età della Tuscia, nonché Presidente della L.I.D.H. Lazio – Ligue Interregionale Droits dell’Homme e partecipe di altre pregevoli iniziative culturali e umanitarie) per il mancato versamento degli alimenti alla ex (cosa per altro concordata, ahimè, solo verbalmente con la ex moglie a fronte della cessione di beni di valore che ben superavano il totale dovuto con gli alimenti per i mancati 3 anni al raggiungimento della maggior età del figlio) a seguito di una querela della donna, si è ritrovato con una sentenza penale (così come prevedono le nostre antiquate leggi!) che prevedeva 6 mesi di carcere ed il versamento di 300 euro di multa. Ora, in una società dove i divorzi sono all’ordine del giorno ed il versamento degli alimenti è esborso dovuto da tantissimi padri italiani, considerata l’attuale crisi che all’improvviso può lasciare a casa da lavoro chicchessia, il fatto di andare a finire in galera per un simile reato deve far preparare il governo alla costruzione di parecchie strutture detentive al fine di contenere tutti questi possibili (e già ce ne sono tantissimi) insolventi!!! Tuttavia, l’aspetto perverso (e terribile allo stesso tempo) della vicenda è che il Navone ha scontato la sua pena con “decorso positivo” (come si evince dalla relazione dei servizi sociali) tranne che per il “risarcimento del danno” alla ex: danno mai quantificato in alcuna sede di giudizio prima del suddetto 19 luglio!!!

Visto che nel nostro sistema il carcere è l’ultima spiaggia per un individuo che abbia commesso reati sul piano penale in quanto è nota la sua impossibilità di fatto (almeno così come è concepito e strutturato nel nostro paese) a rieducarlo e recuperarlo (ecco perché, d’altronde, esistono le misure alternative!!!) qualcuno sa spiegare perché si tiene rinchiuso il Navone (e non lo si manda ai domiciliari, evitando di occupare uno spazio carcerario, in una già pesante situazione di sovraffollamento) che oltre: a non essere un soggetto pericoloso per la comunità (non parliamo di reati contemplati all’art. 4 bis), ad aver già pagato per le sue colpe, ad avere una pena di 6 mesi, è in condizioni di salute seriamente e gravemente compromesse?

Ricordo che la Costituzione, all’art. 27 recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Quanto si sta “rieducando” quest’uomo che oltre a subire una palese ingiustizia, ad essere stato strappato alla sua famiglia (che sta, ovviamente, facendo il suo bel percorso rieducativo e riabilitativo con lui, soprattutto per quanto riguarda i valori e la giustizia nel nostro Stato!!!) viene messo in pericolo di vita per l’impossibilità della struttura carceraria di gestire il suo complicato quadro clinico??

Si sappia che dopo il colpo di scena del 19 settembre scorso, data in cui era fissata l’udienza a Roma per discutere del suo caso clinico e della compatibilità o meno con il regime carcerario e in cui ci fu un rinvio ad un “imminente” 31 ottobre per la mancanza nel fascicolo di Navone della relazione del Dirigente Sanitario del carcere di Viterbo, che doveva riferire sullo stato di salute del detenuto (Precisiamo che detta relazione, si scoprì poi, venne spedita il 18 ottobre all’ufficio del Magistrato di Sorveglianza di Viterbo, ma “misteriosamente” non era allegata al fascicolo…), finalmente il 3 ottobre Navone è stato ricoverato nel reparto protetto dell’ospedale Belcolle. Qui le analisi non solo hanno confermato le sue patologie (è: diabetico insulino dipendente, cardiopatico, iperteso, soffre di apnee notturne, ha calcoli ai reni…), ma, per esempio, l’alimentazione e somministrazione delle insuline giornaliere e notturne corrette, hanno riportato i valori glicemici ad uno standard “di sicurezza” non registrati nei due mesi trascorsi in carcere. La possibilità di dormire con una postura sollevata (il Navone ha chiesto ripetutamente un secondo cuscino in carcere per riuscire a respirare durante il sonno, ma gli è stato rifiutato perché non ce ne sono a sufficienza) ha diminuito gli episodi di apnea evitando sobbalzi e scompensi respiratori deleteri per un cuore già soggetto a fibrillazione atriale. Nonostante ciò il 15 ottobre, viste l’impossibilità di effettuare alcuni esami per indisponibilità dei macchinari e l’esigenza di liberare il posto letto, viene rispedito in carcere segnalato con un “codice 5”, ossia in carcere devono avere un particolare riguardo nel somministrargli le ben 19 tipologie di farmaci giornalieri prescrittigli, in precisi momenti della giornata. Peccato che tutto il personale infermieristico del carcere (ovviamente, insufficiente) non abbia solo il Navone da accudire, per cui a pochi giorni di distanza dal rientro non solo molti dei valori che erano rientrati nella norma, vanno nuovamente fuori livello di sicurezza, ma anche tutti quegli accertamenti (tipo la rilevazione dell’INR) utili per ponderare i dosaggi dei farmaci che possono, al contrario, essere più letali che vitali, non vengono eseguiti con le giuste scadenze. Ci si domanda allora quali altre evidenze occorrono perché si riconosca l’incompatibilità del Sig. Navone con il regime carcerario per gravi problemi di salute? Chi è preposto a stabilire e certificare questo prima che sia troppo tardi e, quindi, quali sono le regole e le procedure? Abbiamo chiesto delucidazioni al Prof. Francesco Ceraudo, per 37 anni direttore del centro clinico del carcere Don Bosco di Pisa, Presidente dell’Amapi (Ass.ne medici amministrazione penitenziaria italiana), docente presso l’università di Pisa, già Presidente del Consiglio Internazionale dei Medici Penitenziari (ICPMS) il quale dichiara che già solo per il fatto di essere infartuato, diabetico insulino-dipendente e con grave scompenso metabolico e con fibrillazione atriale esistono gli estremi per dichiararne l’incompatibilità con il carcere che, vuoi per la mancata assistenza, vuoi per le condizioni insane e di stress a cui la persona viene sottoposta, non può che portare ad un peggioramento letale di tali patologie. D’altronde, «affermare che il carcere sia solo una privazione della libertà è falso: la persona in carcere subisce una serie di afflizioni che magari non appaiono evidenti, ma che non sono meno reali», spiega Ceraudo, che specifica come la lunga reclusione causi traumi alla vista, alla deambulazione, oltre a una serie di traumi psicologici, e attinenti alla sfera sessuale “già in una persona che vi giunge sana, figuriamoci in chi ha un quadro patologico complesso!”. Il codice di Procedura Penale stabilisce che spetta al Dirigente Sanitario del carcere analizzare il caso e pronunciarsi in merito all’incompatibilità del soggetto col regime carcerario: questo solitamente viene accolto positivamente da un Magistrato del Tribunale di Sorveglianza responsabile e che rispetta quanto dettato nell’articolo 3 della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo” (Onu – 1948) e che recita: “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”.

E, dunque, come mai, rispetto alle molteplici evidenze sopra menzionate, per il Navone chi di dovere non si è ancora pronunciato nei giusti termini consentendone la permanenza in luoghi più idonei (i domiciliari, ad esempio) al suo stato di salute che viene sempre più compromesso? Forse non si sta andando contro a quel “senso di umanità” citato nel suddetto articolo della Costituzione? “Ai posteri l’ardua sentenza”!